PARTENDO DA “UNA CIVILTÀ CHE SI SPEGNE” DI ROBERTO BUFFAGNI: SAM DUNN È MORTO, Di Massimo Morigi

PARTENDO DA “UNA CIVILTÀ CHE SI SPEGNE” DI ROBERTO BUFFAGNI: SAM DUNN È MORTO

Di Massimo Morigi

Su Ucraina e dintorni, in assenza di decisivi e soprattutto significativi sviluppi, mi ero ripromesso di tacere, ma anch’io come Buffagni, la butto lì, tanto le cose sono talmente evidenti, che non varrebbe la pena spendere riflessioni troppo profonde (ma come lo fa Buffagni sull’ “Italia e il Mondo” in “Una civiltà che si spegne” – URL http://italiaeilmondo.com/2022/03/09/una-civilta-che-si-spegne_di-roberto-buffagni/ , Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20220309160039/http://italiaeilmondo.com/2022/03/09/una-civilta-che-si-spegne_di-roberto-buffagni/, ne vale la pena eccome..). Ma anche buttandola lì, si può tangenzialmente rilevare una non irrilevante novità e, senza tanti giri di parole, possiamo semplicemente – ma nient’affatto banalmente – dire che la leggerezza con cui si parla in occasione del conflitto russo-ucraino della possibilità di intraprendere una terza guerra mondiale da combattersi con armamenti termonucleari, non fa altro che essere il segno rivelatore di un degrado culturale che non coinvolge solo i sempre più asserviti e ridicoli organi di formazione della pubblica opinione ma anche il degrado emotivo e cognitivo della popolazione che per atavico istinto e ragionato senso di autoconservazione dovrebbe provare terrore e ripugnanza verso l’eventualità della propria autodistruzione.

In altre parole, le masse sono passate dallo spregevole ma dotato di un minimo buon senso popolare del “meglio rossi che morti” (minimo, perché non era proprio escluso che, proprio in virtù di un conflitto termonucleare, si potesse essere contemporaneamente sia rossi che morti) ad un del tutto delirante “meglio morti che vivi”, un sentimento che rispetto al primo è certamente un netto guadagno dal punto di vista della logica formale ma denotante anche il degrado emotivo e cognitivo di cui si è appena detto. Questo nuovo sentimento popolare che può essere definito una sorta di cupio dissolvi di massa vissuto in una sorta di ipnotica consapevolezza (non è la prima volta che popolazioni e/o masse intraprendono comportamenti autodistruttivi ma è assai raro, se non unico, che questi comportamenti siano consapevolmente assunti, se non nel caso per quei gruppi che per accecamento ideologico abbiano ritenuto la resa come la premessa della propria distruzione, vedi la disperata resistenza della popolazione tedesca durante l’ultimo conflitto mondiale, ma in questo caso si era erroneamente convinti che la sconfitta avrebbe potuto implicare lo sterminio del popolo tedesco, mentre invece nel caso presente nessuno più o meno sano di mente pensa che i russi vogliano il nostro sterminio ma nonostante questo con ipnotica consapevolezza alla vita si preferisce la morte – e sottolineo ipnotica perché anche se dal punto di vista cognitivo ben si comprendono i termini della questione, dal punto di vista emotivo le masse rimangano obnubilate ed intorpidite e prediligono un comportamento con potenzialità autodistruttive ) è certamente una novità per la teoria geopolitica, la quale, per farla breve, oltre a studiare le condizioni fisico-territoriali che condizionano i gruppi organizzati deve anche considerare come questi gruppi culturalmente si pongono al mondo e un dato che finora aveva connotato tutti i gruppi umani e tutte le culture era l’istinto di autoconservazione del gruppo, cosa che in questo caso dell’accettazione di massa della guerra mondiale termonucleare è completamemte venuto a mancare (rarissimi gli esempi di gruppi umani che pur avendo la possibilità di arrendersi per avere salva la vita si danno la morte: suicidio di massa degli Zeloti a Masada, suicidio di massa dei davidiani a Waco, soldati giapponesi nel secondo conflitto mondiale, ma questo è caso particolare: i kamikaze pensavano di svolgere un’azione militare comunque efficace mentre i fanti giapponesi che non si arrendevano, non sempre si suicidavano cercando talvolta di non farsi prendere dal nemico e quando si suicidavano lo facevano o perché ritenevano terribile la prigionia inflitta dal nemico o per un alto senso di onore militare. E notiamo tangenzialmente che preservare il proprio onore militare suicidandosi è sì un gesto autodistruttivo ma, al contempo, amorevole e conservatore della comunità dalla quale provenivano, la quale, in virtù del fortissimo senso comunitario giapponese, tutto può sopportare e a tutto può sopravvivere ma non certo al disonore di essersi comportata vigliaccamente in guerra. E questo non è certo il caso delle pulsioni autodistruttive emerse a livello di massa durante la guerra russo-ucraina dove la distruzione del proprio gruppo è vissuta come un’eventualità quasi irrilevante, come se la nostra morte fosse estranea a noi stessi).

Termino con un invito alla lettura. Nel 1917 il ravennate Brumo Corra (sinonimo del conte Bruno Ginanni Corradini), sodale di Marinetti e futurista della prima ora pubblicò il romanzo “Sam Dunn è morto”. Si tratta di un’opera praticamente introvabile nelle nostre patrie biblioteche ma a conferma del fatto che quello che l’Italia non riesce culturalmente a trattenere e a coltivare spesso lo fanno istituzioni straniere, questa opera, su iniziativa dell’Università del Maryland, è scaricabile presso Internet Archive agli URL https://archive.org/details/mdu-rare-074979/mode/2up e https://ia600704.us.archive.org/12/items/mdu-rare-074979/rare-074979.pdf. Il sottotitolo recita “Romanzo sintetico futurista” e il lucido cupio dissolvi del viveur Sam Dunn e il surreale procedere del racconto, oltre a magnificamente rappresentare lo spirito autodistruttivo del primo conflitto mondiale, sono convinto possa ben fornire elementi per rappresentare e sintetizzare non solo le presenti pulsioni autodistruttive massa di questi tempi ma anche di quelle future.

Mai come oggi la geopolitica per comprendere gli eventi politici e culturali dei nostri giorni deve rivolgere la sua attenzione laddove ha avuto veramente inizio l’ autodistruttiva modernità della mobilitazione delle masse attraverso la travolgente potenza dei mezzi meccanico-tecnici di comunicazione di massa e il “Romanzo sintetico futurista” di Bruno Corra per far condensare e precipitare davanti al nostro teorico sguardo questa nuova mortifera Stimmung, ci è molto più d’aiuto di molti (spompati) autoproclamati geopolitici che oggi solcano gli italici (ed occidentali) mari.

Massimo Morigi – 9 marzo 2022

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Una civiltà che si spegne_di Roberto Buffagni

Intanto la butto lì, poi ci penserò su. L’amputazione dei rapporti anche culturali con la Russia è un errore terribile, che può trasformarsi nel colpo di grazia alla cultura e alla civiltà europee, per quel che ne rimane. Non solo perché la cultura russa ci offre tesori inestimabili, e una continua meditazione dei rapporti tra Russia e Occidente, Asia ed Europa (l’Europa è una propaggine dell’Asia, e nel rapporto conflittuale con l’Asia si è definita).
Certo, anche questo. La cultura russa e la Russia, però, come intuitivamente tutti comprendiamo, sono per noi (anche) un’immagine della della pre-modernità “ingenua”, della “vita sorgente”, della “natura”, della “Kultur”, insomma della “infanzia perduta”. E’ immediatamente evidente a tutti il tratto “infantile” del carattere russo, con la sua vitalità rigogliosa e pasticciona, il suo indomabile coraggio, il suo amore sensuale per la terra, per i miti e le visioni, la sua semplicità, e la sua brutalità.
Russia e cultura russa, insomma, sono l’oggetto di un forte risentimento e di una struggente nostalgia per noi “sentimentali”, per noi moderni, per noi che ci sappiamo scissi dall’infanzia e dalla natura, per noi che sentiamo orgogliosamente e dolorosamente la scissione di coscienza e vita (“l’ingenuo” è una proiezione psicologica del “sentimentale”).
Dalla riflessione filosofica e artistica di questo rapporto tra moderno e antico, “ingenuo” e “sentimentale”, “natura” e “spirito”, Kultur e Zivilization, è nato quanto di meglio la cultura europea ci ha dato negli ultimi due secoli e mezzo, da quando ha cominciato a riflettere sul salto di paradigma della modernità con le correnti di pensiero che usiamo chiamare “Illuminismo” e “Romanticismo”.
Amputare la cultura russa dalla cultura europea equivale a spedire un missile nucleare su Friedrich Schiller, lo Schiller autore dell’ “Inno alla gioia”, che musicato da Beethoven è stato eletto, paradossalmente, a inno dell’Unione Europea.
Schiller è anche autore del più classico dei saggi tedeschi, “il saggio tedesco che rende superflui tutti gli altri” (Thomas Mann): “Sulla poesia ingenua e sentimentale”, cento pagine scritte, non casualmente, nel corso della Rivoluzione francese e pubblicate nel 1795.
Ecco che ci dice Schiller a proposito degli “oggetti ingenui”, ossia dei popoli e culture che noi moderni sentiamo come arretrati, premoderni, nel bene e nel male “infantili”:
“Essi sono ciò che noi eravamo; sono ciò che noi dobbiamo tornare a essere. Come loro noi eravamo natura, e ad essa la nostra cultura deve ricondurci attraverso la via della ragione e della libertà. Sono dunque rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane in eterno per noi la cosa più cara, e per questo ci colmano di una vaga tristezza. E sono nel contempo rappresentazioni della nostra perfezione più alta nell’ideale, e per questo ci donano una sublime commozione.”
(Schiller, “Della poesia ingenua e sentimentale”, 1795)

SOSPENDERE L’USO PUBBLICO DELLA RAGIONE, di Pierluigi Fagan

SOSPENDERE L’USO PUBBLICO DELLA RAGIONE.

La “società aperta” ha deciso di chiudersi. La società liberale va a polarizzarsi nella contraddizione delle sue stesse premesse.

L’ambasciatore italiano a Mosca, lì col chiaro mandato di favorire le relazioni commerciali bilaterali, ha avuto l’ardire di segnalare in una audizione parlamentare, il costo delle sanzioni per le nostre imprese su dati FMI. Un argomento che dovrebbe interessare una democrazia di mercato visto che parla di mercato, no? Dire questo è dire che non si dovevano elevare sanzioni? Credo che un ambasciatore navigato come Starace con un passato in Cina, USA, Giappone sappia qual è il suo limite ovvero dare informazioni, non suggerire decisioni. Ma la società aperta che amava definirsi anche società dell’informazione, ora scopre che le informazioni non piacciono, le informazioni disturbano le decisioni o per lo meno ne ricordano il prezzo. Non c’è nulla di male a sapere il costo delle decisioni, aiuta ad organizzarsi per poterle pagare o si pensa o si vuol far pensare che le decisioni ideali siano libere e gratuite?

Il direttore dell’unico quotidiano di informazioni sulle relazioni internazionali, Sicurezza internazionale, edito dalla LUISS Guido Carli, collegata in vari modi a Confindustria, diretto da un professore ricercatore affiliato al MIT di Boston e che pubblica in USA con la Cornell University, A. Orsini, ha l’ardire di invitare in tv ad inserire ciò che sta avvenendo in Ucraina in una inquadratura più ampia, nello spazio (geografia) e nel tempo (storia). Bassanini domanda nervosamente su twitter se Orsini esprime il pensiero della LUISS o personale di modo che LUISS sia obbligata a ribadire la sua stretta osservanza atlantista facendo una ramanzina al suo professore in pubblico sul fatto che questi si doveva attenere ai fatti e non dare interpretazioni. Già, “i fatti”.

Il giornalista RAI Marc Innaro, una prima volta a Mosca per sette anni, poi di nuovo negli ultimi otto, per aver riferito cosa i russi dicono dei fatti (se sta a Mosca cosa deve fare, riferire cosa dice Zelensky? Quello già lo riferiscono 7/24 sette-reti-sette+stampa e radio) è ora richiesto a gran voce esser spostato ad altro incarico. Magari come mi è capitato di sentire l’altro giorno su RAI News riferisce che i russi affermano di aver convocato l’ambasciatore della Croazia perché i russi avrebbero pizzicato 200 neo-nazi con passaporto croato ed avrebbero affermato che ve ne sono da ogni parte d’Europa e quindi hanno poi affermato che non tratteranno gli stranieri come prigionieri di guerra (il che ha un brutto significato come potrete intuire). O come ieri ha riferito che i russi sostengono che non sono così deficienti da sparare ad una centrale nucleare: 1) perché la vogliono prendere intatta; 2) perché la Russia dista dalla centrale meno che la Moldavia; 3) perché Mosca dista meno di Vienna. Così i russi sostengono che la controllano da giorni e che l’incidente è organizzato dagli ucraini per mandare in mondovisione la fake news. Siamo tutti adulti e dovremmo sapere tutti che la guerra delle informazioni e controinformazioni è norma, ma quando la fa Zelensky è verità, quando la fa Mosca è falsità sempre e comunque. Ma poi, non si capisce cosa altro dovrebbe fare Innaro se non riferire cosa dicono lì, cosa significa “corrispondente”?

Così, nell’uso pubblico della ragione, non puoi avanzare qualche dissonanza se prima non reciti il Credo nella Verità della Chiesa Unitariana del Bene contro il Male e del Vangelo della Marvel Comics, ma pare che ormai non basti più neanche quello. Non vogliamo nessun mondo multipolare, quindi ci polarizziamo, noi Bene, altri Male, tertium non datur e chi lo dà è collaborazionista suo malgrado. Il mondo crede a quel Vangelo, l’ha celebrato anche all’ONU. Peccato che tra astensioni e contrari, abbiamo votato paesi con metà della popolazione terrestre e poiché quel voto non comportava alcuna sanzione, è pure dubitabile che chi ha votato per la risoluzione voglia mai andare oltre alla semplice dichiarazione. Io non sono un paese ONU, ma se fossi stato lì l’avrei votata anche io quella dichiarazione, chi mai può difendere il “diritto” si un paese a varcare armato il confine di un altro? Siamo all’ovvio. Com’è ovvio che a tutt’oggi solo un quarto del mondo, l’Occidente polarizzato su Washington con il senior partner UK, ha elevato sanzioni, sebbene secondo la strana geografia surrealista della von der Leyen, questa sia la “comunità globale”.

Cos’è l’Illuminismo? Pensare con la tua testa. Avere il coraggio, pagarne il prezzo. Non pagare chi pensa per te tenendoti nell’infanzia eterna deresponsabilizzata, assumerti le tue responsabilità davanti al mondo. “Senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: – Non ragionate! – L’ufficiale dice: – Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. – L’impiegato di finanza: – non ragionate, ma pagate! – L’uomo di chiesa: – Non ragionate, ma credete!” diceva Kant in quel del 1784. Comprendere è prender assieme quanti più fatti ci è possibile, giudicare viene solo dopo che hai ben compreso, comprensione e giustificazione sono atti separati e con fini diversi.

Così oggi sembra che la società aperta-chiusa, la Wide-Shut-Society, la società spalancate ad alcune cose ma chiusa ad altre, necessiti di spegnare la luce, non è epoca di illuminismi. La società aperta mi sembrava dovesse esser liberale, ma si sa i liberali annunciano principi universali, ma con applicazioni particolari. Sono come i contratti assicurativi, la fregatura è a corpo 5. Locke annunciava la totale libertà di credenza, ma il totale era dentro il protestantesimo, se eri cattolico o ateo andavi al gabbio e buttavano via la chiave, se non di peggio.

Quando s’impone il buio, vuol dire che si vuol nascondere qualcosa?

Censurare la mente e il cervello_di Roberto Buffagni

Confermata la notizia che l’Università Milano Bicocca ha annullato un corso su Dostoevskij di Paolo Nori. Ometto ogni considerazione in merito alle libertà di pensiero, insegnamento, cultura, che evidentemente non interessano più.
Per comprendere la Russia, conoscere Dostoevskij è molto importante. Non solo: per comprendere i complessi rapporti tra Europa e Occidente, e la Russia – un immenso paese a cavallo tra Europa ed Asia, Occidente e Oriente – conoscere Dostoevskij, che li meditò per tutta la vita, è indispensabile.
La ratio di questo provvedimento è dunque la seguente: NON VOLER CAPIRE la Russia.
La Russia è stata designata come nemico dalla UE, e dall’Italia in essa. UE e Italia hanno compiuto atti di guerra: invio di armamento offensivo all’Ucraina, sequestro attivi Banca Nazionale Russa. Noi italiani e la UE siamo cobelligeranti dell’Ucraina, anche se non ce ne siamo ancora accorti.
La Russia è il nostro nemico, e con questo atto dichiariamo che NON vogliamo capire il nostro nemico. Evidentemente, riteniamo di non averne bisogno. Riteniamo che la superiorità delle nostre forze economiche e militari, e della nostra ideologia liberal-progressista, sia così soverchiante da rendere superfluo ogni sforzo di comprendere la cultura, la mentalità, il modo di sentire e di agire nel mondo del nostro nemico russo.
La Russia è una grande potenza, che dispone del maggiore arsenale nucleare al mondo. Essa ha esperito, nel corso dei secoli e ancora di recente, tragici conflitti bellici, che hanno messo in forse la sua stessa esistenza: ma pur attraversando immani sciagure, è sempre riuscita a ritrovarsi, a resistere, a sconfiggere i suoi nemici, facendo appello a forze che, per brevità, usiamo chiamare “patriottismo” e “nazionalismo”; ma che si radicano, nell’anima e nella memoria storica dei singoli e dei popoli, a una profondità ctonia che solo grandi uomini come Dostoevskij sanno parzialmente scandagliare: “come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.”
Sono queste, le vere e più potenti armi del nostro nemico russo. L’armamento convenzionale e nucleare è soltanto uno strumento materiale, certo indispensabile, al servizio di quelle forze ctonie e della traduzione razionale di esse ad opera della dirigenza politica e militare russa.
D’altronde, implicitamente lo conferma la strategia bellica euroamericana, che punta al “regime change” in Russia. Il “regime change”, infatti, può aver successo solo quando si riesca a sfaldare la solidarietà tra dirigenti e popolo, e a innescare il processo centrifugo di frammentazione della nazione, ossia a piegare e poi dissolvere “patriottismo” e “nazionalismo” nell’anima dei singoli russi, popolo e dirigenti.
I dirigenti politici russi hanno ripetutamente e ufficialmente chiarito che stanno conducendo il conflitto odierno a difesa di un interesse vitale della nazione. “Interesse vitale”, nel linguaggio delle relazioni internazionali, significa un interesse che lo Stato, e il popolo che esso organizza, deve difendere a tutti i costi. “A tutti i costi” significa che si è disposti a difendere l’interesse vitale con tutte, ripeto tutte, le proprie forze, armamento nucleare compreso.
Ma a noi non serve, capire il nostro nemico. Non abbiamo bisogno di intendere le sue motivazioni, i suoi riflessi condizionati, l’equazione personale dei suoi dirigenti politici, le tradizioni culturali e la mentalità del suo popolo, il suo modo di amare e di odiare, di provare compassione e disprezzo, il significato che esso dà a parole come “onore”, “casa”, “famiglia”, “madre”, “padre”, “Dio”, “patria”; né quali corde esse tocchino nell’anima sua: perché non crediamo che esista l’anima, o non crediamo che ce l’abbia il nostro nemico.
Nella nostra tradizione culturale europea, questo atteggiamento di arrogante rifiuto di capire ha un nome: “hybris”. Ne hanno chiarito il significato le opere che stanno a fondamento della nostra civiltà: le tragedie e le epopee della classicità greca.
La frase che oggi sentiamo ripetere sui media, che “la prima vittima della guerra è la verità”, risale a Eschilo, il maggiore dei tragici greci. Eschilo combatté contro l’Impero persiano. Fu autore di una tragedia, “I persiani”, scritta dal punto di vista del nemico esistenziale dell’Ellade contro il quale aveva combattuto vittoriosamente a Maratona, Platea, Salamina. A Maratona cadde suo fratello Cinegiro. Sulla propria tomba, Eschilo fece scrivere questo epitaffio: «Codesta tomba Eschilo ricopre, d’Atene figlio, padre fu Euforione: vittima di Gela dalle ricche messi. Il suo valor potrebber ben ridirlo di Maratona il piano e il Medo chiomato.»
La conseguenza fatale di “hybris” è “nèmesis”, la punizione degli Déi. A pagare il prezzo della giustizia divina può essere il colpevole di “hybris”, ma anche la sua famiglia, i suoi discendenti, il suo popolo. L’infrazione alla legge divina che commette chi si renda colpevole di “hybris” è questa: per la grecità, l’uomo sta a metà tra l’animale e il dio. Se precipita nell’animalità, o tenta di elevarsi alla divinità, l’uomo viola l’ordine del cosmo. La némesis divina lo rimette al suo posto, e ripristina l’ordine del cosmo.
Gli animali non hanno bisogno di sforzarsi di capire l’altro, perché non ne sono in grado. Gli Dèi non hanno bisogno di sforzarsi di capire l’altro, perché già sanno.
A quanto pare, noi, noi italiani, noi europei, non possiamo capire il nostro nemico perché non ne siamo in grado; e non abbiamo bisogno di capirlo, perché già sappiamo tutto di lui.

A COLPI DI GROSSRAUM, di Teodoro Klitsche de la Grange

 A COLPI DI GROSSRAUM

Diversamente dalla crisi pandemica e dai DPCM, quando molti ricordavano – e ricorrevano – alla teoria di Schmitt sullo stato d’eccezione, per quanto spesso cercando di amputarla dall’essere un criterio d’identificazione del sovrano, che fa troppo Salvini – non mi risulta che la crisi ucraina sia stata inquadrata in un’altra delle idee di Schmitt, così utili ad interpretare la situazione contemporanea: quella del Grossraum (grande spazio). Per connotare tale concetto occorre premettere che s’iscrive nella concezione di decadenza dello Stato moderno, cui Schmitt contrapponeva l’insopprimibilità del “politico”, quale essenza (Freund).

Onde se lo Stato non “fa” politica (o si autolimita in ciò) a colmare tale assenza ci pensano altri soggetti (dai partiti, alle chiese, agli imperi e così via). Dopo di che, atteso che un limite spaziale, nelle civiltà sedentarie (Hauriou) è necessario, come lo è un soggetto (e principio) ordinatore, il Grossraum può essere considerato come uno spazio delimitato, organizzato intorno ad un’egemonia di comando, in grado di governare una pluralità di sintesi politiche (cioè in primo luogo, gli Stati), escludendone le potenze esterne allo stesso.

In un’interpretazione post-Huntington tale spazio può somigliare alle “civiltà” i cui componenti sono affini per un patrimonio di idee, tradizioni, valori comuni. A tale tesi si può tuttavia replicare che il Grossraum, anche se non esclude – anzi è favorito – (dalle) affinità non vi trova un elemento essenziale. Questo perché lo sono, invece l’egemonia e la delimitazione spaziale, possibile anche in spazi di popoli non omogenei né affini. Come d’altra parte in altre sintesi politiche, come gli imperi, per lo più multi-etnici, multi razziali, multi religiosi            [1]. Più vicino al concetto di Grossraum è quello di “sfera d’influenza” e altre consimili, che designano l’effettività di un comando egemonico (e relativa pretesa) su più sintesi politiche. Che questo emerga da millenni fa parte della storia. Ogni (aggregato di) potenza si circonda, ove possibile – di stati-clienti, gli obblighi dei quali vanno dal massimo di fornire risorse – anche militari – alla sintesi politica egemone, al minimo di conservare una neutralità in caso di guerra tra quella e le altre, in effetti una rinuncia a muover guerra alla potenza egemone.

Già la storia romana e bizantina ci danno esempi di tale tipo di rapporto. Lacmidi e Gassanidi erano stati – clienti degli imperi persiano (sassanide) e romano. Gerusalemme, qualche secolo prima era stata  assediata dall’esercito di Tito, formato in buona parte da soldati forniti dai tre vicini stati – clienti dell’impero romano.

È chiaro che tali limitazioni assunte o imposte agli Stati clienti costituiscono  altrettanti paletti alla sovranità; questa, in senso giuridico ha il significato di non tollerare alcun limite (Romagnosi, Orlando tra i tanti). Onde al contrario di quanto succede in altri casi, gli strenui difensori dell’Ucraina lo sono diventati (forse a malincuore) anche della sovranità della medesima.

Più che alle incoerenze tra atteggiamenti concreti e affermazioni ideali, tuttavia la riflessione sul punto non dovrebbe prescindere da quanto pensava Spinoza: che la sovranità è illimitata in diritto, ma è limitata in fatto dalla possibilità reale di azione: tantum juris, quantum potentiae. Il sovrano non è colui che puote quel che si vuole, ma è chi è libero nel decidere tra alternative possibili. Questo vale in modo – ovviamente – assoluto per l’impossibile ontologico, e in modo relativo per l’impossibile concreto. Del pari per le scelte azzardate o, al limite insensate (Aron). Come quella del Principato di Monaco che intendesse muovere guerra alla Francia. Una scelta dall’esito positivo impossibile, in particolare per la sproporzione dei mezzi a disposizione e quindi (altamente) inopportuna. É la disparità delle forze tra le potenze aderenti e quelle egemoni (sostanzialmente, di converso, pari tra loro) della Nato e del Patto di Varsavia che ha conservato, dopo Yalta, la pace in Europa, e l’egemonia nei rispettivi blocchi degli USA e dell’URSS.

Dopo l’implosione dell’URSS, che è equivalsa ad una guerra perduta, la Russia ha dovuto rinunciare all’egemonia sulle nazioni dell’Europa orientale, e tollerare la perdita dell’unità politica delle repubbliche federate nell’URSS. Analogamente a quanto praticato e deciso a Yalta per gli imperi giapponese, italiano e il Reich tedesco. Tuttavia l’enorme estensione territoriale e la popolazione della Russia hanno conservato alla stessa nello spazio eurasiatico un primato dovuto allo squilibrio dei rapporti di forza con le vicine repubbliche ex sovietiche: l’Ucraina che è la più popolosa, ha comunque una popolazione pari o poco più di un quarto di quella russa; il PNL ucraino è circa 10 volte inferiore. Questo tralasciando altri fattori di potenza, dalla proporzione simile, e senza andare alla storia dei due paesi.

L’unica possibilità per l’Ucraina è una violenta guerra partigiana, che pare assai remota e comunque portatrice di enormi danni a ucraini, russi, nonché (almeno economici) agli europei occidentali. Qualcuno forse spera che gli aspiranti guerriglieri ucraini ripetano, per Putin, l’impresa dei loro predecessori della seconda guerra mondiale, che uccisero il generale Vatutin che aveva appena riconquistato l’Ucraina alla Russia.

