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Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche_di Alberto Cossu

Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche – Where Is Geopolitics Going: Fragmentation, Technology, and New Strategic Areas

Autore: Alberto Cossu – 10/11/2025

Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche – Where Is Geopolitics Going: Fragmentation, Technology, and New Strategic Areas

Alberto CossuSocietà Italiana di Geopolitica

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Abstract – Il documento esplora la trasformazione in atto della geopolitica globale nell’era post-globalizzazione. Attingendo alla recente letteratura accademica e politica (2024-2025), identifica tre dinamiche interconnesse che plasmano l’ordine internazionale: la frammentazione economica e finanziaria, l’emergere della tecnologia come dominio geopolitico e la centralità strategica di regioni come l’Artico e l’Indo-Pacifico. Lo studio sostiene che il mondo non si sta semplicemente spostando verso la multipolarità, ma verso un sistema “fratturato” di blocchi paralleli e spesso in competizione tra loro. La tecnologia – in particolare l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e la governance dei dati – è diventata un campo di battaglia chiave nella competizione per il potere. Allo stesso tempo, le architetture finanziarie e i regimi di sovranità dei dati stanno ridefinendo i concetti di interdipendenza e sicurezza. Il risultato è uno scenario complesso in cui la sovranità, un tempo legata al controllo territoriale, si estende ora alle infrastrutture digitali, tecnologiche e finanziarie. Il documento conclude che la frammentazione non è un’anomalia temporanea, ma la nuova normalità della geopolitica del XXI secolo, che richiede nuovi quadri analitici per comprendere una competizione per il potere sempre più multidimensionale.

Abstract – The paper  explores the ongoing transformation of global geopolitics in the post-globalization era. Drawing on recent academic and policy literature (2024–2025), it identifies three interrelated dynamics shaping the international order: economic and financial fragmentation, the emergence of technology as a geopolitical domain, and the strategic centrality of regions such as the Arctic and the Indo-Pacific. The study argues that the world is shifting not merely toward multipolarity but toward a “fractured” system of parallel and often competing blocs. Technology—particularly artificial intelligence, semiconductors, and data governance—has become a key battlefield of power competition. At the same time, financial architectures and data sovereignty regimes are redefining the concepts of interdependence and security. The result is a complex scenario where sovereignty, once tied to territorial control, now extends to digital, technological, and financial infrastructures. The paper concludes that fragmentation is not a temporary anomaly but the new normal of 21st-century geopolitics, requiring new analytical frameworks to understand an increasingly multidimensional competition for power.

Keywords: geopolitics, fragmentation, technology, artificial intelligence, financial networks, data sovereignty, Indo-Pacific, Arctic, multipolarity, global order.

Introduzione

La geopolitica, intesa come studio delle interazioni tra potere, spazio e risorse, sta vivendo una fase di profonda trasformazione. Se nel decennio successivo alla Guerra Fredda il dibattito si è spesso concentrato sulla globalizzazione e sull’illusione di un ordine liberale universale, gli sviluppi più recenti indicano invece una traiettoria di crescente frammentazione. Gli studi pubblicati tra il 2024 e il 2025, provenienti tanto dal mondo accademico quanto dai think tank e dalle riviste specialistiche, convergono nel delineare un quadro globale segnato da tre dinamiche interconnesse: la rottura delle catene economiche e finanziarie globali, l’emergere della tecnologia come dominio geopolitico e la crescente rilevanza di nuove aree strategiche come l’Artico e l’Indo-Pacifico.

1. Frammentazione e nuovi blocchi globali

Uno dei concetti più ricorrenti negli studi del 2025 è quello di fracturing, sviluppato da Neil Shearing nel volume The Fractured Age¹. L’autore sostiene che l’economia mondiale non stia semplicemente transitando verso un sistema multipolare, bensì verso un assetto “fratturato”, caratterizzato dalla coesistenza di blocchi paralleli e spesso antagonisti.

Questa tendenza è confermata da analisi provenienti dal Geopolitics Centre di JPMorgan², secondo cui le tariffe introdotte dagli Stati Uniti nei settori critici – semiconduttori, difesa, telecomunicazioni – non rappresentano misure temporanee legate a cicli elettorali, ma strumenti strutturali destinati a perdurare. Ciò implica che il protezionismo e la sicurezza economica siano ormai parte integrante della politica estera, con ricadute significative sulla configurazione delle catene del valore globali.

In sintesi, la letteratura recente sottolinea come il concetto di “globalizzazione” si stia rapidamente trasformando: non più un unico mercato integrato, bensì una serie di ecosistemi regionali parzialmente interconnessi e in competizione tra loro.

2. Tecnologia come dominio geopolitico

Un secondo filone centrale degli studi più recenti riguarda il ruolo della tecnologia come nuovo terreno di conflitto geopolitico. Il Time ha definito l’intelligenza artificiale il “nuovo petrolio geopolitico”³, richiamando l’idea che il controllo delle infrastrutture tecnologiche – dai semiconduttori al cloud, fino ai modelli di intelligenza artificiale – determinerà i futuri equilibri di potere.

Tra gli studi accademici, merita particolare attenzione il lavoro di Toushik Wasi e colleghi, Generative AI and Geopolitics in Industry 5.0⁴, che interpreta l’intelligenza artificiale generativa come un asset strategico cruciale. Secondo gli autori, la competizione non si gioca solo sulla capacità di produrre tecnologie avanzate, ma anche sulla governance e sul grado di accesso consentito agli attori statali e privati.

In parallelo, William Guey e collaboratori hanno condotto uno studio empirico sul bias geopolitico nei modelli linguistici di ultima generazione⁵. Analizzando undici LLM, gli autori hanno dimostrato che la lingua, la narrativa e il framing delle domande influenzano la “posizione” geopolitica delle risposte, con inclinazioni pro-USA o pro-Cina. Questo dato apre scenari significativi sul piano del soft power tecnologico: gli strumenti digitali non sono neutrali, ma incorporano visioni del mondo che possono influenzare opinioni e decisioni politiche a livello globale.

Gli studi convergono dunque nell’evidenziare come la tecnologia non sia soltanto uno strumento economico, ma un campo di battaglia geopolitico a tutti gli effetti.

3. Geopolitica finanziaria

Un terzo ambito di particolare attenzione è quello della finanza internazionale. Antonis Ballis, nel paper Geopolitical Tensions and Financial Networks (2025), analizza l’evoluzione dei sistemi di pagamento globali in un contesto di crescente polarizzazione⁶. L’uso di SWIFT come strumento di pressione contro la Russia a seguito della guerra in Ucraina ha accelerato la ricerca di alternative, in primis il sistema cinese CIPS e le valute digitali di banca centrale (CBDC).

Secondo Ballis, la nascita di architetture finanziarie parallele rischia di indebolire la coerenza del sistema globale, aumentando l’incertezza e i rischi sistemici. L’ipotesi di una “guerra fredda finanziaria” non appare dunque lontana: le reti di pagamento e le valute diventano strumenti di potere non meno importanti delle basi militari o dei corridoi marittimi.

Questo filone di studi evidenzia come la geopolitica contemporanea non si giochi più solo nello spazio fisico, ma anche in quello invisibile delle transazioni e degli algoritmi finanziari.

4. Nuove aree strategiche: Artico e Indo-Pacifico

Parallelamente ai domini economici e tecnologici, la letteratura recente segnala la crescente rilevanza di aree geografiche specifiche. L’Artico, in particolare, è descritto dal Times come il nuovo “Grande Gioco”⁷. Lo scioglimento dei ghiacci apre rotte commerciali e nuove possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche, stimolando una competizione che vede protagoniste Russia e Cina.

Un discorso analogo riguarda l’Indo-Pacifico. Il Centre for Strategic and International Studies (CSIS) ha recentemente proposto una ristrutturazione del partenariato AUKUS⁸, in particolare del cosiddetto Pillar II, che riguarda la cooperazione in ambito tecnologico e difensivo. L’accento posto su sistemi autonomi, difesa a lungo raggio e intelligenza artificiale indica una chiara volontà di rafforzare la deterrenza nei confronti della Cina. Ciò conferma che la regione indo-pacifica rimane l’epicentro delle tensioni strategiche del XXI secolo, dove convergono interessi militari, commerciali e tecnologici.

5. Sovranità dei dati e governance digitale

Un ultimo filone emergente è quello relativo alla sovranità digitale. Secondo analisi pubblicate da Techradar (2025), la geopolitica sta imponendo ai governi un ripensamento radicale delle politiche di gestione dei dati⁹. L’idea di data sovereignty implica che i dati prodotti all’interno di un territorio debbano essere soggetti a regole nazionali, anziché a standard globali uniformi.

Questo approccio, già visibile nell’Unione Europea attraverso il cosiddetto “effetto Bruxelles”, si traduce in una crescente frammentazione normativa. Il rischio è quello di una “balcanizzazione del cyberspazio”, in cui Internet non rappresenta più uno spazio universale, ma una costellazione di ecosistemi normativi nazionali e regionali. Ciò solleva questioni cruciali sulla compatibilità tra innovazione tecnologica, libertà individuali e strategie di sicurezza.

6.Trends emergenti

Dall’analisi delle ricerche più recenti emergono quattro pattern principali:

  1. Dal multipolare al frammentato: il sistema internazionale non si limita a moltiplicare i poli di potere, ma si struttura in blocchi paralleli, ciascuno con proprie regole, infrastrutture e reti.
  2. Tecnologia come campo di battaglia: IA, semiconduttori, cloud e sistemi digitali rappresentano oggi armi strategiche tanto quanto gli armamenti convenzionali.
  3. Regionalizzazione della sicurezza: l’Artico e l’Indo-Pacifico assumono un ruolo cruciale, insieme al cyberspazio, come nuove frontiere della competizione geopolitica.
  4. Sicurezza come sovranità: che si tratti di dati, catene di approvvigionamento o architetture finanziarie, gli Stati tendono a riaffermare il controllo nazionale o regionale, riducendo la dipendenza da reti globali.

Conclusione

Gli studi più recenti in geopolitica confermano che il mondo sta vivendo una fase di transizione complessa, caratterizzata da un passaggio dall’interdipendenza alla frammentazione. Lungi dal rappresentare una fase temporanea, tale processo sembra destinato a plasmare l’ordine globale dei prossimi decenni.

Per gli studiosi e i decisori politici, ciò implica la necessità di sviluppare nuovi strumenti analitici capaci di comprendere sistemi paralleli, reti tecnologiche non neutrali e forme inedite di sovranità. La geopolitica del XXI secolo non si limita più alla geografia fisica: essa abbraccia la finanza, la tecnologia e il cyberspazio, configurando un terreno di competizione multiforme e in rapida evoluzione.

In questo scenario, l’elemento comune rimane la centralità del potere: chi controlla le infrastrutture materiali e immateriali, le regole di accesso e i flussi di dati e capitali, determinerà i futuri equilibri globali. La sfida per il pensiero geopolitico è dunque quella di adattarsi a una realtà in cui la frammentazione non è un’anomalia, ma la nuova normalità.

Bibliografia

  1. Neil Shearing, The Fractured Age. London: Times Books, 2025.
  2. Reuters, “Tariffs on Crucial Sectors Could Last Beyond Trump Era, Says JPMorgan’s Geopolitics Centre,” 6 agosto 2025.
  3. Charlotte Alter, “The Politics, and Geopolitics, of Artificial Intelligence,” Time Magazine, luglio 2025.
  4. Toushik Wasi et al., “Generative AI as a Geopolitical Factor in Industry 5.0,” arXiv preprint, agosto 2025.
  5. William Guey et al., “Mapping Geopolitical Bias in 11 Large Language Models,” arXiv preprint, marzo 2025.
  6. Antonis Ballis, “Geopolitical Tensions and Financial Networks,” arXiv preprint, maggio 2025.
  7. Michael Evans, “UK Must Be a Player in the Arctic ‘Great Game’,” The Times, luglio 2025.
  8. Centre for Strategic and International Studies (CSIS), “Overhauling AUKUS: Push to Streamline Pillar II,” The Australian, agosto 2025.
  9. Joel Khalili, “Geopolitics Is Forcing the Data Sovereignty Issue—and It Might Just Be a Good Thing,” Techradar Pro, agosto 2025.

La metafisica dell’economia_di Spenglarian Perspective

La metafisica dell’economia

spenglarian perspective13 novembre
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Sebbene abbiamo concluso con la politica, c’è un tema ricorrente che attraversa il Tramonto dell’Occidente come elemento fondamentale della cultura e della civiltà tarda, e che Spengler lascia proprio alla fine del volume 2. I suoi scritti di economia sono divisi in due parti. La prima riguarda la fisionomia dell’economia e la sua morfologia nel corso della storia, mentre la seconda è una sintesi estremamente sintetica delle tecniche e del concetto di macchina. Analizzeremo entrambe le sezioni, sezione per sezione.

L’economia, così come la intendiamo oggi, è un’idea specificamente occidentale e non universale per l’umanità. Questo può essere interpretato in due modi. Il primo è che l’idea di economia è stata in gran parte sviluppata dagli inglesi: Adam Smith, David Hume, Maynard Keynes e Thomas Malthus. Nell’Ottocento, la Rivoluzione Industriale si concentrò in Inghilterra e il successo del progetto rese la Gran Bretagna l’impero più potente della storia fino a quel momento. Dalla metà del secolo in poi, uomini come Karl Marx cercarono di opporsi all’economia inglese con i propri modelli e teorie. Ma l’opposizione al capitalismo inglese servì solo a rafforzarne la presenza. Il secondo è che ciò che contava per l’economia ai tempi di Hume non contava per l’economia ai tempi di Spengler, o di Keynes, o ai nostri. L’economia dei tempi di Spengler viene descritta come ” [partendo] dalla Materia e dalle sue condizioni, bisogni e motivazioni, invece che dall’Anima “, ” [considerando] la vita economica come qualcosa di cui si può dare conto senza residui “.Supponiamo che esista una storia dell’economia indipendente dalla religione e dalla politica, cosa con cui Spengler potrebbe non essere d’accordo. In tal caso, si deve supporre che si trovi anch’essa in una certa fase di sviluppo, sia quella di una complessità progressiva o di un’attualizzazione di una cultura elevata e distinta.

L’economia di cui ci occupiamo è l’economia sistematica di mille libri, dissertazioni e scuole di pensiero, e di conseguenza non riusciamo a vederla per quello che è veramente. La conseguenza è che, quando la teoria viene applicata nella realtà, crolla. Un ottimo esempio di ciò è l’ascesa del fascismo in Italia. Gli intellettuali comunisti, nei quarant’anni successivi alla Marcia su Roma, lo identificarono in una forma o nell’altra come un capitalismo in decadenza, un’idea che sostengono ancora oggi, ignorando la realtà politica. Potremmo simpatizzare con loro nel dire che non si può fare nulla a stomaco vuoto, ma come dimostra Spengler, la fame non è l’alfa e l’omega della storia.

Se la vita fosse una moneta, politica ed economia ne sarebbero le due facce. La prima è la ricerca della vittoria sui propri nemici, la sopravvivenza contro le minacce e la promulgazione del proprio flusso di esistenza, mantenuto in famiglie, tenute, nazioni e stati, al di sopra di tutti gli altri. La politica è ” considerata dagli altri “, ma l’economia è ” considerata da sé “. La vita politica eleva gli ideali al di sopra delle vite dei singoli uomini e milioni di persone si sacrificano per questi nobili obiettivi; un uomo che muore in guerra è nobile ed eroico e viene ricordato e onorato come tale. La vita economica si concentra sul nutrimento di quel flusso di esistenza, che si tratti di sfamare un singolo uomo o di gestire efficacemente le risorse di uno stato o di un esercito, ma quando i tempi si fanno duri, si verifica una recessione e ne consegue la carestia, il sistema è esaurito e rischia di sgretolarsi, perché al fondo della vita economica c’è il singolo uomo che diventa sempre più ansioso della propria fame. Il pensiero di morire a causa di essa è sufficiente ad abbandonare qualsiasi movimento più ampio. ” La guerra è la creatrice, la fame la distruttrice, di tutte le grandi cose “.

Detto questo, la politica è la vita più importante per Spengler. Forse la famiglia muore di fame senza cibo, ma l’idea di famiglia ne giustifica il nutrimento. Nel mondo moderno, abbiamo la nozione materialistica che dobbiamo costruire verso l’autorealizzazione partendo dal basso. La piramide dei bisogni di Maslow lo illustra ponendo i bisogni fisiologici e di sicurezza alla base della sua piramide, mentre l’autorealizzazione, la stima e l’appartenenza sono le conseguenze della sicurezza alla base. Spengler afferma più o meno il contrario. Un uomo senza desiderio di autorealizzazione, che non ha stima, né amore, né appartenenza, semplicemente non ha il senso della sua vita per nutrirla con cibo, riparo e sicurezza. Pertanto, è per la politica che emerge l’economia. Nel primo periodo, non c’era separazione, in quanto la seconda era subordinata alla prima. Nel tardo periodo, la seconda si stacca dalla prima come uno stato indipendente, il terzo stato. Nel periodo della civiltà, ogni uomo ora cerca di soddisfare la sua fame e solo la sua fame. La complessa economia della cosmopoli gli garantisce di poterlo fare in sicurezza, ma a costo del lento degrado della società dovuto a interessi egoistici, che culmina nel ritorno alla politica privata, mentre un pugno di uomini egoisti ascende a un potere monetario insondabile. Ciò che rimane è il contadino e la sua famiglia, che mangiano per continuare a vivere con la generazione successiva.

In tutte le teorie politiche ed economiche, l’elemento vivente viene ucciso e trasformato in un sistema di relazioni causali. In economia esiste una scienza, una matematica, una logica, una filosofia, ma raramente la religione entra in gioco. La religione rifiuta categoricamente l’economia come peccaminosa. La identifica correttamente come egoista, guidata da impulsi, e la rinuncia come fa con la politica come qualcosa di vile. Gli studi laici hanno origine dalla religione, ma se ne sono separati per non riconoscere questa contraddizione nel legare una forza vitale a sistemi morti; pertanto, ogni “teoria” economica ammette timidamente un nucleo di politica, per quanto piccolo, che fornisce il significato al sistema per giustificare i suoi studi, e questo elemento vivente è la fonte di tutte le vere regole eterne, non i libri, le dissertazioni e le scuole di pensiero. Non è diverso nello studio di tutte le altre cose.

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All’interno della fabbrica di salsicce_di Aurélien

All’interno della fabbrica di salsicce.

Il Tao che può essere nominato non è il vero Tao.

Aurélien12 novembre
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**************************************

La settimana scorsa ho fatto un commento di sfuggita sulla natura dilettantesca e disorganizzata della campagna internazionale per cercare di porre fine al massacro di Gaza, paragonandola a quella che potrebbe essere una campagna organizzata con competenza. Con mia lieve sorpresa – poiché pensavo di affermare una verità ovvia – questo ha infastidito alcune persone, qui e su altri siti. Ma poi ho riflettuto sul fatto che l’episodio in realtà illustra un problema più ampio e fondamentale, ovvero la differenza tra la realtà di come viene effettivamente prodotta la salsiccia politica e le supposizioni e le aspettative di coloro che cercano di capire o addirittura influenzare le cose dall’esterno della fabbrica. Quindi ho pensato che questo potesse essere un buon momento per indossare i nostri dispositivi di protezione e le nostre mascherine, e avventurarci all’interno della fabbrica per vedere come vengono generalmente fatte le cose.

È ovvio che in alcune circostanze gli esterni possono influenzare, e lo fanno, il modo in cui si prepara la salsiccia politica, ma la prima cosa da capire è che questa influenza non deriva necessariamente dalla forza delle argomentazioni, né tantomeno dall’intensità con cui gli esterni sostengono le proprie opinioni. Nella mia esperienza, tanto con le cause che simpatizzo quanto con quelle che disapprovo, questo è il più grande ostacolo intellettuale che si trovano ad affrontare i sostenitori esterni con forti convinzioni morali. Più fortemente sostengono queste convinzioni, più è difficile per loro immaginare che ci siano altri che sinceramente non le condividono, e forse hanno opinioni opposte altrettanto forti delle loro: è fatalmente facile immaginare che il solo fervore morale possa trascinare tutti. Ho incontrato diversi esponenti di ONG che sembrano sinceramente perplessi dal fatto che quando danno istruzioni al loro governo su come comportarsi, dalla loro presunta posizione di superiorità morale, il governo non obbedisca immediatamente. Ma non è così che si preparano le salsicce, né (per usare forse una metafora più precisa) il modo in cui vengono scelti gli ingredienti.

Il primo e più importante criterio per influenzare con successo la ricetta è la competenza: né il denaro né la fanfaronata politica di per sé possono sostituirla. E un gruppo di persone fuori da un centro commerciale che sventola bandiere palestinesi e canta “Palestina libera, qualunque cosa significhi esattamente”, non mi sembra molto competente o efficace se lo scopo è aiutare la popolazione di Gaza. Se lo scopo è sentirsi bene con se stessi e partecipare simbolicamente alle sofferenze di Gaza, ovviamente, la questione è diversa. Ma in realtà esistono esempi di campagne politiche esterne ben pianificate e coordinate, che hanno avuto un effetto misurabile sullo sviluppo di alcune crisi internazionali. Diamo un’occhiata a un paio di esempi classici.

Nel 1992, dopo lo scoppio dei combattimenti in Bosnia, il governo musulmano di Sarajevo, generosamente finanziato dagli Stati del Golfo, si rivolse alle agenzie di pubbliche relazioni statunitensi per cercare di promuovere quello che era sempre stato il suo obiettivo principale: far entrare gli Stati Uniti in guerra dalla loro parte. Sebbene non ci riuscirono del tutto, influenzarono notevolmente i media statunitensi e le ONG vicine alla campagna di Clinton, e questo a sua volta ebbe una grande influenza sulla politica statunitense sotto Clinton. Identificando il loro pubblico principale (i media, le ONG e gli studenti universitari), si misero alla ricerca di quali storie di atrocità avrebbero maggiormente mobilitato quel pubblico. Quella che ancora oggi si pensa sia la realtà della guerra in Bosnia (genocidio, stupri di massa, ecc.) si basava su storie costruite, propinate e acriticamente diffuse da media statunitensi compiacenti e collaborativi. Tutto ciò che serviva erano denaro e organizzazione. Un esempio simile, quindici anni dopo, fu la Darfur Solidarity Campaign, il cui unico obiettivo era convincere il governo statunitense a intervenire militarmente in Darfur. Lautamente finanziato e con sedi distaccate in tutte le principali università degli Stati Uniti, l’unica caratteristica discutibile ( sottolineata da Mahmood Mamdani, sì, il padre di Zoran) era che letteralmente nessuno dei fondi era destinato ad aiutare i Fur: tutto era speso per fare lobbying negli Stati Uniti. E naturalmente, in entrambi i casi, il rapporto con la realtà della situazione sul campo era, diciamo, ambiguo.

