ORDINAMENTO ED ORGANIZZAZIONE TRA PLURALISMO ED UNITÀ DELL’ISTITUZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Qui sotto un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange pubblicato nel 1990 dal periodico Behemoth http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01

Considerazioni sul pensiero di Hauriou, Schmitt e Romano

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il pensiero istitu­zionista di Hauriou, Romano, Schmitt. – 3. Linee di ela­borazione successiva. – 4. Il carattere fondamentale del­ l’organizzazione nel pensiero istituzionista. – 5. Conclu­sione.

 

  1. – All’influenza di Santi Romano dob­ biamo che, per i giuristi italiani non orientati verso il nor­mativismo, è quasi un luogo comune affermare che è l’ordi­namento a produrre il diritto, o meglio il diritto è tale, in quanto è ordinamento. E, per definire l’ordinamento, si è per lo più ricorsi al concetto di organizzazione (1), impie­ gato dal giurista siciliano per dare l’idea di che cosa, in primo luogo, fosse l’ordinamento giuridico. Da questa con­sapevolezza si è fatta derivare la necessità di studiare, per capire il fenomeno giuridico, le organizzazioni; e, del pari, che queste sono fonte non solo di rapporti giuridici, ma di norme, e, in genere, di diritto oggettivo.

Se però  andiamo  a vedere  cosa  s’intende per organizza­zione (lasciando momentaneamente  da parte l’ordinamen­to) si scopre una genericità definitoria, e spesso, un’assenza totale  di definizione.  Così  tale  concetto,  indicato  talvolta come  la  nuova  frontiera  del diritto  (pubblico),  assume  le sembianze  dell’araba fenice, di cui secondo un noto detto, tutti  giuravano  dell’esistenza,  ma  senza sapere, non  aven­dola vista, come fosse. Soluzione che appartiene al genere delle scorciatoie  scientifiche,  restie  alla precisione  concet­tuale, quanto prodighe nell’impiego di termini, che, indefi­niti, proprio perciò sono assai comodi. Ciascuno infatti può connotarli come vuole, e trovarsi tuttavia d’accordo, come i teologi ricordati nelle “Lettres Provinciales”  con chi, pur servendosene, ne ha un concetto opposto.

Accanto a chi si contenta di questo approccio pirandellia­no, vi sono altri che, volenterosamente, hanno voluto dare una fisionomia all’araba fenice. E così si è sostenuto che perché un gruppo umano possa avere un’organizzazione occorre: a) una distinzione di compiti – questa ritenuta essenziale -; b) per il raggiungimento di un fine : non sem­ pre ritenuto essenziale né necessario.

A ben vedere non ci si può ritenere appagati da tale con­notazione tributaria più all’analisi semantica del termine che alla sua effettiva corrispondenza alla realtà.

Invero, se la si volesse seriamente applicare nel mondo giuridico, non si potrebbe fare a meno di considerare orga­nizzazioni -e per tale via, almeno in parte e/o in nuce ordi­namenti, anche gruppi umani a carattere effimero ed occa­sionale. I turisti di un viaggio “organizzato” o i bambini che giocano ai quattro cantoni sarebbero così la morula delle grandi organizzazioni sociali (2). Identiche nei connotati essenziali – come l’individuo sviluppato rispetto all’em­brione – e diverse solo quantitativamente, perché, come l’individuo, enormemente più ricche di cellule e assai più differenziate.

In effetti al di là delle considerazioni che possono farsi su tali concezioni, appare chiaro che sono assai lontane (e non hanno colto i caratteri più pregnanti) del concetto (di ordi­namento e) di organizzazione, formulato dai giuristi – comunemente “classificati” come istituzionisti -come Santi Romano, Maurice Hauriou ed, in certa  misura,  il “secondo” Carl Schmitt (3). A questi, in effetti non sarebbe capitato di formulare un concetto così poco adattabile al fenomeno primario dell’esperienza giuridica da essi considerato, e cioè lo  Stato.

Nel loro pensiero è l’analisi dell’istituzione-Stato a costi­tuire la base per la costruzione dei concetti su ricordati, di cui rappresenta la forma-concreta-più complessa ed avan­zata. E, dello Stato, l’essenziale è costituito dalla stabilità e dall’effettività; pertanto tutti, in misura maggiore o minore, sottolineano tali caratteri, che un gruppo umano deve avere per costituire un ordinamento. Stabilità i cui connotati sono variamente individuati: da quello puramente temporale (la durata) alla certezza dei rapporti, al progetto politico (all”‘idea” e forse anche alla “formula politica” di Gaetano Mosca) e soprattutto al concreto rapporto di comando – obbedienza che deve sussistere in ogni organizzazione sociale che non sia effimera od occasionale. Su quest’ultimo aspetto (che ha carattere determinante rispetto agli altri, perché è il sussistere di rapporti di comando ed obbedienza che conferisce durata, certezza e concretezza all’istituzio­ne) è d’uopo soffermarsi.

 

  1. Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, – In effetti nel pensiero degli autori citati, tranne che per Schmitt, l’essenzialità del rapporto comando-obbe­ dienza per l’esistenza di un’organizzazione sociale non è stata posta in rilievo maggiore di altri caratteri; ciò spiega in parte perché sia stata successivamente quasi totalmente dimenticata a beneficio d’interpretazioni riduttive del pen­ siero dei due giuristi, ma, soprattutto, della teoria istituzio­nista. Hauriou, com’è noto, pone in rilievo, nel costruire il proprio concetto d’istituzione, quelli di “potere” “ordine” e “libertà”. Non è inesatto affermare che dei tre concetti è stato il secondo ad aver più successo. Primo e terzo sono stati assai meno considerati. Ma non è inutile notare come è il”potere” a costituire la base del pensiero di Hauriou, nel quale tutti e tre confluiscono e caratterizzano il concetto di istituzione.

È questa a ricondurre ad unità la dialettica fra questi ele­menti. Ma non può dimenticarsi che nel concetto di potere il giurista francese concentrava gli aspetti volontaristici e soggettivistici della propria concezione del diritto; secondo Hauriou  “Il potere  è una  libera  energia  della  volontà che assume  il  compito  del  governo  di  un  gruppo   umano mediante la creazione dell’ordine e del diritto” (4). Essen­ziale a questo compito creativo è il comando, per cui, qual­ che pagina dopo, nel delineare i caratteri dell’organizza­zione sociale, specifica: “Il y a d’abord une erreur à éviter (dans laquelle, bien entendu, des quantités de gens se sont précipités): c’est l’explication  de l’organisation  sociale par la divisione du travail ou par la différenciation des fonctions entendue au sens économique de la loi du moindre effort. Il y a une trentaine d’années, on a cru à cette explication par les organismes vivants; je pense qu’on en est revenu. En tout cas, en matiére d’organisation sociale, la differéncia­ tion des organes et des fonctions, au sense économique, est un phénomène tardif, et non point primaire. Les phénomèns primaires sont d’ordre politique,  c’est l’apparition d’un centre directeur ou fondateur, celle d’organes de gouverne­ment, celle d’equilibres gouvernamentaux et, enfin, des consentements” (5); onde conclude che “l’apparizione del Centro fondatore e degli organi di governo costituisce, se si vuole, una differenziazione tra governcmti e governati, ma questa è di natura politica e non ha alcun rapporto con la divisione del lavoro” (6). L’organizzazione sociale lungi dallo spiegarsi con il meccanico svolgersi di leggi naturali, sorge da una “libera energia della volontà”, questa energia crea “l’ordine ed il diritto”; l’ordinamento (e l’organizza­zione) nasce con la differenziazione tra governanti e gover­nati, distinzione  che non ha nulla  d’economico.

Per Santi Romano, “ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata si trasforma perciò stesso in diritto… Viceversa non è diritto… soltanto ciò che non ha organizzazione sociale” (7). E che cos’è un’organizza­zione sociale? Santi Romano aveva una giusta diffidenza verso il concetto: ma quando giunge a dare una rappresen­tazione delle istituzioni (in rapporto al concetto d’organiz­zazione), scrive che: “…Tali enti vengono a stabilire quella sintesi, quel sincretismo in cui l’individuo rimane chiuso; è regolata non soltanto la sua attività, ma la sua stessa posizio­ne, ora sopraordinata ora subordinata a quella di altri, cose ed energie sono adibite a fini permanenti e generali, e ciò con un insieme di garanzie, di poteri, di assoggettamenti, di libertà, di freni, che riduce a sistema e unifica una serie di elementi in sé e per sé distinti. Ciò significa che l’istituzione, nel senso da noi profilato, è la prima, originaria ed essen­ziale manifestazione del diritto. Questo non può estrinse­carsi se non in un’istituzione, e l’istituzione intanto esiste e può dirsi tale in quanto è creata e mantenuta in vita dal dirit­to” (8).

Anche nel trattare della giuridicità degli ordinamenti considerati “antigiuridici” sostiene che è “un’ordinamento giuridico…; in quanto irreggimenta e disciplina i propri ele­ menti” (9). È significativo che Romano dia quasi per nulla peso alla differenziazione delle funzioni, e ne attribuisca tanto ai concetti di “unità” e “chiusura” per definire l’istitu­ zione: ma, in relazione a ciò, giova sottolineare che è diffici­le, se non impossibile, concepire un ordinamento “unito”, se non attraverso il potere di comando di un individuo (o di un organo) su altri individui (od organi) e il correlativo crearsi di posizioni  (status) di sovra e sottoordinazione.

C’è poi un passo dell’ Ordinamento giuridico in cui ilgiu­ rista chiarisce in modo decisivo tale carattere essenziale del­l’ordinamento: ed è quando ricorda “che è possibile conce­pire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore,  ma  solo a quella  del giudice … Se così  è,  il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti” (10). Anche in questo passo Santi Romano indivi­dua nel potere (di comando) la condizione necessaria per­ché sussista un ordinamento (e con ciò l’organizzazione del gruppo sociale). D’altra parte in ciò è coerente col pensiero espresso in altri saggi. In uno dei più interessanti, !”‘Instau­razione di fatto di un ordinamento giuridico” , il rapporto forza-diritto-legittimità è analizzato in modo che risulte­rebbe incomprensibile, a non tener presente il concetto di istituzione, proficuamente caratterizzato dal rapporto comando-obbedienza. Analogamente nel descrivere l’or­ganizzazione unitaria  di un movimento rivoluzionario (che è un ordinamento giuridico, “sia pure imperfetto, fluttuan­te, provvisorio”), Romano ricorda “ci saranno dirigenti … norme di vario genere che regolano le attività rivoluziona­rie, persone ed enti che obbediscono a tali norme, sanzio­ni…” (11).

Sembra superfluo sottolineare che il concetto d’ordina­mento giuridico da Schmitt tratteggiato negli anni ’30 pre­suppone, anzi è costruito, intorno al rapporto comando­ obbedienza. Non solo Schmitt parla ripetutamente, nel riferirsi all’ordinamento concreto ed all’istituzione, di gerarchia e di disciplina, proprio negli scritti in cui sarebbe avvenuta la svolta del grande giurista verso l’istituzionismo; ma anche negli scritti precedenti, specialmente nella Politi­ sche Theologie I e nella Verfassungslehre è manifesto che l’esistenza di un’ordinamento (anche se Schmitt si riferisce quasi sempre ad un ordinamento politico) è determinato dal fatto che alcuni uomini hanno il (diritto di) comando su altri uomini.

Una comunità e un ordinamento sono tali in quanto sussi­ stono rapporti di sovra e sotto ordinazione tra le persone che vi partecipano (12). La stessa polemica che Schmitt svolge contro il concetto di ordinamento – come inteso dai giuristi normativisti – (13) rivela, accanto alla contrapposi­zione principale (tra diritto come ordinamento e diritto come norma) una, secondaria ma rivelatrice, tra conce­zione d’ordine” elaborato sui concreti rapporti tra compo­nenti l’istituzione e quella fondata su regole meramente tec­niche o comunque applicabili solo in una società dove vigono norme basate sullo “scambio” (cioè in definitiva, costituita  di rapporti tendenzialmente  e prevalentemente economici). Il carattere di categoria generale ,che ha un ordine del primo tipo e quello -limitato, se non  eccezionale

– del secondo non hanno bisogno di essere sottolineati.

Schmitt non sottovaluta gli elementi dell’istituzione non totalmente riducibili al rapporto comando-obbedienza: nel suo pensiero la legittimità è (in parte) il corrispondente dell’idea di Hauriou. Tuttavia l’ispirazione continua che trae dai pensatori controrivoluzionari, (il cui pensiero giuridico

– in termini necessariamente generici – potrebbe definirsi un misto di istituzionismo e decisionismo) gli evita di cadere nel soggettivismo esasperato, che è la principale strada che si apre ad un decisionista conseguente. La polemica anti­ romantica, contro un “Io” politico svincolato da ogni riferi­mento alla concreta situazione storica e politica; il suo stesso definirsi, negli anni ’30 “organo del pensiero giuri­ dico del popolo tedesco”, ancorava il suo decisionismo all”‘ubi consistam” della situazione storica, determinata da tutte le “costanti” di cui l’uomo di governo (e lo scienziato politico) deve tener conto.

Resta il fatto, di per sé incontrovertibile, che tutti e tre i grandi giuristi delineavano il concetto di organizzazione in termini che hanno poco a che vedere con la divisione dei compiti tra più soggetti: questa appare loro secondaria, e, tutto sommato, derivata da quell’altra, essenziale, divi­ sione dei compiti, che vuole il gruppo sociale costituito quando qualcuno comanda e gli altri obbediscono. Del pari la stessa attività “regolativa” o di normazione, appare secondaria e derivata rispetto all’essenzialità di quel rap­porto, come giustamente rilevava Santi Romano, coll’e­sempio – dinnanzi ricordato – di una comunità il cui tessuto connettivo era costituito dalle decisioni dei giudici (14).

  1. Linee di  elaborazione    – Nella  successiva elaborazione  del  concetto  anche  da  parte  dei  giuristi  più vicini  all’ipotesi  istituzionista,  questa  costante  dell’idea  di ordinamento   (ed  organizzazione)  è  andata  – in  parte  – smarrita. C’è, quindi, chi ha identificato gli elementi neces­ sari  dell'”ordinamento  giuridico”,  nella  plurisoggettività, nella  normazione,  e  nell’organizzazione.  E  quest’ultima, come accennato sopra, è caratterizzata  esclusivamente  dalla divisione  dei  compiti,  con  relativa  istituzione  di  “uffici”. Talaltro  ha  voluto  ricavare  il  concetto  d’organizzazione basandosi  su  quello  di  “potere”  (giuridico),  ritenuto  un prius  rispetto  a quello di diritto, e in grado di spiegare, in tali termini,  i rapporti tra organi della stessa organizzazio­ne,  che  è  poi  uno  dei  punti  dolenti  delle  tematiche  degli ordinamenti.  Con  ciò indubbiamente  ci  si avvicina  di più alle concezioni dei tre giuristi ricordati, non foss’altro per­ché, nell’analisi semantica del termine “potere” è implicito, in una certa misura, minima se si vuole, il concetto di domi­nio,  di  signoria  e  quindi  di comando.  Ma  le potenzialità positive di tale concezione non sono state spesso conseguentemente sviluppate e portate alle logiche conclusioni.

Il potere diventa così, più che altro, il contenuto (e il limi­te) della competenza dell’organo, anfibiologicamente (e, talvolta, ambiguamente) definibile sia in termini di divi­sione dei compiti (o del lavoro) sia in relazione ai rapporti di sovra e sottoordinazione. In questo si può notare la dimenticanza di un dato giuridico essenziale, costante preoccupazione dei teorici dell’istituzione, espressa in par­ticolare da Schmitt e da Romano: quello dell’unità dell’or­dinamento. A tale proposito è appena il caso di rilevare, prescindendo, al momento, da considerazioni di teoria generale e di sociologia del diritto, che qualsiasi organizza­zione sociale può agire per il diritto, in quanto “unità”. Il diritto positivo non prende in considerazione, come sog­getti di diritto, se non persone, fisiche o giuridiche che  siano. Perché un gruppo possa essere centro d’imputazione   di rapporti, occorre che i componenti raggiungano un’unità (di volizione e/o di azione). È solo questa che consente al gruppo d’agire e di avere rilievo giuridico.

A ·trasporre questo dato in termini di teoria  generale (cioè in quelli in cui lo formulavano Schmitt, Hauriou e Romano) ciò significa che un gruppo sociale può avere con­sistenza d’ordinamento, quando (attraverso la sua organiz­zazione) opera la reductio ad unitatem delle volontà dei membri; al minimo, attraverso un differente potenziale di potere tra i componenti, che assicuri in ogni caso una deci­sione valevole per tutti. Se questa unità non c’è, non c’è neppure  ordinamento,  né organizzazione.  Di guisa che   il problema di quale ne sia l’elemento essenziale e basilare consiste nell’identificare quello che consente di unificare le varie componenti, e renderle così capaci di agire unitaria­mente. Questo è, indubbiamente, l’organizzazione “gerar­chica” (intendendo tale termine in senso ampio) del gruppo (15), per cui ogni organizzazione ha un centro di riferi­mento dominante e decisivo rispetto agli altri. È significa­tivo del disinteresse verso tale approccio, che sia stato poco considerato come il diritto positivo, laddove, in un’ente, non si riesca a raggiungere questa unità (e conseguente­mente capacità d’agire), provveda con meccanismi “di sup­plenza”, tipici gli organi straordinari commissari o i provve­dimenti “sostitutivi”, nominati o deliberati da uffici ed organi di Enti sovraordinati. La scarna riflessione su questi istituti è in puntuale corrispondenza con la sottovaluta­zione dell’elemento “autoritario” e del carattere unitario dell’istituzione,  che da quello è assicurato.

D’altra parte, l’acuta sensibilità di Schmitt e Romano ai problemi del diritto “statu nascenti” ed alla concretezza sto­rico-politica faceva dell’idea di unità il dato (e l’esigenza) necessaria e centrale. Lo studio, acuto anche se non appro­fondito, dell’organizzazione rivoluzionaria che fa il giurista siciliano, lo rende palese. Tutti, d’altra parte, possono immaginare che fine avrebbe fatto la Rivoluzione d’otto­bre, se, dopo la votazione del comitato centrale nella notte del 23 ottobre 1917, maggioranza e minoranza bolscevica fossero andate ciascuna per la propria strada, e, ancor di più se i militanti non avessero eseguito (o eseguito solo in parte) le decisioni del Comitato  centrale.

L’idea di unità è d’altronde implicita nel concetto di “pouvoir” che tanta importanza ha nel pensiero di Hauriou. È importante notare come allo stesso appariva del tutto naturale che nell’idea di “pouvoir de droit” confluiscano i due aspetti della competenza (intesa in senso lato) e del dominio (che per Hauriou, dato il carattere burocratico del­l’istituzione-Stato consiste soprattutto nel potere di con­trollo).

Dato che, come abbiamo visto, il concetto d’organizza­zione accolto da alcuni giuristi successivi non è, se non in modesta misura, riferibile al pensiero di Romano, Schmitt ed Hauriou occorre ricavare quali referenti  culturali abbia la concezione criticata.

È condivisibile che una teoria istituzionista del diritto, è, come sostiene Schmitt con espressione sintetica, una teoria caratterizzata dal carattere di sovrapersonalità, cui si contrappongono la personalità del decisionismo e l’impersona­lità dell’impostazione normativistica (16). Tale scriminan­te, in sé riferibile più che al pensiero concretamente espresso, a tipi ideali, è un punto di partenza per comprendere i presupposti di una teoria istituzionale “debole”.

È indubbio che dopo il soggettivismo ed il razionalismo della seconda metà del XVIII secolo, fondamenti ideali della rivoluzione borghese, col XIX si apriva un periodo di prevalenza degli aspetti oggettivistici, considerati le “deter­minanti” del diritto. Non era solo la Scuola storica del dirit­to, né la filosofia hegeliana o i suoi epigoni (tra cui Marx): era la maior pars del pensiero politico-giuridico a reagire al soggettivismo razionalistico della Rivoluzione Francese. In linea generale ciò appare evidente: è più interessante però notarne  le conseguenze  sulla teoria  generale del diritto.

A tale proposito, la prevalenza, nella seconda metà del XIX secolo, del positivismo giuridico, ha costituito un freno al formarsi di concezioni giuridiche che tenessero in gran conto gli aspetti sociologico-fattuali non solo come condi­ zionanti (in modo decisivo) il diritto, ma come costitutivi dello stesso,  attraverso concetti come !'”istituzione” o simili ( ciò con l’eccezione, notata abitualmente, di Otto  Gierke).

In questo senso, il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 ha impedito che le concezioni maturate in altri ambiti scientifici potessero avere compiuta rispon­denza in quello giuridico. Questo è vero in particolare per la teoria dell’istituzione. È certo, a tale riguardo, che tra il pensiero istituzionista e le (prevalenti) concezioni politico­ istituzionali del periodo della Restaurazione c’è un nesso evidente; del pari molti giuristi hanno sottolineato il carat­tere “sociologico” della concezione istituzionista, creando un nesso (che c’è, ma probabilmente più tenue di quanto si creda) tra sociologia e teoria istituzionale.

Senonché la sociologia, come qualunque scienza natura­le, va alla ricerca delle determinanti e delle costanti dell’a­gire sociale; una spiegazione del diritto in termini puramente (meglio sarebbe dire piattamente) sociologici porta a sottovalutare e ad espungere dal mondo giuridico l’azione della libera volontà umana (Hauriou) e l’orgoglio della decisione fondamentale (Schmitt). E, quel che è più gra­ vido di conseguenze negative, la sociologia studia il diritto come fatto, mentre la scienza del diritto ha – ovviamente – una visione più ampia, comprensiva e diversa del fenomeno giuridico.

Ad applicare (con una certa ingenuità) il metodo delle ricerche sociologiche, è chiaro che costituiscono fatti l’esi­stenza di un gruppo sociale, la normazione che questi si da e l’organizzazione in cui si articola. Mentre sono spiegazioni di tali fatti, che l’organizzazione sia tale anche perché c’è una distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra ciò che è comune e ciò che è individuale, o per la funzione che ha l’i­stituzione.

La spiegazione di un fatto però si presta, agli occhi di metodologi incantati dalla “oggettività” e dalla “misurabili­tà” del dato empirico, ad essere tacciata di non scientificità, se non di pregiudiziali ideologiche. A poco vale che, in uno specifico campo d’indagine, il dato empirico spieghi assai meno di una valutazione e definizione degli elementi in gio-

 

co, o meglio che quello sia solo (e in parte) la base su cui lavorare per  arrivare  a conclusioni  di reale interesse.

Quando poi l’empirismo sociologico si coniuga con il determinismo economico, la distorsione del dato reale è assicurata.  Da un  simile mélange , tutti i concetti  giuridici

vengono piegati ai presupposti elementari di un sistema di pensiero  economico.  La distinzione  dei  compiti nell’appa­rato di “governo” del gruppo diventa così una sottospecie della divisione del lavoro: come questa è determinata dalla razionalità funzionalistica di una migliore  utilizzazione delle attitudini di ciascuno, ai fini di una maggiore produtti­vità sociale; la stessa distinzione tra chi comanda e chi obbe­disce (che è la base, sia pure funzionale, dell’ineguaglianza tra governanti e governati) diventa irrilevante, ma più ancora incompatibile, con un sistema di pensiero dominato dai postulati dell’eguaglianza tra homines  aeconomici  e della loro libertà di scegliere, acquistare e vendere, a pari condizioni,  dei beni.

Al termine di questa strada, non si riesce più a compren­dere in cosa una società cooperativa differisca dallo Stato, o, all’altro estremo sociologico, da un gruppo sociale occa­sionale. Che proprio teorici come Schmitt ed Hauriou aves­ sero messo in guardia contro queste interpretazioni econo­micistiche del diritto e del concetto d’istituzione è cosa che potrebbe, al limite, interessare poco, se non si volesse poi, attribuire alla teoria istituzionale implicazioni espressa­mente rifiutate dai “soci fondatori”. Come del pari, è evi­ dente che, come sopra cennato, lungi dal ricondursi ad una qualche forma di determinismo sociale, il pensiero di Hau­riou appare ispirato al bergsoniano èlan vita!, all’istituzione come impresa della volontà umana libera e creatrice; e quello di Schmitt alla decisione sovrana, condizionata sì dalla situazione storica, ma, quanto meno nel caso d’ecce­zione, libera nei mezzi e, in certa misura, negli stessi   fini.

Sotto un diverso aspetto, la teoria dell’istituzione è stata percepita (e recepita) come reazione avverso la “statalità” del diritto e come negazione del “monopolio” statale alla sua produzione, cui contrappone la pluralità degli ordina- menti giuridici.

Le valenze pluralistiche della teoria sono state tra le meglio accette, specie quando si coniugavano con precise (ancorché differenti) posizioni ideologiche. È stato quindi una conseguenza logica che dalla constatazione della plura­lità degli ordinamenti si passasse al pluralismo, dal relativi­smo vitalistico e realistico all’ideologia del neo-corporativi­smo, se non  del neo-feudalesimo  (17).  Questa è stata grandemente facilitata dall’immissione di robuste dosi di nor­mativismo nella teoria dell’istituzione: il pluralismo così inteso consente infatti di coniugare il diritto “originario” all’esistenza ed all’autonomia dei più svariati gruppi (ed istituzioni) con le garanzie che solo uno Stato legislativo parlamentare, con le sue norme “misurabili”, promulgate con leggi (costituzionali ed ordinarie) non facilmente modi­ficabili, può  offrire congruamente.

Applicando ai tipi di pensiero  giuridico  le correlazioni che Schmitt stabilisce tra “tipi” di Stato (giurisdizionale, legislativo-parlamentare, governativo-amministrativo) e scelte politiche (conservatorismo, evoluzionismo progressi­sta, radicalismo di destra o di sinistra), si può affermare che un tipo istituzionale “puro”, si coniuga col  conservatori­smo; quello normativista col progressismo moderato ed evoluzionista; il decisionismo col radicalismo. Con tutte le approssimazioni e i distinguo che il tema ed il carattere di queste classificazioni impone, il massimo della chiarezza nei risvolti politici di tali concezioni può però ancor meglio ritrovarsi nelle forme “miste” che nei tipi “puri” di pensie­ro. Sotto tale profilo, nella realtà storica la miscela più con­ servatrice è indubbiamente quella tra istituzionismo e nor­mativismo. (nel senso precisato). In effetti una teoria istitu­zionale “pura” è una  teoria  del  “movimento”  (evolutivo) del diritto prodotto dalle varie articolazioni dell’istituzione (Hauriou); mentre una regolamentazione legislativa rigida dell’attività sociale tende ad imbalsamarla in forme e rap­ porti la cui evoluzione viene resa più  difficile.

A ben vedere questa particolare “garanzia” della stabili­tà, tipica della vulgata pluralista, non la si trova nel concetto d’istituzione (o di ordinamento) di nessuno dei tre grandi giuristi: il paragone della scacchiera di Santi Romano, con l’organizzazione come prius e “ragione sufficiente” rispetto alla produzione normativa, con la stessa coesione dell’ordinamento  ritenuta  indipendente  dalle  “norme”,  ma assicu­rata dal comando, rende bene il senso del concetto, in cui è il reale che precede e prevale, in ogni caso, sul normativo.

Come lo rende la contrapposizione di Schmitt tra la neces­saria indeterminatezza di certi concetti, peculiari di un ordi­namento concreto, perciò stesso applicabili solo in un determinato contesto di rapporti sociali, ed il concetto di “norma” della dottrina normativista (18).

Ciò perché, a differenza di alcune impostazioni “plurali­stiche”, la teoria dell’istituzione non prescinde mai dai rap­porti di sovra e sotto-ordinazione, né dalla concreta situa­zione che in quelli trova una costante. La pluralità di ordi­namenti e la loro compresenza nella realtà sociale non ne significa l’eguaglianza, né tanto meno il diritto all’esistenza. Un pluralismo, gravido di implicazioni giusnaturalistiche, concepisce invece l’esistenza di una pluralità di ordinamenti come diritto all’esistenza medesima. Sostituendo così l’indi­ viduo ed i diritti dell’uomo, punto di partenza del liberali­ smo politico, con i gruppi ed i loro diritti “naturali” o “stori­ci”, senza che con ciò, mutino presupposti e risultati; né si attingano le valenze realistiche della teoria dell’istituzione.

