TUTTI I DEMONI (PAN-DEMONIO), di Pierluigi Fagan

TUTTI I DEMONI (PAN-DEMONIO). “Meglio regnare all’Inferno, che servire in paradiso” scriveva Milton nel 1667 cioè a metà strada tra la Guerra civile e la Gloriosa rivoluzione inglese, la transizione alla società politica moderna. Negli ultimi venti anni ci siamo trovati a metà strada tra la fine del periodo moderno e qualcosa che ancora non ha forma, quindi nome e concetto.
La fenomenologia della transizione storica inizia giusto all’inizio del millennio dove scoppia la bolla finanziaria delle dot-com. O almeno così diciamo per non farla troppo complicata qui su un post. Una enorme massa di liquidità fittizia aveva gonfiato una bolla speculativa nei listini tecnologici che avevano segnato, in pochi anni, un +400%. Veloce l’ascesa, rovinosa la caduta. Il tutto, riferito ad un fatto economico del tutto insignificante (la nascita delle nuove compagnie digitali) che però era stato scambiato, negli Stati Uniti, per evento cataclismatico e vivificatore di una economia se non spenta, troppo piatta.
Ai tempi, tempi che provenivano dagli anni ’90, il decennio della fine dell’URSS, la nascita del WTO e di Maastricht, tutti presi dal trionfo del modo economico moderno e relativi sistemi liberali occidentali, c’eravamo convinti la storia fosse finita. La storia non la prese bene e decise di falsificare l’errata convinzione, presentandosi sulle ali di tre aviogetti picchiati in testa ad altrettanti, simbolici palazzi americani. Il tutto a nome di genti a noi ignote, circa 1,8 miliardi di credenti nell’islam, circa un quarto del mondo, circa il doppio degli “occidentali” (Europa unita più anglosfera). Genti ignote prima dell’evento, ma anche dopo visto che l’evento lo rubricammo alla cartella “terrorismo salafita”, senza capire bene da quel complesso stato di sistema provenisse.
Passano sette anni e di nuovo scoppia una bolla finanziaria, di nuovo in America, Paese-sistema che evidentemente ri-bolle. La bolla viene soffiata e scoppiata negli USA, ma la catena delle conseguenze nell’economia e società reale è tutta europea.
Pochi anni e l’intero mondo arabo prende le convulsioni, iniziando da una rivolta per il pane occorsa per una siccità in Ucraina e Russia. Ma l’accensione del fremito è una cosa, il disordine socio-politico sottostante un’altra. La fiammata viene presto spenta tranne che in un Paese, la Siria, dove l’incendio si innesta su una guerra civile che con l’allegra partecipazione di potenze geopolitiche, regionali e non, diventa conflitto bellico. Bilancio: 570mila morti, 2,8 milioni di feriti, 6milioni di rifugiati, altri 6milioni di sfollati. A parte i siriani, dal 2015 ad oggi arriveranno in Europa circa 2 milioni di migranti, una inezia statistica, ma un serio problema data l’approssimazione logistico-sociale delle nazioni più esposte.
Nel mentre, la Cina che era solo il 12% del Pil USA al 2000, entra nel WTO e continua la sua crescita mossa da gatti del cui colore i pragmatici cinesi decidono di non curarsi. la Cina arriverà al 70% del Pil Usa dopo venti anni, promettendo di pareggiarlo al 2028. Ma occhio anche all’India, il 32% dell’economia britannica al 2000, il 105% oggi.
Sebbene molti allarmati studiosi abbiano invano cercato di far notare l’impressionante aumento di ogni parametro ecologico-climatico sin dagli anni ’70, per decenni i loro avvisi sono stati rubricati come paranoie di “abbracciatori di alberi”. Poi gli alberi hanno cominciato a bruciare e tra il quarto (2007) ed il quinto (2014) rapporto dell’IPCC, ci si è stupefatti del minaccioso incremento del calore. Il quinto rapporto (2021) la butta sul drammatico, ma tranquilli, è una invenzione della cricca di Davos, il clima è sempre cambiato, noi non c’entriamo nulla è una questione solare. Nessuno pare interessato alla ben più vasta problematica delle molteplici corruzioni delle ecologie mentre i negazionisti climatici, spesso finanziati dal complesso petro-carbonifero statunitense più una pattuglia di stupidi naturali, non s’avvedono che negli ultimi settanta anni: a) l’umanità si è triplicata; b) ormai tutta l’umanità usa il modo economico moderno nato in una isoletta del Mar del Nord con, ai tempi, cinque milioni di abitanti. In effetti, poiché la Storia è finita, perché perdere tempo a leggere cosa è successo nel tempo?
Scontri di civiltà? Collassi a ripetizione del sistema economico-finanziario? Crescita stentata occidentale e poderosa orientale? Conflitti e migrazioni? Febbre climatica e vistosi disequilibri ambientali? Probabilmente bias percettivo della mente catastrofista, eccesso di clamore dell’infosfera, false cause per alimentare la distruzione creatrice necessaria a creare “valore” sempre nuovo.
Arriva così una pandemia, neanche l’1% di morti nel mondo, eppure un bel casino multidimensionale con impatti diretti ed indiretti sulle nostre vite, prima psico-sociali, poi economici. Quando poi l’economia tenta la ripresa, travolge la logistica ed i mercati e scopre che il mondo è organizzato a standard che mal sopportano gli eventi fuori standard, non importa se in negativo o in positivo. È un fatto di incompatibilità tra logica lineare ed oscillatoria, ordine e complessità a volte tendente al caos.
Vabbè dai, arriva il PNRR e ci riprenderemo almeno economicamente, il resto lo vedremo con calma e per piacere. Ma per dispiacere, quel manigoldo pazzo russo con il cancro, invade lo stato vicino con una forza armata, lui prima potenza nucleare contro un Paese un po’ disgraziato ma con dietro l’altra prima potenza nucleare. Dopo qualche settimana, appena, è tutto un fiorire di minacce di reciproca nuclearizzazione, spuntano armi dappertutto, l’Europa fa guerra al suo fornitore di energia senza in realtà poterne fare a meno sul serio e così incendiando i prezzi quindi aumentando i soldi che sempre più gli dà. S’infiamma l’inflazione, manca il grano, le materie prime schizzano nell’iperspazio, la globalizzazione è ripudiata, ora il titolo in cartello recita “democrazie vs autocrazie”. L’altro giorno mi pare che la NATO abbia anche dichiarato anche guerra al PKK, ci sta.
Poiché la nostra mentalità ha le dimensioni di spazio e tempo della formica operaia, talvolta soldato, non importa che la questione del grano e delle materie prime s’era già detta tre mesi fa, così non importa che JP Morgan a nome di tanti altri analisti avvisi l’arrivo della fatidica “tempesta perfetta” economico-finanziaria entro tre-cinque mesi. Oggi è il tempo di più warfare e meno welfare! Come la civetta di Minerva, “noi” arriviamo sempre “dopo”, lì dove “dopo è tardi”.
Scriveva l’altro giorno un mio contatto che la complessità “è quella cosa che poi ti fa dire che avresti dovuto pensarci prima”. Ecco forse chiarito il mistero del nome e del concetto dell’era verso cui stiamo transitando, l’era complessa. Che vogliate regnare nell’inferno e rispristinare l’innocenza del paradiso che tale non è mai stato ma rispetto ad oggi ci piace pensarlo così nel ricordo (sindrome del “paradiso perduto” per restare il tema miltoniano), dovete solo tener conto che una nuova era comporta nuove mentalità e nuovi modi di organizzare la vita associata. Questi secondi non li potremo costruire e prima immaginare se non cambiamo o almeno cominciamo a cambiare prima la mentalità.
Gli artigiani della mentalità sono gli intellettuali, i chierici si definivano una volta. Speriamo ce ne siano all’altezza della fase storica, altrimenti saranno guai molto seri. Diceva quello della civetta tardiva che il vero è l’intero, ma chi mai più è in grado di mettere assieme le cose del mondo? Diceva quell’altro che il pensiero non si può limitare a comprendere il mondo, deve cambiarlo, ma forse doveva anche aggiungere che per cambiarlo, prima bisogna comprenderlo.
Il pandemonio è dato sempre dai demoni che scappano dai circoli che non siamo in grado di chiudere, per tempo.
> La citazione è tratta da #Giancarlo Manfredi, Disaster Manager ovvero uno a cui il lavoro non mancherà…
NB_tratto da facebook

Kissinger e la lotta per la Russia, di Timofei Bordachev

Il recente discorso di Kissinger a Davos continua ad alimentare un importante dibattito, ancora una volta per lo più negletto in Italia. Il conflitto in Ucraina viene indicato ormai un punto di svolta delle dinamiche geopolitiche successive all’implosione della Unione Sovietica. In realtà è uno dei punti di precipitazione di un processo conclamato con il discorso di Putin alla conferenza di Monaco del 2007, in realtà avviato, anche nel suo significato profondamente simbolico, con il ritorno a mezza strada in volo a Mosca dell’allora Primo Ministro di Russia Primakov al momento dello scoppio della guerra della NATO alla Serbia. Contestualmente ai numerosi tentativi di recupero di un sistema accettabile di relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa, Putin da almeno dieci anni ha cercato alternative sino a pervenire ad una scelta ormai definitiva. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Nel caso in cui la fase acuta del conflitto in Ucraina si riveli davvero molto lunga, come pare sia il caso, allora le elementari necessità di sopravvivenza costringeranno la Russia a liberarsi di ciò che la lega all’Europa. Valdai Club Program Direttore Timofei Bordachev .

Nel caso in cui il conflitto crescente dentro e intorno all’Ucraina non porti a conseguenze irreparabili su scala globale nel prossimo futuro, il suo risultato più importante sarà una demarcazione fondamentale tra Russia ed Europa, che renderà impossibile mantenere una neutralità anche in zone insignificanti e comporterà una sostanziale riduzione dei legami commerciali ed economici. Il ripristino del controllo sul territorio dell’Ucraina, che, molto probabilmente, dovrebbe diventare un obiettivo a lungo termine della politica estera russa, risolverà il principale problema della sicurezza regionale: la presenza di una “zona grigia”, la cui gestione diventa inevitabilmente l’oggetto di un confronto pericoloso dal punto di vista della progressiva tensione. In questo senso possiamo contare su una certa stabilizzazione nel lungo periodo, anche se non si baserà sulla cooperazione tra le principali potenze regionali. Tuttavia, è già evidente che la strada per la pace sarà abbastanza lunga e sarà accompagnata da situazioni estremamente pericolose.

Nel suo discorso ai partecipanti al forum di Davos, Henry Kissinger, il patriarca della politica internazionale, ha indicato proprio tale prospettiva come la meno desiderabile dal suo punto di vista, dal momento che la Russia allora “potrebbe alienarsi completamente dall’Europa e cercare una stabile alleanza altrove”, che porterebbe all’emergere di distanze diplomatiche sulla scala conosciuta nella Guerra Fredda. A suo avviso, i colloqui di pace tra le parti sarebbe il modo più conveniente per impedirlo; ciò comporterebbe la presa in considerazione degli interessi russi. Per Kissinger, questo significa che per certi aspetti la partecipazione della Russia al “concerto” europeo è un valore incondizionato, e la perdita di questo deve essere prevenuta finché rimane qualche possibilità.

Tuttavia, con tutto il massimo apprezzamento dei meriti e della saggezza di questo statista e studioso, la logica impeccabile di Henry Kissinger deve affrontare un solo ostacolo: funziona quando l’equilibrio di potere è determinato e le relazioni tra gli stati hanno già superato la fase del conflitto militare. In questo senso, segue certamente le orme dei suoi grandi predecessori: il Cancelliere dell’Impero Austriaco Klemens von Metternich e il Segretario agli Esteri britannico visconte Castlereagh, le cui conquiste diplomatiche furono oggetto della dissertazione di dottorato di Kissinger nel 1956. Entrambi passarono alla storia proprio come gli artefici del nuovo ordine europeo, instauratosi dopo la fine dell’era napoleonica in Francia e che persistette, con piccoli aggiustamenti, per quasi un secolo nella politica internazionale.

Come i suoi grandi predecessori, Kissinger appare sulla scena mondiale in un’era in cui l’equilibrio di potere tra i giocatori più importanti è già determinato da “ferro e sangue”. Il momento del suo più grande successo è stata la prima metà degli anni ’70, un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, non si può ignorare il fatto che la capacità degli stati di comportarsi in quel modo non era dovuta alla loro saggezza o responsabilità nei confronti delle generazioni future, ma a fattori molto più prosaici. Il primo fattore fu il completamento del “restringimento” dell’ordine che assunse le sue caratteristiche approssimative a seguito della seconda guerra mondiale. Nei successivi 25 anni (1945 – 1970), questo ordine fu “finalizzato” durante la guerra in Corea, l’intervento degli Stati Uniti in Vietnam, le azioni militari dell’URSS in Ungheria e Cecoslovacchia, diverse guerre indirette tra l’URSS e gli Stati Uniti in Medio Oriente, il completamento del processo di disintegrazione degli imperi coloniali europei, nonché un numero significativo di eventi minori, ma anche drammatici. Quindi ora sarebbe difficile aspettarsi che la diplomazia riesca a prendere il primo posto negli affari mondiali nella fase iniziale del processo, che si preannuncia molto lungo e, molto probabilmente, piuttosto sanguinoso.

La base materiale di quell’ordine, a cui la diplomazia di Kissinger, la politica di “distensione” con l’URSS e la riconciliazione del 1972 con la Cina hanno dato il suo definitivo slancio, è stata la sconfitta strategica dell’Europa a seguito di due guerre mondiali nella prima metà del 20° secolo. Il crollo degli imperi coloniali europei e la storica sconfitta della Germania nel suo tentativo di essere al centro degli affari mondiali hanno portato in primo piano gli Stati Uniti; ciò che ha permesso di rendere la politica veramente globale. Come risultato dell’autodistruzione dell’URSS, questo ordine si rivelò di breve durata. Vediamo ora che questa è stata una grande tragedia, poiché ha portato alla scomparsa dell’equilibrio di potere a favore del predominio di un solo potere.

Ora possiamo presumere che la massiccia emancipazione dell’umanità dal controllo occidentale sia di fondamentale importanza, il fattore del quale più importante è la crescita del potere economico e politico cinese. Se la stessa Cina, così come l’India e altri grandi stati al di fuori dell’Occidente, faranno fronte al compito loro affidato dalla storia, nei prossimi decenni il sistema internazionale acquisirà caratteristiche sino ad ora del tutto inusuali.