Per cui l’avvertimento dato più volte negli anni trascorsi da politici e politologi come Kissinger, il nostro Prodi (ed altri – non molti) di non cercare di estendere la Nato a Stati ex-sovietici, appare come un consiglio assai azzeccato, e il più idoneo a conservare la pace e l’ordine internazionale. Come intuito da Schmitt con la sua dottrina del Grossraum. Questa è il contrario di quanto sbandierato nell’ultimo trentennio, di una visione del mondo propiziata della “fine della storia” (la quale si è affrettata a ricominciare), e fondata sulla condivisione di valori che per quanto apprezzabili, hanno il limite, politicamente decisivo, per essere efficaci  d’esser condivisi: se non lo sono, non servono a creare coesione politica e sociale, ma solo ad attizzare conflitti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Per gli imperi è (quasi) la regola. Riguardo all’Ucraina proprio Huntington sostiene che “la linea di faglia” tra civiltà cristiana occidentale e cristianesimo orientale, attraversa l’Ucraina.

Adversvs Tristi Bestie: Repvblicanisvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via (PARTE SECONDA DI 3)_di Massimo Morigi

Massimo Morigi

Adversvs Tristi Bestie: Repvblicanisvs
Geopoliticvs Fontes Origines et Via
(PARTE SECONDA DI 3)

Presentazione
Nella prima decade di questo nuovo millennio ebbi modo di partecipare a vari
convegni internazionali di filosofia politica e i miei contributi furono sempre
incentrati sull’estetizzazione della politica nei regimi autoritari del XX secolo e
ho più volte sottolineato quanto questi iniziali studi sull’estetizzazione della
politica e sulla politicizzazione dell’estetica (la contromossa di Walter Benjamin
all’estetizzazione della politica dei regimi autoritari di destra) siano stati
centrali nella successiva elaborazione della Weltanschauung del
Repubblicanesimo Geopolitico. In seguito, nel 2014, decisi di riunire in un unico
documento questi interventi sotto il titolo di Repvblicanisvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via che poi caricai autonomamente su Internet Archive e quindi
consultabile e scaricabile all’URL
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMa
ssimoMorigiGeopolitics_436. Oggi, dopo aver deciso che le mie aurorali
incursioni nella storia filosofica e nella filosofia politica pubblicate sull’ “Italia e
il Mondo” e che vanno sotto il titolo di La Loggia “Dante Alighieri” nella Storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-
2003) e di Ancora in avvicinamento al Nuovo Gioco delle Perle di Vetro del
Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et Inactualia Archeologica potevano
aiutare a ricostruire la genealogia del Repubblicanesimo Geopolitico, a questo
appello non potevano mancare questi interventi e che ora vengono proposti con
una leggera modifica nel titolo rispetto al documento immesso autonomamente
su Internet Archive, aggiungendo, appunto, Adversus Tristi Bestie. Come non è
difficile comprendere si tratta di un diretto riferimento ai bestioni di vichiana
memoria, ma in questo caso le nostre Tristi Bestie sembrano non preludere ad
alcuna Epifania Strategica ma solo ad un definitivo degrado antropologico e
culturale connotato dalle due opposte ma equivalenti superstizioni scientifiche
ed antiscientifiche delle ultime cronache virali su cui mi sono più volte
soffermato e di cui ho accennato anche in Ancora in avvicinamento al Nuovo
Gioco delle Perle di Vetro del Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et
Inactualia Archeologica. Un avviso alla fruizione del documento. Il file a suo
tempo caricato su Internet Archive è un file Word al cui interno vi sono anche
contenuti multimediali che non possono essere utilizzati nel formato PDF
pubblicato dall’ “Italia e il Mondo”: si tratta di URL che rimandavano a video
musicali allora presenti su YouTube che per paura che venissero, come poi è
stato, rimossi, erano stati inseriti direttamente nel file Word in questione.
Quindi chi vuole vedere questi contenuti multimediali non deve far altro che
andare al documento Word caricato su Internet Archive. Inoltre, si avverte che
per mantenere la linearità del discorso sull’estetizzazione della politica
sviluppato in queste conferenze il presente documento contiene anche Aesthetica
Fascistica II, già pubblicato in Ancora in avvicinamento al Nuovo Gioco delle
Perle di Vetro del Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et Inactualia
Archeologica ma che nel documento di questa antologia immessa
originariamente autonomamente in Rete prende il nome di Gesamtkunstwerk Res
Publica. La Leitbild in frontespizio è Warrington Colescott, Picasso at the Zoo,
from the series A History of Printmaking, 1978, collage su carta, Smithsonian
American Art Museum, dove la trista bestia è evidente come pure la tecnica
della citazione, molto praticata da quell’eroe dell’estetizzazione della politica,
della politicizzazione dell’estetica e dello stato di eccezione permanente (e
quindi, all’insegna del suo iperdecisionismo antesignano – assieme ad Antonio
Gramsci con la sua filosofia della prassi – del paradigma olistico-dialetticoespressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico) che va sotto il nome di Walter Benjamin.
Massimo Morigi – IX Febbraio 2022

ADVERSUS RIFATTO PARTE TERZA ADVERSUS RIFATTO PARTE SECONDA

IMPERO E ORDINE MONDIALE SECONDO JIANG SHIGONG

Con il progredire delle dinamiche multipolari si dovrà familiarizzare con i punti di vista di ideologi e protagonisti di altri mondi con i quali saremo sempre più in contatto. Ai sinologi si aggiungeranno i cinesi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

IMPERO E ORDINE MONDIALE SECONDO JIANG SHIGONG

Non sappiamo abbastanza sulle dottrine della Cina di Xi Jinping. A partire da questa settimana, il grande continente lancia una nuova serie . Lo apriamo con questo enigmatico testo di Jiang Shigong.

AUTORE
DAVID OWNBY

COPERTINA
© XINHUA/LI XIANG

Jiang Shigong (nato nel 1967), professore di diritto all’Università di Pechino, è un eminente difensore del potere statale in Cina. Il suo lungo e importante saggio del 2018 definisce e difende il pensiero di Xi Jinping (“Filosofia e storia: interpretare l'”era di Xi Jinping” attraverso il rapporto di Xi al 19° Congresso Nazionale del PCC”) sarà presto tradotto integralmente e commentato… Sosteniamo che le ambiziose argomentazioni teoriche di Jiang mirano non solo a dare sostanza all’abbondante propaganda del pensiero di Xi Jinping, ma anche a servire come risposta muscolare e critica al pluralismo de facto che è cresciuto nel mondo del pensiero cinese sin dall’inizio dell’ascesa della Cina.

È probabile che le argomentazioni di Jiang convincano poche persone al di fuori della Cina, ma il suo testo è ponderato e rigoroso nei suoi tentativi di spiegare perché il “socialismo con caratteristiche cinesi” non è, a suo avviso, uno slogan vuoto, ma piuttosto una descrizione della politica cinese economia che sta attualmente aprendo la strada al dominio del mondo, visto il fallimento della democrazia liberale americana e del comunismo sovietico.

Il testo qui tradotto è una continuazione di alcuni dei precedenti saggi di Jiang in quanto suggerisce che un impero mondiale cinese è visibile all’orizzonte. L’argomento di base è abbastanza semplice: gli imperi sono sempre stati i mattoni degli ordini politici regionali, anche prima che l’ascesa dell’imperialismo rendesse possibile la costruzione di imperi globali. L’ascesa delle idee di sovranità e la formazione di stati nazione nel periodo moderno ha portato nuove sfaccettature alla costruzione e all’amministrazione dell’impero e ha fatto perdere a molti di vista la sua attuale importanza. Ma gli imperi non sono scomparsi, sono solo cambiati nella forma e nella funzione. Il saggio di Jiang si estende ampiamente nel tempo e nello spazio, e da lì sembra tentare di costruire una tipologia di imperi. Pensiamo che sia principalmente riempitivo, il che spiega anche la natura alquanto ripetitiva del testo. La cruda affermazione di Jiang è che l’impero – e in particolare l’impero mondiale, strutturato intorno ai mercati, alle valute e alla politica interna delle superpotenze mascherate da pratica legale universale – è uno stato inevitabile del mondo contemporaneo. Ed è il turno della Cina di guidare questo impero, dato lo stato attuale del Paese e del mondo. Nelle parole di Jiang: le valute e la politica interna delle superpotenze mascherate da pratica legale universale – è uno stato inevitabile del mondo contemporaneo. Ed è il turno della Cina di guidare questo impero, dato lo stato attuale del Paese e del mondo. Nelle parole di Jiang: le valute e la politica interna delle superpotenze mascherate da pratica legale universale – è uno stato inevitabile del mondo contemporaneo. Ed è il turno della Cina di guidare questo impero, dato lo stato attuale del Paese e del mondo. Nelle parole di Jiang:

“[Lo stato attuale dell’impero globale] deve affrontare tre grandi problemi intrattabili: la disuguaglianza sempre crescente creata dall’economia liberale; fallimento dello stato, declino politico e governo inefficace causato dal liberalismo politico; e la decadenza e il nichilismo creati dal liberalismo culturale. Di fronte a queste difficoltà, anche gli Stati Uniti si sono ritirati in termini di strategia militare globale, il che significa che l’impero mondiale 1.0 sta affrontando una grande crisi e le rivolte, le resistenze e le rivoluzioni interne all’impero stanno disfacendo il sistema . »

Jiang Shigong, “La logica interna delle entità politiche sovradimensionate: impero e ordine mondiale”

强世功, “超大型政治实体的内在逻辑:’帝国’与世界秩序”, originariamente pubblicato in 文化纵横, 2019.4 e disponibile online qui: http://www.aisixiang.com/data/ 115799.html

Una questione importante oggi nel regno del pensiero politico è l’enorme divario nel discorso mainstream tra l'”espressione” teorica di una nazione sovrana e la pratica politica universale degli imperi. Questo divario tra teoria e pratica ci porta a riflettere sul sistema concettuale dello “stato-nazione”, e quindi a utilizzare il concetto di “impero” per arrivare a una nuova comprensione della storia e della vita politica contemporanea. .

A differenza del concetto di “impero” usato nel discorso ideologico tradizionale, lo uso, in questo saggio, come concetto sociologico descrittivo per caratterizzare sistemi politici molto ampi che sono esistiti universalmente nel corso della storia. Questi sistemi hanno una complessa stabilità interna che dipende da una pluralità di attori, nonché una volontà filosofica, intellettuale e politica di stabilire una sorta di universalismo, o in altre parole, un desiderio di universalizzare la propria forma e occupare uno spazio ancora più ampio . In questo senso, “impero” è una forma di organizzazione storica attraverso la quale l’umanità ha cercato di gestire l’universalismo e la particolarità, nonché una forza trainante per lo sviluppo e il cambiamento.

In effetti, la costruzione di imperi e la competizione tra imperi è ciò che ha allontanato l’umanità dalle civiltà locali e disperse verso la civiltà globale di oggi, in un contesto di globalizzazione. . La storia del mondo è sia una storia di imperi in competizione per l’egemonia, sia una storia dell’evoluzione di forme di impero. Attualmente, il mondo si trova in un momento storico cruciale nello sviluppo e nell’evoluzione dell'”impero mondiale”. Solo partendo dalla prospettiva dell’impero e comprendendo le diverse forme che gli imperi hanno assunto nel corso della storia, possiamo trascendere l’ideologia dello stato-nazione sovrano e comprendere il ruolo che la Cina di oggi gioca nell’evoluzione storica dell’impero mondiale, e tracciare così una rotta per il futuro della Cina.

Il paradosso del discorso “sovrano” e della “pratica” imperiale

L’idea di sovranità è al centro della teoria politica contemporanea. Nella vasta genealogia del pensiero politico occidentale, tutti i movimenti intellettuali della storia del pensiero moderno, dal Rinascimento alla Riforma, dalla rivoluzione scientifica all’Illuminismo, hanno avanzato la costruzione e l’approfondimento della teoria della sovranità, e dei concetti dalle scienze sociali che hanno contribuito alla costruzione della teoria dello stato-nazione sovrano costituiscono ancora oggi le nostre categorie accademiche ed epistemologiche di base.

Dalla fine del periodo Qing, anche il mondo intellettuale cinese ha vissuto una profonda trasformazione intellettuale, attraverso la quale ha iniziato a costruire e immaginare l’ordine politico mondiale sulla base del pensiero politico occidentale moderno e contemporaneo. La visione ideale di questo ordine mondiale è quello che chiamiamo il “sistema della Westfalia”, in cui tutte le “nazioni civilizzate” partecipano alla costruzione dell’ordine mondiale su un piano di parità come Stati sovrani. La Società delle Nazioni, emersa dalla prima guerra mondiale, e le Nazioni Unite, emerse dalla seconda guerra mondiale, sono state spesso considerate i modelli di questo ordine mondiale. In questo quadro, ogni volta che riflettiamo sull’ordine politico, iniziamo inevitabilmente con idee come stati-nazione sovrani e società internazionale, “preoccupazioni interne” e “paesi stranieri”, che creano il nazionalismo e l’internazionalismo come ideologie politiche fondamentali.

Non molto tempo fa, la Nuova Sinistra Cinese, la maggior parte dei quali, come Jiang, sono statisti fedeli, ha fatto della sovranità uno dei suoi principi guida (per un esempio tra tanti, vedi Wang Hui, “The Economy of a Rising China and its Contradictions” ). Naturalmente, Jiang non sta denunciando la sovranità, anche se suggerisce, ammiccando, che il discorso sullo stato-nazione è un gioco di prestigio. Ma non riesce nemmeno ad affrontare l’apparente contraddizione tra impero e sovranità nazionale, e non è chiaro dove si inserisca la sua argomentazione nella rete contemporanea della propaganda politica e del sogno cinese. Come scrive l’anonimo autore del blog “The Credible Target”: “La prosa di Jiang è un po’ accademica e imprecisa; richiede un po’ di riempimento tra le righe. Ciò è in parte dovuto al fatto che l’affermazione “Sostituiamo l’impero americano con un impero cinese che assomigli a questo” potrebbe attirare un’attenzione inutile. Forse potremmo leggere la teoria dell’impero di Jiang come un pallone di prova?

Eppure, se lo affrontiamo, questo ordine internazionale che esiste in astratto, sulla carta, è davvero l’ordine internazionale che troviamo nel nostro tempo? L’ordine internazionale è davvero costruito da stati-nazione sovrani uguali? Tornando al regno reale della pratica politica internazionale, quanti dei circa 200 paesi oggi riconosciuti come stati-nazione sovrani possiedono effettivamente la sovranità completa? La sovranità di quanti stati si è trasformata in una potente influenza “imperiale”? E quanti stati sono semplicemente “dipendenze”, “aree di confine imperiali” o “province” di questi imperi?

In termini di norme legali, e nella mente di molte persone, l’ordine mondiale è sostenuto da leggi internazionali, che sono a loro volta determinate da stati nazionali sovrani. Ma nella pratica politica, l’ordine mondiale ha sempre operato secondo la logica imperiale. Alcuni paesi, come la Germania e il Giappone del dopoguerra, non furono costruiti come stati-nazione pienamente sovrani, anche in senso giuridico, perché le loro costituzioni non erano basate su principi di sovranità, ma piuttosto sui principi della pace internazionale e legge. L’origine di questa categoria di “stato-nazione semi-sovrano” risiede nello status di perdente di Germania e Giappone nella competizione egemonica degli imperi. Ci sono anche altri paesi che, pur possedendo una sovranità completa e indipendente in senso giuridico, in pratica vide la loro sovranità assorbita in un più ampio sistema imperiale. Alcuni di questi sistemi sovra-imperiali furono costruiti sulla base del diritto internazionale, come il Commonwealth, l’Alleanza del Nord o l’Unione Europea.

E alcuni paesi, pur essendo pienamente sovrani, possono anche scavalcare il diritto internazionale con il loro diritto nazionale, o estendere il loro diritto nazionale ad altri paesi sovrani, come nel caso degli Stati Uniti quando combattono la corruzione all’estero con la loro “giurisdizione del braccio lungo” e sanzioni economiche, per non parlare delle “rivoluzioni colorate” che hanno apertamente sanzionato e organizzato. In effetti, le discussioni su concetti come “egemonia”, “Terzo mondo”, “relazioni nord-sud”, “multipolarità” e “nuovo ordine politico ed economico internazionale” nel campo delle relazioni relazioni internazionali sono tutte questioni di impero .

Da questo punto di vista, la storia dell’umanità è certamente la storia della competizione per l’egemonia imperiale, la storia di una feroce competizione tra imperi che spinse via via la forma degli imperi dalla loro natura locale originaria all’andamento attuale degli imperi mondiali, e infine a un impero mondiale. La globalizzazione odierna è sia il prodotto della concorrenza imperiale che una particolare forma di impero.

Quando guardiamo alla storia dell’umanità, l’impero è sempre stato l’attore principale in termini politici, mentre lo stato-nazione sovrano è una cosa nuova, un prodotto della modernità. Inoltre, le attività politiche degli stati-nazione sovrani sono spesso garantite dall’ordine imperiale, e potremmo dire che l’ordine degli stati-nazione sovrani è un’espressione particolare dell’ordine imperiale. Se mettiamo da parte le nozioni di concorrenza imperiale e di costruzione del nuovo ordine imperiale, non possiamo nemmeno comprendere il concetto di Stato-nazione sovrano. Questo è il motivo per cui dobbiamo riesaminare la storia dal punto di vista dell’impero e ripensare la costruzione di stati-nazione sovrani dal punto di vista della costruzione dell’ordine imperiale.

L’età assiale nella civiltà umana: la formazione di imperi di civiltà regionali

L’impero è soprattutto un concetto intellettuale universale che si estende al mondo intero, e quindi una forma di pratica politica che cerca di imporre una certa armonia nel mondo. C’è sempre stata una grande tensione interna tra idea e pratica: i concetti imperiali sono universali, ma la pratica imperiale è spesso confinata in un tempo e in uno spazio particolari. Questa tensione spiega l’ascesa e la caduta degli imperi, la sostituzione di un impero con un altro.

Le origini della civiltà umana sono sparse in tutto il mondo, nelle regioni che meglio soddisfacevano i bisogni dei primi umani. Le regioni montuose non erano adatte alla sopravvivenza umana e la vita ai tropici era troppo facile, il che minò la forza dello sviluppo della civiltà. Quindi sono state le regioni temperate a insegnare alle persone a sostenere la vita attraverso il lavoro continuo e l’innovazione. Per questo motivo la civiltà umana si è diffusa nelle vaste regioni temperate del pianeta.

Queste diverse civiltà hanno continuato a progredire e alla fine hanno superato i loro confini geografici originali, il che ha dato origine a scambi, competizioni e persino lotte tra le civiltà per la loro sopravvivenza. La storia dello sviluppo della civiltà umana ha seguito continuamente questo processo di evoluzione da piccole comunità locali a gruppi sempre più grandi. In questo processo, le diverse civiltà hanno costantemente imparato l’una dall’altra e si sono mescolate, ma allo stesso tempo è stato un processo di conflitto e conquista, sfida e risposta e annessione.

Se prendiamo “paesi omogenei” e “paesi plurale” come due tipi ideali di ordine politico nell’evoluzione della storia della civiltà, allora la storia dell’umanità è il processo di costante interazione e dialettica tra lo “stato” e l'”impero ”, il che significa che troviamo sia la formazione di imperi plurali mediante la conquista militare di una nazione omogenea da parte di un’altra, sia formazioni imperiali che sono diventate stati-nazione omogenei attraverso un lungo processo di assimilazione e integrazione di un ordine imperiale plurale, dopo di che questo stato omogeneo intraprenderà la strada della costruzione di un nuovo impero.

Per questo le distinzioni tra stato-nazione e impero nella pratica politica attuale sono sempre state relative, dinamiche e continue. In questo senso, impero non è solo un sostantivo usato per descrivere in pratica un ordine plurale, ma ha sempre funzionato anche come verbo che descrive un processo dinamico di “unificazione”[2].

Dal punto di vista dell’“impero”, il primo stadio della storia della civiltà umana è stato il processo attraverso il quale le civiltà di tutto il pianeta si sono evolute attraverso l’interazione dialettica delle due forme politiche che sono lo Stato e l’impero, unendosi infine per formare imperi locali con confini geografici stabili. La coscienza imperiale universalista maturò proprio in questi imperi geograficamente estesi, abbastanza completi e stabili. Quella che chiamiamo “l’età assiale” della storia umana era caratterizzata da tale coscienza imperiale: l’impero non era più una mera questione di conquista economica o di costruzione politica, ma divenne un ordine di civiltà universale. Possiamo chiamare questa forma di impero, con il suo spazio geografico relativamente stabile e la sua omogeneità di civiltà relativamente continua”, l’impero di civiltà regionale. ”

Per prendere l’esempio della Cina, all’inizio della civiltà, le comunità sono apparse e si sono sviluppate fino a diventare come “stelle nel cielo”, e dopo aver attraversato infinite interazioni e integrazioni, alla fine si sono unite per formare tribù separate o federazioni tribali, che potremmo chiamare imperi locali. Attraverso la costante concorrenza, questi imperi locali instabili alla fine divennero l’impero regionale di Xia, Shang e Zhou, i nove stati si stabilirono stabilmente nelle pianure centrali. Questo impero Xia-Shang-Zhou divenne un sistema politico, rituale e di civiltà stabile solo dopo che il pensiero confuciano gli diede un’espressione filosofica universale. Le successive costruzioni imperiali dei periodi Qin-Han, Sui-Tang e Ming-Qing furono il rinnovamento della civiltà di questo modello fondamentale.

Questo è un riferimento al libro dell’archeologo cinese Su Bingqi 苏秉琦, Stars Filling the Sky: Su Bingqi on Primitive China 满天星斗: 苏秉琦论远古中国, citato da Zhao Tingyang赵汀阳 nelle sue argomentazioni sull’ordine mondiale cinese. Vedere: http://www.xinhuanet.com/local/2017-01/02/c_129428651.htm .

Halford Mackinder (1861-1947), specialista in geopolitica, conosceva bene le basi geografiche e di civiltà degli imperi regionali. Da un punto di vista macrospaziale divideva l’intero continente eurasiatico in un nucleo centrale, [storicamente rappresentato dall’impero russo] caratterizzato da prati e pascoli, e zone periferiche, caratterizzate da fiumi, pianure e agricoltura.

Halford Mackinder era un geografo britannico che introdusse la sua “teoria Heartland” in un articolo intitolato “The Geographical Pivot of History”, presentato alla Royal Geographical Association nel 1904. La sua teoria divide il mondo in tre regioni: l’isola del mondo, le isole esterne e isole al largo. L’isola mondiale comprende l’Europa, l’Asia e l’Africa, e quindi domina in termini di popolazione e risorse. Le isole al largo includono il Giappone e la Gran Bretagna. Le isole periferiche includevano le Americhe e l’Australia. Mackinder ha sottolineato l’importanza dell’Europa orientale, una regione che ha fornito una porta per il controllo del cuore dell’Heartland, in parte per avvertire la Gran Bretagna che la sua storica dipendenza dalla potenza marittima potrebbe avere dei limiti. Vederehttps://www.worldatlas.com/articles/what-is-the-heartland-theory.html . Jiang Shigong sembra qui adattare le teorie di Mackinder alle esigenze della sua dimostrazione.

Nelle regioni centrali, lo stile di vita nomade e arretrato era la principale forma di civiltà, mentre le regioni periferiche erano divise in quattro zone di civiltà relativamente avanzate, dove predominavano l’agricoltura e il commercio: le regioni della civiltà confuciana cinese, della civiltà indù dell’Asia meridionale , della civiltà arabo-islamica e della civiltà cristiana europea. Possiamo considerare queste cinque civiltà eurasiatiche regionali come cinque imperi regionali relativamente stabili. Questi imperi basavano la loro coerenza sugli elementi naturali del loro ambiente geografico nonché su alcuni elementi spirituali di natura filosofica o teocratica. In un lunghissimo periodo storico, poiché incarnazioni specifiche di imperi locali sono aumentate e cadute, questi cinque imperi di civiltà regionali hanno raggiunto una relativa stabilità nella loro regione. Ancora oggi, migliaia di anni dopo la loro fondazione, questi cinque imperi di civiltà regionali continuano a mantenere una relativa stabilità in termini di spazio geografico e caratteristiche, il che testimonia la tenacia degli imperi di civiltà regionali.

Per coloro interessati a ulteriori commenti o al contesto delle idee di Jiang e/o cinesi sull’impero, vedere “Credible Target” che offre un’analisi e una traduzione parziale; così come un prossimo articolo di Leigh Jenco e Jonathan Chappell in The Journal of Asian Studies, “Imperialism in Chinese Eyes: Nations, Empires, and State-Building”.

L’ascesa degli imperi coloniali globali: la competizione globale tra imperi continentali e imperi marittimi

Nella prima fase della storia degli imperi, i cinque imperi di civiltà regionali erano tutti situati sulla massa continentale eurasiatica e tutti erano imperi continentali. Dal punto di vista della rispettiva ubicazione dei cinque imperi, i quattro imperi periferici avevano, rispetto all’impero delle steppe, importanti vantaggi di civiltà, mentre quest’ultimo, situato nelle regioni montuose, era meno avanzato perché più legato al nomadismo . Ma questo impero possedeva anche alcuni vantaggi strategici geograficamente e rappresentava ancora una minaccia per i quattro grandi imperi di civiltà periferici. Questo è stato particolarmente il caso della civiltà cristiana occidentale, che era continuamente sotto pressione dalla civiltà islamica orientale e dalla civiltà delle steppe.

Il motivo per cui l’impero islamico poteva rappresentare una minaccia per l’impero cristiano non era solo dovuto alla sua superiorità in termini religiosi e militari, ma anche, e soprattutto, al fatto che monopolizzava il commercio marittimo con la civiltà  dell’est che gli assicurava grandi quantità di risorse e ricchezza. Fu in questo contesto di concorrenza che l’Impero cristiano fu infine costretto a imbarcarsi nell’Oceano Atlantico, nel tentativo di individuare una rotta marittima che gli aprisse il commercio con l’Impero cinese. Cristoforo Colombo stava cercando una Via della Seta marittima per sostituire la rotta terrestre, che era stata distrutta dall’Impero della Steppa che avrebbe sfidato il monopolio della civiltà islamica sul commercio con l’Oriente.

Quando l’impero cristiano fu costretto a salpare, la prima pagina nella storia degli imperi mondiali fu voltata. Da un lato, l’impero cristiano “scoprì” e conquistò l’America, nonché territori e civiltà fino ad allora sconosciuti, come l’Africa meridionale e persino l’Oceania, appropriandosi di risorse fino ad allora sconosciute. D’altra parte, queste grandi scoperte geografiche portarono all’emergere di “imperi coloniali globali” come una nuova forma di impero, il che significa che l’impero cristiano un tempo unito iniziò a dividersi in nuovi imperi coloniali basati su stati nazione sovrani di nuova formazione.