Partendo da un simile pluralismo non si riesce a compren­dere neppure il reale significato di quello che è il punto d’Archimede della teoria istituzionale: e cioè l’esistenza di ordinamenti illeciti accanto (e/o all”‘interno” di) quelli leci­ti. L’apparente antinomia si risolve, per Santi Romano, nel­l’effettività (e quindi nella “validità”) di entrambi, assicu­rata dal rapporto comando-obbedienza all’interno di cia­scuno di essi; per un pluralista coerente il problema è – a ben vedere -irrisolvibile: o la liceità reciproca è frutto di un impossibile  “riconoscimento”,  o l’asserita illiceità dell’uno

è frutto di un errore evidente se non di un inammissibile sopruso.

La caratteristica saliente, e il risultato, cui porta la conce­ zione criticata è la spoliticizzazione di ogni istituzione e di ogni teoria del diritto pubblico che si basi – anche se non totalmente – su categorie “politiche”. Organizzazione senza gerarchia e parità tra ordinamenti significa null’altro che la realizzazione del sogno sansimoniano di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose (19).

Un’organizzazione caratterizzata dalla mera ripartizione di competenza e lavoro tra più uffici, a cui è estraneo ogni rapporto di subordinazione, non ha, invero, altro senso. Politica è invece, in primo luogo, comando e subordinazio­ ne: anche se tale requisito non basta a qualificare il “politi­co”, è indubbio che la sua eliminazione dal mondo signifi­cherebbe rendere impossibile l’attività politica, che, per definizione, è attività di gruppi umani fortemente  coesi.

Del pari la rivendicazione della “parità” tra ordinamenti (o del diritto all’esistenza) si muove sullo stesso percorso. Parità tra ordinamenti vuol dire parità ed eguaglianza tra uomini che ne fanno parte, e, più ancora, tra coloro che li guidano. Il “diritto” all’esistenza di più ordinamenti, del pari, significa negazione dell’assolutezza della volontà che ne tiene unito almeno uno. Infatti ad una volontà che si assume assoluta non può contrapporsi alcun ostacolo giuri­dico. Entrambe le affermazioni sono quindi contrarie all’es­senza del politico, che postula la subordinazione  dell’uomo all’uomo e un comando privo di limiti, perché sussista una comunità politica (20). In questo contesto l’interpretazione pluralista della teoria dell’istituzione è l’esito, compiuto e coerente, della tendenza alla spoliticizzazione, tipica di un certo pensiero moderno.

  

  1. Il carattere fondamentale dell’organizzazione nel pen­siero – È stato asserito che la teoria istituzio­nale (specie nella formulazione di Hauriou) peccherebbe di “sociologismo”. L’errore (o meglio l’insufficienza) sarebbe quella di costruire il diritto sul “gruppo sociale”, mentre, perché un gruppo sociale sia coeso, occorre che i rapporti si organizzino nel (e con il) diritto. Questo sarebbe così l’ele­mento determinante nel dare consistenza giuridica al grup­po. Il fatto che questo esista viene così svalutato essendo, nella ipotesi più favorevole, una condizione, necessaria ma non sufficiente, perché si possa parlare di diritto.

In effetti la concezione criticata prende le mosse dalla necessità   di  differenziare,   nei  gruppi  sociali,  quelli  che costituiscono istituzioni da quelli occasionali, ed effimeri: e sarebbe il diritto a distinguere gli uni dagli altri. Inoltre è stato sostenuto, specie per Hauriou, che la sua imposta­zione non tiene conto della possibile genesi “contrattuale” delle istituzioni, che farebbe così venir men il presupposto “autoritario” della volontà del fondatore. Tale critica non pare cogliere nel segno: è infatti viziata, in primo luogo, dalla mancata individuazione dell’elemento essenziale del­l’istituzione, che imprime giuridicità (ed assieme lo rende tale) al gruppo sociale: la presenza dei rapporti di sovra e sotto ordinazione. Infatti, anche se da taluno è stato notato l’elemento “autoritario” che segna l’istituzione, è chiaro che tale critica presuppone di non tener conto (o non tenere nel dovuto rilievo), il rapporto comando-obbedienza. Invero ciò che differenzia un gruppo occasionale da un'”istituzione” non è il carattere giuridico (che è poste­rius), ma, come già scritto, tale rapporto, che ne assicura l’unità e la stabilità, e con ciò la giuridicità. Non è in altri termini il diritto ad autocrearsi, ma è sempre un elemento pre-giuridico a generare i rapporti giuridici.

Inoltre non è stato notato come sostenere che vi è un ordinamento “giuridico” quando è organizzato dal (o mediante  il) diritto vuol  dire esprimersi  per   tautologie,

come il malato immaginario di Molière durante l’esame di dottorato (21). Resta così da tale impostazione inspiegato il principale carattere innovativo della teoria dell’istituzione; quello di ridurre a questa il diritto, stabilendone l’identità. In realtà come scrive Schmitt, ciò che differenzia un giurista “istituzionista” da un “decisionista” o da un “normativi­sta”, non è il negare che il diritto consista, oltre che di istitu­zioni, di norme e decisioni (e viceversa, per gli altri “tipi” di pensiero giuridico), ma a quale di questi tre concetti, possa ridursi, in ultima analisi, il diritto. Affermare che un ordi­namento è giuridico in quanto “organizzato” dal diritto, significa sottrarre dalla connotazione del concetto il ter­mine diritto, dando per scontato che debba aggiungersi dal­ l’esterno, e, nel contempo, negando l’identità tra diritto ed istituzione, su cui si regge la teoria istituzionista (22).

D’altra parte l’elemento normativo (inteso nel senso di comando, e non di regola) è per il diritto necessario ed inso­stituibile: è strano che questo, ritenuto generalmente essen­ziale per il “giuridico”, sia stato trascurato nello studio della teoria istituzionale.  Specie se si tien conto che l’accentuato che la definizione dell’istituzione formulata da Hauriou non ne esclude affatto la fondazione “pattizia” (23), v’è da dire che gli istituzionisti pensavano principalmente alle istitu­ zioni – comunità (e non alle istituzioni – società) (24), non solo perché quella più complessa ed interessante per il giuri­sta, ovvero lo Stato, è un’istituzione – comunità (25); ma perché queste non consentono di spiegare il diritto in base a termini giuridici, spiegazione che può essere avanzata per le altre. Sono, in parole diverse, gli ordinamenti comunitari a costituire il caso-limite (il quale, proprio per questo, è più interessante in sede scientifica), che permette d’individua­re, nella purezza concettuale, gli elementi essenziali del diritto. La comunità prescinde dal consenso individuale, dal patto tra volontà libere ed eguali: l’elemento sociale e il carattere necessario (se non  “naturale”)  dell’ordinamento ne vengono così esaltati; la comunità è, per definizione, intessuta di rapporti di sovra e sotto-ordinazione, sin dal momento “costitutivo” (quasi sempre non individuabile); non è fondata sullo “scambio”. L’istituzione-società può prescindere  da gran parte  di questi  elementi:  solo da uno (forse da due) non può sfuggire: dalla presenza, una volta costituita, di una (o più) volontà “prevalenti”, decisive per l’agire comune. Così lo stesso carattere “pattizio” della costituzione di un associazione non toglie che, perché que­ sta possa esistere, vi debba essere un centro direttivo, che esercita dei poteri sociali, quanto meno quelli che consen­tono all’istituzione  di agire unitariamente  (26).

 

  1. – Secondo la nota tesi, esposta da Schmitt nella Politische Theologie e in Politische Romantik, De Bonald, de Maistre e Donoso Cortès sono pensatori emblematici del decisionismo politico. In effetti Schmitt ne espone il pensiero contrapponendolo sia al liberalismo della restaurazione che al romanticismo politico. Di fronte a posizioni ispirate al soggettivismo, al razionalismo, all’occasionalismo e alla sostanziale negazione della sovranità, il pensiero dei controrivoluzionari, dominato dall’oggettività della concreta situazione storica e dalla costante afferma­zione dell’insostituibilità di decisione e sovranità, ha il pre­gio della chiarezza e della coerenza, che solo una radicale opposizione, intessuta (e derivata) di esperienze di vita oltre che di convinzioni e di cognizioni teoriche può dare. Ciò non toglie che il giurista tedesco sia troppo avvertito per sottovalutare i tratti del pensiero dei controrivoluzionari riconducibili al “tipo ideale” del pensiero istituzionista: solo che non li sviluppa, probabilmente perché non interes­santi i temi affrontati nella Politische Theologie (alcuni cen­ ni, anche se non riçollegati alla teoria istituzionale, vi sono invece in “Politische Romantik” ). Nella realtà la concezione dei controrivoluzionari può essere ricondotta ad un mélange di istituzionismo e decisio­nismo, o meglio dei “tipi ideali” dell’uno e dell’altro. Del primo i controrivoluzionari hanno il senso del condiziona­mento storico-sociale delle istituzioni, l’infuenza su queste del sentire comune; un certo (limitato) determinismo stori­co; e la coscienza che ciò che è esistente, duraturo e proprio perciò vitale è, di per sé, produttivo di diritto. Del secondo la consapevolezza che comunque la comunità è tale (e può esistere) in quanto vi è un autorità assoluta, capace di pren­dere decisioni inappellabili; e che il potere consiste nel deci­dere per (e al di sopra degli altri). La formula paolina “om­ nis auctoritas a Dea”, (che si converte in quella maistriana che ogni potere è buono quando è costituito), non è inter­pretata dai controrivoluzionari nel senso, fatalista e deter­minista, dell”‘impersonalità” del potere, determinato da scelte imperscrutabili della Provvidenza (e/o della Storia), ma, in quello della necessità dell’autorità (cioè nel senso della “costante” storico·-politica di un potere sovrano), e nel contempo della personalità della stessa, libera nel prendere le decisioni fondamentali (27).È capitato così che i controrivoluzionari sono stati i primi ed energici assertori, in epoca contemporanea, di quelle tesi ricordate, fondamentali nel pensiero istituzionista. La consapevolezza di ciò non è stata, in genere avvertita; e, conseguentemente si è studiato poco o punto il rapporto tra questi e quelli.Ma, indubbiamente, il limite più grave che ne è derivato, è non aver compreso appieno il pensiero dei teorici dell’isti­tuzione, non avendo tenuto conto, nella giusta misura, del carattere decisivo che gli stessi attribuivano ai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, ed all’importanza dell’organiz­zazione “gerarchica” dell’istituzione. Ne è conseguita l’ac­centuazione del carattere sovra-personale (e, a tratti, impersonale) del pensiero istituzionale. Del determinismo sociale rispetto all’azione e alla volontà umana. Dell’istitu­zione come “cosa” (se non “macchina”), rispetto all’istitu­zione come insieme organizzato di rapporti tra uomini. Da ciò a passare ad una concezione tendenzialmente sansimo­niana ed “oggettivistica” dell’istituzione il passo è stato bre­ve
    1. Nella realtà, questo può compiersi solo a costo di fer­marsi all’aspetto superficiale ed esteriore dell’istituzione, dimenticandone la funzione e, soprattutto, omettendo di approfondire i risvolti più interessanti.

    Nel pensiero dei tre grandi giuristi, come dei loro precur­sori contro-rivoluzionari, l’istituzione è strettamente legata alla decisione ed alla struttura “gerarchica”; l’oggettività dell’organizzazione non prescinde, anzi è fondata sulla sog­gettività del comando. Elementi oggettivi e soggettivi stanno in equilibrio. Anche perciò può parlarsi di una con­cezione che è un misto dei tipi ideali dell’istituzionismo e del decisionismo. L’impostazione vitalistica e l’approccio reali­stico con cui si accostano ai problemi del diritto li colloca, anche se in misura diversa, vicini ai più noti scienziati  politici italiani del primo novecento, loro contemporanei, in cui la sensibilità sociologica si coniugava col realismo con cui indagavano  sui rapporti politici.

    La teoria della classe politica e delle élites, la legge ferrea delle oligarchie, la funzione ordinatrice dei principi di legit­timità, sono acquisizioni che appaiono – in larga parte – comuni ai “machiavellici” ed ai giuristi ricordati (28). La relazione tra il pensiero degli uni e quello degli altri, come

    • per i controrivoluzionari, è ancora poco approfondita, pro­babilmente in omaggio a specializzazioni scientifiche che sovente riescono, così, ad occultare le relazioni più interes­santi ed a precludersi una comprensione esauriente. Ma è sicuramente vero, come scrive Schmitt, che chi disturba questa divisione del lavoro nell’ingranaggio scientifico, diventa un guastafeste. E il guastafeste è, com’è noto, “sempre l’aggressore”.

    Teodoro Klitsche de la Grange

( 1) Il concetto (o meglio il termine) di organizzazione è stato impiegato per  connotare  sia  il  concetto di ordinamento  che come  “nuova  frontiera” della dottrina del diritto pubblico. In ambo  i  casi  la  letteratura  non manca, per  cui  ci  limitiamo  a citare  i  contributi  più  caratterizzanti,  rimandando per il resto alla dottrina citata da F. MODUGNO voce “Ordinamento giuridico­ dottrina” in Enciclopedia del diritto, p. 678 n. Quanto al primo problema si veda M.S. GIANNINI. Glielementi degli ordinamenti giuridici, in Rivista tri­ mestrale di diritto pubblico, 1958, p. 219; quanto al secondo i contributi sono assai più numerosi. A prescindere dalla nota impostazione di DE VALLES. Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931 e 1936; v .. da ultimo, G. BERTI Il principio organizzativo del diritto pubblico, Padova 1986 (con ampia trattazione del concetto di organizzazione); per contributi meno recenti v. S. FODERAR O La personalità interorganica, II ed, Padova 1957; il volume collettaneo L’organizzazione amministrativa. Atti del IV Convegno di scienza dell’amministrazione, Milano 1959.

(2)È rilievo simile a quello formulato da M.S. GIA NNINI. Gli elementi,

cit.. che ne rileva la inconsistenza per la ricostruzione dei fenomeni giuridici.

(3)Per SANTI ROMANO v. L’Ordinamento  giuridico,  1918 v.  anche voce Organi in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1983; Prin­ cipi di diritto costituzionale generale Milano 1947; per HAURIOU Préçis de droit constitutionel (1929), risi. 1965; IDEM. Theorie de l’institution et de la fondation ora in traduzione italiana ne la  Teoria giuridica  de/l’istituzione  e della fonda_zione, Milano 1967; per C. SCHMITT v. Legalitiit und legimitiit; Uber die drei Arten des Rechtwissenschaftlichen Denkens, ora  entrambi  tra­ dotti in italiano (anche se non totalmente) ed inseriti nella raccolta di saggi “Le categorie del politico” Bologna 1972.

(4)Préçis de droit constitutionel, , p. 15. D’altra parte tenuto conto del­ l’influenza che il pensiero di Bergson ha esercitato sul giurista francese, è proprio il “potere” col suo carattere dinamico e creativo a dover costituire l’elemento primario di un pensiero giuridico influenzato da una filosofia vita­ listica.

(5) cit., 72, si noti che Hauriou cita la tesi di Prévost-Paradol per cui

”l’obéissence est le lien des  Societès”.

(6)loc. cii.

(7)L’ordinamento giuridico, Firenze 1967, pp. 43-44

(8)ult. cii., p. 43.

(9)Op. ult. cii., p. 44.

( IO)  Op. ult. cit.. p. 21.

(11) Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico Milano 1983 p. 224.

(12) in C. SCHMI1T Politische Theologie I, trad. it. in “Le categorie del politico” pp. 57-58. Schmitt, esponendo il pensiero di Hobbes rivela il carattere personale e concreto di ogni forma di subordinazione. “Se un potere dev’essere sottoposto ad un altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere”.

(13) Nel saggio “Uber die drei Arten”, in particolare pp. 251-255 trad. cit.

(14) È interessante notare che nel concetto d’istituzione formulato da Max Weber il rapporto di comando è Infatti l’istituzione è defi- nita “gruppo sociale”, i cui ordinamenti statuiti vengono imposti (con rela- tivo successo), entro un dato campo di azione, ad ogni agire che rivesta deter- minate caratteristiche (Wirtschaft und Gese//schaft, trad. it., p. 51).

Inoltre Weber richiama continuamente, quando scrive di “ordinamenti” dei gruppi sociali, l’elemento autoritario: così “per costituzione di un gruppo si deve intedere la possibilità effettiva di disposizione ad obbedire … nei con­ fronti della forza di imposizione della autorità di governo sussistente” (op. cit., p. 48).

Peraltro secondo Max Weber si ha un “gruppo sociale” quando l’osser­ vanza dell’ordinamento di questo “è garantita dall’atteggiamento di determi­ nati uomini, propriamente disposti a realizzarlo, cioè di un capo e, eventual­ mente, di un apparato amministrativo” ( op. cit., p. 46); al riguardo perché si abbia un gruppo, non ha importanza la distinzione tra comunità ed “associa­ zione”. L’essenziale è che vi sia la presenza di un “capo capo di famiglia, comitato di un unione, direttore di un impero, principe, presidente della repubblica, capo della Chiesa, il cui agire sia disposto a realizzare l’ordina­ mento del gruppo”; agire “non soltanto orientato in vista dell’ordinamento ma diretto alla sua imposizione coercitiva”

Imposizione che diventa connotato essenziale del concetto di “gruppo sociale”. Infatti – prosegue Weber “non ogni comunità od associazione costituisce un gruppo sociale- ad esempio non lo costituisce né una relazione erotica né un gruppo parentale privo di “capo”. Onde !'”esistenza del gruppo sociale è interamente legata alla presenza di un   capo”.

Interessante è anche la distinzione che Weber fa tra “ordinamento ammi­ nistrativo” (che regola l’agire del gruppo) ed “ordinamento regolativo” che regola “un agire sociale di altro genere”, che, secondo lo stesso, coincide in generale – con quello tra diritto pubblico e diritto privato (p. 50).

Resta il fatto che, nella sociologia weberiana i concetti di “gruppo socia­le”, “ordinamento” ed istituzione sono strettamente collegati alle relazioni sociali di comando e potere. Rilievo minore ha, invece, l’esistenza e la pro­ duzione di “regole” o “norme” relative all’azione dei consociati.

Anche secondo altri sociologi, ilconcetto d’organizzazione è strettamente legato alla struttura gerarchica. Gli apparati organizzati sono “comporta­ menti collettivi che sono ordinati, gerarchizzati, centralizzati.” (v. Gurvitch Trattato di Sociologia, Milano 1967, p. 229 v. anche p. 295).

(15) È chiaro che nel testo il termine “gerarchia” non è inteso nel senso

“tecnico” e riduttivo con cui lo impiegano (correttamente nel loro campo d’indagine) gli studiosi del diritto amministrativo, dove tale termine significa un certo tipo di rapporto tra uffici amministrativi (ed anche Enti), che viene, con ciò, contrapposto, ad altri modelli d’organizzazione.

(16) il saggio Uber die drei Arten. cit., trad. it. cit.. p. 252.

(17)L’uso di termini come “neo-corporativismo” e “neo-feudalesimo” richiama istituzioni medievali, contrapposte allo Stato moderno e che riaffio­ rano nell’età contemporanea, che si pensa caratterizzata dalla crisi della forma -Stato. Con ciò si vuole denotare sia un processo di “patrimonializza­ zione” e di “appropriazione” collettiva (od individuale) dei poteri pubblici, accanto (o in luogo) dell’unità e della “sovranità” dello Stato. Senonché la differenza (se ne possono indicare tante) che pare opportuno sottolineare tra il pluralismo corporativo feudale medievale e quello sindacai-partitico moderno è che, mentre in quello si concepiva l’ecumene o l’unità politica (per debole e frammentaria che fosse) come una comunità di comunità; nel

secondo la si concepisce come una società di società. Con conseguenze assai rilevanti, sul carattere dell’autorità, sull’appartenenza individuale,  sui legami sociali e sulla stessa “governabilità” dei gruppi sociali (istituzioni) intermedi,  che è interessante  approfondire.

(18) Uber die drei Arten …, trad. it. cit., in particolare pp. 258-260

(19) Per la verità la frase di Saint-Simon (ripetuta poi da Engels), spesso interpretata nel senso utopistico cennato nel testo, aveva una valenza tecno­ cratica più che libertaria (o anti-autoritaria).

Come notava Michels “la scuola di Saint-Simon non immaginava affatto un avvenire senza classi …”. Essa anelava al contrario alla creazione di una nuova gerarchia, senza privilegi di nascita, ma con forti privilegi acquisiti, “deshommes /es plus aimant, /es plus intelligens et lesplus forts”; e proseguiva “uno dei più fervidi, sansimonisti … indotto a difendersi dal rimprovero di agevolare, mediante la sua dottrina, la via al despotismo, arrivò perfino al punto di sostenere che la maggioranza degli uomini deve ubbidienza all’auto­ rità emanata dalla capacità …” ( Studi sulla democrazia e l’autorità, Firenze 1933 pp. 4-5). Col tempo, in taluni, il carattere politico e (relativamente) “autoritario” del pensiero dei sansimoniani si è smarrito. Ne è rimasto quello utopistico,  il più adatto a mascherare  realtà,  di fatto, totalmente opposte.

(20) L’una e l’altra possono ricondursi al pensiero di  Schmitt, in  partico­ lare alla Politische Theologie, ed al Begriff des Politischen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, cit., p. 89-208.

(21)In effetti le definizioni di Santi Romano (come quella di Maurice

48    Hauriou) non cadono nell’ingenuità scientifica di spiegare un.termine con un sinonimo, come fanno certi giuristi, col risultato di trovarsi così sempre   al

punto di partenza. Ma quel che più interessa è che la definizione di Santi Romano del diritto non contiene, nel “definiens” nessun termine (o elemen­ to) specificamente giuridico (v. L’ordinamento giuridico, cap. 10, p. 25, 28). Società, ordine sociale, organizzazione sono tutti termini che possono essere impiegati indifferentemente nella scienza giuridica ed in altre scienze sociali, e, quel che più conta, denotano enti e rapporti concreti e “fattuali”. La circo­ stanza che. in sede di definizione non abbia impiegato alcun termine giuridi­ co, dimostra non solo il carattere euristico del processo logico seguito, ma più ancora che Romano riduceva il diritto al fatto dell’esistenza, in un grup­ po, degli elementi indicati come qualificanti.

(22) Nella realtà l’interpretazione del pensiero di Santi Romano è stata spesso viziata da una serie di equivalenze e di presunte antinomie in cui il pensiero del giurista siciliano andava, in buona parte, perso. In effetti 9ndo Santi Romano, il rapporto tra i termini “diritto” “ordinamento giu­ ridfco” e “istituzione” sono perfettamente equivalenti , secondo il seguente schema logico: diritto=ordinamento giuridico=istituzione (anche se Santi Romano distingue due modi di intendere il termine diritto, v. “L’ordina­ mento giuridico”, p. 27).

Invece secondo la tesi criticata la sequenza è totalmente diversa, ed è gra­ ficamente esprimibile così: ordinamento+diritto=istituzione. In cui, in effetti il concetto d’istituzione non coincide con nessuno degli altri due. Ma tale impostazione è stata fuorviata da un altra equivalenza, più o meno espressa, per cui non tutti gli ordinamenti sociali, pur essendo gruppi (e, in certa misura, organizzati) sono ordinamenti giuridici

Nel pensiero dei tre giuristi considerati invece un gruppo sociale ordinato

è perciò stesso, un ordinamento sociale e, conseguentemente, giuridico (e l’equivalenza è chiarissima soprattutto in Schmitt. come rilevato da P.P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Milano 1982, p. 98- 99); mentre un gruppo sociale “non ordinato”, perciò stesso non è un ordina­ mento giuridico. È il concetto d’ordine (di “chiusura”, di “orientamento” unitario e relativamente uniforme – dell’agire sociale attraverso una volontà prevalente) a costituire il discrimine tra gruppi sociali che sono ordi­ namenti (e quindi sono ordinamenti giuridici) e quelli che non Io sono. È a questo, ed ai connotati che esso ha necessariamente, che va ridotto il diritto. E concetti come ordine, comando, ed effettività del comando stesso, sono, occorre ripeterlo, “fattuali” prima che “giuridici”.

(23)la definizione in Préçis de droit constitutionel, cit. p. 73 (per la forma dell’istituzione).

(24) Hauriou (op. cit, 76), riferendosi allo Stato (come  istituzione) scrive che ha una “structure formelle parfait” (rispetto alle “institutiones simi­laires” ); esso è “/’organitation parfait de ce mouvement” (che è il “movimen­ to” intrinseco al concetto che dell'”ordre” ha Hauriou); mentre a pag. 1 ricorda che Io Stato è una forma perfezionata dell’ ordre.

La nozione di potere, ordine, Stato di Hauriou, con l’importanza che danno ai concetti di consenso “coutumier”; con il continuo richiamo alla communautè per la formazione dell’istituzione – Stato (ed anche per le altre istituzioni), mostrano come pensava, in primo luogo alle istituzioni “commu­nitaires”.

(25) Ci scusino i lettori esperti della metodologia weberiana l’impiego dei “tipi ideali” comunità e società per classificare situazioni Chi scrive pensa, che è nel giusto Cari Schmitt a sostenere che, al fondo, anche lo Stato (o l’unità politica) più impregnato dell’idealtipo “società” a fondo, o nelle situazioni d’emergenza, si rivela più vicino al tipo ideale “comunità”. In tal senso è da prendere l’affermazione del testo: non cioè che nello Stato moderno manchino gli elementi riconducibili al tipo “società”; ma solo che, in definitiva, sono (o diventano) prevalenti quelli accostabili al tipo “comuni­ tà”. In effetti talvolta tali concetti vengono impiegati non come “tipi ideali”, ma come denotanti realtà sociali concrete, riconducibili in tutto e per tutto agli stessi (come le classificazioni zoologiche e botaniche). Èsignificativo tal­ volta leggere scritti di giuristi tutti convinti che, come “esistono” in concreto contratti e provvedimenti, così dovrebbero esistere “comunità”, “società”, “patrimonialismo” e, quel che più conta, persuasi di aver compreso, così facendo il senso dell’opera e del metodo di Max Weber (in particolare per chiarire il reale pensiero di quest’ultimo v. la raccolta di saggi pubblicati in traduzione italiana col titolo “limetodo delle scienze storico-socia/i”, Torino 195).

(26) Ci riferiamo, per la contrapposizione e la definizione tra comunità e società (e quindi tra le istituzioni – comunità e le istituzioni – società) alla (classica) ripartizione di Ferdinand TONNIES (v. Gemeinschaft und Gesell­ schaft, it. Milano 1979, in particolare p. 45-47); non si comprende a tale proposito come taluno abbia potuto affermare (v. M.S. GIANNINI, Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 31) che TONNIES “di­ stinse due sorta di gruppi: quelli diffusi non organizzati, che sono la società e quelli, diffusi o concentrati o organizzati, che sono le comunità”. Mentre è noto che per TONNIES il fundamentum distinctionis tra le une e le altre non era, come pensa GIANNINI, di avere o meno un’organizzazione, ma quello di basarsi su rapporti di tipo “meccanico” o, invece su rapporti “organici”. Per TONNIES (com’è intuibile nell’osservazione della realtà sociale e giuri­ dica) la Fiat è una società, mentre la setta valdese è una comunità. Ciò non toglie che entrambe siano ed abbiano delle organizzazioni.

Invero secondo TONNIES comunità significa un certo modo di atteggiarsi di relazioni sociali per cui “la comunità debba essere intesa come un organi­ smo vivente, e la Società, invece come un aggregato e prodotto meccanico” ( op. cit., p. 47). La prima è concepita come “vita sociale ed organica”; la seconda è una “formazione ideale e meccanica” (op. cit., p. 45).

Com’è noto che TONNIES, sviluppando questa intuizione basilare, rap­ portava ad uno dei grandi gruppi (o meglio ai tipi ideali) di associazioni sociali una serie di concetti, anche giuridici, derivanti dallo schema comu­ nità/società, come: volontà essenziale/volontà arbitraria; io/persona; pos­ sesso/patrimonio; suolo/denaro; diritto familiare/diritto delle obbligazioni; status/contratto (op. cit., p. 229). In questo, com’è chiaro. non c’è nulla che lasci presagire un fundamentum distinctionis come quello che attribuisce GIANNINI al sociologo tedesco, tenuto conto anche del fatto sopra cenna­ to, che sia le “società” che le “comunità” hanno  un’organizzazione.