La maggior parte degli eventi significativi che si stanno verificando ora, sia a livello globale che regionale, sono legati al processo oggettivo di crescita dell’importanza della Cina e, a seguire, di altri grandi paesi asiatici. La determinazione che la Russia ha mostrato negli ultimi anni, e soprattutto mesi, è anche associata ai cambiamenti globali. Il fatto che Mosca si sia alzata così intenzionalmente per proteggere i suoi interessi e valori non era dovuto solo a ragioni interne russe, sebbene siano di grande importanza. Né si basavano sulle aspettative di assistenza materiale diretta dalla Cina, che potesse compensare le perdite durante la fase acuta del conflitto con l’Occidente.

La principale fonte esterna della fiducia in se stessi della Russia è stata una valutazione obiettiva dello stato dell’ambiente politico ed economico internazionale, in cui anche una rottura completa con l’Occidente non sarebbe mortalmente pericolosa per la Russia dal punto di vista della risoluzione dei suoi principali compiti di sviluppo. Inoltre, proprio la necessità di un riavvicinamento più attivo con altri partner, che la Russia non ha sperimentato fino a poco tempo fa, potrebbe rivelarsi un modo molto più affidabile per sopravvivere in un ambiente in evoluzione.

Questo è ciò che viene compreso negli Stati Uniti e in Europa con la massima preoccupazione. Nel caso in cui la Russia, durante gli anni dell’emergente disimpegno dall’Europa, crei un sistema comparabile di legami commerciali, economici, politici, culturali e umani nel sud e nell’est, il ritorno di questo paese nell’area occidentale diventerà tecnicamente difficile, se mai realizzabile. Finora, un tale sviluppo di eventi è ostacolato da un numero colossale di fattori, tra i quali in primo luogo c’è l’inerzia della stretta interazione con l’Europa e la presenza reciproca attiva accumulata negli ultimi 300 anni. Inoltre, è stata l’Europa l’unico partner costante della Russia dopo l’apparizione di questa potenza nell’arena della cooperazione internazionale. Tuttavia, nel caso in cui la fase acuta del conflitto in Ucraina si riveli davvero molto lunga, come, a quanto pare, è il caso, allora le esigenze elementari di sopravvivenza costringeranno la Russia a liberarsi di ciò che la lega all’Europa. Questo è esattamente ciò che chiedono quegli studiosi e personaggi pubblici russi, che in tutti i modi sottolineano la natura esistenziale dello scontro in corso ai nostri confini occidentali.

Pertanto, è la comprensione da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati che il movimento verso un nuovo ordine mondiale ha basi oggettive che sono la fonte più importante della loro lotta con la Russia.

L’inevitabile ridistribuzione di risorse e potere su scala globale non può avvenire in maniera del tutto pacifica, sebbene l’irrazionalità di una guerra offensiva tra le grandi potenze, dato il fattore di deterrenza nucleare, ci fornisca qualche speranza per la conservazione dell’umanità. Nel mezzo della lotta che sta prendendo slancio, la Russia, come l’Europa, è, nonostante le sue capacità militari, un partecipante inferiore in forza alle principali parti in guerra: Cina e Stati Uniti. Pertanto, c’è una lotta per la Russia e c’è una possibilità in diminuzione per l’Occidente di vincere, che ora Henry Kissinger sta cercando di spiegare.

https://valdaiclub.com/a/highlights/kissinger-and-the-fight-for-russia/?fbclid=IwAR3AFHvRP_rLtO6HSHEOUsoYwrN2Bpox6FuYvboTZv1GSHd4IkLY342bHzE

La grande strategia dell’Inghilterra, di OLIVIER KEMPF

Un articolo importante non solo per la ricostruzione storica e per la comprensione delle scelte di un paese dal recente passato importante, ridimensionato nel ruolo presente, ma con grandi ambizioni ed una ineguagliata capacità di muovere ed influire indirettamente sulle dinamiche geopolitiche. Il conflitto in Ucraina e la polarizzazione proatlantica di quasi tutti i paesi del Nord ed Est Europa sono almeno in parte l’esito di questo retaggio. Importante perché è la filosofia di fondo adottata per trasmissione culturale e simbiosi politica dalla potenza egemone da ormai oltre un secolo, ma che probabilmente sta conoscendo una fase di transizione e di probabile declino per molti versi simile a quella vissuta dal Regno Unito a cavallo tra ‘800 e ‘900. Le classi dirigenti statunitensi, in realtà, stanno mostrando una minore flessibilità nell’affrontare la fase transitiva al multipolarismo, segno dell’acutezza dello scontro politico interno e dell’influsso di diverse componenti culturali, in particolare tedesca, proprie di una formazione sociale particolarmente composita e polarizzata, incapace al momento di una sintesi coerente. Buona lettura, Giuseppe Germinario

La grande strategia dell’Inghilterra

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L’Inghilterra è un’isola. L’osservazione è nota, ma i geografi emettono subito chiarimenti: l’Inghilterra è solo una parte dell’isola principale (Gran Bretagna) che condivide con il Galles e la Scozia, a cui si deve aggiungere l’Irlanda del Nord (Ulster) per costruire il Regno Unito, a cui va aggiunta la Repubblica d’Irlanda (Eire) per finire nelle isole britanniche. Tuttavia, nonostante questi dettagli, nonostante il desiderio di indipendenza (Irlanda o Scozia) o addirittura di autonomia, ogni francese di solito designerà l’altra sponda della Manica con questo nome comune dell’Inghilterra. La rivalità è ancestrale come spesso accade in Europa quando si parla di Francia: il 20°secolo ci ha parlato del nemico ereditario parlando della Germania, facendoci dimenticare l’inespiabile lotta con la maggiore Spagna nei secoli XVI e XVII in particolare Ma è vero che abbiamo un rapporto millenario, contrastato e complicato con l’Inghilterra.

L’Inghilterra è quindi questa terra degli Angli, popolo germanico che, tra gli altri, si stabilì nell’isola al tempo delle grandi invasioni. Perché non solo Cesare o Guglielmo il Conquistatore riuscirono a sbarcare lì, ma anche tedeschi e vichinghi. Ciò diede origine ad una curiosa mescolanza tra antiche radici celtiche, poi romane e francesi, a cui infine se ne aggiunsero altre, più barbariche. Questa filiazione multipla non va omessa se si pensa a questo Paese: può manifestare talvolta una grande ferocia e poi la sua flemma e la sua correttezza possono improvvisamente scomparire. La versione più civile di questo tratto caratteriale è la tenacia e la testardaggine. Tuttavia, ci volle l’Inghilterra per passare da un paese scarsamente popolato e isolato alla più grande potenza del mondo,

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Quando l’Inghilterra ha inventato la diplomazia dei diritti umani

Come spesso, tutto è iniziato con una sconfitta. Nel 1453, la battaglia di Castillon suonò la campana a morto per le ultime speranze inglesi di avere un punto d’appoggio nel continente: c’erano voluti duecento anni di guerra per giungere a questa conclusione: l’Inghilterra non avrebbe più il possesso diretto del continente europeo. Influenze ovviamente, possibilmente punti di appoggio (qui Gibilterra, là Malta o Cipro), sostenitori ovviamente, ma nessun territorio in quanto tale. L’Inghilterra tornò ad essere un’isola, in esclusiva. Dopo un Cinquecento segnato da una dichiarata autonomia (la creazione dell’Anglicanesimo), il Seicentosecolo conobbe molti problemi interni (prima rivoluzione, Rivoluzione gloriosa), ma si concluse con l’Atto di Unione del 1707 che legò la Scozia all’Inghilterra. È in un certo senso una prima colonizzazione e il Regno diventa il Regno Unito. Si stava aprendo un ciclo imperiale…

Le Americhe o commercio triangolare (XVII secolo )

Tuttavia, le sue prime fondazioni risalgono alla fine del XVI secolo . Infatti, la lotta contro l’impero spagnolo passò poi attraverso le lettere di razza consegnate ai corsari Francis Drake e John Hawkins, prima sulle coste del Nord Africa, poi fino alle Americhe. Dall’inizio del XVII secolo, l’Inghilterra stabilì i primi posti commerciali nelle Americhe e il Parlamento decretò che solo le navi inglesi potevano commerciare con le colonie inglesi Ciò portò a una serie di guerre con le Province Unite (Paesi Bassi) per tutta la prima metà del secolo, che permisero l’espansione dei possedimenti britannici: Giamaica nel 1655, Bahamas nel 1666. Nel continente americano, Jamestown fu fondata nel 1607 con la Compagnia della Virginia. Seguono altre colonie: Plymouth (1620), Maryland (1634), Rhode Island (1636), Connecticut (1639), Caroline (1663). Fort Amsterdam fu conquistata nel 1664 e ribattezzata New York, quando la Pennsylvania fu fondata nel 1681. Le colonie americane erano meno redditizie di quelle dei Caraibi, ma i vasti tratti di terra disponibili attirarono molti coloni. Nel 1670, la Compagnia della Baia di Hudson ricevette il monopolio delle terre scoperte in quello che sarebbe diventato il Canada.

Questo sistema doveva essere completato dalla fondazione nel 1672 della Royal African Company. Le condizioni economiche dei Caraibi, infatti, imposero un cambiamento nella coltivazione della canna da zucchero e quindi l’arrivo di molti schiavi neri. La popolazione africana delle isole passò dal 25% nel 1650 all’80% nel 1780 (e dal 10% al 40% nelle colonie americane, soprattutto quelle del sud). Da quel momento in poi, fu istituito un commercio triangolare con forti stabiliti nell’Africa occidentale per fornire schiavi alle colonie americane. Vengono deportati 3,5 milioni di africani (un terzo di tutte le vittime di questo traffico), il che garantisce la ricchezza di città come Bristol o Liverpool. Il primo impero britannico fu quindi americano.

L’Asia e la lotta contro i Paesi Bassi e la Francia ( XVIII secolo )

Alla fine del XVII secolo, Inghilterra e Paesi Bassi si interessarono all’Asia e al monopolio portoghese del commercio delle spezie. Se la Compagnia inglese delle Indie orientali fu fondata nel 1600 (l’America è ancora chiamata “Indie occidentali), furono gli olandesi a prenderne inizialmente il vantaggio, soprattutto perché i problemi politici interni inglesi ostacolavano il progresso. Dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688, Guglielmo d’Orange divenne re d’Inghilterra. Si raggiunge un accordo: agli inglesi il commercio dei tessuti, agli olandesi quello delle spezie. Ma a poco a poco il commercio del tè e del cotone si sviluppò e gli inglesi ne approfittarono all’inizio del 18° secolo .

L’Inghilterra era così riuscita a sconfiggere la potenza spagnola ea controllare la rivale navale olandese. Rimase al suo posto un ultimo avversario: la Francia. Ci vorrà un secolo per raggiungere questo obiettivo. Dal 1702 al 1714, l’Inghilterra ha preso parte alla coalizione contro la Francia durante la guerra di successione spagnola. Nel Trattato di Utrecht, l’Inghilterra riceve Gibilterra, Minorca e Acadia. Gibilterra è la principale risorsa strategica che blocca l’accesso al Mediterraneo.

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Dalla grandezza al declino

La Guerra dei Sette Anni iniziò nel 1756 e fu la prima guerra “mondiale”, viste le operazioni in Europa, India e Nord America. Nel 1763, al Trattato di Parigi, la Francia abbandonò la Nuova Francia (i famosi “arpenti di neve in Canada” derisi da Voltaire) all’Inghilterra e la Louisiana alla Spagna. In India, se la Francia mantiene le sue stazioni commerciali, deve abbandonare il suo piano di controllo del subcontinente. Il primo impero coloniale francese è dislocato. Parigi vorrà la sua vendetta e la otterrà qualche anno dopo appoggiando le colonie americane che si stanno ribellando contro Londra.

Tuttavia, la Compagnia delle Indie Orientali approfittò della nuova situazione: conquistò molti territori, amministrava più o meno direttamente, quindi organizzò un proprio esercito. L’India britannica divenne dalla fine del diciottesimo secolosecolo la più redditizia delle colonie britanniche e il “gioiello dell’Impero”. Contemporaneamente alla perdita delle tredici colonie americane durante la Guerra d’Indipendenza americana, resa possibile dal sostegno francese, in particolare dalla flotta di Grasse. L’Inghilterra mantenne alcuni possedimenti nei Caraibi e in Canada, ma ora si interessava principalmente all’Asia. Ha anche continuato la sua espansione in Oceania con l’esplorazione dell’Australia (James Cook) e della Nuova Zelanda. L’Australia inizialmente divenne una colonia penale (fino al 1840 circa) prima di sperimentare la corsa all’oro.

La lotta contro Napoleone portò alla doppia osservazione della difficoltà della lotta di terra e del vantaggio della preminenza navale, confermata dalla vittoria di Trafalgar nel 1805. I Trattati di Vienna riorganizzarono alcune colonie: Mauritius, Trinidad e Tobago o Sainte-Lucia , ma anche Ceylon o la Provincia del Capo tornarono a Londra, che restituì alla Francia Guadalupa, Martinica, Guyana e Riunione. L’inizio dell’Ottocento vide anche la progressiva abolizione della schiavitù (1833). Così, il diciottesimo secolo vide l’impero inglese spostarsi dall’America all’Asia. Questa tendenza si accentuò nel secolo successivo.

Il periodo di massimo splendore (1815-1914)

Un secolo d’oro imperiale si aprì allora per l’Inghilterra, che non ebbe più avversari marittimi e poté costituire una pax britannica legata ad una politica di splendido isolamento. Questa situazione geopolitica fu supportata da due rivoluzioni tecniche: il battello a vapore e il telegrafo consentirono a Londra di controllare l’impero che crebbe di 26 milioni di km².

Questo è stato il primo caso in Asia: Singapore e poi Malacca sono state conquistate, consentendo di estendere la rotta dall’India all’Estremo Oriente. Il commercio di oppio con la Cina è stato organizzato per bilanciare i deflussi di denaro legati all’importazione di tè cinese. L’opposizione cinese fu contrastata dalla prima guerra dell’oppio, conclusa dal Trattato di Nanchino, che concedeva a Londra il porto di Hong Kong. In India, la rivolta dei Sepoy (1857) non fu repressa. La Compagnia delle Indie Orientali viene sciolta, i suoi possedimenti trasferiti al Raj, il regime coloniale che gestirà il subcontinente. La regina Vittoria fu incoronata imperatrice d’India nel 1876.