Ho avuto questo tipo di conversazione diverse volte con la comunità che ha a cuore queste questioni, e il risultato è sempre lo stesso. “Se vuoi avere successo, hai bisogno di organizzazione, disciplina e la volontà di assestare qualche colpo illegale.” “Ma moralmente siamo nel giusto. Non ci abbassiamo a queste tattiche.” “Beh, allora lo farà l’altra parte. Quanto seriamente vuoi vincere?” Alla fine, la risposta tende a essere “non molto”, nella misura in cui vincere implica quasi sempre compromessi morali. Non voglio essere ingiustamente critico nei confronti delle ONG e di gruppi simili, dato che dopotutto abbiamo a che fare con una componente fondamentale della natura umana, ma è vero che, rispetto a lavorare per un governo, per non parlare di un’agenzia di pubbliche relazioni, è più probabile che tu voglia avere una buona opinione di te stesso se lavori per una ONG umanitaria o per un gruppo di pressione politico. In effetti, più ancora dei governi, queste organizzazioni tendono a lasciarsi attrarre da campagne e attività puramente performative che sembrano buone e, a differenza dei governi, trovano difficile mantenere un distacco scettico.

A questo proposito, ricordo una conversazione con un’operatrice di una grande ONG umanitaria di molti anni fa, in cui discutevamo della proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro in Africa, per lo più residui di massicce forniture sovietiche e cinesi durante la Guerra Fredda. Concordai sul fatto che fosse un problema: ne avevo visto alcuni effetti sul campo. Beh, disse, è un problema troppo grande e non possiamo farci niente. Ma possiamo invece fare una campagna per porre fine alle esportazioni di armi dal Regno Unito. Sapeva qual era il mercato più grande per le attrezzature di difesa del Regno Unito, chiesi? No. Beh, era, e credo lo sia ancora, gli Stati Uniti. Ma non è questo il punto: il punto è trovare un sostituto magico e simbolico al problema che non può essere risolto, e organizzare una campagna performativa attorno ad esso. C’è una stretta analogia con la Convenzione di Ottawa del 1997 per la messa al bando delle mine terrestri. A quei tempi, c’era un numero molto elevato di mine di questo tipo, per lo più in Africa e, ancora una volta, gentilmente donate dall’Unione Sovietica e dalla Cina. Alcune aree erano impraticabili e la vita era difficile e pericolosa per le popolazioni locali, tanto più che esistevano poche, se non nessuna, mappe affidabili. Ciò che serviva era una campagna a lungo termine e ben finanziata per addestrare la popolazione locale alle tecniche di smaltimento sicuro delle mine. Ma si trattava di un’area per tecnici specializzati, e ci sarebbe voluto almeno un decennio di sforzi poco brillanti e pericolosi. Non si può organizzare una campagna di pubbliche relazioni su questo, quindi perché non insistere per vietare la produzione di nuove mine antiuomo? Era facile, perché le mine sono l’arma dei poveri per eccellenza (come l’Afghanistan avrebbe presto dimostrato), quindi gli stati occidentali spinsero con entusiasmo per il Trattato. Problema risolto. E poi, un paio d’anni dopo, iniziarono ad apparire sulla nascente rete Internet storie che lamentavano il fatto che, nonostante il Trattato, in Africa le persone continuavano a essere uccise e ferite dalle mine antiuomo. Cosa pensavano che sarebbe successo, mi chiedevo? Pensavano che il Trattato avrebbe causato la distruzione spontanea delle mine sepolte nel terreno africano, per la vergogna? Dopo tutti questi anni non ne sono ancora sicuro.

Ma supponiamo, per il resto di questo saggio, che le persone abbiano obiettivi genuini per i quali siano sinceramente impegnate e vogliano in qualche modo influenzare il processo di produzione delle salsicce. Ma per farlo bisogna capirlo. La prima cosa da capire è che ciò che si legge o si studia sul governo e sul processo decisionale politico è, nella migliore delle ipotesi, un’astrazione necessaria e, nella peggiore, una favola. Ora, non intendo con questo incoraggiare i resoconti altrettanto fantasiosi di cabale segrete e governi mondiali che sono popolari da secoli, ma piuttosto sostenere, se preferite, che il Tao del governo che può essere descritto non è il vero Tao, e in effetti non potrà mai esserlo. Politologi e giuristi costituzionalisti pubblicano libri e tengono conferenze su strutture e processi formali. Queste strutture e processi esistono davvero, ma esistono a livello di forma, senza riferimento al contenuto. Pertanto, le leggi possono essere descritte come originate dal governo, discusse pubblicamente, presentate in una Camera bassa, discusse, votate, approvate, inviate a una Camera alta, emendate, ritrasmesse, ulteriormente discusse, ripresentate alla Camera alta, approvate, trasmesse a una Corte Costituzionale per la convalida e infine firmate da un Capo di Stato. Bene, ma cosa ci dice questo? Nulla in realtà, se non sui processi e le strutture formali. Non ci dice perché leggi o iniziative vengano introdotte in primo luogo, perché possano essere sostenute o osteggiate, perché i governi diano più o meno importanza a determinate leggi e iniziative, perché e come possano essere modificate o perché possano persino essere ritirate. Né una tale struttura dice nulla sul sistema politico: molto di quanto sopra è applicabile al sistema della vecchia Unione Sovietica, dove il suo Parlamento riusciva occasionalmente a modificare le proposte di legge.

Avrete anche letto della famosa Separazione dei Poteri tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Anche in questo caso, queste istituzioni e funzioni esistono, ma oggigiorno il potere è molto spesso integrato piuttosto che separato. Per cominciare, in quello che è noto come modello di governo Westminster, in cui il partito o la coalizione più grande forma il governo, è proprio perché l’Esecutivo controlla il Parlamento che può costituirsi come Esecutivo. Nella Francia di oggi, dove il sistema è simile ma non identico, l’Esecutivo ha perso il controllo del Parlamento e deve cercare di sopravvivere giorno per giorno. E, a tal proposito, i manuali di Diritto Costituzionale scritti sotto la Quinta Repubblica contengono ora tutta una serie di giudizi convenzionali su come dovrebbe funzionare il sistema che appaiono un po’ traballanti. Si scopre, ad esempio, che i poteri del Presidente sono in gran parte una questione di consuetudine: e che ciò che dice la Costituzione non è molto chiaro, per usare un eufemismo.

Anche in questo caso, il personale dei presunti tre rami del governo, per non parlare della burocrazia locale e nazionale, delle forze di sicurezza e di altri, tende generalmente a conoscersi, proviene più o meno dallo stesso background e può persino essere imparentato per via familiare o matrimoniale. Questa è la nomenklatura di cui ho parlato di recente. E i confini tra i presunti poteri “separati” stanno diventando sempre più permeabili. Un buon esempio è la crescente influenza politica della magistratura, sia nazionale che europea. Gran parte della legislazione che riguarda questioni come i diritti umani viene utilizzata dagli attivisti in modi inaspettati, per affrontare argomenti che all’epoca non erano stati presi in considerazione. I giudici stanno quindi giocando una parte politica nel dire ai Parlamenti quali leggi possono o non possono approvare, basandosi in ultima analisi sulle loro opinioni personali. Questo è particolarmente vero per la Corte europea dei diritti dell’uomo, il cui trattamento sprezzante dei Parlamenti nazionali sta suscitando scalpore in molti paesi, non solo nel Regno Unito, e produce decisioni imprevedibili e spesso incomprensibili. Sembra quindi che i vari reparti della Sausage Factory non funzionino come previsto dall’organigramma e che il Controllo Qualità e il Marketing siano in realtà collegati tra loro.

Quindi, il massimo che si possa fare è raggiungere un livello di comprensione equivalente a quello di una fabbrica di salumi vista dall’esterno. Arrivano camion carichi di maiali morti. Partono camion carichi di salsicce pronte, si vedono lavoratori entrare e uscire, si sa che i maiali vengono allevati e macellati altrove, ed è evidente che le salsicce vengono vendute nei negozi. Occasionalmente, piccoli gruppi di visitatori possono essere ammessi, di solito con qualche tipo di funzione igienica o di salute e sicurezza. In rare occasioni, la fabbrica può essere chiusa in modo inspiegabile. Possono persino essere pubblicati dei resoconti. Ma sulla produzione effettiva delle salsicce, si fa molto per ipotesi, ma si sa poco con certezza. Occasionalmente, compaiono ricette che pretendono di provenire dalla fabbrica e vengono analizzate da giornalisti gastronomici eccitati. Ma per la maggior parte, chi sa non parla, e chi parla non sa.

Il governo è in un certo senso così, con la condizione che il Tao del processo decisionale governativo sia tutt’altro che un processo semplice e lineare. Ma segue una sua logica che abbiamo già discusso più volte: la logica delle forze che agiscono sui corpi, la logica degli attori, degli obiettivi, delle risorse e del relativo successo e fallimento. Nella maggior parte dei casi, questa logica è strutturalmente guidata, il che significa che i meriti dell’argomentazione stessa tendono a essere secondari rispetto alle questioni politiche che la circondano. Un esempio classico è la Brexit, dove in tutte le fasi, dalla decisione di indire un referendum fino agli ultimi momenti dei negoziati, la questione di fondo del valore per la Gran Bretagna dell’essere in Europa ha ricevuto poca o nessuna attenzione da parte del governo. La promessa di indire un referendum è stata un contentino, ironicamente, per la minoranza rumorosa in Gran Bretagna che in realtà nutriva forti sentimenti per l’argomento. Quindi, indire un referendum, vincerlo (come era successo nel 1975, dopotutto) e l’argomento sarebbe scomparso. Ma il governo, disinteressato all’argomento in quanto tale, ha dedicato ben poco impegno alla campagna per il Remain, se non quello di cercare di intimidire e intimidire gli elettori affinché facessero la cosa giusta. L’inevitabile sconfitta avrebbe potuto essere gestita in modo molto diverso se un leader conservatore avesse effettivamente riflettuto sul merito della questione e sugli interessi della nazione, ma non è stato così. David Cameron si è dimesso per evitare di assumersi la responsabilità della sua disastrosa serie di decisioni. A quel punto, qualsiasi governo ragionevole avrebbe riflettuto almeno un po’ sull’interesse nazionale, avrebbe preso tempo e si sarebbe confrontato con i partner europei. Ma Theresa May ha deciso di lanciarsi in una corsa folle verso l’uscita per ragioni strettamente personali e politiche, solo per cadere al penultimo ostacolo ed essere eliminata, soppiantata e sostituita da Boris Johnson, sul quale… no, non posso permettermi di entrare nei dettagli. Dall’inizio alla fine, la priorità assoluta del Partito Conservatore, tutto ciò di cui parlava internamente e l’influenza schiacciante sulle sue scelte negoziali, se così si possono chiamare, era la sua stessa sopravvivenza politica. In effetti, dal punto di vista dell’interesse nazionale, o anche della logica banale, molte delle decisioni prese sono state assolutamente straordinarie.

Si tratta di un’agonia ben nota, che si è consumata in un contesto semi-pubblico, e che ha fornito un esempio sorprendentemente crudo, quasi caricaturale, di come spesso vengono prese le decisioni politiche. Ma le stesse cose accadono quotidianamente, quando questioni essenzialmente procedurali prendono la priorità su qualsiasi questione di principio o persino di fatto. Spesso, le decisioni quotidiane vengono prese a causa di un temporaneo equilibrio di vantaggi politici all’interno o tra i partiti, che potrebbe apparire diverso l’anno successivo. (Lo stesso vale spesso a livello internazionale, come vedremo). E molte decisioni vengono prese per impostazione predefinita o semplicemente si prendono da sole, perché nessuno riesce a trovare l’energia per opporsi in modo organizzato. E in molti altri casi, quando sorgono questioni di principio, sono completamente diverse da quelle utilizzate come difesa pubblica e spesso non hanno alcun collegamento con alcun “dibattito” pubblico.

Un buon esempio di ricetta per salsicce preparata secondo regole mai riconosciute pubblicamente sarebbe la decisione presa negli anni ’80 di sostituire il sistema nucleare Polaris sui sottomarini missilistici nucleari britannici con il Trident. Ne parlerò a titolo di esempio perché ero presente all’epoca, sebbene non direttamente coinvolto. Ora, la dottrina nucleare di qualsiasi potenza nucleare, dichiarata o meno, consiste in gran parte di cose che non si possono dire o su cui non si vuole essere precisi, e la Gran Bretagna non faceva eccezione. Gli inglesi erano stati coinvolti nello sviluppo di armi nucleari fin dall’inizio e si aggrapparono a una capacità nucleare indipendente – a un costo considerevole – come parte del mantenimento dello status di Grande Potenza con la caduta dell’Impero. L’elenco delle ragioni non riconosciute per questa decisione è lungo e non necessariamente coerente internamente. Dopo la ” crisi Skybolt” del 1962, non c’erano altre alternative se non quella di acquistare il sistema statunitense Polaris, e quando giunse il momento della sua sostituzione, la scelta del Trident (a fronte dei costi astronomici e delle incertezze legate allo sviluppo e alla produzione di un missile a livello nazionale) si impose praticamente da sola. Gli inglesi, invece, investirono massicciamente nell’aggiornamento delle loro testate, del sistema di guida e della catena di comando e di fuoco nazionale. Ma perché rimanere una potenza nucleare? Per capirlo, dobbiamo dimenticare la guerra e il tintinnio di sciabole e indossare un altro paio di occhiali.

Innanzitutto, l’inerzia è sempre più facile del cambiamento. Rinunciare alle armi nucleari avrebbe significato retrocedere volontariamente alla Divisione II delle potenze mondiali, insieme a Germania e Canada, e probabilmente cedere il seggio permanente del Regno Unito nel Consiglio di Sicurezza. Avrebbe significato cedere il primato sulle questioni di difesa europea alla Francia e perdere una grande influenza sugli Stati Uniti, oltre a perdere una grande influenza su tutto ciò che riguarda il controllo degli armamenti nucleari, la non proliferazione o i negoziati sul disarmo. E per cosa, esattamente? Sarebbe stato un atto di automutilazione politica.

Naturalmente, c’erano anche molte ragioni positive, alcune contraddittorie, come è nella natura della politica, dopotutto. Gli inglesi si erano trincerati, come da tradizione, in una posizione di discreta ma reale influenza sugli Stati Uniti sulle questioni nucleari, e si erano resi un interlocutore privilegiato: l’unico al di fuori degli Stati Uniti e, per molti settori del governo statunitense, un interlocutore più facile da interloquire rispetto ad altre parti. Le armi nucleari britanniche diluirono l’influenza degli Stati Uniti nel Nuclear Planning Group e nelle discussioni sulle questioni nucleari in generale, cosa che molte nazioni europee accolsero con favore. I francesi furono nel complesso favorevoli: ciò rese il Regno Unito più competitivo, ma allo stesso tempo distolse in qualche modo l’attenzione dal loro status nucleare e rese la loro posizione P5 più facile da difendere. Vedevano anche il Trident come una potenziale componente di una forza nucleare europea indipendente (in pratica franco-britannica) in futuro, e di fatto uno stimolo alla cooperazione militare bilaterale in generale. Al contrario, molte nazioni europee sarebbero state scontente se la Francia fosse stata l’unica potenza nucleare in Europa e consideravano gli inglesi un utile fattore di bilanciamento. Da parte loro, anche gli Stati Uniti trovarono utile non essere individuati come l’unica potenza nucleare nella Struttura Militare Integrata. E naturalmente c’era il timore atavico di essere lasciati soli di nuovo come nel 1940: gli inglesi non erano più fiduciosi di qualsiasi altra nazione che gli Stati Uniti si sarebbero schierati effettivamente con l’Europa in una crisi con l’Unione Sovietica quando si fosse arrivati ​​al dunque, qualunque cosa dicesse il Trattato di Washington.

Questa, ovviamente, è solo la punta dell’iceberg, e c’erano molti altri argomenti positivi e negativi a favore del mantenimento della potenza nucleare: di fatto non ce n’era nessuno contrario, a parte quelli di bilancio interno. Ma per definizione, pochi di questi argomenti potevano essere effettivamente resi pubblici, ed è interessante notare che praticamente nessuno di essi aveva nulla a che fare con le dottrine nucleari pubblicate, o con la rigogliosa letteratura accademica sulla teoria della deterrenza e dell’escalation che proliferava all’epoca. Persone come il povero Bernard Brodie avrebbero potuto benissimo vivere in un universo parallelo. Ma è anche vero che, sebbene negli anni ’80 ci fosse un “dibattito” pubblico molto attivo (o almeno rumoroso), ci fu scarso impegno sul tipo di questioni che erano effettivamente importanti e che figuravano nella letteratura strategica aperta. C’erano alcuni scettici che si opponevano al Trident per motivi economici o politici, ma l’opposizione in generale proveniva dalla Campagna per il Disarmo Nucleare e dai suoi satelliti, il cui approccio evitava del tutto le argomentazioni pratiche, enfatizzando la condanna morale e la richiesta preventiva che il governo facesse ciò che gli veniva detto. Eppure, nonostante tutto il loro ardente fervore morale, la CND non riusciva a comprendere di rappresentare una minoranza dell’opinione pubblica (mai più di un terzo) e che la loro certezza morale non dava loro automaticamente diritto a uno status politico speciale. Questa collisione di approcci – quello severamente pratico, persino sordido, contro quello apocalitticamente moralizzante – inevitabilmente non produsse alcun risultato. In effetti, almeno secondo la mia osservazione, la CND non era interessata a come venissero prodotti e consumati i “salsicciotti” della politica nucleare, e non fece nulla per informarsi. Alcuni, certamente, credevano che i missili Trident fossero a combustibile liquido, che fossero immagazzinati all’interno delle imbarcazioni con le testate attaccate, e che un singolo errore avrebbe potuto causare un’esplosione atomica che avrebbe distrutto metà della Scozia. Niente di tutto ciò era realmente vero, ma non era questo il punto.

Mi sono soffermato su questo episodio in parte perché ero lì, ma soprattutto perché mostra in una forma molto pura, quasi caricaturale, la differenza tra le ipotesi su come le decisioni vengono prese e influenzate nel governo viste dall’interno, rispetto a quelle esterne. Un esempio moderno paragonabile è ovviamente l’Ucraina, dove la politica procede a tentoni da una sconfitta all’altra semplicemente perché ci sono così tanti fattori interni che rendono impossibile un ritorno, anche se pochi di essi possono essere discussi pubblicamente. In effetti, l’Ucraina è un buon esempio della mia osservazione che le decisioni spesso alla fine vengono prese da sole: in Ucraina, come in molti altri errori disastrosi simili, è impossibile dire esattamente quando una data “decisione” importante sia stata effettivamente presa. Questo è il motivo per cui gli storici scrivono libri così lunghi e complessi sulle “origini” delle guerre e sulla loro inevitabilità. Ciò che tende ad accadere nella pratica è che le crisi procedono con angosciante lentezza attraverso innumerevoli decisioni banali: questo incontro, quel bilaterale, questo comunicato, quella decisione, questo documento politico… e a un certo punto persone come me alzano lo sguardo dalle loro scrivanie e si fissano a vicenda, chiedendosi “come diavolo siamo arrivati ​​a questo punto?”. Un funzionario di un governo europeo che si è addormentato nel 2017 e si è risvegliato cinque anni dopo l’inizio della guerra in Ucraina, quasi certamente si sentirebbe allo stesso modo una volta ripresosi dallo shock. In realtà, solo gli storici hanno la possibilità di presentare tutto questo in un formato comprensibile, e solo molto tempo dopo. E solo gli storici, forse, possono davvero sperare di districare il groviglio di fattori che, in pratica, rendono sempre più facile andare avanti a breve termine piuttosto che tornare indietro, anche quando tornare indietro è ovviamente la cosa giusta da fare.

Il fatto che le “decisioni” spontanee, ponderate e ponderate siano rare in politica è uno degli aspetti chiave da comprendere. Certo, le decisioni possono essere prese e registrate formalmente, ma in molti casi questa è la fase meno importante del processo. I politici scrivono memorie soprattutto per cercare di convincere il loro pubblico che le decisioni che sono stati costretti a prendere o a cui non hanno potuto sottrarsi sono state in realtà il frutto di un’attenta riflessione e di un lungo dibattito, ma solo gli ingenui più incalliti credono che ciò accada molto spesso. E in ogni caso, non c’è quasi mai il tempo di fermarsi a riflettere sulle decisioni importanti. Mentre a livello macro gli eventi in una crisi importante possono sembrare lenti e ponderati, a livello tattico tutto è un susseguirsi di attività confuse, una micro-decisione che si accumula sull’altra, fino a quando a volte è difficile ricordare quale fosse effettivamente il problema originale. La domanda: ” Dovremmo farlo?” non viene mai posta perché non c’è tempo. La domanda è sempre: “Cosa diremo alla riunione di domani?”, oppure “Il Segretario Generale della NATO ci chiama tra un’ora: cosa vogliamo chiedergli?”. L’incapacità di comprendere questo semplice punto spiega l’ingenuità di molti commenti sulle crisi attuali (e, peraltro, immediatamente passate) e gli incessanti sforzi per trovare “decisioni” e “piani” soddisfacenti. Dopotutto, gli esseri umani si spingeranno fino alle estreme conseguenze per cercare di imporre schemi agli eventi più importanti, perché nessuna paura è più profonda della paura del caos. Come disse il celebre esperto di intelligence scientifica della Seconda Guerra Mondiale, il professor RV Jones, a proposito della sua esperienza di governo in tempo di guerra:

“Non può esistere un insieme di osservazioni reciprocamente incoerenti per il quale l’intelletto umano non riesca a concepire una spiegazione coerente, per quanto complicata.”

Oppure, se preferisci, è più confortante maneggiare il frullatore di Occam piuttosto che il rasoio di Occam. Con un po’ di impegno, puoi sempre ottenere un risultato, anche se si tratta di una poltiglia poco invitante.

Già ai tempi di Jones, i decisori politici tendevano a essere sommersi dalle informazioni. E la tecnologia moderna non ha certo aiutato. Trent’anni fa, la comunicazione tra le capitali e le rappresentanze diplomatiche all’estero si limitava a telegrammi criptati, fax e lettere inviati tramite valigie diplomatiche. Oggi, i decisori politici nelle capitali occidentali sono intasati da email provenienti da tutto il mondo ogni ora e possono trascorrere metà delle loro giornate in videochiamate con le ambasciate e le altre capitali, ripassando all’infinito e inutilmente gli stessi argomenti, senza ottenere alcun risultato.

Ma questo è solo un caso estremo del modo in cui le decisioni politiche vengono prese più spesso, in tempo di pace come in tempo di crisi. In politica, anche la cosa più semplice è potenzialmente complicata, perché la maggior parte delle cose è collegata alla maggior parte delle altre, e le decisioni prese in un ambito avranno conseguenze (forse imprevedibili) altrove. Il problema è che poche di queste connessioni sono sistematiche e molte contengono contraddizioni. I tentativi di trovare modelli generali in politica, quindi, sono destinati al fallimento perché le connessioni tra soggetti diversi possono significare cose diverse per attori diversi, e comunque non sono riducibili a modelli di predominio e sottomissione, o addirittura necessariamente di influenza. Il risultato è che molto spesso i governi decideranno in base a priorità che comportano conseguenze secondarie piuttosto che dirette, e il risultato può sembrare inspiegabile a prima vista.

Molto spesso, i governi decidono di abbandonare un’iniziativa su un argomento relativamente poco importante perché il livello di opposizione pubblica è tale che non vale la pena dedicare tempo e sforzi a difenderlo. Ora, si noti che questo non significa che la maggioranza dell’opinione pubblica sia contraria, significa solo che l’equilibrio di forze è tale che meno lavoro e meno sforzi dovranno essere distolti da altre attività per abbandonare l’argomento. È quindi in gran parte una questione di priorità, e molte questioni di routine vengono gestite in questo modo. All’estremo opposto, la partecipazione britannica alla seconda guerra in Iraq era una priorità di enorme importanza per il governo dell’epoca, e l’opposizione pubblica, seppur piuttosto ampia, non si qualificava come uno dei fattori decisivi.