La competizione tra questi imperi coloniali ha portato la civiltà cristiana a essere la prima a compiere la transizione verso la civiltà moderna, il che ha conferito agli imperi coloniali occidentali una schiacciante superiorità rispetto ai tradizionali imperi di civiltà orientali. Successivamente, la storia del mondo entrò nella fase della dominazione imperiale occidentale. Le grandi scoperte geografiche portarono la civiltà cristiana occidentale a trarre ispirazione dalle civiltà orientali e ad assorbire non solo le pratiche avanzate dell’astronomia orientale, della matematica, della geografia, della navigazione e della costruzione navale, ma anche ad essere influenzata dall’umanesimo e dal razionalismo della civiltà cinese. Eppure, la scoperta di popoli e civiltà diverse durante il processo di globalizzazione ha indebolito la singolare visione del mondo che si trova nella Bibbia cristiana. Ciò portò all’ascesa della razionalità, dell’umanesimo e della scienza in Occidente, e quindi alla disintegrazione dell’impero cristiano tradizionale.

L’era delle scoperte portò la competizione interna all’impero cristiano, con ogni regno o nazione che combatteva contro l’altro. Questa competizione interna ha anche stimolato il processo di razionalizzazione generale della civiltà occidentale, con ogni regno che cercava di lasciarsi alle spalle l’impero cristiano e iniziare la transizione verso un moderno stato-nazione sovrano. Questo processo ha portato alla creazione di un nuovo modello politico, inteso nei termini della moderna teoria politica occidentale come quello basato sul singolo cittadino e sui suoi diritti, con un contratto sociale che lega i diritti dei cittadini alla costruzione dello stato.-nazione sovrana omogenea. Lo stesso processo ha portato all’ordine vestfaliano che governa le relazioni tra i vari stati-nazione sovrani.

Da ciò nacque il confronto, nella teoria politica, tra stati-nazione sovrani e imperi come forme politiche, secondo cui gli antichi imperi regionali (come l’impero cinese, l’impero indiano, l’impero ottomano, l’impero russo, ecc.) erano considerati una forma politica tradizionale obsoleta, mentre solo gli stati-nazione sovrani europei rappresentavano la forma politica moderna del futuro.

Ma i nuovi stati-nazione sovrani europei, impegnandosi nella colonizzazione d’oltremare e costruendo i loro imperi coloniali, costruirono anche un nuovo sistema imperiale. A differenza degli imperi tradizionali delle civiltà regionali, che amministravano i territori appena conquistati come parte del loro impero, gli imperi coloniali crearono un nuovo modello imperiale coloniale in cui gli stati-nazione sovrani erano distinti dalle colonie e le distinzioni di status erano divise, applicate a tutti. La colonia faceva parte dell’impero solo nella misura in cui fungeva da fornitore di risorse naturali e da fonte di profitto per lo stato-nazione sovrano. Lo stato-nazione nel cuore dell’impero praticava la politica repubblicana, mentre nella periferia coloniale dell’impero, la politica era apertamente autoritaria; queste sono le due facce dell’impero coloniale. Pertanto, la competizione tra imperi europei non fu solo una lotta per il territorio europeo, ma soprattutto una lotta per ottenere o ridistribuire colonie d’oltremare.

Dal Trattato di Westfalia al Trattato di Utrecht, il sistema di diritto internazionale tra i moderni stati-nazione sovrani è infatti il ​​prodotto della competizione – e del raggiungimento di equilibri temporanei – tra gli imperi coloniali, che riposavano tutti, in un in larga misura, sulla competizione per l’ottenimento e la ridistribuzione delle colonie.

Se ci chiediamo “come gli imperi europei siano arrivati ​​a dominare il mondo”, una parte significativa della risposta risiede nel moderno sistema degli stati-nazione al centro di queste civiltà imperiali. È proprio la decisione dei vari popoli europei di abbandonare la forma dell’impero tradizionale della civiltà cristiana, nonché i vincoli che una volta avevano rappresentato religione e moralità, per concentrarsi sulla libertà individuale e sulla costruzione del moderno Stato-nazione sistema, che creò in questi paesi un nuovo stile di vita e grandi forze economiche, politiche e culturali, che a loro volta fondarono continuamente colonie in tutto il mondo, creando così una nuova forma di impero.

Si potrebbe dire che gli stati nazionali occidentali hanno costruito nuovi imperi nello stesso momento in cui hanno abbandonato quelli vecchi e che questi nuovi imperi contenevano non solo colonie, ma anche un sistema di diritto internazionale. La forma imperiale del tutto nuova combinava così diritto coloniale, diritto nazionale e diritto internazionale, una forma composita con due facce, da un lato gli stati-nazione, dall’altro le colonie. Il prerequisito per la costruzione del sistema vestfaliano di stati nazione sovrani è sempre stato il sistema coloniale globalizzato. Solo gli stati che avevano acquisito il potere attraverso la lotta per gli imperi coloniali avevano il diritto di entrare nel sistema degli stati nazionali sovrani. Solo perché le potenze europee potevano sviluppare a piacimento imperi coloniali nei “nuovi territori” messi a disposizione dalle scoperte che potevano essere mantenuti i fragili equilibri di potere del sistema vestfaliano. Tuttavia, alla fine del XIX secolo, con la fine del periodo delle grandi scoperte, la lotta tra le potenze coloniali europee per l’egemonia mondiale portò allo scoppio della prima guerra mondiale, che accelerò la fine del sistema dell’imperialismo coloniale , così come la disintegrazione del sistema eurocentrico della Westfalia.

Se confrontiamo il tradizionale impero di civiltà regionale con il moderno impero coloniale globale, scopriamo enormi differenze nella forma.

Primo, mentre gli imperi regionali di civiltà sono sorti e caduti, si sono espansi e si sono contratti, hanno più o meno mantenuto una presenza regionale stabile; d’altra parte, i tentacoli dei nuovi imperi coloniali hanno ampiamente superato lo spazio geografico dell’Europa e si sono diffusi in tutti i continenti del mondo. Il loro potere non trovò nulla che potesse resistergli nelle Americhe, in Africa, in Oceania o anche nell’antica Asia, dando origine a un impero globale in termini di spazio geografico.

In secondo luogo, quando gli imperi di civiltà regionali conquistarono altri, spesso cercarono di sviluppare la civiltà, creando “unità” e “pace” nella regione; in confronto, gli imperi coloniali globali fin dall’inizio hanno fatto del commercio e dello scambio il loro principale obiettivo, e quindi le regioni che hanno conquistato non erano territori da governare, ma piuttosto colonie destinate a fornire materie prime, schiavi e mercati di esportazione alla madrepatria. Ecco perché le colonie e il sistema di schiavitù erano le due caratteristiche fondamentali degli imperi coloniali. In effetti, uno dei motivi importanti per cui l’impero cristiano poteva facilmente trasformarsi in un impero coloniale era che, dall’epoca degli imperi greco e romano, il commercio e il commercio avevano dato origine a un duraturo sistema di schiavitù.

In terzo luogo, gli imperi di civiltà regionali hanno sviluppato sistemi di governo ragionevolmente uniformi internamente e hanno utilizzato sistemi di governo diversi solo nelle aree locali alla periferia; al contrario, gli imperi coloniali globali fin dall’inizio hanno visto le colonie come semplici fonti di profitto economico, il che ha portato al moderno sistema imperialista in cui esiste una rigida separazione tra lo stato-nazione sovrano centrale e le colonie periferiche. In termini di regimi costituzionali, gli stati nazione sovrani europei e gli imperi colonizzati esistevano in due mondi legali completamente diversi.

In quarto luogo, le caratteristiche speciali degli imperi di civiltà regionali promuovevano l’armonia etnica all’interno della regione e della civiltà, così che anche se c’erano problemi etnici in questo tipo di imperi di civiltà, l’etnia non diventava un ostacolo alla costruzione di imperi; d’altra parte, se gli imperi coloniali globali hanno realizzato la loro espansione in nome della civiltà (contro la barbarie) – perché gli imperi coloniali fin dall’inizio hanno mantenuto rigide divisioni tra lo stato-nazione metropolitano e la colonia periferica, nonché corrispondenti differenze nello stato di cittadinanza – le norme di civiltà degli imperi coloniali hanno sempre contenuto elementi di razzismo. Per questa ragione, gli imperi coloniali non solo non sono riusciti a promuovere l’armonia razziale, ma hanno invece generato odio razziale e massacri senza precedenti. L’eredità creata dagli imperi coloniali rimane difficile da sradicare fino ad oggi.

L’ascesa degli imperi coloniali europei fu senza dubbio la seconda trasformazione nella storia dell’impero nell’umanità, e questo processo fu fin dall’inizio legato alle scoperte marittime, il che fece sì che i primi paesi a prendere il mare furono anche i primi a stabilirsi oltremare colonie e costruire imperi coloniali. Di conseguenza, la storia dell’ascesa e della caduta degli imperi coloniali europei prese la forma della storia della conquista dei mari, della padronanza della navigazione, dell’insediamento di colonie e della competizione per le colonie. Spagna e Portogallo hanno aperto la strada espandendo le esplorazioni marittime e stabilendo imperi coloniali d’oltremare, e questi paesi facevano affidamento sull’ortodossia dell’impero europeo per stabilire la legittimità degli imperi coloniali globali costruiti in questi territori appena scoperti.

Quando la successiva ondata di potenze, rappresentata da Olanda, Inghilterra e Francia, iniziò a competere per le colonie, l’impero europeo affrontò sfide alla loro legittimità. Infatti, la Riforma promossa da Olanda, Inghilterra e Francia era in realtà diretta contro la Spagna, il Portogallo e il contesto europeo medievale che li sosteneva. Questa situazione diede origine a una spaccatura nell’impero cristiano tra il gruppo cattolico tradizionale e il nuovo gruppo protestante, che finì per vincere.

A causa delle differenze tra le condizioni continentali e marittime, i paesi europei, nel processo di competizione per l’egemonia nella loro costruzione di imperi coloniali, svilupparono gradualmente due tipi di governo statale e coloniale: l’impero marittimo e l’impero continentale. Paesi protestanti come l’Olanda e l’Inghilterra hanno sviluppato imperi marittimi basati sul commercio globale. A livello nazionale praticavano il repubblicanesimo e, in termini di governo coloniale, facevano tutto il possibile per praticare il libero scambio e il commercio in condizioni di sovranità. Al contrario, i primi colonizzatori, come Portogallo e Spagna, così come i successivi arrivati ​​come Francia, Germania e Russia, per lo più ereditò lo stile di governo continentale-imperiale associato all’impero greco e romano e all’impero cristiano. A casa praticavano l’autocrazia e, in termini di governo coloniale, praticavano una forma autocratica di saccheggio.

Questo ci dice che le dicotomie ideologiche del pensiero europeo moderno tra repubblicanesimo e autocrazia, commercio e territorio, libertà e dispotismo, hanno in realtà le loro origini nelle dicotomie dei tipi di governo impiegati dagli imperi marittimo e continentale. Questi due diversi tipi di governo, nati dai diversi problemi affrontati dagli imperi continentale e marittimo, hanno influenzato profondamente la situazione mondiale durante la Guerra Fredda e anche dopo.

L’ascesa degli imperi coloniali accelerò la concorrenza tra gli imperi e l’intensificarsi dei conflitti imperiali accelerò anche l’arrivo delle moderne rivoluzioni nella tecnologia e nel pensiero, determinando così il passaggio dalla tradizione alla modernità. In una certa misura, questa competizione coloniale che si sta svolgendo sulla scena mondiale è stata una competizione tra gli imperi coloniali europei, ma allo stesso tempo, con la diffusione della cultura europea moderna nel mondo, altri imperi tradizionali sono stati incitati a studiare l’Occidente e, come le loro stesse riforme sono progredite, hanno anche partecipato al concorso.

Fu in questo contesto che gli imperi tedesco e zarista iniziarono a sviluppare i loro imperi coloniali e si trovarono coinvolti nella lotta globale. Allo stesso modo, il Giappone, situato ai margini dell’impero cinese, è stato il primo a “lasciare l’Asia per l’Europa” e ad abbracciare il mondo marittimo, affermandosi come potenza coloniale ed entrando nella competizione globale. Le due guerre mondiali furono teatro di una sanguinosa lotta tra tutti gli imperi coloniali del mondo per costruire quello che chiamarono un “impero mondiale egemonico unico”.

Jiang si riferisce qui a un editoriale pubblicato nel 1885 sul quotidiano giapponese Jiji shimpo, e probabilmente scritto da Fukuzawa Yukichi, che suggeriva che il Giappone avrebbe dovuto “lasciare l’Asia”脱亚 e unirsi al mondo occidentale.

“World Empire” 1.0: Dall’Inghilterra agli Stati Uniti

A cavallo del 20° secolo, a seguito di una competizione sempre più intensa tra imperi, la forma dell’impero cambiò nuovamente. Innanzitutto, nella competizione tra i tanti imperi mondiali, è apparso un “impero mondiale”, con colonie in tutto il pianeta, in grado di dirigere il commercio e gli scambi mondiali nonché di regolare gli equilibri di forze tra i tanti imperi europei. Questo è l’Impero Britannico dell’era della Westfalia, su cui “il sole non tramonta mai”. Inoltre, il modello di governo imperiale all’interno di questo impero globale si è costantemente evoluto; non più contenti del mero saccheggio coloniale, gli imperi globali si sono invece concentrati sul controllo del polso delle economie coloniali dominando la scienza, la tecnologia e la finanza.

Eppure è proprio questo nuovo modello di governo imperiale che ha portato gli imperi a concedere alle loro colonie livelli sempre più elevati di autonomia e sovranità, creando così una tendenza all’integrazione coloniale con le madri. Fu in questo contesto che si sviluppò il Commonwealth britannico. L’emergere di questo nuovo tipo di governo imperiale ha causato molti dibattiti tra colonie e imperi riguardo a “vecchi imperi” contro “nuovi”, “imperi coloniali” contro “imperi liberi” e “colonialismo” contro “imperialismo”.

Proprio come nella critica politica all'”imperialismo” di Hobson e Lenin, gli imperi coloniali tradizionali vennero chiamati “colonialisti”, mentre la nozione di “imperialismo” venne usata solo per riferirsi alla nuova forma di impero mondiale della Gran Bretagna , quello che potremmo chiamare colonialismo senza colonie. L’emergere di questa nuova forma di impero significava che l’espansione imperiale non sarebbe stata più basata sull’occupazione dei territori, ma piuttosto sul dominio scientifico e tecnologico, sul controllo finanziario e sul diritto internazionale. Ciò è tanto più vero in quanto il diritto internazionale non è più il diritto internazionale condiviso dell’era imperiale, ma leggi private che sono penetrate nei territori degli affari, del commercio e della finanza, Da tutti i paesi. In questo senso, uno stato-nazione sovrano potrebbe erigere un “impero mondiale” semplicemente attraverso il controllo globale della scienza e della tecnologia, della valuta e del commercio. È il modello dell’impero mondiale costruito dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti.

Le due guerre mondiali portarono la costruzione dell’impero mondiale in una nuova fase storica. Le chiamiamo “Guerre Mondiali” non solo perché in esse erano coinvolte potenze di tutto il mondo, ma anche perché molti imperi coloniali globali stavano lottando con la costruzione di un “impero mondiale”. In effetti, le due facce della Guerra Fredda che si sviluppò dopo la seconda guerra mondiale riflettevano la competizione tra due modelli di “impero mondiale”: uno era il modello americano, che aveva ereditato il nuovo modello “imperialista” sviluppato dall’Impero Britannico a la fine del periodo; l’altro era il modello sovietico, un’alleanza politica stabile che si basava su una convinzione comune nel comunismo e nella direzione del Partito Comunista tra le repubbliche alleate. In termini ideologici, questi due tipi di impero mondiale erano chiamati “liberalismo/imperialismo” e “comunismo”, che in termini di valori si traducevano in “libertà” contro “uguaglianza”, ma in termini di tradizione imperiale riflettevano ancora la distinzione tra imperi marittimo e continentale, con l’impero marittimo che esercita il controllo attraverso il commercio e il commercio, e l’impero continentale attraverso la moralità comunitaria.

Abbiamo limitato la nostra comprensione dell’idea di “impero”, sia a ciò che immaginiamo potrebbe essere stato l’impero regionale di civiltà classico, sia alla nostra critica dei moderni imperi coloniali globali, inclusa l’emergere della nuova forma di “impero mondiale ”, e per questo abbiamo prestato poca attenzione alla particolarità di questa forma imperiale. L’impero sovietico è stato spesso criticato come un impero tradizionale, affamato di territorio e di egemonia, che ha portato a ignorare le differenze tra il modello sovietico e le idee tradizionali di impero, comprese le forti convinzioni nella rivoluzione e nella liberazione contenute nell’ideologia comunista, che ha portato a il desiderio di stabilire un unico impero globale.

Una questione importante nel regno del pensiero politico oggi è l’enorme divario nel discorso mainstream tra l'”espressione” teorica di una nazione sovrana e la pratica politica universale degli imperi. Questo divario tra teoria e pratica ci porta a riflettere sul sistema concettuale dello “stato-nazione”, e quindi a utilizzare il concetto di “impero” per arrivare a una nuova comprensione della storia e della vita politica contemporanea. .

E poiché l’impero globale costruito dagli inglesi e dagli americani era basato su una valuta e un sistema commerciale, oltre che su un sistema di trattati internazionali, le persone spesso ignoravano la novità di questa forma imperiale. Era facile vederlo come un impero in cui stati-nazione sovrani, su un piano di parità, entravano nel sistema internazionale in seguito ai movimenti di liberazione nazionale avvenuti con l’eclissi degli ex imperi coloniali. Consideriamo le Nazioni Unite solo come rappresentative di questo sistema internazionale di stati nazionali uguali e ignoriamo il fatto che le stesse Nazioni Unite sono state il risultato della costruzione di un impero globale, un luogo di lotta nella costruzione di imperi mondiali. Alla fine della Guerra Fredda, l’abbandono delle Nazioni Unite da parte degli Stati Uniti e il suo abbraccio all’unilateralismo dimostra pienamente che la costruzione dell’“impero mondiale” guidato dagli USA è completa; nel mondo di oggi, Cina e Russia si trovano all’interno del sistema dell'”impero mondiale” guidato dagli Stati Uniti. Il motivo per cui le sanzioni economiche statunitensi, basate sul diritto interno, possono ottenere i risultati che ottengono è che il mondo è stato organizzato per soddisfare le esigenze di questo unico “impero globale”. “impero globale” guidato dagli Stati Uniti.

Ecco perché, invece di intendere la fine della Guerra Fredda come la “fine della storia” da un punto di vista ideologico, è più corretto vederla dal punto di vista dell'”impero mondiale”. . La “globalizzazione” guidata dagli americani nell’era del dopo Guerra Fredda, sia in termini di idee che di strategia militare, promuove l'”imperializzazione” americana e la costruzione di un unico impero globale. Nel contesto occidentale, questo è stato spesso chiamato il “nuovo impero romano”.

D’ora in poi, nessun paese potrà esistere al di fuori di questo sistema di commercio mondiale con la sua libertà, il suo stato di diritto e la sua democrazia. Ogni paese, che gli piaccia o no, sarà necessariamente coinvolto nella costruzione di questo impero mondiale. Lo storico cinese Tong Tekong 唐德刚 (1920-2009) parlava spesso delle “tre gole della storia 历史三峡”, che in sostanza si riferisce anche al processo di “fine della storia” e “impero mondiale”. Potremmo dire che la globalizzazione che stiamo vivendo oggi è il “one world empire” 1.0, il modello di impero mondiale stabilito da Inghilterra e Stati Uniti. In futuro, ogni paese dovrà cercare il proprio modello di sviluppo all’interno di questo ordine mondiale di libertà, stato di diritto e democrazia imperiale.

Tong Tekong (1920-2009) è stato uno storico cinese-americano che ha insegnato alla Columbia University e alla City University di New York. Le sue “tre gole” si riferiscono alle ere feudali, imperiali e democratiche della Cina, nonché alle transizioni tra queste epoche.

Attualmente, l’America è sottoposta a forti pressioni per mantenere il suo impero globale, soprattutto a causa della resistenza russa e della concorrenza cinese. Ma dobbiamo riconoscere che questa competizione è una competizione che si svolge all’interno del sistema dell’impero mondiale, una lotta per conquistare la leadership economica e politica dopo la realizzazione dell'”impero mondiale”. In effetti, possiamo intenderla come una lotta per diventare il cuore dell’impero mondiale. Questa lotta potrebbe portare al collasso e alla disintegrazione del sistema imperiale mondiale, o a un cambiamento in chi detiene il potere supremo nell’impero mondiale, o anche alla ricostruzione del sistema dell’impero mondiale, ma ciò che  assolutamente non si riprodurrà, è un ritorno al periodo storico segnato dall’esistenza di imperi di civiltà regionali.

Anche se Huntington considerasse la situazione mondiale del dopo Guerra Fredda come uno “scontro di civiltà”, e anche se questi scontri di civiltà si sovrappongono in una certa misura alla distribuzione geografica degli imperi di civiltà regionali, non possiamo assolutamente confondere i due. . Quello che Huntington chiama “scontro di civiltà” è in realtà solo una rivolta contro l’impero mondiale dall’interno, che si svilupperà necessariamente nell’ambito dell’attuale sistema di “impero mondiale”, così come deve necessariamente svilupparsi all’interno della narrativa filosofica universalista di la “fine della storia” della tecnologia, del commercio e del commercio, della libertà e dello Stato di diritto. Per questo il mondo futuro può solo progredire e ricostruirsi su questa base, che non può essere completamente capovolta a meno che il mondo intero non ritorni all’impero globale costruito dal fondamentalismo islamico.

Conclusione

Dal ventesimo secolo, il destino inevitabile dell’umanità è stato quello di entrare nell’impero mondiale. Sia che la vediamo come una fonte di “pace eterna” o che manteniamo le nostre aspettative comuniste, e che critichiamo e/o deploriamo l’egemonia tecnologica, economica e politica, non possiamo sfuggire all’arrivo dell’era dell’impero mondiale. Se diciamo che le origini dell’impero mondiale possono essere ricondotte alla competizione tra gli imperi di civiltà regionali, allora l’attuale impero mondiale 1.0 è il modello dell’impero mondiale modellato dalla civiltà cristiana occidentale.

Questo modello deve affrontare tre grandi problemi intrattabili: la disuguaglianza sempre crescente creata dall’economia liberale; fallimento dello stato, declino politico e governo inefficace causato dal liberalismo politico; e la decadenza e il nichilismo creati dal liberalismo culturale. Di fronte a queste difficoltà, anche gli Stati Uniti si sono ritirati in termini di strategia militare globale, il che significa che l’impero mondiale 1.0 sta affrontando una grande crisi e le rivolte, la resistenza e la rivoluzione all’interno dell’impero stanno disfacendo il sistema.

L’ascesa dell’impero globale ha completamente cambiato le tradizionali distinzioni politiche e ideologiche tra sinistra e destra, tradizionalmente basate sulla politica interna, come si può chiaramente vedere nelle elezioni competitive negli Stati Uniti e in Europa. L’ala destra, che tradizionalmente difendeva il libero mercato, si è mossa verso il populismo, mentre l’ala sinistra ha cambiato discorso e ora difende gli interessi speciali della globalizzazione. Questo capovolgimento ideologico riflette perfettamente la crisi che l’impero mondiale sta affrontando oggi, poiché non esiste un programma politico in grado di risolvere i tre grandi problemi che l’impero mondiale deve affrontare.

Potremmo concludere che viviamo in un’epoca di enorme caos, conflitto e cambiamento in cui World Empire 1.0 è in declino e tende a crollare, mentre non siamo ancora in grado di immaginare World Empire 2.0. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che cambiare la forma dell’impero è un lungo processo storico. Le poche migliaia di anni di storia umana hanno visto solo tre grandi cambiamenti nella forma imperiale, e ognuno di questi cambiamenti è stato accompagnato da un grande conflitto e caos. Allo stesso tempo, non possiamo negare che queste epoche di transizione storica hanno anche creato l’opportunità per ogni civiltà di costruire un impero globale 2.0. La civiltà che è in grado di fornire soluzioni reali ai tre grandi problemi che devono affrontare World Empire 1.0 fornirà anche il progetto per l’impero mondiale 2.0.  In quanto grande potenza mondiale che deve guardare oltre i propri confini, la Cina deve considerare il proprio futuro, perché la sua missione importante non è solo quella di far rivivere la sua cultura tradizionale. La Cina deve anche assorbire pazientemente le capacità e le conquiste dell’umanità nel suo insieme, specialmente quelle impiegate dalla civiltà occidentale per costruire l’impero globale. Solo su questa base possiamo considerare la ricostruzione della civiltà cinese e la ricostruzione dell’ordine mondiale come un insieme che si rafforza a vicenda.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/02/19/lempire-et-lordre-mondial-selon-jiang-shigong/?mc_cid=72b845a9d8&mc_eid=4c8205a2e9

SULL’ALBA DI TUTTO, di Pierluigi Fagan

ALL’ALBA DEGLI STUDI SULL’ALBA DI TUTTO.

Discorso ampio sul “problema dell’Origine” stimolato dalla lettura di: D. Graeber, Di. Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, 2022.

La storia umana sembra si sia svolta in un modo per il 99,8% del suo tempo per poi dar vita a tutt’altro modo per il solo 0,2% del suo tempo, che è poi quello che arriva fino a noi. Queste percentuali si basano sulla lunga storia dell’umano che parte dalla comparsa della nostra specie da una parte e sul limitato tempo che chiamiamo Storia ovvero nascita e sviluppo delle civiltà, dall’altro, tre milioni di anni da una parte, cinque-sei migliaia di anni dall’altra. Poiché noi siamo figli tanto della biologia che della storia, è interessante domandarsi cosa provocò questo Big Bang delle civiltà. Forse capendo meglio cosa lo provocò, capiremo meglio le cause a fondamento delle nostre attuali forme di vita associata. Così come la ricerca biologica ci sta permettendo di arrivare a manipolare la natura per renderci la vita più facile, la ricerca su questo aspetto della nostra storia potrebbe permetterci di capire come costruire meglio le forme delle nostre società e come fare intenzionalmente la storia, piuttosto che continuarla a subire.