La rivalità con la Russia (il Grande Gioco) iniziò all’inizio del XIX secolo, sullo sfondo del crollo degli imperi ottomano e persiano. L’Inghilterra tenta di conquistare l’Afghanistan senza molto successo (1842), mentre sconfigge la Russia nella guerra di Crimea (1853). L’Inghilterra annette il Balochistan (1876) mentre la Russia si impossessa del Kirghizistan, del Kazakistan e del Turkmenistan (1877). Fu finalmente firmato un accordo sulle sfere di influenza e la rivalità si spense completamente con l’accordo anglo-russo del 1907.

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Carlo, Principe di Galles e Re d’Inghilterra – Michel Faure

Il dominio dell’impero asiatico si basava su un certo numero di staffette: Gibilterra, Malta, Cipro, attraverso il Mediterraneo, il Capo aggirando l’Africa, poi Oman, India, Singapore, Hong Kong. La Colonia del Capo era stata annessa nel 1806 e scatenò l’immigrazione britannica che si oppose ai boeri locali. Questi si trasferirono (il grande Trek) alla fine degli anni ’30 dell’Ottocento, fondando la Repubblica del Transvaal e lo Stato di Orange. La guerra boera (1899-1902) portò all’annessione di questi due stati nel 1902. All’altra estremità del continente, lo scavo del Canale di Suez collegava il Mediterraneo all’Oceano Indiano. Gli inglesi vi investirono e l’Egitto fu occupato nel 1882 dopo una rapida guerra. Poco dopo gli inglesi si spostarono a sud e alla fine sconfissero i Mahdisti del Sudan, poi respinse l’avanzata francese nell’Alto Nilo (Fashoda, 1898). Da quel momento in poi, il desiderio di collegare le colonie africane fece nascere l’idea di una ferrovia, idea spinta da Cecil Rhodes e che provocò nuove occupazioni, una delle quali prese il nome di Rhodesia in suo onore (futuro Zambia e Zimbabwe).

Altrove, le posizioni inglesi si stanno rafforzando. I territori nordamericani si estendono attraverso il continente fino al Pacifico (British Columbia, Northwest Territory, Vancouver Island). La questione dell’emancipazione delle colonie bianche è sorta abbastanza rapidamente. L’Atto di Unione del 1840 creò così la provincia del Canada, prima della creazione di un dominio nel 1867, paese dotato di totale indipendenza tranne che per quanto riguarda la diplomazia. Lo statuto fu adottato per l’Australia nel 1901, la Nuova Zelanda nel 1907 e il Sud Africa nel 1910. Il dibattito per l’applicazione di tale statuto all’Irlanda continuò per un’adozione tardiva nel 1914, troppo tardi per essere applicata: questa fu una delle cause dell’insurrezione del 1916 e della futura indipendenza della Repubblica d’Irlanda.

Potenza navale, maestria tecnica, invenzione economica, ma anche grande emigrazione, queste sono le ricette di questo grande impero mondiale che si estende dal Canada all’Africa, dalle varie staffette asiatiche (Oman, India e Hong Kong) all’Oceania. Già però l’invenzione dei domini suggerisce che questo dominio non può essere duraturo e che sarà necessario, a poco a poco, liberarlo fino al completo abbandono.

RE GIORGIO V E LA REGINA MARY VISITANO L’INDIA

Il declino

Le due guerre mondiali videro la relativizzazione del potere britannico. L’ascesa della Germania e la sfida posta al dominio navale sono una delle cause del cambio di posizione inglese e dell’alleanza con Giappone (1902), Francia (1904) e Russia (1907). Durante la prima guerra mondiale, i soldati dei Domini si allearono con gli inglesi. La battaglia dei Dardanelli segna quindi la coscienza nazionale australiana o neozelandese, proprio come la battaglia di Vimy Ridge fa per la coscienza canadese. Tuttavia, il Trattato di Versailles consente all’Impero britannico di trovare la sua massima espansione, con la messa sotto mandato di colonie precedentemente tedesche e ottomane. La Gran Bretagna conquistò così Palestina, Iraq, Togo, Tanganica, parte del Camerun.

Ma questi guadagni non nascondono il fatto che Londra deve comporre e lasciar andare la zavorra. Nel 1922 firmò il Trattato di Washington dove accettò la parità navale con gli Stati Uniti. L’indipendenza sta già prendendo piede. Un trattato creò lo Stato d’Irlanda nel 1921 (diventato una Repubblica nel 1937), mentre l’Egitto divenne ufficialmente indipendente nel 1922 e l’Iraq nel 1932. Una conferenza imperiale concesse ai domini il potere di gestire la propria diplomazia.

La seconda guerra mondiale completa l’indebolimento degli equilibri imperiali. Le colonie e l’India prendono parte al conflitto così come gli ex domini, l’Irlanda rimanendo neutrale. La caduta della Francia nel 1940 e la guerra combattuta dai giapponesi (offensiva contro Hong Kong e Malesia) lasciarono l’Inghilterra sola. La Carta atlantica del 1941 ha stretto un’alleanza con gli Stati Uniti, ma l’incapacità di difendere le colonie asiatiche ha inferto un duro colpo all’immagine della potenza britannica. Di certo la Gran Bretagna è stata una delle vincitrici indiscusse della guerra, che le ha conferito un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza della nuova ONU. Ma una pagina è stata irrimediabilmente voltata. L’impero aveva permesso a Londra di sconfiggere la Germania, ma era un contributo definitivo. Ora dovevamo andare avanti.

Decolonizzazione

Le elezioni del 1945 videro la sconfitta di Churchill e l’ascesa al potere dei Labour, sostenitori della decolonizzazione. La guerra aveva indebolito profondamente l’economia britannica, che era quasi in bancarotta, dalla quale Londra si salvò solo con un ultimo prestito americano. Tuttavia, in questa nascente guerra fredda, sia Mosca che Washington si opposero al sistema coloniale. Dal 1946 in India scoppiarono gli ammutinamenti che costrinsero a concedere l’indipendenza nel 1947 e la scissione in due stati, uno indù, l’altro musulmano, che causò massicci trasferimenti di popolazione. Birmania e Ceylon ottennero la loro indipendenza nel 1948. Anche la Gran Bretagna si ritirò dalla Palestina nel 1948, lasciando due stati che entrarono immediatamente in conflitto. Infine, La Malesia entrò in insurrezione nel 1948 fino ad ottenere l’indipendenza nel 1957 (Singapore se ne separò rapidamente nel 1965 mentre il Brunei rimase un protettorato fino al 1984). In Kenya, la ribellione Mau-Mau fu attiva dal 1952 al 1957.

Anche da leggere

Conflitto di confine sino-indiano: colpa della colonizzazione britannica?

La crisi di Suez è una delle ultime manifestazioni dell’imperialismo. Volendo contrastare la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser, Londra unì le forze con Parigi e Tel Aviv per organizzare una spedizione. Questo fu un successo militare, ma la pressione combinata dell’URSS e degli Stati Uniti costrinse l’Inghilterra a ritirarsi, che all’epoca era sentita come una “Waterloo britannica”. Altri interventi ebbero luogo (Oman nel 1957, Giordania 1958, Kuwait 1961), ma la Gran Bretagna si ritirò da Aden e Bahrain alla fine degli anni 1960. Così la decolonizzazione inglese fu forse più rapida di quella francese ma conobbe anche vicissitudini e conflitti armati.

Gli anni ’60 videro la decolonizzazione dell’Africa. Il Sudan e la Gold Coast avevano già ottenuto la loro indipendenza nel decennio precedente, ma Londra si ritirò da tutti i suoi possedimenti, nonostante la presenza di popolazioni bianche in alcuni, in particolare la Rhodesia. Cipro divenne indipendente nel 1960, così come le colonie caraibiche (Giamaica e Trinidad, poi Barbados, Guyana, ecc.). Negli anni ’70, queste erano Fiji e Vanuatu. Le ultime indipendenze sono avvenute negli anni ’80: Honduras britannico (Belize) e Rhodesia (Zimbabwe). Un ultimo colpo di stato britannico ebbe luogo nel 1982 quando l’Argentina invase l’arcipelago delle Falkland. L’Inghilterra ha lanciato una spedizione militare alla fine del mondo per mantenere questo territorio definitivo. Nel 1984 è stato raggiunto un accordo con la Cina sul futuro status di Hong Kong,

Avanzi, eredità e significato geopolitico

La Gran Bretagna conserva ancora 14 “British Overseas Territories”, a volte disabitati, il più delle volte con varie autonomie. Alcuni sono contestati (Gibilterra, Falkland, ecc.). Un Commonwealth, che riunisce i territori precedentemente britannici, è stato istituito nel 1949 (30 milioni di km², 2,5 miliardi di abitanti). Questa organizzazione intergovernativa non prevede alcun obbligo tra i membri che sono accomunati da lingua, storia, cultura e valori. 15 dei 54 stati sono monarchie guidate dalla regina d’Inghilterra.

Questo impero, tuttavia, ha lasciato molti segni. Oltre a un’intensa emigrazione di britannici in tutto il mondo e che da allora sono diventati cittadini di paesi diventati indipendenti, l’Inghilterra ha prima condiviso la sua lingua. 400 milioni di persone la condividono come lingua madre e diversi miliardi come lingua di comunicazione (grazie all’influenza americana, è vero). Ma il modello politico britannico, il suo modello giudiziario, la sua cultura, i suoi sport (calcio, rugby, cricket, tennis, golf) ei suoi missionari hanno lasciato numerose tracce in tutto il mondo.

Questo impero raggiunse il suo apice poco prima della prima guerra mondiale. Non è un caso che Halford MacKinder pubblicò The Geographical Pivot of History nel 1904, che è il testo fondante della geopolitica anglosassone. Inventa il concetto di Heartland (l’isola globale composta da Eurasia e Africa) a cui si contrappongono le isole esterne (America e Australia). In quanto potenza navale, l’Impero britannico deve controllare l’emergere delle potenze continentali (la Germania ai suoi tempi). È quindi necessario controllare l’Heartland dall’esterno, dalle rive. Il tema sarà ripreso qualche anno dopo dall’americano Spykman che inventerà il concetto di Rimland.

I nostri lettori conoscono questa fondamentale contrapposizione tra i popoli della terra ei popoli del mare: questa è infatti la ragione principale della potenza inglese che ben presto ne accettò il carattere insulare e quindi navale. Sir Walter Raleigh spiegò presto (dall’inizio del diciassettesimo secolo ) il principio che l’impero avrebbe seguito nel corso dei secoli: “Chi detiene il mare detiene il commercio del mondo; chi detiene il commercio detiene ricchezza; chi detiene la ricchezza del mondo detiene il mondo stesso. Da lì nasce l’ambizione di “ Rule Britannia, domina le onde   .

Il mare, fonte di ricchezza, esso stesso fonte di potere: questo è in fondo il destino dell’Impero Britannico. Approfittando della scoperta di un nuovo mondo, stabilendo una prima ricchezza commerciale poi estendendo il suo interesse a nuovi possedimenti sempre più lontani, inventando contemporaneamente la rivoluzione industriale, sfruttando appieno le nuove tecnologie (vapore, telegrafo), mandando i figli e le figlie a fondare stessa alla fine dei mondi per stabilirvi durevolmente la sua influenza, l’Inghilterra seppe costruire un sistema mondiale notevole per la sua durata. L’apogeo britannico durò infatti quasi un secolo, dalla caduta di Napoleone all’entrata in guerra nel 1914. Un dominio così lungo e universale è unico.

Questo orizzonte mentale su scala mondiale, questa associazione precoce della prosperità commerciale con il potere, questo feroce bisogno di una sovranità inalienabile sono invarianti inglesi: devono essere tenuti a mente per comprendere la scommessa della Brexit.

https://www.revueconflits.com/la-grande-strategie-de-langleterre/

L’America sta regredendo in una società tribale piena di acrimonia, ansia e sospetto_ Di Steve McCann

Gli Stati Uniti stanno vivendo il tribalismo, la povertà collettiva, l’aumento della criminalità, la cancellazione del confine meridionale, la distruzione delle norme costituzionali e l’inflazione ruggente. Siamo guidati da un presidente catastroficamente disorientato, irascibile e incompetente, favorito da un Congresso e da una burocrazia di sinistra ideologicamente guidati.

La nazione ha impiegato molti decenni per arrivare a questo stadio. Ci sono solo due componenti fondamentali in questa evoluzione verso l’attuale società fratturata. La prima e più importante è stata la diffusa capitolazione sottomessa allo sfruttamento malizioso del passato razziale della nazione. Il secondo, è stata la mancanza di un valido partito di opposizione per sfidare la trasformazione delle istituzioni della nazione.

Per quasi cinque decenni, mentre il Partito Repubblicano e i conservatori dell’establishment si crogiolavano nella loro “civiltà” e “bipartitismo”, un partito democratico sempre più socialista/marxista, un complesso mediatico/di intrattenimento e un’istituzione educativa hanno condizionato oltre due generazioni di americani a guardare al governo federale come fonte di salvezza, opportunità e soccorso nei momenti di difficoltà. Ciò ha creato un segmento della cittadinanza sempre più maleducato, suscettibile e facilmente sfruttabile che all’inizio del ventunesimo secolo era abbastanza grande da avere un impatto sul governo della nazione.

Il passo successivo è stato quello di inculcare colpa e animosità sociale in quella che un tempo era una nazione multirazziale tollerante che aveva superato il suo passato. Il loro successo è innegabile poiché hanno manipolato e alienato con successo le popolazioni nere e minoritarie demonizzando e facendo da capro espiatorio la popolazione bianca.

Nel 2008 il 77% degli americani (60% dei neri) pensava che le relazioni razziali fossero buone nella propria comunità individuale In un recente scioccante sondaggio tra i neri, il 75% ora crede che loro o qualcuno che amano saranno attaccati da un bianco. Questa è una convinzione facilmente smentita poiché le statistiche del governo del Dipartimento di Giustizia rivelano che i neri sono stati gli aggressori nell’85% dei crimini violenti che coinvolgono neri e bianchi.

Questo stesso recente sondaggio ha anche mostrato che il 70% dei neri crede che oltre la metà di tutti i bianchi (o 110 milioni di americani) “detengano convinzioni di supremazia bianca”. È impossibile trovare una stima accurata del numero effettivo di suprematisti bianchi poiché la definizione di “supremazia bianca” si è opportunamente evoluta con i venti politici (ad esempio, tutti gli elettori di Trump sono stati spesso indicati come solidali con la supremazia bianca). anni, estrapolando i dati dubbi e gonfiati dal Southern Poverty Law Center di sinistra rabbiosa, è stato stimato che “potrebbero” esserci fino a 500.000 credenti o lo 0,2% della popolazione bianca complessiva.