Il pensiero di TONNIES è stato peraltro costantemente interpretato nel senso esposto: basti citare all’uopo Max Weber, il quale pur innovando -in parte – alla distinzione di TONNIES, definisce “comunità” la relazione sociale in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una “comune appar­ tenenza oggettivamente sentita”; “associazione” se poggia “su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente”. (Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Milano 1980, p. 38).

(27) Il discorso sulla connessione tra istituzionismo e decisionismo nel pensiero dei controrivoluzionari potrebbe apparire impreciso, atteso l’im­ piego di termini e formule che, nate nella dottrina del diritto, possono tra­ sporsi con una certa difficoltà a problematiche non del tutto coincidenti

In effetti, come spesso notato, la dottrina dello Stato di Bonald, Maistre e Donoso Cortés (ma anche – in parte – quella di Haller) è incentrata sul rap­ porto tra metafisica (e visione del mondo) e società politica. L’uno determi­ nante l’altra; è il reale, che si tratti di leggi naturali o credenze, a determinare il normativo. In questo contesto il ruolo autonomo della decisione è quello (insopprimibile) della scelta -in un contesto dato-tra male e bene; è il libero arbitrio applicato alla politica. La libertà di scelta tra più situazioni determi­ nate. Il cattolicesimo di Bonald, Maistre e Donoso Cortés impediva loro di cadere sia in un determinismo storico-sociale assoluto, sia nell’altrettanto assoluto soggettivismo. L’espressione forse più chiara di questo rapporto la si trova formulata da Maistre all’inizio delle “Considerations sur la France”; “siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale delle cose. Libera­ mente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno real­ mente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali. Ognuno di questi esseri occupa il centro di una sfera di attività, il cui diametro varia a piacere del geometra eterno, che sa estendere, restringere, arrestare o diri­ gere la volontà, senza alterare la sua natura. Nelle opere dell’uomo, tutto è misero come l’autore: le vedute sono ristrette, i mezzi rigidi, le molle infles­ sibili, i movimenti penosi, e monotoni i risultati. Nelle opere della divinità, le ricchezze dell’infinito si mostrano allo scoperto fin nel minimo dettaglio: la sua potenza agisce come per gioco; nelle sue mani tutto è docile, nulla le resiste; per essa tutto è mezzo, perfino l’ostacolo: e le irregolarità prodotte dall’operare dei liberi agenti trovano il loro posto nell’ordine   generale.

Se si immagina un orologio di cui tutte le molle variassero continuamente di forza, di peso, di dimensione, di forma e di posizione, e che indicasse tut­ tavia l’ora invariabilmente, ci si farà un’idea dell’azione degli esseri liberi in relazione ai piani del Creatore. Nel mondo politico e morale, come nel mondo fisico, esiste un ordine comune, ed esistono eccezioni a questo ordine. Comunemente vediamo una serie di effetti prodotti dalle stesse cause; ma in alcune epoche vediamo azioni sospese, cause paralizzate  ed effetti   nuovi.”

(v. trad. it., Roma 1985, p. 3). Dalle due impostazioni, soggettivismo ed oggettivismo, il primo negherebbe l’uomo, nella sua natura problematica e nel suo essere libero e perciò nelle sue possibilità di salvezza, ilsecondo Dio e la Sua trascendenza. Nella realtà i riferimenti di Bonald, Maistre e Cortès (nonché di Haller) ad una concezione “istituzionale” (ante litteram) dello Stato (e – in minor misura – del diritto) sono così frequenti e ripetuti che larga parte delle tesi di Hauriou, Schmitt e Santi Romano ne sembrano la diretta derivazione, se non un’aggiornata ripetizione. Data l’influenza delle concezioni aristotelico-tomistiche sui controrivoluzionari non c’è neppure da stupirsi che la loro visione dello Stato non sia diversa. All’uopo è sufficiente ricordare l’affermazione di Bonald che: “la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza” (v. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Stael, trad. it. La costituzione come esistenza, Roma, 1985 p. 35); e che ciò che fa uno Stato sono “monarchia, religione e giustizia” (op. cit., p. 36); ovvero l’importanza che tutti i controrivoluzionari danno all’idea (e cioè alla visione del mondo) come determinante le istituzioni, come nello stesso senso alle cause storiche e naturali; o anche l’affermazione di De Maistre che “la costituzione è un’opera divina” e che “le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta “(Essai sur !es constitutions politiques I e IX); ovvero quella di Donoso Cortès che considera “le leggi fatte per la società e non viceversa ” ( Discurso sobre la dictatura, trad. it., Brescia 1964). Tutte affermazioni (e tante altre se ne potrebbero ricordare, a voler esaspe­ rare la pazienza del lettore) che confermano il carattere “istituzionalista” della loro visione della società politica.

(28) I rapporti tra le teorie di PARETO, MOSCA, MICHELS, FERRE­RO, e quella dei tre giuristi considerati, sono, ancor più di quelle tra questi e controrivoluzionari, largamente (se non totalmente) da Secondo PARETO le  società  umane  non  possono  sussistere  senza  una gerarchia ( Oeuvres, voi. VII, p. 422 v. anche J. FREUND, Pareto, trad. it. Bari 1976

  1. 146), e che comunque ogni società è divisa in due strati “uno strato supe­riore, in cui stanno di solito i governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati”. ( Oeuvres voi. XII p. 1301). La “costante” della divisione in classi (governante e governata) nelle società umane è confermata da Mosca: “Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politi­ ci, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta; in tutte le società … esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati” ( La classe politica, rist. Bari 1966 p. 61). Il termine “organizzazio­ne” viene talvolta da Mosca riferito alla classe dirigente, tal’altra all’intera società. Ma, in ambedue i casi, Mosca chiaramente riferisce il concetto al rapporto comando -obbedienza, sia in funzione del dominio stesso (la classe politica si organizza per esercitare il comando o, il che è lo stesso, per imporre la volontà dei propri componenti alla maggioranza), sia in funzione dell’esistenza della comunità globalmente intesa (v. op. cit., p. 177). Ancor più chiaro è il collegamento tra dominio delle élites ed organizzazione in MICHELS. Secondo questi “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oli­garchia. L’organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici… Essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti …; il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza ine­vitabile dell’estendersi dell’organizzazione induce necessariamente i soci… a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e com­petenze, ai soli capi. .. L’organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che è governata” ( Studi sulla democrazia e l’autorità; Firenze 1933 p. 32-33).

 

 

La catastrofe delle élite, la rovina delle nazioni_ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Qui sotto un’altra pregevole recensione pubblicata in contemporanea su https://civiumlibertas.blogspot.com/2019/02/la-catastrofe-delle-elite-ne-parla-t.html?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+blogspot%2FvDDIG+%28Civium+Libertas%29 e su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

 

Antonio Pilati, La catastrofe delle élite, Edizione Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 143, € 17,50.

Dopo un silenzio durevole quanto innaturale, seguito da svalutazioni stizzose (tutt’altro che esaurite) da parte dalle élite in via di detronizzazione dopo il 4 marzo (le “idi di marzo” – anticipate rispetto al calendario romano – della seconda repubblica), la letteratura sul populismo e sul sovranismo ha avuto un’impennata spettacolare, proporzionale alla pluriennale compressione del dibattito su tale svolta storica. Di libri che ne parlano, e spesso, come questo, nel senso non di giudicarli rispetto a idee e valori, ma Wertfrei in ossequio al “fattuale”, ne escono non meno di uno a settimana. Al punto che, a leggerli tutti, sarebbe necessario di fare di un interesse una professione: quella di populologo o sovranologo (variante sovranosofo). Dato che non ho tempo di diventarlo, cerco di recensirne qualcuno. A questo attento saggio di Pilati mi è venuto in mente che potrebbe essergli assegnato il premio “eterogenesi dei fini” per l’importanza – tutt’altro che esagerata – data a tale costante delle vicende umane rispetto agli altri saggi in circolazione.

Una parentesi per il lettore: con eterogenesi dei fini si definisce quell’azione/i umana/e il cui risultato è tutt’altro che quello voluto dall’agente. Omne agens agit proter finem, sosteneva S. Tommaso, ma non è detto che le azioni portino alle conseguenze sperate, progettate, volute.

Ed è proprio quello che è capitato nella storia di questi anni, e che Pilati evidenzia sin dalle prime pagine del libro.

Le élite inconsapevoli (così – giustamente – definite) non hanno né capito quanto stava succedendo – dopo il collasso del comunismo – né elaborato una strategia che tenesse conto dei dati reali e delle regolarità del politico (e non solo). In fondo la rappresentazione più sintetica (o tranquillizzante) di tale visione l’aveva data Francis            Fukuyama col notissimo saggio sulla fine della storia. Sul quale mi capitò di scrivere che il filosofo nippo-americano aveva affermato due cose: a) che le democrazie occidentali avevano vinto il confronto con il comunismo, ossia la guerra fredda (vero); b) che, venuto meno il conflitto borghesia/proletariato sarebbe venuto meno – o sarebbe stato eliminato, o almeno, minimizzato – ogni conflitto (falso). Cioè superata la regolarità amico/nemico. Invece già l’11 settembre 2001 (al più tardi) si aveva uno choc planetario, che provava quanto fosse frutto di (condivisibili quanto errate) aspirazioni la tesi di Fukuyama. E già da prima maturavano le condizioni politiche, economiche e sociali di un nuovo contenuto/scriminante dell’amico/nemico: quello tra globalizzazione e comunità (e identità). Ma di ciò si è letto poco fino a tre/quattro anni fa. Per cui chiamare inconsapevoli le élite che hanno gestito la globalizzazione nel ventennio a cavallo dei due secoli è tutto da condividere.

Scrive l’autore che i punti-chiave della globalizzazione non compresi dai governanti di allora, erano quattro: la crescita economica auspicata creava nuovi squilibri; indeboliva il primato economico americano; genera divisioni tra Stati e all’interno degli Stati tra i vincitori (pochi) e i perdenti (tanti) della globalizzazione; infine le classi dirigenti erano cieche e insensibili alla “caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica”. Ma ciò generava una nuova offerta politica, corrispondente alla domanda degli insoddisfatti. “La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016” (e non è finita). Anche il tentativo di correre ai ripari, trovando (e costruendo) una versione pop del Katechon paolino (che era l’Impero romano, istituzione di tutt’altra consistenza e serietà) si risolve in un’eterogenesi dei fini: “l’invenzione in provetta dello sprezzante elitista Macron”, peraltro lì per lì riuscita, pare stia risolvendosi in un’abnorme crescita dell’opposizione anti-elitaria ed extraparlamentare dei “gilet gialli”. In altre parole le  ostetriche dei populisti sono state le élite inconsapevoli (e mediocri). Scrive Pilati, a tale proposito sull’Italia e sui governi Monti (e successivi) che la loro azione “accumula stasi dell’economia, che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel proliferare dei poteri  di veto, fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche, energia)”.

Da cui la prevedibile vittoria dei partiti anti-sistema; la quale conseguiva però anche da un’incapacità di sintesi sistemica. Mancando questa, il concretizzarsi di un’opposizione anti-sistema, è una logica conseguenza; e anche d’altro, già evidenziato da Lasch oltre vent’anni fa.

Tuttavia la conclusione di questa fase è ancora da venire. “Il voto del 4 marzo 2018, con il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude una fase storica, ma non mostra la forza e la visione di aprirne una nuova. Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi, esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di decollo segna una frattura – un’altra – nella storia della politica recente” ma rispetto alle alte due crisi recenti (Tangentopoli nel ’91-’94 e governo dell’establishment del 2011-2012) c’è qualche chances in più: “Nei casi trascorsi i cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali lo dimostra. Oggi però è il contesto internazionale, che in passato non ha giocato per noi, è molto fragile… In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori, appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance favorevoli”. Speriamo bene.

C’è tanto altro in questo interessante saggio, ma la natura succinta della recensione non consente di scriverne: ai lettori scoprirlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

Marx, l’Europa e il globalismo, di Gennaro Scala

Marx, l’Europa e il globalismo

Marx, l'Europa e il globalismo
di Gennaro Scala
tratto da https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-marx_leuropa_e_il_globalismo/11_26268/?fbclid=IwAR2sRjjxWOCjYrwK3lm98F4QgB2yhcrKDj9uAYUXLuShEuyBjf814y-Rp3IIl 17 ottobre 1845, Karl scrive al borgomastro di Treviri per chiedere il passaporto prussiano, necessario per emigrare oltre Atlantico. Se lo vede rifiutare, ancora una volta incorrendo in un mandato di cattura. Con una lettera del 10 novembre 1845 rinuncia quindi alla propria nazionalità. D’ora in avanti sarà apolide. Marx decide dunque di non lasciare Bruxelles. La sua vita resterà ancorata all’Europa.

(Jacques Attali, Marx ovvero lo spirito del mondo)

Ti vorresti svegliare per liberarti dell’immagine dell’Europa. Ma non è possibile.

(dal film di Lars von Trier, Europa)

In un mio precedente intervento su Marx, Lenin e l’immigrazione accennavo al rapporto tra Marx e il “globalismo”, vorrei ora approfondire tale specifica questione. Esiste oggi, dopo che Edward Said sollevò il problema nel suo Orientalism, un’ampia letteratura complessivamente concorde sul fatto che Marx fu partecipe dell’eurocentrismo dominante nella cultura europea del suo tempo, dibattito di cui però non è giunta notizia agli ultimi sparuti difensori del sacro testo marxiano. Rimando in merito a quello che ho trovato uno dei testi migliori Marx at the Margins: On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies, lavoro alquanto obiettivo, in cui Kevin B. Anderson, pur definendosi marxista, prende in esame i testi più “scabrosi” per la mentalità politicamente corretta “di sinistra”. Qui non ci occuperemo tanto dell’eurocentrismo di Marx, che daremo per stabilito, quanto della sua origine e significato, e del suo rapporto con il comunismo marxiano. Però, sia ben chiaro, non intendo fare un esercizio di “politicamente corretto”, la condivisione della pervasiva mentalità eurocentrica ottocentesca (e non facile per ognuno sfuggire ai pregiudizi più radicati del proprio tempo) non toglie nulla alla validità della sua analisi della formazione e dinamica de Il capitale. Inoltre, l’eurocentrismo è il risvolto negativo di ciò che lo rende una personalità per noi ancora significativa, l’essere stato un “segnalatore di incendio” che aveva avvertito profondamente quella crisi della civiltà europea che si concluderà con due guerre mondiali, per la quale prospettò una soluzione “radicale” ma utopica: il comunismo, in cui l’Europa si estendeva fino ad abbracciare l’umanità intera. In Marx l’adesione ai valori della civiltà europea e la preoccupazione per la sua sorte, il che è giusto e sacrosanto, si confonde con l’eurocentrismo, il che è sbagliato.

Per inciso, un certo economicismo entrato a far parte del senso comune, ritiene che con il passaggio all’egemonia statunitense si sia passati semplicemente da una forma di capitalismo ad un’altra (c’è da dire che Marx mai usò il termine capitalismo). In realtà, noi viviamo in un universo culturale che è diverso da quello di Dante, di Machiavelli, di Goethe, di Foscolo, di Verdi e persino di Gramsci. Con il passaggio alla “società di massa” siamo entrati in una diversa forma di civiltà, che seppur generata della civiltà europea, e di questa conserva geneticamente alcune forme, è però da questa diversa, come pochissimi intellettuali hanno visto, tra cui Pasolini che parlò di “genocidio culturale”.

La definizione sintetica più adeguata per la visione dei rapporti inter-nazionali di Marx sarebbe eurocentrismo globalista, ma useremo, per semplicità, il termine globalismo. Inoltre, in ambito accademico anglo-sassone la critica dell’“eurocentrismo” è diffusa (esiste anche una corrente di studi accademica, i post-colonial studies, che ruota intorno a questo tema) presentandolo però come qualcosa del passato, come già dice la definizione di questa disciplina, più difficilmente viene messa in luce la continuità tra l’eurocentrismo e il globalismo odierno, anzi spesso la critica dell’etnocentrismo viene effettuata secondo l’ottica del globalismo, il quale si presenta apparentemente in termini opposti, non come eurocentrismo che talvolta sfocia nel razzismo, ma universalismo che predica “accoglienza” verso i popoli sfortunati della Terra, i quali tutti hanno diritto a venire a lavorare per paghe da fame, o come manovalanza per la criminalità, nel paradiso occidentale. Per una istruttiva e incisiva descrizione di come sciovinismo e universalismo finiscano per identificarsi consiglio la lettura del classico testo di Nikolaj Trubeckoj, L’ Europa e l’umanità. La prima critica all’eurocentrismo. Il globalismo è il nazionalismo della nazione dominante. Tutte le guerre post-89 sono state giustificate su una base universalistica, in difesa dei “diritti umani”, con cui venivano giustificati i “bombardamenti umanitari”. Tale globalismo si presenta come l’imposizione di un unico modello valido, la “democrazia occidentale” a cui tutti gli altri popoli della Terra si devono adeguare.

C’è stato un breve periodo, se commisurato ai tempi storici, ormai concluso, di rinascita del globalismo, dopo il crollo del mondo “bipolare” del dopoguerra seguito al “crollo dell’Unione Sovietica” e la possibilità di un analogo crollo in Cina, in cui è apparso possibile che l’Occidente a guida statunitense, potesse diventare l’unica potenza globale. Questo periodo è già concluso, con il ritorno in scena della Russia, e con la stabilizzazione della Cina quale grande potenza mondiale. Il globalismo di ritorno, se così possiamo chiamarlo, ha trovato varie forme di rappresentazione ideologica, tra cui Impero di Negri e Hardt svolse una particolare funzione ideologica tra le aree di sinistra post-sessantottine e post-marxiste: scomparso il Soggetto, la “classe operaia” sostituita da un soggetto non soggetto (se mi passate il gioco di parole), da una somma di singolarità (la moltitudine), veniva però ripreso lo schema che si può derivare dal Manifesto del partito comunista, che prevedeva una progressiva concentrazione del potere estesa a tutto il globo e relativa “scomparsa degli stati nazionali” a cui si opponeva una Moltitudine che veniva a sostituire la ormai mitica classe operaia. Significativamente veniva salutato da Slavoj Žižek come “il manifesto del XXI secolo”.

Non rendiamo però giustizia a Marx se oscuriamo la differenza tra il globalismo “post-moderno” di un Toni Negri, che è per la maggior parte affabulazione ideologica al servizio dei più pericolosi settori della classe dominante statunitense (quei settori globalisti che ultimamente con la Clinton non escludevano un attacco alla Russia), e il globalismo di Marx che è il tentativo utopico ma genuino di uscire da una situazione senza via uscita della civiltà europea. Rispetto all’immaginaria scomparsa dello stato-nazione decretata da Negri e Hardt, l’anti-nazionalismo marxiano ha ben più fondate ragioni, se visto in un’ottica europea (come vedremo), il problema è che vorrebbe risolversi nella soluzione utopica del comunismo. Scomparsa la “classe operaia”, sostituita da “diversi” di varia natura, fissati nella loro diversità secondo una forma di razzismo al contrario, le residuali forze di sinistra di derivazione comunista in occidente sono diventate un puro e semplice strumento del globalismo.

Come scrivevo precedentemente, l’opera maggiormente segnata dall’approccio globalista e che maggiormente ha influito negativamente sul movimento operaio del secolo scorso è stata, a mio parere, il Manifesto del partito comunista. Chi scrive non è stato indifferente a suo tempo al fascino esercitato da questo pamphlet, dopo la cui lettura la Storia (con la maiuscola) sembra acquisire un senso e una direzione. Ma una volta superata l’illusione di possedere la chiave per la comprensione dei fattori storici, lo schema dell’evoluzione storica non regge neanche ad un superficiale esame, cominciando dal famoso incipit “la storia è lotta di classe, schiavi e liberi, patrizi e plebei”, visto che non è ci è giunta notizia di lotte di classe tra schiavi e liberi nell’antica Grecia, tutt’al più potrebbe essere parzialmente valido per Roma antica (Spartaco e altri, anche se non furono certo lotte determinanti per l’assetto sociale romano), ma la palla già passa a “patrizi e plebei”. Dell’incipit del Manifesto si potrebbe conservare solo questa parte parte “la storia è lotta” (ritornando al detto di Eraclito secondo cui il conflitto è padre di tutte le cose), il conflitto è il motore della storia, ma non solo tra classi sociali, vi sono conflitti all’interno delle classi dominanti, conflitti tra le classi dominanti di diverse nazioni, conflitti tra i dominati, senza considerare le classi medie (visto che la polarizzazione tra “borghesi” e “proletari” prevista da Marx non si è verificata), insomma un reticolo di conflitti attraversa le società, al loro interno e verso l’esterno, e dà vita alla dinamica sociale, e in genere i conflitti che hanno l’effetto sociale più dirompente sono i conflitti tra eserciti quali concentrazione della forza, perché i conflitti si vincono in ultima analisi con la forza. Nonostante che Marx avesse il culto della Storia (“conosciamo una sola scienza: la storia”), il suo riduzionismo non è sostenibile proprio dal punto di vista storico. Uno storico di professione come Eric Hobsbawm in una prefazione a Forme precapitalistiche di produzione, sottolineava come Marx si concentrò sullo studio dei rapporti capitalistici di produzione, ma dal punto di vista dell’analisi propriamente storica sia lui che Engels erano dei “dilettanti ben informati”.

Sono convinto che oggi sia più di ieri necessaria la riscoperta di una prospettiva socialista, ovvero una forma di regolazione collettiva del sistema produttivo (senza però soffocare l’iniziativa individuale senza la quale ogni sistema diventa per forza di cose stagnante), data la irrazionalità di questo sistema, con le sue mostruose diseguaglianze, la sua tendenza a tagliare fuori dal “sistema” masse crescenti di popolazione, i rischi enormi per l’ambiente che esso comporta, il degrado dell’alimentazione, dell’istruzione, della formazione, delle attività del tempo libero. Tuttavia non è possibile ricostruire una prospettiva socialista senza fare i conti con lo scacco subito dal comunismo storico. Per la rinascita di un pensiero socialista oggi sono convinto sia necessario liberarsi dell’utopia universalista/globalista che ebbe il nome di comunismo, nata in un contesto particolare di crisi della civiltà europea. Essa è stata già di fatto accantonata dalla storia, ma il rischio oggi è quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca, come suol dirsi. Coloro che non hanno fatto i conti con tale necessità non possono che diventare che gli utili idioti delle peggiori tendenze delle peggiori classi dominanti odierni (idiozia che talvolta fa il paio con il piccolissimo opportunismo di meschini mestieranti della politica). Come nel caso delle politiche a favore dell’immigrazione, sostenute dai principali partiti di sinistra europei, uno degli strumenti (certo, uno dei tanti) con cui le classi dominanti nei paesi occidentali hanno abolito gli “eccessivi diritti” di classi popolari che nei paesi occidentali avevano “alzato troppo la testa”. Non è un caso che questa sia una tara soprattutto dei partiti comunisti “occidentali” (secondo la distinzione tra “marxismo occidentale” e “marxismo orientale” effettuata da Losurdo), i quali taccerebbero di “fascismo” la posizione sull’immigrazione ad del Partito Comunista della Federazione Russa o quella del Partito Comunista Francese, che, quand’era ancora un partito di massa si oppose, con Marchais all’immigrazione, individuando in essa un tentativo delle classi dominanti di minare le condizioni di vita delle classi popolari.

Se vogliamo fare i conti con la parte peggiore dell’eredità lasciataci dal defunto “comunismo storico” dobbiamo partire, a mio parere, dal globalismo del Manifesto. L’elogio ivi contenuto del ruolo rivoluzionario della “borghesia” che “trascina nella civiltà le nazioni più barbare” si trasformerà 5 anni più tardi in aperto sostegno all’espansionismo globale britannico: trasfigurato, in termini para-religiosi, come uno strumento con cui si compie il “destino dell’uomo” (in un articolo del 1853 dal significativo titolo La dominazione britannica in India [o l’Inghilterra rivoluzionaria malgrado se stessa].

Certo, Marx denunciò a più riprese la “barbarie e intrinseca ipocrisia della civiltà borghese” che si presentava senza veli nelle colonie (I risultati futuri della dominazione britannica in India), e per questo chi ha voluto fare di Marx un “anticolonialista” ha sempre trovato singole affermazioni nei suoi testi a sostegno di questa tesi, tuttavia, se consideriamo la posizione complessiva di Marx, l’espansionismo coloniale venne da lui giustificato come una forma di diffusione del modello europeo che apportava il progresso, seppur tra lacrime e sangue, con mezzi barbarici. Una difesa retoricamente più efficace rispetto ai puri e semplici cantori della missione civilizzatrice europea. Il “marxista” Anderson, citato all’inizio, parla per quanto riguarda gli articoli di Marx sull’India di “supporto qualificato per il colonialismo”. Supporto tanto più efficace perché Marx era sicuramente convinto di quello che scriveva e non fu mai un volgare propagandista. Ma se poteva apparire plausibile ai tempi di Marx la convinzione che alla fine l’espansionismo globale della borghesia potesse risultare in un salto in avanti complessivo dell’umanità, seppur bisognasse fare delle acrobazie logiche e mettere in campo degli artifizi dialettici per difenderlo, non lo è per chi oggi, alla luce dei fatti storici, continua a propagandare tale nozione di “progresso”, considerata la “esplosiva” eredità che questo espansionismo ci lascia. In tale “dialettica” dell’espansione coloniale la dialettica quale disciplina filosofica ritrova i suoi antichi legami con la sofistica. Marx ritenne complessivamente positivo il dominio inglese in India, condannò la rivolta dei Taiping (in un articolo Chinesisches per Die Presse del 7 luglio 1862, uno dei più testi più eurocentrici di Marx), una delle più imponenti rivolte anti-coloniali del 19° secolo, che le potenze europee contribuirono in modo decisivo a sedare, e se si aggiunge il suo odio antirusso, ne risulta un marcato eurocentricismo.

La prospettiva globalista di Marx è riassunta in una lettera ad Engels (8 ottobre 1858):

 

Non possiamo negare che la società borghese ha vissuto, per la seconda volta, il suo XVI secolo – un XVI secolo che spero suonerà a morte per lei come il primo che l’adulò in vita. Il vero compito della società borghese è la creazione del mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione che poggia sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, mi sembra che, con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’apertura della Cina e del Giappone, questo compito sia stato portato a termine.

Il globalismo del comunismo deriva dal rapporto oppositivo ma allo stesso tempo mimetico con l’espansione globale capitalistica. Il comunismo vuole essere rivoluzione globale così come globale è il capitalismo, da Marx fino a Lenin, il quale vide al rivoluzione russa come un preludio ad uno sconvolgimento mondiale. La storia sarebbe andata diversamente: è stata proprio la resistenza alla “unificazione del mondo” da parte delle identità culturali delle grandi civiltà storiche è stato il fattore principale di resistenza. La rivoluzione russa era il modo in cui la civiltà russa (come vide con grande lungimiranza Toynbee) faceva fronte alla minaccia costituita per lei dall’espansionismo europeo, una forma di modernizzazione imposta dal conflitto tra gli stati, come fu la rivoluzione francese (vedi in merito il mio Ripensare la rivoluzione francese).

In Marx il globalismo deriva dalla convinzione che alla portata globale del dominio del capitale bisognasse contrapporre una strategia altrettanto globale del movimento comunista rivoluzionario, in base alla realistica valutazione che un movimento comunista limitato ad un determinato paese sarebbe stato schiacciato dalla potenza del capitalismo dominante a livello globale, convinzione che viene conservata anche da Lenin nonostante con lui si faccia strada nel movimento comunista una posizione radicalmente diversa sulla questione della nazionalità. Il globalismo di Marx è diverso dall’inter-nazionalismo che si affermerà successivamente nel movimento comunista, seppur è la risposta ad un medesimo problema: il globalismo prevede una progressiva scomparsa degli stati mentre l’inter-nazionalismo, come dice la parola, è un’alleanza tra le nazioni soggette all’imperialismo.

Questo mio scritto non mira alla liquidazione dell’eredità del pensiero marxiano, ma, esattamente al contrario mira, a quell’esercizio critico che andrebbe fatto con ogni autore da cui ormai i secoli ci separano, valutando quanto il tempo ha mostrato valido nelle loro opere e quanto invece va abbandonato. Soltanto effettuando il necessario esercizio critico sul pensiero di Marx (il quale fu un deciso sostenitore dell’approccio critico, si ricordi il sottotitolo de Il Capitale) è possibile sottrarlo a chi lo considera un “cane morto”, oppure lo vorrebbe confinare all’ineffettualità del marxismo accademico, oppure peggio ancora vorrebbe farne solo un araldo delle meraviglie della globalizzazione (come nella biografia di Jacques Attali), e non una delle espressioni più acute della crisi della civiltà europea.