È questo l’ambito in cui si sviluppa il lavoro di un antropologo americano, David Graeber e un archeologo britannico, David Wengrow, nel loro: “L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità” che ha avuto una ricezione importante soprattutto in ambito anglosassone. Useremo il loro testo per pensare con loro intorno a questo tema. Il tema è ad altissima sensibilità politica. A seconda di come leggerete la genetica del fenomeno, darete significati diversi ai concetti di uomo, società e politica, passato-futuro. Graeber è politicamente piuttosto famoso essendo stato dichiaratamente anarchico (si usa il passato perché nel frattempo è morto due anni fa, poco dopo aver finito il libro). Allievo di Marshall Sahlins, tra i promotori del movimento Occupy Wall Street, autore di molti altri testi politici interessanti[1]. Di Wengrow ho meno da dire se non che evidentemente condivide con Graeber molte forme della stessa immagine di mondo tanto da aver condiviso con lui altri studi pubblicati, sebbene si sia dedicato più all’archeologia comparata, con fuoco principale proprio su processi di formazione dei primi Stati. Chi scrive, politicamente, si definirebbe democratico radicale, oltre a non essere di cultura anglosassone, né archeologo, né antropologo, ma studioso delle varie forme di complessità. Chiarite le reciproche posizioni di immagini di mondo, entriamo più nel merito.

Come detto, il tema è quello dell’Origine non dell’uomo ma delle sue più complesse forme di vita associata e per entrare nel merito inquadriamo un po’ lo stato delle conoscenze e delle idee sul tema stesso. Dopo il lungo dominio delle storie versioni Antico Testamento, ha fatto seguito il contrapposto disegno sulle prime forme sociali ipotizzato da Hobbes e Rousseau. I due “ipotizzavano” al netto di ogni reale conoscenza concreta. Nel XIX secolo, subito dopo l’Origine delle specie di Darwin (1859) che tanto eccitò Marx, questa attenzione su quella che chiameremo “il problema dell’Origine”, comincia a rivolgersi di nuovo proprio all’Origine sociale con “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Friederich Engels in quel del 1884[2]. L’opera di Engels successiva la dipartita di Marx, elaborava loro scambi di idee mossi dall’altrettanto avida curiosità di Marx riguardo questo tema. Si sa di questa ultima divorante passione intellettuale del tedesco dalle note lasciate a seguito delle letture da lui fatte di opere antropologiche di L. H. Morgan e H. S. Maine[3]. C’è chi dà colpa a questa ultima divorante curiosità e passione, per spiegare il perché Marx non terminò mai la revisione per la pubblicazione del secondo e terzo libro del Capitale sebbene sappiamo dalla corrispondenza privata, Engels lo pressò a lungo a riguardo, ma inutilmente. L’opera di Engels declinava il nucleo del “materialismo storico” nella lettura dei fatti antropologici soprattutto sui nativi americani, secondo le conoscenze di allora ovvero circa centoquaranta anni fa. Se la conoscenza antropologica era ai primordi sia per ampiezza (i soli nativi americani, più che altro irochesi), sia per metodi, la conoscenza archeologica era ancora lungi da affiancarsi. L’argomento, quindi, permetteva la totalmente libera proiezione ideologica. Tanto per dirne una, alla data dell’uscita dell’opera di Morgan, Darwin stava ancora litigando con suoi vari detrattori sostenendo che il tempo della storia della vita non era lungo solo seimila anni come previsto dalle Scritture[4], ma molto e molto più esteso. L’idea che l’uomo avesse tre milioni di anni non era proprio pensabile, come ignoto era la Terra ne avesse 4,5 miliardi di anni. Di conseguenza del tutto ignoto che prima di Babilonia vi fosse stata una lunghissima storia. Dato il poco spazio mentale per la variabile “tempo”, va da sé che la complessità della vita potesse aver avuto causa solo in un atto di creazione di tutto in poco tempo e lo svolgimento della storia umana e sociale mostrasse cambiamenti con “teorie interruttore”, dove cioè una sola causa creativa (recente) determina tutto il successivo. Come Dio, si credesse o meno alla sua esistenza, l’uomo creava cose che cambiavano il mondo, a salto. Così, a salto, sembrava fosse da razionalizzare la rivoluzione industriale inglese nel cui contesto temporale pensavano a scrivevano Morgan, Maine, Marx, Engels.

Da allora il registro etno-antropologico è diventato una corposa enciclopedia di casi e conoscenze, espandendosi nello spazio e nel tempo e soprattutto, raffinando progressivamente anche i metodi e le griglie interpretative. Va però segnalato che nel registro etno-antropologico troverete come esistenti le più varie forme di vita associata, da quelle estremamente egalitarie e pacifiche a quelle verticali e belliche, questioni di gusto ed opportunità fanno scegliere agli studiosi questo o quell’esempio come più significativo[5]. Dopo l’antropologia, arriverà l’archeologia e va detto che se il volume del sapere archeologico è meno espressivo ha però il pregio di esser concreto mentre quello antropologico lo è altrettanto se ci riferiamo agli aggregati umani studiati in vivo, ma diventa più problematico se si usano questi casi per retroproiettare le conoscenze come fossero conoscenze su “fossili viventi” nel tentativo di diradare le nebbie su come effettivamente vivevano gli antenati del tempo profondo. Altresì, le nostre conoscenze archeologiche sull’argomento sono comunque molto aumentate e migliorate negli ultimi decenni, sia perché sono aumentate in quantità (scavi), sia perché è molto migliorata la nostra capacità di trarne informazioni. Dalle datazioni alla paleobiologia, dalla paleoclimatologica ed ecologia alla comparazione, all’estensione temporale indietro fino alla paleoantropologia, l’analisi genetica delle popolazioni, la capacità interpretativa si è amplificata. Questo movimento espansivo delle conoscenze è tutt’ora in corso e non è raro leggere opere anche solo di qualche decennio fa, oggi del tutto falsificate da scoperte o interpretazioni successive più recenti. L’intero processo è comunque gravato da condizionamenti ossia chi scava e finanzia gli scavi, come e perché lo fa e perché si sceglie di scavare qua e non là, chi interpreta ed in base a quali conoscenze; quali sistemi di idee, ideologie, paradigmi ed apriori si usano per interpretare, forme delle istituzioni della conoscenza, etc. Come detto, la natura potenzialmente “politica” di questo tema chiama questi condizionamenti anche più che in altri campi. Così come ogni altro argomento, anche questo risente dagli andamenti delle conoscenze del tempo. Nel senso che quanto si dice in merito, deve fare i conti anche con ciò che si ritiene oggi “vero” in molte altre discipline, dalla biologia evolutiva ai vari impianti di analisi storico-sociale.

Tutto ciò ci porta a segnalare due primi problemi nell’approccio dei due studiosi anglosassoni. Sebbene all’inizio segnalino questo problema del rapporto tra conoscenze antropologiche ed archeologiche citando una sorta di invito alla massima cautela proferito a suo tempo da Levy Strauss, le parti di Graeber che è un antropologo, sembrano a volte violentare i fatti archeologici trasferendo modelli della sua disciplina per riempire i vuoti di conoscenza che tutt’ora si hanno, abbondanti rispetto a quanto si mostra in archeologia. S’intenda, queste retroproiezioni sono di principio scorrette ma non sempre o non del tutto improprie, è un confine delicato da valutare e discutere caso per caso. A noi sembra che, in alcuni casi, Graeber sia andato un po’ oltre. I gruppi di cacciatori-raccoglitori studiati dall’Ottocento in poi, mai si trovavano nelle stesse condizioni degli antenati. Spesso assediati dai più o meno moderni, a volte con loro anche in saltuario contatto, limitati territorialmente nello spazio e nelle risorse, alle prese non con le ecologie e climi del tempo profondo, anche il ricercatore spesso turbava i loro comportamenti per il solo fatto di osservarli e studiarli. Erano quindi senz’altro viventi, ma fossili non proprio. Dal punto di vista dell’adattamento, gli antichi cacciatori raccoglitori e quelli recenti, si trovavano in due contesti diversi. Nei casi di queste varie tribù o addirittura popoli citati, c’è raramente una quantificazione demografica, propria e dei vicini, ma a volte queste fanno la differenza. Altresì, l’argomento chiama a conoscenze molto estese che non sempre si rinvengono nel testo, ed i due, a volte, sembrano prendere un po’ troppo alla leggera considerazioni demografiche, ecologico-ambientali, tecnologiche, femministe, apporti di biologia evolutiva ed altro.

Un problema epistemologico simile a quello dei rapporti tra antropologia ed archeologia, c’è nell’utilizzo della primatologia. Poiché discendiamo biologicamente dai primati, osservando questi potremmo dedurre alcune componenti fondamentali del nostro modo di essere? Ciò non è sbagliato in via di principio, però è molto delicato farlo. L’umano mostra, ed anche precocemente, una mente ben diversa in termini di intenzionalità. Dato che ex post possiamo rilevare la profonda diversità di capacità adattiva tra scimmie ed umani, le prime di popolazioni ancora contenute e confinate a precise nicchie ecologiche mentre noi siamo oggi alla soglia degli 8 miliardi ed ambientati dappertutto, capire quanta ancora “scimmia” abbiamo in noi è complicato. In più c’è da vedere anche quale scimmia, se ad esempio scimpanzé o bonobo stante che in realtà noi discendiamo con loro da un’altra specie ancora non individuata. Ma poi c’è anche il problema di capire come questi primati cugini che studiamo, mostrino gli stessi comportamenti di quelle più antiche ambientate nei contesti ecologici dei tempi più profondi. Ed anche quanto valgano le osservazioni dei vari soggetti nell’ambiente artificiale dei laboratori per esprimenti comportamentali o quelle fatte in vivo naturale e con quanta invasività degli osservatori.  G-W, comunque, risolvono il problema alla radice in quanto non si occupano del tutto dell’argomento visto che la parte del loro studio relativa al paleolitico è riservata a poche paginette dedicate al solo paleolitico superiore che inizia, circa, 50.000 anni fa. Peccato però perché alcune scoperte sul nostro essere nel paleolitico sarebbero state più pertinenti da usare nello studio che non convocare questa o quella tribù o popolo di qualche secolo o decennio fa.

Chiariti alcuni aspetti metodologici, entriamo più nel merito segnalando che l’avversario ideologico principale dei due è la modalità del ragionamento teleologico. Questo tipo di ragionamento parte da uno stato di cose, analizza i processi che l’hanno causato, vi trova le inderogabili ragioni per cui così è andata perché non altrimenti poteva andare visto che il tutto aveva una sua finalità intrinseca e prescritta[6]. Tutto ciò urta la loro aspirazione alla libertà umana e sociale, quindi politica. I due intendono combattere questo tipo di ragionamento applicato al problema dell’Origine delle forme di vita associata umana lungo il percorso che portò piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori mobili, a formare società stanziali massive di tipo gerarchico. Lo sviluppo del discorso coinvolge nostre idee su cos’è l’uomo, le sue forme di vita associata, le forme politiche, il potere e le gerarchie sociali, uguaglianze e diseguaglianze, le libertà, la storia stessa che questa ha preso nei suoi svolgimenti, le variabili che hanno concorso ai vari esiti. Va da sé che “un altro mondo è possibile” solo se si rifiuta il ragionamento teleologico. Quindi, in breve, la loro tesi è che le cose non sono veramente andate come ci siamo sin qui raccontati e quindi non è vero che così dovevano andare e quindi il nostro attuale stato di cose si può immaginare trasformabile poiché la storia prima della Storia è stata più varia e libera di quanto l’abbiamo pensata e scritta. Se così si mostra, secondo loro, nel profondo passato, così può esser oggi e per il futuro, quindi “un altro mondo è possibile”.

Ma su questo svolgimento c’è da fare un appunto. Questa forma di determinismo evoluzionista, peggio poi quando è applicato al campo sociale con abuso di analogie precarie, è tipica di certa cultura anglosassone ed i due sono immersi del tutto nell’ambiente culturale anglosassone (oltre esserlo loro stessi). Graeber ha anche avuto anche non pochi problemi accademici per le sue opinioni e metodi e si ricorda che era anglosassone, ma americano. Noi sottovalutiamo in genere questa geo-cultura delle immagini di mondo. Convinti che la pensiamo tutti nello stesso modo in quanto occidentali, non notiamo a sufficienza che la nostra menetalità “continentale” non coincide sempre del tutto con quella anglosassone viepiù quella americana. L’operazione condotta da G-W prende allora di mira i principali singoli punti del tema e compie una revisione critica dicendo che le cose sono andate molto diversamente da come si sostiene nel loro vasto campo di studi. Ma non è che l’impianto teleologico non stia in piedi perché i suoi assunti siano sempre singolarmente infondati, non sta in piedi prima di entrare nell’analisi dei singoli punti, non sta in piedi come logica dell’impianto di ragionamento. Lo segnaliamo perché la furia critica usata dai due nell’operazione, a volte fa forse un po’ troppa confusione buttando via bambini con le acque sporche. Qui, una certa ingenuità filosofica ed anche una limitazione della multidisciplinarietà ha giocato un ruolo negativo alla loro argomentazione. Nel caso della fatidica “origine delle diseguaglianze” non c’è alcuna logica sostenibile che porti obbligatoriamente dalla lettura del perché e come sono nate al conseguirne che così è giusto che sia e debba esser per sempre. Non era necessario arrivare a negare l’egalitarismo tendenziale degli antichi gruppi di caccia e raccolta, idea questa largamente condivisa dalla maggioranza degli studiosi, molti di fede politica anche vicina se non del tutto coincidente proprio con quella di G-W. Ma tutta la faccenda è molto complessa quindi sarà il caso di entrare ancora più nel merito specifico, punto per punto. E come annunciato, su molti di questi punti faremo anche discorsi più ampi.

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Vediamo i punti di teoria generale che i due autori attaccano. Il primo punto che mi sento molto fortemente di condividere è l’insopportabile condimento moralistico alle teorie. Non c’è ragione di pensare che l’uomo antico fosse “buono” e dopo anche “cattivo” (Rousseau) o “cattivo” da sempre ed anzi un po’ “meno cattivo” dopo poiché ingabbiato nelle regole civili (Hobbes). Quelle che ci sembrano bontà e cattiveria sono giudizi variabili su variabili comportamenti umani in entrambi i casi sollecitati dalle situazioni. Giudizi propri di immagini di mondo recenti applicate a forme del tempo profondo, un anacronismo. L’uomo ha una essenza molto varia che tocca punte di modi di essere diametralmente opposti, forse è la sua stessa vincente lunga storia adattativa ad aver modulato così tanta varietà. Soprattutto la base dei fatti va separata dai giudizi che possiamo dare in ambito di filosofia morale che, rispetto a XVII e XVIII secolo, ha oggi anche senso molto più relativo. Dimentichiamo quindi ogni passione morale e concentriamoci sul capire come sono andate le cose prima di darne giudizio.

Il secondo è la critica all’evoluzionismo sociale, a varie scansioni. Qui forse gli Autori risentono dell’effettivamente indigesto evoluzionismo anglosassone (per altro, non tutto) che eccede spesso in determinismo e riduzionismo. È questo un punto in cui potrebbe partire una analisi propria del concetto di “evoluzione” (termine-concetto neanche usato nella prima edizione dell’Origine di Darwin), sviluppato dai suoi primi interpreti (Spencer) così simile all’altro coevo concetto di progresso (sempre Spencer) e poi lungo sviluppato nella nuova Sintesi moderna ancora fino a noi fino al determinismo genetico alla Dawkins e poi fino alla arrogante assertività psicobiologica di Pinker ed altri. È una faccenda che richiederebbe un suo trattato più che una nota. Se ad esempio si prova a dire più o meno quello che viene presentato come “evoluzione” sociale (ed anche biologica), parlando di adattamento invece di evoluzione, gli stessi contenuti perderebbero significato teleologico perché l’adattamento risponde ad un contesto ed i contesti sono variabili. Altresì, è vero che spesso i confini tra i vari stadi di questa presentata “evoluzione” sono incerti ed i processi a volte reversibili e molto meno lineari di quanto narrato. Qui c’è un problema proprio epistemologico ovvero le descrizioni a grana grossa e quelle a grana fine. Alcune asserzioni sulle molecole sono vere fino a che non si scende al livello degli atomi e su questi sembrano vere fino a che non si scende alla scala quantistica, è un problema di grana. Del resto, se scrivessimo sempre descrizioni di fenomeni storici a grana fine, scriveremo metri quadrati di biblioteche per le cose più semplici, dobbiamo generalizzare per ragioni di semplice economia cognitiva anche se sarebbe giusto esser più consapevoli del fatto che ciò che appare da vicino, non è quello che appare da lontano, l’inquadramento stretto è diverso da quello largo, la compressione temporale nelle descrizioni taglia una geografia dei sentieri causali molto arzigogolata fatta a volte di cause ma anche da un po’ di caso. Lo stesso nostro apparato percettivo della corteccia temporale inferiore ha nell’area V4 campi più ampi per le visioni d’insieme e campi più stretti V1 per le messe a fuoco limitate ma più precise, ma alla fine noi andiamo di continuo avanti ed indietro tra le due per la percezione complessiva[7]. Nella conoscenza, questo avanti ed indietro è più problematico da trovare in un singolo autore. Altresì si deve vigilare su queste necessarie riduzioni del discorso che nella gran grossa sintetizza la pluralità ed a volte contraddittorietà della grana fine, ma purtroppo si deve accettare il fatto di farle se vogliamo cogliere nel nostro limitato spazio mentale intere veste porzioni del fenomeno del mondo. Ci eviteremo così lunghe ed inutili discussioni tra la supposta verità macro e quelle micro, stante che sono vere entrambe ma a grana diversa e con diversa utilità cognitiva. “Vere” perché ci sono utili e tra loro coerenti, non perché corrispondano del tutto al fondo noumenico della realtà. Infine, approcciati con una logica fuzzy che sfoca le soglie di significato, molti livelli definitori assumerebbe valori più graduali, come graduale è la varietà dei casi. Quindi “evoluzione”, nel latino ciceroniano dove il termine compare per la prima volta, significa “svolgimento”[8], queste storie dette “evolutive” sono svolgimento di forme più o meno adattive, non c’è alcun chiaro fine e quindi teleologia. La Terra non è il fine della fisica, la vita non è il fine della chimica, l’uomo non è il fine dell’evoluzione vitale, le società gerarchiche centrate sul possesso di capitale non sono il fine intrinseco dell’avventura umana in forme di vita associata. Il “non c’è alternativa” è una asserzione semplicemente ridicola.

Il terzo punto da affrontare è forse il centro del tema centrale. Deriva proprio da quell’incremento di quantità e qualità delle conoscenze archeologiche che abbiamo prima citato. Incremento che arriva però non su un foglio bianco ma su fogli e fogli di idee largamente condivise e sedimentate nelle immagini di mondo, cioè tessute con molte altre provenienti da varie discipline e con destinazione filosofica e politica rilevante. Tutto ciò forma canoni, ideologie e dà cattedre universitarie.  Rimuovere queste conoscenze condivise non è facile poiché l’intero ordito delle immagini di mondo condivise fa attrito. Lo stesso fatto si debba fare i conti con le idee di un inglese di metà XVII secolo ed un franco-svizzero del XVIII che teorizzavano su fogli bianchi, dice di quanto complicata sia la formazione e peso delle immagini di mondo. Ma di cosa si tratta nello specifico? L’intera narrazione nata nel XIX secolo in ambito britannico ed ancora molto influente sull’invenzione dell’agricoltura che avrebbe modificato i modi di produzione e questi i modi sociali, il prototipo delle teorie interruttore applicate all’Origine, non è vera in più punti ed alla fine è falsa del tutto se intesa come causa prima del salto che portò alla civiltà. L’agricoltura non fu affatto una invenzione, oltretutto tarda come prima ci sembrava, pratiche di coltivazione e varia cura del selvatico prima che di domesticazione precedono anche più di 10.000 anni il prima ritenuto, ma la conoscenza sulla seminazione è anche molto precedente[9]. Non fu quindi una rivoluzione ma una lunga transizione adattiva. Tra l’altro, che noi si sappia poco di questi tempi è un fatto, ma che noi si fondi su questa ignoranza palese l’idea che il mondo vada avanti a rivoluzioni quando nel caso abbiamo un tempo che è quattro volte più ampio di quello che mettiamo nei nostri volumi di storia generale, è assai improprio. Mai visto “rivoluzioni” che si compiono in diecimila anni, in diecimila anni si possono notare trasformazioni. Inizialmente, una certa cura del naturale prodotto vegetale aveva funzione di semplice integrazione alimentare, poi di stoccaggio per compensare i variabili risultati della caccia raccolta. Per altro silvicultura ed orticultura (quest’ultima dagli apporti anche molti rilevanti oscurati dalla nostra furia ideologica centrata sui cereali) furono anche più precoci. Quanto ancora sull’idea dell’invenzione, si è proceduto con calma allo sviluppo detto “agricolo” in qualcosa come 14 diversi luoghi del pianeta attestati archeologicamente ed altri 9 dedotti bio-geograficamente, senza poter ipotizzare e per varie ragioni, meccanismi di diffusionismo. Quindi non è stata una invenzione anche perché si è ripetuta per più di venti volte in tempi lunghi e luoghi diversi. I modi di produzione della sussistenza che per lungo tempo non sono stati solo di caccia e raccolta, ma anche pesca (e la cosa fa differenza nelle nostre descrizioni dell’uomo paleolitico, così come la “caccia” non era sempre caccia grossa), si sono progressivamente ampliati a gli apporti della silvicultura, orticultura, agricoltura del selvatico, poi agricoltura basata sulle piogge o sulle inondazioni periodiche e solo dopo nell’agricoltura dipendente dall’irrigazione e questo lungo adattamento che è durato migliaia di anni e solo alla fine arriva a collassare la grande varietà alimentare precedente nella monotonia agricola su vasta scala. E non per convenienza intrinseca della modalità a lungo evitata dagli uomini del tempo come unica fonte di sussistenza, ma per necessità per un complesso di cause come poi meglio vedremo. Infine, abbiamo a registro anche società agricole ma non per questo gerarchiche socialmente, così come società stanziali ma non per questo agricole. Occorre cioè ampliare il modello ad altre variabili se vogliamo capir meglio come ha funzionato la dinamica reale, togliendo ogni determinismo produttivo-economico quale riecheggia in teorie il cui calco è preso dalle c.d. “rivoluzione industriale” britannica del XIX secolo. Modello universalizzato come legge della storia e dell’economia moderna per varie ragioni, tra cui l’idea stessa la storia e l’economia dovessero avere “leggi”, per “invidia scientifica” nei confronti della fisica in tempi in cui furoreggiava il positivismo. Come anticipato ed ormai noto ai più che studiano l’argomento, la stanzializzazione dei gruppi umani, in più casi precede e di molto l’utilizzo dell’agricoltura nelle sue varie forme, il nesso di causa, qui come altrove, andrebbe semplicemente invertito. Fu la precoce stanzializzazione in condizioni di offerta alimentare agevole che, quando tali condizioni non furono più così agevoli, portò a finire nella mono-dimensionalità cerealicola[10]. Diversamente da come altri hanno provato a sostenere, non siamo finiti schiavi delle nostre invenzioni originariamente di belle speranze, siamo finiti in una singolarità di necessità a cui abbiamo dato un esito che ci sembra monotono solo perché adattativamente non siamo stati in grado di far diversamente. Questo nostro primo modo di adattarci, il modo degli ultimi cinquemila anni, un tempo ridicolo in termini evo-adattativi, non è l’unico modo possibile, solo quello che ci è risultato più facile perché non in grado di farlo diversamente visto che siamo finiti al centro di campi di forze causative più forti della nostra capacità di dominarle. Ma non è detto che noi si sia condannati ad esserne dominati per sempre. Capire cosa ha agito in questo fenomeno è appunto propedeutico a capire come manipolarne le variabili diversamente per ottenere altri esiti.

Qui si rivela anche la differenza portata dallo sviluppo delle nuove discipline quali la paleo-geografia, la dendro-cronologia, la paleo-botanica, la paleo-climatologia ed altre. Semplicemente, come per altre accennano i due ma ritraendosi quasi subito dal tema, da 12.000 o poco più anni fa siamo entrati in un nuovo regime climatico, l’Olocene. Già da poco prima cominciarono a sciogliersi i ghiacci, il mondo è letteralmente invaso di acqua dolce, cresce la vegetazione, crescono le popolazioni animali, cresce la biodiversità, gli umani si trovano progressivamente in una sorta di paradiso terrestre fatto di relativamente ricca abbondanza, in pochi con in tanto spazio. Ciò che ai due non piace tanto sottolineare è che, banalmente, cresce progressivamente anche la consistenza demografica delle popolazioni umane e tutto ciò ben prima dell’agricoltura. Sia quella delle dimensioni dei gruppi che anche per questo spesso si stanzializzano, sia quella della densità relativa per singoli areali, evidentemente i più “ricchi” quanto ad offerta di alimenti e condizioni di vita. Fatto quest’ultimo poi rilevante per lo sviluppo delle varie “culture”, dello scambio genetico, delle idee, delle tecniche, dei prodotti (eccedenza vs mancanze), ma alla fine, motivo anche dell’addensarsi improvviso di grandi gruppi in singoli luoghi. Quando ciò è avvenuto in certe aree ad alta densità abitativa, sono poi nati diversi problemi che infine porteranno al ripiegamento verso l’agricoltura irrigua e da qui alle dispute territoriali, quindi poi alla figura del militare ed altre classi o caste. Purtroppo, per avere prove dirette ed inequivocabilmente fondate di questa ipotesi demografica dedotta per gran parte da quella climatica, dovremmo scavare ampie zone (oggi per altro spesso abitate) ed a più strati, un impegno che siamo molti lontani da poter prendere. A noi questa “dipendenza dal contesto” sembra inequivocabile e palesemente logica senza per questo finire nel determinismo demografico o ecologico. Ragionar per complessi di cause è anti-determinista per principio, è chi è già determinista di un tipo che ti accusa di esser determinista del tipo che a lui non piace. Come, ad esempio, fanno gli economisti quando sentendo considerazioni demografiche evocano subito lo scomodo fantasma di Malthus. Infine, un effetto poco considerato di questo fenomeno durato millenni fu portare i gruppi umani ai limiti di possibilità dell’equilibrio adattivo. Quando si manifestarono, come sappiamo proprio dalla paleo-climatologia, anche relativamente leggere fluttuazioni climatiche (in Mesopotamia nel 6500 a.C. e poi nel 4500 a.C.) in direzione inversa con ripresa di temperature poco più fredde ma soprattutto molto più secche, il precario equilibrio tra grandi gruppi umani già stanziali-volumi di sussistenza-natura (ecologie e climi) spinse a ricorrere sempre più all’agricoltura irrigua. Ma ciò fissò in certi territori ed impose quella progressiva strutturazione sociale che poi leggiamo come emersione della civiltà con i suoi pro ed i suoi contro, come ogni adattamento.