Non sorprende che solo il 24% dei bianchi, il 27% dei neri e il 29% delle altre minoranze credano che lo stato attuale delle relazioni razziali americane sia buono o eccellente.

Dopo decenni di miglioramento delle relazioni razziali, l’America sta rapidamente regredendo in una società tribale piena di acrimonia, ansia e sospetto generati da un ritorno al razzismo e al bigottismo.

Tra le date più importanti del movimento per i diritti civili c’era il 28 agosto 1963 e la marcia su Washington per il lavoro e la libertà. Quelli di noi che erano lì non capivano o apprezzavano poco quel giorno sarebbe stato storico, non solo per l’elettrizzante orazione pronunciata da Martin Luther King Jr., ma che questo singolare evento avrebbe segnato l’inizio della fine della discriminazione istituzionale e del razzismo nel Stati Uniti e l’affermazione nazionale quasi unanime che ognuno deve essere giudicato dal contenuto del proprio carattere e non dal colore della propria pelle.

Né la maggior parte di coloro che erano coinvolti nel movimento per i diritti civili degli anni ’60 potrebbero mai immaginare che a partire dagli anni 2000 la sinistra americana e il partito democratico avrebbero, con previdenza, sfruttato maliziosamente e incessantemente il passato della nazione e minato i risultati di così tanti.

Coloro che cercano l’egemonia politica fomentando deliberatamente l’animosità razziale ed etnica sono tra le persone più spregevoli sulla terra e sono poco diversi dai despoti che si sono scatenati nel ventesimo secolo.

Indipendentemente da ciò, questi vili ideologi estremisti, sia nel Partito Democratico che nei media o tra i professori, hanno perseguito con determinazione il loro obiettivo di un’egemonia politica permanente provocando consapevolmente divisione, paura e ostilità.

Dopo aver sfruttato con successo un razzismo istituzionale inesistente, questa cabala è ora certa di essere sul punto di raggiungere i propri obiettivi. Sono così fiduciosi che credono che la maggior parte della cittadinanza non solo acconsentirà docilmente alla loro agenda, ma accetterà anche la frode e la manipolazione palesi degli elettori. Grazie alla riprovevole demagogia razziale, la società americana è più disunita e addolorata che in qualsiasi momento nella lunga storia di questa nazione e quindi, credono, predisposta a una fondamentale trasformazione della società e del governo.

Di conseguenza, la sinistra è diventata più al vetriolo e ora sta lanciando senza pensare altri vili epiteti non solo contro la loro opposizione politica ma contro qualsiasi cittadino americano, indipendentemente dall’etnia, al fine di incorporare la loro agenda “svegliata” e minare ulteriormente la coesione sociale. Pertanto, la determinazione di destabilizzare la famiglia nucleare, di integrare ogni tipo di devianza, di sradicare l’autodeterminazione, di censurare sfacciatamente la parola, di emarginare la libertà di religione, di attaccare sistematicamente tutte le istituzioni della nazione e di fare da capro espiatorio ai nostri antenati per l’attuale incompetenza della classe dirigente.

La marcia verso la trasformazione della società e il socialismo/marxismo è progredita al punto che non può essere fermata o invertita semplicemente facendo affidamento su elezioni che ora possono essere manipolate senza sforzo e sono spesso composte da candidati, una volta in carica, che sono facilmente intimiditi dai radicali sinistra.

Mentre le elezioni sono importanti e la necessità di scegliere candidati che affermano di combattere per invertire il corso della nazione è vitale, questa guerra per l’anima della nazione non può essere vinta nelle aule del Congresso o nello Studio Ovale o nelle camere della Corte Suprema, o nella panoplia di edifici governativi che fiancheggiano le strade di Washington, DC

Invece, il popolo americano può vincere questa guerra se si unisce e conduce un combattimento senza vincoli con la sinistra americana attaccando i due elementi centrali della strategia che ha usato.

  1. Tutti, di qualsiasi razza o etnia, devono insorgere con sicurezza e dire categoricamente alla sinistra americana e alle élite dominanti di farla finita. Che si rifiutino di essere messi l’uno contro l’altro più a lungo. Che sono prima di tutto americani, indipendentemente dalla razza o dall’etnia. Che non saranno più intimiditi e manipolati attraverso false accuse e deliberate false dichiarazioni del cosiddetto razzismo. Che l’attuale popolazione bianca non si crogiolerà più insensatamente nel senso di colpa per un passato con cui non avevano nulla a che fare. E che la popolazione nera non sarà più manipolata e usata come pedine usa e getta dalla sinistra radicale.
  2. Ogni americano che ha a cuore il futuro della propria progenie deve iniziare immediatamente a boicottare il complesso mediatico/di intrattenimento e mandare in bancarotta l’istituto scolastico rifiutandosi di frequentare o scegliendo alternative praticabili che rispettino la cittadinanza e i principi della fondazione della nazione.

La guerra può essere vinta da una cittadinanza americana unita e determinata. Tuttavia, il tempo sta rapidamente scadendo poiché nessuna nazione tormentata dall’animosità razziale o etnica e dal tribalismo può sopravvivere a lungo.

Il 4 luglio 2026 gli Stati Uniti celebreranno il 250° anniversario della sua fondazione. Che tipo di occasione sarà? Una celebrazione nazionale di un popolo unito che si crogiola nella libertà e prosperità o una nazione frazionata e demoralizzata in modo schiacciante sull’orlo di una dissoluzione irreversibile e inevitabile?

https://www.americanthinker.com/articles/2022/05/america_is_regressing_into_a_tribal_society_rife_with_acrimony_anxiety_and_suspicion.html

Cos’è la filosofia russa e perché è ancora importante? Una conversazione con la rivista russa Kultura, di Paul Grenier

Questa conversazione tra il quotidiano russo Kultura e Paul Grenier è stata originariamente pubblicata, in russo, con il titolo “La Russia non dovrebbe perdere tempo a bussare a una porta chiusa” ( Kultura , 28 aprile 2022, 8-9). La conversazione è stata condotta dall’editore e corrispondente di Kultura , Tikhon Sysoev.

 

 

 

Kultura:  La filosofia russa è regolarmente accusata di essere “derivata”. I filosofi russi, si dice, hanno preso in prestito il loro apparato concettuale dall’Occidente e si sono poi serviti di quell’apparato per trattare i problemi del giorno. In che misura ritiene giustificata una simile opinione? 

GRENIER:   Ho sentito molte volte questa accusa contro la filosofia russa, fin dai tempi della mia università e della mia scuola di specializzazione. Gli slavofili, presumibilmente, stavano semplicemente attingendo da Schelling e da altri idealisti tedeschi. La filosofia di Vladimir Solovyov si basa su Kant e Hegel e, naturalmente, su Platone. Nessuno negherebbe che tali influenze ci fossero e che fossero grandi. Indubbiamente Pisarev, Chernyvshevski, Dobroliubov e i marxisti durante tutto il periodo sovietico, hanno preso in prestito da fonti occidentali, spesso illuministiche, dal pensiero utilitaristico e materialista occidentale, per non parlare dell’importante influenza di Feuerbach.

C’è comunque qualcosa di strano per me in questo complesso di inferiorità tipicamente russo nella sua tradizione, una tradizione che è così ovviamente, per me, qualcosa  sui generis.  Tutta  la filosofia è una conversazione con il suo passato: per chi, e per quale paese, questa generalizzazione  non è  vera? Quando ho letto John Locke, che ha preceduto Kant, sono ancora sorpreso di quanto una tale lettura riveli quanto molte delle idee di Kant fossero davvero poco originali. Sono già lì nella noiosa epistemologia di Locke.

Sembra chiaro che anche tra pensatori russi secondari come Pisarev e Chernyshevsky, nonostante il loro orientamento occidentale per molti aspetti, siano ancora chiaramente russi. Non è vero che si preoccupavano solo di fornire buoni stivali ai contadini scalzi e se ne fregavano di Puskin [il grande poeta russo Alexander]. Hanno rifiutato di lasciare l’estetica a un piano astratto e “ideale” separato nelle nuvole dal mondo materiale. VV Zenkovsky ha affermato che, almeno a questo riguardo, condividevano qualcosa con Vladimir Solovyov, la cui teoria estetica insisteva sulla bellezza come compenetrazione del materiale e dello spirituale. Quello che vediamo qui, quindi, in tutti questi pensatori è l’interesse tipicamente russo per l’unità o, nei termini di Solovyov, “tutto-unità”. [1]

Per me personalmente, l’apice del pensiero filosofico russo si trova in primo luogo in Dostoevskij, ma anche in Solovyov, p. S. Bulgakov, e, in generale, in tutta quella scuola teologico-filosofica, di cui ci sono molti rappresentanti.

Kultura:  Perché questa scuola di pensiero russo in particolare? Cosa ti sembra più prezioso degli altri?

GRENIER: La mia risposta può essere solo molto parziale, ma prima di tutto perché, a differenza di quasi tutto il pensiero occidentale dai tempi di Rousseau, ciò che troviamo nel caso di tutti questi pensatori è in realtà ancora  la filosofia in una vita modulo. Il massimo interprete oggi della modernità liberale, Pierre Manent, ha notato che la tradizione liberale occidentale ha reso la filosofia in quanto tale non più possibile. La tradizione liberale ha consegnato al passato l’idea che lo studio dell’uomo sia da un lato lo studio di un mistero, e tuttavia sia anche, dall’altro, lo studio di qualcosa di dato. Per la tradizione, l’uomo ha una data natura, un determinato orientamento. Una volta che tutto ciò è stato consegnato al passato, alla “premodernità”, allora, secondo Manent – e qui sono pienamente d’accordo con lui – non c’è più un argomento per la filosofia. Nel pensiero russo di questa tradizione, la filosofia, al contrario, è ancora viva, è ancora  possibile .

Kultura:  Perché, a differenza dell’Occidente, ci sono stati così pochi filosofi accademici (“scientifici”) in Russia? La filosofia russa ha spesso una qualità giornalistica o letteraria. Perché pensi che i filosofi russi siano così spesso attratti da generi meno “scientifici” come questi?

GRENIER:   Devo dire che la mia opera preferita della filosofia russa è Tre conversazioni di Solovyov: la guerra, il progresso e la fine della storia . La qualità letteraria delle conversazioni è molto alta, ed è semplicemente un piacere leggerle sotto ogni aspetto. Quando ero alla scuola di specializzazione alla Columbia, un gruppo di amici si è riunito per leggerlo ad alta voce, ognuno di noi ha preso parte – solo per divertimento, nel nostro tempo libero. Era ovviamente intenzione di Solovyov, scrivendo in questo stile, rendere le sue idee accessibili e lette da un circolo che va oltre i circoli accademici. Naturalmente lo stesso si può dire per i dialoghi di Platone…

Kultura:  Ma questa stessa accessibilità non rivela qualcosa di ‘difettoso’ e secondario in tali opere? Sto parlando qui, ovviamente, non di Platone, le cui opere sono state prodotte per un pubblico diverso e in condizioni completamente diverse.

GRENIER: Qualcuno una volta ha detto che la  Repubblica di Platone , se scritta per la prima volta oggi come dottorato di ricerca. tesi in qualsiasi dipartimento di filosofia americano, che sarebbe stato immediatamente respinto come speculativo e del tutto non scientifico. (Presumibilmente, oggi, lo studente sarebbe anche inserito nella lista nera ed espulso dal dipartimento per aver sostenuto tali opinioni “di destra”.)

Mi sembra che le possibilità stilistiche aperte a chi tenta di descrivere ciò che è riconosciuto come un mistero debbano necessariamente differire dalle possibilità stilistiche aperte alla descrizione di un meccanismo pienamente conoscibile. Il pensiero che prima riduce le cose a ciò che è semplice, può poi descrivere con esattezza (‘scientificamente’) questa riduzione. Il pensiero che non si impegna in questa riduzione iniziale, ma resta aperto al tutto, deve trovare qualche altra metodologia con cui procedere.

Mi ritrovo a tornare al concetto di totalità (integrità, totalità). Se è corretto affermare che la ragione filosofica tenta di capire cosa sia una  cosa o  un  essere   – e di comprenderlo in un modo che abbracci il fenomeno nel suo insieme – allora la metodologia letteraria è, almeno in alcuni casi, chiaramente più adeguato a tale compito rispetto all’alternativa. Kant ci dice che non dobbiamo trattare una persona semplicemente come un oggetto. Questo è eccellente, ed è anche “vero”, fino a un certo punto, ma la  forma  del concetto così espresso è inadeguata alla sua sostanza.

I Demoni di Dostoevskij   ci dicono, per così dire, la stessa cosa, ma in una forma che raggiunge il tutto: il nostro intelletto, le nostre emozioni, la nostra anima e il nostro corpo, e in un modo che lascia qualcosa impresso nella nostra memoria per tutto il tempo in cui viviamo .

Kultura:    Molti hanno sottolineato l’enorme, forse anche eccessiva attenzione che il pensiero filosofico russo accorda ai problemi religiosi. Un’attenzione equivalente a tali questioni non è stata caratteristica del pensiero occidentale. Perché, dal tuo punto di vista, il pensiero russo si è concentrato a tal punto su queste questioni apparentemente non strettamente filosofiche? Perché i pensatori russi erano così disinteressati, ad esempio, alle questioni della teoria della conoscenza (epistemologia), un argomento che è stato centrale nella tradizione occidentale?

GRENIER:   Per me, tutto ciò che è più tipicamente russo nel pensiero russo, così come ciò che è più prezioso, è anche pensiero religioso. Un altro modo per dire la stessa cosa è che il pensiero russo non è riducibile al liberalismo, o al tipo di protestantesimo che pensa che il mondo, la ragione e la natura siano cose del tutto autonome – autonome nel senso di essere intelligibili senza alcun riferimento all’Essere o, se si preferisce, a un divenire orientato verticalmente (in opposizione a un divenire meramente storico o biologico).

Per quanto riguarda l’epistemologia, è vero che non si tratta di un argomento che ha attirato molta attenzione tra i migliori filosofi russi. Tra i pensatori che personalmente trovo interessanti, Nicholas Lossky ha dedicato molta attenzione all’argomento, ma è passato troppo tempo dall’ultima volta che l’ho letto per dire qualcosa di utile, tranne per aggiungere che penso che Lossky sia ingiustamente trascurato. È un pensatore originale e coraggioso; è umano; e, nonostante ciò che affermavano i suoi critici, era anche un filosofo cristiano , per quanto non ortodosso.