Lo stesso vale, infine, per le relazioni tra Stati, che sono, nel migliore dei casi, estremamente complesse, sempre multidimensionali e spesso portano con sé un bagaglio storico. La maggior parte degli Stati, nella maggior parte dei casi, accetterà la maggior parte delle iniziative degli Stati con cui intrattiene buoni rapporti. Qualsiasi altra cosa sprecherebbe energie, creerebbe problemi e inviterebbe a ritorsioni. Quindi, se il tuo vicino, l’attuale presidente della tua organizzazione regionale, è particolarmente interessato a un’iniziativa, probabilmente la accetterai, anche se non ti interessa o se hai delle riserve concrete. Non ha senso opporsi gratuitamente: dopotutto, potresti essere il presidente l’anno prossimo e potresti avere un’iniziativa da promuovere. La stessa dinamica si può osservare nei documenti prodotti dopo importanti riunioni di gruppi internazionali, dove si compiono grandi sforzi per mascherare le differenze e mascherare le diverse interpretazioni. E come dico spesso, è sempre interessante vedere cosa non contiene un documento, poiché spesso argomenti troppo controversi tra i partner vengono tralasciati, per evitare problemi e preservare l’armonia.

L’ultima generazione ha assistito a una generale omogeneizzazione della classe dirigente e dei suoi parassiti, che non ha fatto altro che rafforzare tutte queste tendenze. Ciò è particolarmente evidente in Europa, dove iniziative come il programma ERASMUS hanno portato le future élite a studiare insieme a un’età facilmente influenzabile. Vent’anni dopo, dopo un passaggio attraverso le istituzioni europee, dopo un’immersione completa nelle certezze neoliberiste, spesso sposandosi tra loro, spesso frequentando circoli sociali composti esclusivamente da persone con idee simili, leggendo e guardando gli stessi media in diverse lingue, queste persone iniziano ad accedere a posizioni di potere. Sebbene sarebbe ingiusto definirli cloni, il fatto è che condividono un insieme di presupposti sul mondo e una serie di norme indiscusse, che non solo li rendono internamente molto omogenei, ma li separano anche dai presupposti e dalle norme più ampie delle società che governano. In un simile contesto, le loro argomentazioni e i loro dibattiti sono interni e personali, e spesso su punti di dettaglio: l’opinione pubblica non conta. Il loro status all’interno del gruppo più ampio è stabilito dalla competizione reciproca, non dalla generazione di sostegno pubblico, di cui comunque è diffidente. Quindi non c’è mai stato bisogno che qualcuno facesse “pressione” sui leader europei riguardo all’Ucraina: erano tutti della stessa idea, e ciò che contava era ciò che pensavano i loro coetanei in altri paesi, non le opinioni, o persino gli interessi, delle loro popolazioni. E come studenti brillanti di qualche istituto di istruzione superiore internazionale, cercavano sempre di superarsi a vicenda e di impressionare gli insegnanti con proposte sempre più radicali: inviare truppe in Ucraina, ripristinare la coscrizione obbligatoria, cercare di smembrare la Russia. Queste idee non devono necessariamente avere senso, perché sono semplicemente parte dell’infinita competizione per status e prestigio tra le nuove élite.

L’Europa è un caso estremo, ma gli specialisti regionali possono descrivere le strutture politiche nascoste che caratterizzano diverse parti del mondo. Nell’Africa occidentale, ad esempio, i legami tra clan, famiglie e imprese si estendono oltre confini artificiali postcoloniali e uniscono sorprendenti combinazioni di persone. E al livello più generale e basilare, dobbiamo abbandonare una volta per tutte gli ingenui paradigmi realisti di infiniti conflitti internazionali e lotte per il predominio. Come ho sottolineato ripetutamente, le nazioni e i loro governi cooperano molto più frequentemente di quanto si oppongano: se così non fosse, non si farebbe mai nulla. E, cosa abbastanza sorprendente, le nazioni spesso sono sinceramente d’accordo tra loro, o almeno si considerano aventi interests.in comuni in iniziative specifiche.

Né è vero, infine, che le grandi nazioni si limitino a fare pressioni sulle piccole: come ho sottolineato più volte, manipolare le grandi nazioni è un’arte in molte parti del mondo. Ma in ogni caso, non tutte le relazioni devono essere di predominio. Ecco un esempio immaginario. Immaginiamo il governo di uno stato costiero africano con un grande porto naturale, contattato dagli Stati Uniti per firmare un MoU che consenta alle loro navi di visitare occasionalmente il paese e di stabilire una piccola presenza permanente a terra. Il governo riflette sulla questione. Sarà uno status symbol politico nella regione, l’ambasciata verrà probabilmente potenziata, ci saranno vantaggi finanziari e posti di lavoro e ci saranno frequenti visitatori statunitensi. Un’attenta negoziazione del MoU può probabilmente portare altri benefici: supponiamo di proporre che venga rinegoziato ogni due anni. Quasi certamente la presenza statunitense può essere sfruttata per l’addestramento gratuito e per alcune attrezzature navali in eccedenza, nonché per un possibile rapporto di intelligence. E il personale statunitense è un utile scudo umano in caso di attacco straniero o conflitto interno. Con un po’ di fortuna, questo farà sì che anche i cinesi si interessino al Paese. Il rovescio della medaglia, ovviamente, è che le compagnie di navigazione arrivano diverse volte all’anno per una sbarco e fanno ciò che fanno abitualmente. Quindi faremo in modo che il Memorandum d’intesa copra anche i risarcimenti e questioni simili. E così via: solo un altro giorno nella fabbrica di salsicce.

In conclusione, il messaggio da trarre è essenzialmente che il processo attraverso il quale i governi decidono di fare qualcosa, o spesso vengono costretti a prendere decisioni dalle circostanze, è molto più complesso, molto più complicato e molto meno razionale di quanto si possa pensare osservando la Fabbrica di Salsicce da lontano. Ma questo giudizio deve essere moderato. In primo luogo, il processo decisionale politico non è casuale: se non segue esattamente delle regole, segue tendenze osservabili, e con l’esperienza è spesso possibile capire cosa probabilmente sta succedendo sotto la superficie. In secondo luogo, gli aspetti formali della politica e del governo hanno la loro importanza, e non dobbiamo cadere nella trappola di liquidarli come puro teatro, o una sorta di facciata cinica. In effetti, se avete mai trascorso del tempo dietro le quinte di un teatro, apprezzerete l’analogia tra ciò che il pubblico vede e il caos controllato che si verifica dietro.

Ma una delle tendenze che possiamo identificare è che il fervore morale conta poco se non è associato a obiettivi chiari e a un approccio organizzato e disciplinato, e se ciò che viene chiesto non rientra nel potere del governo di dare, il che spesso non accade. Parte di questo approccio disciplinato è acquisire una profonda familiarità con la domanda: nulla è più facile da respingere di semplici speculazioni o affermazioni mal informate. Un altro aspetto è essere molto chiari e precisi su ciò che si chiede, o si chiede. Una generica geremiade contro la politica occidentale nei confronti di Gaza, ad esempio, evocherà una risposta generica e copia-incolla. Anche se quella risposta viene pubblicata a nome di un ministro, è improbabile che quella persona l’abbia letta. Ciò che i governi non gradiscono (e parlo per esperienza) è la critica ben informata e dettagliata, espressa in termini moderati e che pone domande precise o avanza proposte precise e realistiche. Questo crea lavoro, nella ricerca e nella preparazione della risposta. Influenzare la ricetta nella Fabbrica di Salsicce non è mai facile, quindi, ma ci sono modi per renderlo meno arduo. Ricorda solo che in politica niente è facile o gratuito.

Onora il padre e la madre_di WS

In un suo contributo l’ amico Ernesto ha sollevato il problema della “Patria”, un concetto/valore molto complesso. Dopo averlo profondamente eroso le attuali élites globaliste che ci dominano, sicuramente e presto, ripristineranno perché serve a LORO per mandarci a morire in guerra per i LORO interessi, essendo il richiamo della “Patria” “l’ ultima risorsa delle canaglie” utile a questo scopo.

Che è poi ciò che teme Massimo Morigi in questo suo intervento e che io riprendo partendo dal presupposto di Morigi che “Il compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.”

Cosa però improbabile laddove i ”padroni della politica” possono semplicemente , quando serve, utilizzare il concetto di “bene comune” per imporre ai “tanti” sacrifici nel nome di “tutti” .. ma per interessi LORO.

Non lo abbiamo forse recentemente visto con la “pandemia” ?

E non lo abbiamo anche visto nella prima delle LORO guerre mondiali laddove le masse dei contadini, gli operai gli servivano in fabbrica, furono mandate a morire nelle trincee in nome della “Patria” promettendo loro la terra che poi col cavolo gli fu data?

Perché quanto auspica Morigi può avvenire solo per la resipiscenza di “qualcuno” dei “pochi” che coarta tutti gli altri “pochi” , e solo sulla base dell’ assunto di un destino comune che non riguarda solo il futuro ma anche “il passato”. Non fece questo Augusto ? Non sta tentando di fare questo Putin ?

La questione della “Patria” esula la forma politica con cui essa si esprime sebbene io concordi con Morigi che la “repubblica” la incarni almeno simbolicamente molto di più.

Singoli capi possono però realizzarla più efficacemente grazie al loro rapporto diretto con il popolo. Il problema, però, in questi casi sta nel meccanismo di successione come ho già descritto in altri interventi in questo blog.

La sostanza comunque è che tra “popolo” ed élites ci deve essere un “ contratto” che li obblighi reciprocamente su valori comuni . Possiamo chiamarlo SPQR o “democrazia” o “dittatura” o “impero”, ma l’ impegno delle élites a sacrificarsi per un bene comune è fondamentale affinché anche il “popolo” ci si sottometta volontariamente.

Massimiliano I d’ Asburgo, un altro soggetto che andrebbe studiato più attentamente, creò la fortuna della sua casata sposando la derelitta orfana di Carlo il Temerario il cui ricco ducato di Borgogna era ormai in mano francese giacché , dopo la morte di Carlo ,gran parte della elite borgognona aveva già giurato fedeltà al Re di Francia.

Massimiliano non aveva un esercito, aveva con sé solo due migliaia di Tirolesi e pochi cavalli; l’ esercito francese al contrario aveva decine di migliaia di cavalieri.

Ma aveva visto come i fanti svizzeri avevano a Morat distrutto la cavalleria del suo futuro suocero e così ,giunto a Gand, si rivolse ai contadini fiamminghi e li inquadrò “alla svizzera” promettendogli la terra dei loro signori ribelli alla propria autorità .

Massimiliano a Guinegatte non avrebbe però vinto la cavalleria francese se non avesse schierato se stesso e suoi tirolesi in prima linea in mezzo ai fanti fiamminghi.

Questo concetto che “noblesse oblige “ se si vuole veramente comandare, i Romani l’avevano capito benissimo e applicato in quello che era appunto il massimo sacrificio da chiedere : morire in guerra.

L’ ordine di battaglia della repubblica romana imponeva infatti uno schieramento in ordine di età che coinvolgeva tutte le classi . Nelle quattro linee destinate ad entrare in combattimento in sequenza dai più giovani impegnati in prima linea ai più vecchi posti nell’ ultima, erano tutti coetanei , “ricchi” e “poveri” patrizi e plebei.

Così non solo ogni “ familia” doveva versare alla repubblica lo stesso “tributo di sangue”, ma solo i figli del patriziato che avevano mostrato a TUTTI sul campo di battaglia il proprio valore lottando insieme ai loro coetanei potevano, partendo dalla “prima linea” , cominciare il “cursus honoris” che li avrebbe eventualmente portati a diventare in vecchiaia i “patres” della repubblica.

Perché “Patria” ( alias ” terra dei padri” ) è infatti una parola che evoca un “destino” che guarda al passato , sia perché si richiama a “chi non c’ è più”, ma soprattutto evidenzia quanto l’ essenza di questo “destino” dipenda dagli uomini che hanno “generato” il mondo poi lasciato ai ” figli”.

E questa eredità è essenzialmente culturale sebbene sia imprescindibile da quella “genetica”.

Qualcuno infatti avrà notato la “disinvoltura” con cui i romani ” affiliavano” i figli degli altri “. Ma questo era a discrezione totale del “pater familias” e sulla base di elementi stringenti quali :

1) si trattava sempre e solo di “maschi”

2)le strettissime relazioni già intercorse tra i due ” pater familias” 

3) le minori risorse della “familia” dell’ adottato

4) la mancanza di eredi all’ altezza di succedere al “pater familias” adottante

5)l’ affido in giovane età dell’ adottato all’ adottante onde ricevere “come un figlio” la cultura e gli arcana imperii della “familia” adottante.

 Si capisce quindi ora quanto “la famiglia” sia il mattone fondamentale di una società che volesse chiamarsi “patria” e perché la famiglia in generale e “il maschio” in particolare siano i bersagli primari di chi vuole cancellare FISICAMENTE e per SEMPRE i “bianchi” cioè noi ” ultimi ” europei.  

Ma se la famiglia romana era evidentemente “patriarcale”, quantomeno nelle sue espressioni pubbliche, la trasmissione culturale non è mai ” affare di soli di maschi”.

 Non sappiamo per il passato, ma ancora oggi ci sono esempi interessanti di società “criptomatriarcali” in cui le donne “comandano in famiglia” lasciando la sfera pubblica ai propri uomini.

Si tratta certamente di “adattamenti” di società un tempo matriarcali; un esempio la famiglia sarda e quella ebraica.

Anzi, quasi tutte le famiglie dei popoli mediterranei antichi , a dispetto delle apparenze, si possono considerare tali in quanto dividevano il mondo in due sfere : una privata dominata dalla donna che assicurava gran parte della continuità culturale e una pubblica dominata dall’uomo che questa cultura la deve mettere in pratica a suo rischio e pericolo.

Anzi è sicuro che sia la donna a definire gran parte di questa continuità culturale per il fatto che le donne occidentali siano il bersaglio preferito della corruzione culturale globalista che ci ha investiti.

D’altronde è lo stesso mito di Adamo ed Eva a dirci che il serpente corrompe l’umanità “ convincendo” la donna, no ?

E l’ importanza della donna , anzi della “madre” , nel “ comune destino” non è evidenziata anche dal fatto che i russi , il “popolo bianco“ con la cultura più resiliente , chiamano “ madre Russia” la loro “Patria “ ?

Tornando quindi “a bomba” , può esistere ancora oggi un concetto di “Patria” che non sia snaturato ad un interesse di parte ?

Io non credo , perché “onora il padre e la madre” non è solo un precetto religioso. Chi rinnega il proprio passato non ha altro “comune destino” che quello di servire altri.

La scommessa, di Ernesto

La scommessa

Mi riallaccio all’articolo di Michael Hudson ed al contributo dell’ottimo WS che, seppure da punti di vista diversi, mi portano alle considerazioni che seguono.

Da un lato, pur apprezzando le argomentazioni di Hudson sulla sovranità, mi pare che la soluzione prospettata di tassazione delle multinazionali che sfruttano le risorse dei paesi “in via di sviluppo” quale soluzione alle problematiche dello sfruttamento occidentale nonchè metodo per riacquistare sovranità, mi sembrano conclusioni riduttive e, forse, utopistiche.

La tassazione, qualora venisse rispettata senza alcuna reazione da parte delle imprese straniere e versata in moneta “pesante”, sarebbe, a mio modesto avviso equiparabile al respiratore forzato ed alle flebo di liquidi ed alimenti al paziente in coma irreversibile: non risolve nulla.

Su punto basti il seguente esempio: la nazione “A” concede alla Multinazionale americana “B” i diritti di sfruttamento di un bacino petrolifero e incassa dalla multinazionale i diritti previsti nella concessione in dollari americani. Inoltre, ammesso e non concesso che non ci siano accordi di extraterrtorialità dei redditi prodotti dalla multinazionale, l’impresa straniera deve presentare la dichiarazione dei redditi prodotti nella nazione “A” mediante un preciso sistema di verifica da parte dell’Erario della nazione “A” di tutte le fatture emesse alle società che acquistano il petrolio estratto. Anche questa rimessa erariale avviene in moneta “pesante”. La nazione “A”, però, deve acquistare all’estero, la benzina, il gasolio, il GPL ed Kerosene avio, per il fabbisogno della nazione e, quegli acquisti, ovunque siano effettuati, devono essere pagati in moneta “pesante”. Ecco dimostrato come tutta la moneta “pesante” entrata nelle casse della nazione per i diritti e per le tasse, riesce immediatamente anche perchè, il combustibile finito e pronto all’uso, ha un costo superiore al greggio estratto. Se poi, la multinazionale americana “B”, nell’accordo per ottenere la concessione, ottiene di essere il fornitore unico o privilegiato per gli acquisti del combustibile, il gioco è fatto. La Nazione “A” rimane stretta nella spirale del dominio Americano aggravato da fatto che, anche volesse fare acquisti diversi, la piattaforma per i pagamenti internazionali è governata dagli Usa (Swift) che possono sanzionare con la preclusione al suo utilizzo come e quando vogliono.

Del resto l’impero inglese aveva fondato il suo potere sul controllo delle rotte commerciali forse in misura maggiore rispetto al controllo delle risorse stesse: quando si affacciarono competitori in grado di rivaleggiare (Francia in alcuni momenti) e Germania dopo il 1870, la conclusione è sempre stata la guerra.

Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione simile a quella che precedette il 1914: una globalizzazione a guida Americana in crisi perchè nuovi attori con capacità tecnologica e militare (Russia e Cina) reclamano il loro posto e non intendono sottostare alle “regole” Americane.

Ed allora, come nel 1914, si arriverà al conflitto e ci sono altri segnali in questo senso: “l’attenzione” americana per Venezuela e Nigeria, dimostrano la loro necessità di dominare direttamente le risorse laddove, nell’epoca d’oro, bastava dominare gli scambi perchè ora, stanno emergendo e si stanno costruendo, realtà di scambio alternative allo SWIFT ed al dollaro molto attrattive per le nazioni che vogliono sottrarsi al giogo.

Lo fanno perchè sanno che si andrà in guerra anche se pensano di non esserne coinvolti direttamente, ma pensano di potersi limitare ad essere il fornitore di risorse a chi combatterà per loro cioè noi europei. Ma per fornirci, a caro prezzo, quelle risorse, devono controllarle e Venezuela e Nigeria servono allo scopo.

Forse l’estromissione della Francia dal continente Africano, è stata in qualche modo consentita dagli USA che pensano di sostituirla, in un modo o nell’altro, perchè una Francia assolutamente bisognosa di risorse, è una nazione perfetta per essere un’altra UCRAINA.

E quello che vale per la Francia, vale per l’intera Europa.

Ma questa certezza Americana di essere fuori dal futuro conflitto, su cosa si fonda?

Non è forse stata sufficientemente chiara la Russia, con i messaggi anche espliciti che ha dato all’occidente ed agli USA?

Ho cercato una risposta che fosse razionale ma, in realtà, non vi è spiegazione razionale per un comportamento, irrazionale.

L’amico WS ha molto efficacemente ricordato il Film “Killing me softly” ed il monologo di Brad Pitt sul finale del Film.

Io mi permetto di ricordare l’incipit di Hostiles, altro film made in USA, nel quale si descrive l’anima americana come solitaria, violenta ed assassina.

Inoltre gli americani adorano il gioco d’azzardo al punto da avere creato una città che si basa solo su questo.

Quindi la risposta è tutta qui: sono solitari giocatori d’azzardo, violenti ed assassini ma eccezionali cui spetta il diritto di fare quel che vogliono.

Scommettono e se la scommessa non va a buon fine, chi se ne frega, estraggono la pistola e fanno fuori tutti.

Solo che, questa volta, esplode l’intero Casinò con anche loro dentro ma chi scommette mica si preoccupa di questo.

BREVE NOTA INTORNO ALLO STIMOLANTE INTERVENTO PATRIA? ALCUNE IDEE IN ORDINE SPARSO_di Massimo Morigi

BREVE NOTA INTORNO ALLO STIMOLANTE INTERVENTO PATRIA? ALCUNE IDEE IN ORDINE SPARSO

di Massimo Morigi

Scrive, fra le altre pregevoli e condivisibilissime cose, il nostro amico Ernesto nel suo bell’interventoPatria? Acune idee in ordine sparso (Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20251108095938/https://italiaeilmondo.com/2025/11/04/patria-alcune-idee-in-ordine-sparso_di-ernesto/):

«É quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale? Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi –. Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.»

Ora, alle molte (e tutte condivisibili) osservazioni del Nostro sarebbe assai avventuroso affiancare un’analisi e, soprattutto, predizioni, che non siano vaticini alla divino Otelma ma a questa domanda (o ragionamento) la risposta è molto facile accompagnata da un piccolo appunto. Sì, la Patria è l’unico punto di partenza dal quale iniziare ad affrontare il caso italiano (non certo lo Stato, perché lo Stato può benissimo esistere senza Patria, lo si vede bene in Italia e lo si vede altrettanto bene considerando con un minimo di oggettività l’Unione europea, una burocrazia arrogante ed autoreferenziale che prescinde totalmente da qualsiansi legame storico, sociale e culturale con i popoli che pretende di rappresentare) e lo è per il semplice motivo che un’azione politica o geopolitica che non voglia essere semplice scontro intestino all’interno del gruppo degli agenti strategici alfa (sui gruppi strategici alfa, le grandi unità strategiche che guidano le danze e i gruppi strategici omega, coloro che subiscono l’azione strategica alfa e cercano di reagire con controstrategie di solito inefficaci, in altri tempi si sarebbe detto il proletariato, cfr. Massimo Morigi, Teoria della distruzione del valore. Su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore, sull’ “Italia e il Mondo” e tramite congelamento Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20170205031134/https://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/) anarchici ed irresponsabili che si contendono le risorse ha come condizione necessaria (anche se, ovviamente, non sufficiente) l’esistenza (o la credenza nell’esistenza, che poi per quanto riguarda il discorso che qui ci interessa è la stessa cosa) di un’unità di riferimento universalmente reputata ontologicamente superiore e concretamente politicamente prevalente su tutti i gruppi particolari (e soprattutto sui grandi gruppi strategici alfa) presenti e all’interno della singola società e anche in lotta intestina sullo scenario internazionale (immancabile qui il richiamo anche al fondamentale Lenin col suo L’imperialismo fase suprema del capitalismo). Insomma, per fare una facile metafora ma che penso estremamente illuminante, così come la medicina non può fare a meno di cercare di porre rimedio al corpo umano malato o a concepire le strategie per mantenerlo in salute, la politica e la geopolitica non possono fare a meno di quel fulcro di tutto il sistema relazionale umano che si chiama popolo con tutte le sue più o meno infelici problematiche storico-sociali al fine, se non di porvi un totale rimedio, di offrire, almeno in linea di principio, praticabili e concrete strategie per dialettizzare e superare le contraddizioni storiche, politiche e culturali (per compiere, cioè, l’hegeliana Aufhebung) che si frappongono al dispiegamento delle potenzialità positive di questo popolo. Nel caso contrario, una consocenza del corpo umano che non si proponga di curare o di procurare benessere al corpo, siamo in presenza di una conoscenza meramente fisiologica o patologica e nel caso di una politica senza popolo siano in presenza della conoscenza – e della pratica – da parte dei maggiori gruppi strategici alfa che si contendono le risorse sì di una politica e/o geopolitica ma una politica e una geopolitica riservate a gruppi ristretti, cioè, in ultima analisi, siamo in presenza di una conoscenza più o meno elitaria e/o esoterica dove il termine politica può essere, anzi deve, essere espunto, perché quello che manca è l’elemento della Polis o per esprimerci in termini otto-novecenteschi, la Patria (e, infatti, di conoscenza elitaria e/o esoterica e, simmetricamente, delle fantasiose suggestioni da ammanire al popolo si deve parlare oggi, tanto per fare esempio, riguardo all’attuale guerra Russia-Nato. I grandi gruppi strategici alfa ragionano al riguardo sulla falsariga del realismo politico – quanto questo realismo sia però “ragionato” e praticato con criteri di razionalità è però un altro discorso – mentre per il “popolaccio”, gli omega, i mass media e tutto il sistema politico delle c.d. democrazie occidentale riservano le consunte e ridicole litanie sulla difesa della democrazia).