Tutto questo si ritrova anche nelle antiche mitologie come perdita del “paradiso” precedente e non ci riferiamo solo a quella vetero-testamentaria che fa eco a quella più antica di Gilgamesh, c’è anche nella mitologia cinese. Ma più di tutto fa fede l’analisi della consistenza ossea e proteica degli scheletri rinvenute nelle sepolture lunga questa transizione. L’uomo perde dimensioni e forza, si manifesta un dismorfismo sessuale prima appena accennato ed aggravato dai diversi regimi dietetici che indicano anche, l’emergere di una gerarchia uomo-donna prima forse non esistente come ogni altra forma di gerarchia sociale di tipo fisso. Perde pare anche in salute generale, anche perché più monotona la dieta, carne e pesce diventano più rari e difforme ne è la distribuzione dentro i gruppi umani che provenendo dall’abbondanza ora scoprono la scarsità e la diseguaglianza delle proteine. Lo stesso vivere in tanti in poco spazio ed a contatto con animali porterà anche le prime zoonosi ed epidemie. Nelle prime città collassano non solo le precedenti reti dei villaggi di più ampi areali, ma spesso anche popolazioni ancora seminomadi e basate su caccia e raccolta di areali vicini le cui ecologie stavano cambiando. Cambiando per ragioni climatiche, ma anche perché le crescenti densità relative dopo aver vissuto per un po’ con una domanda che eccedeva l’offerta naturale, non aveva più equilibrio con il circostante, stava esaurendo le risorse. G-W ricordano correttamente quello che è già noto in questa area di studi ovvero che tutto ciò, a grana fine, non mostra alcuna linearità. Molte prove, molti fallimenti, molte scelte poi reversibili, il censimento dei tentativi cittadini, se avessimo effettivamente tutte le prove archeologiche, mostrerebbe il classico fenomeno di molti tentativi con molti errori di cui pochi o forse pochissimi si stabilizzano e diventano la base di una nuova storia.

Come si vede tra ideologia e conoscenza c’è di mezzo il modello ed il modello dipende dal numero di variabili e loro interrelazione che si adopera per sviluppare conoscenza. Meno variabili mettete più potete strattonare i fatti a seconda di dove la vostra ideologia vuole arrivare a definire la sua agognata “verità”, che invero viene stabilita prima dei fatti stessi. Si capisce che per chi ha dedicato la vita a studiare il mondo solo tramite le lenti economiche o della storia del pensiero simbolico e religioso o tramite qualche vario strutturalismo o biologismo evolutivo o qualche altra selettiva forma di visione ed interpretazione come i tecnologi, scocci prender atto di cose magari poco conosciute come i rapporti tra climi, ecologie e demografia (vegetale, animale, umana) siano state complessi di cause efficienti. Sebbene poi occorra anche qui rifuggire dal determinismo e vedere come queste nuove condizioni hanno avuto a grana fine affetto sulla assai varia e composita complessità umana, a quali modalità hanno dato vita caso per caso. Forse il caso mesopotamico che è poi quello che conosciamo meglio, non è del tutto uguale a quello cinese, che non del tutto uguale a quello vallindo, che non è del tutto uguale da quello mesoamericano. Il significato epistemologico di tutto ciò è dimenticarci la monocausa-effetto e considerare il principio di causa complessa ovvero complessi di cause non lineari.

Infine, per chiudere il punto, anche come accennato dai due in altri contesti del loro lavoro, tutto ciò ovvero il grande improvviso afflusso di acqua prima rappresa nei ghiacci ci ha indicato che le coste del tempo profondo oggi sono sotto metri e metri di acqua, fino a 120 metri o più. Dove però questi effetti si sono sentiti meno come i laghi o i fiumi, ma poi scavando anche sott’acqua di mare[11], emerge con chiarezza che vivere sulle rive e sulle coste era la preferenza, forse la prima, degli uomini antichi. Ma quanti accademici con cattedra in base a volumi e volumi scritti sulla caccia, le armi, le tecniche, l’aggressività primate del maschio paleolitico sopravviverebbero a nuove descrizioni sulla lenta raccolta di cozze e telline di uomini, donne, bambini sugli scogli antichi, cantando e giocando? Così per l’orticultura come se zucchine, fagioli, piselli, e quant’altro non assolvessero funzioni nutritive che per altro non assolvono davvero proprio i cereali. Per non parlare degli avicultori, la pesca, i chiocciolai etc. Insomma, il ricorso all’output agricolo domesticato ed irrigato manipolando i rapporti tra terra ed acqua dolce fluviale è solo la fine di un lungo processo adattivo svolto mentre le condizioni naturali che erano sensibilmente migliorate progressivamente, avevano aumentato la consistenza delle popolazioni per questo motivo, in molti casi già stanzializzate come plasticamente vediamo a Catalhoyuk[12], circa 7000 persone inurbate già 9000 di anni fa e con sussistenza mista. Consistenza interna ai singoli aggregati, ma anche loro densità territoriale. Catalhoyuk, ad esempio, sembra non aver “vicini” di prossimità, quando invece avremo piccole prime cittadine di dimensione simile, per altro in altri contesti ecologici, ma con “vicini” con cui condividere il territorio, sorgeranno altre dinamiche. Un equilibrio al limite delle capienze venne in seguito più volte turbato da oscillazioni climatiche che spinsero gli stanziali sempre più vicino ai fiumi, creando le prime città ma in alcuni casi, anche il nuovo problema degli spazi in competizione. La estrema varietà alimentare dei tempi d’oro si restrinse ai cereali per tutti e prodotti di allevamento, ma non per tutti, compensazioni di scambio tra eccedenze e mancanze con altri gruppi umani di altre ecologie. Già nel mesolitico delle aree in cui si formano le “culture” condivise tra più centri in interrelazione, vediamo spesso il formarsi di specializzazioni che poi partecipavano a reti di scambio ampie. Ma questi scambi sono anche dipendenze che poi, in successive condizioni, portano a fondere i gruppi nelle prime città. Provenendo dall’abbondanza relativa si piombò nella relativa scarsità e necessità di organizzarsi in forme complesse per farvi fronte. Questo primo impatto con la complessità venne risolto nel modo più semplificante ovvero rendendo progressivamente gli aggregati sociali dei sistemi gerarchici fissati con certe rigidità. Così è andata più o meno ovunque ma non c’è alcuna ragione di ritenere così sarà per sempre, nelle cose umane il “per sempre” non esiste, la stessa logica dell’adattamento dice che lo standard dell’essere è il divenire. Ripetiamolo, se sostituite a teoria dell’evoluzione, teoria dell’adattamento, la teleologia scompare magicamente in via logica. E soprattutto vi ricorda che i sistemi in esame (uomo, gruppi, popoli) stanno in un contesto e ne risentono, non producono dinamiche per logica propria astratta, rispondono a sollecitazioni esterne ed influiscono su queste stesse turbando i contesti.

Come vedete, se andate in multidisciplinare ed a grana fine, appare un mondo che non è quello su cui potete scrivere una critica di mezza cartella citando Hobbes, Rousseau, liberalismo e materialismo storico, individualismo o socialismo e quant’altro vi frulla per la testa dandovi il piacere di pensare che il mondo è proprio come l’avevate pensato. Sarebbe ora archiviassimo collettivamente questo complesso di idee proprie del moderno, recepissimo le novità sia sui fatti su sul come connetterli tra loro, sia sul come interpretarli. Questo complesso mentale risale nel migliore dei casi al XIX secolo quando noi europei eravamo in cima alla piramide dello sviluppo storico alimentato dal nostro dominio sul mondo naturale ed umano che contava uno scarso miliardo di umani. Oggi siamo destinati a dominare quasi più nulla ed in alcuni casi siamo dominati come nelle relazioni di potere con gli americani ed anglosassoni in un più ampio cluster detto “occidentale” che è oggi una frazione, sempre più anziana, di 8 miliardi di umani. Ma limitati anche dalla poderosa crescita degli asiatici e degli africani. Se il mondo oggi fosse dotato di una assemblea democratica basata su una testa un voto, noi tutti intesi come occidentali (ed ammesso ma non concesso noi si abbia visioni comuni sui rapporti col resto del mondo) peseremmo per uno scarso 15%. Per non parlare dei limiti ambientali. Enorme la quantità e qualità di nuovi fatti da considerare, metodi da rivedere, modalità di connettere idee ed interpretazioni. L’abuso del prefisso “post” negli ultimi decenni per denotare difformità con questa tradizione moderna che leggeva un mondo che non c’è più, denota in effetti solo quanta fatica stiamo facendo a capire come sviluppare nuove immagini di mondo in cui l’architettonica del pensiero faccia passi avanti significativi rispetto a quella moderna.

Come quarto punto possiamo dire che altre idee dei due Autori sono interessanti, ma da valutare caso per caso. Il fatto che gli umani del tempo profondo, viepiù si va indietro nel paleolitico, mostrino eccezionali linee di mobilità anche a lunghissimo raggio è sempre più attestato. Ma l’aumento progressivo delle dimensioni dei gruppi e loro densità, sembra poi aver frenato questa abitudine al “lontano”. In realtà, il concetto di “spazio vitale” va riducendosi progressivamente. Mano a mano che si passa dalla caccia alla raccolta, dalla cura del selvatico ed orticultura, all’allevamento, all’agricoltura nella sequenza coltivazione – domesticazione, l’areale di riferimento si rimpicciolisce e si fissa parallelamente la stanzialità e la densità relativa.  Anche le ultime forme nomadi o seminomadi, alla fine collassarono nelle forme stanziali con i mongoli e vari tipi di barbari che poi finirono spesso col diventare l’aristocrazia armata dei gruppi già da tempo stanziali come accadde in Europa ed in Cina. Gli anglosassoni hanno mantenuto questa loro nostalgia al libero scorrazzamento barbaro che chiamano “libertà” già ai tempi delle Grandi navigazioni, poi delle colonie, poi dell’Impero britannico, oggi con l’impero -sui generis- americano. Anche la mentalità ebraica, che è poi quella di molti studiosi occidentali, prima del sionismo, si è formata senza il vincolo del territorio ed anzi col problema di esser accettati nel territorio altrui. Alle volte, sembra che questo “elogio del nomadismo”[13] sia esagerato per ragioni ideologiche favorevoli alle migrazioni contemporanee, la globalizzazione, il mondo “sans frontieres”, la “società aperta” con scivolamenti anarco-capitalisti con un mondo (dis-)ordinato dalla sola mano invisibile del mercato. A parte il fatto che gli antichi del tempo profondo forse non erano poi così nomadi come ce li siamo raccontati ma semmai semi-nomadi e che magari ci siamo estesi nel tempo perché i primi nuclei parentali ad un certo punto invitavano i giovani adulti a fondare nuovi gruppi da un’altra parte ed a parte il fatto che i casi più estremi riguardavano individui più che gruppi (quella libertà di andare e venire a cui si riferisce Graeber), rilevare che muoversi liberamente in spazi semi-vuoti è diverso che muoversi liberamente in spazi occupati ci pare una ovvietà. Le migrazioni contemporanee sono un fatto, andrebbero analizzate per cause specifiche e col fenomeno occorrerebbe fare conti seri. Anderebbero anche selezionate tra obbligate o volontarie, fare il loro elogio nel caso di quelle obbligate ci pare improprio viepiù quando noi stessi siamo tra le cause indirette di molte catastrofi belliche o ambientali locali come in Africa. Giustificarle o negarle attingendo a caratteri della presunta natura umana, non si capisce cosa apporti alle nostre facoltà di gestire tali problemi, così negare che oggi siano problematiche sotto certi punti di vista, magari opportunità sotto altri. Questo è un altro di quei fenomeni che eccitano le nostre dichiarazioni morali, ma il fenomeno andrebbe indagato in tutta la sua realistica problematicità obiettiva.

Graeber usa poi più volte il concetto di schismogenesi (G. Bateson) ovvero il costruire una identità di gruppo, spesso come copia inversa dell’identità del gruppo vicino con cui si hanno rapporti che passano dall’amicizia conviviale al sospetto e poi al conflitto. Il meccanismo è interessante e personalmente credo più utile come strumento di interpretazione delle relazioni individuali (come per altro pareva anche a Bateson che inventò il concetto) ed anche di certa logica filosofica (ad esempio nella Scienza della logica di Hegel, la sua versione della “dialettica” con tesi ed antitesi nette ed autorinforzanti nella reciproca “dialettica” basata inizialmente sulle coppie dei contrari “polemici” di Eraclito[14]). Personalmente non lo avrei applicato, per varie ragioni, alle differenze rilevate tra le culture del Levante mesolitico rispetto alle culture degli altipiani anatolici come proposto dai due, mi è sembrata un po’ una forzatura, ma è questione secondaria. Qui come altrove, dal tono dell’argomentare dei due non si capisce sempre molto bene la differenza tra fatti ed ipotesi e quando “ipotesi” quanto fondate o liberamente proposte.

Quanto alla mobilità e varietà di forme sociali in base alle stagioni, trovo l’idea molto concreta ed in molto modi provata, fa sicuramente parte di una concezione adattativa della storia umana. Soprattutto nelle modalità più antiche nel tempo profondo di semi-nomadismo in cui si alternavano siti stanziali più di raccolta ed altri periodi di mobilità di caccia, inversioni estate-inverno o fissazione di donne-anziani-bambini con uomini che partivano per battute di caccia di qualche giorno. O come nei rapporti tra siti ed areali interni e di costa. Più in generale, mi sembra giusta l’idea di smetterla di pensare l’uomo paleolitico come un idealtipo mono dimensionale. Ci furono molti modi e molte forme, variabili nel tempo breve per via delle stagionalità o nel tempo medio e lungo per via del divenire storico e delle complessità relativa, della geografia, del clima e delle ecologie. La già citata forma di foraggieri di costa che doveva esser ben diffusa, è stata a lungo ignorata solo perché s’erano inizialmente trovate le pareti affrescate francesi con le scene di caccia grossa ed i siti di costa non li vedevano perché sommersi dall’acqua di mare il cui volume era cresciuto vistosamente con la deglaciazione. O forse solo perché piaceva trovare negli antenati i caratteri semi-militari dei gruppi di maschi che infilavano lance nel costato dei mammut lanosi urlando per farsi coraggio, segue barbecue, birra e partita in televisione per gruppi di maschi tribalizzati felici di trovare negli antenati i caratteri propri del loro esser contemporaneo. Un “essere” magari sintonico con presupposti infondati che imperano nell’antropologia economica, per lo più di matrice anglosassone.  Tutto ciò ci fu ma non ci fu solo questo, dipende da chi racconta la storia. Se chi la racconta è femmina, ad esempio[15] le tante nuove e vivaci paleo-antropologhe, ecco arrivare i problemi tra ampiezza del foro vaginale e volumi cranici, brodini vegetali dei torvi neandertaliani, amazzoni, nonne che tengono la prole, maschi che dicono di cacciare ma alla fine mangiano sole perché le donne avevano fatto orto e raccolta costante e molto altro. Le abbiamo citate ironicamente ma ognuna di queste tesi è serissima e abbastanza fondata/provata, l’ironia era verso la nostra misconoscenza di come l’identità culturale del narratore illumini solo certi fatti e non altri. Vale tra uomini e donne, tra giovani ed anziani, tra occidentali e non e dentro gli occidentali tra anglosassoni e non, oltreché dalla disciplina specifica da cui proviene chi parla. Per non parlare di quadri etico-politici che hanno a priori in testa i vari studiosi. Studiosi poi di cosa andrebbe specificato, come velenosamente fa (a ragione) Graber quando parla di Diamond o Harari. Siamo appena usciti dal penoso spettacolo di virologi che parlano di epidemiologia (di cui non è detto sappiano cose) o primari generalisti che parlano di virus o epidemiologi che parlano di Cina o della bergamasca senza conoscenze di contesto.

A tale proposito epistemologico, nel testo si accenna appena ad un altro problema che meritava anche più spazio. Noi abbiamo scavato a partire dall’Europa occidentale perché qui si concentrano le università e fondazioni che finanziavano gli scavi. L’uso cultural-politico delle origini continua con gli indiani rispetto alla civiltà della Valle dell’Indo e coi cinesi in vario modo, coi turchi che si riappropriano dei loro siti antichissimi fondando così una antichità che non hanno (i turchi venivano dal centro Asia non sono indigeni dell’Anatolia) e di recente addirittura coi sauditi che si sono iscritti al “grande racconto delle origini” con siti di 7000 anni fa. C’è una intera mitologia simbolica fondata solo sulle sole grotte francesi, poi anche spagnole. Poi però capita, come di recente, di trovare una pittura parietale in Indonesia (Sulawesi) anche più antica di quelle franco-ispaniche, con un più semplice maiale selvatico. Ma pensare a gruppi umani che cacciano mammut lanosi ed alci giganti è diverso che pensare gruppi che cacciano maiali selvatici nel sottobosco con rane, scoiattoli e grassi coniglioni. Oppure scoprire che le pitture parietali con rappresentazioni di umani più antiche sono, al momento, quelle australiane e non quelle francesi[16]. Come si sarebbe sviluppato il lavoro interpretativo alla Leroi-Gourhan se avessimo cominciato a scavare in Australia e non in Francia? O per le pitture parietali o petroglifi “en plein air” trovati in nord Africa o Medio Oriente, un modo di lasciare i segni molto diverso che non infilarsi quasi senza ossigeno di traverso in un buco di una profonda grotta buia. Così, per i resti delle culture dell’Antica Europa teorizzata dalla Gimbutas. Siti per decenni dentro la cortina di ferro dove non si scavava o se si scavava con archeologi non di Oxbridge o oggi bulgari stante che l’archeologo bulgaro certo non è al livello dell’archeologo americano o inglese (lo diciamo con ironia).

Ma il discorso andrebbe ampliato al concetto di “prova scientifica”. Abbiamo a lungo chiamato il paleolitico, età della pietra perché avevamo solo pietre scheggiate, il legno non si conserva nel tempo. Poi però abbiamo miracolosamente trovato dei giavellotti di legno ancora intatti perché affogati in bagni di gesso (lance di Schoningen)[17]. Ricostruiti in copia perfettamente conforme abbiamo provato a lanciarli ed abbiamo scoperto che per bilanciamento ed aereodinamica, potevano arrivare lì dove c’è oggi il record di lancio femminile olimpico di specialità. Poi siamo andati a fare la radio-datazione degli originali ed abbiamo scoperto che sono di 300.000 anni fa! Neanche Sapiens e neanche Neanderthal ovvero Homini heidelbergensis, sapevano creare strumenti di lancio di gittata incredibile, “alta tecnologia” diremo oggi. Le conoscenze a base di questi manufatti come si sono formate, come si sono stratificate e trasmesse per arrivare a quel risultato? E chissà cosa ci siamo persi in lettura dei segni di queste antiche forme di vita associata non ricevendo manufatti di pelle, tendini e piccoli ossi, cuoio, paste vegetali, liane. Basta trovare i blocchetti di ocra con motivi geometrici di Bomblos (Sud Africa) per retrodatare a 70.000 anni fa il pensiero simbolico che prima ci sembrava emerso dal nulla in Europa 30-40.000 anni più tardi. È spesso questo “dal nulla” che chiama teorie interruttore. Ma poi si scopre che non erano affatto dal nulla. Presupporre che questi uomini più antichi avessero menti, capacità artigiane e società in grado di sviluppare e forse tramandare questo tipo di saperi cozza con tutto quanto prima ci eravamo raccontati pensando di esser noi Sapiens europei del tutto “speciali” ed in quanto proto-francesi, ovviamente proto-pittori. Fino a trenta anni fa eravamo convinti che i Neanderthal neanche potessero parlare per “evidenti” problemi all’apparto fonatorio (falso). Qui si potrebbe aprire anche una finestra sullo sviluppo recente degli studi sui Neanderthal che oggi ci appaiono del tutto diversi da quello che credevamo anche solo venti anni fa[18], ma andremo fuori tema. In termini di studio delle immagini di mondo sarebbe però molto interessante farlo.

Quanto i rapporti ludici ed ironici col concetto di “potere” sociale, tema specificatamente antropologico caro a Graeber, c’è poco da aggiungere. Quando le forme sociali del potere erano ancora impermanenti, variabili in base agli adattamenti, reversibili e per altro anche limitate, essendo a quei tempi il “potere” una funzionalità di ordine del gruppo magari ad hoc per certe attività come la caccia o solo per certi periodi dell’anno, va da sé ci fossero inversioni ludiche e giocose. Ma non si capisce cosa questo ci porta in dote per trattare il problema del potere sociale oggi, salvo ricordare che il Carnevale ne discende, così per un certo tipo di “satira”. O forse è utile, come giustamente sostiene Greaber per levarci dalla mente l’idea balzana tipo menti bicamerali di antenati poco meno che automi biologici sballottati dagli eventi[19], privi di auto-coscienza ed intenzionalità. Da segnalare qui come tanta letteratura bizzarra che convoca gli alieni sapienti per spiegare segni di precoce intelligenza umana sofisticata, esista proprio perché il divieto di pensare la nostra storia adattiva molto lunga è in certi paradigmi scientifici. Sappiamo che i monoteisti pensano il tempo su base implicita ristretta, anche gli scienziati a volte sembrano non andare troppo là, ecco che quando spunta qualcosa di complesso in tempi in cui non dovrebbe esserci, arrivano gli Anunnaki segue puntata-mistero su History Channel. O se ti va meglio, l’innovazione genetica che secondo Chomsky avrebbe creato il linguaggio umano solo 70.000 anni fa.

Qui mi piace segnalare una vera e propria costante del progresso recente di questi studi: è sempre tutto più antico di quanto credevamo. È come se la cronologia di Ussher[20] basata sulle verità bibliche continuasse ad agire nella nostra razionalità inconscia. Sono decenni che leggo di queste continue retrodatazioni. Ci dovremmo allora domandare perché vige ancora questo invisibile paradigma recentista e magari scoprire che noi pensiamo che il nuovo sia puntiforme, venga da una causa, mentre quasi sempre sono riorganizzazioni di complessi di cause che generano cambiamento sostanziale in archi tempi ben più lunghi. Noi pensiamo con lo schema dell’evoluzione per errori casuali di replicazione genetica e non con quello dell’adattamento (Sintesi estesa)[21]. Gli elementi c’erano già, a volte è solo la quantità e qualità della loro interrelazione a modificare la realtà osservata. Forse due-nozioni-due di biologia molecolare, avrebbero permesso pure ai due di ritorcere il determinismo biologico contro i suoi stessi adepti. Nei fatti della disciplina, cambiamenti genetici dagli effetti catastrofici quali quelli supposti a causa ad esempio dell’innovazione culturale, si manifesterebbero con tempi incompatibili con la tempistica degli eventi. Non a caso i biologi molecolari stessi confermano che i primi sapiens erano in tutto e per tutto uguali a noi biologicamente. Ma due-trecentomila anni fa non facevano quello che facciamo oggi; quindi, non è innovazione casuale puntiforme nei geni ad aver cambiato la mente che poi ha preso a farci fare cose diverse. Per altro desumere il comportamento umano per eredità genetica, come fa Pinker e la disgraziata prima sociobiologia[22], è un esercizio che si presta a molti abusi. Noi sottovalutiamo il fatto che le novità dell’umano sociale spesso emergono quando tanti umani diversi si incontrano. Quello che vediamo comparire prima nel Levante e poi in Europa occidentale (perché non abbiamo forse ben scavato quella orientale o caucasica) è “cultura” e dove c’è cultura c’è l’identità di gruppi diversi in reciproca interrelazione. Non si dipingono pareti di roccia se non c’è nessuno che può vederle, si emettono segni e significati se c’è qualcuno a riceverli. Quanto al numero di Dunbar[23] contro cui si scaglia con vigore Graeber, quella di Dunbar è la semplice notazione che i nostri cervelli sociali sono stati selezionati in lunghi tempi in cui abbiamo vissuto con un numero limitato di relazioni con conoscenti. Per altro non è che il cervello aveva un numero limitato di caselle “quello lo conosco” perché conosceva poche persone è che aveva uno spazio limitato di suo e per altre ragioni. Magari anche quelle del diametro del foro vaginale da cui uscivamo per tornare a prima (ma non è solo quello). Dire che entro 120-150 contatti riusciamo ad ospitare una immagine tridimensionale e relativamente nitida dei componenti la nostra vita associata ed oltre questa cifra poniamo gli estranei, non comporta di per sé far degli estranei dei nemici. Dice solo che il raggio della nostra conoscenza percettiva è limitato, se poi capita di dover vivere assieme a migliaia o milioni di “altri”, si dovrà prevedere la costruzione di sistemi fatti di sistemi, costruzione che fino ad oggi ha trovato ordine solo gerarchico. Dalla conoscenza percettiva dovremmo passare a quella mediata che purtroppo molti non hanno, scambiando il locale per universale. Ma questo non è colpa di Dunbar.

Ci sarebbe poi da entrare negli aspetti sociali della violenza esclusiva ed organizzata, quando e come compaiono le prime guerre stante che se non vogliamo fare letteratura, pure scadente, e vogliamo attenerci ai fatti, l’unica prova certa di un cimitero seguente un chiaro conflitto armato tra gruppi è solo del 11.700 a.C. (più o meno)[24]. Ma salvo uno o un paio di altre prove, tocca poi entrare in profondità verso il basso mesolitico o primo neolitico per vederne tracce più frequenti e l’inizio della civiltà per vederne la versione sistematizzata. Stante che l’aggressività inter-individuale è indiscutibile proprietà di specie, la guerra “atavica” è un mito o per lo meno non è suffragata da alcuna prova. Anche perché questo è uno di quei chiari casi in cui mancando il movente adattivo (eravamo forse non più di 20-30.000 umani in tutto nell’Europa del cuore del paleolitico superiore), si deve ricorrere al determinismo genetico del comportamento, una evidente sciocchezza. Così per le sepolture ancora paleolitiche che i due chiamano di “rango” ma che si potrebbero o forse dovrebbero chiamare di “prestigio”. Il “rango” sembra anticipare segni di stratificazione sociale e gerarchia, il “prestigio” invece è attribuito dal basso. Ad esempio, antiche madri figlie di discendenti fondatori antichi del gruppo (reali o presunti poco importa), sciamani e sciamane, i tanti scheletri sepolti con riguardo che mostrano vari tipi di infermità che evidentemente non era ritenuta una mancanza nella hobbesiana lotta di tutti contro tutti, ma segno divino o magico o chissà cos’altro che rendeva quegli individui a loro modo “speciali”, ma non per questo certo potenti e dominanti. E che, come nel caso dello scheletro di Shanidar, (Kurdistan iracheno)[25] che dice quanta cura sociale ci fosse intorno agli “svantaggiati”, ancora nei neandertaliani. L’intera per altro ancora discussa vicenda dei “neuroni specchio” scoperti in scienze della cognizione[26], ci dovrebbe riportare ad esaminare il bivio di Adam Smith. Fu proprio Adam Smith a proporre l’idea che il motore dell’interrelazione umana a base delle società fosse l’umano desiderio di reciproca simpatia (Teoria dei sentimenti morali[27], per altro con Smith ancora in vita da tutti e da lui stesso ritenuto il suo magnum opus, ricordando che il tipo era docente di filosofia morale non di economics). Che poi nella Inquiry[28] abbia presentato l’egoismo del lattaio e del macellaio come motore del mercato forse dovrebbe suggerirci l’idea che nella mente dello scozzese la società era qualcosa di più ampio ed importante che non lo specifico del mercato. Per Smith l’economia di mercato era migliore di quella mercantilista e di quella fisiocratica, per quello scrive l’Inquiry, non per sostenere l’idea della società-mercato. Come si vede, pensi la paleoantropologia ma la pensi con o senza conoscenze di scienze cognitive, con o senza conoscenze di storia del pensiero economico e con questo formato da canoni narrativi ormai consolidati e tramandati che però si sono formati sopra i testi, non nel merito dei testi riferiti. Questi sistemi di pensiero che chiamiamo immagini di mondo, li puoi avere solo se ti imbarchi in lunghi e complicati studi multidisciplinari altrimenti ogni sacerdote di credenza settoriale replica solo il suo canone. E così di canone in canone alla fine vince sempre quello dell’élite dominante. Si potrebbe arguirne che il modo geopolitico del “divide et impera” si applica anche alla cognizione e da questa alla politica sociale. L’importante è che ognuno osservi il particolare così il generale lo lasciamo fare a chi ha tutte le conoscenze ed informazioni.  Quando arriva il paleoantropologo anglosassone-liberale che ti ammorba con l’egoismo individualista essenza umana e reitera la lagna del “free lunch”, parlategli dello scheletro di Shanidar.