Allo stesso tempo, almeno per quanto riguarda la tradizione del pensiero occidentale che va da Bacon a Locke a Kant, lo stile epistemologico occidentale è orientato a non capire cosa sia, è orientato ad acquisire potere sulle cose. La filosofa francese Simone Weil lo vide con grande chiarezza e il suo amore per il pensiero e la cultura della Grecia antica derivava in gran parte dalla sua percezione che per loro la contemplazione fosse prima di tutto una sorta di attenzione orante. Vedo una linea diretta, rispetto alla logica interna dei loro approcci, tra Weil e il pensiero sophianico di Solovyov e Sergei Bulgakov. È un’area che sto ancora esplorando e imparando, non sono affatto un esperto di tutto ciò, ma intuitivamente penso che qui sia il punto di partenza più promettente per una rinascita della filosofia per domani.

I filosofi (dipinto di M. Nesterov raffigurante Pavel Florensky e Sergei Bulgakov)

Kultura:    Abbiamo già parlato di alcuni concetti e metodi specifici del pensiero filosofico russo. E il campo problematico? Lei ha menzionato più volte il concetto di ‘tutto-unità’ (vse-edinstvo). In che modo questo concetto ha influenzato lo sviluppo di problemi legati alla struttura sociale o politica, all’estetica e all’etica nella filosofia russa? Perché qualcosa come l’unità totale non è diventata una forma pensiero ideale in Occidente ? 

GRENIER:   Probabilmente non posso rendere giustizia a tutte le parti di questa interessante domanda, data la sua ampiezza. Cercherò, invece, di affrontare la questione dell'”unità totale” in relazione alla questione politica. La crisi della politica moderna è legata in primo luogo a una crisi di  autorità . Già Hannah Arendt aveva notato questa crisi nel suo saggio “Cos’è l’autorità”, scritto nel 1958. Inutile dire, suppongo, che l’indebolimento e, infine, il crollo dell’autorità sono inseparabili dalla critica mossa da Nietzsche contro Platonismo, e, allo stesso modo, contro la tradizione platonica cristiana.

Solovyov – che è, naturalmente, molto più un pensatore platonico di quanto non fosse un qualsiasi liberale – aveva solo una familiarità parziale con Nietzsche; e tuttavia la stessa Giustificazione del bene di Solovyov   è diretta, anche esplicitamente, contro e in risposta a Nietzsche, così come contro la civiltà occidentale secolarizzata in tutte le sue forme, compreso in particolare l’utilitarismo liberale di John Stuart Mill. Il ‘bene’, per Solovyov, è ciò che è  autorevole ; e il potere politico, per essere  potere politico legittimo  , non può fondare la sua autorità in altro che nel servizio al Bene in quanto tale; e il Bene è da Dio. L’ordine politico, per Solovyov, è “libera teocrazia”.

Questo stesso tema della  teokratia  è ripreso da p. Sergei Bulgakov dopo la rivoluzione del 1917. Un mio caro amico sta scrivendo un libro proprio su questo argomento, e sto attingendo direttamente dal suo lavoro quando noto che, per Bulgakov, il tipo di regime ideale era quello le cui caratteristiche formali dipendono da uno standard di verità ( logos) che è esterno a se stesso (cioè esterno al regime). L’autorità, in un ordine politico di questo tipo, deve essere vista come risiedere in qualche persona la cui autorità “personale” è, per definizione, vista come derivata da ciò che è al di sopra di quella figura politica: la sua autorità deriva da “ciò che è al di sopra di questo mondo.’ Tale figura, per la Russia, era lo zar. Allo stesso tempo, all’indomani della rivoluzione russa, Bulgakov si rese conto che la storia non sarebbe tornata indietro, quindi la possibilità di un tale accordo era passata. Questo passaggio del più antico ordine (zarista) aveva per Bulgakov, quindi, un significato tragico, perché la sua morte rappresentava la morte del sacro in quanto tale – e non solo per la Russia, ma per l’Europa e l’Occidente nel suo insieme. Rappresentava la morte del sacro come qualcosa che è integrato nella vita del mondo , almeno nella misura in cui il sacro è connesso a Cristo e al cristianesimo.

In un certo senso, ciò che vediamo in Bulgakov è un’anticipazione di Heidegger e un’eco del “Dio è morto –  e noi lo abbiamo ucciso ” di Nietzsche. Non c’è ritorno all’autorità politica finché continuiamo a uccidere il sacro, o a considerarlo una questione meramente privata (così che ognuno ha il proprio   “assoluto” privato che ha “valore assoluto” – ma solo per me, in quanto Un individuo!).

L’unità totale si esprime qui nella forma di una relazione interiore tra il regno del politico e il regno del sacro. È un tema che è stato il  leitmotiv  di gran parte della filosofia e del pensiero russi.

Kultura:  Sei stato uno studente del pensiero filosofico russo per molti anni, anche se il russo, per quanto ho capito, non è la tua lingua madre. Quale ti è sembrato il più difficile della filosofia russa? 

GENIER:  Quando ho iniziato, in giovane età, a leggere Dostoevskij, è stato strano, nel senso che il suo mondo non aveva nulla in comune con il mondo che mi circondava nella periferia della California; ma comunque mi sono sentito a casa. Anni dopo, quando, da giovane, ho iniziato a sedermi ai tavoli di cucina con gli amici russi, in quella che allora era ancora Leningrado, fino alle 2 o alle 3 del mattino, qualcosa che era ancora possibile sotto il comunismo in un modo che ha avuto la tendenza a scomparire sotto il capitalismo — e sperimentare quel senso caratteristico di essere parte del ‘collettivo’ (nel senso russo colloquiale, non burocratico), cioè di appartenere a questo piccolo gruppo di amici per cui il tutto era primario, e le parti secondario, non mi sembrava estraneo; sembrava qualcosa che avrebbe dovuto già essere sempre lì. Fu l’individualismo occidentale che cominciò a sembrarmi strano. Mi resi conto per la prima volta che, negli Stati Uniti, andavamo in giro come dentro dei gusci duri. Le persone in Occidente, ho capito improvvisamente, sono sole a livello ontologico.

Un concetto con cui, a dire il vero, ho un po’ combattuto, è quello associato agli studi di Dostoevskij: vale a dire, il concetto di незавершимость, o ‘non finalizzabilità’. In altre parole, l’idea che una persona non possa mai essere considerata completamente conosciuta, non può essere ridotta a un giudizio finale – per esempio, “noi [pensiamo di] sapere così e così è un singhiozzo, e lo sarà sempre .’ La difficoltà qui non è intellettuale, ma spirituale.

Kultura: In  che modo l’eredità filosofica russa potrebbe essere utile per il mondo occidentale moderno, visti i problemi e le crisi che deve affrontare?

GRENIER:   È improbabile che l’Occidente, in qualsiasi senso istituzionale, sia in grado di imparare qualcosa da una civiltà che gira su principi diversi dai suoi. La Russia non dovrebbe quindi perdere tempo a pensare a cosa può portare in Occidente, oa bussare a una porta chiusa. A livello di conversazioni tra le persone, ovviamente, è una questione completamente diversa. Spero che tali conversazioni possano essere mantenute e persino ampliate. Ma le idee, lasciate solo sulla carta, o nei libri e negli articoli, di certo non cambieranno nulla, né in Occidente, né altrove.

Allo stesso tempo, se i russi prendessero più sul serio la propria eredità filosofico-teologica, c’è ogni possibilità per la Russia di diventare un esempio positivo di un modo di essere umano e non tecnocratico nel mondo. Sarei felicissimo di vederlo accadere un giorno. L’alternativa sembra essere una tecnocrazia globale post-umana, da cui nessuno di noi potrà sfuggire.

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[1] Per un’eccellente, sebbene non ancora terminata, monografia sul concetto di ‘unità’ (tselostnost’) nel pensiero russo, si veda Gordon Hahn, Tselostnost’ In Russian Thought, Culture, and Politics.  Gordon ha senza dubbio ragione quando scrive che la parola russa tselostnost” connota qualcosa di più di “unità”. Include anche concetti come integrità, integralità, monismo e termini simili. Il manoscritto di Hahn arricchisce le varie manifestazioni di questo concetto attraverso un’ampia gamma di fenomeni culturali e politici. Indica, nella sua introduzione, l’idea di simfonianei rapporti Chiesa-Stato, l’universalismo russo di Dostoevskij, l’“anima del mondo” di Nikolai Berdyaev e l’“unità totale” di Solovyov o il vseedinstvo della creazione. Nella versione russa di questa intervista, stampata da Kultura , ho erroneamente tradotto tselostnost’ come ‘tutto-unità’. La traduzione russa corretta del termine ‘tutta unità’, che è di Solovyov, è ovviamente vse-edinstvo.  L’errore è stato mio.

https://simoneweilcenter.org/publications/2022/5/10/what-is-russian-philosophy-and-why-is-it-still-importantnbsp-a-conversation-with-russias-kultura-magazine

C’ERA UNA VOLTA LA NEUTRALITÁ, di Teodoro Klitsche de la Grange

C’ERA UNA VOLTA LA NEUTRALITÁ

Anche la guerra in Ucraina conferma che la neutralità, ossia l’estraneità dei non belligeranti ad un conflitto tra Stati, ha subito un radicale cambiamento in conseguenza delle innovazioni al diritto internazionale nel XX secolo.

Prima lo stato neutrale era (rigorosamente) imparziale nei confronti dei belligeranti. Tale imparzialità comportava il dovere di astenersi da ogni iniziativa tesa a favorire lo sforzo bellico (di uno) dei contendenti; a questo corrispondeva il diritto di non sopportare operazioni belliche – e il loro effetti – sul proprio territorio, popolazione, commercio.

Nel periodo tra le due guerre mondiali e nel successivo la neutralità “classica” fu decisamente ridimensionata: in particolare il divieto di ricorso alla forza di cui allo Statuto dell’ONU ha eroso l’imparzialità dei neutrali, perché è loro consentito di aiutare l’aggredito e sanzionare l’aggressore. Pertanto la tanto – e giustamente – discussa fornitura da parte degli U.S.A. e di alcuni Stati dell’Unione europea di armi all’Ucraina (cui si aggiungono le misure anti-russe) farebbero parte di questa innovazione al diritto internazionale.

Ciò comunque comporta una diversa problematica, in relazione al diverso carattere della “guerra” moderna.

Infatti, più o meno nel XX secolo in cui mutava lo status del neutrale, cambiava pure quello di guerra; l’ostilità, connessa strettamente alla volontà di imporre la propria, assumeva diverse forme, caratterizzate dall’assenza (e dalla drastica limitazione) dell’uso delle armi. Conflitti sì, ma disarmati.

Il libro dei “bravi colonnelli cinesi Guerra senza limiti (da me spesso citato) ce ne fornisce ragione ed esempi. Gli autori scrivono: “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire… per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in un altro strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree” onde “La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste ad una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata un aumento della violenza politica, economica e tecnologica… Se si riconosce che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di “usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri”, quanto piuttosto quelli di “usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi”, tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra”.

Il problema è quindi vedere in tali contesti di guerra “non violenta” che significato assume la neutralità.

In primo luogo il neutrale in una guerra di aggressione è considerato se non un imbucato almeno un pilatesco. Certo se si carica di significati morali una scelta politica, la conseguenza (per il neutrale) è proprio quella. Di essere neutrale tra bene o male, come gli angeli disprezzati da Dante perché rimasti neutrali nella lotta tra Dio e il diavolo.

Ma a parte ciò la neutralità in tempi di guerra condotta con mezzi non violenti (e non militari) finisce col perdere definitivamente – anche se non totalmente – l’imparzialità che la connotava nel diritto internazionale westphaliano.

Nella prassi contemporanea l’imparzialità è stata ristretta alla neutralità militare, mentre la guerra è estesa a tutti gli aspetti della vita economica e sociale, dall’economico al giuridico, al morale e perfino allo sport, con il rifiuto di fare gareggiare gli atleti russi, e alla musica. Se questo possa portare alla pace è assai dubbio, perché l’unico caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso fu quello contro il Giappone: ma ebbe, contrariamente alle aspettative, non l’effetto di portare alla pace, ma all’estensione della guerra.

Di per se, anche continuando – fortunatamente – il non ricorso a mezzi militari diretti, il carattere “neutrale” di una simile prassi non regge. E in effetti è esplicitamente rifiutato dalle continue condanne e sanzioni all’aggressore. Ma mentre le prime possono avere l’effetto di intensificare il sentimento politico anti-russo (che è uno dei fondamenti della guerra tradizionale), dell’efficacia delle seconde è più lecito dubitare, dato che – solo per fare un esempio – le entrate della Russia dagli aumenti dei prodotti petroliferi superano di gran lunga il costo della guerra (almeno così si legge). D’altra parte è stato notato da molti che l’assenza di un vero neutrale, almeno in Europa è un inconveniente decisivo per mediare la pace. Questo perché spesso è proprio l’autorità di un terzo (realmente) neutrale che può provocare la pace o evitare la guerra.

Nel medioevo già riusciva al Papa; nell’Europa moderna, e proprio dalla parte dove oggi si combatte fu Bismarck e il Reich tedesco nel congresso di Berlino (1878) presieduto del cancelliere di ferro a farlo. Ma la pace fu possibile anche perché Bismarck e la Germania non erano diretti interessati alla sistemazione dei Balcani; anzi disse che “i Balcani non valgono le ossa di un solo granatiere di Pomerania” per sintetizzare la propria realistica propensione alla pace. Non così si può dire dell’Europa contemporanea che a quella pace ha interessi assai superiori a quelli del Reich. Purtroppo non ha un Bismarck: come diceva il cancelliere (dell’Italia) “ha un grande appetito ma dei pessimi denti”.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA GUERRA DELL’INFORMAZIONE IN OCCIDENTE E IN ORIENTE HANNO UN CREDO IN COMUNE, di Antonio de Martini

TRA LA COMUNICAZIONE DI MASSA E L’INDIVIDUO, ORA C’E’ LA TRIBU’ E I SUOI CAPI. E I GRANDI MEDIA USCIRANNO SCONFITTI.

DA LEGGERE:UNO DEI RARI TITOLI IMPORTANTI EDITI DALLA ERI, L’EDITRICE DELLA RAI TV. DOPO MEZZO SECOLO ANDREBBE RISTAMPATO DATA L’ATTUALITÀ’ PROVOCATA DALLA GUERRA UCRAINA E LA BELLA INTRODUZIONE DEL PROFESSOR FERRAROTTI.