L’analisi di Marx della merce e della formazione del capitale è ancora fondamentale per comprendere la società odierna, ma se vogliamo recuperare la parte migliore del pensiero di Marx dobbiamo liberarla da quella che invece risulta più legata all’ideologia del suo tempo, in particolare al dominante globalismo dell’Inghilterra quale nazione uscita vincitrice dal secolare scontro interno delle nazioni europee che si avviava a diventare nazione dominante a livello globale. Consapevoli che tale impostazione si riflette in quella che è l’opera più importante e attuale di Marx, Il capitale, nell’idea secondo cui studiando la particolare formazione del capitalismo inglese si studiasse “il punto più alto dello sviluppo” che mostrava la strada a tutte le formazioni sociali. Prospettiva unilineare che lo stesso Marx mise in discussione alla fine della sua vita in favore di un approccio “multilineare” (un tema su cui si è molto discusso nel marxismo degli anni 60-70). Tuttavia se è sicuramente interessante il radicale ripensamento di Marx negli ultimi anni della sua vita (a questo è dedicato il lavoro di Anderson citato all’inizio), bisogna tenere conto però dell’influenza avuta dalle sue opere su generazioni di militanti in cui l’approccio unilineare risulta dominante. Se ci sarà nel prossimo futuro un ordine stabile sarà un ordine multipolare, per cui va superata ogni mentalità globalista.

Ancora oggi esistono sparuti gruppi o individui che giocano a chi è “il più marxista”, quello che voglio invece promuovere è un’analisi critica del pensiero di Marx, che non è “l’orizzonte insuperabile del nostro tempo” (come scrisse Sartre) perché fu, come ogni scrittore significativo, profondamente legato al suo tempo. Da Marx ci separa un arco di tempo in cui molti processi che alla sua epoca erano in fase di svolgimento si sono conclusi. Certo può sembrare facile, e anche in un certo senso ingiusto, giudicare con “il senno di poi”, tuttavia questo è esercizio è inevitabile di generazione in generazione.

Uno dei motivi per cui non si è indagata a fondo la visione che Marx aveva dei rapporti inter-nazionali è perché questi sono animati da un deciso odio contro la Russia. Le Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo, una delle poche opere pubblicate in vita, non fu neppure inclusa nell’edizione sovietica delle opere complete di Marx. In essa, scriveva che la storia aveva fatto della Russia una potenza reazionaria perché segnata dal secolare servaggio imposto dalla dominazione mongola, da cui aveva per giunta ereditato l’aspirazione al “dominio mondiale”. Ma siccome, per la consueta ironia della storia, proprio la Russia è diventata la prima potenza comunista si è preferito lasciare in secondo piano questi aspetti del pensiero di Marx. Non è un caso tuttavia che proprio il comunismo di Marx abbia fatto presa sulla Russia, perché esso è il prodotto finale del movimento rivoluzionario innescato in Europa dalla rivoluzione francese, l’ultimo prodotto di un movimento rivoluzionario che in Europa andava spegnendosi. È Marx stesso a descriverci come le élites intellettuali russe fossero in realtà le uniche realmente interessate al suo pensiero:

 

Qualche giorno fa un libraio di Pietroburgo mi ha sorpreso comunicandomi che “Il Capitale” sta per esser stampato in traduzione russa. Ha voluto una mia fotografia per l’illustrazione di copertina, ed io non ho potuto negare questa piccolezza “ai miei buoni amici” (i russi). È un’ironia della sorte che i russi, contro i quali ho combattuto per 25 anni ininterrottamente, e non solo in tedesco, ma anche in francese e in inglese, siano sempre stati i miei «protettori». Nel 1843-44 a Parigi gli aristocratici russi mi portavano in palma di mano. Il mio libro contro Proudhon (1847) [La miseria della filosofia], come anche quello edito da Duncker (1859) [Per la critica dell’economia politica], in nessun altro paese hanno trovato uno smercio maggiore che in Russia. E la prima nazione straniera che traduce “Il Capitale” è la Russia. Ma tutto ciò non dev’esser sopravvalutato. Gli aristocratici russi da giovani vengono istruiti nelle università tedesche e a Parigi. Essi vanno a caccia di quanto di più radicale viene prodotto in occidente. È un’autentica Gourmandise [leccornia], come quella che attirava una parte dell’aristocrazia francese nel XVIII secolo. Ce n’est pas pour les tailleurs et les bottiers [Non è per sarti e calzolai], diceva allora Voltaire delle sue idee illuministiche. Ciò non impedisce a questi stessi russi di diventare farabutti non appena entrano al servizio dello Stato.

(cit. in Ettore Cinnella, L’altro Marx)

 

Ho voluto riportare per intero questo passo perché è alquanto indicativo della diffidenza di Marx dovuta alla sua effettiva russofobia, che si traduceva in diffidenza personale verso i rivoluzionari russi, superata, secondo Cinnella, soltanto verso la fine della sua vita (che in questo concorda con Anderson), quando Marx sviluppò un intenso rapporto con i populismo russo attraverso cui effettuò una radicale revisione della sua visione stadiale e unilineare, insieme ad un superamento del suo eurocentrismo “Marx formulava adesso, sulla storia della dominazione inglese in India, un’interpretazione opposta a quella che ne aveva dato negli anni ’50 sulle pagine della New York Daily Tribune. Inappellabile era la condanna del rapace colonialismo britannico, reo di aver saccheggiato e distrutto un mondo economico-sociale ancora vitale. La nuova visione della storia dell’India, e dei rapporti tra il subcontinente indiano e la Gran Bretagna, era il frutto della lettura non solo del libro di Kovalevskij, ma di molte altre opere, studiate da Marx con passione a partire dalla fine degli anni ’70.” (Ettore Cinnella, L’altro Marx). In questi anni ipotizzò, in una famosa lettera a Vera Zasulic (8 marzo 1881), la possibilità per la Russia di “saltare” insieme alle delizie della “accumulazione primitiva” la fase dello sviluppo capitalismo per passare direttamente al socialismo.

Tuttavia prima di questo cambiamento che avvenne negli ultimi anni della sua vita, il contraltare del globalismo di Marx fu specialmente la russofobia, mentre si sostiene il predominio mondiale dell’Inghilterra, allo stesso tempo, secondo i meccanismi della proiezione, si attribuisce questa aspirazione alla Russia che in quel periodo attraversava una profonda crisi interna e non poteva certo aspirare al “dominio mondiale”. È un meccanismo caratteristico della propaganda del tempo, tuttavia in Marx acquisice un significato particolare. Non so se è vero che Marx sia stato “l’inventore della russofobia di sinistra” come scrive Guy Mettan in Russofobia. Mille anni di diffidenza, certo è che all’inizio sposa appieno la russofobia dominante in Inghilterra in quegli anni (e condivisa in tutti gli ambienti politici, dalla destra alla sinistra, per questo non credo che la progenitura sia da attribuire a Marx). La russofobia svolge una funzione particolare nel sistema di pensiero di Marx, e siccome essa è irrazionale, mentre di solito l’irrazionalità è assente dal pensiero marxiano (le Rivelazioni per la palese superficialità e per giudizi tagliati con l’accetta non sembrano neanche scritte da Marx), credo sia legittima una interpretazione di carattere psicologico.

Poco analizzata dai “marxologi” è stata la colloborazione con David Urquhart, un deputato politico conservatore russofobo e filoturco, che durò quasi dieci anni e si concretizzò in articoli scritti per i giornali degli “urquhartiti” e partecipazioni a incontri organizzati dagli stessi, tra cui le Rivelazioni e una raccolta di articoli su Palmerston pubblicati a puntate sulla Free Press di Urquhart (v. Lettera di Marx a Lassalle, 2 giugno 1860). David Urquhart aveva chiesto a Marx un incontro dopo aver letto alcuni suoi articoli per il New York Tribune (allora uno dei quotidiani con maggior lettori al mondo) , che denunciavano una presunta ambiguità di Palmerston nei confronti della Russia. Lo stesso Marx riconobbe, dopo averlo incontrato, che Urquhart era un “almost maniacal Russophobe” (Die Reform, 19 Decembre1853), e quindi bisognerebbe capire perché anch’egli cadde in questa stessa mania e scrisse un testo come Rivelazioni che oggi noi definiremmo “complottista”. La mia spiegazione, ipotetica come ogni spiegazione psicologica, sarebbe, la seguente. Marx aveva indicato nell’Inghilterra il nemico principale della Rivoluzione durante gli ultimi anni prima dell’esilio, ma cambiò parere (come vedremo) con il suo trasferimento in Inghilterra, la quale con il suo colonialismo diventa “rivoluzionaria suo malgrado” e quindi il carattere reazionario anti-rivoluzionario lo raccoglie la sola Russia, d’altra parte c’è un tentativo da parte di Marx di mutare la natura dell’Inghilterra, denunciando la politica “nascosta” di uno dei suoi principali esponenti politici, Palmerston, denunciandone gli accordi “segreti” con la Russia.

Il globalismo eurocentrico non è una tara del solo Marx e del solo comunismo. Che si tratti del liberalismo anglosassone che costruì un abnorme impero globale, che si tratti del comunismo, che intendeva sostituire al capitalismo globale la rivoluzione comunista mondiale, che si tratti del nazionalsocialismo che intendeva sostituirsi all’Inghilterra in declino quale potenza dominante globale, il problema principale della cultura politica europea è stato il globalismo, in merito al quale andrebbero concentrati gli sforzi per una diversa cultura politica oggi in cui l’Europa non è più al centro del mondo. Questo deriva dal fatto che per primo in Europa si è verificato quel pauroso balzo in avanti dal punto di tecnico e organizzativo delle società umane che chiamiamo modernità. Per lunghi secoli (a partire dal XV secolo fino al secolo scorso) l’Europa ha goduto di un vantaggio sia nell’organizzazione sociale (stato ed esercito moderni) sia sul piano tecnico che le ha garantito un vantaggio sulle altre società umane consentendole un espansionismo globale. Per tutti questi secoli l’Europa si è sentita al “centro del mondo”.

Marx, conformemente ai pregiudizi del suo tempo, vedeva l’Europa come il “mondo civile” per eccellenza, al di fuori si incontravano prevalentemente “popoli barbari” come scrive nel Manifesto.

“Popoli senza storia” che vegetavano come l’India (la filosofia della storia hegeliana influenzò pesantemente la visione che Marx aveva dei popoli extraeuropei) e attendevano l’Europa per essere “risvegliati”, mentre la Cina, della cui ricchissima civiltà già al tempo di Marx si sapeva abbastanza, è affetta da “stupidità ereditaria”. I prezzi bassi delle merci abbattevano le muraglie cinesi e costringevano “alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari” (sarà per questo che oggi la Cina ha adottato a sua volta le politica dei prezzi bassi per penetrare le economie occidentali? L’avranno imparato dal Manifesto?). La Storia era incarnata essenzialmente dall’Europa, essa “trascinava” nella civiltà gli altri popoli (secondo le parole del Manifesto) seppur mossa dai “più vili interessi” (come scriveva qualche anno più tardi nella New York Tribune).
Vista con il “senno di poi” l’espansione globale dell’Europa appare come un periodo particolare della storia già concluso, in cui l’Europa prende il volo, un’accellerazione dello sviluppo interno, ma a cui le altre maggiori civiltà si sono adeguate.

Decisivo è vedere il contesto in cui nacque l’utopia mondialista/universalista di Marx. Marx è un rivoluzionario tedesco, formatosi all’interno dei movimenti rivoluzionari sorti in seguito alla rivoluzione francese in tutti i paesi europei. Com’è noto la rivoluzione francese ebbe una forte componente nazionalistica (“amour sacrè de la patrie”), che fu compresente con l’universalismo dell’Illuminismo che fu uno dei fattori dell’egemonia ideologica della Francia nelle altri nazioni europee. Questi due elementi contraddittori non giunsero mai ad armonizzarsi, restarono separati, come ad esempio in Rousseau la “religione dell’umanità” e la “religione della patria” non riusciranno mai a darsi la mano. In Marx, il nazionalismo scompare fino a diventare “anti-nazionalismo” e viene sempre più in primo piano l’universalismo.

Per comprendere questo passaggio è necessario far riferimento al contesto storico. Tra Marx e la rivoluzione francese vi fu la sconfitta di Napoleone, dopo la quale la secolare disputa tra Inghilterra e Francia si trasformò in un alleanza (con ruolo subordinato della Francia), e, successivamente, il colonialismo francese si svilupperà in modo collaterale e subordinato a quello inglese, occupando gli spazi vuoti lasciati da questi (vedi in merito Boris Kagarliski, From Empires to Imperialism: The State and the Rise of Bourgeois Civilisation). La “borghesia” ovvero le classi dominanti francesi , aveva promosso quelle trasformazioni rivoluzionarie dell’esercito, dello stato e dell’organizzazione complessiva della società dirette ad un accrescimento di potenza, in breve tutte quelle trasformazioni interne anche radicali, spinta dal conflitto con l’Inghilterra (una dinamica messa in luce da una delle correnti di ricerca storiche più interessanti del dopoguerra, vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Con la sconfitta storica di Napoleone le classi dominanti francesi (anzi, complessivamente l’intera società francese) perdono la “spinta rivoluzionaria” e mirano allo status quo al fine di un’entente con l’Inghilterra. Questo comporta una frattura con le classi popolari che le classi dominanti si erano tirate dietro nel tentativo di vincere il conflitto con l’Inghilterra. Inizia così la frattura tra nazionalismo rivoluzionario e socialismo rivoluzionario messa in luce da James H. Billington. Negli stessi anni il movimento rivoluzionario democratico tedesco, sulla scia dei movimenti rivoluzionari innescati in tutta Europa dalla Rivoluzione francese, che era la spinta ad adeguarsi al modello dello stato francese, e che aveva prodotto, con Kant, Fichte, Hegel, una versione tedesca dell’Illuminismo, spinge per la modernizzazione della Germania, ma è troppo debole per conseguire degli obiettivi senza l’appoggio dei movimenti rivoluzionari francesi, questo già basta per far capire che il movimento tedesco non poteva essere solo “nazionale”.

Ecco come Marx riassumeva il contesto politico nel 1849 quando si era già consumata la sconfitta del movimento rivoluzionario sia in Francia che in Germania:

 

Il paese che trasforma intere nazioni in suoi proletari, che tiene stretto tra le sue braccia gigantesche tutto il mondo, che col suo denaro ha già una volta fatto fronte alle spese della restaurazione europea, in seno al quale gli antagonismi di classe si sono spinti alla forma più marcata e più sfrontata, l’Inghilterra insomma, sembra lo scoglio contro cui s’infrangono le onde della rivoluzione, fa morir di fame la nuova società già nel grembo materno. L’Inghilterra domina il mercato mondiale. Un sovvertimento della situazione politico-economica in ogni paese del continente europeo, su tutto il continente euro­peo, senza l’Inghilterra, è una tempesta in un bicchier d’acqua. La situazione dell’industria e del commercio all’interno di ogni nazione sono dominate dal commercio con le altre nazioni, sono condizionate dal loro rapporto col mercato mondiale Ma l’Inghilterra domina il mercato mondiale, e la borghesia domina l’Inghilterra

E la vecchia Inghilterra verrà abbattuta solo da una guerra mondiale, l’unico evento che può offrire al movimento inglese organizzato dei lavoratori l’occasione per riuscire a ribellarsi vittoriosamente contro suoi giganteschi oppressori…Ogni guerra europea in cui si trova ad essere coinvolta l’Inghilterra, è una guerra mondiale…La guerra europea è la prima conseguenza della vittoriosa rivoluzione operaia in Francia. Come ai tempi di Napoleone, l’Inghilterra sarà alla testa delle armate controrivoluzionarie, ma la stessa guerra la spingerà alla guida del movimento rivoluzionario, e così pagherà le sue colpe contro la rivoluzione del XVIII secolo. Insurrezione rivoluzionaria della classe lavoratrice francese, guerra mondiale: questa è la dichiarazione dell’anno 1849. (K. Marx, Il movimento rivoluzionario, Neue Rheinische Zeitung, 31 dicembre 1848)

Questo passo è assolutamente cruciale per comprendere la nascita del comunismo marxiano. Con la sconfitta di Napoleone che segna la vittoria definitiva dell’Inghilterra nel secolare conflitto con la Francia, diventa impossibile la vittoria di ogni movimento rivoluzionario in Europa che non sia in grado di affrontare la sfida della potenza globale inglese. Quale poteva essere la soluzione? In realtà, ad una sconfitta epocale come quella della Francia napoleonica non c’è soluzione che possa invertire il significato della sconfitta storica. Oppure la soluzione può essere utopica, come il comunismo marxiano che riteneva di aver individuato nel movimento operaio la soluzione al cul-de-sac in cui era finita l’Europa. Il movimento operaio avrebbe ridato slancio al movimento rivoluzionario e avrebbe risolto “dall’interno”, grazie al cartismo (che si rivelerà agli occhi di Marx già dopo qualche anno ben poco rivoluzionario), il problema costituito dallo stra-potere dell’Inghilterra. Il movimento operaio avrebbe messo fine a quei conflitti nazionali che oramai avevano assunto una forma regressiva. Il comunismo, in analogia con il cristianesimo, è stato un’ideologia universalistica di fine impero, soltanto che, a differenza dell’impero romano, di un impero che non c’è mai stato che è morto sul nascere, finito prima di cominciare.

Per comprendere l’avversione ai conflitti nazionali di Marx, che nasceva da un contesto in di una già avvertita decadenza della civiltà europea che cominciava a mostare le prime vistose crepe, prima di andare in frantumi un secolo dopo, leggiamo questo famosi versi iniziali di una poesia di Goethe del 1827 dedicata “Agli Stati Uniti”:

 

America, tu hai una sorte migliore di questo nostro vecchio continente. Tu non hai rovine di castelli né basalti, tu non sei turbata nell’intimo, quando è il momento di vivere da inutili ricordi e futili contese

 

È già presente in Goethe la consapevolezza che la civiltà europea dopo il fallimento del progetto imperiale napoleonico era entrata in crisi ed era in pericolo. (vedi in merito Dominic Eggel, A civilisation at peril: Goethe’s representation of Europe during the Sattelzeit). Le futili contese sono i conflitti tra gli stati europei che non riescono più a stabilire un ordine, ma invece configurano un disordine crescente. Marx ritiene di aver scorto nel conflitto di classe, generato da motivazioni economiche, lo strumento con cui superare questi conflitti, una volta eliminate le motivazioni economiche. È questa una parte del pensiero marxista che è entrata nel senso comune: la guerra è dovuta a motivi economici. In realtà, si potrebbe dire altrettanto unilateralmente che “l’economia è dovuta motivi guerreschi”, oppure che l’economia sia la “continuazione della guerra con altri mezzi” e che l’acquisizione di ricchezza, potenza industriale e finanziaria, sia funzionale e allo stesso prodotto del conflitto tra gli stati. La penetrazione finanziaria e commerciale è uno dei modi con cui sottomettono le nazioni, tuttavia la penetrazione economica non potrà mai andare da sola. “La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas, il fabbricante di F- 15.” (Thomas Friedman)

Una studiosa americana, nativa di Hong Kong, Victoria Tinbor Hui ha scritto un interessantissimo libro, War and state formation in ancient China and early modern Europe, basato sulla comparazione tra la Cina antica e l’Europa moderna, in particolare per quanto riguarda il processo (IV-II secolo a.C,) che dagli “stati combattenti” porta alla nascita della prima dinastia dell’Impero cinese. La comparazione, per quanta possa sembrare ardita, si basa sul fatto che lo stato moderno che oggi noi consideriamo la normalità, prima della storia moderna è stato presente solo in Europa e in Cina, la storia ha visto la prevalenza di imperi e città-stato. Naturalmente, il paragone è da prendere cum grano salis, non necessariamente il “sistema di stati europei (Charles Tilly) avrebbe dovuto sfociare in qualcosa di simile all’Impero cinese o all’Impero romano. Senza attribuire un telos interno alla storia europea, certo è che la conflittualità interna richiedeva una qualche forma di soluzione, che conferisse una maggiore unità alla civiltà europea, ad es. una qualche forma di federazione tra gli stati europei, più adeguata al radicamento che avevano le identità nazionali. La mancata soluzione della conflittualità interna ha avuto come risultato due guerre mondiali e il crollo della civiltà europea.

Su un punto non sono d’accordo con Victoria Tin-bor Hui, tra i motivi per cui Napoleone fallì nel suo obiettivo di creare un “Impero europeo” non vi fu la riluttanza ad utilizzare gli spietati stratagemmi suggeriti da Machiavelli, a somiglianza di Sun Tzu, a causa degli ostacoli morali posti dalla sentita appartenenza ad una comune umanità europea (Sun Tzu sottolinea l’autrice non è il Machiavelli cinese, piuttosto Machiavelli è il Sun Tzu europeo, data la precedenza temporale di quest’ultimo). Napoleone, ricorda l’autrice, affermava di portare sempre con sé Il principe di Machiavelli, tuttavia avrebbe dovuto leggere ugualmente e con attenzione i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (in particolare il capitolo Le repubbliche hanno tenuto tre modi circa lo ampliare), dove è descritta l’astuta politica di alleanze dei Romani in Italia, grazie al quale gli alleati italiani di Roma si trovano intrappolati quando Roma iniziò ad espandere il suo “Imperio”. Questo fu il principale “stratagemma” dei romani dettato dalla loro astuzia e sagacia politica, supportata ovviamente dalla potenza militare, piuttosto che la sola spietatezza. L’impero romano si sviluppò in modo territoriale, nei territori conquistati venivano costruite città e strade, le popolazioni soggiogate venivano incluse, seppur in forma subordinata nella civiltà romana. Il cosiddetto Impero britannico si sviluppò in modo opposti agli imperi classici, in modo non territoriale, nelle terre conquistate in tutto il mondo l’obiettivo non era quelle di includerle in un ordine, quanto piuttosto sfruttarne le risorse. L’imperialismo inglese fu diverso, anzi opposto agli imperi classici. Questa differenza è colta, in una certa misura, anche da Marx, quando osserva che in India, gli inglesi ereditarono dai loro predecessori [invasori] i dipartimenti delle finanze e della guerra, ma trascurarono completamente i lavori pubblici” (La dominazione britannica in India), quei lavori idraulici necessari per un’agricoltura che dipendeva dall’irrigazione.

Napoleone fu un grande stratega militare, ma non uno stratega politico, incline a cercare, e in sintonia anche con “l’accelerazione dei tempi”, la soluzione rapida attraverso il colpo di mano militare, piuttosto che con un’abile e paziente politica di alleanze volta a creare uno stabile blocco politico europeo contro l’Inghilterra, alienandosi in questo modo la simpatia che inizialmente aveva suscitato in tutta Europa il suo tentativo di trasformare l’Europa stessa.

Ecco perché la sconfitta di Napoleone è un turning point nella storia europea, colto, a suo modo, dallo stesso Marx. Nel nuovo contesto i movimenti nazionali cominciano a divergere, da quella che all’inizio voleva essere una comune liberazione dei popoli europei, allo stesso tempo, mentre in un rivoluzionario come Filippo Buonarroti “questione nazionale” e “questione sociale” restano strettamente intrecciate, in seguito il nazionalismo perde il riferimento universalistico verso l’esterno, diventando riferimento esclusivo alla propria nazione, e all’interno diventa sempre più inegualitario perdendo il rapporto con la questione dell’eguaglianza sociale, diventando ciò che intendiamo oggi in termini negativi: il nazionalismo. Fino a quella forma di aberrazione costituita dalla teoria razziale, una forma di degenerazione del nazionalismo, in cui il riferimento esclusivo alla propria nazione viene fissato in termini biologici. Tant’è che si è voluta fare una distinzione tra nazionalismo e patriottismo, nonostante che semanticamente i due termini indichino la stessa cosa, anzi patriottismo conserva un riferimento ai legami di sangue che invece il termine “nazionalismo” non ha.

L’anti-nazionalismo di Marx è da situare e valutare in tale contesto. Marx ritiene di aver individuato nel conflitto di classe la chiave che permetteva di oltrepassare i conflitti nazionali, in quanto “con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse” (Il Manifesto). Qual è la relazione tra conflitto di classe e conflitto inter-nazionale non è chiarito. Anche nell’ipotesi di società senza classi, cosa impedirebbe a due diversi raggruppamenti umani “senza classi” di essere antagonisti riguardo al possesso di determinati territori con un clima migliore, più fertili, più ricchi di risorse ecc.? Per quale motivo la fine dell’antagonismo di classe significherebbe la fine dell’antagonismo fra le nazioni? Si tratta di un atto di fede nel carattere risolutivo del “conflitto di classe”, con cui si realizza un’uscita utopica dai conflitti interni alle nazioni europee che avevano assunto già al suo tempo un carattere regressivo.

Dopo la sconfitta definitiva della Francia, con Napoleone, nel secolare conflitto con l’Inghilterra, il nazionalismo perse il suo carattere progressivo di generale movimento dei popoli europei per diventare movimento di un popolo contro un altro popolo, diventando così uno strumento del balancing of power della potenza inglese. L’inghilterra non temeva i singoli movimenti nazionali quanto una potenza egemone che realizzasse un blocco continentale di stati contro di lei. Londra diventa il collettore dei movimenti nazional-rivoluzionari europei, mentre invece in precedenza lo era Parigi. “Il centro delle aspettative rivoluzionarie in Europa era Londra, dove lo stesso Kossuth rientrò quanto prima. In questa città Mazzini e altri rivoluzionari nazionali fondarono nel 1850 un Comitato centrale democratico europeo. Le sue pubblicazioni erano in francese, ma aveva sotto-comitati di italiani, polacchi, tedeschi, austriaci, ungheresi, e olandesi. Dopo il colpo di stato napoleonico del 1851, gli esuli rivoluzionari dalle aspettative messianiche affluirono in maggior copia ancora a Londra. (J. H. Billington, Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria)

Marx alla fine fu espulso sia dalla Germania che dalla Francia e trovò riparo solo in quell’Inghilterra che aveva individuato quale principale nemico della rivoluzione. In questo contesto che non poteva non determinare una forte contraddizione anche sul piano esistenziale, va compresa la russofobia di Marx. Mentre la politica imperialistica dell’Inghilterra diventava “rivoluzionaria suo malgrado”, tutta il peso della reazione si spostava dalla parte della Russia zarista. Tutta la campagna di Marx contro Palmerston è tesa ad “adeguare la realtà al suo concetto”, cioè al concetto di come la realtà avrebbe dovuto essere: l’Inghilterra non doveva essere più una potenza reazionaria, qual era stata nel confronto con la Francia rivoluzionaria, ma doveva assumersi quel compito che i rivoluzionari tedeschi non erano riusciti a portare a termine, la “guerra rivoluzionaria” contro la Russia che Marx voleva introdurre nel programma dei rivoluzionari tedeschi, in cui svolse un ruolo di primo piano, prima dell’esilio in Inghilterra.

Il fatto che il marxismo sia diventato l’ideologia ufficiale delle due grandi potenze che hanno guidato la rivoluzione anti-imperialista del XX secolo ha fatto sì che non ci fosse interesse a fare chiarezza sulla visione eurocentrica che Marx aveva della Russia e della Cina. Inoltre, Lenin volle presentare il suo anti-imperialismo come in linea con il pensiero di Marx, ma non a caso riportava l’affermazione di Marx che sosteneva di aver “cambiato radicalmente idea sulla questione irlandese” (ritenuta affine alla questione coloniale), la liberazione dell’Irlanda non sarebbe venuta dalla liberazione della classe operaia inglese ma dall’Irlanda stessa. Un radicale cambiamento che non riguardava la sola Irlanda, cambia radicalmente in questi anni la visione complessivamente positiva che Marx aveva avuto della colonizzazione inglese dell’India, come visto in precedenza. Tuttavia se è vero che negli ultimi anni modificò il suo pensiero è difficile trarre dalle sue opere una prospettiva antimperialista o anticolonialista.