Al quinto punto mettiamo un’altra questione centrale trattata dai due, che è la più delicata: l’egalitarismo definito “presunto” dei cacciatori raccoglitori. Questo è un punto mainstream, ovvero condiviso praticamente da tutti gli studiosi o dalla maggior parte. Francamente, non ho capito perché gli autori attacchino questo punto anche perché portano avanti la loro critica in modo del tutto insufficiente ed anche un po’ sgangherato.  Per altro, la critica di questo punto mi sembra un po’ annunciata e molto poco effettivamente e seriamente condotta. Da quanto ho capito, il punto è trattato citando le famose sepolture di rango (anzi “principesche”) che per me sono di prestigio e non di rango nel senso che non si può dalla loro particolarità desumere davvero quanto dell’uno o quanto dell’altro e la monumentalità che precede di molto l’agricoltura. Sulle “tombe principesche” mi soffermerei per dare ai lettori idea di quanto contino le parole e le nostre proiezioni interpretative. La più famosa è senz’altro la sepoltura di Sungir in Russia[29], ben 30.000 anni fa circa. Andrò per vie brevi saltando i particolari: abbiamo due sepolture principali con un adulto maschio e due adolescenti in un’altra tomba vicina. Entrambe sono piene zeppe di perline di avorio che hanno richiesto mesi e mesi di lavoro probabilmente di gruppo data l’entità, secondo tecniche non banali. Immediatamente e per lungo tempo è stata definita “sepoltura della famiglia principesca”. Così l’informazione è ripetuta in molti testi. Ma anni dopo, si è fatto l’esame del DNA. Si è così scoperto che i due adolescenti non sono parenti tra loro e nessuno dei due è imparentato con l’adulto. Non sono quindi una famiglia, almeno “naturale” e se non sono una famiglia non si capisce come possano esser definiti principi e principini quasi a volere retrodatare non solo la nozione di rango ma anche quella di ereditarietà. Le sepolture di prestigio non evidenziano alcun rango. Che sciamani e sciamani fossero socialmente prestigiosi era ovvio, ciò però cosa portava nel problema delle diseguaglianze sociali? Che tizia o caio fossero ritenuti da una tribù i lontani discendenti del fondatore e perciò riveriti come simboli viventi dell’identità di gruppo, che reali vantaggi portava in termini di potere sociale? Che un prima “straniero” avesse portato da fuori in un gruppo una tecnica di sopravvivenza prima sconosciuta, fatto questo che certo meritava gratitudine eterna, cosa ci dice in merito del potere generale? Quello che ci dicono le statue cittadine degli atleti che vincevano le antiche Olimpiadi in quel di Grecia: prestigio, simboli, esempi, gratitudine ma zero potere effettivo.

Quanto alla precoce architettura monumentale, in che senso questa dimostrerebbe l’esistenza di stratificazione e gerarchia sociale? Sicuramente questi siti dimostrano capacità di complessità realizzativa prima dell’adozione dello stile agricolo e questo è il più spiazzante significato, ad esempio, di Gobekli Tepe[30]. Il caso turco, per altro, potrebbe esser unito ad altri casi su fino alle Grotte di Chauvet, per fare un altro discorso. Alcune grotte affrescate tra Altamira, Chauvet ed anche Lascaux sono spesso del tutto sproporzionate rispetto all’ipotetico utilizzo che ne poteva fare una singola banda o tribù o clan. Viepiù Gobekli Tepe anche e solo dal punto di vista realizzativo oltreché di utilizzo. Così Stonehenge ed altri siti megalitici. Come suggeriva il capo archeologo dello scavo anatolico ora deceduto[31], K. Schmidt, si potrebbe invece applicare una idea di Lewis Mumford sulle anfizionie che poi conosciamo nella storia dell’Antica Grecia. Gobekli, tra l’altro, sembra distante da ogni altro sito abitato e sembra non fosse abitata in permanenza da alcuno. Così preso, sembrerebbe un vero e proprio punto centrale di un areale con più gruppi separati dal punto di vista sistemico, ma collegati quanto a condivisione di qualche rituale o pratica comune, inclusa la stessa costruzione, un “fare le cose assieme” che cementasse amicizie, scambi e buoni rapporti. Oggi poi in parte confermata dal nuovo scavo di Kaharan Tepe e di altri siti dell’area a costruire una vera e propria rete sistemica territoriale[32]. Questa precoce interrelazione sistemica in cui chissà perché gli studiosi vedono sempre e solo “templi”, interrelazione sistemica quale poi i due nostri Autori citano quando accennano alle più tardi “culture”, sarebbe molto interessante da esplorare, ma in un certo punto del libro proprio dove si parla di Gobekli pare non interessarli, salvo poi riprender l’argomento positivamente nelle Conclusioni. Forse scrivere a quattro mani porta a questa modulazione di diversi accenti e qualche piccola contraddizione. Talvolta anche ciò che qui abbiamo segnalato mancante o sottovalutato in realtà tale non è in alcuni passi, ma lo diventa in altri. Ogni studioso ed ogni individuo ha una “sua” immagine di mondo, anche quando questa ha ampi margini di sovrapposizione con quella di un altro, la coincidenza e le sue forme interne non sono mai perfettamente identiche. L’architettura monumentale pre-agricola mostra quanto le società del tempo possano a pieno titolo definirsi complesse, fatto questo che toglierebbe anche a “complesso” il destino accluso di gerarchico, ammesso quel concetto comporti l’altro come dice Graeber o come invece qualsiasi studiosi di complessità non direbbe affatto, anzi direbbe l’esatto contrario.

Perché in quel lungo antico periodo compaiono cose del genere e più tardi compaiono invece conflitti tra vicini? Convocare a causa la famosa densità crescente e relativa lotta per lo spazio vitale gli sembrava troppo poco originale? Ma siamo a gara di originalità interpretativa o cerchiamo di capire davvero come sono andate le cose nel tempo profondo? L’intero loro argomento mi sembra oscilli tra una sorta di furia ideologica di Graeber ed una più misurata attinenza scientifica di Wengrow, lo si evince (pur rimanendo una pura ipotesi) anche dalla lettura dei capitoli più specificatamente attribuibili all’uno (quelli antropologici) o all’altro (quelli più archeologici). Su questo punto invece, al di là della roboante affermazione contraria all’idea dell’uguaglianza sostanziale dei piccoli gruppi, alla fine sembra che casi del genere servissero solo a dire che il passato mostra diverse forme e che gli uomini del tempo profondo erano tutt’altro che stupidi selvaggi primitivi privi di ogni forma di complessità, punto quest’ultimo su cui, per quanto mi riguarda, sfondano una porta spalancata.

Tra l’altro, si sarebbe potuto fare un discorso diverso tra gerarchie fisse e variabili. Gli esempi degli eschimesi portati da Graeber potrebbero dire che quando usiamo concetti troppo nitidi come “uguaglianza” e “diseguaglianza”, applichiamo gabbie concettuali troppo rigide basate su concetti idealistici. Che ad esempio anche i più antichi gruppi di caccia avessero un capo-caccia è fatto plausibile. Per altro poteva esserci una guida quando si trattava di trovare i branchi, diversa da quella che coordinava l’assalto. Ma quando il gruppo caccia tornava al villaggio, stante che pare nessuno gruppo umano si è cibato mai solo ed esclusivamente di proventi della caccia, quel gruppo ed il loro capocaccia, tornavano semplici individui uguali nella redistribuzione del cibo e quando si doveva decidere “politiche” del gruppo. Se proprio qualcuno aveva più peso nelle decisioni, magari era una anziana, donna perché in genere vivevano più a lungo, anziana perché aveva esperienza adattiva e tramandava conoscenze adattive cumulate. In più, quando vediamo nel Paleolitico superiore manufatti artistici che hanno richiesto indubitabili capacità specialistiche, stiamo vedendo una precoce “divisione del lavoro” fissa ed alienante come poi all’avvio della civiltà su fino ai giorni nostri o queste “specialità” erano appena pronunciate e comunque affiancate anche da altre attività, quindi reversibili? Ma se è stato così, allora anche qui come altrove, certi modi come la fatidica -divisione del lavoro- nacquero molto presto nel processo di ominazione, solo avevano un altro significato da quando si fisseranno in forme sistemiche fisse ed immodificabili, con valore sociale ineguale annesso. Forse assecondavano la semplice umana attitudine ad avere certe preferenze, certe cose in cui si riesce meglio, utile poi a dare varietà interna ai gruppi, varietà utile all’adattamento l’unico vero tribunale “del bene e del male”. La visione adattativa chiama ad idee su possibili adhoc-crazie ovvero forme di potere limitato a fatti specifici. Ma fa una grande differenza quando questo “kràtos” diventa generale, fisso, inamovibile e passa dall’interesse di gruppo all’interesse di una frazione di gruppo che subordina tutto il resto del gruppo.

Il che ci porta al sesto punto che premetto mi trova entusiasta di quanto ho letto, un capitolo di Wengrow sulle forme di democrazia del tempo antico (ma ho segnalato prima che la mia mentalità è fatta in modo da avere ovvia corrispondenza su questo tema), di cui i due giustamente contestano l’etichetta che recita “democrazia primitiva”, quando non siamo in tempi primitivi e le forme che si possono ipotizzare tutto sono meno che primitive. Qui gioca l’immagine di mondo dominante che pensa (o vuole che noi si pensi) Atene esser stata la prima democrazia della storia, quando invece fu forse l’ultima. Mi ha fatto grande piacere leggere la citazione dei lavori di Thorkild Jacobsen che ha dedicato a questo argomento grandi studi, stante che parliamo del più grande assirologo del suo tempo con tanto di cattedra ad Harvard e non di un ideologo di giornata. Oltre ai filtri negazionisti che nel tempo antico e profondo non vogliono vedere tracce di gestione democratica, per quanto il termine si sia declinato probabilmente in molti vari modi, agisce la differenza tra grana grossa e grana fine. La nostra sostanziale ignoranza di tutto ciò che per esser “storia” deve provenire da attestate fonti scritte, unita alla versione interruttore del tipo “invenzione agricoltura-compaiono le monarchie con élite dinastiche”, non tiene conto del concetto di “transizione lunga”. In pratica, se come i più ritengono ed in fondo anche i due alla fine non hanno sostanzialmente contraddetto, la lunga tradizione dei piccoli e medi gruppi era quella di condivisione egalitaria dell’intenzione politica, all’ingrandirsi e densificarsi dei gruppi è corrisposto un lungo passaggio che solo in alcuni casi è poi assurto alle monarchie ereditarie con stratificazione sociale. Stante che è difficile segnalare un limite quantitativo preciso entro il quale funziona la condivisione ed oltre il quale non funziona più o almeno non funziona più con relativa facilità. Da quello che mostra il registro archeologico si può dire che fino a che le prime città erano di dimensioni contenute ma soprattutto fino a che le città erano in pratica “stati”, si nota il probabile perdurare di assemblee ed assemblee di assemblee cittadine che o governavano o facevano da contrappeso al re, all’inizio forse addirittura “eletto” e comunque non originante di dinastia. E questo “re” era tale per il significato che diamo noi al termine o era il grande organizzatore, magari delegato? In questi passaggi andrebbe analizzato il ruolo dei sacerdoti poiché sembrano esser stati loro, all’inizio, a gestire le prime forme di “cosa pubblica” centralizzata ma, inizialmente, su delega dal basso. Ad esempio, a Tell Brak, nel nord della Siria, oggi ritenuta la prima forma città essendo anche se di poco antecedente ad Uruk, il Tempio degli Occhi mostra una evidente centralità non solo culturale ma anche economica mentre gli studiosi ipotizzano la città fosse operativamente governata da una assemblea degli anziani. I due poteri erano ancora bilanciati, poi ad un certo punto non lo furono più. E con loro si dovrebbe anche analizzare il ruolo delle “immagini di mondo” condivise, condivise quando ogni membro del gruppo umano aveva a che fare con l’altro e tutti assieme col tutto della loro vita interna ed esterna al gruppo, poi meno, poi sempre meno fino a quando furono del tutto sintetizzate dall’alto. Un “alto” sociale appunto sacerdotale poi, anche per ragioni logistiche, coadiuvato da civili ovvero le nuove burocrazie, incluse quelle militari, da cui poi provennero i leader carismatici, gli eroi, i capi, i re, le dinastie, le classi e quant’altro. Un probabile passaggio rilevante fu quando il “grande organizzatore” passò dal sacerdote al burocrate civile. In più, forse il passaggio più rilevante, fu quando la singola città volle sottomettere l’altra a partire dai territori circostanti. Lì le antiche culture, poi anfizonie o confederazioni articolate fatte di città o centri autonomi, lasciarono il passo alle prime forme di regno e poi impero, lì il “re” -in genere armato- comincia ad assomigliare al significato a noi noto. Quando poi successivamente vediamo che da civile diventa semi-divino, poi vediamo anche la dinastia.  Passaggio, mosso non altro che dal crescente disequilibrio tra demografie in ascesa e capacità dei territori di sostenerle. Ad un certo punto di questa transizione, l’organizzazione funzionale di società sempre più massive non poteva avere più nulla di facile e naturale in termini di auto-organizzazione (democrazia sostanziale), né si può immaginare essersi manifestata una élite armata che s’impose su tutti per sequestrare il potere, almeno inizialmente. È una tesi che per esser ben spiegata porterebbe via troppo tempo e spazio in questa sede, poiché il modello ha un gran numero di variabili il cui gioco reciproco ha dato vita al processo di semplificazione politica. In cui, tra l’altro, ci dimentichiamo sempre di inserire ipotesi su come hanno lavorato le ipotetiche immagini di mondo del tempo. Gli umani non sono pupazzi acefali mossi dall’innovazione genetica quanto dai modi di produzione, agiscono in base anche a ciò che pensano vero e giusto o meno. Un’occhiatina a Gramsci ogni tanto andrebbe data.  Si può dire che la semplificazione politica, ossia gerarchica, fu il modo in cui in tutto il mondo, gruppi umani sempre più massivi, risposero al costante incremento di complessità delle loro forme e condizioni di vita associata, condizioni interne ed esterne. Ed il fatto così sia andata nell’infanzia dell’umanità “civile”, non dice certo che così andrà anche quando la nostra storia sociale crescerà e diventerà più adulta. Quindi, le teorie interruttore hanno il doppio difetto di collassare migliaia di anni e poi secoli in un passaggio immediato e di attribuire la causa ad un modo economico che fu in realtà un effetto, si ricorse alla monotona agricoltura cerealicola perché non c’era più altro modo di sostenere la sussistenza per nuove masse con la varietà precedente che però presupponeva ecologie e spazi che non c’erano più. Altresì che tutti decidessero tutto divenne logisticamente sempre più difficile. Financo il riservare il diritto di voto democratico ai soli ateniesi figli di ateniesi ha avuto forse più ragioni, ma non ultima quella che tra donne, meteci e schiavi, si era arrivati a pare 140.000 anime. Nei primi decenni della democrazia ateniese, queste restrizioni non c’erano o non c’erano nella stessa forma restrittiva decisa poi ai tempi di Pericle[33]. Ma soprattutto, nei primi passi delle forme civili, la complessità di queste decisioni finì in capo ad una élite della conoscenza logistica (economica, commerciale, di relazioni esterne etc.) che imposero le soluzioni dall’alto in basso, un basso sempre più confinato in nicchie di produzione specifiche, assorbite temporalmente nelle proprie attività minute e non più in grado di imporre il proprio punto di vista decisionale. Ignare di come altrimenti rifornire di legname la comunità del basso Iraq perché non c’erano più boschi a centinaia di metri come a Catalhoyuk, ma a migliaia di chilometri nel Levante (Libano) con il quale andava organizzato uno scambio complesso, con logistica complessa e questo solo per fare un esempio. In metafora, i navigatori delle canoe su acque domestiche divennero comandanti quando le canoe divennero navi ed in acque, spesso, sempre più agitate[34]. Ecco perché diciamo Atene l’ultima democrazia, perché si proveniva da millenni di condivisione della decisione politica e i vari spazi pubblici di grande ampiezza, in città egalitarie quanto a case e sepolture, prive di edifici centrali di potere, dicono che ancora per lungo tempo la cittadinanza ebbe il suo ruolo attivo e decisionale prima di produrre re ed imperatori. Non a caso vediamo prima Pericle e Demostene e poi di colpo Alessandro Magno. Le condizioni di possibilità per l’antichissima e lunga tradizione di democrazia sostanziale terminano esattamente nel 322 a.C..

Per tornare un attimo alla contrapposizione Hobbes – Rousseau, ci starebbe forse bene in mezzo Etienne de la Boétie e la sua “servitù volontaria”[35]. Tra l’altro un testo il cui originale è probabilmente del 1549 e che è molto improbabile fosse sollecitato dal confronto con la critica indigena come sostiene Graeber verso Rousseau e più in generale certi discorsi dell’Illuminismo. I primi contatti tra europei e nativi del New Mexico risalivano ad appena dieci anni prima, quelli con gli “indiani” del nord non erano ancora proprio avvenuti. Ci riferiamo al fatto che questo passaggio dalla democrazia primitiva alle forme oligarchiche o monarchiche, potrebbe esser stato impersonale e progressivo. Si dovette delegare sempre di più per tante e varie ragioni, ma piano piano, la delega anche data dal basso e quindi controllata e revocabile, via piccoli spostamento vissuti o presentati come “cause di forza maggiore”, divenne sempre più incontrollabile e da un certo punto in poi, vestita ideologicamente sul modello dèi – popolo di umani con sacerdoti intermedianti, imposta come giusta ed inderogabile. Plastica di questa dinamica fu la casta sacerdotale ebraica nell’esilio babilonese, dove materialmente si compone l’Antico Testamento e con le sole parole si compone una tradizione che fa “popolo”. Popolo senza terra, indifferente ai vari modi produzione, privo di gerarchia politica, ma che si sente popolo perché tutti credono ad una storia. I sacerdoti hanno a lungo avuto i monòpoli delle storie. Così nacque la “servitù volontaria”. Poi i sacerdoti dovettero condividere l’intermediazione coi re, i re con le burocrazie che li supportavano, i militari, i grandi commercianti e così via. Ricordiamo che per quanto banale, è un fatto che il sistema pienamente agricolo provocò una seconda e più rilevante inflazione demografica e questa chiamò in breve tempo (secoli e non più millenni) maggiore complessità sociale delle funzioni sempre più limitate e specializzate come segnalano le letture materialistico-storiche, e non solo. Fu la necessità di governare queste complessità che comunque andrebbero lette in modelli a più variabili tra cui geografia, clima, densità abitativa, che portò a sequestrare l’intenzionalità politica in capo ad una élite.

In più, forse, questi processi di revisione degli assunti, potrebbe anche allargarsi alla tripartizione classica di filosofia politica fondata da Aristotele. Forse non è vero che la modalità dell’Uno (re, imperatore, tiranno) e dei Pochi (aristocrazia, oligarchia, élite) siano due modalità distinte. Nei fatti è sempre molto difficile immaginare il potere dell’Uno puro senza una banda di Pochi che gli fanno da contorno e sostegno che siano sodali, famigliari larghi, tribù etnica originaria. Ma non solo come sottoposti. Forse, assai spesso, sono proprie queste bande di aspiranti il privilegio a determinare chi di loro farà da vertice pubblico, da uomo-copertina. Il primo re mesopotanico che dichiarò di esser lì in missione per conto di qualche dio è improbabile l’abbia fatto di suo poiché la narrazione religiosa era saldamente nelle mani dei sacerdoti. È molto più probabile siano stati questi ad intravedere il vantaggio o la necessità di definirlo tale, tanto cosa diceva o non diceva il dio rimaneva loro appannaggio, quindi potere. O almeno così pensarono prima di trovarsi un coltello alla gola che suggeriva cosa il re si aspettasse loro riferissero il dio dicesse. E dove il registro storico ci racconta degli accoltellamenti di Giulio Cesare o tradimenti improvvisi, ci sta raccontando proprio di come questi gruppi di potere scelgono di cambiare il loro uomo-copertina che sta andando troppo per conto suo ovvero contro i loro interessi. Forse semplificare la lettura delle forme di potere alla diarchia Pochi vs Molti, sarebbe più idoneo. È quando i Molti diventano troppi che l’intenzionalità distribuita si accentra nei Pochi e da lì si perpetua in vari modi, lì prima del supposto “comunismo originario” si ruppe la “democrazia originaria”, è il “quanti si decide di cosa” che fece la differenza. Anche quando una catastrofe cambia la composizione dei Pochi, re sui sacerdoti, poi militari sui re etnici, poi oligarchi su aristocratici, poi anziani su giovani, maschi su femmine, capitalisti su aristocratici, interessi americani su ogni altra nazione non americana, ciò che leggiamo è sempre una parte che s’impone su un’altra. Farla più complicata del necessario sembra a volte ci sia utile per giustificare la natura delle nostre catene che ci sfugge di continuo. Forse allora dovremmo domandarci perché ci sfugge, cosa non abbiamo pensato, cosa non abbiamo notato perché non l’avevamo prima pensato. In pochi ci sono certe dinamiche su come prender le decisioni, in molti ce ne sono altre.

Il settimo punto è la questione dello Stato. La teoria elaborata da G-W sostiene che si ha pieno potere statale quando si verifica una confluenza di sovranità, burocrazia e politica competitiva. Nella storia profonda di trovano prima un solo di questi elementi, poi due in varie combinazioni ma solo quando si intersecano tutti e tre si ha lo Stato, per cui è improprio parlare di “origine dello Stato” come fosse una cosa del tipo “prima non c’è-dopo c’è”. Non spenderei troppe parole su questo punto. Quanto ai tre punti della statualità individuati dai due ci sarebbe da fare un lungo discorso critico e poi un altro ancora più lungo su un diverso modello di variabili. Quanto invece alla dinamica tra variabili del modello, dire che lo Stato è emerso nel tempo lungo come transizione progressiva ci pare senz’altro condivisibile. Non si capisce però perché questa non sia, a sua volta definibile una teoria sull’origine dello Stato. È una teoria sull’origine complessa e non semplificata dello Stato, ma è pur sempre una teoria sulle origini degli Stati. Financo lo Stato moderno inizia la sua formazione dalla fine della Guerra dei Cent’Anni per arrivare ancor almeno a Westafalia ed oltre, prima che la configurazione si assesti, è almeno un secolo e mezzo o più. Così per tutti gli storici che hanno rivenuto forme capitalistiche fin dal Quattrocento italiano con sfogo delle fiere della Champagne o se si studia Venezia, anche prima. Ma era quello lo stesso capitalismo del XIX secolo inglese? No di certo. Allora forse dovremmo chiarirci meglio di cosa stiamo parlando ed usare etichette diverse per forme diverse altrimenti si finisce come nei dibattiti odierni a discutere se la Cina è o meno pienamente “capitalista” o ancora sostanzialmente “socialista” come pretendono altri, un dibattito senza senso, oltremodo confuso e confondente.