Elihu KATZ insegnava sociologia alla Università di Chicago e Paul LAZERFELD alla Columbia, entrambi di origini europee e quest’ultimo considerato il miglior sociologo del suo tempo.

All’indomani dello sbarco di Normandia ( 5 giugno 1944) seimila soldati USA furono sottoposti a un questionario che sostanzialmente mirava ad appurare come mai un giovanotto dell’Oklahoma avesse affrontato ostacoli e pallottole per sbarcare su una spiaggia di cui nemmeno conosceva il nome. Indagavano sul mistero dell’obbedienza…

Le risposte, una volta codificate, lasciarono tutti di stucco.

Alla domanda ” chi te lo ha fatto fare”, le risposte non si rifacevano mai alle comunicazioni ufficiali: Niente crociata contro il nazismo, meno che mai lotta per la Democrazia o liberazione dell’Europa.

Nessuno che abbia citato il Presidente e nemmeno il generale Eisehnower.

Ogni singola risposta di ogni G.I: si rifaceva a una sorta di piccola tribù entro la quale il soldato ritrovava la sua vita e le sue sicurezze: ” ammiravo molto il mio capitano, lui ha detto avanti, ragazzi ! ed io ho obbedito”. Oppure :” il mio sergente é un uomo molto tosto; temevo , disobbedendo, che mi prendesse a calci davanti a tutti”. Meglio ancora: “negli ultimi mesi sono sempre stato assieme al mio compagno di branda, lanciatosi lui, l’ho seguito”: stava nascendo, dalla guerra, la “ teoria degli opinion leaders” che trovò la sua prima applicazione pratica nel campo della moda. Poi, a seguire, cinema, beni di consumo domestici e infine, affari pubblici.

La differenza tra la tribù del paleolitico e quella moderna é che, un tempo, il capo era l’opinion leader per ogni cosa: dalla caccia al cibo, agli accoppiamenti, alla medicina.

La tribù moderna si è parcellizzata: l’opinion leader dell’eleganza è Filippo, ma quello per gli investimenti è l’amico che lavora in banca, al quale mai ci sogneremmo di chiedere consigli per la salute…

Si constatò che il mondo intero è costituito da microentità di cento/centocinquanta persone , diverse per ogni ramo dello scibile che per le loro decisioni, scelte, acquisti, fanno riferimento a un ” capo” – detto ormai leader d’opinione- al cui parere si rimettono spesso fideisticamente.

Avviene anche in politica e , a maggior ragione, in tempi di guerre e/o calamità. Ma funziona?

Col tempo si è constatato che la situazione ideale si ha quando i mass media e gli opinion leaders remano nella stessa direzione, mentre, se queste due correnti di pensiero si contrastano – contro ogni previsione della vigilia- prevale l’avviso degli opinion leaders, anche se per esplicare al massimo la loro influenza serve molto più tempo. A livello planetario circa quindici anni.

Ecco che, alla luce dei recenti avvenimenti, prendono significato i toni isterici dei mass media che tendono a supplire con la quantità alla mancanza di credibilità. La narrativa dei mass media iniziata nel 2011, resisterà al massimo fino al 2016 per poi soccombere al crescendo critico dei capi tribù che la contrastano.

Il paradosso politico cui stiamo assistendo dal 1947 é che i due concorrenti alla leadership mondiale si sono scambiati più volte i ruoli: prima la Russia puntava sulla comunicazione di massa e gli Stati Uniti sugli opinion leaders. Ora si sta verificando il contrario: in molti casi: gli USA gestiscono l’86% ( Brezinsky dixit)della comunicazione mondiale mentre il blocco orientale punta sugli influencer ( nuovo termine) per indicare ipotetici capi tribù virtuali.

In pratica, ognuno finisce per non credere nelle scelte che ha fatto e dopo un certo periodo di tempo, tenta una nuova strada…

Già, adesso la sfida é se il capo tribù virtuale abbia la stessa influenza di uno reale. Facebook crede di si e punta tutto il suo sviluppo in questa direzione. Io credo di no ed è per questa ragione che ho ripreso a scrivere su questo blog. Credo negli individui, e non nella massa, credo nella realtà e non nel virtuale. Credo negli uomini e non nelle macchine. Compratevi il libro ( su amazon.it magari lo trovate ancora) , leggetelo e sappiatemi dire.

https://corrieredellacollera.com/2022/05/14/la-guerra-dellinformazione-in-occidente-e-in-oriente-hanno-un-credo-in-comune/

Pensare la potenza. Intervista a Rémi Brague #4 di REMI BRAGUE

Rémi Brague è professore di filosofia medievale all’Università di Parigi I Panthéon-Sorbonne e all’Università di Louis-et-Maximilien a Monaco di Baviera. Specialista in filosofia greca, araba ed ebraica, è autore di numerosi libri di consultazione su questo argomento. 

Intervista condotta da Louis du Breil. 

In Europa, la strada romana , spieghi che il contenuto dell’Europa è essere un contenitore, essere aperto all’universale. Il potere dell’Europa è stato costruito su questa cultura dell’apertura e della trasmissione?

Il libro che siete così gentili da citare celebrerà quest’anno il trentesimo anniversario della sua prima edizione e la sua diciassettesima traduzione. Non potendomi accontentare a stento di farne riferimento, mi costa un po’ tornare sulle sue tesi principali, anche se da allora non ho smesso di difenderle, anche di approfondirle. Nel mio libro, quindi, stavo solo ripetendo un gioco di parole dovuto al filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. Nella sua lingua continente significa sia “continente” che “contenitore”. Detto questo, nel mio stesso lavoro, difficilmente concepivo la cultura dell’Europa, poiché è tutto ciò di cui parlo lì, in termini di potere.

In ogni caso, questa apertura all’universale che lei giustamente accenna è per me il risultato di un’apertura più fondamentale alle proprie fonti, e di un rapporto con il precedente che è ben lungi dal fomentare un sentimento di potere. . Al contrario, l’Europa si sentiva inferiore ai suoi antichi riferimenti culturali. Solo l’anno scorso ho scoperto, con mia grande vergogna, che l’idea era già stata lanciata, molto prima di me, in un libro che non avevo letto, dello storico tunisino Hichem Djaït, morto lo scorso giugno: l’umiltà dell’Europa ha stata la paradossale molla del suo sviluppo. Secondo lui, è perché l’Europa si è trovata umile davanti all’Antichità, che ha esaltato, e davanti al cristianesimo a cui è stata sottoposta, che ha potuto andare oltre la prima e mantenere la distanza dalla seconda (Europa e Islam , Parigi, Seuil, 1978, p. 157).

Molto concretamente, l’Europa ha avuto il talento di utilizzare e portare a compimento ciò che le veniva da altrove e che altre civiltà hanno trascurato. Questo vale sia per la civiltà materiale che per la vita dello spirito. I cinesi hanno inventato quasi tutto ciò che è tecnico, carta, bussola, ecc. Hanno anche “inventato la polvere da sparo”, per esempio, ma è stata l’Europa che ha saputo farne un uso militare (potremmo pentirci, tra l’altro…). Gli arabi avevano una grande filosofia, ma furono i cristiani e gli ebrei d’Europa che usarono i commenti di Averroè, dimenticato nella sua civiltà originaria. In breve, l’Europa ha fatto le pattumiere di altre civiltà. Per questo dovevi chinarti. Potrebbe anche essere ovvio che fosse arrogante. Ma alla radice di tutto,

Qual è il posto del cristianesimo in questa singolarità europea?

Dovremmo ancora insistere sull’evidenza che lo storico e filosofo italiano Benedetto Croce, che era egli stesso agnostico, ricordava nel 1943: “non possiamo non chiamarci cristiani”? Il posto del cristianesimo è cruciale, perché il cristianesimo è una seconda religione rispetto alla religione di Israele, quella di cui testimoniano gli scritti di quello che chiamiamo Antico Testamento, religione da cui proveniva anche l’ebraismo rabbinico. Abbiamo pensato abbastanza a questa stranezza della Bibbia cristiana, che inizia con la Bibbia ebraica e quindi che abbiamo allo stesso prezzo i libri sacri di due religioni? Il “Nuovo Testamento” è in gran parte una reinterpretazione dell’Antico alla luce del fatto nuovo rappresentato dall’insegnamento, dalla passione e dalla risurrezione di Gesù.

Reinterpretare l’antico è ciò che la cultura europea ha fatto per secoli, non solo con il primo dei suoi due libri sacri, ma anche con tutto il patrimonio dell’antichità greco-latina. In un piccolo trattato, ottimamente ripubblicato da Arnaud Perrot (Les Belles Lettres, 2012), San Basilio di Cesarea (m. 379) spiegava come sfruttare la letteratura antica, cioè spogliandola della sua dimensione religiosa, “pagana”. se volete, e riducendolo alla sua dimensione puramente pedagogica, morale, dunque. In questo modo, quella che io chiamo la “secondarietà” culturale dell’Europa è resa possibile dal suo ancoraggio al livello più alto, al livello stesso del rapporto con l’Assoluto-religione, per dirla semplicemente.

Secondo te, la separazione tra spirituale e temporale nella civiltà europea si spiega con la dualità delle fonti dell’Europa: Atene e Gerusalemme. Come mai ?

Questa separazione infatti è già dalla parte di “Gerusalemme”. La famosa frase di Cristo su cosa dare a Cesare e cosa appartiene a Dio è stata intesa in questo senso. I fatti hanno aiutato potentemente i cristiani a distinguere tra lo spirituale e il temporale. Infatti, durante i primi tre secoli della sua storia, lo Stato, all’epoca Stato Romano, li perseguitò. Non è troppo difficile sentirsi diversi dal tuo aguzzino. Successivamente, con Costantino, e soprattutto con Teodosio, alla fine del IV secolo, il cristianesimo assunse lo stato. Ma non fu mai puramente e semplicemente confuso con lui. La cosa divertente, è stato lo stato che avrebbe visto questa confusione in buona luce: la fede cristiana diventò l’ideologia ufficiale dell’Impero Romano e si sostituì alla religione “pagana” che sentivamo al limite della sua fune… La tentazione era forte per il popolo della Chiesa, e molti furono coloro che vi cedettero, come Eusebio di Cesarea, che lodava Costantino, nel quale vedeva, non senza ragione, una specie di «zar liberatore». Tuttavia, la Chiesa finì per secernere istituzioni che fungevano da contrappesi: il diritto canonico, il papato e il movimento monastico che le fornì le sue truppe d’assalto. Grazie a loro, nel XII secolo, al tempo della Litiga per le investiture (Chi ha nominato i vescovi?), la Chiesa seppe resistere agli imperatori d’Occidente e mantenere la propria autonomia. che lodava Costantino, nel quale vedeva, non senza ragione, una specie di “zar liberatore”. Tuttavia, la Chiesa finì per secernere istituzioni che fungevano da contrappesi: il diritto canonico, il papato e il movimento monastico che le fornì le sue truppe d’assalto. Grazie a loro, nel XII secolo, al tempo della Litiga per le investiture (Chi ha nominato i vescovi?), la Chiesa seppe resistere agli imperatori d’Occidente e mantenere la propria autonomia. che lodava Costantino, nel quale vedeva, non senza ragione, una specie di “zar liberatore”. Tuttavia, la Chiesa finì per secernere istituzioni che fungevano da contrappesi: il diritto canonico, il papato e il movimento monastico che le fornì le sue truppe d’assalto. Grazie a loro, nel XII secolo, al tempo della Litiga per le investiture (Chi ha nominato i vescovi?), la Chiesa seppe resistere agli imperatori d’Occidente e mantenere la propria autonomia.

Invocare le due città simbolo che hai citato, e ciò che rappresentano, risale a Tertulliano, nel 3° secolo, poi rifiorito nel 19° secolo con Matthew Arnold e Henri Heine, e nel 20° secolo con Leon Chestov e Leo Strauss. Mettiamo di seguito varie opposizioni: fede e ragione, etica ed estetica, ecc. Ma il semplice fatto che i due poli così messi in tensione siano sopravvissuti entrambi, senza che l’uno inghiottisse l’altro, è già un fenomeno eccezionale, che va spiegato. Qui tutto è capovolto: è piuttosto la separazione del temporale e dello spirituale che ha permesso ai due modelli culturali di sussistere nella loro autonomia e di entrare in un proficuo dialogo.

Infatti è proprio “Gerusalemme” che ha saputo accogliere “Atene”. Per dirla in termini biblici, Sem (mitico antenato degli Ebrei) fece posto nella sua tenda a Iafet (antenato dei Greci) (Genesi, 9, 27). Della Torah, San Paolo decise di mantenere solo il Decalogo nel suo senso letterale. Tutti gli altri 613 comandamenti riconosciuti dai rabbini sono da intendersi in senso allegorico. I Dieci “Comandamenti” riuniscono i principi di base che consentono a una società umana di sopravvivere e di essere pienamente umana, motivo per cui il loro contenuto si trova ovunque, in Mesopotamia come in Cina. Era fondamentale come kit di sopravvivenza, ma non bastavano le regole morali per costruire nel dettaglio un intero sistema di norme in grado di regolare una città, a differenza dell’halakha ebraica e della sharia islamica. Occorreva quindi conservare il diritto romano, la letteratura greca e la filosofia, in una parola preservare, accanto alla “religione”, qualcosa come quella che poi sarebbe stata chiamata “cultura”.

Qual è l’influenza di quella che lei chiama “modernità” sulla concezione europea del suo potere?

La parola “modernità” non è in alcun modo una mia invenzione. In lingua francese ricevette le sue lettere nobiliari da Baudelaire, che ne arrischiò una definizione. D’altra parte, ciò che è importante è che usiamo l’aggettivo “moderno” per designare una caratteristica essenziale e permanente del nostro tempo, a differenza dell’uso medievale, dove modernus significava semplicemente “recente”. Questo utilizzo è più vecchio di Baudelaire. Basti pensare alla famosa “Querelle des Anciens et des Modernes” a Parigi alla fine del XVII secolo. Ho abbozzato questa storia nel mio Moderately Modern.

Ciò che ha cambiato il modo in cui l’Europa ha inteso il proprio potere non è stata l’era moderna, un semplice riferimento cronologico, ma quello che, nel mio Regno dell’uomo, ho chiamato, dopo altri, il “progetto moderno”. Sogna un nuovo inizio da zero, un’umanità basata solo su se stessa, che elimini la dipendenza dal divino e padroneggi sempre meglio il fondamento naturale della sua esistenza: il proprio corpo, e questo tipo di “corpo esterno” (Fichte) che costituisce la biosfera.
In questa prospettiva, il potere diventa dominio, prima sulla natura, poi sul resto dell’umanità, a cominciare dalle donne. La ricezione dell’altro si trasforma in una bulimia di conquista.