L’appunto riguarda quando viene affermato che non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi, e qui ci si riferisce al fatto che non bisogna tornare al mito romantico otto-novecentesco della Patria. Ora, per questo breve ragionamento non rileva tornare alla distinzione fra patriottismo e nazionalismo, che molto erroneamente viene oggigiorno fatta in particolare da quella scuola di pensiero che va sotto il nome di neorepubblicanesimo cui io non appartengo avendo lo scrivente elaborato un paradigma repubblicano che ho definito ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ e proprio in omaggio al criterio di brevità che esprime questo intervento e al fatto che su ciò mi sono espresso in moltissime occasioni non dettaglierò ulteriormente questo paradigma (ho già qui rinviato alla Teoria della distruzione del valore, che può ben essere propedeutica per una sua conoscenza iniziale).

Ma, in estrema sintesi, si può affermare quanto segue: certamente la ‘mitologizzazione’ di qualsiasi cosa, sia un concetto poliltico ma anche quanto colpisce la nostra sensibilità nella vita di tutti i giorni, è da evitare perché, come si dice, ci fa vedere lucciole per lanterne ma l’oggetto sul quale è stata poi operata l’operazione di mitologizzazione deve focalizzare la più attenta attenzione e cosiderazione perché, in caso contrario, ci si trova a muovere in un piatto e controstorico eterno presente dove le sole cose che contano sono le fugaci sensazioni del momento. E quindi, per tornare al mito della Patria, che non bisogna certo assumere acriticamente o come una sorta di spirito ultraterreno ma come di un oggetto storico di cui non ci si può facilmente sbarazzare, cito dal giuramente di affiliazione alla Giovine Italia dove il nuovo affiliato a questa rivoluzionaria organizzazione voluta da Giuseppe Mazzini giura «Nel nome di Dio e dell’Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica. Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto e ai fratelli che Dio m’ha dati. Per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli. Per la memoria dell’antica potenza. Per la coscienza della presente abiezione. Per le lagrime delle madri italiane […] [ e quindi giuro] Di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.»: giuramento di affiliazione alla Giovine Italia all’URL Wayback Machine http://web.archive.org/web/20250118110304/https://www.schule-bw.de/faecher-und-schularten/sprachen-und-literatur/italienisch/land-und-leute/kursstufe-themen/storia-politica/risorgimento/mazzini.pdf.

Certo, possiamo discutere il fatto di far svolgere a Dio il ruolo di chiusura del sistema semantico-simbolico del giuramento (ma però va sottolineato che qualsiasi umana comunicazione implica, più o meno esplicitamente, sempre una struttura logica con un elemento di chiusura all’interno della stessa indimostrato – e indimostrabile in ultima istanza –, e non addentriamoci qui ulteriormente intorno alla problematica dei Teoremi di incompletezza di Gödel e alle potenzialità che questi offrono anche ad un inquadramento teorico delle varie e possibili teologie politiche, non solo quelle consegnateci dalla storia ma anche quella che è sotto i nostri occhi – il mito della democrazia ampiamente ‘smitizzato’ e dal punto di vista della teoria politica ma anche nel sentire popolare, definizione corretta di ‘democrazia’ è ‘polioligarchia competitiva’, cfr. a questo proposito proprio qui sull’ “Italia e il Mondo” miei precedenti e recenti interventi – e, infine, quelle che ci riserva il futuro, delle quali nulla possiamo dire se non che la speranza che si ha quasi timore ad esprimere è che si possa in qualche modo influenzarne positivamente la dialettica), e possiamo anche convenire che l’impostazione retorica del giuramento rinvia ad una società e ad una sensibilità romantica dove nella vita pubblica deve essere prevalente il ruolo maschile ma non possiamo eludere che quello che veramente rileva e che ci riguarda direttamentamente severamente ammonendoci è il giuramento per costituire «l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana». In seguito all’esito fallimentare del Risorgimento, e nonostante si accettino pareri contrari, in seguito anche alla caduta del fascismo, non abbiamo avuto nessuna di queste cose, nemmeno la Repubblica, a meno che non si intenda Repubblica, sostituire un re con un presidente (e a meno che per Italia Una non ci si fermi, sempre in entrambi i casi, ad un rappresentazione puramente formale buona solo per colorare la carta politica dell’Europa ). E qui non stiamo parlando di miti ma di una concreta realtà storica, per comprendere e, possibilmente, rettificare la quale ha scritto il nostro amico Ernesto e per la quale anche lo scrivente è stato stimolato ad intervenire con questa breve nota.

Massimo Morigi, novembre 2025

https://marxist.com/lenin-100-years-on.htm

Una condizione preliminare per la sovranità_di Michael Hudson

Una precondizione per la sovranitàIl professor Michael Hudson5 novembre 2025Visualizza nell’app
Un articolo che ho pubblicato per la prima volta in India è ora disponibile su un sito web correlato ad Ann Pettifor.Abstract: La retorica evangelica degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più corretto descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali contro la civiltà.
 
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Il conflitto civile odierno

Questo articolo è apparso per la prima volta su Economic and Political Weekly l’11 ottobre 2025. Michael Hudson (hudson.islet@gmail.com) lavora presso l’Istituto per lo studio delle tendenze economiche a lungo termine ed è illustre professore di ricerca di economia presso l’Università del Missouri-Kansas City.

Abstract: La retorica evangelica degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più accurato descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali contro la civiltà.

Il capitalismo industriale fu rivoluzionario nella sua lotta per liberare le economie e i parlamenti europei dai privilegi ereditari e dagli interessi acquisiti sopravvissuti al feudalesimo. Per rendere competitive le loro manifatture sui mercati mondiali, gli industriali dovevano porre fine alla rendita fondiaria pagata alle aristocrazie terriere europee, alle rendite economiche estratte dai monopoli commerciali e agli interessi pagati ai banchieri che non avevano alcun ruolo nel finanziamento dell’industria. Questi redditi da rendita si aggiungono alla struttura dei prezzi dell’economia, aumentando il salario minimo e altre spese aziendali, intaccando così i profitti.

Il XX secolo ha visto il classico obiettivo di eliminare queste rendite economiche fare marcia indietro in Europa, negli Stati Uniti (USA) e in altri paesi occidentali. Le rendite fondiarie e delle risorse naturali in mano privata continuano ad aumentare e beneficiano persino di speciali agevolazioni fiscali. Le infrastrutture di base e altri monopoli naturali vengono privatizzati dal settore finanziario, che è in gran parte responsabile della frammentazione e della deindustrializzazione delle economie per conto dei suoi clienti immobiliari e monopolistici, i quali versano la maggior parte dei loro redditi da locazione sotto forma di interessi a banchieri e obbligazionisti.

Ciò che è sopravvissuto delle politiche con cui le potenze industriali europee e gli Stati Uniti hanno costruito la propria produzione manifatturiera è il libero scambio. La Gran Bretagna ha implementato il libero scambio dopo una lotta trentennale a favore della propria industria contro l’aristocrazia terriera. L’obiettivo era porre fine alle tariffe agricole protezionistiche – le leggi sul grano – emanate nel 1815 per impedire l’apertura del mercato interno alle importazioni di prodotti alimentari a basso prezzo, che avrebbero ridotto i redditi agricoli. Dopo aver abrogato queste leggi nel 1846, per abbassare il costo della vita, la Gran Bretagna offrì accordi di libero scambio ai paesi che cercavano di accedere al suo mercato in cambio della rinuncia da parte di questi ultimi a proteggere la propria industria dalle esportazioni britanniche. L’obiettivo era quello di dissuadere i paesi meno industrializzati dal lavorare le proprie materie prime.

In tali paesi, gli investitori stranieri europei cercavano di acquistare risorse naturali redditizie, in particolare diritti minerari e fondiari, nonché infrastrutture di base quali ferrovie e canali. Ciò creò un contrasto diametrale tra l’elusione fiscale nei paesi industrializzati e la ricerca di rendite nelle loro colonie e in altri paesi ospitanti, mentre i banchieri europei utilizzavano la leva del debito per ottenere il controllo fiscale delle ex colonie che avevano conquistato l’indipendenza nel XIX e XX secolo. Sotto la pressione di dover pagare i debiti esteri contratti per finanziare i loro deficit commerciali, i tentativi di sviluppo e l’approfondimento della dipendenza dal debito, i paesi debitori furono costretti a cedere il controllo fiscale delle loro economie agli obbligazionisti, alle banche e ai governi dei paesi creditori, che li spinsero a privatizzare i loro monopoli infrastrutturali di base. L’effetto fu quello di impedire loro di utilizzare le entrate derivanti dalle loro risorse naturali per sviluppare un’ampia base economica per uno sviluppo prospero.

Proprio come Gran Bretagna, Francia e Germania miravano a liberare le loro economie dall’eredità feudale degli interessi acquisiti con privilegi di estrazione di rendite, la maggior parte dei paesi della maggioranza globale odierna ha bisogno di liberarsi dalle rendite e dai debiti ereditati dal colonialismo europeo e dal controllo dei creditori. Negli anni ’50, questi paesi venivano definiti “meno sviluppati” o, in modo ancora più paternalistico, “in via di sviluppo”. Ma la combinazione di debito estero e libero scambio ha impedito loro di svilupparsi secondo il modello equilibrato pubblico/privato seguito dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. La politica fiscale e altre legislazioni di questi paesi sono state plasmate dalla pressione degli Stati Uniti e dell’Europa affinché rispettassero le regole internazionali in materia di commercio e investimenti, che perpetuano il dominio geopolitico dei loro banchieri e degli investitori che estraggono rendite al fine di controllare il loro patrimonio nazionale.

L’eufemismo “economia ospite” è appropriato per questi paesi perché la penetrazione economica occidentale in essi assomiglia a un parassita biologico che si nutre del suo ospite. Nel tentativo di mantenere questo rapporto, i governi occidentali stanno bloccando i tentativi di questi paesi di seguire la strada intrapresa dalle nazioni industrializzate europee e dagli Stati Uniti per le loro economie, con le riforme politiche e fiscali del XIX secolo che hanno consentito il loro decollo. Questi paesi “in via di sviluppo” devono adottare riforme fiscali e politiche per rafforzare la loro sovranità e le loro prospettive di crescita sulla base del loro patrimonio nazionale di terra, risorse naturali e infrastrutture di base. Altrimenti, l’economia mondiale rimarrà divisa tra le nazioni rentier occidentali e la loro maggioranza globale ospitante, soggetta all’ortodossia neoliberista.

Il successo del modello cinese: una minaccia per l’ordine neoliberista

I leader politici statunitensi individuano nella Cina un nemico esistenziale dell’Occidente, non tanto per la sua minaccia militare, quanto piuttosto perché offre un’alternativa economica di successo all’attuale ordine mondiale neoliberista sponsorizzato dagli Stati Uniti. Questo ordine avrebbe dovuto rappresentare la fine della storia e della sua logica di libero scambio, deregolamentazione governativa e investimenti internazionali liberi da controlli sui capitali, e non una deviazione dalle politiche anti-rentier del capitalismo industriale. Ora possiamo vedere l’assurdità di questa visione evangelica autocompiacente che è emersa proprio mentre le economie occidentali si stanno deindustrializzando a causa delle dinamiche del loro stesso capitalismo finanziario post-industriale. Gli interessi finanziari e altri interessi rentier consolidati stanno rifiutando non solo la Cina, ma anche la logica del capitalismo industriale descritta dai suoi stessi economisti classici del XIX secolo.

Gli osservatori neoliberisti occidentali hanno chiuso gli occhi davanti al modo in cui il «socialismo con caratteristiche cinesi» ha raggiunto il suo successo grazie a una logica simile a quella del capitalismo industriale sostenuta dagli economisti classici per ridurre al minimo il reddito da rendita. La maggior parte degli scrittori di economia della fine del XIX secolo si aspettava che il capitalismo industriale si evolvesse in una forma o nell’altra di socialismo con l’aumentare del ruolo degli investimenti pubblici e della regolamentazione. Liberare le economie e i loro governi dal controllo dei proprietari terrieri e dei creditori era il denominatore comune del socialismo socialdemocratico di John Stuart Mill, del socialismo libertario di Henry George incentrato sull’imposta fondiaria, del socialismo cooperativo di mutuo soccorso di Peter Kropotkin e del marxismo.

La Cina è andata oltre le precedenti riforme socialiste dell’economia mista, mantenendo la creazione di moneta e credito nelle mani del governo, insieme alle infrastrutture di base e alle risorse naturali. Il timore che altri governi possano seguire l’esempio della Cina ha portato gli Stati Uniti e altri ideologi del capitale finanziario occidentale a considerare la Cina come una minaccia in grado di fornire un modello per le riforme economiche, che sono esattamente l’opposto di ciò per cui ha lottato l’ideologia pro-rentier e anti-governativa del XX secolo.

Il debito estero nei confronti degli Stati Uniti e di altri creditori occidentali, reso possibile dalle regole geopolitiche internazionali del 1945-2025 elaborate dai diplomatici americani a Bretton Woods nel 1944, obbliga il Sud del mondo e altri paesi a recuperare la propria sovranità economica liberandosi dal peso bancario e finanziario estero (principalmente dollarizzato). Questi paesi hanno anche lo stesso problema di rendita fondiaria che ha affrontato il capitalismo industriale europeo, ma le loro rendite fondiarie e minerarie sono di proprietà di multinazionali, altri appropriatori stranieri e piantagioni latifondistiche che estraggono le rendite minerarie svuotando le risorse petrolifere e minerarie del mondo e abbattendo le sue foreste.

Tassare la rendita economica: un presupposto per la sovranità

Una condizione preliminare affinché i paesi del Sud del mondo possano ottenere l’autonomia economica è seguire il consiglio degli economisti classici e tassare le maggiori fonti di reddito da locazione – rendita fondiaria, rendita di monopolio e rendimenti finanziari – invece di lasciarle andare all’estero. Tassare questi redditi contribuirebbe a stabilizzare la loro bilancia dei pagamenti, fornendo al contempo ai loro governi le entrate necessarie per finanziare le loro esigenze infrastrutturali e la relativa spesa sociale necessaria per sovvenzionare la loro modernizzazione economica. È così che Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti hanno stabilito la loro supremazia industriale, agricola e finanziaria. Non si tratta di una politica socialista radicale. È sempre stata un elemento centrale dello sviluppo capitalistico industriale.

Riconquistare la rendita fondiaria e quella derivante dalle risorse naturali di un paese come base fiscale consentirebbe di evitare di tassare il lavoro e l’industria. Un paese non avrebbe bisogno di nazionalizzare formalmente la propria terra e le proprie risorse naturali. Dovrebbe semplicemente tassare la rendita economica al di sopra degli effettivi “profitti guadagnati”. Per citare il principio di Adam Smith e dei suoi successori del XIX secolo, questa rendita è la base imponibile naturale. Ma l’ideologia neoliberista definisce tale tassazione della rendita, e la regolamentazione dei monopoli o di altri fenomeni di mercato, un’ingerenza intrusiva nel “libero mercato”.

Questa difesa del reddito da rendita ribalta la definizione classica di libero mercato. Gli economisti classici definivano libero mercato un mercato libero dalla rendita economica, non un mercato libero per l’estrazione della rendita economica, tanto meno una libertà per i governi delle nazioni creditrici di creare un “ordine basato su regole” per facilitare l’estrazione della rendita estera e soffocare lo sviluppo dei paesi ospitanti dipendenti dal punto di vista finanziario e commerciale.

La remissione del debito come presupposto per la sovranità economica

La lotta dei paesi per liberarsi dal peso del debito estero è molto più difficile di quella intrapresa dall’Europa nel XIX secolo per porre fine ai privilegi della sua aristocrazia terriera (e, con meno successo, dei suoi banchieri), perché ha una portata internazionale. Inoltre, oggi deve confrontarsi con un’alleanza di paesi creditori che mirano a mantenere il sistema di colonizzazione finanziaria creato due secoli fa, quando le ex colonie cercavano di ottenere l’indipendenza politica ricorrendo ai prestiti dei banchieri stranieri. A partire dagli anni Venti del XIX secolo, le regioni appena indipendenti, da Haiti, Messico e America Latina alla Grecia, Tunisia, Egitto e altre ex colonie ottomane, ottennero una libertà politica nominale dal controllo colonialista.

Ma per sviluppare la propria industria, hanno dovuto contrarre debiti esteri, sui quali sono quasi immediatamente entrati in default, consentendo ai creditori di istituire autorità monetarie incaricate della loro politica fiscale. Alla fine del XIX secolo, i governi di questi paesi sono stati trasformati in agenti di riscossione per i banchieri internazionali. La dipendenza finanziaria dai banchieri e dagli obbligazionisti ha sostituito la dipendenza coloniale, obbligando i paesi debitori a dare priorità fiscale ai creditori stranieri.

La seconda guerra mondiale ha permesso a molti di questi paesi di accumulare ingenti riserve monetarie estere grazie alla fornitura di materie prime ai belligeranti. Ma l’ordine postbellico progettato dai diplomatici statunitensi, basato sul libero scambio e sulla libera circolazione dei capitali, ha prosciugato questi risparmi e ha costretto il Sud del mondo e altri paesi a contrarre prestiti per coprire i loro deficit commerciali. Il debito estero che ne è derivato ha presto superato la capacità di questi paesi di pagare, cioè di pagare senza cedere alle richieste distruttive di austerità del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che hanno bloccato gli investimenti necessari per aumentare la loro produttività e il loro tenore di vita. Non c’era modo per loro di soddisfare le proprie esigenze di sviluppo per investire in infrastrutture di base e fornire sussidi industriali e agricoli, istruzione pubblica e assistenza sanitaria, e altre spese sociali di base che caratterizzavano le principali nazioni industrializzate. Questa situazione rimane ancora oggi.

La loro scelta oggi è quindi quella di pagare i debiti esteri, a costo di bloccare il proprio sviluppo, oppure di dichiarare che tali debiti sono odiosi e insistere affinché vengano cancellati. La questione è se i paesi debitori otterranno la sovranità che dovrebbe caratterizzare un’economia internazionale basata sulla parità, libera dal controllo postcoloniale straniero sulle loro politiche fiscali e commerciali e sul loro patrimonio nazionale.

La loro autodeterminazione può essere raggiunta solo unendosi in un fronte collettivo. L’aggressività tariffaria di Donald Trump ha catalizzato questo processo riducendo drasticamente il mercato statunitense per le esportazioni dei paesi debitori, impedendo loro di ottenere i dollari necessari per pagare le obbligazioni e i debiti bancari, che quindi non saranno pagati in nessun caso. Il mondo è ora impegnato nella de-dollarizzazione.

La necessità di creare un’alternativa all’ordine postbellico incentrato sugli Stati Uniti fu espressa nel 1955 alla Conferenza dei Paesi non allineati di Bandung, in Indonesia. Tuttavia, questi paesi non disponevano di una massa critica di autosufficienza sufficiente per agire insieme. I tentativi di creare un Nuovo Ordine Economico Internazionale negli anni ’60 si scontrarono con lo stesso problema. I paesi non erano abbastanza forti dal punto di vista industriale, agricolo o finanziario per “fare da soli”. “

L’attuale crisi del debito occidentale, la deindustrializzazione e l’uso coercitivo del commercio estero e delle sanzioni finanziarie nell’ambito del sistema finanziario internazionale basato sul dollaro, coronato dalla politica tariffaria “America First”, hanno creato l’urgente necessità per i paesi di cercare collettivamente la sovranità economica per diventare indipendenti dal controllo statunitense ed europeo sull’economia internazionale. Il gruppo BRICS+ (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica+) ha appena iniziato a discutere di un tentativo in tal senso.

Il successo della Cina ha reso possibile un’alternativa globale

Il grande catalizzatore che ha spinto i paesi ad assumere il controllo del proprio sviluppo nazionale è stata la Cina. Come indicato in precedenza, il suo socialismo industriale ha in gran parte raggiunto l’obiettivo classico del capitalismo industriale di ridurre al minimo le spese generali dei rentier, soprattutto creando denaro pubblico per finanziare una crescita tangibile. Mantenere la creazione di denaro e credito nelle mani dello Stato attraverso la Banca popolare cinese impedisce agli interessi finanziari e di altri rentier di prendere il controllo dell’economia e di sottoporla alle spese generali finanziarie che hanno caratterizzato le economie occidentali. L’alternativa di successo della Cina per l’assegnazione del credito evita di ottenere guadagni puramente finanziari a scapito della formazione di capitale tangibile e del tenore di vita. Ecco perché è vista come una minaccia esistenziale all’attuale modello bancario occidentale.

I sistemi finanziari occidentali sono supervisionati da banche centrali che sono state rese indipendenti dal tesoro e dall’«interferenza» normativa del governo. Il loro ruolo è quello di fornire liquidità al sistema bancario commerciale che crea debito fruttifero, principalmente allo scopo di generare ricchezza finanziaria attraverso la leva del debito (inflazione dei prezzi degli asset), non per la formazione di capitale produttivo.

I guadagni in conto capitale – aumento dei prezzi delle abitazioni e di altri beni immobili, azioni e obbligazioni – sono molto più consistenti della crescita del prodotto interno lordo (PIL). Possono essere realizzati facilmente e rapidamente dalle banche, creando più credito per far salire i prezzi per gli acquirenti di questi beni. Anziché industrializzare il sistema finanziario, le società industriali occidentali si sono finanziarizzate, e ciò è avvenuto seguendo linee che hanno deindustrializzato le economie statunitense ed europea.

La ricchezza finanziaria può essere generata senza essere parte del processo produttivo. Gli interessi, le more, altre commissioni finanziarie e le plusvalenze non sono un “prodotto”, ma vengono conteggiati come tali nelle attuali statistiche del PIL. Gli oneri finanziari sul debito crescente sono trasferimenti al settore finanziario da parte dei lavoratori e delle imprese, prelevati dai salari e dai profitti guadagnati dalla produzione effettiva. Ciò riduce il reddito disponibile per la spesa dei prodotti realizzati dal lavoro e dal capitale, lasciando le economie indebitate e deindustrializzate.