L’ottavo punto si concentra su una critica sul ruolo della tecnologia come motore impersonale dell’evoluzione sociale, critica che condivido. Come detto, l’intera teoria interruttore viene a formarsi come auto-comprensione del “tempo appreso nel pensiero”, in quel del XIX secolo, ovvero durante quella che verrà chiamata “rivoluzione industriale”. Da lì in poi e da lì a prima, improvvisamente spuntano rivoluzioni dappertutto, agricola e poi urbana quanto alla Mesopotamia, scientifica all’inizio del moderno, industriosa secondo lo storico olandese Jack de Vries ancor prima di quella industriale vera e propria, verde quando Borlaug inventa nuove tecniche agrarie nel dopoguerra mentre poi si ripetono quelle industriali e digitali fino alla recente 4.0. Di contro, inizia la critica alla tecnologia da Heidegger in poi. Tutte le teorie di motore tecnologico sono teorie-interruttore. Proprio nel XIX secolo, in piena rivoluzione industriale, si stabilisce la partizione temporale della storia prima della Storia (s’inventa il concetto di “pre”-istoria nel 1858) dividendola secondo le tecniche di lavorazione della pietra (Paleo-Meso-Neo-litico), con dettagli da mal di testa nel paleolitico superiore[36], poi nella lavorazione dei metalli (Età della pietre, del Bronzo, del Ferro), così con le complicate scansioni del neolitico in periodi ceramici. Questo materialismo tecnologico comporta la compressione del cambiamento storico in trasformazioni puntiformi ovvero “rivoluzioni”. Sebbene il concetto di rivoluzione sarà poi adottato all’interno dell’immagine di mondo marxista, esso nasce nell’immagine di mondo liberale quando gli storici whig, ai primi del Settecento, decideranno di nominare “Gloriosa rivoluzione” un colpo di stato ai danni della monarchia Stuart in quel della fine del ‘600. Gli storici whig traevano il concetto di “rivoluzione” dalla prima cosmologia scientifica (Copernico) dove per altro la “rivoluzione” era un andare in tondo da A a di nuovo A, come poi in effetti accadde alla Rivoluzione francese che passò dal re all’imperatore, da un Uno all’altro. Evoluzione e rivoluzione, due casi analoghi e sintonici di progressivo spostamento del significato. Altresì è palese che l’accensione data dall’innovazione tecnica è conforme all’idea che la storia sia mossa dai modi economici e loro trasformazioni, nessuno ha mai parlato di rivoluzione cristiana o musulmana o protestante o anche proprio il passaggio dallo sciamanesimo alle religioni antropomorfe e queste dai pantheon plurali al monoteismo, dalle dee materne ai padri ieratici o quando i Greci cominciarono a ribellarsi al dominio mentale delle mitologie ed inaugurarono lo sguardo razionale nelle colonie ioniche per segnalare “grandi trasformazioni” ad esempio nelle immagini di mondo o la stessa “rivoluzione” statale operata lungo il XVI secolo dai francesi. Quando cioè Muhammad prende disperse tribù arabe sempre assoggettate dai vari sistemi adiacenti più organizzati e gli racconta le storie poi compendiate nel Corano, una ventina d’anni o poco più come tempo storico, per generare l’intero fenomeno dell’islam, questo non merita la categoria delle rivoluzioni? Noi abbiamo spesso concetti sfocati che fanno categoria ma con poi assegnazione dei casi, così, a piacere. Su questo argomento la critica è basata sui dosaggi. Nel senso che nessuno può ignorare l’effettiva incidenza dell’invenzione ed innovazione tecnica ed il doppio esito di fornire nuovi strumenti che poi però ci strumentalizzano, ma dare a ciò il ruolo di motore primo, unico e generatore di trasformazioni istantanee è spesso improprio. Spesso, si possono ricostruire tempi più lunghi in cui si collezionano segmenti o cambiamenti indiretti di contesto che poi prendono forma di singolo strumento, le innovazioni che ci immaginiamo individuali, improvvise ed archimedee (si è accesa la lampadina mentale, da cui le teorie “interruttore”) sono collezioni stratificate di apporti parziali che solo alla fine producono il “fatto nuovo”. Sono cambiamenti sistemici, collettivi e di medio periodo. Ciò vale più in generale anche come teoria del cambiamento storico, quelle “lunghe durate” proposte da F. Braudel e la scuola delle Annales, dopo Darwin e lui dopo i geologi della prima metà dell’Ottocento che avevano dilatato il tempo dell’uomo e della storia o analizzando la storia per transizioni invece che per fatti evenemenziali o come illustra il T. Kuhn nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche nel lento accumulo di incongruenze della scienza nomale da cui poi spunta fuori la scienza rivoluzionaria. Tale temporalità del cambiamento storico vale sia quando leggiamo i fatti accaduti, sia quando teorizziamo fatti che vorremmo far accadere. Molti sono in attesa messianica di qualcosa o qualcuno che trasformi il millenario potere delle élite in qualcos’altro. Son cinquemila anni che quella forma governa le società di tutto il mondo, se aspettiamo che “oplà”, una classe, una idea, una invenzione, un leader carismatico, un partito con avanguardie di buone intenzioni, un nuovo modo di produzione o di intendere la valuta, imposto chissà da chi e come, capovolga il tutto per vedere noi in vita finalmente il nuovo modo di stare al mondo, temo che dovremo aspettare altre migliaia di anni prima che ciò accada. Quanto allo specifico di una teoria dell’innovazione catastrofica, G-W segnalano correttamente che i forni per le ceramiche nascono migliaia di anni prima del ritenuto per fare ninnoli, giocattoli e statuine, l’estrazione mineraria anche per trovare pigmenti, i mesoamericani conoscevano raggi e ruote ma non per questo facevano carri, i greci trovarono la potenza ingegneristica del vapore ma la dedicarono solo a muovere macchine per il teatro ed i cinesi usavano la polvere da sparo, non solo ma per lo più per fare fuochi d’artificio o spaventare i nemici in battaglia, si deve distinguere invenzione e ricezione così come non tutte le eiaculazioni generano concepimenti. Abbiamo già visto queste lunghe anticipazioni quanto ad “invenzione dell’agricoltura” e quanto proprio ai Greci, L. Russo ha dedicato un famoso e documentatissimo studio[37] sulla “rivoluzione scientifica dimenticata”, quando in periodo ellenistico si inventò molto di ciò che poi fu dimenticato per esser inventato di nuovo nel Rinascimento e poi all’inizio del moderno. L’argomento, quindi, meriterebbe una analisi da hoc basata su ricostruzioni plurali, nonché dilatate nel tempo in luogo della teoria dell’interruttore acceso dal genio individuale. Sono cioè trasformazioni sistemiche, se si vuole leggere il cambiamento catastrofico si deve prender in esame sistemi ed i sistemi hanno molte variabili, molte interrelazioni e passano da uno stato all’altro per transizioni di fase più che a salti e rivoluzioni saltellanti proposte da teorie-interruttore o di causazione semplificata. Tali transizioni non sono la lentezza trasformativa dei lunghi periodi standard, ma non sono neanche gli “oplà” che ci piace immaginare parlando di giannette e spolette volanti. Vale per il passato, vale per il futuro ovvero per le teorie del cambiamento sociale. Ed aggiungiamo, vale anche per l’eccesso di critica sulla tecnica modulata sul modello dell’apprendista stregone che risale a Luciano di Samosata[38] ovvero creare strumenti che inevitabilmente ci strumentalizzano. Ci strumentalizzano perché le nostre società attuali son ordinate dal principio economico che genera élite che poi decidono della ricerca, dello sviluppo, delle applicazioni e delle destinazioni concrete su certe forme di organizzazione sociale. Se fossimo società democratiche autocoscienti decideremmo noi a priori su quali ricerche del nuovo concentrarci, quali utilizzi fare delle invenzioni, con quali limiti e destinazioni sociali, come gestirne gli effetti spesso ambigui e potenzialmente bivalenti. Non c’è bisogno di piagnucolare sulla perduta originarietà arcadica o pre-moderna, c’è da capire come dominare l’innovazione invece che esserne dominati. E soprattutto e più a nostra portata, c’è da uscire presto dalla mentalità del XIX secolo coi suoi riduzionismi, determinismi, scientismi, imperialismi, liberalismi, economicismi, positivismi, individualismi, che fanno sistema mentale, immagine di mondo. Il Mondo è nuovo ogni giorno, per parafrasare il saggio, ma le mentalità ci mettono un po’ troppo a registrarlo. Specie quando ti trovi in transizioni epocali come la nostra attuale.

Nelle conclusioni, G-W tornano su qualcuno di questi punti e stupisce che avendo attaccato un modello di teorie vigenti, non riepiloghino tutti i principali punti sia di critica sia di contro-analisi, in modo da costruire un tentativo di modello alternativo. Le conclusioni non concludono nulla se non sottolineare una volta di più che molto di quello che crediamo è sbagliato. Questa conclusione da cantiere aperto ci può anche stare, se questa era l’intenzione dei due va bene anche così. Ma su un punto che evidentemente ritengono decisivo sono molto espliciti e tornano con ampio spazio. Secondo loro la variabile dimensionale ovvero l’idea che società grandi in ambienti densi abbiano portato di conseguenza a società gerarchiche, con una equiparazione tra complessità e gerarchia, è la madre di tutte le false convinzioni. Ma a ben vedere questa ultima frase cambia a seconda di come si declina il verbo “portare”. In descrizione, neanche loro contestano che così si legge nel registro storico anche se in modi che hanno cercato di leggere in forme più complesse di quelle vigenti e che secondo noi sono ancora meno complesse di possibili modelli a grana fine ancorpiù multidisciplinari e realistici. Quello che in realtà contestano è che questa descrizione sia intesa come una prescrizione, così non poteva che andare e così è giusto che vada e per sempre andrà. Abbiamo già segnalato questo punto come dirimente per loro, cioè il determinismo teleologico. Ma credo molti lettori non capiranno come non l’ho capito io ed anche alcuni critici del volume tra quelli reperibili in questo elenco[39], cosa c’entri questa sacrosanta e francamente anche ovvia critica al determinismo teleologico del tutto insostenibile sotto più e più punti di vista, con tutto il resto del lavoro critico sui vari punti del nostro approccio allo studio del tempo profondo. Dopo aver portato avanti per anni ampi studi multidisciplinari su vari aspetti ed applicazioni del concetto di complessità, ci appare chiaro che se i sistemi complessi sono per lo più sistemi autorganizzati mentre i sistemi più elementari e meccanici hanno forme gerarchico-ingegneristiche, la versione politica di un sistema auto-organizzato è un sistema realmente democratico e giammai un sistema dominato da una élite. Bastava questo appunto per demolire le pretese di naturalità ed efficienza dei sistemi gerarchici. La gerarchia è una semplificazione primitiva della complessità. Bastava inquadrare i nostri miseri cinquemila anni di società gerarchiche in un tempo che speriamo ne avrà altri cinquemila o cinquantamila o cinquecentomila o di più ancora di trasformazioni per capire che siamo solo all’infanzia delle forme di vita associata su grande scala. Tutti gli studiosi sul concetto di democrazia, sanno che questo sistema è più facile e diciamo “naturale” in quanto più facile, nei piccoli gruppi e meno facile e quindi più difficile in quelli grandi. Si dovrebbe allora capire meglio cosa agisce a queste diverse scale, dove risiede questa difficoltà. Tanto per farvi un accenno, è innegabile che quando in un gruppo tutti conoscono i problemi del gruppo e i problemi che il gruppo incontra nel suo esterno (naturale o fatto di altri gruppi), nessuno rinuncia alla sua naturale facoltà di farsi una idea ed esprimere una opinione in merito al fine di decidere assieme il “che fare?”. Se in un esperimento mentale paracadutate dieci persone adulte che non si conoscono in una isola deserta in una sorta di “isola dei non famosi” senza però le telecamere e sceneggiatori occulti, è inimmaginabile si formi il capo unico assoluto. Potrete avere uno più bravo a cacciare, una a fare capanne, uno che racconta storie, una a cucinare, uno a coltivare, una a curare, ma non si capisce perché mai dovrebbero in nove sottomettersi ad uno quando si dovrà rispondere alle varie versioni del “che fare?” generale di gruppo, il “che fare?” strategico. Ma se passate da 10 a 100, poi a 1000, 10.000, 100.000 e così via, se mettete condizioni esterne viepiù vincolanti, dallo spazio alle risorse a vicini prima amici e poi competitivi perché anche loro alle prese con lo stesso spazio e le stesse risorse e relative immagini di mondo differenti, allora vedrete sommarsi tante piccole e meno piccole trasformazioni dei modi sociali e relative immagini di mondo. Certo, come s’è notato in archeologia, mai di colpo come se ci fosse un limite numerico dimensionale prima del quale c’è un modo e dopo il quale c’è una trasformazione catastrofica, ed è proprio indagando a grana fine queste transizioni complesse che dobbiamo migliorare le nostre letture del profondo passato, tra l’altro usando modelli in cui non c’è solo il motore tecnologico o ecologico o demografico o geopolitico o delle forme di credenza e di ideologia o di una sola o coppia di variabili, ma tutte queste e loro mille e più forme di interrelazione e causazione reciproca ed incrociata, a volte non lineare. Tanto che alla fine si scoprirà che ogni modello è una riduzione. Per cui alla fine, in vie brevi, non potrete altro dire che la gerarchia sociale è figlia dei modi ancora molto primitivi con cui affrontiamo la crescente complessità delle condizioni interne ed esterne delle nostre forme di vita associata a scale di crescente complessità. Se poi vi piace immaginare e dire in un libro che sarebbe meglio sciogliere gli Stati e formare milioni di città o villaggi-stato autogestiti in equilibrio con la natura e coi vicini[40], va bene (ammesso sia vero questo presunto possibile equilibro con la natura per otto miliardi di produttori di entropia), ma tanto dovrete sempre fare i conti con la domanda del come arrivare a questo modo di rispondere al “che facciamo?” nelle nostre forme di vita associata per arrivare a dove volete arrivare. Vale per gli anarchici ma anche per qualsiasi altra idea sulle forme politico-sociali. Qui tutto lo sforzo di G-W fallisce, non si capisce dove pensano di mettere il motore delle gerarchie sociali, del fatto che Pochi decidono per Tutti.

Stranamente, G-W nelle prime pagine del loro trattato scrivono: “La questione ultima della storia umana … [… è] l’equa capacità di partecipare alle decisioni sulla nostra convivenza” (p.19). Quindi sembra che tale verità non gli sia estranea. Tale capacità si perde progressivamente in seguito ad un movimento in cui i singoli aggregati umani diventano viepiù massivi, in cui i singoli vengono schiacciati in funzioni e ruoli da macchina sociale, lì dove la logistica di funzionamento del bene generale diventa complessa, oltretutto pressata dall’esterno fatto da potenziali nemici o concorrenti umani o condizioni geo-ecologiche-climatiche avverse. Tali decisioni vengono progressivamente delegate, poi si perde la facoltà di controllarle pur avendole delegate, diventano modalità “necessarie” con una parallela narrazione giustificante sempre più condivisa che “obbliga” ad accettarle e riprodurle perché tutti così pensano sia giusto fare, perché non si vede alcuna altrettanto facile modalità diversa. I delegati iniziali furono coloro che avevano la fiducia di tutti, i nuovi sacerdoti in possesso delle nuove immagini di mondo collettive. I delegati diventano progressivamente autonomi, il potere dato diventa il potere sequestrato, le questioni si complicano ed i singoli non sanno ormai più nulla del tutto sociale ma solo del loro metroquadro di esistenza particolare. È lì che l’equa capacità di partecipare alle decisioni ultime si perde progressivamente. Questa sequenza di apparenti necessità viene introiettata, non venne imposta, all’inizio è impossibile immaginare concretamente come si sia potuta imporre. Sappiamo benissimo come poi ha agito il potere delle élite e delle classi, inclusa coercizione e fisica punizione, ma prima bisogna capire come si sono formate e non si può dire che si sono imposte prima ancora che si venissero a formare. L’assurda teoria per la quale l’eccedenza agricola avrebbe generato le élite improduttive come spiega l’intagliatore dell’Uomo Leone di Hohlenstein di 40.000 anni fa? Chi l’ha mantenuto a lavorar per mesi alla statuina? E quelli che produssero le migliaia di perline d’avorio di Sungir, chi li ha mantenuti? E quelli che costruirono Gobekli Tepe?[41]? Non c’è bisogno dell’agricoltura per spiegare le élite improduttive poiché inizialmente, i delegati a svolgere una qualche funzione utile al gruppo erano “produttivi” e quindi la loro produzione a fini di gruppo (ad esempio coordinare quando vediamo prodotto agricolo affluire al tempio per la ridistribuzione) era remunerata dal gruppo stesso condividendo la sussistenza.

Oggi siamo vittime sociali e politiche delle élite, ma le prime élite le abbiamo lasciate formarsi noi stessi. Ed è questo “noi stessi” collettivo che dobbiamo rivolgerci se vogliamo invertire i loro poteri. Abbiamo detto “stranamente” riportando questo passo essenziale alla comprensione del dilemma dell’avvento delle società gerarchiche perché convenuto che è effettivamente questo il problema come sembra esser noto a gli stessi Autori, dopo scompare, apre il trattato ma non lo chiude ed anzi, alle Conclusioni tornano con insistenza a negare che l’inflazione di complessità nei gruppi umani sia la causa prima di questa perdita delle capacità di equalizzare le dinamiche interne agli stessi gruppi umani. Gli Autori rimangono ingabbiati in parti di quella mentalità moderna che loro stesso provano a decostruire, ad esempio immaginando che la democrazia sia un metodo che da sé risolve tutto, basta fare piccole assemblee che cercano il consenso discutendo, che problema c’è? Invece il problema c’è, la capacità di prender decisioni non è solo la possibilità formale di farlo è la capacità di capire i problemi nella loro complessità e di farvi fronte con giudizi competenti ed attinenti. Quando nel passato di Atene qualcuno provò a suggerire che le città-Stato ognuna orgogliosa della propria differenza, forse era meglio cominciassero a pensare come mettersi assieme visto che erano assediati da un impero, nessuno gli diede retta. La democrazia c’era pure, in qualche modo, ma mancava la mentalità. E nel 322 a.C. la democrazia fallì definitivamente, il modo non garantisce di per sé la giusta decisione attinente. Quando tutti sono in contatto con tutti e col tutto loro interno e circostante non si vede per quale ragione si dovrebbe rinunciare a partecipare alle decisioni sul “che fare?”. È quando non lo sono più che, anche invitandoli benevolmente a farci sapere la loro, non possono più dare giudizi pertinenti. Semplicemente, non sanno più nulla sul ciò su cui dovrebbero esprimere una opinione. Senza tempo perché ingabbiati nel lavoro-salario, con immagini di mondo formate un po’ nei primi anni di scuola ma poi preda di tutti coloro che vi intervengono per darne certe forme e non altre. Con immagini di mondo formate da schemi riduzionisti e deterministi solo mono-disciplinari che impediscono in via di principio di capire qualcosa del nostro mondo complesso. Rimbalzando tra le verità parziali di questa o quella disciplina che tagliano il mondo a piacere. Con flussi di informazione monodimensionale, tutta emessa da emittenti in mano alle élite, spesso strutturalmente costruite in realtà per venderci cose. Con distribuzioni di conoscenza che prevedono pochissimi che “sanno” sui tantissimi che non sanno nulla. Con un impedimento strutturale ad incontrarci a discutere tra noi per equalizzare le asimmetriche conoscenze se non a botte di 140 caratteri su twitter o di battute su facebook o muti davanti al dibattito degli esperti in televisione, esperti poi cosa non si sa, dibattito o più spesso rissa polemica inconcludente e basta su stereotipi ideologici di nessuna utilità. Come si può pensare di avere una reale democrazia in queste condizioni?

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Prima di chiudere è doveroso citare un ultimo punto teorico, il problema della o delle libertà. Ammetto che nella mia immagine di mondo il problema delle libertà è relativo, magari per altri come Graeber è invece dirimente ed orientante. Si dovrebbe allora discutere perché per alcuni è dirimente e per altri meno. Credo che il destino sociale della nostra specie, abbia portato di per sé una limitazione della piena libertà. Per altro, pare sia stato un buon affare perché liberi da qualsiasi vincoli, cioè da soli, persi nel mondo grande e terribile del paleolitico, senza zanne, artigli, corazze, veleni, muscolature possenti, saremmo durati una mezz’oretta. La natura pone vincoli ancora più severi di quelli che ci diamo come umani. Abbiamo quindi adattativamente barattato la piena libertà con sistemi di vincoli, come per altro avevano fatto i discendenti primati e prima di loro molti mammiferi e prima di loro altri ancora. Il punto allora, per una specie autocosciente come la nostra, è stabilire come definiamo e gestiamo i sistemi di vincoli. E qui, non vedo altro modo migliore se non puntare al diritto societario naturale, siamo soci di società per diritto naturale, come farla, a che fini, in che modi, deve definirsi per partecipazione della più ampia assemblea dei soci.

Possiamo così concludere la nostra analisi critica che però, come annunciato in premessa, è stata anche l’occasione per ragionare di nuovo su questi argomenti, anche a prescindere le tesi specifiche dei due. Tesi a volte discutibili e qui discusse, comunque stimolanti. Il lavoro di G-W vi interesserà se siete interessati a questo che abbiamo chiamato il “problema dell’Origine” capito che le origini vengono da lunghe transizioni a più variabili interrelate e non nascono come Atena dalla coscia di Zeus già bell’è fatta, una delle prime versioni della teoria interruttore. Vi interesserà sia nel prender informazione nuova, sia nel rivedere modi vecchi di pensare l’argomento. Detto ciò, il lavoro può intendersi un contributo (né il primo, né il più originale, né il più significativo) comunque vasto, all’origine di un nuovo modo di pensare l’uomo, il mondo, le nostre forme di vita associata che purtroppo impiegherà il suo tempo e chiama a molto, ma molto altro lavoro collettivo di ricerca, critica, analisi e poi anche qualche sintesi. Nuove sintesi perché notata la complessità come essenza delle società umane, essa comunque alla fine va ridotta a sistemi di conoscenza che possano esser infilati pur con tutte le dovute cautele nelle nostre limitate teste in modo ci si possa incontrare a discutere e poi decidere assieme come rispondere all’eterna domanda dell’adattamento umano: “che fare?”. A cominciare proprio da come arrivare a quel “decidere assieme” che è propedeutico a qualsiasi altra versione di futuro ci si vorrà dare.               


[1] D. Graeber, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, 2012; D. Graeber, Critica della democrazia occidentale, Eleuthera, 2019;

[2] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, 2019

[3] K. Marx, Quaderni antropologici – sua ultima scrittura non terminata

[4] Nella nota 1 cap 3, ricordano opportunamente il calcolo fatto dal protestante James Ussher nel 1650, ma di fondo ritenuto valido ancora nel XIX secolo, sulla lunghezza del tempo del Tutto: la settimana creativa di Dio si era svolta nell’Ottobre del 4004 prima di Cristo. Ma per Newton era il 3988 a.C. . Il calcolo era fatto sulle varie generazioni discendenti citate nella Bibbia a partire da Adamo ed Eva.

[5] Ad esempio, nel suo “Il mondo fino a ieri” (Einaudi, 2013), Jared Diamond fa intenso “cherry-picking” scegliendo con cura società tradizionali in appoggio alle sue tesi, ma è una tendenza anche più vasta. Come detto, prender esempi dall’antropologia è naturale, ma c’è un delicato confine tra “esempio tra gli altri” ed “esempio probanti”.

[6] Il modo di questo ragionamento non è lontano dal Leibniz de “il migliore dei mondi possibili”.

[7] In S. Ferrara, Il salto, Feltrinelli, 2021 p. 81

[8] Citato nell’ottimo: H. Gee, La specie imprevista, Il Mulino, 2016

[9] Coltivazioni su piccola scala di 25.000 anni fa: https://en.wikipedia.org/wiki/Ohalo_II

[10] Un ottimo riassunto dell’intera questione secondo le ultime più aggiornate scoperte in J.C. Scott, Le origini della civiltà, Einaudi, 2018

[11] L’ingresso alla grotta Cosquer, in Francia, si trova oggi a circa 35 metri sottacqua, ma ai tempi in cui era frequentata e dipinta, circa 27.000 anni fa per le immagini più antiche, era 130 metri sopra al livello del mare che distava 8-10 chilometri.

[12] Su Catalhoyk, dati aggiornati qui: https://www.catalhoyuk.com/

[13] Esempio: J. Attali, L’uomo nomade, Spirali, 2006

[14] “Non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica” Hegel, lezioni sulla storia della filosofia.

[15] Una review generale dei punti di vista e degli apporti femminili e femministi alla paleoantropologia in: M. Patou-Mathis, La preistoria è donna, Giunti, 2021

[16] Review aggiornata su pitture murali, petroglifi ed altro in: S. Ferrara, Il salto, Feltrinelli, 2021

[17] https://pikaia.eu/lavorazione-del-legno-nel-pleistocene/

[18] Due ottime review di aggiornamento sui Neanderthal: R. Wrag Sykes, Neandertal, Bollati Boringhieri, 2021. Più condensato ma anche più incisivo: S. Condemi, F. Savater, Mia caro Neandertal, Bollati Boringhieri, 2018

[19] Il classico: J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale, Adelphi, 1996.

[20] Vedi nota 4.

[21] Un compendio della nuova Sintesi estesa in: E. Jablonka, M.J. Lamb, L’evoluzione in quattro dimensioni, UTET, 2007. Meno chiaro ma più recente: R. Bonduriansky, T, Day, L’eredità estesa, F. Angeli, 2020

[22] https://www.treccani.it/enciclopedia/sociobiologia

[23] R. Dunbar, La scimmia pensante, il Mulino, 2009 (ma ce ne sono anche altri)

[24] https://en.wikipedia.org/wiki/Jebel_Sahaba

[25] Analisi del più anziano Neandertal mai trovato, Shanidar 1: https://en.wikipedia.org/wiki/Shanidar_Cave

[26] La faccenda nasce dagli studi di G. Rizzolati, C. Sinigaglia, So quel che fai, Cortina editore, 2006. Oggi si è molto ingarbugliata anche ad opera di critici americani.

[27] A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1759 (Rizzoli, 1995)

[28] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, 2017. Titolo originario: An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations

[29]  https://en.wikipedia.org/wiki/Sungir

[30] Aggiornamenti sugli scavi qui: https://www.dainst.blog/the-tepe-telegrams/

[31] K. Schmidt, Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle piramidi, Oltre edizioni, 2011

[32] Su Kaharan Tepe: https://medium.com/@zehramevlevi55/karahan-tepe-2dfec2e89879

[33] Testo fondamentale prima di avventurarsi a parlare con eccessiva disinvoltura della democrazia ateniese, che porta poi a ripetere luoghi comuni che sembrano pure citazioni quasi-colte, ma sbagliate: M. Herman Hansen, La democrazia ateniese del IV secolo a.C. (ma documenta anche quella del V° secolo), LED, 2003

[34] Sulla platonica metafora della società-nave: G. Cambiano, Come nave in tempesta, Laterza, 2016

[35] Discorso sulla servitù volontaria, Feltrinelli, 2014

[36] L’intera sequenza che va dal Castelperroniano al Magdaleniano via altri quattro stili di lavorazione, sono tutti scansionati su ritrovamenti fatti esclusivamente in Francia (da cui i nomi coi quali si indentificano) e non si capisce bene cosa significhino per una visione più generale (del tempo e nello spazio) del periodo.

[37] L. Russo, La rivoluzione scientifica dimenticata, Feltrinelli, (edizione accresciuta) 2013

[38] Luciano di Samosata II secolo a.C. Philopseudés o L’amante del falso. Da cui L’apprendista stregone di Goethe, poi musicato da Paul Dukas, fino poi al Walt Disney di Fantasia.

[39] Si vada in fondo a Further reading: https://en.wikipedia.org/wiki/The_Dawn_of_Everything

[40] È per altro questa anche la tesi del liberalissimo geopolitico globalista P. Khanna, vedi: La rinascita delle città-stato, Fazi, 2017.