Le virtù romane sono oggi indispensabili per uscire da quella che si impone come impotenza europea?

I romani non avevano virtù che fossero solo loro. Non si può inventare una virtù. È importante ricordarlo, perché immaginarlo fomenta un relativismo che, in fondo, corrompe tutte le virtù senza eccezioni. Quando Nietzsche distingue la virtù dei Greci: «mostrarsi ogni volta migliori ed essere superiori agli altri» (Iliade, 6, 208), quella degli Ebrei: onorare il proprio padre e la propria madre (Esodo, 20, 12), quella di i Persiani: non mentono e tirano bene con l’arco (Erodoto, I, 136, 2) (Così parlò Zarathustra, I: Dei mille e uno gol), vuole farci credere che le virtù sono relative e che possiamo creare nuovi. Ma nessuno dei tre popoli prende ad esempio considerava le virtù predilette degli altri due come vizi da evitare. Al massimo si può, come hanno fatto loro, sottolineando questa o quella virtù più di questa o quell’altra, a seconda del tipo di vita che si conduce. I romani insistevano su coraggio, senso civico, frugalità, virtù adatte alla dura vita di contadini e soldati.

Quella che ho chiamato la “strada romana” è un atteggiamento che ho isolato dal comportamento dell’élite di Roma, dal II secolo a.C., il “secolo degli Scipioni”, cioè poco dopo la loro vittoria militare sui Greci. Riconobbero la loro inferiorità culturale rispetto a coloro che avevano soggiogato e si misero coraggiosamente nella loro scuola, arrivando a creare un “impero greco-romano” ( Paul Veyne ). Questo è ciò che le élite europee fanno da secoli. Educarono la loro progenie facendo loro imparare il latino e il greco, cioè i classici di una civiltà che non era la loro, a differenza dei mandarini, che furono reclutati sulla loro conoscenza dei classici cinesi.

In questo momento è chiaro che l’Europa ha perso importanza: nella demografia vive di un’infusione di immigrati, nell’economia ha rilocalizzato la sua industria, nella diplomazia non gioca più nelle grandi serie, che convengono di passare oltre esso. Si ha però l’impressione che gli europei mascherino tutto questo con un eccesso di autocompiacimento. “Certo, siamo deboli, ma siamo gentili. Almeno non siamo bigotti e razzisti come gli americani, fanatici e macho come i musulmani, “formiche gialle” ossessionate dal lavoro come i cinesi, russi come i russi, ecc. Tutte queste persone ci danno dei crupper, ma pensiamo di non avere nulla da imparare da loro. Al contrario, sono loro che dobbiamo illuminare e civilizzare, ad esempio alzando la bandiera dei diritti fondamentali.

Di fronte a tutto questo, le tre virtù romane che ho citato sopra, coraggio, civismo, frugalità, potrebbero esserci di buon aiuto. La cittadinanza, ad esempio, potrebbe permetterci di temperare il nostro individualismo con la preoccupazione per il bene comune e la frugalità, aiutarci a resistere alla corsa frenetica al consumo.

Scrivi che la cultura non è un’origine pacificamente posseduta, ma una fine conquistata attraverso una dura lotta. Come combattere bene?

Ci sono molte prove lì. La cultura è qualcosa che acquisisci attraverso il duro lavoro. Anche usi e costumi, a cominciare dal linguaggio, non vengono semplicemente ricevuti nella culla e poi lasciati lì, abbandonati alla spontaneità dei bambini. Non dobbiamo accontentarci di canticchiare i canti della nostra nutrice; devi imparare a cantare secondo la teoria musicale. Non dobbiamo accontentarci di parlare “come ci viene spinto il becco”, secondo l’espressione tedesca; devi imparare a parlare la tua lingua madre secondo la grammatica, anche a scrivere poesie. Non devi solo camminare mettendo un piede davanti all’altro e ricominciando da capo; bisogna imparare, per esempio, a camminare al passo – c’è un bel passaggio su questo in Nietzsche del 1872 (Sul futuro delle nostre istituzioni educative, 2a lezione) – oppure, meglio, ballare. Tutto ciò richiede impegno, e quindi coraggio. Questa è un’altra virtù romana da cui dovremmo imparare. Non c’è battaglia più nobile di quella che combatti contro te stesso, contro la tua stessa pigrizia.

Lei scrive che la storia dell’Europa può essere vista come quella di una serie quasi ininterrotta di rinascite. Ci stiamo dirigendo verso un nuovo rinascimento?

Ho solo raccontato una storia, quella della cultura europea, una storia che ovviamente è solo una parte della storia dell’Europa, che ha dimensioni economiche, sociali, politiche e altre. in cui preferisco non entrare, per mancanza della necessaria competenza. È un dato di fatto che si sono susseguiti risvegli dal momento in cui, coincidenza interessante e forse significativa, abbiamo cominciato a prendere la parola “Europa” nel senso di entità politico-culturale — con questo sacro Carlo Magno e soprattutto il suo Ministro di Educazione Nazionale (o meglio Imperiale), Alcuino di York. Dopo la rinascita carolingia, abbiamo quella del XII secolo con il culto di Ovidio, l’ingresso del sapere greco e arabo nel XIII secolo, l’Italia dei grandi scrittori fiorentini, poi, nel XV secolo, l’ingresso della letteratura greca prima e dopo la caduta di Costantinopoli e il platonismo dei Medici, poi il classicismo di Weimar. E come continua di tutto questo, l’attività dei filologi di redigere, commentare, tradurre.

Ci sarà una nuova rinascita? Per temperamento, non sono proprio quello che viene chiamato “ottimista”. Se questo richiede di tornare allo studio delle lingue classiche, non credo che si cominci bene: da sessant’anni buoni, le autorità che pretendono di governarci hanno escogitato di renderlo impossibile; e ora negli Stati Uniti, alcune delle stesse persone che insegnano loro stanno iniziando a segare il loro ramo. Infatti è proprio l’idea di “classico”, indipendentemente dalla distanza linguistica, temporale, culturale, ecc., che ce ne separa, che dovremmo riscoprire: realtà più belle, più vere, migliori di noi, e da cui dobbiamo imparare. Ma ciò suppone un decentramento rispetto a se stessi, smettere di credersi molto scaltri, insomma una virtù meno romana che cristiana, l’umiltà…