Strategia delle nazioni creditrici-rentier

La strategia più ampia per impedire ai paesi di evitare l’onere dei redditi da rendita è stata quella di condurre una campagna ideologica, dal sistema educativo ai mass media. L’obiettivo è quello di controllare la narrazione in modo da dipingere il governo come un Leviatano oppressivo, un’autocrazia intrinsecamente burocratica. La “democrazia” occidentale è definita non tanto politicamente quanto economicamente, come un libero mercato le cui risorse sono allocate da un settore bancario e finanziario indipendente dalla supervisione normativa. I governi abbastanza forti da limitare la ricchezza finanziaria e di altro tipo dei rentier nell’interesse pubblico vengono demonizzati come autocrazie o “economie pianificate”, come se lo spostamento del credito e dell’allocazione delle risorse verso i centri finanziari di Wall Street, Londra, Parigi e il Giappone non portasse a un’economia pianificata dal settore finanziario nel proprio interesse, con l’obiettivo di creare fortune monetarie, non di migliorare l’economia complessiva e il tenore di vita.

I funzionari e gli amministratori della maggioranza globale che hanno studiato economia nelle università statunitensi ed europee sono stati indottrinati con un’ideologia pro-rentier priva di valori (cioè priva di rendite) per inquadrare il loro modo di pensare al funzionamento delle economie. Questa narrativa esclude la considerazione di come il debito polarizzi le economie crescendo in modo esponenziale con gli interessi composti. È escluso dalla logica economica dominante anche il classico contrasto tra credito e investimenti produttivi e improduttivi, e la relativa distinzione tra reddito guadagnato (salari e profitti, le principali componenti del valore) e reddito non guadagnato (rendita economica).

Al di là di questa campagna ideologica, la diplomazia neoliberista ricorre alla forza militare, al cambio di regime e al controllo delle principali burocrazie internazionali associate alle Nazioni Unite (ONU), al FMI e alla Banca mondiale (e a una rete più occulta di organizzazioni non governative [ONG]) per impedire ai paesi di ritirarsi dalle attuali regole fiscali favorevoli ai rentier e dalle leggi favorevoli ai creditori. Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di primo piano nell’uso della forza e nel cambio di regime contro i governi che vorrebbero tassare o limitare in altro modo l’estrazione di rendite.

Va notato che nessuno dei primi socialisti (ad eccezione degli anarchici) sosteneva la violenza come mezzo per ottenere le proprie riforme. Sono stati piuttosto gli interessi acquisiti – restii ad accettare la perdita dei privilegi che costituiscono la base delle loro fortune – a non esitare a ricorrere alla violenza per difendere la propria ricchezza e il proprio potere dai tentativi di riforma volti a limitare i loro privilegi.

Per essere sovrane, le nazioni devono creare un’alternativa che consenta loro di essere responsabili del proprio sviluppo economico, monetario e politico. Ma la diplomazia statunitense considera qualsiasi tentativo di attuare le necessarie riforme politiche e fiscali e una forte autorità normativa governativa come una minaccia esistenziale al controllo degli Stati Uniti sulla finanza e sul commercio internazionale. Ciò solleva la questione se sia possibile realizzare riforme e un’economia pubblica forte senza ricorrere alla guerra. È naturale che i paesi si chiedano se sia possibile raggiungere la sovranità economica senza una rivoluzione, come quella che l’Unione Sovietica, la Cina e altri paesi hanno combattuto per porre fine al dominio della classe dei proprietari terrieri e dei creditori sostenuta dall’estero.

L’unico modo per proteggere la sovranità economica dalle minacce militari è quello di unirsi in un’alleanza di mutuo sostegno, poiché i singoli paesi possono essere isolati come è successo a Cuba, Venezuela e Iran. Come disse Benjamin Franklin: «Se non restiamo uniti, saremo impiccati separatamente».

Gli scrittori americani descrivono il tentativo di altri paesi di unirsi per raggiungere la sovranità economica come una guerra di civiltà. Sebbene si tratti effettivamente di una sfida tra civiltà, sono gli Stati Uniti e i loro alleati a muovere aggressione contro i paesi che cercano di ritirarsi da un sistema che ha fornito loro un enorme afflusso di rendite economiche e servizio del debito dai paesi ospitanti soggetti alla diplomazia sostenuta dagli Stati Uniti.

Dall’occupazione coloniale europea al colonialismo finanziario incentrato sugli Stati Uniti

Dopo la seconda guerra mondiale, l’era del colonialismo dei paesi colonizzatori ha lasciato il posto al colonialismo finanziario, con l’economia internazionale dollarizzata sotto la guida degli Stati Uniti. Le regole di Bretton Woods stabilite nel 1945 permisero alle multinazionali di mantenere i redditi economici derivanti dalla terra, dalle risorse naturali e dalle infrastrutture pubbliche al di fuori della portata fiscale nazionale. I governi furono ridotti al ruolo di agenti di riscossione per i creditori stranieri e di protettori degli investitori stranieri dai tentativi democratici di tassare la ricchezza dei rentier.

Gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il commercio mondiale in un’arma monopolizzando le esportazioni di petrolio da parte delle compagnie petrolifere statunitensi e alleate (le Seven Sisters), mentre il protezionismo agricolo statunitense ed europeo e la politica di “aiuti” della Banca Mondiale hanno indotto i paesi con deficit alimentare a concentrarsi sulle colture tropicali invece che sui cereali per nutrirsi. L’accordo di libero scambio nordamericano del 1994 con il Messico, firmato dal presidente Bill Clinton, ha inondato il mercato messicano con esportazioni agricole statunitensi a basso prezzo (fortemente sovvenzionate dal governo). La produzione cerealicola messicana è crollata, rendendo il Paese dipendente dall’importazione di cibo.

Per impedire ai governi di tassare o addirittura multare gli investitori stranieri al fine di ottenere un risarcimento per i danni causati ai loro paesi, le potenze rentier odierne hanno creato tribunali per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (ISDS) che obbligano i governi a risarcire gli investitori stranieri per l’aumento delle tasse o l’imposizione di normative che riducono il reddito di proprietà straniera. [1] Ciò ostacola la sovranità nazionale, impedendo ai paesi ospitanti di tassare la rendita economica dei loro terreni e delle loro risorse naturali di proprietà di stranieri. L’effetto è quello di rendere queste risorse parte dell’economia della nazione investitrice, non della loro. [2]

Altre nazioni hanno permesso agli Stati Uniti di dettare l’ordine post-seconda guerra mondiale, con la promessa di generosi aiuti a sostegno del libero scambio, della pace e della sovranità nazionale postcoloniale, come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. Ma gli Stati Uniti hanno sperperato la loro ricchezza in spese militari all’estero e nella dipendenza dalla ricchezza finanziaria in patria. Ciò ha lasciato il potere post-industriale dell’America basato principalmente sulla sua capacità di danneggiare altri paesi con il caos se questi non accettano l'”ordine basato sulle regole” progettato per estorcere loro tributi.

Gli Stati Uniti impongono tariffe protezionistiche e quote di importazione a loro piacimento, sovvenzionano l’agricoltura e le tecnologie chiave come potenziali monopoli globali dell’alta tecnologia, mentre vietano ad altri paesi di attuare tali politiche “socialiste” o “autocratiche” per diventare più competitivi. Il risultato è un doppio standard in cui l'”ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti (le proprie regole) sostituisce il rispetto del diritto internazionale.

La politica di sostegno dei prezzi agricoli degli Stati Uniti, avviata sotto Franklin Roosevelt negli anni ’30, fornisce un buon esempio del loro doppio standard. Ha reso l’agricoltura il settore più fortemente sovvenzionato e protetto. È diventata il modello per la Politica Agricola Comune (PAC) della Comunità Economica Europea introdotta nel 1962. Ma la diplomazia statunitense si oppone ai tentativi di altri paesi, in particolare quelli del Sud del mondo, di imporre i propri sussidi protezionistici e le proprie quote di importazione volte a raggiungere l’autosufficienza nella produzione alimentare di base, mentre gli “aiuti finanziari” degli Stati Uniti e la Banca Mondiale hanno (come indicato sopra) sostenuto l’esportazione di colture tropicali da parte dei paesi del Sud del mondo attraverso prestiti per lo sviluppo dei trasporti e dei porti. La politica statunitense si è sempre opposta all’agricoltura a conduzione familiare e alla riforma agraria in tutta l’America Latina e in altri paesi del Sud del mondo, spesso con la violenza.

Non sorprende che, essendo stata a lungo il principale avversario militare degli Stati Uniti, la Russia abbia assunto un ruolo di primo piano nella protesta contro l’ordine unipolare statunitense. Sostenendo un’alternativa multipolare all’ordine neoliberista statunitense nel 2023, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha descritto la sottomissione economica postcoloniale dei paesi che hanno raggiunto l’indipendenza politica dal dominio colonialista nel XIX e XX secolo, ma che ora devono affrontare il prossimo compito necessario per completare la loro liberazione.

I nostri amici africani stanno prestando sempre più attenzione al fatto che le loro economie continuano a basarsi in gran parte sullo sfruttamento delle risorse naturali di questi paesi. Infatti, tutto il valore aggiunto è prodotto e intascato dalle ex metropoli occidentali e dagli altri membri dell’Unione Europea e della NATO.

L’Occidente sta ricorrendo a sanzioni unilaterali illegali, che sempre più spesso diventano il presagio di un attacco militare, come è avvenuto in Jugoslavia, Iraq e Libia e sta avvenendo ora in Iran, nonché a strumenti di concorrenza sleale, avviando guerre tariffarie, sequestrando beni sovrani di altri paesi e sfruttando il ruolo delle loro valute e dei loro sistemi di pagamento. L’Occidente stesso ha di fatto seppellito il modello di globalizzazione che aveva sviluppato dopo la guerra fredda per promuovere i propri interessi. [3]

Marco Rubio ha ribadito lo stesso concetto durante le audizioni al Senato degli Stati Uniti per confermarlo come Segretario di Stato di Donald Trump, spiegando che “l’ordine globale del dopoguerra non solo è obsoleto, ma ora viene usato contro di noi”. [4]
Violando le regole del commercio estero e degli investimenti che gli stessi Stati Uniti avevano dettato nel 1945, in un altro esempio di ricorso da parte degli Stati Uniti all’«ordine basato sulle regole» delle proprie regole, i dazi unilaterali del presidente Trump miravano sia a trasferire i costi militari della nuova guerra fredda su altri paesi – che avrebbero dovuto acquistare armi americane e fornire eserciti proxy – sia a costringere i paesi a consentire alle aziende statunitensi di ottenere rendite di monopolio sulle principali tecnologie emergenti per sostituire il proprio potere industriale perduto.

Gli Stati Uniti mirano a imporre diritti di monopolio e relativi privilegi di rendita particolarmente favorevoli a se stessi su tutto il commercio e gli investimenti mondiali. La diplomazia America First di Trump esige che gli altri paesi conducano i loro scambi commerciali, i pagamenti e i rapporti di debito in dollari statunitensi anziché nelle loro valute. Lo “stato di diritto” statunitense è tale da consentire agli Stati Uniti di imporre unilateralmente sanzioni commerciali e finanziarie che dettano come e con chi i paesi stranieri possono commerciare e investire. Se non boicottano le relazioni commerciali e di investimento con la Russia, la Cina e altri paesi che rifiutano di sottomettersi al controllo degli Stati Uniti, questi paesi sono minacciati dal caos economico e dalla confisca delle loro riserve in dollari.

Il potere degli Stati Uniti per ottenere queste concessioni dall’estero non è più la leadership industriale e la forza finanziaria, ma la sua capacità di causare il caos in altri paesi. Affermando di essere la nazione indispensabile, la capacità degli Stati Uniti di perturbare il commercio sta mettendo fine al loro precedente potere monetario e diplomatico internazionale. Tale potere era originariamente basato sul possesso delle più grandi riserve auree mondiali nel 1945, sul loro status di maggiore nazione creditrice ed economia industriale e, dopo il 1971, sull’egemonia del dollaro, derivante in gran parte dal fatto che il loro mercato finanziario era il più sicuro per le altre nazioni per detenere le loro riserve monetarie ufficiali.

L’inerzia diplomatica creata da questi precedenti vantaggi non riflette più la realtà del 2025. Ciò che i funzionari statunitensi hanno è la capacità di interrompere il commercio mondiale, le catene di approvvigionamento e gli accordi finanziari, compreso il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication) di compensazione bancaria dei pagamenti internazionali. La confisca da parte degli Stati Uniti e dell’Europa di 300 miliardi di dollari di depositi monetari russi ha offuscato la sua reputazione di sicurezza finanziaria, mentre i suoi cronici deficit commerciali e della bilancia dei pagamenti minacciano di sconvolgere la stabilità monetaria internazionale e il libero scambio che l’hanno resa la principale beneficiaria dell’ordine mondiale del 1945-2025.

In linea con il principio della sovranità nazionale e della non interferenza negli affari interni degli altri paesi che è alla base della creazione dell’ONU (il principio fondamentale del diritto internazionale fondato sulla Pace di Westfalia del 1648), il ministro degli Esteri russo Lavrov ha descritto (nel suo discorso citato sopra) la necessità di «istituire meccanismi di commercio estero [che] l’Occidente non sarà in grado di controllare, come corridoi di trasporto, sistemi di pagamento alternativi e catene di approvvigionamento». Come esempio di come gli Stati Uniti abbiano paralizzato l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che avevano creato sulla base del libero scambio in un momento in cui gli Stati Uniti erano la prima potenza esportatrice mondiale, ha spiegato:

“Quando gli americani si sono resi conto che il sistema globalizzato che avevano creato – basato sulla concorrenza leale, sui diritti di proprietà inviolabili, sulla presunzione di innocenza e su principi simili, e che aveva permesso loro di dominare per decenni – aveva iniziato a favorire anche i loro rivali, in primis la Cina, hanno intrapreso azioni drastiche. Quando la Cina ha iniziato a superarli sul loro stesso terreno e secondo le loro stesse regole, Washington ha semplicemente bloccato l’organo di appello dell’OMC. Privandolo artificialmente del quorum, hanno reso inattivo questo fondamentale meccanismo di risoluzione delle controversie, che rimane tale ancora oggi.

Gli Stati Uniti sono riusciti a bloccare l’opposizione straniera alle loro politiche nazionaliste grazie al potere di veto di cui dispongono presso l’ONU, il FMI e la Banca mondiale. Anche senza tale potere, i diplomatici statunitensi sono riusciti a impedire alle organizzazioni dell’ONU di agire in modo indipendente dalla volontà degli Stati Uniti, rifiutandosi di nominare leader o giudici che non fossero fedeli alla loro politica estera. [5] Il mondo non è più governato dal diritto internazionale, ma da regole unilaterali statunitensi soggette a cambiamenti improvvisi a seconda delle vicissitudini del potere economico o militare americano (o della sua perdita). Come ha descritto il presidente russo Vladimir Putin nel 2022: «I paesi occidentali affermano da secoli di portare libertà e democrazia alle altre nazioni», ma «il mondo unipolare è intrinsecamente antidemocratico e non libero; è falso e ipocrita in tutto e per tutto». [6]

L’immagine che gli Stati Uniti hanno di sé stessi descrive la loro posizione dominante nel mondo come il riflesso della loro democrazia, del libero mercato e delle pari opportunità che, secondo loro, hanno permesso alla loro élite al potere di acquisire il proprio status essendo i membri più produttivi dell’economia, attraverso la gestione e l’allocazione dei risparmi e del credito. La realtà è che gli Stati Uniti sono diventati un’oligarchia rentier, sempre più ereditaria. Le fortune dei suoi membri derivano principalmente dall’acquisizione di beni che generano rendite (terreni, risorse naturali e monopoli) sui quali realizzano plusvalenze, mentre pagano la maggior parte delle loro rendite sotto forma di interessi ai loro banchieri, che finiscono per accaparrarsi gran parte di queste rendite e diventano la classe manageriale dominante della nuova oligarchia.

In sintesi

Il vero conflitto su quale tipo di sistema economico e politico avrà la maggioranza globale sta appena iniziando a prendere slancio. I paesi del Sud del mondo e altri sono stati spinti così profondamente nel debito che sono stati costretti a vendere le loro infrastrutture pubbliche per pagare gli oneri finanziari. Per riprendere il controllo delle proprie risorse naturali e delle infrastrutture di base è necessario il diritto fiscale di imporre una tassa sulla rendita economica derivante dalla terra, dalle risorse naturali e dai monopoli, nonché il diritto legale di recuperare i costi di bonifica ambientale causati dalle compagnie petrolifere e minerarie straniere e i costi di risanamento finanziario per il debito estero imposto dai creditori che non si sono assunti la responsabilità di garantire che i loro prestiti potessero essere rimborsati alle condizioni esistenti.

La retorica evangelizzatrice degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più accurato descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati europei e occidentali contro la civiltà, supponendo che la civiltà comporti, come sembra dover essere, il diritto sovrano dei paesi di promulgare le proprie leggi e i propri sistemi fiscali a beneficio delle proprie popolazioni all’interno di un sistema internazionale che ha un insieme comune di regole e valori fondamentali.

Ciò che gli ideologi occidentali chiamano democrazia e libero mercato si è rivelato essere un aggressivo imperialismo finanziario-rentier. E ciò che chiamano autocrazia è un governo abbastanza forte da impedire la polarizzazione economica tra una classe rentier super ricca e una popolazione povera, come sta accadendo all’interno delle stesse oligarchie occidentali.

Note

[1] Fornisco i dettagli e la discussione nel capitolo 7 di The Destiny of Civilization (ISLET 2022).

[2] La compagnia petrolifera saudita Aramco, ad esempio, non era una società affiliata giuridicamente distinta, ma una filiale della Standard Oil of New York (ESSO). Questa sottigliezza giuridica significava che le sue entrate e le sue spese erano consolidate nel bilancio della società madre statunitense. Ciò le consentiva di beneficiare di un credito d’imposta per la “deduzione per esaurimento” del petrolio, rendendo la società effettivamente esente dall’imposta sul reddito statunitense, sebbene fosse il petrolio saudita ad essere esaurito.

[3] Dichiarazioni e risposte alle domande del ministro degli Esteri Sergey Lavrov all’11° Forum internazionale Primakov Readings, Ministero degli Esteri russo, Mosca, 24 giugno 2025, https://mid.ru/en/press_service/video/view/2030626/

[4] Marco Rubio, testimonianza del 15 gennaio 2025, https://www.state.gov/opening-remarks-by-secretary-of-state-designate-marco-rubio-before-the-senate-foreign-relations-committee

[5] L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), incaricata di tenere sotto controllo la proliferazione nucleare, è l’esempio più recente e noto. Il suo leader, Grossi, ha fornito ai servizi segreti statunitensi e israeliani i nomi degli scienziati iraniani uccisi e i dettagli dei siti di raffinazione nucleare iraniani che sono stati bombardati. Il veto degli Stati Uniti ha impedito a quasi tutte le Nazioni Unite di condannare gli attacchi israeliani contro la popolazione palestinese. E quando la Corte penale internazionale (ICC) ha incriminato Benjamin Netanyahu come criminale di guerra per aver condotto il genocidio di Israele contro i palestinesi, i funzionari statunitensi hanno chiesto la rimozione del giudice.

[6] Vladimir Putin, discorso del 30 settembre 2022 in occasione della firma dei trattati di adesione alla Russia delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk e delle regioni di Zaporozhye e Kherson, http://en.kremlin.ru/events/president/news/69465

La foto all’inizio di questo articolo ritrae un’opera esposta alla Summer Exhibition (2021) della Royal Academy di Londra.

Michael Hudson

Economista americano, professore di Economia all’Università del Missouri-Kansas City e ricercatore presso il Levy Economics Institute del Bard College, ex analista di Wall Street, consulente politico, commentatore e giornalista.

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Scuse, Apologia e un esempio concreto_di Aurelien

Scuse, Apologia e un esempio concreto.

Questa settimana ho fatto tutto quello che potevo, mi dispiace.

Aurélien5 novembre
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Purtroppo, questa settimana non posso offrirvi un saggio completo. Sono stato spiacevolmente malato per gran parte della settimana scorsa, e sono riuscito a malapena a strisciare fino alla scrivania per fare le ultime modifiche e premere il pulsante “Continua” mercoledì prima di crollare a letto. Più di recente, sono stato in viaggio per diversi giorni, e francamente mi sento ancora piuttosto fragile. E poi, finalmente, ho disegnato l’Eremita due volte di seguito all’inizio di questa settimana nella mia lettura quotidiana dei Tarocchi, e sì, mi sta dicendo di calmarmi e di ritirarmi un po’ in me stesso. Ho capito il messaggio. Ma a quel punto l’Etica del Lavoro Protestante ha fatto capolino dalla porta con un’espressione di disapprovazione. “Non puoi semplicemente non fare nulla”, ha detto, disgustata. Quindi la soluzione che ho negoziato con la PWE è stata che, dopo tre anni e mezzo, più di duecento post e millecentomila parole, avrei scritto un articolo molto breve solo per ricordare ai nuovi lettori, in particolare, qual è lo scopo di questo sito e perché questo scopo lo rende relativamente insolito.

Ok, il titolo di questo sito è ” Cercare di capire il mondo”. Non è “Cose che odio e persone che vorrei veder morire”, non è ” Quale parte sostengo”, o “Cosa dovrebbero fare i governi riguardo a X o Y”, non è ” Non ne so molto, ma qualcuno dovrebbe fare qualcosa” o ” Ecco la cospirazione sconosciuta dietro ogni crisi”. Vale a dire che cerco di utilizzare ciò che ho visto, fatto e credo di aver imparato, in cinquant’anni, per cercare di fare un po’ di luce su ciò che sta accadendo nel mondo oggi, cosa significa e come potrebbe evolversi, e quindi ridurre il livello generale di confusione e migliorare un po’ la comprensione generale. È un obiettivo modesto, e almeno alcuni sembrano trovarlo utile, ma significa che occupo una sorta di micro-nicchia nella grande palude carnivora che è la scrittura su Internet. L’approccio, come dico spesso, deriva dall’ingegneria. La politica, come l’ingegneria, riguarda forze, corpi, tensioni e tipi di materiali ed energie. La politica, come l’ingegneria, si basa su tendenze generali piuttosto che su previsioni specifiche. Proprio come un ingegnere può dire “questo ponte non è sicuro, crollerà presto”, è possibile, con l’esperienza, considerare un nuovo governo, un trattato di pace o un cessate il fuoco e dire la stessa cosa.

La politica ha regole e processi standard. Cose già sperimentate verranno riprovate, e in molti casi ciò che non ha funzionato prima non funzionerà più, anche se questo non impedirà ai politici di provarci. I consigli pragmatici (“quando sei in un buco, smetti di scavare”) non perdono mai la loro pertinenza, ma devono essere reimparati da ogni generazione. Il risultato generale è che spesso è possibile osservare una situazione nel mondo e pensare: questa sembra seguire un modello e una progressione ben noti, e dai principi generali credo di poter capire cosa sta succedendo e dove potrebbero andare a parare le cose. I requisiti, ovviamente, sono almeno una minima comprensione attuale della situazione e un background generale sufficiente sui processi politici e sulle crisi nel loro complesso. Ecco perché non mi troverete a pontificare sul Venezuela, dove non ho alcuna esperienza, o sulla Thailandia e sulla Cambogia, dove ciò che sapevo prima è ormai ampiamente superato.