La distinzione leniniana di una fase imperialista, diversa rispetto al colonialismo, dovuta alla fase della concentrazione monopolistica del capitale che porta alla scontro mondiale dei capitali che controllano gli stati, ritengo sia finalizzata ad una spiegazione principalmente economica del conflitto mondiale, funzionale alla concezione secondo cui eliminando le cause economiche si sarebbero eliminati anche i conflitti, che fu un’illusione tipica del comunismo storico, da cui non fu esente nemmeno Stalin che non mancava certo di realismo. Già prima della “fase imperialistica” vi fu un conflitto di estensione mondiale, la “guerra dei sette anni” fra Francia e Inghilterra (1756-1763) ebbe portata globale, definita da Churchill la prima guerra mondiale vera e propria. Il “marxismo” non aveva trovato la chiave per la risoluzione dei conflitti. Non è il solo capitalismo che genera i conflitti armati, essi sono stati presenti in tutte le epoche e in tutte le latitudini. La possibilità del conflitto è insito nell’esistenza stessa di individui e gruppi umani distinti. L’unica possibile soluzione è politica, attraverso un accordo politico che evita la degenerazione del conflitto in conflitto armato.

Lenin con il suo anti-imperialismo aveva effettuato nell’ambito del marxismo un cambiamento di paradigma che reintroduceva la “questione nazionale” volendo però sempre restare nel solco dell’”ortodossia marxista” e lasciando quindi molti problemi irrisolti, in particolare riguardo al rapporto tra stato e questione nazionale. L’eredità anarchica del comunismo che mirava all’“estinzione dello stato” (che Lenin riprende, è una mia interpretazione perché funzionale alla necessità di demolire lo stato zarista) fu uno dei motivi per cui in Unione Sovietica non si ebbe mai una vera e proprio teoria che guidasse la creazione di un proprio stato per cui non si uscì mai dallo “stato di eccezione” seguito alla rivoluzione sovietica (in merito Domenico Losurdo ha scritto delle pagine molto interessanti).

Quella di Lenin fu una soluzione solo a metà della “questione nazionale” essa si applicava solo ai movimenti di liberazione nazionale nei paesi sottoposti all’imperialismo, tuttavia delle questioni nazionali continuavano a porsi anche nei paesi imperialisti (o aspiranti tali) e non potevano essere liquidati come nulle perché toccavano la stessa vita quotidiana delle classi inferiori, come fu il caso della Germania dopo la prima guerra mondiale, con la questione delle sanzioni punitive imposte dalle potenze vincitrici che avevano effetti devastanti sulla vita delle classi popolari.

Heinrich Laufenberg fu un importante leader del movimento operaio tedesco a cavallo della prima guerra mondiale. Prima nella Spd e successivamente nel Kpd, fu un oppositore della guerra, e leader della “rivoluzione di Amburgo” negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Fu criticato duramente da Lenin in Estremismo, malattia infantile del comunismo, che attaccava le “madornali assurdità del ‘bolscevismo nazionale’ (Laufenberg e altri), che nell’attuale situazione della rivoluzione proletaria internazionale si è spinto fino al blocco con la borghesia tedesca per una guerra contro l’Intesa”. La critica di Lenin è stata generalmente considerata nel movimento comunista come prova inconfutabile: la posizione di Laufenberg era sbagliata. Ma questo vuol dire considerare Lenin come un capo infallibile, mentalità propria dei movimenti religiosi, e vuol dire incapacità di imparare dai propri errori. Anche i più grandi soccombono all’illusione storica: Lenin riteneva inizialmente la rivoluzione sovietica il preludio ad una “rivoluzione comunista mondiale” e il blocco proposto da Laufenberg andava in direzione opposto ad una rivoluzione simil-sovietica in Germania. Certo, questo vuol dire giudicare con il senno di poi, ma rinunciarvi vuol dire rinunciare ad impare dall’esperienza storica. Quando i comunisti si avvidero che così non era, cambiarono posizione. Radek segretario per un breve periodo, esecutore per conto del Comintern dell’espulsione dal Kpd di Laufenberg adottò le stesse posizioni di Laufenberg, fu successivamente rimosso da segretario del Comintern. Radek arrestato a Berlino nel 1919, ricevette un trattamento di favore, gli fu assegnato in carcere un ampia camera e addirittura un segretario, e gli fu consentito di mantenere le relazioni con il governo sovietico. Il che testimonia che c’era la volontà da parte delle classi dominanti tedesche a un’alleanza con l’Unione Sovietica contro il Trattato di Versailles.
A ragion veduta la posizione di Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim duramente criticata da Lenin era quella giusta. Ancora una volta un tragico errore dei comunisti riguardante la questione nazionale. Alle classi popolari, per l’opposizione alle sanzioni, che per loro significava letteralmente la fame, non restava che rivolgersi ai nazisti. Da qui l'”enigma del consenso” al nazismo che andò ben oltre la classe media se si pensa alla composizione sociale delle Sa (successivamente liquidate dalle Ss). Consenso che diviene meno enigmatico se si ha il coraggio di guardare in faccia ai propri errori.

Ugualmente in Italia, il giusto rifiuto della partecipazione alla prima guerra mondiale (il primo atto del crollo della civiltà europea) si trasformò in un pacifismo e in un anti-nazionalismo astratti, incapaci di differenziare le posizioni e di capire laddove si pone una schietta questione nazionale, rispetto al nazionalismo aggressivo, astrattezza che non poteva non essere vista come anti-nazionale e quindi contro anche gli interessi delle classi popolari che appartengono ad una determinata nazione. Cito qui da un articolo di Domenico Moro, tra i pochi marxisti ad avere conservato il raziocinio, che invita a esaminare agli errori storici con l’auspicio che ciò possa essere di aiuto a non commettere sempre gli stessi errori. “Contrariamente a quanto si può pensare, la massa gli ex combattenti era inizialmente tutt’altro che favorevole al fascismo, anzi molti ex combattenti saranno il nerbo della resistenza armata contro le squadre fasciste, come i pluridecorati Emilio Lussu e Ferruccio Parri, il quale successivamente sarà uno dei capi della Resistenza. Tuttavia, il partito socialista e poi il partito comunista fallirono nel compito di stabilire un rapporto con questo importantissimo settore della società dell’epoca, corteggiatissimo da Mussolini. Il partito comunista, guidato da Bordiga, rifiutò persino di collaborare con gli arditi del popolo. Una scelta criticata da Gramsci al Congresso di Lione del 1926: ‘Questa tattica [quella di Bordiga relativa agli arditi del popolo] (…) servì d’altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi’. Anche per queste ragioni i partiti operai non riuscirono a impedire la saldatura in un unico blocco sociale di piccola borghesia e grande capitale.” (Gli ex combattenti della Grande guerra e l’”orrido” sovranismo piccolo-borghese).

Veniamo all’oggi, dopo il crollo definitivo della civiltà europea con la seconda guerra mondiale, gli stati europei avevano trovato una forma di pseudo-unità sotto l’egemonia statunitense, ma con il crollo dell’Unione Sovietica, dopo l’intermezzo del ritorno del globalismo, e con il ritorno in scena della Russia, e la progressione verso un mondo multipolare, i problemi irrisolti dell’Europa stanno ritornando. Si è già svelato cos’è l’Unione Europea, ovvero l’egemonia tedesca che si appropria delle economie delle altre nazioni europee; si è iniziato con la Grecia, ora si mira all’Italia, che ha già subito una pesante devastazione economica indotta dalle “politiche economiche europee”, poi sarà la volta di altre nazioni, magari della stessa Francia che in questo momento tiene bordone alla Germania. Ci si trova di fronte ad un dilemma: da una parte sarebbe necessaria una politica di alleanze tra le nazioni europee necessaria per affrontare i conflitti che caratterizzeranno il mondo multipolare, dall’altra è necessario difendere l’Italia da un attacco economico che potrebbe essere devastante e ridurla in panne per i decenni a venire, e sconfiggere questa Unione Europea che non è tale, ma è la Germania che devasta economicamente le altre nazioni. L’unica è sconfiggere queste classi dominanti europee nella speranza che rinasca domani un progetto di integrazione europea degno di questo nome. Nell’evitare che l’Italia faccia “la fine della Grecia” che ha dovuto vendere persino gli aeroporti ai “fratelli europei tedeschi”, subendo una devastazione economica che potrebbe metterla in panne per chissà quanto a venire, si pone anche questa volta una schietta “questione nazionale”.

Questi settori globalisti delle classi dominanti sono pericolosi per un altro motivo. Oggi l’Europa non è più in grado di scatenare una guerra mondiale, tuttavia gli “europeisti” sono i principali alleati di quel globalismo che gli Usa hanno ereditato dall’eurocentrismo. Il progetto del dominio mondiale dell’Europa si è spostato negli Stati Uniti. Fortunatamente negli Usa è nata una corrente più pragmatica, un orientamento strategico che ha trovato espressione in Trump, attorno al quale si sta consumando una dura lotta all’interno delle classi dominati statunitensi, che pur volendo conservare il predominio Usa intende farlo tenendo conto della realtà, del fatto che nel mondo esistono altre potenze nucleari, mentre i settori globalisti con la folle Clinton non escludevano un attacco diretto alla Russia.

Per questi motivi è necessario sconfiggere il globalismo. Purtroppo le forze eredi del partito comunista sono state subordinate e funzionali a questo globalismo, con rare eccezioni individuali provenienti dai settori più “leninisti” che pur vogliono rimanere all’interno di un “marxismo” che Marx stesso aveva sconfessato quando affermò, “sorprendentemente”, di “non essere marxista”. Poiché oggi si sente più che mai la mancanza di forze che difendano gli interessi popolari, mentre le vecchie forze politiche e sindacali hanno avuto una fine ignominiosa, e dato il crollo del comunismo storico si impone un nuovo inizio che passa da un’attenta riflessione sulla storia passata.

GLI USA E L’EGEMONIA DISTRUTTRICE a cura di Luigi Longo

GLI USA E L’EGEMONIA DISTRUTTRICE

a cura di Luigi Longo

 

 

L’ambigua ritirata statunitense dalla Siria e il nulla osta dato ad Israele di attaccare le installazioni militari iraniane in Siria hanno come obiettivo di fondo la guerra contro l’Iran.

Propongo, al riguardo, la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci, apparso su il Manifesto del 22 gennaio 2019 con il titolo Israele, licenza di uccidere, perché mette in evidenza il ruolo di Israele e della Nato nelle strategie statunitensi nel Medio Oriente finalizzate alla pianificazione della prossima guerra con l’Iran, per ostacolare il temuto coordinamento tra Russia, Cina e le potenze emergenti (come l’Iran) in grado di mettere in discussione l’egemonia distruttrice degli Usa. La stessa strategia fu realizzata dagli USA per la distruzione della Libia, tramite i loro sicari: Francia, Inghilterra e Italia, con l’uccisione di Mu’ammar Gheddafi.

Così scrissi nel 2015:<< Gli USA nel 2011, tramite la Francia e l’Inghilterra (che avevano ed hanno interessi economici e di accaparramento di risorse energetiche), l’Italia (che oltre a perdere i suoi interessi economici ed energetici doveva e deve svolgere il ruolo di nazione-spazio di infrastruttura militare a disposizione dei comandi USA e USA-NATO) e i miliziani dell’IS, hanno dato la stura alla disintegrazione di una nazione e di un popolo come la Libia. Mu’ammar Gheddafi è stato eliminato per ragioni evidenti e precise: per aver portato la Libia ad essere una nazione superando le divisioni tribali; per averla fatta diventare la nazione sovrana più importante dell’Africa; per aver costruito una strategia di sviluppo non dipendente soltanto dalle risorse energetiche; per le sue azioni politiche ed economiche intraprese in Medio Oriente; per il ruolo svolto nella costruzione dell’Unione Africana (gli stati uniti d’Africa) con obiettivi strategici di autodeterminazione e di costruzione di un polo geopolitico sovrano come il continente africano, con una sua moneta, un fondo monetario africano, una banca centrale africana; per il suo anticolonialismo >>*.

Gli Usa sono una potenza mondiale devastante, distruttrice di popoli e di territori; sono l’emblema di una crisi profonda dell’Occidente che non riesce ad esprimere più un senso della vita, un’idea di rapporto sociale e di sviluppo; altro che contraddizioni: c’è il vuoto! Certo, la vita continua, nonostante tutto, ma si regge su un equilibrio dinamico sociale “sopra la follia” (parafrasando Vasco Rossi).

La mancanza di una idea di sviluppo, di un nuovo rapporto sociale trova la sua ragion d’essere nella fine di un’idea della modernità. Siamo in presenza di uno sviluppo squilibrato sotto tutti gli aspetti (umano, politico, economico, sociale, culturale, scientifico, tecnologico) che ha ridotto la modernità a un nonsense, cioè a quella incapacità di vedere le storture presenti e ad immaginare che, a partire da esse, sia possibile rilanciare una nuova modernità basata su paradigmi diversi proprio a iniziare dalla prima esperienza storica della modernità.

I nostri decisori attuali e passati sono servi volontari e, come tali, non hanno nessun interesse a pensare strategie di cambiamento per ribellarsi al padrone USA (siamo molto al di sotto della dialettica hegeliana del servo-padrone!), con l’unico risultato evidente di portare il Paese (e intendo la maggioranza della popolazione che non decide nulla!) al degrado economico, politico, sociale e culturale.

 

 

* Luigi Longo, Che ci fa l’Islamic state (IS) in Libia? Perché non lo chiediamo agli Usa, in www.conflittiestrategie.it, 2/3/2015.

 

 

 

 

 

 

 

ISRAELE, LICENZA DI UCCIDERE

L’arte della guerra. Dopo che Israele ha ufficializzato l’attacco contro obiettivi militari iraniani in Siria, sui media italiani nessuno ha messo in dubbio il «diritto» di Tel Aviv di attaccare uno Stato sovrano per imporre quale governo debba avere

Manlio Dinucci

 

«Con una mossa davvero insolita, Israele ha ufficializzato l’attacco contro obiettivi militari iraniani in Siria e intimato alle autorità siriane di non vendicarsi contro Israele»: così i media italiani riportano l’attacco effettuato ieri da Israele in Siria con missili da crociera e bombe guidate. «È un messaggio ai russi, che insieme all’Iran permettono la sopravvivenza al potere di Assad», commenta il Corriere della Sera.

Nessuno mette in dubbio il «diritto» di Israele di attaccare uno Stato sovrano per imporre quale governo debba avere, dopo che per otto anni gli Usa, la Nato e le monarchie del Golfo hanno cercato insieme ad Israele di demolirlo, come avevano fatto nel 2011 con lo Stato libico.

Nessuno si scandalizza che gli attacchi aerei israeliani, sabato e lunedì, abbiano provocato decine di morti, tra cui almeno quattro bambini, e gravi danni all’aeroporto internazionale di Damasco, mentre si dà risalto alla notizia che per prudenza è rimasta chiusa per un giorno, con grande dispiacere degli escursionisti, la stazione sciistica israeliana sul Monte Hermon (interamente occupato da Israele insieme alle alture del Golan).

Nessuno si preoccupa del fatto che l’intensificarsi degli attacchi israeliani in Siria, con il pretesto che essa serve come base di lancio di missili iraniani, rientra nella preparazione di una guerra su larga scala contro l’Iran, pianificata col Pentagono, i cui effetti sarebbero catastrofici.

La decisione degli Stati uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano – accordo definito da Israele «la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran» – ha provocato una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente. Israele, l’unica potenza nucleare in Medioriente – non aderente al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece dall’Iran – tiene puntate contro l’Iran 200 armi nucleari (come ha specificato l’ex segretario di stato Usa Colin Powell nel marzo 2015).

Tra i diversi vettori di armi nucleari, Israele possiede una prima squadra di caccia F-35A, dichiarata operativa nel dicembre 2017. Israele non solo è stato il primo paese ad acquistare il nuovo caccia di quinta generazione della statunitense Lockheed Martin, ma con le proprie industrie militari svolge un ruolo importante nello sviluppo del caccia: le Israel Aerospace Industries hanno iniziato lo scorso dicembre la produzione di componenti delle ali che rendono gli F-35 invisibili ai radar.

Grazie a tale tecnologia, che sarà applicata anche agli F-35 italiani, Israele potenzia le capacità di attacco delle sue forze nucleari, integrate nel sistema elettronico Nato nel quadro del «Programma di cooperazione individuale con Israele».

Di tutto questo non vi è però notizia sui nostri media, come non vi è notizia che, oltre alle vittime provocate dall’attacco israeliano in Siria, vi sono quelle ancora più numerose provocate tra i palestinesi dall’embargo israeliano nella Striscia di Gaza. Qui – a causa del blocco, decretato dal governo israeliano, dei fondi internazionali destinati alle strutture sanitarie della Striscia – sei ospedali su tredici, tra cui i due ospedali pediatrici Nasser e Rantissi, hanno dovuto chiudere il 20 gennaio per mancanza del carburante necessario a produrre energia elettrica (nella Striscia l’erogazione tramite rete è estremamente saltuaria).

Non si sa quante vittime provocherà la deliberata chiusura degli ospedali di Gaza. Di questo non ci sarà comunque notizia sui nostri media, che hanno invece dato rilievo a quanto dichiarato dal vice-premier Matteo Salvini nella recente visita in Israele: «Tutto il mio impegno per sostenere il diritto alla sicurezza di Israele, baluardo di democrazia in Medio Oriente».

 

Antonio Maria Rinaldi La Sovranità appartiene al popolo o allo spread?_una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonio Maria Rinaldi La Sovranità appartiene al popolo o allo spread?

www.aliberticompagniaeditoriale.it, Reggio Emilia, pp. 143, € 9,90

 

Questo libro è scritto da Rinaldi in collaborazione con gli altri autori di “Scenari Economici”. Una cospicua parte del libro consiste in contributi (2015-2018) di Paolo Savona sull’euro e sulla nomina dello stesso a ministro del governo Conte. Rinaldi ricorda che “Le scuole economiche italiane, oggi, sono quasi tutte egemonizzate dai bocconiani. Mediocri e ridicoli apprendisti stregoni nel neoliberismo e del rigore. Non dimentichiamoci che questi signori ci hanno regalato Monti e il montismo”; di converso “Questo è un libro al disperato inseguimento della realtà. Disperato, perché in questo Paese sostenere temi economici e politici controcorrente rispetto al main-stream porta a essere bollati con i più svariati epiteti, nessuno dei quali lusinghiero”; malgrado ciò l’obiettivo principale degli autori “è sempre stato quello di vedere veramente attuata la Costituzione in particolare la costituzione economica … Purtroppo l’adesione “distratta” ai Trattati europei da parte di una classe politica che non ha mai compreso in pieno gli effetti di cosa stava facendo in Europa, non ha consentito che quella parte così importante e fondamentale della Carta venisse rispettata”. Poi tutto è cambiato: il pensiero conformista, prono alle élite xenodipendenti (Monti e successori) è stato ridimensionato radicalmente dalle elezioni del 4 marzo. E tesi come quella sostenuta dagli autori sono state sdoganate per decisione popolare.

Sarebbe lungo seguire gli autori nei loro brillanti articoli sui vari aspetti della questione: rinviamo il lettore al libro.

Ma su un paio di temi, generali, occorre intrattenersi.

 

Il primo è la sovranità: che appartenga al popolo è scritto nella Costituzione, tanto sbandierata quanto interpretata ad usum delphini dall’élite e dai giuristi di regime. E quindi la domanda – titolo del saggio è retorica e provocatoria. Aggiungiamo noi che un patriota (a cominciare dagli uomini del Risorgimento) l’avrebbe giudicata un raggiro dello straniero e di italiani abituati a servirlo. Ma c’è di più: dalla cultura dell’ancien regime non è stata messa da parte solo la sovranità del popolo italiano, ma lo stesso concetto di sovranità.

Quanto al primo aspetto non potendosi negare il principio dell’art. 1 (la sovranità appartiene al popolo) se ne sono implementati (dalle élite)  limiti, deroghe ed eccezioni, a cominciare dall’art. 1 stesso con l’esaltare “forme e limiti” costituzionali entro i quali il popolo esercita la sovranità, proseguendo con l’obbligo di conformarsi “alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10), alle limitazioni di sovranità necessarie ad una giusta pace tra le nazioni (di solito si omette di ricordare “in parità con gli altri Stati” – art. 11) e così via. Nel pensiero moderno invece, la sovranità ha il carattere di essere assoluta, cioè di non conoscere limiti, al contrario di tutti gli altri poteri pubblici (tra i tanti V. E. Orlando e Romagnosi); di consistere in un volere sopra lo Stato e il diritto (Sieyès e Von Seydel), onde Stato e diritto (comprese forme, limiti ecc. ecc.) sono tali finchè il Sovrano non esercita il potere morfopoietico abolendo, riformando, abrogando, ecc.; il diritto internazionale si regge sul principio di parità giuridica tra gli Stati par in parem non habet jurisdictionem (v. A. Gentile e Vattel tra i tanti) e così via. Tutte concezioni alla base dello jus publicum europaeum, e gelosamente occultate e ridimensionate dalle élite e dai loro giuristi.

Quanto al secondo aspetto eliminare la sovranità è come pensare di abolire la legge di gravità, o comunque una qualsivoglia legge (o fatto) di natura.

Perché significa cancellare dal mondo il presupposto del comando-obbedienza, fondamento di ogni comunità politica. Ideologie moderne (dal marxismo collassato al pluralismo all’economicismo radicale) lo credono. Ma non risulta al mondo chi vi siano comunità senza comando e senza che alcuni (o pochi) esercitino il potere su tanti. Quando non è all’interno, la sovranità, il cui nocciolo duro consiste nell’unione di un potere di fatto e di un potere di diritto, c’è dall’esterno. Il sovrano c’è (sempre), ma non è il popolo, ma qualcun altro che popolo non è (Stati, multinazionali, poteri forti, chiese): e perfino lo Spread di cui al titolo. E che teme la sovranità del popolo perché è alternativa alla propria. Come scrive Rinaldi il gruppo degli autori “ha solo sostenuto che è la Terra che gira intorno al Sole e non viceversa. Come Galileo Galilei”; hanno demolito gli idola (le derivazioni paretiane) al servizio di precisi interessi.

E se un libro come questo porterà ad un crescere della consapevolezza del dovere dei governanti di fare gli interessi della comunità politica; che la politica serve a questo e che, come scriveva Friederich List l’economia politica è quella che li persegue mentre quella di A. Smith e Say era economia cosmopolitica, il popolo italiano avrà tanto da guadagnare.

Teodoro Klitsche de la Grange

10 domande sulla guerra, di Elio Paoloni

Domande assolutamente ben poste da Elio Paoloni. Sia per il merito delle motivazioni e degli argomenti che le legittimano, sia per il momento scelto. Conoscendo Elio e la sua posata inquietudine, deve averci rimuginato parecchio. Il suo appello ad intervenire sull’argomento è probabilmente il segno di una crescente apprensione riguardo alla situazione e alle dinamiche che stanno avviluppando il mondo, quello a noi apparentemente lontano e quello prossimo, all’interno stesso della nostra casa. I vecchi equilibri stanno rapidamente saltando come pure le prassi e le chiavi di interpretazione che ci hanno guidato e ingabbiato sino ad ora; con essi stanno cambiando stati d’animo e modalità di reazione non solo delle classi dirigenti ma anche di strati sempre più larghi di popolazione. A partire dal secondo dopoguerra le classi dirigenti italiche, più di ogni altra, hanno accuratamente rimosso questi temi. Una pesante cappa di conformismo ha oppresso sino a poco tempo fa quasi inavvertitamente il mondo intellettuale. Eppure il paese in passato ha conosciuto tra i propri figli il capostipite moderno, Machiavelli e ha conosciuto giganti, come Pareto e Gramsci, del realismo politico e della teoria politica. La catastrofe politica della seconda guerra mondiale e la successiva progressiva erosione del concetto stesso di difesa dell’interesse nazionale hanno prodotto una classe dirigente, a partire soprattutto dagli anni ’90, sempre più priva di radicamento identitario, abile a cogliere e vellicare soprattutto le debolezze di un popolo, del tutto incapace di assumere un qualsiasi ruolo attivo nell’agone europeo e mondiale. La condizione perfetta per trascinare nell’inconsapevolezza e nell’impreparazione generale ancora una volta una nazione tra i flutti di un mare geopolitico sempre più intricato. Qualche reazione inizia ad emergere. La fretta frenetica legata all’urgenza e all’accavallarsi degli eventi rischia di spingere a soluzioni forse peggiori, avventuriste e cialtrone, analoghe a quelle che ci hanno trascinato allegramente nella seconda guerra mondiale. Non sono mancate nel frattempo menti fertili e motivate, anche nell’oggi stesso; i più però conoscono l’ostracismo silenzioso, l’omertà e le blindature degli ambienti istituzionali. Italia e il mondo accoglie volentieri l’invito alla discussione di Elio Paoloni. E’ nata con queste finalità. Spera che sia colto negli ambienti cui il sito si rivolge ed anche oltre. Non pretende esclusive nella pubblicazione dei contributi; chiede semplicemente che ci siano trasmessi per fare di questo spazio un terreno concreto di confronto_Buona lettura_Giuseppe Germinario

 

 

10 domande sulla guerra

Diciamo subito che non si tratta qui di introdurre tesi pacifiste: si dà per scontato che chiunque non tragga direttamente vantaggi dalla guerra (non appartenga cioè a quella minoranza che non viene mai direttamente toccata da lutti e rovine) e non sia né fanaticamente indottrinato né patologicamente violento, desidera la pace; parimenti scontato è che questo non ha mai impedito le guerre. Rovesciando la nota formula di von Clausewitz, del resto, sia Carl Schmitt che Michel Foucault ebbero ad affermare che è la politica (la pace) ad essere continuazione della guerra con altri mezzi. Oppure vanno di pari passo, come notava argutamente Thomas Friedman: “La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas, il fabbricante di F- 15”.

 

Partiamo dunque da una incontrastabile verità: la guerra è ineliminabile, con buona pace dei pacifisti d’ogni tempo (non proprio di tutti i tempi dato che per secoli la categoria dei pacifisti non è esistita) i quali fanno bene a cercare di evitare questa o quell’altra guerra – folle chi non lo tenta – ma errano cercando di evitarla ‘ad ogni costo’, a prescindere. Chi davvero vuole la pace neppure la nomina. Prepara la guerra o fa finta di prepararla. “Tutte queste teorie sulla pace universale, le conferenze per la pace, ecc. – notava G. I. Gurdjieff –  non sono che pigrizia e ipocrisia. Se si costituisse effettivamente un gruppo sufficiente di uomini desiderosi di arrestare le guerre, essi comincerebbero a fare la guerra a coloro che non sono della loro opinione. Ed è ancora più certo che farebbero la guerra a uomini che vogliono anch’essi impedire le guerre, ma in un altro modo”.

 

Un terribile amore per la guerra, di James Hillman, si apre con una scena del film sul generale Patton, che passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, il generale esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita». Per Hillman la guerra è una pulsione primaria della nostra specie, dotata di una carica libidica non inferiore a quella delle pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano: l’amore e la solidarietà. Hillman spazza via la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant – risalendo al carattere mitologico di tale ambivalenza: l’inseparabilità di Ares e Afrodite. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt – Hillman ci rammenta la scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – come mostrato dalla contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.

 

Non è il caso di insistere sugli aspetti antropologici, psicologici, sociologici della guerra, benché non si possa fare a meno di considerarli, sia pure di riflesso. Le pulsioni, gli istinti, i condizionamenti che inducono l’uomo alla violenza sono stati abbondantemente sviscerati, compresa quella, apparentemente nobile, della scoperta di sé: La guerra – scriveva Norman Mailer – è la prova di tutte le prove. È in guerra – sostiene – che un uomo va fino in fondo a se stesso e sa veramente chi è. L’idea che la guerra sia una cartina di tornasole per un uomo è antichissima ma la guerra è profondamente cambiata e, vivendo una fase di guerra per bande su scala planetaria, si partecipa in effetti a molti conflitti e forse – più o meno consapevolmente – lo stiamo già facendo, senza sottoporci, per ora, ad alcuna prova. Tuttavia l’alpinismo, o l’apnea profonda, potrebbero costituire un test meno pernicioso.

Per Erich Fromm la guerra reca vantaggi anche alla salute morale di una nazione: risveglia i valori di altruismo e di solidarietà… porta in luce i sentimenti essenziali… con la presenza della morte, dà un enorme valore alla vita… sarebbe molto utile nella nostra società in cui impera la crisi di identità e nella quale – a causa dell’impossibilità della guerra dovuta alla deterrenza nucleare – assistiamo all’aumento di criminalità, suicidi, problemi della droga e nevrosi. Salutare, insomma, come certe malattie, dopo le quali riscopriamo la bellezza della vita e l’importanza dei valori. I morti tuttavia non riscoprono un bel nulla.