https://www.revueconflits.com/penser-la-puissance-entretien-avec-remi-brague/

Questo immenso non sapere, di Pierluigi Fagan

78° GIORNO DEL MONDO NUOVO. Chi frequenta questa pagina sa del mio allarme, sin dai primi giorni, per l’enormità che ad alcuni apparve subito come ombra del conflitto in primo piano. Si mostrava una enormità nell’ambizione del piano americano, una enormità di portata “epocale”. Questo dopo due anni di Covid, con maggioranza del partito di Biden alla Camera, ma pareggio al Senato, in un paese spaccato ormai da qualche anno. Ci si domandava quindi i prezzi di una strategia così ambiziosa, rispetto alle condizioni di contesto ed all’effettiva forza dell’Amministrazione.
Ieri ho controllato gli indici di borsa. Negli ultimi sei mesi, il capitale ha perso intorno al 15% tra Milano, Shanghai, Francoforte e poco meno Parigi. Intorno al 10% New York, Tokyo e Londra. Clamorosa la distruzione di capitale nei tecnologici: Nasdaq -30%. Le Monde dice che Standard&Poor 500 ha realizzato la peggiore performance di inizio anno dal ’32. L’inflazione negli Stati Uniti è all’8,5%, la più alta da quaranta anni, quindi FED dovrà alzare i tassi, quindi i titoli perderanno ancora. I tech hanno perso mille miliardi US$ nei tre giorni successivi il recente rialzo dei tassi del FED. Reuters/Ipsos dà Biden al 42% di approvazione ed al 50%, di disapprovazione. Sempre lo stesso tracking dà al 6% l’interesse degli americani per i temi del conflitto, il 29% preoccupati invece dall’economia. Ed a novembre si vota.
Di contorno, le strozzature nelle catene logistiche post Covid ma anche Covid in Cina, le idee di sostenere il re-shoring proprio dalla Cina (di cui anche il tonfo del Nasdaq) trovando paesi amici chissà dove a meno di non tornare dalla famiglia Marcos nelle Filippine. Tempi? Costi? In tutto questo continuano a prender impegni negli investimenti di conversione green o detta tale, mentre uno strano virus di americani stanchi di lavorare sottrae manodopera alla ripresa. Più la caterva di miliardi all’Ucraina e l’aumento della spesa militare.
Minacciano isolette del Pacifico, sdoganano Maduro, si impiastricciano in Medio Oriente, fanno brutta figura con l’idea di boicottare il G20 in Indonesia, dopo aver tentato golpe all’ONU rimediando dal poco al nulla. Più la tempesta alimentare e delle materie prime a livello globale i cui effetti ci delizieranno i prossimi mesi. Secondo il Wall Street Journal, nel primo trimestre i fondi pensione pubblici statunitensi hanno perso il 4,1% del loro valore e si prevede un suicidio di start up e vari tipi di contrazioni dei redditi.
Gli europei hanno mandato Mario l’Amerikano e dirgli che qui si hanno altri punti di vista. Gli europei sono sotto quadruplice minaccia: inflazione, energia, profughi e prossimi migranti afro-arabi in fuga dalla grande fame. Con un rischio maggiore ipotetico sull’allargamento del conflitto in cui verrebbero spazzati via dai missili ipersonici russi. In più, debbono aumentare la spesa militare, trovare la soluzione per assorbire l’Ucraina nel giro e metterci gran parte dei soldi che serviranno a ricostruire l’Ucraina, almeno 600 mld di US$ secondo i primi calcoli degli ucraini. La telefonata di ieri tra Macron e Xi è anche la preoccupazione per le mutazioni di quadro nelle relazioni commerciali che Washington vorrebbe imporre sul piano globale. Così gli americani per mostrare qualche vago segno di buona volontà sulla cui valutazione di serietà rimandiamo ai prossimi giorni, ieri hanno spedito l’ambasciatore a Mosca al Ministero degli Esteri russo a far due chiacchiere, su cosa vedremo.
Sul NYT si fanno sforzi per riconsiderare l’intera questione. In fondo si è finalmente ottenuto il riarmo europeo che porta doppi benefici di bilancio e di business essendo l’industria militare americana fornitore del mondo. La Svezia e la Finlandia entreranno probabilmente nella NATO e questo è strategico anche per il prossimo conflitto dell’Artico. La Russia al momento ha indubbiamente un profilo ammaccato quanto a grande potenza, gli ucraini avranno nuovi sistemi d’arma sempre più efficaci che porteranno al “conflitto congelato”, le sanzioni lavoreranno nei tempi medio-lunghi. Sembra la declinazione di un bilancio di cui ci si potrebbe anche accontentare, al momento. Dopo aver fatto uscire l’imbarazzante spiffero sul coinvolgimento USA nella sistematica eliminazione degli alti gradi militari russi, nell’incertezza di cosa è veramente capitato a Gerasimov, NYT sembra dare voce all’ala frenante delle élite di Washington dopo gli eccessi dei falchi.
Dopo poco meno di tre mesi di conflitto abbiamo capito alcune cose. Che sia una guerra civile pare evidente se si ascoltano i diversi corrispondenti al di qua ed al di là della linea d’ingaggio. Che ci sia stata una invasione illegittima altrettanto. Che l’attore di Kiev sia lo speaker di sceneggiatori occulti, palese. Che in Ucraina gli USA covassero uova da tempo, anche. Che gli europei se ne siano fregati come se la cosa non li riguardasse e non portasse conseguenze, altrettanto. La dichiarazione di Lloyd Austin e molto altro hanno fatto capire l’interesse strategico americano versione hardcore: regredire la Russia a minima potenza, dopo aver pubblicizzato il sogno inconfessabile addirittura del “regime change”, cosa che non si dovrebbe dire in mondovisione. E molti continuano a non citare la vera madre del conflitto evocata ieri da Lavrov: la fine del mondo unipolare in cui i russi si sarebbero presi la briga di far da levatrici a quello multipolare.
Nell’ultimo Limes, F. Luk’jnov, Consiglio per la politica estera e difesa russo, ha ridotto in essenza il nuovo regolamento del mondo auspicato da Mosca: pluralismo dei valori al posto dell’universalismo occidentale, equilibrio delle forze come base nei rapporti internazionali, ricorso alle armi quando le dialettiche egoiste non riescono a trovare un punto di mediazione accettabile.
In questi quasi tre mesi, chi ha tentato di mettere i fili in connessione, ipotizzando schemi di comprensione, è stato tacciato di “complessismo”, come fosse un insulto. Consiglieri molti che hanno dato vasta dimostrazione di quanto poco hanno capito di ciò che stava accadendo, ma pensavano invece di averlo ben chiaro, di prendersi una pausa di riflessione. Darsi una revisionata al sistema pensante non sarebbe male invece che costringere la propria percezione del mondo ad entrare a forza, stile Letto di Procuste, nelle nostre “infallibili categorie” che usiamo per comprendere gli eventi. Anzi, più che comprendere, giudicare, c’è una vasta ansia da giudizio anche se non si è capito bene cosa dover giudicare e si è solo in cerca di a chi dar la colpa, senza aver chiaro neanche di cosa. Lo spettacolo dei tanti che s’erano convinti che la struttura del mondo fosse economica, ora come fanciulli smarriti nell’inquietante mondo delle relazioni internazionali, delle strategie, della diplomazia che si sottrae alle luci della ribalta e va intuita, della geopolitica, dovrebbe suggerirci qualcosa? Gli eventi esondano, sarebbe saggio prenderne atto poiché non è uno spettacolo del mondo di cui siamo spettatori, ne va dei nostri futuri. Ed il futuro dovrebbe preoccuparci, cioè invitarci ad occuparcene prima che accada.
Ma se non capiamo cosa sta accadendo, il cambiamento del mondo accadrà comunque, ma senza di noi, vocianti e persi nel nostro immenso non sapere, non capire, quindi non sapere come agire.
E L’EUROPA?
Fotografia a più livelli della condizione europea. Macron, che ha ancora la presidenza europea fino a giugno, si è liberato del silenzio elettorale ed ha presentato diverse novità nel discorso di ieri sul futuro dell’Europa.
Poco tempo fa, segnalai l’uscita di Letta in favore di un allargamento delle convenzioni europee a paesi come la Georgia, l’Ucraina e la Moldova ed i balcanici occidentali, progetto già presentato da Michel poco tempo prima. Attualmente, l’adesione dell’Ucraina all’UE, superata la marmellata idealista buona per le conferenze stampa, dovrebbe fare i conti con procedure che semplicemente durano decenni. Altresì, pur essendoci la volontà espansiva di coinvolgere queste periferie per lo più orientali, non è affatto detto, anzi è certo il contrario, che questi candidati abbiamo semplicemente i requisiti minimi per equipararsi al plotone dei 27. Che fare? Ecco allora l’idea di associarli con uno statuto limitato, meno integrante in senso ampio e profondo, ma idoneo per condividere alcuni interessi.
Uno di questi interessi potrebbe anche essere il dotarsi di territori “friend-shoring”, per usare il nuovo concetto lanciato dalla ex presidente della FED ora Segretario al Tesoro, Janet Yellen. Il re-shoring è il reimportare produzioni ad attività economiche delocalizzate dove condizioni legali e costo del lavoro era più favorevole al tempo della globalizzazione ormai archiviata, per lo più Asia ed in specie Cina. Il nuovo ordine di Washington che vuole ri-bipolarizzare il mondo (democrazie vs autocrazie) chiama ora a separare queste catene del valore visto che gli amici di ieri diventano i nemici di oggi e soprattutto domani. I friend-shoring allora, sono paesi dove permane il vantaggio giuridico, fiscale e normativo (ad esempio le Filippine per gli USA dove stanno per eleggere il figlio di Marcos), ma che rimangono amici ovvero di area contigua il sistema occidentale. Quale miglior occasione allora di andare incontro alla volontà di associazione di queste periferie europee orientali associandole in sistema che dà qualche chiave ma non tutte quelle del mazzo? Tra l’altro, poiché sarebbe cosa da fare ex-novo, salterebbe i complicati processi di tipica burocrazia bruxellese.
Se questa volontà sembra chiara in direzione di quantità del sistema europeo, si nota un altro movimento che si pone il problema della qualità. S’è capito che l’UE è una costruzione tipica da periodo congiunturale scambiato per “fine della storia” quando s’era pensato definitivo ed eterno il dominio della filosofia del mercato come ordinatore. Qualche vincolo, qualche regola, il resto lo avrebbe fatto il mercato, questa è l’essenza del progetto unionista. S’è però scoperto col tempo che: a) la storia non era finita; b) c’erano masse migratorie ai bordi meridionali del sub-continente da trattare in qualche modo; c) il mercato di per sé non aveva affatto assorbito ed aiutato a superare i postumi della crisi del 2008-9, anzi li aveva resi endemici; d) arrivava una cosa sconosciuta come la “pandemia” a cui il sistema europeo semplicemente non ha risposto se non facendo pasticci contrattuali nell’acquisto dei vaccini e senza null’altro in termini di politica sanitaria; e) si sono firmati comuni impegni di grande onore in termini di politiche climatiche, ma poi nulla è conseguito come sempre accade quando una unione di principio economico deve trattare problemi di altra natura; f) infine, è poi arrivata addirittura la guerra imponendo logica geopolitica che non è quella economica.
La guerra ha posto molteplici domande come la consistenza militare europea, la sua stessa assurda disorganizzazione in termini di presunta “unione”, la condizione di totale subordinazione a gli USA, le varie asimmetrie di politica energetica (nonché la totale assurdità di egoismi nazionali tipo norvegesi ed olandesi sul price cap sulle materie prime fossili il cui prezzo è fuori logica e controllo e tra l’altro ben prima della guerra che sull’argomento c’entra poco o nulla), la varietà di interessi da una parte e repulsioni nei confronti della Russia dall’altra. Insomma, l’Unione ad una dimensione è un soggetto cieco, sordo, muto e sostanzialmente paralizzato quando la complessità del mondo pone domande non previste dal copione della misera filosofia del mercato. Che fare, anche qui?
Ecco allora che Draghi lancia l’idea di rivedere i trattati, trenta anni dopo Maastricht ci starebbe pure come logica. L’idea è quella di rivedere la regola dell’unanimità di voto. Si ricordi che Maastricht venne convenuto tra soli 12 paesi di cui uno, il Regno Unito, s’è poi dissociato. Con la logica “più siamo più ci divertiamo” tipica di chi vuole fare commerci ed affari, da 12 siamo passati a 28, poi 27 anche sotto dettato americano che voleva si riassorbissero gli ex Patto di Varsavia (e conseguente allargamento NATO). Così ieri Marcon, liberato dalla sospensione elettorale, ha fatto sentire la sua voce: dobbiamo snellire i processi decisionali rompendo il vincolo di unanimità in favore di quello di maggioranza. Maggioranza semplice o qualificata? Con obbligo di sottomettersi da parte dei perdenti e come semplice ratifica di chi ci sta e chi non ci sta a fare x o y, secondo logica di equilibri e maggioranze variabili per progetti ad hoc? Che ne vien fuori e cosa ne facciamo allora del concetto di “unione” che diventerebbe spazio comune di possibilità per diverse unioni? Non si sa ancora, ovvio, se ne discuterà.
In chiusura, segnalo che sempre Macron ha espresso una più chiara volontà o forse solo una convinta speranza, di portare la faccenda ucraina ad una chiusura a breve. Da più parti in Europa si comincia a manifestare una opinione di élite (qui da noi De Benedetti, Delrio, lo stesso Letta sembra essersi tolto l’elmetto, oggi Nelli Feroci) sul fatto che gli interessi europei ed americani non coincidono del tutto, soprattutto sui tempi. Chissà se va in questa direzione il discorso dimesso, contenuto ed altrettanto diplomatico di Putin alla parata del 9 maggio in cui gli anglosassoni avevano ardentemente sperato di sentirgli pronunciare la dichiarazione di guerra. Putin ha continuato invece a circoscrivere il conflitto. Oggi Draghi va da Biden e chissà se tra un sorrisone ed una pacca sulla spalla, non porterà avanti la linea sicuramente concordata con Macron e forse Scholz per cui prima o poi si dovrà pur far la pace. “Onorevole per tutti” ha specificato Macron il quale, come notato ieri da Caracciolo, pare faccia lunghe telefonate quotidiane con Putin alla ricerca di una exit strategy.
A questo punto, abbiamo scandinavi ed europei dell’est allineati agli USA che vorrebbero chiudere la partita bellica il più tardi possibile (e non a caso Svezia, Finlandia, Danimarca, i tre baltici, Polonia, Cechia, Romania, Bulgaria, Croazia e Slovenia, Malta, si sono già dichiarate fortemente contrarie anche all’ipotesi di cambio dei trattati e delle regole di voto), ed europei dell’ovest che vorrebbero chiudere la partita ucraina il prima possibile, come forse Putin stesso. Zelensky sa che le armi per raggiungere le migliori posizioni negoziali vengono dagli USA ed UK, ma sa anche che i soldi per la ricostruzione (su cui insiste molto, di recente) e la stessa apertura al club UE dipendono dagli europei dell’ovest.
Da notare la profonda crisi ontologica tedesca. Perde il North Stream, armi sì armi no, sfiora l’incidente diplomatico con Kiev, divergenze di coalizione, reinventarsi un futuro visto che la nazione disarmata dedita alla globalizzazione non è più sostenibile (e del business con la Cina che si fa?), per ruolo al fianco della Francia ma con tutta la sua rete storica di contatto dall’altra parte (scandinavi ed europei dell’est), impossibilitata a rinunciare al gas russo (dopo aver perso enormi porzioni di business), tonfo SPD alle recenti elezioni Schleswig-Holstein, Scholz pare abbia perso 12 punti di consenso da quando è stato eletto, i tedeschi stessi paiono tripartiti in fette simili tra chi pensa che rispetto alla crisi Ucraina va bene cosa è stato fatto, bisognava fare di più, bisognava fare di meno ed tener più conto degli interessi verso la Russia (sondaggio Ard), il futuro economico prima certezza assoluta e perno della religione tedesca è diventato improvvisamente nuvoloso.
Germania spaccata, Europa spaccata, Occidente divergente (e qualche segnale di perplessità anche negli USA che quanto a “spaccature” non è secondo a nessuno, con la soffiata del NYT probabilmente voluta), Zelensky ne approfitta per giocare su due tavoli ma stando attento a non perdere su entrambi e spaccato anche lui tra oltranzisti e trattativisti, Putin forse spera si rompa il monoblocco occidentale ma chissà in quali tempi, tutto molto aggrovigliato, ma anche dinamico.

Il nazismo, figlio legittimo dell’imperialismo occidentale, di Andrea Zhok

Oggi in Russia e in molti altri paesi viene celebrata la commemorazione “Бессмертный полк” (Reggimento Immortale), rievocazione e festeggiamento della vittoria nella “Grande Guerra Patriottica” (così chiamano i russi il conflitto contro i nazisti nella seconda guerra mondiale tra il 1941 e il 1945).
Il 9 maggio 1945 è infatti la data della firma della resa tedesca (il “giorno della Vittoria”).
Questa, come tutte le celebrazioni, ha anche una funzione politica e propagandistica, e non c’è dubbio che il governo russo ne faccia uso “pro domo sua”.
Tuttavia, diversamente da altre, questa celebrazione è cresciuta di seguito popolare in Russia e in molti paesi dell’ex Unione Sovietica negli ultimi anni.
Ciò che sta avvenendo, e che l’attuale situazione in Ucraina alimenta in modo cospicuo, è una sovrapposizione – storicamente discutibile, ma emozionalmente potente – tra l’opposizione russa all’imperialismo nazista e la resistenza russa all’imperialismo occidentale (cioè americano).
Tutti sappiamo che a partire dal 1948 l’irrigidimento della divisione in blocchi e l’avvio della guerra fredda – unita ad una certa inclinazione alla paranoia da parte di Stalin – condusse all’istituzione di uno stato di polizia nei paesi del patto di Varsavia.
Tuttavia questo triste esito è indipendente dal valore simbolico della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che è rimasto potente e persino crescente, essendo qualcosa che per i russi, ma non solo per essi, va al di là del semplice patriottismo e assume un significato idealtipico.
Per capire questo punto non bisogna dimenticare che il nazismo è un movimento storico fortemente caratterizzato da due tratti distintamente occidentali: esso fu Imperialistico e fu Efficientistico.
Il nazismo si intese come movimento storico della costituzione di un Impero (Reich), un impero che non si poneva limiti territoriali di sorta. Ma il nazismo fu anche il primo grande movimento storico a mettere senza remore al centro della propria concezione non una strutturata visione del mondo, religiosa o civica (ideologicamente il nazismo è un guazzabuglio incoerente, privo di elaborazione e di radici) ma l’OTTIMIZZAZIONE dei processi.
Tale ottimizzazione è visibile tanto nella micidiale efficienza degli eserciti nazisti quanto nei processi di sfruttamento dei “sottouomini”, di cui, dopo averli sfruttati fino alla morte come manodopera, non si buttava letteralmente via niente.
Il nazismo, per quanto ciò possa disturbare, è un’incarnazione esemplare della volontà di potenza occidentale, dell’amore per l’estensione della potenza in quanto potenza, dell’efficienza in quanto efficienza, e dell’inebriarsi per tutto ciò.
E’ certo che nell’Occidente, nella sua storia e tradizione c’è infinitamente di più, ma è anche certo che l’imperialismo degli ultimi due secoli, partito alla conquista del mondo prima con la “diplomazia delle cannoniere” britannica e poi con la “diplomazia dei bombardieri” americana, ha sottomesso con la forza – militare ed economica – gran parte del mondo.
Per il mondo non occidentale, dunque, l’Occidente è percepito innanzitutto come forza, forza tecnologica ed efficientistica, volta alla conquista, all’espansione e allo sfruttamento.
So che può essere doloroso per un cittadino occidentale pensarlo, so che preferiremmo credere di aver persuaso cinesi e giapponesi e indiani con la brillantezza della nostra cultura e la profondità delle nostre argomentazioni, ma purtroppo la triste verità è che di cultura, profondità ed argomentazioni ne avevano tanta anche gli altri, mentre ciò che abbiamo usato senza particolari scrupoli – ma con secchiate di ipocrisia ad uso interno – è stata la tecnologia bellica e finanziaria.
Così, per quanto noi possiamo pensare noi stessi come toto coelo altra cosa dall’orrore nazista, per chi ci guarda da fuori il nazismo non può che apparire come un nostro tipico e coerente frutto.
L’unico aspetto su cui il nazismo è stato difettivo (e ciò gli è costato la sconfitta) è stato nel limitare il proprio efficientismo e il proprio razionalismo bellico di fronte al proprio viscerale razzismo.
E’ il razzismo che ha impedito alla Germania nazista la vittoria, perché trattare gli ebrei e gli slavi come sottouomini gli ha sottratto da un lato una bella fetta dell’expertise tecnologica (fuga dell’intellighentsia ebraica) e dall’altro ha dichiarato a (quasi) tutti i popoli del fronte orientale che il loro era un destino in catene, suscitandone la resistenza.
E’ importante vedere che ciò che è davvero mostruoso nel nazismo non è il suo razzismo (naturalmente pessimo), ma l’idea che tutto ciò che non è superiore può ed anzi DEVE diventare mero materiale sfruttabile per chi è alla sommità della catena alimentare. L’orrore non è pensare che un certo vivente sia inferiore, ma pensare che ciò che pensiamo inferiore (un “sottouomo”, un capo di bestiame, una foresta vergine) diventi perciò mera cosa, macellabile e bruciabile serialmente.
Ma nei suoi punti più spaventosi, perché vincenti, il Nazismo è percepibile in perfetta continuità con la storia occidentale degli ultimi due secoli, e come tale è visto o può essere visto al di fuori del mondo occidentale.
Per questo motivo esiste un significato simbolico profondo che andrebbe colto in un festeggiamento come quello odierno.
Per un occidentale esso potrebbe essere visto come una vittoria su una tentazione demoniaca – l’imperialismo tecnarchico – insita nella propria storia. Ma non è facile vederlo così perché quella tentazione demoniaca, lungi dall’essere state superata una volta per tutte, è in crescita da almeno una trentina d’anni e recentemente si sta mostrando virulenta come non mai.
Al di fuori dello sguardo occidentale e della sua propaganda autopromozionale il nazismo può essere facilmente visto come un volto appena dissimulato, e pronto ad emergere in ogni momento, dell’Occidente stesso.
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