Inutile dire che non è così che la maggior parte degli scrittori su Internet vede il proprio ruolo, ed è per questo che voglio distinguere il modo in cui vedo il mio. Ma il mio background professionale si concentra in due ambiti – governo e mondo accademico – che sono piuttosto darwiniani, nel senso che se non sai di cosa stai parlando, nessuno ti ascolta. Detto questo, quello che considero il problema per molti altri scrittori che lavorano nello stesso settore è la minore competenza in quanto tale – dato che di solito ci sono persone con il background pertinente – quanto piuttosto l’incapacità di distinguere tra spiegazione e giustificazione, o tra analisi e advocacy, o persino di riconoscere che tale distinzione è necessaria. Ora, ci sono ragioni del tutto accettabili per l’advocacy, e circostanze in cui è appropriata, ma il problema sorge quando viene confusa con l’analisi, e spesso presentata come se lo fosse. Il risultato è che gran parte della copertura mediatica dell’Ucraina o di Gaza è a livello di sito dedicato agli appassionati di sport, e mentre si può dedurre a grandi linee cosa sia successo oggettivamente (come in altri contesti si può scoprire chi ha vinto la partita), tutto è incentrato sul tifo e sul denigrare gli avversari. E se non siete mai stati coinvolti professionalmente nelle questioni Russia/Ucraina, o nelle questioni relative all’uso della moderna tecnologia militare da parte di forze armate su larga scala, o non avete esperienza sul campo in Medio Oriente, allora vi trovate esattamente nella posizione del tifoso che non ha mai giocato a livello professionistico, e che tifa per la propria squadra su Internet. Ora, non c’è niente di sbagliato in questo, e c’è spazio per tutto, ma non è la parte di Internet che scelgo di frequentare.

Un risultato è che gran parte degli scritti su queste due crisi è incestuosa e ripetitiva, citando le stesse fonti e ripetendo le stesse storie, ma anche riutilizzando all’infinito lo stesso vocabolario. Questa, a mio avviso, è più una questione di autoprotezione che altro: è necessario comprendere e seguire le regole stabilite dalla parte che si è scelta, per non essere sospettati di nutrire una segreta simpatia per il Nemico. Quindi è obbligatorio, a quanto pare, fare riferimento all'”invasione su vasta scala” dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 se si vuole evitare di attirare critiche da una parte, anche se non riesco proprio a capirne il motivo, visto che ovviamente non è stato così. E tutti i riferimenti al periodo 2014-2022 sono esclusi perché menzionarli sarebbe un atto ostile. Molti articoli che trovo su Internet sembrano in realtà nervosamente difensivi piuttosto che informativi: cercano soprattutto di persuadere i lettori della loro purezza ideologica, per timore che siano sospettati di una simpatia nascosta per la parte avversa. E quando non lo si fa, i lettori diventano nervosi e a disagio. Così ho scritto articoli in cui sostengo che una vittoria russa in Ucraina è inevitabile e che le conseguenze per l’Occidente saranno gravi, il che a quanto pare mi etichetta come “filo-russo”. Ma ho anche scritto articoli in cui sostengo che la Russia troverà la fine della guerra molto problematica e probabilmente non otterrà il trattato di sicurezza paneuropeo che desidera. Questo viene etichettato come “anti-russo”. Quindi, da che parte sto?

Questo tipo di domanda è possibile, mi sembra, solo per persone che non hanno mai imparato a pensare correttamente, o che l’hanno dimenticato da tempo. È il risultato della pressione a elidere le distinzioni tra fatti e opinioni, in modo che la tua squadra non solo vinca oggettivamente, ma che la sua causa sia ed è sempre stata del tutto giusta, che tutto ciò che i suoi portavoce umani dicono sia vero e che tutti i suoi leader siano santi. Il risultato è una scrittura che è inutile come qualsiasi altra cosa se non come sermoni rivolti a chi è già convertito. Supponiamo che tu sia un lettore intelligente e imparziale, stanco delle falsificazioni del Grauniad o del New York Times , e che voglia saperne di più sull’Ucraina. Quindi inizi a sfogliare alcuni siti alternativi e in effetti questo sembra piacevolmente diverso, finché non ti imbatti in espressioni come “ucronazisti” e “regime banderita”, i tuoi leader nazionali descritti come “criminali di guerra” e i tuoi paesi descritti come “cagnolini”. A quel punto smetti di leggere e torni al Grauniad.

Perché ovviamente questi siti non cercano di informare, e tanto meno di convertire. Sono impegnati in una spietata competizione per clic e denaro dallo stesso pubblico limitato, e sperano di ottenerli mostrando la più incrollabile lealtà possibile alla linea del partito e urlando insulti il ​​più forte possibile. Dopotutto, se sei, diciamo, il proprietario di un piccolo sito Internet che scrive di eventi mondiali e dipende dagli abbonamenti, come farai a distinguerti sull’argomento di Gaza, che, per ragioni commerciali, non puoi evitare di affrontare? Non conosci la regione, non parli arabo né ebraico, non conosci nemmeno abbastanza i media locali per sapere cosa leggere in traduzione. La tua conoscenza della tecnologia militare è frammentaria e non sai nulla di combattimento urbano. La struttura politica incredibilmente complessa della regione è al di là delle tue possibilità. Quindi cosa fai? Urli. Cerchi di urlare più forte, di fare accuse più estreme, richieste più estreme e di usare meno sfumature e più oscenità di qualsiasi tuo concorrente. Il risultato è un fenomeno paragonabile per certi versi al traffico di anfetamine e cocaina, dove le persone pagano per essere portate in uno stato di rabbia e sovreccitazione. Perché in realtà, la semplice comprensione delle cose non è molto eccitante, e anzi può far sembrare il mondo un posto più noioso e meno eccitante. La rabbia e il senso di superiorità morale che ne deriva sono molto più eccitanti. È sorprendente quanto spesso mi sia imbattuto in persone che semplicemente ignorano scaffali di studi, decenni di ricerche, battaglioni di testimoni ed esperienze vissute da intere comunità, perché preferiscono attenersi alle idee e alle emozioni acquisite vent’anni prima all’università, e non discostarsi dalle opinioni del gruppo con cui si identificano, e che comunque li rende sufficientemente arrabbiati. Quindi bisogna accettare che non tutti sono ugualmente interessati a cercare di capire il mondo.

Avrei voluto fermarmi qui, ma stamattina mi sentivo un po’ meglio, quindi ho pensato di aggiungere un breve esempio per mostrare la differenza tra analisi e advocacy (o abuso o rabbia, visto che sembrano essere più o meno la stessa cosa). Proviamo quindi a rispondere a una semplice domanda relativa a Gaza: perché la campagna internazionale è stata così totalmente inefficace nel cambiare il comportamento del governo israeliano e persino dei suoi sostenitori occidentali? Ora, notate che questa domanda, la cui risposta è semplice e immediata, non richiede alcuna comprensione o conoscenza particolare, se non una certa familiarità con il successo e il fallimento delle campagne politiche e con il modo in cui i governi le gestiscono. Poiché ho entrambe le cose, mi sento qualificato per commentare.

Tanto per cominciare, ovviamente, alcuni negherebbero che la campagna sia stata un fallimento. In effetti, ho letto molti articoli autocelebrativi che esprimevano stupore e gioia per i milioni di manifestanti in piazza. Ma questo è il tipico errore da dilettanti: confondere l’input con l’output. Non importa quanti miliardi di manifestanti ci siano, l’effetto sui governi è stato scarso o nullo. Questo sembra strano, e in effetti lo è , dato che qualsiasi campagna organizzata con competenza avrebbe ottenuto risultati molto più grandi. Che aspetto ha allora una campagna generica e competente?

In primo luogo, ha un obiettivo chiaro, semplice e almeno teoricamente realizzabile. In questo caso, deve essere la fine delle uccisioni e il ritiro delle forze israeliane da Gaza. In secondo luogo, questo deve essere sintetizzato in un discorso con slogan chiari e comprensibili, in cui tutti possano identificarsi. Quindi concordiamo su “fermare il massacro a Gaza”. Le manifestazioni nelle capitali nazionali potrebbero anche chiedere ai governi di “smettere di permettere il massacro” e di esercitare pressioni su Israele in ogni modo possibile. In terzo luogo, gli slogan devono essere supportati da altri media per rafforzare il messaggio: non mancano foto e video di bambini morti, e alla domanda “cosa intendi per massacro?” ci sono biblioteche piene di prove raccapriccianti. E infine, nel tuo discorso e nel tuo metodo, devi incoraggiare la partecipazione di una fascia il più ampia possibile della popolazione, utilizzando temi che uniscano le persone.

Soprattutto, c’è un punto politico tattico fondamentale: bisogna imporre il proprio discorso, la propria struttura, il proprio vocabolario sul problema, e non lasciare che l’altro lo faccia. Questo mantiene il governo in una posizione di svantaggio, costretto a rispondere continuamente a domande come “perché non si ferma il massacro?” e ​​a trovare il modo di giustificarsi.

Ora, tutto questo è abbastanza elementare. Ma avete notato qualcosa del genere ? Io no. Letteralmente nessuno di questi passi sensati e produttivi è stato intrapreso su scala significativa. Il dilettantismo e l’incompetenza sono stupefacenti, a meno che, come spiegherò brevemente più avanti, non ci sia un secondo fine. No, ai manifestanti è stato detto di sventolare bandiere palestinesi e di cantare “Palestina libera”. Ho visto video strazianti di genitori che seppellivano i loro figli, ritwittati con la scritta “Palestina libera”.

Gli oppositori si sono quindi autocastrati fin dall’inizio, accettando il discorso di Israele e dei suoi sostenitori, secondo cui questa è una guerra tra “Israele” e “Palestina” e i rispettivi eserciti, in cui purtroppo muoiono civili. Inoltre, mentre “Difendere la Palestina” potrebbe essere stato (a malapena) uno slogan efficace, “Liberare la Palestina” è uno slogan che non ha letteralmente nulla a che fare con l’attuale massacro. La “Palestina” citata qui non è Gaza, né tantomeno Gaza e la Cisgiordania. In questo contesto, “Palestina” significa l’intero territorio del Mandato britannico, incluso quello che oggi è lo Stato di Israele. Quindi “libertà”, dal fiume (Giordano) al Mar (Mediterraneo), significa lo smantellamento forzato dello Stato di Israele e l’espulsione della sua comunità ebraica. E sebbene ciò non accadrà mai in tempi ragionevoli, anche se accadesse , tra un decennio o due, come si suppone che fermi la sofferenza e la morte a Gaza oggi? Ovviamente, non lo è. Quindi, il messaggio dell’opposizione a coloro che sono scioccati e disgustati dalle azioni israeliane a Gaza è: “Ecco una bandiera palestinese, venite con noi e manifestate per la fine di Israele e lo smantellamento dello Stato ebraico”. Questo attirerà la folla.

Naturalmente, questo fa leva su una certa tendenza trasgressiva e audace in Occidente, che ama parlare di Israele come di una “colonia”, del suo esercito come di una “forza di occupazione” e dei suoi cittadini come di “coloni”. In effetti, quando vedi una pubblicazione che mette “Israele” tra virgolette, sai di trovarti in quello spazio consapevolmente trasgressivo. Ma allora? Come può essere d’aiuto a qualcuno? Non fa altro che semplificare la vita ai governi occidentali. Pochi sono sostenitori entusiasti di Israele: la maggior parte vede Israele come il male minore rispetto a un movimento islamico fondamentalista militante intenzionato a distruggere Israele e a creare caos nella regione. Il fatto è che arrestare i manifestanti “filo-palestinesi” è molto più facile che arrestare i sostenitori della campagna “Stop the Slaughter”, e gli oppositori delle azioni di Israele hanno premurosamente passato tutte le carte ai cattivi.

Ma sicuramente, direte voi, che dire di tutte queste accuse di genocidio? Beh, questo è un altro errore non forzato che gioca a favore del governo di Israele e dei suoi alleati. Perché? Beh, potrei scrivere molto di più su questo argomento di quanto abbia il tempo di scrivere o tu avresti la pazienza di leggere, ma stabiliamo solo che (1) il genocidio è al massimo un concetto incerto e incoerente, basato su una scienza razziale obsoleta (2) è un crimine necessariamente commesso da una persona identificata, che può essere esaminato solo in tribunale, con montagne di prove complesse e spesso contraddittorie (esperienza personale) (3) le condanne per genocidio sono quasi impossibili senza barare e inventare cose e (4) un crimine immensamente tecnico e difficile da provare è degenerato in un termine offensivo usato da tutti contro tutti.

La Convenzione sul Genocidio è un documento risalente alla Guerra Fredda, originariamente sostenuto da ricchi esuli anticomunisti di destra negli Stati Uniti. Rendendo le nazioni firmatarie responsabili della prevenzione e della repressione del genocidio all’interno della propria giurisdizione, ci si aspettava che l’Unione Sovietica potesse essere accusata di essere venuta meno ai propri doveri attraverso lo spostamento di gruppi di popolazione dopo il 1945 e la modifica dei confini nazionali. (Anche molti pensatori umanitari, naturalmente, condividevano l’idea). Ma il genocidio, come descritto qui, non è in realtà un crimine, bensì l’aggravante di un crimine, e richiede la prova che individui specificatamente identificati abbiano compiuto, o ordinato direttamente a entità da loro effettivamente controllate di compiere, una o più attività con l’intenzione di distruggere “in tutto o in parte” un gruppo religioso, razziale, etnico o nazionale. Poiché non c’è accordo su cosa significhi “una parte”, poiché non è chiaro se uno qualsiasi di questi gruppi nominati abbia comunque un’esistenza oggettiva e poiché cercare di provare oltre ogni ragionevole dubbio il contenuto della mente di qualcuno è, beh, complicato, non sorprende che le condanne per genocidio siano quasi impossibili se ci si attiene alle regole.

Ma il risultato, ovviamente, è quello di fare un regalo di questa complessità ai difensori di Israele. Beh, dice un avvocato amichevole e pacato, è tutto molto difficile, vedete, e c’è questo caso e quel caso, e l’intento è molto problematico, e qui i giudici hanno detto, e ovviamente i social media non sono una prova, quindi alla fine, beh, non sono affatto sicuro che si possa stabilire un genocidio. Quindi non c’è niente da vedere qui. La realtà, ovviamente, è che le prove per crimini contro l’umanità sono schiaccianti, e la soglia (“diffusa e sistematica”) è stata ovviamente raggiunta da tempo. (La CPI ha riconosciuto queste problematiche nei suoi atti d’accusa.) Ma questo si è piuttosto perso nei cori di “Genocidio! Genocidio!” di persone che danno per scontato, come spesso hanno fatto in passato, che il loro fervore morale possa in qualche modo essere tradotto in condanne automatiche da una Corte obbediente.

Si tratta solo di un livello di incompetenza sbalorditivo? O ci sono altri problemi? Beh, da un lato, ci sono gruppi islamisti che considererebbero la distruzione parziale o totale di Gaza un prezzo ragionevole da pagare per il progresso dei propri programmi che includono la ristabilimento del Califfato. Ci sono tendenze escatologiche in alcune versioni dell’Islam (ad esempio quella che ha influenzato lo Stato Islamico) che prendono sul serio le profezie di battaglie apocalittiche finali per Gerusalemme che porteranno al ritorno del Mahdi. Ma come sempre è difficile sapere fino a che punto arrivi la loro influenza pratica e quanto, se mai, influenzi il comportamento degli stati della regione.

È molto più facile comprendere l’autocastrazione dei movimenti politici occidentali, e soprattutto europei. Da decenni ormai, la Palestina è una causa vagamente definita e ottimista per alcune parti della “sinistra” europea. Ricordo di aver visto sciarpe palestinesi gialle e nere in vendita alle cerimonie di sinistra almeno una generazione fa. Poiché i palestinesi sono deboli e hanno poca capacità di influenzare il modo in cui l’Occidente li vede e li tratta, vengono relegati allo status di animali domestici, coccolati senza sosta ma senza alcun aiuto pratico. In effetti, si può sostenere che il 7 ottobre 2023 sia stato un grande shock dirompente per alcune parti della sinistra europea, quando si è scoperto che gli animali domestici erano in grado di esercitare autonomamente la loro azione. La lobby “palestinese” vuole davvero che la sofferenza finisca? Beh, visto il modo in cui si stanno comportando, si potrebbe essere perdonati se si pensasse di no.

Ecco, sto scivolando nelle speculazioni, e mi fermo. Ma non credo che nessuno con esperienza nella conduzione di campagne politiche, o nella loro opposizione dall’interno del governo, possa contestare gran parte dell’analisi precedente. Ed è questo che intendo per analisi: è un tentativo di rispondere alla domanda sul perché l’opposizione popolare occidentale al massacro di Gaza sia stata così inefficace. Potrei avere ragione (credo di averla), ma in ogni caso è così che intendo continuare a scrivere.

Nel frattempo, un altro Paracetamolo, e ci vediamo più diffusamente la prossima settimana. Ah, e sì, quasi dimenticavo.

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La nuova realtà della guerra – Analisi di un think tank russo_di Simplicius

La nuova realtà della guerra – Analisi di un think tank russo

Simplicius 5 novembre∙
 
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Rivista geopolitica russa Global Affairs ha pubblicato un nuovo articolo di strategia militare scritto in collaborazione con il generale Yuri Baluyevsky, che è stato capo di Stato Maggiore della Russia — l’attuale posizione di Gerasimov — dal 2004 al 2008. È noto per essersi dimesso dopo essersi opposto alle controverse “riforme Serdyukov” che hanno trasformato — o svuotato, a seconda dei punti di vista — le forze armate russe nel periodo 2008-2012.

Il pezzo si intitola “Guerra digitale – Una nuova realtà”:

https://globalaffairs.ru/articles/czifrovaya-vojna-baluevskij-puhov/

Come si evince dal sottotitolo, l’articolo esorta la Russia ad adattarsi il prima possibile a questa “nuova realtà”. L’urgenza deriva dalla tesi affermata secondo cui le capacità tecnologiche dei droni aumenteranno più rapidamente dei mezzi efficaci per contrastarli:

È improbabile che ci sia un esperto che neghi i cambiamenti rivoluzionari in campo militare: la “rivoluzione senza pilota” o la “rivoluzione della guerra dei droni”. Forse, in senso più ampio, potrebbe essere definita la “guerra digitale”. Ci sono tutte le ragioni per credere che questo processo continuerà ad espandersi e ad approfondirsi, poiché il potenziale di aumento della “guerra dei droni” supera la capacità di contrastare efficacemente questo tipo di arma.

Gli autori proseguono spiegando che i droni stanno diventando sempre più economici e piccoli, aumentando al contempo la loro portata. Nel prossimo futuro, osservano, la retroguardia tattica diventerà una vera e propria “zona di sterminio”, cosa che in sostanza è già avvenuta secondo molte testimonianze provenienti dal fronte.

Il campo di battaglia tattico e le retrovie, a decine di chilometri dalla linea di contatto, diventeranno essenzialmente una “zona di sterminio”. Naturalmente, contrastare queste minacce sarà una priorità assoluta. Di conseguenza, la lotta armata si concentrerà principalmente sul raggiungimento della “supremazia dei droni” nell’aria. Di conseguenza, l’organizzazione delle forze militari dovrà allinearsi con gli obiettivi e gli scopi di raggiungere tale supremazia nell’aria e nello spazio.

Alla luce di quanto sopra, ecco un’interessante analisi di un canale russo sulla direzione di Pokrovsk, che descrive come si è evoluta la situazione in termini di logistica e posizionamento delle unità.

Continuiamo il nostro difficile lavoro per rifornire le nostre unità d’assalto nella direzione di Pokrovsk. Questo mese, l’attenzione principale è stata rivolta alle unità d’assalto, alle loro comunicazioni e alla loro sopravvivenza sul campo di battaglia.

Innanzitutto, dobbiamo spiegare come si presenta la linea di contatto in questa direzione e, in generale, su tutto il fronte.
In primo luogo, il personale militare assemblato e pronto a svolgere i propri compiti di combattimento viene portato al punto di raccolta a 20-25 km dalla linea del fronte.
Quindi attendono il comando. Vengono caricati all’inizio del segmento successivo e lasciati in un punto a circa 10-13 km dalla LBS (linea di contatto), dove possono rimanere per un certo periodo di tempo, da alcune ore a diversi giorni. Si tratta di un punto di evacuazione vicino da cui è quasi garantito poter fuggire e sopravvivere.

Poi c’è il successivo punto di sbarco a 5-7 km dalla LBS: non è possibile proseguire oltre in auto. Tutti gli sbarchi e gli spostamenti sul terreno tra campi minati e aree aperte sono effettuati da guide.
Quindi, a piedi, raggiungono il punto da cui può iniziare l’assalto. Da lì, si avvicinano alle posizioni. Di norma, solo la metà di loro raggiunge le posizioni, mentre il resto rimane ferito o ucciso dai droni.

Una coppia di stormtrooper che ha raggiunto le rovine di una casa di solito viaggia in coppia, nascondendosi tra le rovine e nei seminterrati. Non si avventurano all’esterno se non è necessario. Da lì, devono mantenere la comunicazione con il loro comandante per rimanere informati su ciò che accade all’esterno, coordinare le loro azioni con i vicini, fornire assistenza e partecipare agli assalti. Possono trascorrere una settimana, un mese o due tra le rovine.

Se il tempo è brutto : nebbia, pioggia, nevicate, allora le perdite si riducono drasticamente. I droni FPV quasi non volano sotto la pioggia: le gocce si attaccano alla telecamera. La cortina d’acqua blocca fortemente il segnale a 5,8 Ghz. Tuttavia, l’artiglieria nemica inizia a lavorare più attivamente. Il cablaggio di qualsiasi gruppo corazzato viene solitamente notato dal nemico 10-15 km prima dell’LBS. Quando raggiunge le posizioni iniziali per l’attacco, ci sono già dozzine di droni FPV nemici nel cielo e altre dozzine pronte al lancio. Tutto questo poi ricade sul gruppo corazzato e sui paracadutisti. Sì, è difficile per le nostre truppe e ci sono delle vittime, ma siamo ancora in grado di lanciare i paracadutisti e avanzare. Le nostre perdite principali sono sotto forma di soldati feriti.

Come descritto sopra, la zona a 25 km dalla linea di controllo è già diventata estremamente rischiosa, dove la dispersione è necessaria per la sopravvivenza. Quindi, da 5-7 km in poi, diventa essenzialmente la “zona della morte”, per usare la terminologia alpinistica.

Baluyevsky e il suo coautore affermano che il principale sviluppo del campo di battaglia moderno è l’eliminazione totale della “nebbia di guerra”, che ha dato inizio a un’era di completa trasparenza sul campo di battaglia. Il pericolo principale risiede nell’ulteriore sviluppo e nel coordinamento incrociato delle risorse spaziali con quelle di altre tecnologie digitali e dei droni:

Il miglioramento degli strumenti di sorveglianza, dei sensori, della potenza di calcolo, delle reti informatiche, dei metodi di trasmissione e elaborazione dei dati e dell’intelligenza artificiale sta creando un ambiente informativo globale unificato a terra, in aria e nello spazio (lo “spazio di battaglia informativo”) che fornisce e amplia sempre più la trasparenza tattica, operativa e strategica unificata.