 

Questa ricognizione tralascia in ogni caso l’atteggiamento del singolo violento o indottrinato, che non si rende conto quasi mai delle conseguenze delle sue azioni. E’ stata anche indagata, a dire il vero, la somiglianza tra i comportamenti del singolo e quelli di un organismo complesso. Ma si tratta del comportamento delle masse – che amplifica proprio le pulsioni più distruttive – quello descritto da Joseph de Maistre ne Le serate di San Pietroburgo: “L’uomo, colto all’improvviso da un furore divino, estraneo all’odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza sapere quel che vuole e nemmeno quel che fa. Che cos’è dunque questo terribile enigma? Niente è più contrario alla sua natura e nulla gli ripugna di meno: compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire. Non avete notato che sul campo di morte l’uomo non disubbidisce mai? Potrà massacrare Nerva o Enrico IV; ma il più vergognoso tiranno, il più insolente macellaio di carne umana non sentirà mai pronunciare sul campo di battaglia la frase: Non vogliamo più servirvi. L’angelo sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo e non lascia respirare una nazione se non per colpirne altre”. In effetti la jacquerie fu una rivolta contro il fisco, non contro la leva.

 

Nel suo carteggio con Freud sulla necessità di evitare la guerra, Einstein citava i mezzi con i quali una minoranza può asservire alla propria cupidigia le masse (scuola e stampa innanzi tutto) ma era incredibilmente perspicace – e controcorrente – anche nell’individuare il bersaglio più facile: non le masse incolte bensì la cosiddetta “intellighenzia” che cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata. Stigmatizza proprio quello che oggi viene da più parti definito ‘ceto medio semicolto’. Più pessimista – o realista – Freud non credeva alla possibilità di evitare le guerre. Non lo riteneva, in fondo, neppure auspicabile: Le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Ma sa anche che i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano. Un altro che credeva a una qualche utilità delle guerre, o almeno alla loro inevitabilità.

 

Per Julien Freund l’uomo può cambiare vita ma non cambiare la vita. Conducendo vita pia sul piano privato può sottrarsi al male (o al demoniaco) ma non può sconfiggere, sul piano pubblico, la vita stessa, ovvero l’impulso vitale volto all’accrescimento del potere: “Questo impulso di vita, nulla può esorcizzarlo, né una contabilità di tutti i morti di tutte le guerre, né i dipinti dell’orrore delle rivoluzioni”.

Ecco, questo termine così neutro, contabilità, è il denominatore degli interrogativi che seguono. Domande che riguardano pragmaticamente proprio l’utilità, ovvero gli aspetti economici e il rapporto costo/benefici, anche applicato, brutalmente, alle perdite umane. In particolare la soglia di perdite e distruzioni che i decisori ultimi si prefiggono nel momento di intraprenderla. E soprattutto il reale vantaggio che ne trae il paese vincitore ovvero la valutazione più difficile da farsi. La famosa definizione della guerra come ‘levatrice della storia’ presuppone un andamento lineare della storia, pur con temporanei arretramenti e deviazioni, in un progresso costante. Il nostro mondo è migliore di tutti quelli precedenti, sostengono tutti, tranne, a volte, gli sconfitti. Non vi è mai controprova, naturalmente. Ma anche ammesso che questo mondo sia migliore, chi ci dice che non avrebbe potuto essere ancora migliore senza la guerra che lo ha creato?

Nella storia non esiste possibilità di comparazione, purtroppo: l’ucronia è roba da romanzieri, non da storici.

Per gli storici – scriveva Elias Canettile guerre sono come sante: esse, simili a temporali utili o inevitabili, irrompono dalla sfera del sovrannaturale nell’ovvio e comprensibile corso del mondo. Io odio il rispetto degli storici dinanzi a una cosa solo per il fatto che è avvenuta, i loro criteri falsi, a posteriori, la loro impotenza che striscia dinanzi a ogni forma di potere.

Diversi storici – per amor del vero – hanno provato a riflettere sul “se invece”. Se un banale episodio può cambiare il corso di una vita, come in Sliding doors, figuriamoci una guerra. Non sarà scientifico supporre cosa sarebbe successo se avesse vinto Hitler (un classico) ma chiederselo è un’esigenza umanissima e potente. E’ ovvio che le narrazioni riguardanti il capovolgimento del corso delle guerre risultino più avvincenti. Ma sarebbe ben più utile immaginare cosa sarebbe successo se le guerre, molto semplicemente, non fossero state combattute. E’ possibile? E quanto è possibile avvicinarsi a quella che sarebbe stata la realtà senza quella guerra? Non è semplice curiosità, fatuo arzigogolare: riguarda in fondo proprio la possibilità di una valutazione razionale della lotta. Chi stila una dichiarazione di guerra deve pur avere in mente degli scenari.

 

La definizione futurista (sola igiene del mondo) mi è sempre sembrata stupida: se darwinianamente in guerra muore il più debole, si tratta della frangia debole del settore in ogni caso più forte: giovane, sano, dotato di abilità. Troviamo infatti del tutto naturale che a crepare sia il meglio della popolazione, gli unici che potrebbero davvero essere utili anche nella ricostruzione. E’ stata un’amica a farmelo notare, con buon senso tipicamente femminile. Perché piangere sulla morte dei vecchi e degli invalidi? E quei fior di giovani? Sono veloci, resistenti, manipolabili: ovvio che siano loro a dover essere spediti in battaglia. Ma a qualcuno è venuto mai in mente di mandare avanti un reggimento di vecchiardi? La Vecchia Guardia di Napoleone non fa testo, era una riserva, un corpo pretoriano.

Anch’io però, devo confessarlo, sono vittima dell’ipocrisia che porta a compiangere le vittime civili, categoria che ormai comprende solo vecchi e bambini, dato che le soldatesse (ammesso che desinenze del genere siano ancora consentite) hanno ottenuto – a partire dagli Stati Uniti – la facoltà di recarsi in prima linea, cancellando l’irragionevole discriminazione che permetteva loro di accoppare solo per interposto guerriero. Dal secondo conflitto mondiale, in effetti, assistiamo alla guerra totale, nella quale la popolazione viene coinvolta direttamente nella guerra (terroristicamente, con bombardamenti privi di qualsiasi interesse bellico) mentre in precedenza veniva coinvolta sì pesantemente ma solo dopo – o durante – la conquista di territori.

In ogni caso la Grande Guerra dette un’energica sfoltita anche agli esponenti del movimento futurista e Boccioni, prima di morire, fece in tempo a coniare l’equazione guerra=insetti+noia. Io mi sarei tenuto un gigante come Boccioni e avrei lasciato al nemico parecchie ettari di pietraia insieme ai tirolesi, che dobbiamo pure ricoprire d’oro. Così, a proposito di costi/benefici.

 

Vero è che la pulizia bellica serve a regolare l’equilibrio tra popolazione e risorse, anche se le nuove tecniche di coltivazione e allevamento smentiscono Malthus e i suoi nipotini. D’altro canto ogni paese spera che la diminuzione della ‘domanda’ avvenga a scapito dell’avversario. Nessuno troverebbe opportuno ridurre la propria di popolazione. Almeno in passato: oggi ormai la maggior parte dei conflitti è scatenata da una categoria di persone prive di reali radicamenti su un territorio, cosmopoliti di fatto, stranieri anche a se stessi, incapaci di patriottismo o di empatia con qualsivoglia popolo.

Di sicuro quella frase va riferita allo spazzar via istituzioni fatiscenti per far nascere un uomo nuovo, una società completamente diversa, anche tecnologicamente più progredita. “La guerra ha sempre promosso la mobilità sociale – notava Erich Fromm – infatti le classi dinamiche sono sempre a favore della guerra”. E siamo alle solite: occorrerebbe valutare, caso per caso, se le istituzioni ‘nuove’ nate da questa palingenesi siano state davvero auspicabili. Vi è una forte corrente di pensiero che ritiene aprioristicamente di sì. Io mi permetto di dubitarne ma gradirei il conforto del parere di persone non necessariamente reazionarie. Ambrose Bierce scrisse che Dio usa le guerre per insegnare la geografia alla gente. Qualcuno, di certo, le usa per divertirsi a disegnare cartine geografiche nuove. Onnipotenza 2.0.

 

Non prenderei in considerazione le rivoluzioni: scatenate da una classe sociale, o da un’etnia, hanno obiettivi sufficientemente chiari, per quanto finiscano vittime anch’esse, forse ancor di più, dell’eterogenesi dei fini. I rischi sono valutati con sufficiente accuratezza: cosa si ha da perdere (spesso, come da celeberrimo aforisma, solo le proprie catene), cosa si può ottenere. Le rivoluzioni, come i colpi di stato, riescono o falliscono, non sono soggette ad escalation. L’assalto al Palazzo d’Inverno costò cinque morti, anche se occorrerebbe considerare il lungo strascico contro le armate bianche. La lunghezza della lotta di Mao non fa testo perché spezzettata da guerre e coinvolgimenti diretti di potenze straniere.

 

La domanda fondamentale, a ben vedere, è questa: alea a parte, quanto conta la valutazione realistica e quanto, invece, gli organismi decisionali di un paese (ma anche di una grossa fazione, o di una minoranza, o di una banda criminale) ovvero le élites meno influenzabili, anzi deputate a influenzare, coloro insomma che conoscono bene le conseguenze, coloro che agiscono freddamente, episodicamente o per mestiere, e sanno valutare le probabilità di uscirne indenni, con vantaggio, possono a loro volta essere influenzati da pulsioni inconsce, da riflessi pavloviani, dall’orgoglio, da ogni genere di retaggio?

Carl Schmitt sosteneva che non esistono guerre condotte per motivi puramente religiosi, o puramente morali, o puramente giuridici, o puramente economici. Può sembrare che alcune siano state scatenate unicamente per l’uno o l’altro motivo, ma solo se vi era la possibilità di inserire tali motivazioni in una riconoscibile dicotomia amico/nemico. Distinzione che il giurista tedesco pone alla base di ogni agire politico, come si trattasse di un dato sociologico, ma che ci riporta, in fondo, alla psicologia del profondo.

Esistono dunque decisioni puramente razionali? Normalmente no: nessun individuo è un essere puramente razionale. Esattamente come le folle. Ma gli organismi che di solito decidono le guerre dovrebbero essere in grado di formulare quanto di più vicino a una decisione razionale. Raramente si tratta della decisione di un singolo: anche un dittatore o un monarca assoluto hanno consiglieri, ministri, gran vizir; interpellano generali che hanno conoscenze specifiche; spesso devono tener conto delle valutazioni di sostenitori, finanzieri, boiardi. E’ vero che ognuna di queste figure ha interessi personali – e non solo – da tutelare e che ognuno di loro è condizionato da fattori non razionali, tuttavia l’insieme di queste valutazioni, contemperandosi, dovrebbe condurre – viene da pensare – a una decisione informata, avveduta, logica; di sicuro al male minore.

Succede davvero questo?

 

Qualcuno ha fatto notare che la politica statunitense verso la Russia è stata dettata per decenni dalla russofobia di un ex polacco, Zbigniew Brzezinski e dalla volontà di rivalsa di Madeleine Albright, una cecoslovacca. Sciocchezze? Le decisioni sono in realtà prese da ampi organismi supportati da stuoli di esperti, consulenti, teste d’uovo? Sarà. Ma una cosa che ho imparato – da profano – è che la pervicacia e la furbizia di un singolo ben introdotto nei gangli di comando può determinare qualsiasi evento. La più grave eredità di un marxismo forse malinteso è quella di averci costretto a pensare solo in termini di masse, di forze, di condizioni oggettive: i protagonisti sono solo portati in carrozza da queste forze e ognuno di loro avrebbe potuto essere sostituito. E’ l’opportuno contrappeso a una storiografia affollata unicamente da biografie di re e condottieri, tuttavia, portata alle estreme conseguenze, ha effetti grotteschi. L’Italia del dopoguerra, ad esempio, era affollata da traditori, voltagabbana, vigliacchi e, soprattutto, avidi arrivisti; qualsiasi funzionario messo a capo di un ente pubblico si sarebbe adagiato nel tran tran. Non Enrico Mattei, patriota e grande statista (anche se non si occupò ufficialmente di politica e di governi). In compagnia di un gruppo di gitanti Lenin si impossessò in un batter d’occhio di un paese immenso. E Stalin ne ha fatto una potenza industriale e militare in pochi decenni. Condizioni oggettive? Nel bene e nel male l’abilità di un uomo e soprattutto le sue reali intenzioni, la sua devozione agli interessi della patria, fanno davvero la storia. E viceversa: un vigliacco, un folle, un venduto, possono distruggere una nazione in men che non si dica.

 

Tutti noi abbiamo ben impresse nella memoria immagini spaventose e. soprattutto, numeri spaventosi. Ma poniamo per un istante che a un soggetto avveduto, potente e scaltro, riesca una guerra lampo. Cominciamo col dire che occorrerebbe diffidare delle riuscitissime guerre lampo, spesso seguite da lutti decennali, come ebbero ad imparare Adolf Hitler, Saddam Hussein e poi Bush insieme ai suoi successori. Ma restiamo nel solco delle ipotesi più rosee: chi ci dice che la vittoria sarà un successo? Sembra un gioco di parole ma riguarda l’aspetto cui si accennava sopra: se ogni guerra è levatrice occorre attendersi qualche novità. Chi può assicurarci che saranno ancora importanti le risorse a cui il paese tendeva, magari rimpiazzate da altre conquiste della tecnologia? Non dimentichiamo che mentre ancora si combatteva sanguinosamente per la conquista delle piantagioni di caucciù si iniziavano a produrre i primi pneumatici in gomma sintetica. Come essere certi che i guadagni che una lobby si attendeva non saranno vanificati da variazioni finanziarie, monetarie, legislative? O che le mire della classe sociale che ha appoggiato quella guerra andranno in fumo perché una nuova classe si affermerà in seguito a quella guerra? Ripensiamo a un episodio: per ottenere un po’ di consenso i generali argentini si impossessarono di quattro isolette davanti casa e nel giro di pochi mesi perdettero ogni potere. Certi andazzi fanno venire in mente i versi di una canzone di Enzo Jannacci, “Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale/per vedere come stanno le bestie feroci/e gridare aiuto, aiuto è scappato il leone/e vedere di nascosto l’effetto che fa”. Qualcuno è andato allo zoo per segare davvero le sbarre e ha poi scoperto che quando i leoni scappano non ti puoi nascondere: ti buttano giù le torri, ti accoppano l’ambasciatore, ti sgozzano i giornalisti.

L’eterogenesi dei fini è un fenomeno ricorrente nella storia – come pure in ogni singolo atto quotidiano – ma alla fine di una guerra non è solo ricorrente: è matematico. Questo dovrebbe inibire le smanie di ogni potente, ancor più del rischio di una vittoria di Pirro, con danni e decimazioni tali da impedire qualsiasi trionfo. Ma non succede.

Troppi i fattori da considerare: chi decide cosa è irrinunciabile? Esistono prassi consolidate, naturalmente: ci sono apparati che sanno perfettamente cosa una determinata nazione deve considerare vitale. Non si tratta mai però di un solo fattore, e già decidere la gerarchia di essi è complicato: competenza e capacità di previsione non sono sufficienti. E se ci sono buone probabilità che la guerra asfalti il paese, che senso ha opporsi? Tanto vale salvare delle vite. Non tutti pensano che salvare la pelle sia la cosa più importante, ma a certi livelli non si può davvero immaginare di poter fare la conta per verificare quanti cittadini la pensano così, per cui si torna sempre allo stesso punto: quali saranno le priorità in tempi bellici dei governanti, solitamente eletti in tempi di pace per occuparsi dei bilanci economici e non dei bollettini delle perdite umane?

 

Poniamo allora le domande che tutti si sono posti almeno una volta, sforzandoci di evitare che risultino retoriche. E rammentando che difficilmente sarà un generale a illuminarci: in fondo non sono i militari a prendere la decisione fondamentale (come da ammonimento di Clemenceau: La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari). Neppure un economista avrà le risposte. Perché non può esserci un valore comune, oggettivo, di ‘mondo migliore’. Perché non c’è alcuna possibilità di calcolare l’equivalenza tra il costo di una vita umana e quello di un barile di petrolio, tra la frustrazione di un popolo e due palmi di territorio, tra la vita apparente dei reduci e le rosee prospettive commerciali. Oppure sì?

Difficile trovare risposta a domande che mescolano valori quantitativi a valori qualitativi. Sarebbero necessari gli sguardi di un sociologo, di un teologo, di un moralista, di un ingegnere, di uno storico e di uno storico dell’arte. Certe risposte sono appannaggio forse solo dei filosofi, o di grandi menti non specializzate. Magari dei poeti. Ma un ampio ventaglio di intervistati potrebbe darci di sicuro qualche lume.

 

 

 

 

1 – Quante volte, davvero, i costi economici di una guerra (vinta, s’intende) sono stati sopravanzati dai benefici? Joseph E. Stiglitz ha scritto sull’Iraq che una volta pagato il prezzo di questa guerra, il debito nazionale americano sarà aumentato di tremila miliardi di dollari. Quanto se ne può guadagnare con quel po’ di petrolio in più a buon prezzo a disposizione? Quanto ci guadagneranno le industrie belliche? Ma, soprattutto, quanti di quei soldi saranno pagati dalle industrie beneficiarie – sotto forma di tasse e di occupazione – e quanti invece dal contribuente medio? Si possono contabilizzare i vantaggi derivanti dall’impoverimento degli altri paesi, che avranno meno accesso – o accesso più caro – alle risorse petrolifere? E, soprattutto, queste stime chi è in grado di farle? Già, sono tante domande, però collegate.

 

2 – Il polpo sacrifica i tentacoli per salvarsi, come la lucertola la coda. Accessori che ricrescono. Quanti milioni di euro costituiscono la coda di una nazione? Quanti milioni di cittadini ne costituiscono un tentacolo? Quanti tentacoli può perdere un polpo senza morire? C’è un numero di morti accettabile per un paese? Anzi per un pianeta, visti gli attrezzi disponibili?

 

3 –  Forse il solo indiscusso merito della guerra dei cent’anni è stato quello di fornire agli storici, con la sua cessazione, un comodo spartiacque per indicare la fine del medioevo. Lo sfacelo economico e le sofferenze per la popolazione (in particolare per i sudditi continentali, i cui sovrani potrebbero essere considerati gli ‘aggressori’) sono indescrivibili: 116 anni di saccheggio sistematico, deliberato, ininterrotto; fame, malattia, stupri, degradazione, morte. Il Pangloss di turno opporrà che, nonostante la bancarotta di tutto un continente, alla fine il sistema feudale era stato sorpassato, la Pulzella aveva ricompattato i patrioti francesi (e purtroppo diviso i cattolici, dato che anche i nemici, all’epoca, erano cattolici) e il mondo entrava in una nuova era. Ma non si viveva meglio in un feudo pacifico e florido che sotto un sovrano avido, spietato, lontano? E, ammesso che così non fosse, i vari sovrani impegnati nella contesa hanno mai pensato, per un solo momento, a questi ipotetici – e in ogni caso puramente casuali – vantaggi per il popolo?

 

4 – Si pensa alle guerre come unico motore del progresso. Forse perché le ricerche militari impegnano velocemente grandi risorse nei miglioramenti tecnologici. Ma non basterebbero le gare di Formula 1? O l’industria aeronautica (la cui storia iniziò nel ‘700 per il puro diletto dei nobili) o astronautica (che nasce forse in un orizzonte militare ma è, appunto, orizzonte, non guerra guerreggiata, tant’è che americani e russi nello spazio ci vanno insieme)?

 

5 – Quanto migliore deve diventare un paese per giustificare la distruzione dei tesori d’arte, simboli della cultura e della religione del popolo che ha guerreggiato? Strade e ponti si ricostruiscono, certo, anche più moderni. Forse è per questo che dicono che è un mondo migliore. Magari più somigliante a quello del vincitore. Ma il Senso, l’Identità, la Dignità possono sopravvivere a certe demolizioni? Ammetto che questo aspetto è il meno quantificabile di tutti. Non è questione di numeri: c’è oro (o mucchio di diamanti, visto l’argomento) sufficiente a compensare la demolizione – operata dagli inglesi stessi durante la seconda guerra mondiale – del Crystal Palace di Londra, la prima struttura realizzata completamente in vetro, considerata uno dei più begli edifici mai costruiti, perché le sue rilucenti vetrate erano un pericoloso punto di riferimento per i bombardieri nazisti? O la distruzione del tempio di Gerusalemme, la violazione del Sancta Sanctorum, la sottrazione dell’Arca dell’Alleanza? Anche se, a pensarci bene, qualcuno potrebbe sostenere che la diaspora va vista come un fausto evento, avendo diffuso il genio ebraico nelle varie nazioni.

 

6 – Non è un caso che siano i giovani a dover combattere: tradizionalmente erano le ‘teste calde’, affascinate dall’avventura, desiderose di mettersi alla prova, di sfuggire alla monotonia borghese. Ma sono proprio i giovani, in Occidente, a infoltire le schiere dei movimenti pacifisti. Mollezza dell’Occidente o presa di coscienza?

 

7 – L’impero di Bisanzio, uno dei più lunghi e prosperosi di tutti i tempi, è stato anche quello che ha guerreggiato meno di tutti. Un mix di intimidazione, lusinghe, corruzione di funzionari stranieri, istigazione ai conflitti tra gli altri stati, li ha tenuti lontani da guerre vere per secoli. Possibile che solo i bizantini abbiano avuto questa capacità? Ci sono aspetti irripetibili, esclusivi di quell’Impero?

 

8 – ­Il modo più veloce di finire una guerra è perderla (George Orwell). Pare che così la pensassero gli ammiragli italiani durante la seconda guerra mondiale. Ma nella Grande Guerra, invece, si poteva fare una pace dopo i primi massacri di trincea, quando fu chiaro, come scrisse Mario Praz, che si trattava soltanto di un’agonia di animali in agguato? In quanti hanno capito che nessuno in realtà l’avrebbe ‘vinta’? E non parlo solo dello scarso – e controproducente – bottino italico. O i morti in realtà non contano (almeno finché non si prospetta una rivoluzione, come per la Russia nella prima Guerra Mondiale) e conta solo il ‘non perdere la faccia’?

 

9 – Ogni guerra è disputa di cani sopra un mucchio di croccantini. Inevitabile che ci si azzanni per la razione quotidiana (la razione K) ma alcuni cani vogliono anche un’altra razione. Giusto, è la scorta per domani. Poi c’è quella di dodopomani. Quando le pretese diventano eccessive? Quanto grano, o banane, o rame possono bastare a tenere in vita un paese? D’accordo, le risorse sono limitate per definizione; ciascuno vorrebbe averne l’accesso esclusivo. Ecco la guerra. Ma esiste una linea oltre la quale ci si sta accapigliando per il superfluo. E’ percepibile questa linea a chi aggredisce? Sa che è una guerra immorale? O a un certo punto la nozione stessa di superfluo viene meno?

 

10 – Finora ci siamo occupati di chi ha possibilità di decisione. Ci sono paesi che non hanno molta scelta: subiscono l’aggressione e basta. Forse anche loro avrebbero avuto qualche possibilità di evitarla accettando una razione di croccantini. Il punto è sempre lo stesso: la quantificazione. Quanti rospi si possono ingoiare? La sopravvivenza è accettabile a qualsiasi condizione? Tra le rigorose condizioni di legittimità morale che la Chiesa richiede per la legittima difesa si ritrova questa: “che ci siano fondate condizioni di successo”. Quando i Vietcong iniziarono la lotta pensavano davvero alla vittoria o bastava loro sapere che la reazione all’oppressione era giusta e onorevole, anche se fossero stati annichiliti? Il debole, dunque, deve subito capitolare? Oppure una sconfitta gloriosa (ma anche umiliante come quella di Sedan) potrebbe rinsaldare i sopravvissuti per secoli alimentando il revanscismo fino al riscatto?

IL CONFLITTO STRATEGICO NELLA STORIA DI ROMA.UNA RIFLESSIONE ATTUALE. a cura di Luigi Longo (versione integrale)

Qui sotto il testo integrale curato da Luigi Longo. Coloro che avessero già letto la prima parte del testo e non intendessero rileggerla possono passare direttamente  al testo di Sallustio “la congiura di Catilina” a metà dell’articolo_Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ho ritenuto opportuno presentare alcuni passi* tratti dal testo di Sallustio, La congiura di Catilina (Mondadori, Milano, ventisettesima edizione 2018), preceduti da alcune parti della introduzione di Lidia Storoni Mazzolani (studiosa e antichista, 1911-2006), perché li ritengo una buona riflessione per comprendere meglio la fase storica attuale del multicentrismo con il conflitto strategico tra agenti detentori del potere e del dominio (inteso nella logica gramsciana di coercizione e di consenso) per l’egemonia mondiale.

Ricordo, en passant, che la congiura di Catilina si inserisce nella fase di passaggio, nella storia di Roma, da uno Stato repubblicano ad uno Stato imperiale (dal 70 a.C. al 27 a.C.), caratterizzata da una crisi politica, sociale, economica, istituzionale e culturale, dal conflitto tra agenti strategici (con peso sempre più decisivo della sfera militare come sintesi del blocco dominante), da nuove idee di sviluppo, da nuovi rapporti sociali, da una diversa organizzazione statale e territoriale.

Di fatto la nostra fase storica è una fase di passaggio d’epoca: da una fase di egemonia mondiale statunitense (soprattutto a partire dal 1990-1991 con l’implosione non sorprendente dell’Urss), una sorta di centro di coordinamento mondiale conquistato sia con la prima guerra industriale quale fu quella di secessione (1861-1865) sia con le due guerre mondiali, ad una nuova fase, tutta da definire in termini di sviluppo e di idea di relazioni sociali reali, che vedrà l’affermarsi o di una sorta di centro di coordinamento mondiale condiviso tra le potenze configurate nella fase multicentrica o di un centro di coordinamento assoluto del vincitore del conflitto mondiale tra le potenze consolidate nella fase policentrica (spero nell’avverarsi della prima ipotesi).

La storia del genere umano sessuato [dalla preistoria fino ad oggi ad eccezione di un breve periodo del neolitico con l’autorità femminile (non potere)] va vista come un lungo legame sociale basato sui rapporti di potere e di dominio, che sono le molle del conflitto, derivanti dalle diverse sfere sociali (potere) che compongono l’insieme di una società (dominio) storicamente determinata.

La storia è, a mio avviso, da intendere in maniera aporetica (né lineare né ciclica) nella logica lagrassiana del tutto torna ma in modo diverso.

 

 

*L’impostazione e i titoli dei paragrafi sono miei.

 

 

 

Dall’Introduzione di Lidia Storoni Mazzolani

 

 

La crisi e il cambiamento sociale

 

Sallustio conobbe le leve segrete della politica, le connivenze, le tortuose miserie; ebbe modo di constatare la instabilità d’uno stato che non era più, come lo descrive schematicamente, diviso tra due gruppi d’interesse, i patrizi e la plebe, ma presentava una realtà sociale molto più complessa: dominavano ancora i <<nobiles>>, categoria alla quale si apparteneva per aver avuto uno o più consoli (o comunque alti magistrati) tra gli antenati, ma senza precisa definizione giuridica: essi si trasmettevano led alte cariche di padre in figlio. Ma contava molto anche l’alta finanza, formata di quella classe equestre che, essendo vietata ai senatori qualsiasi attività lucrosa, rappresentava la parte produttiva della società romana: erano appaltatori, banchieri, imprenditori, costruttori, importatori, creatori di società anonime – gente che non aveva le << imagines >> degli antenati nell’atrio della casa né indossava la toga pretesta e i calzari regali, ma praticamente maneggiava le finanze dell’impero, ne promuoveva l’espansione, ne sfruttava le risorse […] Impoverito, il ceto medio declinava e intanto cresceva il peso politico dell’esercito, ormai permanente e quindi finanziato dallo stato, pronto a sostenere il più prodigo, se non il più valoroso, dei comandanti; e aumentava la massa dei disoccupati, perché il fabbisogno di manodopera era saturato dagli schiavi, affluiti in gran numero dopo le conquiste, e c’erano piccoli possidenti vittime di confische e di espropri, e nobili decaduti, e politicanti frustrati, e, infine, un sottoproletariato urbano indolente e facinoroso, pronto a farsi strumento dei peggiori demagoghi: una massa di analfabeti privi di assistenza, di scuole, di educazione civile e politica, che campavano alla meglio con le distribuzioni annonarie gratuite e le regalie, e si davano al mercimonio, alla rapina; tutti sicari possibili, tutti oberati di debiti e assillati dagli usurai.[pag.7]

 

 

La sinistra

 

[…] Appunto perché viveva [Sallustio] in un’epoca di crisi e ne era consapevole, preferì farne oggetto di indagine e di riflessione anziché essere attore. Tedio e chiaroveggenza lo inibivano: a che pro impegnarsi in una competizione, nella quale prevalevano i peggiori? << adoprarsi senza alcun costrutto, farsi cattivo sangue per non accogliere che odio, è pura follia…>> […] Tutto è marcio attorno a lui: ripete mille volte che l’oligarchia senatoriale deteneva in esclusiva un potere che non sapeva esercitare; ma gli uomini della sinistra, i suoi, non valevano di più: sotto i loro slogans umanitari e i programmi innovatori, si celava soltanto il desiderio di arraffare posti lucrosi: furtim et per latrocinia […]. [pp.9-10]

 

 

 

La lotta faziosa tra i gruppi di potere

 

[…] Sallustio contesta tutto il sistema, la politica dei partiti che fa perdere di vista ai contendenti il fine supremo che la storia imponeva a Roma: governare l’impero. Non si tratta di azzannarsi per decidere chi dovrà governarlo, ma piuttosto in che modo si possa far meglio. La faziosità, l’inasprimento della lotta politica provocano sperpero di energie, discredito morale.