[41] Sull’uomo leone, 40.000 anni fa, si stimano quattrocento ore di lavoro, da: N. McGregor, Vivere con gli dèi, Adelphi, 2019. Sulle perline di Sungir invece, si stimano diecimila ore di lavoro. Su Gobekli Tepe, se si conosce il sito, il discorso va da sé.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/02/20/allaba-degli-studi-sullalba-di-tutto/

UN MUTAMENTO DECISIVO DI PROSPETTIVA, di Gianfranco la Grassa

UN MUTAMENTO DECISIVO DI PROSPETTIVA
Già effettuato, ma da ribadire
1. Nei modelli teorici si parte spesso da una presupposta situazione di equilibrio, che si sa bene servire soltanto da base per studiare poi i processi di non equilibrio. Ad es. Marx prende le mosse dalla <<riproduzione semplice>>, con crescita nulla del sistema, che resterebbe di ciclo in ciclo sempre eguale a se stesso. Schumpeter immagina invece un <<flusso circolare>>, che in genere prevede una crescita ma sempre secondo eguale proporzione tra le varie parti del sistema. Dalla <<riproduzione semplice>> si passa a quella <<allargata>> con il reinvestimento di una quota del plusvalore ottenuto da parte dei capitalisti (proprietari dei mezzi produttivi); mentre dal <<flusso circolare>> si passa allo <<sviluppo>> grazie all’attività innovativa di specifici imprenditori.
Nella marxiana <<riproduzione allargata>> si può pensare alla semplice crescita, con allargamento del sistema produttivo secondo le medesime proporzioni dei vari settori o branche; allargamento consentito anche da una semplice accumulazione del capitale investito secondo quote sempre percentualmente eguali in questi vari settori e senza un particolare processo innovativo o, quanto meno, con innovazioni di <<processo>> che innalzino la produttività in modo uniforme nelle varie branche del sistema complessivo. Nello <<sviluppo>>, in quanto fenomeno di rottura del <<flusso circolare>>, è invece impossibile che non si verifichino processi innovativi di vario genere – fra cui le innovazioni di <<prodotto>> che complicano il reticolo intersettoriale – poiché è proprio la proporzione tra i vari settori ad uscirne alterata, con avanzamento di quelli interessati da innovazioni o addirittura nuovi a scapito degli altri più tradizionali (di passate epoche innovative, ormai divenuti di routine o maturi).
E’ però possibile affrontare il problema da una prospettiva diversa, in un certo senso opposta: presupporre lo <<squilibrio>> come processo <<fondante>> il sistema. Senza lo <<squilibrio>>, in quanto base dell’analisi relativa all’evolversi di dati processi (ad esempio quello produttivo), non sarebbe possibile una corretta individuazione e valutazione prospettica circa il verificarsi degli stessi. Si badi bene: non si tratta affatto di una supposizione che pretenderebbe di riprodurre più esaurientemente <<la realtà così com’essa è>>. In ogni caso, il teorico è consapevole di stare costruendo mappe interpretative che con il “reale” intrattengono sempre un rapporto di ipotesi di certi andamenti con verifica delle stesse, correzione delle mappe mediante nuove ipotesi, e così via in un processo senza fine mai in grado di attingere <<la realtà così com’essa è>>. Tuttavia, si ritiene preclusa la strada di un’analisi che serva all’azione (alla pratica) nel mondo “reale” se non si pone all’inizio la presenza dello <<squilibrio>>.
E’ in fondo la strada percorsa da Lenin (non so con quale consapevolezza teorica) nello studio e valutazione della fase imperialistica, che non avrebbero prodotto effetti “pratici” se non fossero stati basati sullo <<sviluppo ineguale>> dei diversi capitalismi (paesi con questo sistema di rapporti sociali), tesi abbastanza simile a quella che presuppone la priorità dello <<squilibrio>>. Senza questa presupposizione, non sarebbe stata possibile la previsione circa l’<<anello debole>> della “catena imperialistica”. E ancor meno il dirigente bolscevico avrebbe dimostrato la sua grande duttilità, legata alle esigenze della prassi politica, nel ricercare le alleanze tra grandi raggruppamenti sociali (operai e contadini) adeguate al fine di concentrare l’azione trasformativa (rivoluzionaria) su detto anello debole.
2. Per quanto non sia immediatamente “visibile”, il problema dell’alternarsi di epoche monopolari (un paese con assai larga sfera di influenza mondiale) e multipolari (più paesi in conflitto per le sfere di influenza; l’imperialismo fu una di queste) può essere trattato con modalità assai diverse a seconda della priorità assegnata all’equilibrio o allo squilibrio nel “modello” teorico utilizzato per l’interpretazione della “realtà”. Vi sono correnti, penso alla scuola dell’economia-mondo (e annessi e connessi), che di fatto fondarono la loro analisi sul passaggio dal predominio di una grande “potenza” alla supremazia di un’altra (Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, solo come elementare esempio). I periodi di passaggio (multipolari appunto), pur non studiati certo con modalità deterministiche, restarono (nella teoria dell’economia-mondo) in definitiva subordinati a quelli (monopolari) di preminenza di una nazione, di uno Stato, di un paese. L’attenzione del teorico era soprattutto attratta dalla “potenza” preminente, d’epoca in epoca, e questo non può non influenzare la ricostruzione storico-teorica delle epoche di transizione che, appunto, non è la riproduzione della realtà così com’essa è, ma solo un’interpretazione in grado poi di promuovere, sia pure tramite molte mediazioni, una determinata prassi oppure un’altra, ecc.
In effetti, la potenza predominante avrebbe – e non solo per ragioni economiche, ma di assai varia natura (quindi anche politico-militari, ideologico-culturali, ecc.) – possibilità di realizzare una certa regolazione dell’insieme. Chi analizza l’epoca di una predominanza – fosse anche limitata ad un’area mondiale, come lo fu la supremazia del capitalismo statunitense tra il 1945 e il 1989-91 – si accorge di un qualche ordine esistente in quell’area; non a caso si suppose, nel periodo storico considerato, la fine delle “grandi crisi” capitalistiche e l’affermarsi, pur nel “libero” mercato, di una economia (pur assai relativamente) regolata, in potenziale continuo sviluppo solo interrotto da brevi crisi sistemiche (dette “recessioni”), tutto sommato normali e controllabili. Non vi è dubbio che il mondo bipolare – la Cina vi restava estranea, malgrado la rilevanza del suo peso politico – è stato la fonte di questa interpretazione teorica.
Esisteva, da una parte, il “socialismo” – per i suoi critici un mondo comunque ostico da decifrare, tanto che spesso ci si semplificò il compito dell’analisi con l’ormai evidentemente errata tesi del “capitalismo di Stato”; tesi comunque meno aberrante di quella del “socialismo di mercato” nella Cina attuale – e, dall’altra, il capitalismo tout court, che veniva criticato e magari combattuto, ma sempre a partire dalla sua considerazione quale blocco unico; o visto come transnazionale o subordinato al centro regolatore statunitense. Non appena uno dei “mondi” crollò e sembrò essere riassorbito nel sistema complessivo, ci fu chi pensò ad un’epoca imperiale (dominata dagli Usa) di durata indeterminata, chi invece preconizzò il declino di questo paese, subito passando però ad immaginare quale sarebbe stata la nuova “potenza” predominante: prima fu il Giappone, errore marchiano, poi si è scommesso sulla Cina. Che questa lo diventi (semmai fra un bel po’ d’anni) oppure no è proprio ciò che interessa di meno. L’importante è capire – via ipotesi aperte all’errore/verifica/correzione in un processo ininterrotto – come si andrà atteggiando lo <<sviluppo ineguale>> nella nuova epoca multipolare (sarebbe meglio non usare più il termine “imperialismo”).
Spero non ci sia bisogno di spendere altre parole affinché il lettore attento afferri le maggiori possibilità di incorrere in errori (da correggere poi con grande difficoltà), accettando l’idea che l’aspetto fondamentale dell’evolversi degli eventi storici sia rappresentato dal monopolarismo, una versione della priorità analitica dell’<<equilibrio>>, che infine entrerebbe in crisi in attesa del confronto per la nuova preminenza monopolare. Mentre lasciare in sospeso quale sarà la nuova potenza a sostituire gli Stati Uniti – in declino, anche se solo iniziale al momento – vuol dire porre in primo piano le epoche multipolari, cioè le fasi dello <<squilibrio>>. Da quest’ultimo, che è per certi versi lo <<sviluppo ineguale>>, si originano – certamente dopo opportuna maturazione del processo – le crepe in grado di fessurare il sistema in dati punti, non prevedibili all’inizio del processo, che non è deterministico, ma prevalentemente caotico; questi punti (paesi in definitiva) saranno in futuro gli <<anelli deboli>> di una catena di rapporti internazionali, così come li definì Lenin.
Ecco perché sistemi teorici, tipo quelli dell’economia-mondo, non mi sembrano più riproponibili. Non dico che non abbiano avuto i loro meriti. Tuttavia, è l’impostazione generale che va accantonata. Oggi deve prevalere l’attenzione per le epoche multipolari, in definitiva per lo <<squilibrio>> come del tutto prioritario rispetto all’<<equilibrio>>. Lo ribadisco: non prioritario perché più vicino alla “realtà” – che cerchiamo di conoscere mediante l’ipotesi di alcune soltanto delle variabili della sua complessa dinamica, ritenute quelle fondamentali – ma perché abbiamo bisogno di seguire le alterne vicende mondiali riassunte nella denominazione di <<sviluppo ineguale>> dei diversi paesi capitalistici, senza più concessioni alla sciocchezza della fine degli Stati nazionali, cioè di fine delle “potenze”, proprio mentre alcune sono in crescita e ci si avvia intanto al multipolarismo, fase d’avvio dell’epoca in cui dovrà necessariamente prodursi il conflitto policentrico acuto per la supremazia mondiale.
3. Puntare sulla priorità dell’<<equilibrio>>, e dunque delle fasi di monopolarismo, ha ulteriori effetti negativi. Indubbiamente Lenin – tutto preso dalle necessità della fase storica in cui visse e in cui riuscì con il gruppo dirigente bolscevico ad approfittare della rottura della catena imperialistica nell’<<anello debole>> russo – non poté portare a compimento la necessaria “rivoluzione” anche in campo teorico. La tesi dello <<sviluppo ineguale>> si arrestò alle soglie di quest’ultima in omaggio alla pretesa di essere l’ortodosso del marxismo in lotta contro il revisionismo kautskiano (socialdemocratico), mentre la realtà era proprio l’opposto. Solo che Lenin, per ragioni storiche oggettive, rimase a mezza strada nel suo effettivo “revisionismo”. Possiamo ben dire che la tesi dell’imperialismo quale ultimo “stadio” del capitalismo gli precluse l’altra “mezza via”.
Per molto tempo, il “marxista” cristallizzato ha cercato infantilmente di sostenere che ultimo non significava finale, bensì ultimo in ordine di tempo. Non è vero, ogni marxista ha sempre stabilito analogie tra l’organismo sociale e quello biologico, con le sue fasi di nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e infine morte per rinascere in altra forma. L’imperialismo è stato sempre trattato quale senescenza, vecchiaia, del capitalismo. L’errore fondamentale non era però questo; non a caso ho sottolineato “stadio” e non ultimo. E’ necessario abbandonare l’idea degli stadi. Dagli anni ’90 in poi, ho più volte formulato la tesi delle “ricorsività” e non degli “stadi”, per evitare di pensare sempre alla fine di date formazioni sociali in una visione unilineare dell’evoluzione storica, tesa ineluttabilmente verso le ben note “magnifiche sorti e progressive”.
In realtà, la “ricorsività” andrebbe meglio intesa quale <<fase di transizione>> a nuove forme dei rapporti sociali, senza però pensare alla fine del capitalismo tout court; semplicemente finì il capitalismo inglese (da definirsi “borghese”), la cui forma è quella analizzata da Marx mentre era al suo apogeo. I marxisti hanno continuato a parlare di capitalismo mentre invece esistono i capitalismi. E così, mentre si vaneggiava circa l’ultimo stadio capitalistico e sulla rivoluzione che avrebbe condotto al comunismo (tramite la fase socialistica), ha invece prevalso il capitalismo statunitense che tuttora predomina nel mondo. Anche per questo va data priorità allo <<squilibrio>>, che persiste durante l’epoca della preminenza centrale di una data “potenza” e alla fine logora il sistema solo apparentemente “regolato”. Il suo lavorio appare “in superficie” nelle crisi “sistemiche”, sia pure di non drammatica intensità, ma in genere non si dà ad esso la giusta rilevanza. Alla fine esso inizia a dissolvere la coesione tra le varie parti del sistema (in definitiva le diverse formazioni <<particolari>>, i paesi, nazioni, ecc.); e ci si avvia allora verso la fase multipolare dove il conflitto, sempre unito (ma in funzione subordinata) all’alleanza e cooperazione (appunto per la conduzione del conflitto), diventa via via più acuto fino alla necessità della resa dei conti tra blocchi di “alleanze”: stabilite per pura convenienza e che quindi lasciano sempre sussistere la tensione che è <<squilibrio>>.
Tuttavia, le ricorsività di mono e multipolarismo appaiono nelle loro forme più generali, ma ogni fase multipolare (di crescente affermazione dello squilibrio) è anche senza dubbio di specifica transizione ad una nuova forma dei rapporti sociali. L’imperialismo lo fu dal capitalismo “borghese” a quello dei “funzionari del capitale” con predominanza statunitense. Per vari motivi piuttosto economicistici, di rilevanza delle forme del mercato e dell’impresa nel sistema produttivo, parliamo sempre di capitalismo; tuttavia cominciamo almeno a declinarlo al plurale (“i capitalismi”). Adesso, la nuova fase multipolare (ancora all’inizio) – considerata quale anticipazione del “policentrismo conflittuale acuto”, con scontro decisivo per la supremazia – potrebbe annunciare una nuova “transizione” in cui giocherà, in lotta con la formazione capitalistica (USA) tuttora in auge, un nuovo capitalismo le cui forme, in quest’epoca storica assai mobili e soprattutto mal conosciute, sono soprattutto (o almeno così sembra attualmente) quelle delle formazioni <<particolari>> russa e cinese; tutto sommato risultato – pur attraverso le complesse vicende di più di un secolo e con l’estensione territoriale in paesi e quindi società diverse – della <<Rivoluzione d’ottobre>>, che si conferma perciò, ma con modalità di impossibile comprensione mediante il marxismo ossificato, uno dei grandi eventi storici, al pari della <<Rivoluzione (francese) del 1789>>.
Quando, liberatici infine degli “ismi” del XX secolo ancora per null’affatto superati, riusciremo a capire meglio le “transizioni” rappresentate dalle fasi multipolari – e in particolare quella fondamentale tra capitalismo “borghese” e dei “funzionari del capitale”, avvenuta nell’epoca dell’imperialismo, giacché la successiva è appena agli inizi – saremo pure in grado di decidere se vale ancora la pena di usare il termine “capitalismo” (declinato però al plurale) oppure se, superando l’economicismo delle forme mercantili e imprenditoriali, ci si dovrà decidere per una diversa opzione. Non è però questo il problema che ci assilla oggi. Si deve cominciare con il superamento di teorie vergognosamente cristallizzate, sterili, ormai giocattoli per bambini utilizzati da adulti che si limitano ai birignao della loro infanzia.
A questo serve la tesi della <<priorità dello squilibrio>>, non a pretendersi capaci di riprodurre la <<realtà così com’essa è>>. La marxiana “riproduzione del concreto nel cammino del pensiero” (“Introduzione del 1857”) lasciamola tra gli “arnesi” (teorici) di un secolo e mezzo fa; certo importante com’è ogni “arnese” utile all’analisi dell’evoluzione storica della nostra conoscenza, che non può saltare a piè pari determinati gradini, però sapendo che quell’“arnese” conosce, dopo un determinato periodo di tempo, il suo superamento.
E’ chiaro il discorso o si devono sempre ripetere le stesse cose? Gli sclerotizzati non capiranno; allora, per favore, lasciamoli perdere. Tanto più che in parte si tratta di imbroglioni, che ingannano alcuni giovinastri cercando di ripetere il ’68, ma sono al servizio dei capitalismi più reazionari. Vediamo oggi meglio quale funzione stiano assolvendo questi intellettuali cialtroni. Non si discuta più con loro; non ha alcun senso, sono in genere al servizio dei peggiori gruppi dominanti italiani e stranieri (statunitensi in testa).
4. Ancora alcune considerazioni conclusive. Bisogna ben capire il senso della priorità dello <<squilibrio>>. Nessuna menzogna relativa al fatto che saremmo più vicini alla “verità” rispetto a coloro che partono dal presupposto “iniziale” dell’<<equilibrio>>. La scelta è solo relativa alla maggiore utilità dello strumento interpretativo (del passato) e previsivo ai fini di una prassi (politica), che non ne discende tuttavia in modo immediato e con filiazione diretta. Lunga, anche in termini temporali, è la catena dei passaggi intermedi tramite i quali si sviluppa il processo di <<ipotesi/prova/errore/nuova ipotesi>>, ecc. Lo <<squilibrio>>, inoltre, vieta di pensare ad un troppo lontano futuro poiché ci obbliga ad accorciare il tiro dei nostri “obici teorici”. In più, ci impedisce di fissarci su una sola conclusione – ad esempio, quale sarà la nuova “potenza” centrale, predominante – poiché l’importante è seguire l’evoluzione dello <<sviluppo ineguale>> assai più da vicino, con atteggiamento di grande flessibilità e adattamento a situazioni estremamente mutevoli, quali sono quelle della fase multipolare.
Vi è però un mutamento ancor più sostanziale, che esito a definire metodologico, termine che mi sembra assai limitativo. Chiamatelo come volete. Se si parte dalla <<riproduzione semplice>>, dal <<flusso circolare>>, ciò che viene pensato come passaggio a quella <<allargata>> o alla <<innovazione di rottura>> lo è sempre quale attività razionalmente tesa ad uno scopo di efficienza, di “economico” impiego delle risorse. Una parte del plusvalore viene reinvestita (accumulata), ma seguendo il criterio del conseguimento del massimo profitto, il che implica l’applicazione del principio del <<minimo mezzo>> o <<massimo risultato>> (cioè minimo costo o massimo ricavo). L’innovazione implica creatività, ma sempre in vista dello stesso risultato. L’esistenza della razionalità limitata (ad es. quella di Herbert Simon), della non trasparenza assoluta dei mercati, ecc. sono semplicemente la solita manfrina di coloro che a Galilei avrebbero obiettato: ma dove mai esiste un moto senza attrito e da potersi definire “rettilineo uniforme”? A simili effettivamente limitati pensatori hanno anche assegnato premi Nobel, ma tanto sappiamo meglio adesso come questi vengono vinti. Non badiamoli nemmeno, non sanno uscire dal vero errore commesso nel valutare il carattere del capitalismo, forma <<storicamente specifica>> di una caratteristica generale di ogni formazione sociale.
Naturalmente, si tiene conto che il massimo profitto è ottenuto in una competizione (lotta) concorrenziale; tuttavia, quest’ultima è secondaria (logicamente) rispetto al fine prioritario del profitto. La concorrenza è dunque un mezzo, obbligatorio nella forma capitalistica dei rapporti sociali (però di produzione), per raggiungere la finalità suprema del capitalista proprietario dei mezzi produttivi: il profitto appunto. Ecco allora che – supponendo la ben nota dinamica capitalistica che conduce alla scissione della società in una classe di ormai sostanziali rentier, da una parte, e nella classe dell’intero corpo lavorativo produttivo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), controllore in collettivo dei mezzi di produzione, dall’altra – diventerebbe possibile pensare al recupero sociale della razionalità produttiva del capitalista concorrenziale. Il “Robinson collettivo” (vedi primo capitolo de “Il Capitale”, paragrafo sul feticismo della merce) userebbe ancora il principio del “minimo mezzo” per realizzare l’utilità sociale complessiva. La produzione potrebbe essere pianificata dalla collettività dei produttori in possesso dei mezzi produttivi in base allo stesso principio messo in primo piano dalla scienza economica dei dominanti, solo che in quest’ultima riguarda i singoli capitalisti, i proprietari dei mezzi di produzione.
In fondo, il “Robinson collettivo” utilizzerebbe i mezzi scarsi – adibiti alla produzione dei diversi beni utili a soddisfare i vari bisogni stabiliti dalla collettività con decisione comune – in base al principio del minimo mezzo; almeno fino a quando non si fosse realizzato il pieno comunismo, che implicherebbe la fine della scarsità dei beni in relazione ai bisogni (“a ciascuno secondo i suoi bisogni”, infatti). Il tutto in armonia e cooperazione. Una volta eliminato il controllo “individuale” (anche di gruppi di capitalisti evidentemente) dei mezzi produttivi, l’uso di questi – e i bisogni da soddisfare tramite i beni con essi prodotti, utilizzando la forza lavoro fornitrice del pluslavoro/plusvalore – non dipenderebbe più dalle decisioni di singoli “individui” in base al massimo profitto (con tutte le limitazioni possibili dovute agli “attriti”, pensati da cervelli poco adusi all’astrazione scientifica).
Da simili distorte concezioni sono poi dipese sia le improprie conclusioni sugli extraprofitti di monopolio, in teorie che eliminano anche gli squilibri (secondari) legati alla competizione concorrenziale; sia le altre, ancora peggiori, concernenti il detestato consumismo, anch’esso imposto da quelle “cattivone” di imprese monopolistiche, magari multinazionali, ecc. Banalità su banalità, ancora diffuse con “sapienzialità” da sciamani premiati quali grandi pensatori sociali, mentre sono vecchioni (anche quando giovani d’età) rimbambiti, pagati dai media di una classe dominante ormai degenerata nell’ambito della formazione dei <<funzionari del capitale>>; questa sì arrivata attualmente alla sua senescenza. Dopo quest’epoca di “transizione”, dovremmo trovarci in una nuova <<formazione sociale>>; di cui oggi mi sembra assurdo pensare (“da indovini”) alle specifiche caratteristiche.
Porre in prima posizione lo <<squilibrio>> spazza via tutta questa cianfrusaglia ormai odorante di stantio e perfino di putrefazione. Il profitto (plusvalore) è mezzo, non fine. Quest’ultimo è invece la <<supremazia>>, che viene raggiunta tramite un conflitto permanente (che sempre esige le alleanze tese a tal fine), in cui si usa in prevalenza il “calcolo” strategico, differente <<per natura>> da quello di efficienza, di economicità. Se è possibile, e fin quando possibile, viene certo usato questo criterio calcolistico del minimo mezzo, ma solo se non contravviene alla conquista della <<supremazia>> tramite uso delle <<strategie di conflitto>>. E tali strategie appartengono al <<campo generale della politica>>; sia che vengano impiegate nella sfera propriamente politica o invece economica, e in ogni dove si esplichi azione umana. Il capitalista non è il mero proprietario, è invece lo <<stratega>>; ciò era già in parte implicito nella teoria manageriale di Burnham (il più avanzato conoscitore della nuova formazione capitalistica affermatasi negli Usa), ma ancora con riferimento predominante alla sfera economica e restando invischiati nella problematica della lotta tra management e proprietà, in cui il primo avrebbe infine prevalso definitivamente; mentre invece le forme giuridiche, in auge nella mera sfera economica, possono essere congiunturalmente variabili, perché il conflitto, nella sua reale dimensione di <<strategia>> per conquistare la <<supremazia>> nella società nel suo complesso (a “più sfere”), è l’elemento generale e cruciale.
Un simile mutamento (di paradigma? Definitelo come volete) comporta il completo rivolgimento dell’intera prospettiva teorica; sia delle teorie dei dominanti sia di quella marxista, da cui il sottoscritto prende pur sempre le mosse. Si deve però andare avanti, servono mutamenti teorici decisivi. Qui volevo solo far notare che questi ultimi devono, fra le altre cose, prendere le mosse dall’inversione della priorità tra <<equilibrio>> e <<squilibrio>>. E tanto basti, al momento.

NB_Tratto da facebook

Adversvs Tristi Bestie: Repvblicanisvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via (PARTE PRIMA DI 3)_di Massimo Morigi

Massimo Morigi

Adversvs Tristi Bestie: Repvblicanisvs
Geopoliticvs Fontes Origines et Via
(PARTE PRIMA DI 3)

Presentazione
Nella prima decade di questo nuovo millennio ebbi modo di partecipare a vari
convegni internazionali di filosofia politica e i miei contributi furono sempre
incentrati sull’estetizzazione della politica nei regimi autoritari del XX secolo e
ho più volte sottolineato quanto questi iniziali studi sull’estetizzazione della
politica e sulla politicizzazione dell’estetica (la contromossa di Walter Benjamin
all’estetizzazione della politica dei regimi autoritari di destra) siano stati
centrali nella successiva elaborazione della Weltanschauung del
Repubblicanesimo Geopolitico. In seguito, nel 2014, decisi di riunire in un unico
documento questi interventi sotto il titolo di Repvblicanisvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via che poi caricai autonomamente su Internet Archive e quindi
consultabile e scaricabile all’URL
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMa
ssimoMorigiGeopolitics_436. Oggi, dopo aver deciso che le mie aurorali
incursioni nella storia filosofica e nella filosofia politica pubblicate sull’ “Italia e
il Mondo” e che vanno sotto il titolo di La Loggia “Dante Alighieri” nella Storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-
2003) e di Ancora in avvicinamento al Nuovo Gioco delle Perle di Vetro del
Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et Inactualia Archeologica potevano
aiutare a ricostruire la genealogia del Repubblicanesimo Geopolitico, a questo
appello non potevano mancare questi interventi e che ora vengono proposti con
una leggera modifica nel titolo rispetto al documento immesso autonomamente
su Internet Archive, aggiungendo, appunto, Adversus Tristi Bestie. Come non è
difficile comprendere si tratta di un diretto riferimento ai bestioni di vichiana
memoria, ma in questo caso le nostre Tristi Bestie sembrano non preludere ad
alcuna Epifania Strategica ma solo ad un definitivo degrado antropologico e
culturale connotato dalle due opposte ma equivalenti superstizioni scientifiche
ed antiscientifiche delle ultime cronache virali su cui mi sono più volte
soffermato e di cui ho accennato anche in Ancora in avvicinamento al Nuovo
Gioco delle Perle di Vetro del Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et
Inactualia Archeologica. Un avviso alla fruizione del documento. Il file a suo
tempo caricato su Internet Archive è un file Word al cui interno vi sono anche
contenuti multimediali che non possono essere utilizzati nel formato PDF
pubblicato dall’ “Italia e il Mondo”: si tratta di URL che rimandavano a video
musicali allora presenti su YouTube che per paura che venissero, come poi è
stato, rimossi, erano stati inseriti direttamente nel file Word in questione.
Quindi chi vuole vedere questi contenuti multimediali non deve far altro che
andare al documento Word caricato su Internet Archive. Inoltre, si avverte che
per mantenere la linearità del discorso sull’estetizzazione della politica
sviluppato in queste conferenze il presente documento contiene anche Aesthetica
Fascistica II, già pubblicato in Ancora in avvicinamento al Nuovo Gioco delle
Perle di Vetro del Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et Inactualia
Archeologica ma che nel documento di questa antologia immessa
originariamente autonomamente in Rete prende il nome di Gesamtkunstwerk Res
Publica. La Leitbild in frontespizio è Warrington Colescott, Picasso at the Zoo,
from the series A History of Printmaking, 1978, collage su carta, Smithsonian
American Art Museum, dove la trista bestia è evidente come pure la tecnica
della citazione, molto praticata da quell’eroe dell’estetizzazione della politica,
della politicizzazione dell’estetica e dello stato di eccezione permanente (e
quindi, all’insegna del suo iperdecisionismo antesignano – assieme ad Antonio
Gramsci con la sua filosofia della prassi – del paradigma olistico-dialetticoespressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico) che va sotto il nome di Walter Benjamin.
Massimo Morigi – IX Febbraio 2022

ADVERSUS RIFATTO PARTE PRIMA

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