A questo proposito, c’è una breve ma interessante digressione tratta da un altro recente rapporto russo. Esso descrive come l’ultima “unificazione digitale” dello “spazio di battaglia informativo” abbia portato con sé alcuni effetti collaterali indesiderati da parte dei comandanti che sono stati dotati di troppo controllo informativo, tanto che spesso cadono nella microgestione o nell’iperconcentrazione su un compito o un obiettivo tatticamente irrilevante, a scapito dell’obiettivo tattico o operativo principale:

Nell’opera di Markin A.V. “Generalizzazione dell’esperienza di combattimento della SVO” fino al luglio 2025. Il terzo quaderno evidenzia aspetti interessanti nel lavoro delle unità di fanteria insieme ai calcoli degli UAV. Si tratta di errori a cui pochi prestano attenzione, anche in una situazione di combattimento.

Il microcontrollo è una situazione interessante in cui un comandante di alto rango, invece di occuparsi della gestione complessiva del combattimento, si siede a guardare un live streaming da Mavik e inizia a dare ordini per distruggere obiettivi secondari sul campo di battaglia, come un soldato ucraino che striscia nel bosco. In questo modo, perde il controllo della situazione nella sua zona, ma in un episodio di combattimento separato sul monitor, è un eroe. Il secondo peccato è la “selezione frammentaria”. Il desiderio di scrivere sul proprio conto l’equipaggiamento o la fanteria nemica distrutta, mentre si “segna” un vero compito tattico. Di conseguenza, il calcolo potrebbe non avere droni quando i gruppi d’assalto chiedono supporto e muoiono senza di esso. Ma hanno registrato sul proprio conto un pick-up/fanteria danneggiato, che anche senza di loro c’è qualcuno che può intercettare.

Ciò che intendono dire è che, conferendo ai comandanti tali nuovi livelli di controllo tattico-militare, talvolta questi ultimi finiscono per perseguire “punti”, gloria o diritti di vantarsi distruggendo obiettivi secondari per abbellire i “rapporti” inviati ai superiori, trascurando invece i compiti primari, come nell’esempio sopra riportato, ovvero la fanteria amica che potrebbe essere in avanzata e necessitare di quei droni di riserva per aiutarla a contrastare le fortificazioni nemiche, ecc.

Tornando al punto, l’aspetto più interessante dell’analisi contenuta nell’articolo di Global Affairs è il riconoscimento da parte di Baluyevsky e del suo coautore che la moderna guerra con droni digitalizzati ha sostanzialmente reso obsolete varie classificazioni militari classiche che sono state alla base della guerra per generazioni. Ad esempio, la “sfumatura dei confini tra tattico, operativo e strategico”, nonché i concetti specifici dei ruoli dei veicoli corazzati e di altri sistemi d’arma.

Il risultato è l’impossibilità di dispiegare e concentrare segretamente forze e risorse nelle aree di concentrazione degli sforzi principali, il che cambia radicalmente la filosofia stessa delle operazioni militari.

Alcune di queste idee riflettono pensieri precedenti di teorici sovietici di cui avevo discusso in articoli come questo, che prevedevano un futuro in cui anche il concetto di “linea del fronte” sarebbe scomparso del tutto, annunciando una nuova forma di combattimento “non lineare”:

I sovietici considerano la battaglia non lineare come una battaglia in cui battaglioni e reggimenti/brigate separati e “tatticamente indipendenti” combattono battaglie di incontro e proteggono i propri fianchi mediante ostacoli, fuoco a lungo raggio e ritmo. . . . Le grandi unità, come le divisioni e gli eserciti, possono influenzare la battaglia attraverso l’impiego delle loro riserve e dei sistemi di attacco a lungo raggio, ma l’esito sarà deciso dalle azioni dei battaglioni e dei reggimenti/brigate interforze che combattono separatamente su più assi a sostegno di un piano e di un obiettivo comuni. . . . Il combattimento tattico sarà ancora più distruttivo che in passato e sarà caratterizzato da combattimenti frammentati [ochagovyy] o non lineari. La linea del fronte scomparirà e termini come “zone di combattimento” sostituiranno i concetti obsoleti di FEBA, FLOT e FLET. Non esisteranno rifugi sicuri o “retro profondo”.

Nello stesso articolo sopra citato, il teorico russo Maggiore Generale Slipchenko ipotizza che la linea del fronte, la zona retrostante, ecc., si fonderebbero tutte in un’unica zona bersaglio:

Inoltre, il teorico militare russo Slipchenko ha sottolineato l’idea precedente secondo cui tutti i concetti classici di campo di battaglia sarebbero stati gradualmente cancellati a causa della natura imprevedibile e onnicomprensiva dei moderni sistemi di attacco:

Concetti fondamentali come “fronte”, “retro” e “linea avanzata” stanno cambiando. . . . Sono ormai superati e vengono sostituiti da due sole espressioni: “bersaglio” e “non bersaglio” per un attacco remoto ad alta precisione.

L’analista russofobo di Youtube ed ex soldato dell’esercito statunitense Ryan McBeth menziona persino a malincuore in un nuovo post come la Russia abbia risolto il classico dilemma del potere aereo che mantiene il controllo del territorio circondando Pokrovsk essenzialmente con un anello di controllo del fuoco dei droni.

https://x.com/RyanMcbeth/status/1985329301613637703

Ciò fa eco a un’altra idea del maggiore generale Slipchenko riguardo a una rivoluzione negli affari militari che porterebbe a una forma di guerra “senza contatto” di sesta generazione, definita da forze opposte che non entrano necessariamente in contatto fisico, ma procedono tramite vari attacchi a distanza, non lontano dalla realtà su molti dei fronti attuali in Ucraina:

Secondo il defunto Maggiore Generale Vladimir Slipchenko, probabilmente uno dei più influenti teorici militari russi degli ultimi decenni, l’operazione Desert Storm fu la prima manifestazione di quella che Ogarkov aveva definito una “rivoluzione negli affari militari”, riferendosi al crescente utilizzo di sistemi di attacco di precisione a lungo raggio nelle guerre future. Il concetto di guerra di sesta generazione elaborato da Slipchenko segnava la computerizzazione della guerra e il crescente utilizzo di armi a distanza. Il suo elemento più importante era quindi chiamato guerra senza contatto, in contrapposizione alla tradizionale guerra di contatto di quarta generazione.

Baluyevsky approfondisce questo concetto nell’articolo pubblicato su Global Affairs, spiegando che anche il concetto di “fuoco diretto” è ormai obsoleto in Ucraina, dove persino i carri armati vengono utilizzati principalmente in modalità di fuoco indiretto, ovvero come pezzi di artiglieria, grazie alla maggiore precisione della correzione del fuoco dei droni. Si tratta proprio di uno stile di guerra moderna “senza contatto”, in cui ogni attacco viene effettuato da oltre il raggio visivo, anche da sistemi non originariamente progettati per questo scopo:

La rivoluzione informatica sta cambiando le forme e l’aspetto della guerra. La “trasparenza” del campo di battaglia e l’acquisizione in tempo reale degli obiettivi stanno portando all’eliminazione della necessità del fuoco diretto a favore del fuoco indiretto. Per secoli, il fuoco diretto è stato alla base della guerra e le tattiche sono state costruite intorno alla garanzia della sua efficacia. Tuttavia, con l’avvento del fuoco indiretto, non è più necessario vedere il nemico direttamente davanti a sé. Al contrario, gli obiettivi possono essere individuati a qualsiasi distanza e colpiti con armi a guida di precisione (come i droni) lanciate oltre la linea di vista del nemico. La sopravvivenza e la stabilità in combattimento di qualsiasi mezzo di fuoco remoto disperso da posizioni nascoste e dei loro equipaggi è molto più elevata rispetto a quella di qualsiasi arma in grado di sparare in linea di vista diretta. Ciò porta a un cambiamento fondamentale nella pianificazione dell’intero sistema per infliggere danni da fuoco al nemico.

Gli autori proseguono affermando che questo è il motivo principale dell’apparente obsolescenza dei carri armati sul campo di battaglia moderno:

Questa circostanza, e non la mancanza di protezione dai droni, è stata la causa principale della crisi dei carri armati. Il carro armato è il mezzo principale della guerra a fuoco diretto ed è stato progettato come piattaforma protetta per la guerra a fuoco diretto. Tuttavia, è diventato un bersaglio facilmente individuabile e vulnerabile con un sistema d’arma a fuoco diretto limitato. Di conseguenza, il carro armato ha perso la sua importanza come mezzo principale di sfondamento e manovra dell’esercito.

Ma ecco un’altra affermazione chiave introdotta dagli autori: i droni hanno sostanzialmente cambiato le regole della guerra al punto che la “manovra” tattica non è più un requisito indispensabile per sconfiggere il nemico, il che richiede la riscrittura dei manuali delle operazioni di combattimento e dell’intera struttura organizzativa delle forze armate:

Pertanto, i droni stanno avendo un impatto rivoluzionario sulla scienza militare. Da un lato, stanno influenzando un fattore chiave come la concentrazione di forze e risorse, e dall’altro, stanno rendendo sostanzialmente superflue le manovre tattiche di forze e risorse per garantire la sconfitta. Questi cambiamenti fondamentali sia nella tattica che nell’arte operativa dovrebbero portare a una revisione non solo delle forme di operazioni di combattimento, ma anche della struttura organizzativa delle forze militari.

Questo è più profondo di quanto sembri a prima vista, ed è qualcosa su cui ho insistito a lungo anche qui. I lettori ricorderanno forse le mie opinioni “contrarie” sull’ossessione degli analisti moderni per la “guerra di manovra”. Ho sostenuto l’idea che tali fissazioni siano maschere deliberate volte a rafforzare l’idea che l’Ucraina stia vincendo e che la Russia sia incapace di sottomettere il suo nemico perché non sta praticando una “guerra di manovra” di massa. Negli articoli analitici ho scritto fin dall’inizio che l’idea della “guerra di manovra” sembrava ormai superata, perché stavamo assistendo alla nascita di qualcosa di nuovo e le strategie di adattamento della Russia a questa nuova realtà dimostravano chiaramente che la vittoria poteva arrivare anche senza queste definizioni classiche riduttive.

Questa idea è parte integrante del motivo per cui i progressi russi stanno solo accelerando nonostante il fatto che i componenti chiave di una cosiddetta “forza di manovra” – ovvero i gruppi corazzati e meccanizzati – non vengano quasi più utilizzati. Lo scopo della guerra di “manovra” è quello di creare aperture nella profondità operativa, ma con l’avvento di questo nuovo stile di guerra “di sesta generazione” e “non lineare”, concetti come tattico, operativo, ecc. sono sfocati e perdono il loro significato tradizionale, almeno in una certa misura.

Baluyevsky e colleghi ribadiscono nuovamente questo concetto:

Conflitto post-industriale

La campagna in Ucraina ha segnato la fine di quasi un secolo di predominio della guerra meccanizzata, caratteristica delle società industrializzate. In questo senso, l’operazione militare speciale in Ucraina è stato il primo conflitto armato su vasta scala del XXI secolo, segnando una rivoluzione negli affari militari e il passaggio alla “guerra digitale”. Queste tendenze, che sono già evidenti o stanno appena iniziando a emergere, continueranno probabilmente a plasmare il futuro della guerra nel prossimo decennio.

Si noti che essi affermano apertamente che l’adesione rigida a concetti obsoleti di guerra meccanizzata porterà solo a una diminuzione dell’efficacia dell’esercito.

Proseguono elencando tre principali impatti dei droni sull’organizzazione delle truppe:

Ci sono tre fattori chiave nella guerra dei droni e nel suo impatto sull’organizzazione e sull’uso delle truppe in combattimento.

Primo. La necessità di una dispersione estrema delle forze e dei mezzi con una densità molto bassa delle formazioni di combattimento cambierà radicalmente l’organizzazione delle truppe e la loro interazione.

Secondo. Un forte aumento della profondità di distruzione delle parti avversarie e dei loro mezzi, fino alla profondità operativa. Le “zone di sterminio totale” raggiungeranno presto diverse decine di chilometri. Ciò rende impossibile manovrare e concentrare le truppe anche nella profondità operativa.

Terzo. La guerra ha dimostrato l’insormontabile problema dell’approvvigionamento delle truppe, che ora utilizzano veicoli facilmente vulnerabili e relativamente facili da distruggere da parte del nemico (un problema che covava da tempo, ma che era stato ignorato dagli strateghi sovietici). Nel contesto della “guerra dei droni” e delle vaste “zone di distruzione totale” delle forze e delle risorse in tutta la profondità operativa, il problema dell’approvvigionamento in termini operativi, tattici e “micro-tattici” (“l’ultimo miglio del fronte”) diventa enorme e richiede soluzioni non banali e rivoluzionarie.

Essi indicano il problema logistico come uno dei principali enigmi del nuovo campo di battaglia dominato dai droni. Proprio oggi un soldato ucraino in servizio al fronte ha descritto come la Russia abbia conquistato Pokrovsk restringendo fortemente le rotte logistiche dell’AFU:

È interessante notare che, nella sezione finale, gli autori russi lodano l’M2 Bradley americano come “macchina ideale” in guerra, date le sue buone capacità “a tutto tondo” nonostante la proliferazione dei droni.

Un altro “confine sfumato” menzionato è che i reparti di supporto tecnico e logistico sono, nella guerra moderna, essenzialmente “ruoli di combattimento” a causa della battaglia costante che devono combattere contro i droni che operano nelle retrovie, dove tali ruoli di supporto godevano in precedenza di una sicurezza totale, o almeno relativa.

Facendo un ulteriore passo avanti, gli autori suggeriscono addirittura che l’esercito del futuro non dovrebbe nemmeno avere rami di servizio rigidi.

Pertanto, l’esercito del futuro non dovrebbe essere rigidamente suddiviso in corpi di servizio, ma dovrebbe piuttosto essere una forza altamente unificata, integrata e multifunzionale, in grado di operare in qualsiasi contesto bellico moderno.

Definendo “finita” l’era dei grandi battaglioni, gli autori citano il DeepState ucraino nel descrivere le dottrine attualmente utilizzate dalla Russia in prima linea:

Crediamo che tutti abbiano notato il recente post della risorsa ucraina DeepState, che descrive la “nuova dottrina di fanteria” delle forze armate russe e dimostra chiaramente l’adattamento delle tattiche militari alle esigenze della “guerra dei droni”. Ci sono quattro aspetti chiave dei cambiamenti tattici da parte russa.

Primo. Maggiore utilizzo di sistemi robotici terrestri, munizioni vaganti e FPV pesanti, che portano alla “robotizzazione di determinati processi di combattimento”. Attualmente, il compito delle operazioni di assalto e del supporto di fuoco è stato completamente delegato ai droni per impedire il rilevamento dei gruppi d’assalto.

Secondo. Il passaggio alle azioni di un gran numero di gruppi “dispersi” composti solo da 2-4 persone.

Terzo. Ridurre al minimo il combattimento con armi leggere e gli attacchi frontali alle postazioni e, in generale, avvicinare la fanteria al nemico, trasferendo il ruolo principale del supporto di fuoco dagli aerei d’attacco ai droni.

Quarto. L’uso diffuso di tattiche di infiltrazione lenta e “strisciante” o di aggiramento delle principali posizioni nemiche da parte di piccoli gruppi, compreso l’uso di dispositivi di mimetizzazione (cappucci, ecc.), con penetrazione il più possibile in profondità nelle retrovie, ricerca e neutralizzazione di operatori di droni, squadre di mortai, ecc.

È chiaro che la struttura, l’organizzazione e l’equipaggiamento delle truppe devono essere adeguati di conseguenza. L’era dei “grandi battaglioni” è finita.

In particolare, la quarta sezione sopra riportata è stata sottolineata con urgenza dagli stessi ucraini nel corso dell’ultimo mese su diversi fronti. Continuano a scrivere che, a causa della densità estremamente bassa delle attuali linee, dove solo pochi uomini possono difendere un chilometro di posizioni, le forze russe sono in grado di “infiltrarsi” oltre i difensori ucraini nelle trincee fino ad accumularsi nelle posizioni arretrate. Una volta che si sono accumulate in numero sufficiente, disturbano la retroguardia, causano confusione e caos, essenzialmente attuando una sorta di moderna forma tattica di sfondamento senza la necessità di “manovre” meccanizzate.

A proposito, anche gli Stati Uniti stanno cercando di imparare a proteggere le risorse dalla minaccia onnipresente dei droni. Ecco un video recente che mostra i test effettuati sulle gabbie anti-drone per i depositi di rifornimenti e munizioni dell’esercito americano:

L’articolo di Global Affairs si conclude con un appello finale alla Russia affinché recuperi il ritardo nel campo della potenza di calcolo, che secondo gli autori sarà la chiave per il futuro della guerra, al di là del “controllo del territorio o delle risorse”. Ritengono che, sebbene la Russia sia attualmente in ritardo in questo settore, abbia comunque dei vantaggi unici e una breve finestra di opportunità per recuperare:

Nel medio termine, la Russia sarà in ritardo rispetto ai leader mondiali in termini di sviluppo della potenza di calcolo (mancanza di competenze, capacità industriali e capacità del mercato interno). Questo problema deve essere affrontato immediatamente, altrimenti il divario aumenterà, minacciando gli interessi strategici del Paese.

La Russia ha le risorse per correggere questa situazione e continua a godere di un vantaggio scientifico e tecnologico. Tuttavia, il ritmo dei cambiamenti globali è così rapido che potrebbe essere impossibile sfruttare appieno queste opportunità.

Per realizzare questo obiettivo è necessario mettere da parte le differenze politiche e concentrarsi sulle urgenti sfide amministrative e tecnologiche.

Certamente, dato che la Russia è una potenza energetica e leader mondiale nel settore dell’energia nucleare, dispone almeno di una buona base per l’espansione dei data center informatici, se necessario.

È chiaro che occorre applicare nuovi concetti per comprendere le dinamiche del campo di battaglia moderno. È troppo estremo eliminare completamente le tradizioni militari, ma i confini sono diventati così sfumati che chiunque si affidi principalmente alle definizioni classiche di guerra rimarrà bloccato in un circolo vizioso di incomprensioni sui recenti successi della Russia sul campo di battaglia, che stanno culminando proprio mentre parliamo con l’imminente conquista di diverse città ucraine di grande importanza.


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Il Tip Jar rimane un anacronismo, un modo arcaico e spudorato di fare il doppio gioco, per coloro che non possono fare a meno di ricoprire i loro umili autori preferiti con una seconda avida dose di generosità.

Patria? Alcune idee in ordine sparso_di Ernesto

Non lasciatevi fuorviare dal titolo: questo testo è sostanzialmente una domanda cui si deve cercare di dare una risposta. Il termine patria è particolare: deriva dal latino pater, maschile ma, in italiano, si declina al femminile. I seguaci della cultura liquida dovrebbero apprezzare la circostanza.

Scherzi a parte, mi riallaccio al contributo di WS che trovate qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/31/andate-avanti-voi_di-ws/ed al mio commento nel quale chiudevo con la domanda: ci sarà abbastanza realismo nelle pseudo elite italiane rispetto all’evolvere della situazione internazionale con particolare riferimento al teatro Ucraino ed agli ultimi messaggi di Putin?

La situazione italiana mostra da anni, ormai, un completo appiattimento se non servilismo nei confronti delle posizioni di Nato/UE e Usa. Mai una critica una differenziazione una precisazione se non limitata al dichiarato rifiuto di inviare soldati italiani in Ucraina. Ma per tutto il resto piena ed incondizionata approvazione alle decisioni NATO/UE.  Almeno questo è quello che appare  nelle dichiarazioni pubbliche ed a prescindere da chi sia il governante italiano di turno. Da Budapest, invece, ormai da anni, anche prima della crisi Ucraina, giungono sempre differenziazioni ed ora critiche aperte e, inoltre, la creazione di una piattaforma tra Ungheria, slovacchia e repubblica ceca, al fine di elaborare una condotta alternativa alla Nato/Ue rispetto alla crisi Ucraina. Quindi sorge una domanda: che differenza c’è tra Ungheria, ed ex cecoslovacchia e l’Italia? Ed ancora: posto che sia le elezioni Rumene che quelle moldave sono state palesemente alterate, perchè questo giochino non è riuscito nelle tre nazioni anzidette?

Dico la verità: in Orban non vedo una figura di spicco e/o la stazza dello Statista d’eccezione. Tuttavia, è indubbio che abbia sempre assunto posizioni critiche ed autonome rispetto alle rules of life dell’Anglosfera: o almeno, in alcune circostanze nelle quali tali regole erano non coincidenti con l’interesse del suo paese,così è stato. Se guardiamo alla storia dell’Ungheria, troviamo gli aneliti di indipendenza fin da quando faceva parte dell’Impero asburgico ed una indipendenza guadagnata nel 1918 con la dissoluzione di esso. La seconda guerra mondiale la vide alleata dell’Asse fino alla sconfitta ad opera dell’Armata Rossa con successivo ingresso nell’orbita Urss fino al 1991: nel mezzo i fatti del 1956 con la seconda invasione sovietica questa volta per ripristinarne l’orbita attorno all’URSS. Dopo, dissoltasi l’Urss ed il patto di Varsavia, ingresso nell’UE e nella Nato quindi un sostanziale passaggio nell’Anglosfera. Si può quindi dire che, a conti fatti, una vera indipendenza non ci sia mai stata essendo comunque inglobata dentro “alleanze” molto stringenti. E pur tuttavia, i magiari sembrano seguire una loro linea e quindi mi chiedo da dove derivino tali spazi di manovra.  Anche le posizioni riguardo all’immigrazione non sono assolutamente in linea con i dettami universalistici della open society abbracciati dalla UE. E dire che George Soros è proprio di origine ungherese ma non sembra abbia molto seguito nella patria di origine.

Sono consapevole che, qui da noi, il 1991 e poi tangentopoli, hanno radicalmente cambiato lo scenario: la cortina di ferro ha fatto un balzo di mille KM verso est e, quindi, il centro europa, neoassunto nell’anglosfera, poteva avere lo stesso ruolo che ebbe l’Italia tra il 1945 ed il 1991: spazi di manovra maggiori e particolare attenzione da parte del nuovo padrone (gli USA)  quale base di retroguardia dell’ariete Ucraino.

Del resto, il progetto Brezinski, era in piedi da anni ed oggi lo vediamo messo in pratica.

Mutatis Mutandis, quello che fu consentito all’Italia tra il 1945 ed il 1991, seppure entro centri limiti ed in funzione principalmente anti francese e, residualmente, anti inglese, operazione USA tendente ad addomesticare i due alleati vincitori della IIWW (i Francesi che con il Gollismo avevano una deriva eccessivamente autonoma e gli Inglesi ai quali, sostanzialmente, praticarono una fusione per incorporazione mi si passi il termine), dal 1991/1992 è stato consentito al centro europa nel suo complesso (Polonia ed Ungheria in primis) favorendone lo sviluppo economico ed una certa base industriale migliorativa del reddito procapite e conseguente modernizzazione in stile Anglo: questo ovviamente a discapito delle nazioni occidentali, Italia in primis, in un contesto di collaborazione delle stesse Elite occidentali che praticarono la delocalizzazione produttiva nei nuovi assunti dall’Anglosfera nell’Est europa a discapito delle basi industriali nazionali ma con vantaggi di profitto favoriti anche dalla moneta unica. In questo contesto bisognerebbe analizzare  e commentare il ruolo della Germania riunificata e la sua capacità, almeno allora, di guidare questo processo a proprio vantaggio mantenendo una base industriale di tutto rispetto a svantaggio di tutti gli altri in cui il ruolo monetario (l’Euro) non è stato affatto secondario

Però, proprio ora che servirebbero quelle retroguardie, l’Ungheria, se non defeziona del tutto, mette i bastoni tra le ruote: come può permetterselo?