I due episodi [la guerra contro Giugurta e il colpo di stato preparato da Catilina, mia precisazione], più che il malgoverno d’una classe di agrari improduttivi, sono significativi di quel malessere sociale, di quel disagio economico e di quel declino morale che, per Sallustio, ebbe inizio con la caduta di Cartagine, nel 146 a.C.; venuta meno la minaccia nemica, ambizione e avidità dilagarono, disunirono gli animi.

Alle riforme promosse da Gracchi, per limitare l’estensione del latifondo senatoriale, basato su territori annessi in guerra, e dare terra ai contadini, il senato si irrigidì nel più miope conservatorismo; ne seguirono condanne, esili, iniquità di ogni genere […]. Il dovere categorico del romano – esercitare degnamente il dominio – era stato accantonato da chi pensava soltanto a sostituire la classe dirigente oligarchica con quella a cui apparteneva. [pp.10-11]

 

 

La rivoluzione dentro il sistema costituito

 

[…] l’autore [non è certo che sia Sallustio a scrivere le due lettere a Cesare, mia precisazione] riflette le istanze dei popolari: vuole la moralizzazione del costume, l’ordine, l’eliminazione di qualsiasi monopolio di potere; vuole che la ricchezza non costituisca un titolo per il potere politico; che le magistrature siano accessibili a tutti, che sia rinsanguato il senato con elementi nuovi e abolito il voto segreto. La plebe urbana, che rappresentava una seria minaccia per l’ordine e la proprietà, propone di sparpagliarla in nuove colonie, mescolandola a elementi di altri paesi: isolato dall’ambiente di Roma, trasferito in un poderetto di sua proprietà, qualsiasi sovversivo diventa conservatore. Era la tesi dei Gracchi, desiderosi di giustizia, non d’un diverso assetto costituzionale; sdegnati per l’ottuso egoismo della classe a cui appartenevano, ma non promotori di un rovesciamento totale delle istituzioni repubblicane. [pag.13]

 

 

Il debito pubblico

 

Cesare agì con molta prudenza, un occhio alle masse e uno ai ceti possidenti: dopo che aveva vinto Pompeo, era la destra a diffidare di lui. Dissipato il terrore che rinnovasse gli orrori del regime sillano, perdurava la paura che adottasse le misure radicali già prospettate da Catilina. La più grave sarebbe stata quella del condono dei debiti. Le ragioni di tutti coloro che avevano motivo di sperarlo le espone un seguace di Catilina, Manlio, con accorata fermezza, in una lettera che Sallustio sembrerebbe disposto a sottoscrivere […] In violazione della legge antica, il pretore urbano, un reazionario, aveva imposto l’esproprio e persino il carcere per gli insolvibili. Cesare decretò che gli interessi già versati fossero detratti dal capitale, alleviando la situazione dei debitori, senza peraltro annullare completamente il debito pubblico [Catilina era per l’abolizione totale del debito, precisazione mia]; ciò avrebbe comportato l’esproprio totale dei creditori, cosa che, secondo Cicerone, in realtà era nei suoi propositi sin da quando congiurava nell’ombra con Catilina: l’insicurezza del proprio avere avrebbe infirmato uno dei principi fondamentali dello stato.[pp.13-14]

 

 

Il governo del mondo

 

[…] Si può essere aperti alle rivendicazioni economiche proletarie senza sovvertire lo stato; si può auspicare il rinnovamento della società e l’abolizione dei privilegi senza rinnegare una tradizione che ha assunto un valore etico perenne; si può condannare lo sfruttamento coloniale senza abdicare alla supremazia: a prescindere dal profitto economico e dal prestigio nazionale, essa era vista come un compito storico, una missione di civiltà. Il pensiero dell’impero prevaleva su tutti gli altri: riforme sociali, rivendicazioni economiche, rivalità di potere, lotta di classe apparivano manifestazioni feconde del vivere libero, a patto che non facessero ostacolo all’adempimento dei doveri primari: difesa e amministrazione delle province. Nella scala delle priorità, la politica interna era subordinata al governo del mondo. Che si potesse raggiungere una nuova stabilità sociale basta su gerarchie capovolte era un’ipotesi che non si poneva se non sul piano dell’utopia. [pp.15-16]

 

 

La plebe strumento dei dominanti

 

Nei due episodi scelti a soggetto delle due monografie [la guerra di Giugurta e la congiura di Catilina, precisazione mia], lo scrittore ravvisò i prodomi dei due grandi sconfitti del secolo: la guerra contro Giugurta aveva messo in evidenza il contrasto di interessi tra classi medie e senato: espansionisti, i primi, per gli investimenti che andavano facendo nelle province; astensionisti, i secondi – come sempre i conservatori – per arginare la ulteriore ascesa del ceto imprenditoriale, gli abusi di potere di comandanti e proconsoli. Dei primi, si fece patrono e portavoce Mario, i secondi, di lì a poco, favorirono una dittatura di destra, quella di Silla.

La guerra civile che ne derivò << sconvolse tutte le leggi divine e umane e giunse a tal punto di violenza che solo la guerra e la devastazione dell’Italia misero fine alle guerre civili >> […] La congiura di Catilina, invece, aveva rilevato la minacciosa presenza di altre forze nella società romana, ancora disperse, ma più numerose, più temibili della borghesia italica: i facinorosi potevano puntare su di esse per impadronirsi del potere assoluto. Bisognava stroncarle con mano ferma, e cercare di appagare, nei limiti del giusto, le loro istanze, se si voleva assolvere a quella missione unica e sovrana che incombeva al governo di Roma: esercitare con giustizia il dominio del mondo. […] La società è guasta; essa contiene in gran numero seguaci potenziali d’un movimento estremista: << la plebe, vogliosa di mutamenti, era tutta per Catilina: è nella sua natura, poiché, in qualsiasi gruppo umano, chi non ha invidia chi possiede e porta ad emergere gli elementi più abbietti…a Roma, come in una fogna, erano convenuti tutti coloro che s’erano segnalati altrove per azioni criminose commesse con imprudenza …c’erano poi i nostalgici del regime sillano. Essi ricordavano bene che alcuni, da semplici gregari, erano saliti ad alti gradi o avevano ammassato fortune tali da potersi permettere un tenore di vita principesco: speravano di potere fare altrettanto, qualora avessero partecipato al colpo di stato. C’erano giovani che avevano percepito salari da fame come braccianti, e s’erano trasferiti nell’Urbe, attratti dalle largizioni pubbliche e private…>> [pp.17-18-30]

 

 

La nazione di etnie diverse

 

[…] Quell’ambiente naturale, quegli odori, quello stile di vita gli saranno [a Sallustio] parsi quelli del villaggio che diventò Roma. La città crudele e opulenta […] era, alle origini, una comunità di aborigeni e di Troiani: di stirpe diversa e d’altra lingua, alieno l’uno all’altro il costume; eppure << incredibile a dirsi, da quella moltitudine eterogenea e dispersa con la concordia fu fatta una nazione >>. [pag.19]

 

 

Il nuovo che viene dall’Oriente

 

Nel 36 a.C., Antonio mosse a sua volta contro i Parti e, in una ritirata disastrosa, perdette venticinquemila uomini. Si ridestavano nel deserto siriano i fantasmi dei caduti di Crasso: << l’Oriente tornerà a dominare >> dice l’oracolo di Istapse << e l’Occidente servirà. Il potere mondiale sarà trasferito all’Asia. Sarà cancellato il nome di Roma >>. […] Mitridate si presentava come il vero antagonista dell’impero romano: << noi >> gli fa dire Sallustio << siamo i rivali di Roma. Saremo immancabilmente i vendicatori >> […] Tale posizione gli derivava dallo stato di inferiorità sociale e di sfruttamento economico nel quale erano tenute le province: << l’Asia ci attende >> prosegue il re di Ponto << e ci invoca: a tal punto hanno saputo farsi odiare i romani con l’avidità dei proconsoli, le estorsioni dei gabellieri, le ingiustizie dei magistrati…>>.

Lo scontento dei provinciali, ammesso da altri autori, riproduce su scala più vasta, l’odio di classe che divampa all’interno; Sallustio, come faranno poi Lucano, Giovenale e Tacito, si associa a quelle proteste: << da giusto e ottimo che era, il governo di Roma è diventato crudele e intollerabile >> […] Non sono le parole di un rinunciatario astensionista, né si tratta di solidarietà umana verso gli oppressi: è apprensione presaga che un giorno quelle genti si uniranno e prenderanno il sopravvento: << ai nemici di Roma >> fa dire al console Filippo << non manca che un capo >>. [pp. 24-25]

 

 

Le maschere e i giochi del potere

 

Catilina avanza sulla scena con la maschera del sanguinario; ma, più che a persuaderci sulla verosimiglianza del suo carattere, Sallustio mira a descrivere in lui l’esempio umano espresso da una società negatrice dei valori morali, il risultato d’una dittatura cruenta. E’ divorato da un’ambizione smisurata, in uno stato nel quale i deboli non sono ascoltai; le cricche nobiliari per quattro volte l’hanno escluso dal consolato: forse, se fosse riuscito, avrebbe proposto e attuato in sede legale rivendicazioni giuste in sé, ma esasperate dalla frustrazione. E’ dominato dall’assillo del denaro, in una società che ha fatto della ricchezza il metro dei valori; un perverso, ma forse reso tale dalle ingiustizie viste e subite. […] La visuale di Sallustio è più vasta, meno legata a voci allarmistiche, a fattori contingenti; il suo assillo profondo è il decline and fall; anche a lui la congiura appare, momentaneamente, un piano criminoso, una minaccia per gli abbienti, e ci tiene a dissociare se stesso e Cesare da quelle rivendicazioni estreme; ma pone l’accento sulla singolarità dell’impresa, che rivela l’inasprimento della lotta politica: per la prima volta un audace, forse più esasperato che scellerato, attentava allo sicurezza dello stato. Sallustio vede in lui il prototipo di tutti gli avventurieri rapaci che pensano di poter osare perché altri aspirano al potere totalitario: dietro di lui, tramano in ombra Pompeo, Cesare, Crasso, uomini senza scrupoli, che si sganciano in tempo e si tengono pronti per il momento propizio. [pp. 29-33]

 

 

Sallustio, La congiura di Catilina, a cura di, Lidia Storoni Mazzolani, Mondadori, Milano, 2018.

 

 

Il potere e il declino della Repubblica

 

Ma come la repubblica, con la tenacia e la giustizia, si fu ingrandita e i re più potenti furono soggiogati e genti barbare e grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu distrutta dalle fondamenta e si erano aperti tutti i mari, tutte le terre, la sorte incominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. Quelli stessi che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, nella tranquillità, nel benessere – beni d’altro canto desiderabili – non trovarono se non angustie e sciagure. La sete di denaro e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse gli uomini all’arroganza, alla crudeltà, alla negligenza degli dèi, alla convinzione che non c’è cosa che non sia in vendita. L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e manifestarne un altro, a considerare amici e nemici non per i loro meriti ma per il vantaggio che potevano ricavarne, a parere onesti più che esserlo.

Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma poi il contagio si diffuse a guisa di pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile. [pp. 93-95]

 

 

Il denaro come mezzo del potere

 

Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia turbava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano da un pregio: alla gloria, infatti, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, i valenti e gli inetti; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la mèta con la frode e il raggiro. L’avidità altro non è che amore del denaro; e il saggio non ne ha desiderato mai. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, snerva il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non l’attenuano né l’opulenza né il bisogno.

Ora, quando Silla si fu impadronito del potere delle armi e ai suoi fasti inizi fecero seguito fatti atroci, tutti si misero a commettere stupri e rapine.

Chi voleva una casa, chi un podere; i vincitori non conoscevano freno né misura e si macchiavano di atti turpi e feroci a danno dei concittadini. Silla, inoltre, per attivarsi il favore delle truppe che aveva condotte in Asia, contrariamente al costume degli avi nostri le aveva trattate con indulgenza eccessiva. L’amenità dei luoghi, i piaceri, l’ozio ben presto fiaccarono lo spirito fiero di quei soldati. Laggiù per la prima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, l’amore e il vino; imparò ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri, vasellame cesellato, e incominciò a portarli via sia dalle case private sia dallo Stato, a spogliare templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono nulla ai vinti. La prosperità corrompe persino l’animo del saggio: potevano moderarsi nella vittoria uomini degenerati? [pp. 95-97]

 

 

Il potere della distruzione

 

Quando i beni di fortuna diventarono un merito e procurarono gloria, potere e prestigio, i valori morali incominciarono a scadere, la povertà fu ritenuta un disonore, l’integrità parve un’ostentazione malevola. Dalla ricchezza derivarono edonismo, cupidigia, tracotanza e si propagarono tra i giovani, i quali si abbandonarono ad atti di violenza, incominciarono a dar fondo al patrimonio della famiglia, a non tenere conto di ciò che possedevano, a volere ciò che apparteneva ad altri, a sovvertire le cose divine e umane, a non aver più modestia e rispetto di sé. Quando si vedono case d’abitazione, ville, costruite a misura di città, val la pena di visitare i santuari religiosi degli dèi edificati dagli avi nostri, i più religiosi tra i mortali; ai loro tempi, il lusso dei templi consisteva nella fede, quelle delle case nella gloria. Ai vinti si toglieva una sola cosa, la possibilità di nuocere. Oggi, al contrario, uomini ignavi, suprema ignominia, portano via ad alleati tutto ciò che i prodi d’un tempo, per essendo vincitori, avevano lasciato: come se esercitare il dominio consistesse nel commettere soprusi. [pp. 97-99]

 

 

 

Il degrado sociale

 

A che citare fatti che solo chi li ha visti potrà crederli veri, semplici privati che spostano monti e colmano mari, quasi, si direbbe, a ludibrio della propria ricchezza, quasi volessero dilapidare oltraggiosamente quei beni che avrebbero potuto impiegare a fini onorati? Si era introdotta in pari misura l’inclinazione a turpi amori, la consuetudine del bordello e di tutti i piaceri del genere: uomini dediti alla prostituzione, donne spudoratamente in mostra, terre e mari esplorati in cerca di vivande rare; si dormiva prima d’aver sonno, non si aspettava la fame, la sete, il freddo e la stanchezza per soddisfarli. I giovani avvezzi a questo tenore di vita, quando le sostanze erano sfumate, si davano ad azioni criminose; l’animo ormai depravato non sapeva rinunciare ai piaceri e non arretrava davanti a qualsiasi mezzo pur di procurarsi denaro da sperperare. [pag. 99]

 

 

La plebe in balia dei potenti

 

In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. Non c’era degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era un indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, non un parricida, un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di giudizio, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse dei suoi.

E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, d’entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri.

Cercava, più di tutto, di attirare i giovani. Le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania; ed egli gli assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. […] Quei giovani che, come abbiamo detto, aveva attirati a sé, li addestrava al malfare in mille modi, a prestare false testimonianze e firme false, a mancar di parola, a non curarsi dei casi della vita e dei pericoli. Quando ne aveva compromesso il buon nome e distrutto il senso d’onore, affidava loro incarichi sempre più iniqui: e se al momento non si presentava l’occasione di delinquere, circuiva innocenti e colpevoli, li dominava e per impedire che nella inattività si intorpidissero l’animo e la mano, preferiva commettere atti malvagi e crudeli senza motivo.

Sicuro di amici e complici di quella risma e per il gran numero di gente oberata di debiti per ogni dove, e perché molti veterani di Silla, dilapidato ogni avere, rimpiangevano le ruberie commesse da vincitori e auspicavano la guerra civile, Catilina concepì il disegno di impadronirsi della repubblica: in Italia, nessun esercito; Cn Pompeo alla guerra, in capo al mondo; lui stesso nutriva molte speranze di ottenere il consolato; il senato non sospettava di nulla; regnava la calma e la sicurezza; la situazione era propizia. [pp. 99-103]

Il conflitto tra potenti

 

Così [… Catilina, mia precisazione] incominciò a chiamare i suoi uno a uno. […] Li mise al corrente dei mezzi di cui disponeva, li informò che la repubblica era indifesa, fece balenare i profitti immensi d’una congiura. Come fu certo di ciò che gli premeva sapere, convoca tutti quelli che si trovarono nelle peggiori strettezze e i più spregiudicati: dell’ordine senatorio […]; dell’ordine equestre [Gli equestri, erano un ordine istituito nel II sec. a.C. Il nome deriva dall’antica organizzazione militare per censo, nella quale gli equites militavano con cavallo proprio, armi a spese proprie; alcuni furono gradatamente assorbiti dalla nobiltà, mentre altri, non riuscendo ad accedere alle cariche, acquistarono coscienza di classe e si posero in antagonismo contro la classe senatoria: questa, che possedeva soltanto terra, esercitava un potere oligarchico ormai inadeguato a un impero mondiale, ricco di forze economiche attive. Gli equites crearono l’alta finanza romana: l’invenzione delle società per azioni (alla quale, attraverso prestanome, partecipavano anche i nobili) consentiva loro di fondare grandi imprese: appalti di lavori pubblici, linee di navigazione, rete daziaria, miniere, edilizia, commercio, trasporti, forniture militari, banche, impianti portuali, era tutto nelle loro mani. La loro posizione politica non si discostava da quella del senato se non in quanto mirava ad allargare la base del governo, ma in sostanza erano altrettanto conservatori, da nota n.12 di pag. 105, corsivo mio] […] e molti altri, infine, venuti da colonie e municipi dove appartenevano alle migliori famiglie. Partecipavano alla cospirazione, ma con maggior circospezione, anche molti nobili, mossi più dalla speranza del potere che dal bisogno o da altri motivi impellenti. Gran parte dei giovani, del resto, specie tra i nobili, simpatizzava per i progetti di Catilina: pur avendo la possibilità di vivere senza pensieri, nel lusso e nei divertimenti, preferivano l’incerto al certo, la guerra alla pace.

Vi fu all’epoca, chi credette che M. Licinio Crasso non fosse all’oscuro del complotto: geloso di Pompeo, che a quell’epoca comandava un grande esercito, vedeva di buon occhio il formarsi d’una forza da contrapporre al suo potere, da qualsiasi parte venisse; qualora la congiura avesse avuto buon esito, del resto, non dubitava che sarebbe riuscito ad assumere il comando. [pp. 103-105]

 

 

La possibilità di ribellarsi

 

[…dal discorso di Catilina, mia precisazione] Da quando la repubblica è caduta in balia d’un pugno di potenti, a loro versano i tributi i re e i tetrarchi, a loro pagano imposte popoli e nazioni; gli altri, noi tutti, coraggiosi, onesti, nobili e non nobili, non siamo stati che volgo, senza autorità, senza prestigio, sottomessi a coloro i quali, se lo stato fosse efficiente, dovremmo far paura. Così, influenze, potere, onori, ricchezze appartengono a loro e a quelli che godono dei loro favori; a noi hanno lasciato sconfitte elettorali, insicurezza, processi, miseria. Fino a quando, o miei prodi, siete disposti a sopportar? Non è preferibile morire da forti che consumare ignominiosamente un’esistenza misera, oscura, fatti zimbello dell’altrui superbia?

[…] C’è un uomo al mondo, un vero uomo intendo, disposto a tollerare che vi sia chi anche dopo aver profuso tesori per edificare sul mare, per spianare i monti, guazza nell’oro mentre a noi manca persino il necessario? Che quelli mettono in comunicazione palazzo e palazzo per abitarvi, e noi non abbiamo neppure un tetto? Per quanto comprino quadri, statue, argenteria cesellata, demoliscano case nuove per costruirne altre, insomma spendano in tutti i modi, ad onta di questi sprechi non riescono mai a esaurire i patrimoni. Noi, invece, a casa siamo nelle strettezze, fuori casa nei debiti; avversità d’ogni genere e un domani ancora più fosco: che cosa ci resta, se non questa grama esistenza? [pp. 111-113]

 

 

L’esasperazione della plebe

 

[ dal messaggio di C. Manlio a Marco Re, mia precisazione] << Chiamiamo a testimoni gli dèi e gli uomini, imperator, che non abbiamo preso le armi contro la patria né vogliamo far male ad alcuno, ma per difenderci dalle ingiustizie: siamo sventurati, stretti dal bisogno. Gli usurai esosi, inesorabili, hanno tolto a molti di noi la patria, a tutti l’onore e le sostanze. A nessun è stato concesso di fruire della legge in base alla quale, secondo l’uso degli avi nostri, chi aveva perduto il patrimonio restava libero: tanta fu la crudeltà degli usurai e del pretore. I vostri antenati, presi da pietà per la plebe di Roma, spesso con i loro decreti vennero incontro ai suoi bisogni; anche recentemente, a memoria nostra, l’entità dei debiti fu tale che, con il consenso di tutti gli ottimati, il debito d’argento fu pagato in bronzo [ Nell’86 a.C., una legge emanata da L. Valerio Flacco aveva ordinato di estinguere i debiti fatti in sesterzi (d’argento) con assi (di bronzo) riducendo così l’ammontare del debito, da nota n.26 di pag.133, corsivo mio]. Spesso la plebe, desiderosa di esercitare il potere o esasperata per la durezza dei magistrati, prese le armi e fece secessione dai patrizi: ma noi non vogliamo il governo dello stato né le ricchezze, che sempre suscitano guerra e conflitti tra gli uomini. […] [pp. 131-132]

 

 

La composizione sociale della plebe

 

E non era sconvolta la mente dei congiurati soltanto. La plebe al completo, avida di cambiamenti, approvava l’iniziativa di Catilina. In questo atteggiamento, non si discostava dal suo costume: nello stato, infatti, chi non possiede nulla immancabilmente invidia i benestanti e porta alle stelle i miserabili; detesta l’antico ordine, agogna alle novità. Esasperati per la loro situazione, mirano a sovvertire ogni cosa; nei torbidi, nei disordini si trovano a loro agio, poiché la miseria rende immuni da perdite. Ma la plebe dell’Urbe, a dire il vero, si precipitava nell’avventura per molte ragioni: prima di tutto, quelli che in altri luoghi s’erano resi tristemente celebri per azioni disoneste e prepotenze, altri che avevano dilapidato vergognosamente i beni di famiglia, infine tutti quelli che avevano dovuti allontanarsi da casa per le malefatte e gli scandali, tutti erano affluiti a Roma come in una sentina. Molti si ricordarono ancora della vittoria di Silla e poiché vedevano alcuni soldati semplice essere diventati senatori, altri così ricchi da passarsela con fasto regale, speravano, se prendevano le armi, di arraffare con la vittoria una situazione analoga; i giovani di campagna, poi, che avevano sofferto la fame per il magro salario del bracciante, attirati dalle largizioni pubbliche e private, avevano preferito l’ozio di Roma alla loro dura fatica: tutta gente che prosperava sulla sventura pubblica. E quindi non c’è da meravigliarsi se uomini miserabili, di cattivi costumi, ma animati da immense speranze, gettavano allo sbaraglio se stessi e la repubblica. Poi, c’erano quelli che avevano avuti i genitori proscritti da Silla e gli averi confiscati: menomati nei diritti civili, non aspettavano certo con animo diverso l’esito della guerra; poi, tutti coloro che appartenevano a correnti [Partes, usato il più delle volte al plurale, può indicare “una parte” e cioè una divisione in classi, in categorie, in gruppi di potere; ma non ha il significato tecnico di “Partito” come s’intende oggi. Alcuni studiosi riconoscono una maggiore frequenza di questo termine riferito ai populares, factio invece ai nobiles…; ma la differenza consiste specialmente nel fatto che partes indica strati sociali più vasti, meno solidali di factio, che significa cricca con interessi e finalità identici. Nota n. 30 di pag. 139] diverse dal senato, pronti a sovvertire lo stato pur di non perdere la propria posizione influente: fu così che dopo molti anni era tornato il male tra i cittadini. [ pp. 137-139]

 

 

L’opportunismo della plebe

 

Dopo che la congiura fu scoperta, la plebe, che prima, desiderosa di rivolgimenti, era tutta per la guerra, cambiò d’avviso e si mise a imprecare contro Catilina e i suoi progetti, a portare alle stelle Cicerone, festosa e giubilante che pareva l’avessero strappata dalla schiavitù; per la verità, dalle altre azioni di guerra s’aspettava profitti più che perdite, ma l’incendio le appariva d’una crudeltà disumana e portatore di danni immensi, dato che possedeva soltanto oggetti d’uso e miseri panni. [ pag.155]

IL CONFLITTO STRATEGICO NELLA STORIA DI ROMA. UNA RIFLESSIONE ATTUALE. PRIMA PARTE a cura di Luigi Longo

 

IL CONFLITTO STRATEGICO NELLA STORIA DI ROMA. UNA RIFLESSIONE ATTUALE.

PRIMA PARTE

a cura di Luigi Longo

 

 

Ho ritenuto opportuno presentare alcuni passi* tratti dal testo di Sallustio, La congiura di Catilina (Mondadori, Milano, ventisettesima edizione 2018), preceduti da alcune parti della introduzione di Lidia Storoni Mazzolani (studiosa e antichista, 1911-2006), perché li ritengo una buona riflessione per comprendere meglio la fase storica attuale del multicentrismo con il conflitto strategico tra agenti detentori del potere e del dominio (inteso nella logica gramsciana di coercizione e di consenso) per l’egemonia mondiale.

Ricordo, en passant, che la congiura di Catilina si inserisce nella fase di passaggio, nella storia di Roma, da uno Stato repubblicano ad uno Stato imperiale (dal 70 a.C. al 27 a.C.), caratterizzata da una crisi politica, sociale, economica, istituzionale e culturale, dal conflitto tra agenti strategici (con peso sempre più decisivo della sfera militare come sintesi del blocco dominante), da nuove idee di sviluppo, da nuovi rapporti sociali, da una diversa organizzazione statale e territoriale.

Di fatto la nostra fase storica è una fase di passaggio d’epoca: da una fase di egemonia mondiale statunitense (soprattutto a partire dal 1990-1991 con l’implosione non sorprendente dell’Urss), una sorta di centro di coordinamento mondiale conquistato sia con la prima guerra industriale quale fu quella di secessione (1861-1865) sia con le due guerre mondiali, ad una nuova fase, tutta da definire in termini di sviluppo e di idea di relazioni sociali reali, che vedrà l’affermarsi o di una sorta di centro di coordinamento mondiale condiviso tra le potenze configurate nella fase multicentrica o di un centro di coordinamento assoluto del vincitore del conflitto mondiale tra le potenze consolidate nella fase policentrica (spero nell’avverarsi della prima ipotesi).

La storia del genere umano sessuato [dalla preistoria fino ad oggi ad eccezione di un breve periodo del neolitico con l’autorità femminile (non potere)] va vista come un lungo legame sociale basato sui rapporti di potere e di dominio, che sono le molle del conflitto, derivanti dalle diverse sfere sociali (potere) che compongono l’insieme di una società (dominio) storicamente determinata.

La storia è, a mio avviso, da intendere in maniera aporetica (né lineare né ciclica) nella logica lagrassiana del tutto torna ma in modo diverso.

 

 

*L’impostazione e i titoli dei paragrafi sono miei.

 

 

 

Dall’Introduzione di Lidia Storoni Mazzolani

 

 

La crisi e il cambiamento sociale

 

Sallustio conobbe le leve segrete della politica, le connivenze, le tortuose miserie; ebbe modo di constatare la instabilità d’uno stato che non era più, come lo descrive schematicamente, diviso tra due gruppi d’interesse, i patrizi e la plebe, ma presentava una realtà sociale molto più complessa: dominavano ancora i <<nobiles>>, categoria alla quale si apparteneva per aver avuto uno o più consoli (o comunque alti magistrati) tra gli antenati, ma senza precisa definizione giuridica: essi si trasmettevano led alte cariche di padre in figlio. Ma contava molto anche l’alta finanza, formata di quella classe equestre che, essendo vietata ai senatori qualsiasi attività lucrosa, rappresentava la parte produttiva della società romana: erano appaltatori, banchieri, imprenditori, costruttori, importatori, creatori di società anonime – gente che non aveva le << imagines >> degli antenati nell’atrio della casa né indossava la toga pretesta e i calzari regali, ma praticamente maneggiava le finanze dell’impero, ne promuoveva l’espansione, ne sfruttava le risorse […] Impoverito, il ceto medio declinava e intanto cresceva il peso politico dell’esercito, ormai permanente e quindi finanziato dallo stato, pronto a sostenere il più prodigo, se non il più valoroso, dei comandanti; e aumentava la massa dei disoccupati, perché il fabbisogno di manodopera era saturato dagli schiavi, affluiti in gran numero dopo le conquiste, e c’erano piccoli possidenti vittime di confische e di espropri, e nobili decaduti, e politicanti frustrati, e, infine, un sottoproletariato urbano indolente e facinoroso, pronto a farsi strumento dei peggiori demagoghi: una massa di analfabeti privi di assistenza, di scuole, di educazione civile e politica, che campavano alla meglio con le distribuzioni annonarie gratuite e le regalie, e si davano al mercimonio, alla rapina; tutti sicari possibili, tutti oberati di debiti e assillati dagli usurai.[pag.7]

 

 

La sinistra

 

[…] Appunto perché viveva [Sallustio] in un’epoca di crisi e ne era consapevole, preferì farne oggetto di indagine e di riflessione anziché essere attore. Tedio e chiaroveggenza lo inibivano: a che pro impegnarsi in una competizione, nella quale prevalevano i peggiori? << adoprarsi senza alcun costrutto, farsi cattivo sangue per non accogliere che odio, è pura follia…>> […] Tutto è marcio attorno a lui: ripete mille volte che l’oligarchia senatoriale deteneva in esclusiva un potere che non sapeva esercitare; ma gli uomini della sinistra, i suoi, non valevano di più: sotto i loro slogans umanitari e i programmi innovatori, si celava soltanto il desiderio di arraffare posti lucrosi: furtim et per latrocinia […]. [pp.9-10]

 

 

 

La lotta faziosa tra i gruppi di potere

 

[…] Sallustio contesta tutto il sistema, la politica dei partiti che fa perdere di vista ai contendenti il fine supremo che la storia imponeva a Roma: governare l’impero. Non si tratta di azzannarsi per decidere chi dovrà governarlo, ma piuttosto in che modo si possa far meglio. La faziosità, l’inasprimento della lotta politica provocano sperpero di energie, discredito morale.

I due episodi [la guerra contro Giugurta e il colpo di stato preparato da Catilina, mia precisazione], più che il malgoverno d’una classe di agrari improduttivi, sono significativi di quel malessere sociale, di quel disagio economico e di quel declino morale che, per Sallustio, ebbe inizio con la caduta di Cartagine, nel 146 a.C.; venuta meno la minaccia nemica, ambizione e avidità dilagarono, disunirono gli animi.

Alle riforme promosse da Gracchi, per limitare l’estensione del latifondo senatoriale, basato su territori annessi in guerra, e dare terra ai contadini, il senato si irrigidì nel più miope conservatorismo; ne seguirono condanne, esili, iniquità di ogni genere […]. Il dovere categorico del romano – esercitare degnamente il dominio – era stato accantonato da chi pensava soltanto a sostituire la classe dirigente oligarchica con quella a cui apparteneva. [pp.10-11]

 

 

La rivoluzione dentro il sistema costituito

 

[…] l’autore [non è certo che sia Sallustio a scrivere le due lettere a Cesare, mia precisazione] riflette le istanze dei popolari: vuole la moralizzazione del costume, l’ordine, l’eliminazione di qualsiasi monopolio di potere; vuole che la ricchezza non costituisca un titolo per il potere politico; che le magistrature siano accessibili a tutti, che sia rinsanguato il senato con elementi nuovi e abolito il voto segreto. La plebe urbana, che rappresentava una seria minaccia per l’ordine e la proprietà, propone di sparpagliarla in nuove colonie, mescolandola a elementi di altri paesi: isolato dall’ambiente di Roma, trasferito in un poderetto di sua proprietà, qualsiasi sovversivo diventa conservatore. Era la tesi dei Gracchi, desiderosi di giustizia, non d’un diverso assetto costituzionale; sdegnati per l’ottuso egoismo della classe a cui appartenevano, ma non promotori di un rovesciamento totale delle istituzioni repubblicane. [pag.13]

 

 

Il debito pubblico

 

Cesare agì con molta prudenza, un occhio alle masse e uno ai ceti possidenti: dopo che aveva vinto Pompeo, era la destra a diffidare di lui. Dissipato il terrore che rinnovasse gli orrori del regime sillano, perdurava la paura che adottasse le misure radicali già prospettate da Catilina. La più grave sarebbe stata quella del condono dei debiti. Le ragioni di tutti coloro che avevano motivo di sperarlo le espone un seguace di Catilina, Manlio, con accorata fermezza, in una lettera che Sallustio sembrerebbe disposto a sottoscrivere […] In violazione della legge antica, il pretore urbano, un reazionario, aveva imposto l’esproprio e persino il carcere per gli insolvibili. Cesare decretò che gli interessi già versati fossero detratti dal capitale, alleviando la situazione dei debitori, senza peraltro annullare completamente il debito pubblico [Catilina era per l’abolizione totale del debito, precisazione mia]; ciò avrebbe comportato l’esproprio totale dei creditori, cosa che, secondo Cicerone, in realtà era nei suoi propositi sin da quando congiurava nell’ombra con Catilina: l’insicurezza del proprio avere avrebbe infirmato uno dei principi fondamentali dello stato.[pp.13-14]

 

 

Il governo del mondo

 

[…] Si può essere aperti alle rivendicazioni economiche proletarie senza sovvertire lo stato; si può auspicare il rinnovamento della società e l’abolizione dei privilegi senza rinnegare una tradizione che ha assunto un valore etico perenne; si può condannare lo sfruttamento coloniale senza abdicare alla supremazia: a prescindere dal profitto economico e dal prestigio nazionale, essa era vista come un compito storico, una missione di civiltà. Il pensiero dell’impero prevaleva su tutti gli altri: riforme sociali, rivendicazioni economiche, rivalità di potere, lotta di classe apparivano manifestazioni feconde del vivere libero, a patto che non facessero ostacolo all’adempimento dei doveri primari: difesa e amministrazione delle province. Nella scala delle priorità, la politica interna era subordinata al governo del mondo. Che si potesse raggiungere una nuova stabilità sociale basta su gerarchie capovolte era un’ipotesi che non si poneva se non sul piano dell’utopia. [pp.15-16]

 

 

La plebe strumento dei dominanti

 

Nei due episodi scelti a soggetto delle due monografie [la guerra di Giugurta e la congiura di Catilina, precisazione mia], lo scrittore ravvisò i prodomi dei due grandi sconfitti del secolo: la guerra contro Giugurta aveva messo in evidenza il contrasto di interessi tra classi medie e senato: espansionisti, i primi, per gli investimenti che andavano facendo nelle province; astensionisti, i secondi – come sempre i conservatori – per arginare la ulteriore ascesa del ceto imprenditoriale, gli abusi di potere di comandanti e proconsoli. Dei primi, si fece patrono e portavoce Mario, i secondi, di lì a poco, favorirono una dittatura di destra, quella di Silla.

La guerra civile che ne derivò << sconvolse tutte le leggi divine e umane e giunse a tal punto di violenza che solo la guerra e la devastazione dell’Italia misero fine alle guerre civili >> […] La congiura di Catilina, invece, aveva rilevato la minacciosa presenza di altre forze nella società romana, ancora disperse, ma più numerose, più temibili della borghesia italica: i facinorosi potevano puntare su di esse per impadronirsi del potere assoluto. Bisognava stroncarle con mano ferma, e cercare di appagare, nei limiti del giusto, le loro istanze, se si voleva assolvere a quella missione unica e sovrana che incombeva al governo di Roma: esercitare con giustizia il dominio del mondo. […] La società è guasta; essa contiene in gran numero seguaci potenziali d’un movimento estremista: << la plebe, vogliosa di mutamenti, era tutta per Catilina: è nella sua natura, poiché, in qualsiasi gruppo umano, chi non ha invidia chi possiede e porta ad emergere gli elementi più abbietti…a Roma, come in una fogna, erano convenuti tutti coloro che s’erano segnalati altrove per azioni criminose commesse con imprudenza …c’erano poi i nostalgici del regime sillano. Essi ricordavano bene che alcuni, da semplici gregari, erano saliti ad alti gradi o avevano ammassato fortune tali da potersi permettere un tenore di vita principesco: speravano di potere fare altrettanto, qualora avessero partecipato al colpo di stato. C’erano giovani che avevano percepito salari da fame come braccianti, e s’erano trasferiti nell’Urbe, attratti dalle largizioni pubbliche e private…>> [pp.17-18-30]

 

 

La nazione di etnie diverse

 

[…] Quell’ambiente naturale, quegli odori, quello stile di vita gli saranno [a Sallustio] parsi quelli del villaggio che diventò Roma. La città crudele e opulenta […] era, alle origini, una comunità di aborigeni e di Troiani: di stirpe diversa e d’altra lingua, alieno l’uno all’altro il costume; eppure << incredibile a dirsi, da quella moltitudine eterogenea e dispersa con la concordia fu fatta una nazione >>. [pag.19]

 

 

Il nuovo che viene dall’Oriente

 

Nel 36 a.C., Antonio mosse a sua volta contro i Parti e, in una ritirata disastrosa, perdette venticinquemila uomini. Si ridestavano nel deserto siriano i fantasmi dei caduti di Crasso: << l’Oriente tornerà a dominare >> dice l’oracolo di Istapse << e l’Occidente servirà. Il potere mondiale sarà trasferito all’Asia. Sarà cancellato il nome di Roma >>. […] Mitridate si presentava come il vero antagonista dell’impero romano: << noi >> gli fa dire Sallustio << siamo i rivali di Roma. Saremo immancabilmente i vendicatori >> […] Tale posizione gli derivava dallo stato di inferiorità sociale e di sfruttamento economico nel quale erano tenute le province: << l’Asia ci attende >> prosegue il re di Ponto << e ci invoca: a tal punto hanno saputo farsi odiare i romani con l’avidità dei proconsoli, le estorsioni dei gabellieri, le ingiustizie dei magistrati…>>.

Lo scontento dei provinciali, ammesso da altri autori, riproduce su scala più vasta, l’odio di classe che divampa all’interno; Sallustio, come faranno poi Lucano, Giovenale e Tacito, si associa a quelle proteste: << da giusto e ottimo che era, il governo di Roma è diventato crudele e intollerabile >> […] Non sono le parole di un rinunciatario astensionista, né si tratta di solidarietà umana verso gli oppressi: è apprensione presaga che un giorno quelle genti si uniranno e prenderanno il sopravvento: << ai nemici di Roma >> fa dire al console Filippo << non manca che un capo >>. [pp. 24-25]

 

 

Le maschere e i giochi del potere

 

Catilina avanza sulla scena con la maschera del sanguinario; ma, più che a persuaderci sulla verosimiglianza del suo carattere, Sallustio mira a descrivere in lui l’esempio umano espresso da una società negatrice dei valori morali, il risultato d’una dittatura cruenta. E’ divorato da un’ambizione smisurata, in uno stato nel quale i deboli non sono ascoltai; le cricche nobiliari per quattro volte l’hanno escluso dal consolato: forse, se fosse riuscito, avrebbe proposto e attuato in sede legale rivendicazioni giuste in sé, ma esasperate dalla frustrazione. E’ dominato dall’assillo del denaro, in una società che ha fatto della ricchezza il metro dei valori; un perverso, ma forse reso tale dalle ingiustizie viste e subite. […] La visuale di Sallustio è più vasta, meno legata a voci allarmistiche, a fattori contingenti; il suo assillo profondo è il decline and fall; anche a lui la congiura appare, momentaneamente, un piano criminoso, una minaccia per gli abbienti, e ci tiene a dissociare se stesso e Cesare da quelle rivendicazioni estreme; ma pone l’accento sulla singolarità dell’impresa, che rivela l’inasprimento della lotta politica: per la prima volta un audace, forse più esasperato che scellerato, attentava allo sicurezza dello stato. Sallustio vede in lui il prototipo di tutti gli avventurieri rapaci che pensano di poter osare perché altri aspirano al potere totalitario: dietro di lui, tramano in ombra Pompeo, Cesare, Crasso, uomini senza scrupoli, che si sganciano in tempo e si tengono pronti per il momento propizio. [pp. 29-33]

 

AVEVA RAGIONE MARX?, di Teodoro Klitsche de la Grange

AVEVA RAGIONE MARX?

Capita di leggere che, a seguito del crollo del comunismo e del crescere del turbo-capitalismo trionfante, il divario tra ricchi e poveri, in particolare nelle democrazie “occidentali”, è aumentato: a meno ricchissimi corrispondono molti più poveri. Ciò sembra una conferma tardiva della “legge” dell’immiserimento crescente, connaturale al modo di produzione capitalistico, che Marx formula nel Capitale[1].

Come è noto tale tesi era successivamente contestata da Eduard Bernstein, il quale fece notare che le predizioni di Marx (e ancora più, dei marxisti) sull’imminente e inevitabile crollo del capitalismo non solo non si erano realizzate, ma vi erano prove evidenti che negli ultimi decenni le condizioni della classe operaia erano notevolmente migliorate sul piano (politico ed) economico.

Al contrario dell’immiserimento di masse sempre più numerose il capitalismo aveva arricchito un numero sempre maggiore di individui. Da qui la necessità non di abbattere, ma di riformare il sistema. Le tesi di Bernstein, come noto, influenzarono e furono seguite dalla prassi della maggior parte dei partiti della Seconda Internazionale.

Il teorico socialista basava le proprie tesi sull’evoluzione del capitalismo ottocentesco: la concentrazione delle aziende non aveva provocato una analoga concentrazione del capitale, ma anzi aumentava il numero dei capitalisti, cioè degli azionisti dell’impresa, dato che queste erano gestite – almeno le più grandi – quasi tutte da società per azioni, così sempre più diffondendo il capitale. L’accrescimento della ricchezza aveva, contrariamente alla tesi di Marx, non diminuito il numero dei magnati, ma aumentato quello dei capitalisti[2].

La correlativa, annunciata, scomparsa dei ceti medi non si era realizzata. A fronte di un incremento della popolazione di un terzo – nei paesi industrialmente più avanzati all’epoca – i ceti medi erano cresciuti di circa tre volte[3]. Le stesse imprese, peraltro  non erano spesso facilmente concentrabili per cui quelle di piccola o media dimensione aumentavano a dispetto delle previsioni del filosofo di Treviri.

Per cui Bernstein ne concludeva che lungi dal provocare la polarizzazione della società in due campi: capitalisti – pochissimi – e proletari – quasi tutti – destinati alla lotta (di classe e politica), la situazione reale che si configurava non era riconducibile ad uno scenario pre-rivoluzionario. Né era possibile prevedere il crollo del sistema capitalistico[4]

Col XX secolo, almeno fino al collasso del comunismo, la tesi di Bernstein, anche grazie all’influenza del movimento socialista, al “compromesso fordista”, allo Stato sociale, era confortata. Invece dell’incremento dei sempre più poveri e della riduzione degli straricchi, a crescere erano le posizioni sociali intermedie.

Col turbo-capitalismo o, come molti preferiscono chiamarlo, col neo-liberismo globalizzatore, pare sia cambiato tutto. La profezia di Marx riprende vigore e Bernstein va in soffitta. È il caso di rifletterci un po’.

  1. Prima di Marx, un acuto pensatore come de Bonald aveva intuito quanto poteva succedere. Scriveva, infatti, a proposito della funzione della nobiltà e della borghesia “È una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale mobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (il corsivo è mio)[5].

Quindi l’alternativa che poneva il pensatore francese è netta: il proprietario di beni immobiliari trova nella natura delle cose stesse e nelle condizioni (culturali e) sociali dei limiti; quello di beni mobili, no. Sul piano semantico se ci sono limiti (per natura o per volontà) l’accrescimento non può essere, ovviamente, illimitato. La possibilità di appropriazione quindi del secondo è enormemente superiore a quella del primo. E così il potere che ne consegue. Aggiungeva de Bonald di non voler valutare il patriziato auspicato dalla de Staël “come istituzione politica, in relazione cioè alla forza e alla stabilità dello Stato; ma sotto il profilo della libertà e dell’eguaglianza, che è quello che la signora de Staël considera, e per cui la preferisce alle antiche istituzioni della monarchia francese”[6].

Anche Fichte notava che, ordinariamente, sono le costituzioni politiche a separare gli uomini [7] e che gli Stati moderni sono le “parti staccate di un tutto anteriore” (le società feudale)[8]. “L’Europa cristiana era come un tutto unico, doveva perciò il commercio degli Europei tra loro esser libero. L’applicazione allo stato presente delle cose è facile a farsi. Se tutta l’Europa cristiana con tutte le colonie aggiunte e le piazze commerciali in altre parti del mondo, è ancora un tutto unico, il commercio tra le varie parti deve restar libero come era una volta. Ma se, al contrario, essa è divisa in stati soggetti a governi diversi, essa deve parimenti esser divisa in più stati commerciali rispettivamente chiusi”. E ne concludeva “Tutti gli ordinamenti che permettono o suppongono il commercio immediato di un cittadino con quello di altro stato … sono avanzi e risultati di una costituzione da lungo tempo distrutta, elementi di un mondo passato, che più non convengono al mondo nostro”[9].

Con questo il filosofo constatava un fatto (la divisione in più Stati) e una necessità (ed auspicio): che la politica dovesse prevalere sull’economia. Ed è questa la sostanza della concezione di Fichte[10].

Come scrive Fusaro la concettualizzazione dello Stato commerciale chiuso di Fichte è “coerente reazione all’egemonia dell’utile (economico) e alla correlata soppressione dello spazio veritativo della filosofia…. Per Fichte, fedele ai principi della Rivoluzione e, ipso facto, nemico del mondo che ne è scaturito, si tratta di contrastare l’egemonia dell’utile e dell’egoismo sfrenato che ad esso si accompagna”[11].

È inutile ricordare che tra i più accaniti sostenitori della distinzione tra economia cosmopolitica (attribuita a A. Smith, J. B. Say) e economia politica (o nazionale) si trova Friedrich List[12].

La concezione del quale è ispirata alla prevalenza del bene comune delle comunità politiche su quello dell’economia globale nel suo complesso.

  1. Se è vero che le economie delle società più sviluppate hanno sofferto della globalizzazione, già prima della crisi, è anche vero che, di converso, quelle dei paesi emergenti ne hanno beneficiato.

Da una statistica – graduatoria degli Stati in base dell’incremento del PIL nel 2017 tra i primi venti (per percentuale d’incremento nell’anno) non c’è un solo paese “sviluppato”, ma ovviamente ci sono India e Cina. A parte l’Islanda e la Romania (comunque al 25° e 26° posto), i primi paesi “sviluppati” li si trova dopo il 55° posto in classifica. Tutti i primi 50, tranne Islanda e Romania, sono “paesi in via di sviluppo”. E se si va a vedere le altre annate, a partire dal crollo del comunismo, la tendenza è quella.

La conclusione è che, se all’economia globale la globalizzazione ha fatto bene, alle economie nazionali talvolta ha arrecato modesti vantaggi, talaltra no. Onde a ragionare secondo il criterio di List (e non solo), occorre conformare la politica economica all’esigenza del benessere (e alla potenza) della comunità nazionale; “mercati”, intesi nel senso corrente, non sono sempre sinonimo di ricchezza crescente. Scriveva List che l’economia cosmopolitica (quella di Smith) “guardando all’umanità e all’individuo, aveva dimenticato la nazione. Mi convinsi di due cose: la prima che era per due nazioni, entrambe sviluppate culturalmente, la libera concorrenza poteva essere benefica soltanto se ambedue si fossero trovate allo stesso grado di sviluppo industriale; la seconda che una nazione, arretrata nel campo industriale,  commerciale e della navigazione, ammesso che avesse i mezzi intellettuali e naturali per sviluppare questi rami, dovrebbe cercare da sola di mettersi in grado di sostenere la libera concorrenza con le altre più progredite. In breve: trovai la differenza tra l’economia cosmopolitica e l’economia politica”[13].

Ovviamente i tempi sono mutati dall’epoca di List, Bonald e Fichte, ma le esigenze alla base dalle concezioni dei tre – pur nelle differenze determinate dai diversi “campi” da questi esplorati  – sono uguali: e che la politica e il bene comune della comunità che questa deve perseguire – deve prevalere sul bene “globale”; e che sia funzione del potere politico quanto meno, introdurre dei correttivi – dei  temperamenti – che concilino gli interessi nazionali con quelli internazionali: le nazioni con l’umanità. La nazione non è l’umanità; i diritti dell’uomo non sono quelli del cittadino; il modo d’esistenza delle comunità è il proprium di ciascuna con i valori cui si ispira (e non è, in larga parte, misurabile).

  1. Tornando alla profezia di Marx, questa è stata falsificata perché comunque l’immiserimento crescente non si è verificato. Tuttavia a ridimensionarla, non è totalmente errata. Ciò per due ragioni: la prima perché contribuisce a una valutazione (realistica); non è detto che ad un’economia (senza limiti e) globalizzata corrisponda una ricchezza crescente per tutti (o quasi tutti). Come in altri tempi la prosperità della Gran Bretagna era (anche) l’altra faccia della miseria dei coolies indiani e cinesi, così oggigiorno al crescente benessere di certi popoli corrisponde un diminuito (o stagnante) benessere di altri. La seconda è che la politica ha corretto l’economia, frenandone (spesso ma non sempre) le conseguenze meno desiderabili. In fondo allo straordinario sviluppo economico del XX secolo ha contribuito in modo determinante il compromesso fordista e le (varie) “terze vie” con le quali si è cercato – riuscendoci – non solo di relativizzare e neutralizzare politicamente il conflitto borghesia/proletariato ma anche di aumentare il benessere e diffonderlo tra masse sempre più numerose. Così integrandole nello “stato sociale”, ovvero nel “secondo tempo” delle democrazie liberali.

Infine appare teoricamente – e praticamente, almeno in parte, realizzato – che la ricchezza mobiliare, in particolare quella (dell’intermediazione) finanziaria e commerciale può crescere in misura enormemente superiore sia a quella del settore primario che, ancorché meno intensamente, anche a quella dell’imprenditoria industriale. E le ragioni per limitare l’accrescimento di potere – e anche la diminuzione di libertà – di quella e i pericoli che comporta per lo Stato borghese – e per i principi di libertà ed uguaglianza, sono evidenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] “Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico” Marx, il capitale, Libro I, “Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica”

 

[2] v. “La forma della società per azioni agisce, in larga misura, in senso contrario alla tendenza alla centralizzazione dei capitali attraverso la centralizzazione delle aziende. Essa permette un vasto frazionamento di capitali già concentrati, e rende superflua l’appropriazione di capitali da parte di singoli magnati allo scopo di concentrare le imprese industriali”. I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, (trad. it. Bari 1974 p. 87.

[3] V. per i dati precisi Bernstein op. cit. p. 89; per cui concludeva “È dunque assolutamente falso ritenere che l’attuale sviluppo indichi una relativa o addirittura assoluta diminuzione  del numero dei possidenti. Il numero dei possidenti aumenta non «più o meno», ma semplicemente più, ossia in senso assoluto e in senso relativo” (il corsivo è mio).

[4] V. “Se la società fosse costituita o si fosse sviluppata secondo le ipotesi tradizionali della dottrina socialista, il crollo economico sarebbe soltanto una questione di breve periodo. Ma come vediamo non è così. Ben lungi dall’essersi semplificata rispetto a quella precdente, la struttura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi sia per quanto concerne le attività professionali” (op. cit. p. 91.

[5] E proseguiva “Ma il lusso segue dappresso la ricchezza, il mercante arricchito poco pressato a vendere, alza il prezzo della propria merce, e costringe così il consumatore a pagare i lussi della Signora e del Signore. Questa è una delle ragioni del rialzo dei prezzi delle derrate in Inghilterra, nei Paesi Bassi e anche in Francia, e dovunque il commercio non ha altro fine che il commercio e dove i milioni chiamano e producono altri milioni.

I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè” V. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Staël …” trad. it. La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 43 – 44.

[6] V. op. loc. cit. p. 45.

[7] v. Lo Stato secondo ragione, trad. it. Milano 1909 p. 68.

[8] e prosegue “Durante l’unità dell’Europa cristiana si è formato, tra le altre cose, anche il sistema commerciale, che dura, almeno ne’ suoi tratti fondamentali, fino ad oggi” op. cit., p. 69.

[9] Op. cit. p.71

[10] “… è in questo: che lo stato si chiuda completamente ad ogni commercio coll’estero, e formi d’ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un separato corpo giuridico e politico”, op. cit. p. 98.

[11] e, poco dopo, afferma “in un’epoca di “compiuta peccaminosità” e di egoismo universale, diventa necessario l’intervento massiccio di uno Stato “commerciale chiuso” che sappia opporsi al cosmopolitismo utilitaristico del mercato e al codice individualistico su cui esso si regge, per far valere l’istanza morale di un comunitarismo solidale nell’epoca della “compiuta peccaminosità” v. L’aporia dello Stato in Fichte, GCSI – Anno 3, numero 5, pp. 122-123.

[12] Il quale, tra l’altro, riteneva che “Tutti gli esempi che la storia ci può presentare dimostrano che l’unione politica ha preceduto l’unione commerciale. Non si conosce nessun esempio dove sia avvenuto il contrario. Ci sono però dei motivi molto forti, e secondo la nostra opinione incontestabili, per far presumere che, nelle attuali condizioni mondiali, la libertà commerciale universale non porterebbe ad una repubblica universale, ma alla universale soggezione delle nazioni meno progredite alla supremazia della potenza preponderante nell’industria, nel commercio e nella navigazione…  l’economia nazionale si presenta come quella scienza che, tenendo conto degli interessi esistenti e delle condizioni particolari delle nazioni, insegna in che modo ogni singola nazione possa essere elevata a quel grado di sviluppo economico giunta al quale l’unione con le altre nazioni ugualmente progredite, – e quindi la libertà di commercio – le risulterà possibile e vantaggiosa. La scuola, però, ha confuso fra di loro le due idee; ha commesso il grave errore di giudicare le condizioni delle nazioni secondo i principi cosmopolitici e di disconoscere, per ragioni politiche, la tendenza cosmopolitica delle forze produttive”, v. F. List Il sistema nazionale di economia politica 8° cura di G. Mori) trad. it. Milano 1972

[13] Op. cit., Prefazione, p. 4.

nuovi paradigmi della sinistra del socialismo, con Andrea Zhok

Italia e il mondo continua ad offrire il proprio spazio a quelle forze e personalità che puntano a superare l’impostazione economicistica dell’azione politica; che cercano quindi di valorizzare la funzione della cooperazione, confronto e del conflitto tra centri politici nei vari ambiti della società. Attraverso questo percorso diventa essenziale la ricollocazione nella società e nell’agone politico del ruolo dello stato , l’analisi delle sue dinamiche interne e la funzione che svolgono i processi identitari  nelle forme particolari di coesione delle formazioni sociali. Con questa intervista Andrea Zhok ci offre il suo punto di vista partendo da un’area politica che sino a non molto tempo fa sembrava avulsa da questi contenuti. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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