E l’Italia? Con un governo che, almeno di facciata, dovrebbe solidarizzare con le posizioni di Orban, questo disgraziato paese non sembra cogliere nemmeno questa opportunità: così almeno sembrerebbe alla luce dell’ultima visita di Orban di pochi giorni orsono.

Ovviamente non si può sottovalutare la differenza tra le due forme di governo: non conosco il sistema Ungherese nel dettaglio ma la figura del primo ministro sembra avere un peso notevole mentre il nostro sistema costituzionale prevede la figura del Presidente della Repubblica che, come la storia recente conferma, è sostanzialmente un sorvegliante pronto a reindirizzare la politica di qualunque governo entro binari prestabiliti (non vi è giorno che il nostro PdR non esterni la irrevocabilità della scelta UE e Nato e dei valori “occidentali”). La centralità del parlamento, poi, da noi è il veicolo attraverso il quale  maggioranze differenti dal responso elettorale in quanto frutto del noto salto della quaglia, hanno dato spazio a governi tecnici forieri delle peggiori iniziative tutte eterodirette da Washington, Londra e Bruxelles.

Eppure il declino Italiano è palese e l’autocastrazione conseguita dalla decisione di interrompere i rapporti con la Russia è evidente a chiunque.

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un intervista a Enrico Mattei: non saprei collocarla nel tempo ma era ancora in bianco e nero. Mattei raccontava un aneddoto, senza fare nomi, relativo ad una trattativa per la costruzione di una raffineria: Mattei chiudeva l’intervista affermando che gli stranieri intesi come Stati e Mutinazionali, dovevano capire che l’epoca dell’Italia che si approcciava agli altri con il cappello in mano era finita.

So bene la fine che ha fatto Mattei anche, ma non solo, per l’opposizione alle “sette sorelle” e so anche bene che, con l’operazione Tangentopoli, una intera classe politica capace di fare, in qualche modo l’interesse nazionale, è stata cancellata e sostituita da veri e propri incompetenti, quando va bene, ovvero cotonieri (come amava chiamarli il Prof La Grassa) quando va male.

Mi chiedo tuttavia: non è rimasto veramente nulla dell’esperienza di uomini come Mattei?

Ho citato questo esempio non a caso. Mi spiego meglio: dopo la fine della IIWW, l’Italia si trovava in una situazione particolare. Era nazione sconfitta ed aveva uno dei partiti comunisti più grandi d”europa ed a due passi dalla Cortina di ferro. In quel lasso di tempo, il polo di attrazione delle masse era l’appartenenza alle due ideolologie contrapposte: il comunismo ed il liberal capitalismo ed i partiti tradizionali ne erano il collettore: è come se, in tutti quegli anni, si fosse vissuti in un tempo sospeso tra la rivoluzione che sarebbe venuta (seppure con metodi “democratici”) e la sconfitta del comunismo. Nelle more di questo tempo sospeso, in ogni caso, è indiscutibile che il paese si sia evoluto economicamente (da paese rurale a paese industriale) e socialmente. E’ altrettanto innegabile che, tra le due fazioni, si sia sviluppato un certo consociativismo e che il PCI, seppure non formalmente al governo, abbia gestito porzioni di potere.

Quel consociativismo non è stato del tutto negativo: è stato infatti capace, in alcune circostanze, di riconoscere  l’interesse nazionale e l’opera di Mattei ne è, secondo me, un esempio. Ed anche dopo la sua morte, la sua eredità ha consentito la realizzazione del gasdotto tra Europa e Urss cui ha partecipato anche l’Italia che ha così ottenuto una risorsa a basso costo: per quell’accordo, è risaputo,  si mediò attraverso Armando Cossutta i necessari contatti in  URSS e fu invece l’allora Pentapartito a mediare con gli USA i quali bloccarono l’esportazione di alcuni componenti che dovevano essere utilizzati nelle pompe necessarie al gasdotto. Ero poco più di un ragazzino e mio padre, che lavorava all’epoca per l’azienda che necessitava del componente per le pompe che dovevano essere fornite all’ENI, ne discuteva, a sera,  descrivendo le febbrili attività per la ricerca di soluzioni alternative nel mentre l’azienda, che faceva parte di EFIM, si attivava con la parte politica affinchè interagisse con gli Americani.

Come detto tangentopoli spazzò via tutto: fine delle ideologie che costituivano, comunque, polo di attrazione e fine di quel rapporto consociativo nell’interesse della nazione anche se il consociativismo è rimasto ma senza più alcun riferimento all’interesse nazionale. Anzi, direi esattamente l’opposto e cioè un consociativismo contro l’interesse nazionale.

Peraltro, anni di educazione a confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo, hanno favorito ciò che poi è avvenuto: il paese, dopo tangentopoli, si è trovato privo di una seppur modesta guida.

Abituati per anni ad emozionarci per la patria solo nelle partite della nazionale di calcio, senza più nemmeno le ideologie, agli Italiani non è rimasto nulla.

E le conseguenze, di tale vuoto, non hanno tardato ad arrivare: panfilo Britannia, privatizzazione di aziende strategiche, liberalizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale, alla spesa per la ricerca, per la scuola e l’università ecc. ecc..

Si ciancia sui giornali di sovranisti ed Orban è indicato tra questi: lui ed il sovranismo sono sostanzialmente rappresentati come fascismo.

E’ quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.

Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale?

Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune Formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi -). Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.

Non sono in grado di dire se in Ungheria o in Slovacchia o nella Repubblica Ceca, le attuali formazioni politiche, sovraniste o euroscettiche che dir si vogliano, abbiano richiami ideali al concetto di Patria e con quali caratteristiche.

So però che qui, in Italia, l’assenza di un senso di appartenenza, è percepibile ed è terreno fertilissimo per produrre la disgregazione sociale, economica e politica.

In questo senso il vulnus storico di cui soffre l’Italia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente, passando per il Medio evo, i comuni, le Signorie, le repubbliche marinare, il rinascimento, gli staterelli vari, il vaticano, fino all’unità nel 1861 nonché, dopo, anche con il ventennio poi seguito dall’epoca repubblicana, è tutta una storia caratterizzata dal perenne intervento esterno e dalla mancanza di una coscienza nazionale che, neppure l’irrendentismo ed il fascismo, sono riusciti a creare.

Insomma, ciò che descrisse il sommo poeta “ahi serva italia di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta non donna di provincia ma di bordello” era valido nel 1300 ed è valido ancora oggiusenza alcuna soluzione di continuità.

Se non si trova il modo di creare un rapporto tra enti collettivi (partiti o movimenti o quel che volete) e singoli individui, la massa, che è oggetto mai soggetto, non potrà mai essere il motore, l’energia di un ipotetico cambiamento finalizzato alla costruzione di una comunità, cioè, di una patria.

Chi scrive non ha certo le competenze necessarie allo scopo ma intuisce che in Italia, coloro che fanno parte delle elite politico/economiche, non abbiano alcun senso di appartenenza alla patria: l’attuale classe dirigente, pertanto, non è adatta a prescindere dal colore politico in quanto appositamente scelta tra incompetenti o cotonieri.

Mi chiedo, tuttavia, se tra i così detti intermedi, sia nelle istituzioni che nelle imprese, si possano scorgere barlumi di insofferenza rispetto allo status quo.

Sul punto richiamo una porzione di un recente articolo del Prof Angelo D’Orsi su l’Antidiplomatico, (qui.https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-angelo_dorsi__from_russia_with_love/39602_63351/)  il quale descrivendo un suo recente viaggio in Russia dice: “… mi ha colpito la presenza di tutti i grandi brand della moda europei e italiani in specie: Armani, Boggi, Luisa Spagnoli, Calzedonia, Stefano Ricci, Bottega Veneta, e via seguitando. Nel mio hotel (dove tutta la biancheria è etichettata Frette), c’è un meeting di imprenditori europei, con alcuni italiani: mi avvicino e provo a chiacchierare. Non preciso il settore, perché i miei interlocutori non vogliono essere sanzionati, ma mi spiegano che loro e pressocché tutti i colleghi imprenditori hanno messo a punto sistemi vari che consentono di sfuggire ai controlli sanzionatori, e continuare a fare affari in Russia. Uno di loro, sbotta: “Ma secondo lei io devo smettere di vendere ai russi perché lo dice la von der Leyen?! E la libertà di cui ciancia Draghi non è innanzi tutto quella di commerciare? Per sopravvivere, per far girare l’economia, e quindi far bene al nostro Paese!… Se io non vendo smetto di produrre, e licenzio i miei operai e impiegati. È questo che vogliono?!”. Si infervora e gli scappa qualche bestemmia. E mi saluta con un definitivo: “Questi sono pazzi o cretini, creda a me!”.Alcune aziende hanno seguito un’astuta strategia che potrei definire “di distrazione” cambiando le denominazioni ma continuando a vendere i prodotti di prima. Altre hanno delocalizzato o i luoghi di produzione o di vendita…..”

Quindi un embrione di fronda, forse, esiste.

Si tratta solo di capire se può emergere o come farla emergere.

Patria? Alcune idee in ordine sparso.

Non lasciatevi fuorviare dal titolo: questo testo è sostanzialmente una domanda cui si deve cercare di dare una risposta. Il termine patria è particolare: deriva dal latino pater, maschile ma, in italiano, si declina al femminile. I seguaci della cultura liquida dovrebbero apprezzare la circostanza.

Scherzi a parte, mi riallaccio al contributo di WS che trovare qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/31/andate-avanti-voi_di-ws/ed al mio commento nel quale chiudevo con la domanda: ci sarà abbastanza realismo nelle pseudo elite italiane rispetto all’evolvere della situazione internazionale con particolare riferimento al teatro Ucraino ed agli ultimi messaggi di Putin?

La situazione italiana mostra da anni, ormai, un completo appiattimento se non servilismo nei confronti delle posizioni di Nato/UE e Usa. Mai una critica una differenziazione una precisazione se non limitata al dichiarato rifiuto di inviare soldati italiani in Ucraina. Ma per tutto il resto piena ed incondizionata approvazione alle decisioni NATO/UE.  Almeno questo è quello che appare  nelle dichiarazioni pubbliche ed a prescindere da chi sia il governante italiano di turno. Da Budapest, invece, ormai da anni, anche prima della crisi Ucraina, giungono sempre differenziazioni ed ora critiche aperte e, inoltre, la creazione di una piattaforma tra Ungheria, slovacchia e repubblica ceca, al fine di elaborare una condotta alternativa alla Nato/Ue rispetto alla crisi Ucraina. Quindi sorge una domanda: che differenza c’è tra Ungheria, ed ex cecoslovacchia e l’Italia? Ed ancora: posto che sia le elezioni Rumene che quelle moldave sono state palesemente alterate, perchè questo giochino non è riuscito nelle tre nazioni anzidette?

Dico la verità: in Orban non vedo una figura di spicco e/o la stazza dello Statista d’eccezione. Tuttavia, è indubbio che abbia sempre assunto posizioni critiche ed autonome rispetto alle rules of life dell’Anglosfera: o almeno, in alcune circostanze nelle quali tali regole erano non coincidenti con l’interesse del suo paese,così è stato. Se guardiamo alla storia dell’Ungheria, troviamo gli aneliti di indipendenza fin da quando faceva parte dell’Impero asburgico ed una indipendenza guadagnata nel 1918 con la dissoluzione di esso. La seconda guerra mondiale la vide alleata dell’Asse fino alla sconfitta ad opera dell’Armata Rossa con successivo ingresso nell’orbita Urss fino al 1991: nel mezzo i fatti del 1956 con la seconda invasione sovietica questa volta per ripristinarne l’orbita attorno all’URSS. Dopo, dissoltasi l’Urss ed il patto di Varsavia, ingresso nell’UE e nella Nato quindi un sostanziale passaggio nell’Anglosfera. Si può quindi dire che, a conti fatti, una vera indipendenza non ci sia mai stata essendo comunque inglobata dentro “alleanze” molto stringenti. E pur tuttavia, i magiari sembrano seguire una loro linea e quindi mi chiedo da dove derivino tali spazi di manovra.  Anche le posizioni riguardo all’immigrazione non sono assolutamente in linea con i dettami universalistici della open society abbracciati dalla UE. E dire che George Soros è proprio di origine ungherese ma non sembra abbia molto seguito nella patria di origine.

Sono consapevole che, qui da noi, il 1991 e poi tangentopoli, hanno radicalmente cambiato lo scenario: la cortina di ferro ha fatto un balzo di mille KM verso est e, quindi, il centro europa, neoassunto nell’anglosfera, poteva avere lo stesso ruolo che ebbe l’Italia tra il 1945 ed il 1991: spazi di manovra maggiori e particolare attenzione da parte del nuovo padrone (gli USA)  quale base di retroguardia dell’ariete Ucraino.

Del resto, il progetto Brezinski, era in piedi da anni ed oggi lo vediamo messo in pratica.

Mutatis Mutandis, quello che fu consentito all’Italia tra il 1945 ed il 1991, seppure entro centri limiti ed in funzione principalmente anti francese e, residualmente, anti inglese, operazione USA tendente ad addomesticare i due alleati vincitori della IIWW (i Francesi che con il Gollismo avevano una deriva eccessivamente autonoma e gli Inglesi ai quali, sostanzialmente, praticarono una fusione per incorporazione mi si passi il termine), dal 1991/1992 è stato consentito al centro europa nel suo complesso (Polonia ed Ungheria in primis) favorendone lo sviluppo economico ed una certa base industriale migliorativa del reddito procapite e conseguente modernizzazione in stile Anglo: questo ovviamente a discapito delle nazioni occidentali, Italia in primis, in un contesto di collaborazione delle stese Elite occidentali che praticarono la delocalizzazione produttiva nei nuovi assunti dall’Anglosfera nell’Est europa a discapito delle basi industriali nazionali ma con vantaggi di profitto favoriti anche dalla moneta unica. In questo contesto bisognerebbe analizzare  e commentare il ruolo della Germania riunificata e la sua capacità, almeno allora, di guidare questo processo a proprio vantaggio mantenendo una base industriale di tutto rispetto a svantaggio di tutti gli altri in cui il ruolo monetario (l’Euro) non è stato affatto secondario

Però, proprio ora che servirebbero quelle retroguardie, l’Ungheria, se non defeziona del tutto, mette i bastoni tra le ruote: come può permetterselo?

E l’Italia? Con un governo che, almeno di facciata, dovrebbe solidarizzare con le posizioni di Orban, questo disgraziato paese non sembra cogliere nemmeno questa opportunità: così almeno sembrerebbe alla luce dell’ultima visita di Orban di pochi giorni orsono.

Ovviamente non si può sottovalutare la differenza tra le due forme di governo: non conosco il sistema Ungherese nel dettaglio ma la figura del primo ministro sembra avere un peso notevole mentre il nostro sistema costituzionale prevede la figura del Presidente della Repubblica che, come la storia recente conferma, è sostanzialmente un sorvegliante pronto a reindirizzare la politica di qualunque governo entro binari prestabiliti (non vi è giorno che il nostro PdR non esterni la irrevocabilità della scelta UE e Nato e dei valori “occidentali”). La centralità del parlamento, poi, da noi è il veicolo attraverso il quale  maggioranze differenti dal responso elettorale in quanto frutto del noto salto della quaglia, hanno dato spazio a governi tecnici forieri delle peggiori iniziative tutte eterodirette da Washington, Londra e Bruxelles.

Eppure il declino Italiano è palese e l’autocastrazione conseguita dalla decisione di interrompere i rapporti con la Russia è evidente a chiunque.

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un intervista a Enrico Mattei: non saprei collocarla nel tempo ma era ancora in bianco e nero. Mattei raccontava un aneddoto, senza fare nomi, relativo ad una trattativa per la costruzione di una raffineria: Mattei chiudeva l’intervista affermando che gli stranieri intesi come Stati e Mutinazionali, dovevano capire che l’epoca dell’Italia che si approcciava agli altri con il cappello in mano era finita.

So bene la fine che ha fatto Mattei anche, ma non solo, per l’opposizione alle “sette sorelle” e so anche bene che, con l’operazione Tangentopoli, una intera classe politica capace di fare, in qualche modo l’interesse nazionale, è stata cancellata e sostituita da veri e propri incompetenti, quando va bene, ovvero cotonieri (come amava chiamarli il Prof La Grassa) quando va male.

Mi chiedo tuttavia: non è rimasto veramente nulla dell’esperienza di uomini come Mattei?

Ho citato questo esempio non a caso. Mi spiego meglio: dopo la fine della IIWW, l’Italia si trovava in una situazione particolare. Era nazione sconfitta ed aveva uno dei partiti comunisti più grandi d”europa ed a due passi dalla Cortina di ferro. In quel lasso di tempo, il polo di attrazione delle masse era l’appartenenza alle due ideolologie contrapposte: il comunismo ed il liberal capitalismo ed i partiti tradizionali ne erano il collettore: è come se, in tutti quegli anni, si fosse vissuti in un tempo sospeso tra la rivoluzione che sarebbe venuta (seppure con metodi “democratici”) e la sconfitta del comunismo. Nelle more di questo tempo sospeso, in ogni caso, è indiscutibile che il paese si sia evoluto economicamente (da paese rurale a paese industriale) e socialmente. E’ altrettanto innegabile che, tra le due fazioni, si sia sviluppato un certo consociativismo e che il PCI, seppure non formalmente al governo, abbia gestito porzioni di potere.

Quel consociativismo non è stato del tutto negativo: è stato infatti capace, in alcune circostanze, di riconoscere  l’interesse nazionale e l’opera di Mattei ne è, secondo me, un esempio. Ed anche dopo la sua morte, la sua eredità ha consentito la realizzazione del gasdotto tra Europa e Urss cui ha partecipato anche l’Italia che ha così ottenuto una risorsa a basso costo: per quell’accordo, è risaputo,  si mediò attraverso Armando Cossutta i necessari contatti in  URSS e fu invece l’allora Pentapartito a mediare con gli USA i quali bloccarono l’esportazione di alcuni componenti che dovevano essere utilizzati nelle pompe necessarie al gasdotto. Ero poco più di un ragazzino e mio padre, che lavorava all’epoca per l’azienda che necessitava del componente per le pompe che dovevano essere fornite all’ENI, ne discuteva, a sera,  descrivendo le febbrili attività per la ricerca di soluzioni alternative nel mentre l’azienda, che faceva parte di EFIM, si attivava con la parte politica affinchè interagisse con gli Americani.

Come detto tangentopoli spazzò via tutto: fine delle ideologie che costituivano, comunque, polo di attrazione e fine di quel rapporto consociativo nell’interesse della nazione anche se il consociativismo è rimasto ma senza più alcun riferimento all’interesse nazionale. Anzi, direi esattamente l’opposto e cioè un consociativismo contro l’interesse nazionale.

Peraltro, anni di educazione a confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo, hanno favorito ciò che poi è avvenuto: il paese, dopo tangentopoli, si è trovato privo di una seppur modesta guida.

Abituati per anni ad emozionarci per la patria solo nelle partite della nazionale di calcio, senza più nemmeno le ideologie, agli Italiani non è rimasto nulla.

E le conseguenze, di tale vuoto, non hanno tardato ad arrivare: panfilo Britannia, privatizzazione di aziende strategiche, liberalizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale, alla spesa per la ricerca, per la scuola e l’università ecc. ecc..

Si ciancia sui giornali di sovranisti ed Orban è indicato tra questi: lui ed il sovranismo sono sostanzialmente rappresentati come fascismo.

E’ quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.

Tuttavia, faccio comunque le seguenti  domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale?

Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune Formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi -). Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.

Non sono in grado di dire se in Ungheria o in Slovacchia o nella Repubblica Ceca, le attuali formazioni politiche, sovraniste o euroscettiche che dir si vogliano, abbiano richiami ideali al concetto di Patria e con quali caratteristiche.

So però che qui, in Italia, l’assenza di un senso di appartenenza, è percepibile ed è terreno fertilissimo per produrre la disgregazione sociale, economica e politica.

In questo senso il vulnus storico di cui soffre l’Italia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente, passando per il Medio evo, i comuni, le Signorie, le repubbliche marinare, il rinascimento, gli staterelli vari, il vaticano, fino all’unità nel 1861 nonché, dopo, anche con il ventennio poi seguito dall’epoca repubblicana, è tutta una storia caratterizzata dal perenne intervento esterno e dalla mancanza di una coscienza nazionale che, neppure l’irrendentismo ed il fascismo, sono riusciti a creare.

Insomma, ciò che descrisse il sommo poeta “ahi serva italia di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta non donna di provincia ma di bordello” era valido nel 1300 ed è valido ancora oggiusenza alcuna soluzione di continuità.

Se non si trova il modo di creare un rapporto tra enti collettivi (partiti o movimenti o quel che volete) e singoli individui, la massa, che è oggetto mai soggetto, non potrà mai essere il motore, l’energia di un ipotetico cambiamento finalizzato alla costruzione di una comunità, cioè, di una patria.

Chi scrive non ha certo le competenze necessarie allo scopo ma intuisce che in Italia, coloro che fanno parte delle elite politico/economiche, non abbiano alcun senso di appartenenza alla patria: l’attuale classe dirigente, pertanto, non è adatta a prescindere dal colore politico in quanto appositamente scelta tra incompetenti o cotonieri.

Mi chiedo, tuttavia, se tra i così detti intermedi, sia nelle istituzioni che nelle imprese, si possano scorgere barlumi di insofferenza rispetto allo status quo.

Sul punto richiamo una porzione di un recente articolo del Prof Angelo D’Orsi su l’Antidiplomatico, (qui.https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-angelo_dorsi__from_russia_with_love/39602_63351/)  il quale descrivendo un suo recente viaggio in Russia dice: “… mi ha colpito la presenza di tutti i grandi brand della moda europei e italiani in specie: Armani, Boggi, Luisa Spagnoli, Calzedonia, Stefano Ricci, Bottega Veneta, e via seguitando. Nel mio hotel (dove tutta la biancheria è etichettata Frette), c’è un meeting di imprenditori europei, con alcuni italiani: mi avvicino e provo a chiacchierare. Non preciso il settore, perché i miei interlocutori non vogliono essere sanzionati, ma mi spiegano che loro e pressocché tutti i colleghi imprenditori hanno messo a punto sistemi vari che consentono di sfuggire ai controlli sanzionatori, e continuare a fare affari in Russia. Uno di loro, sbotta: “Ma secondo lei io devo smettere di vendere ai russi perché lo dice la von der Leyen?! E la libertà di cui ciancia Draghi non è innanzi tutto quella di commerciare? Per sopravvivere, per far girare l’economia, e quindi far bene al nostro Paese!… Se io non vendo smetto di produrre, e licenzio i miei operai e impiegati. È questo che vogliono?!”. Si infervora e gli scappa qualche bestemmia. E mi saluta con un definitivo: “Questi sono pazzi o cretini, creda a me!”.Alcune aziende hanno seguito un’astuta strategia che potrei definire “di distrazione” cambiando le denominazioni ma continuando a vendere i prodotti di prima. Altre hanno delocalizzato o i luoghi di produzione o di vendita…..”

Quindi un embrione di fronda, forse, esiste.

Si tratta solo di capire se può emergere o come farla emergere.

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