Cittadinanza: Concetto e conseguenze, di Vladislav B. Sotirović

Cittadinanza: Concetto e conseguenze

La cittadinanza come concetto

Il termine “cittadinanza” è solitamente utilizzato in ambito accademico o giornalistico come sinonimo di nazionalità e appartenenza nazionale (nella prospettiva anglosassone e dell’Europa occidentale seguita dal Nuovo Mondo, in realtà, come sinonimo di Stato). Tuttavia, la “cittadinanza” come concetto è essenzialmente un prodotto e un uso della filosofia politica e della giurisprudenza. In pratica, la maggior parte dei governi del mondo che si occupano di dare o non dare la cittadinanza a qualcuno seguono i cosiddetti:

1) modello francese, basato sul “diritto di suolo” (ius soli) o
2) il modello tedesco, fondato sul principio del “diritto di sangue” (ius sanguinis).
In realtà, la “cittadinanza” non fa parte della terminologia stabilita dalla sociologia e dall’antropologia, poiché in questi due campi accademici di ricerca la nozione di cittadinanza è emersa solo di recente, sostanzialmente con le ricerche di Roger Brubaker, Louis Dumont o Immanuel Todd. La nozione di cittadinanza è particolarmente interessante per i sociologi e gli antropologi in quanto fenomeno che struttura le rappresentazioni collettive e le relazioni sociali tra individui e gruppi (avere determinati diritti e doveri).

Lo status di cittadino è deciso dalla legge. Nelle tradizioni legate alle caratteristiche politiche repubblicane, le qualifiche per avere o meno la cittadinanza sono state collegate a particolari diritti e doveri dei cittadini, nonché a un impegno per l’uguaglianza tra i cittadini compatibile con una notevole esclusività nelle condizioni di qualificazione (l’antica Grecia, Roma e le repubbliche italiane escludevano dal concetto di cittadinanza le donne e alcune classi di lavoratori).

Negli ultimi decenni, sostanzialmente dalla fine della Guerra Fredda 1.0 nel 1989, ci sono tre ragioni cruciali per la popolarità della questione della cittadinanza:

1) La ricostituzione degli Stati nazionali nell’Europa centro-orientale, orientale e sud-orientale;
2) Il riemergere del problema dello status delle minoranze storiche, etniche e territoriali;
3) Il problema della condizione degli immigrati (ad esempio, in Europa occidentale).
In linea di principio, le scienze sociali si occupano del concetto di cittadinanza soprattutto come “costruzione immaginaria” che viene applicata nella vita sociale. Secondo una breve definizione e comprensione della cittadinanza, si tratta di uno status giuridico che conferisce una serie di diritti e doveri ai membri di una specifica entità politica (Stato). Per quanto riguarda la questione dei diritti e dei doveri legali, si può possedere 1) la cittadinanza (partecipazione alle elezioni statali per il presidente e il parlamento); 2) il permesso di residenza permanente (partecipazione solo alle elezioni locali per l’assemblea); 3) il permesso di residenza temporanea (nessun diritto elettorale).

Storicamente, durante l’epoca del feudalesimo, ad esempio, la piena cittadinanza spettava solo all’aristocrazia, che aveva diritti politici seguiti da alcuni doveri nei confronti dello Stato. In epoca moderna, la cittadinanza è intesa come un pilastro di uno Stato moderno/contemporaneo che assomiglia, di fatto, alla fedeltà all’unità politica che concede la cittadinanza (comprende soprattutto il servizio militare obbligatorio/la coscrizione per difendere la “madrepatria” – un Paese di cittadinanza). Tuttavia, in passato, esisteva una nozione comunemente accettata di cittadinanza molto simile a quella contemporanea (come la polis nell’antica Grecia, la Roma repubblicana o i comuni/comunità medievali italiani).

Oggi esistono anche nozioni di cittadinanza sovranazionale/transnazionale, come ad esempio nell’ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (doppia cittadinanza: della repubblica e della federazione jugoslava, ma con un unico passaporto) o nell’UE (doppia cittadinanza: dello Stato nazionale e dell’UE con un unico passaporto). Ciononostante, esistevano/esistono problemi di identità sovranazionale e di cittadinanza transnazionale come nella Jugoslavia socialista, nell’URSS o oggi nell’UE, dove una stragrande minoranza di abitanti sostiene l’identità sovranazionale (di essere jugoslavi, sovietici o europei) ma ha una cittadinanza transnazionale (di Jugoslavia, URSS o UE).

È molto importante sottolineare che la nozione di cittadinanza (moderna) è diversa dalla nozione di sottomissione (feudale). In altre parole, possedere la cittadinanza significa essere un membro di un’entità politica con determinati diritti, mentre essere un suddito significa essere sottoposto alla sovranità (governante) senza diritti, con solo pesanti obblighi. La nozione di cittadinanza implica una relazione di lealtà reciproca tra un’istituzione impersonale (lo Stato) e i suoi membri (ma non i sudditi). La nozione di soggezione, infatti, implica una relazione personalizzata di obbedienza e sottomissione dei sudditi al sovrano. Tuttavia, a partire dall’epoca moderna (antifeudale), diversi tipi di diritti (civili, sociali, politici, di minoranza… ecc.) hanno differenziato la cittadinanza dalla sudditanza, storicamente fondata su privilegi (per l’aristocrazia) e obblighi (per i contribuenti).

Secondo i weberiani (seguaci di Maximilian Karl Emil Weber, 1864-1920), la cittadinanza è un fenomeno tipico dei sistemi politici giuridico-burocratici. Secondo loro, la sottomissione appartiene ai sistemi politici e alle relazioni sociali tradizionali (feudali) e carismatiche. Inoltre, il concetto di cittadinanza si adatta allo “Stato istituzionalizzato”, mentre l’assoggettamento si adatta allo “Stato personalizzato”.

Diritti di cittadinanza

Il concetto di cittadinanza comprende quattro diritti per i titolari della cittadinanza:

1) Diritti civili che riguardano le libertà individuali (libertà personale, libertà di pensiero e libertà di religione) e il diritto a una giustizia giusta e uguale per tutti. Nascono dall’ascesa della classe media nel XVIII secolo;
2) Nel XIX secolo sono stati istituiti i diritti politici relativi all’esercizio e al controllo del potere politico, al voto e alla creazione di partiti politici;
3) Nel XX secolo sono stati garantiti i diritti sociali (diritti che assicurano un certo grado di benessere e sicurezza attraverso servizi di assistenza e istruzione);
4) i diritti culturali (diritti di mantenere e tramandare ai propri discendenti l’identità culturale, l’appartenenza etnica e il background religioso) sono stati introdotti negli anni Settanta.
È essenziale affrontare il concetto di cittadinanza, le relazioni tra cittadinanza, politica di riconoscimento e multiculturalismo. La cittadinanza è un processo sociale che si svolge in condizioni storiche specifiche. Dobbiamo tenere presente che il concetto di cittadinanza implica sia i diritti che i doveri.

La cittadinanza come concetto si fonda nel mondo occidentale sul principio della staatsnation (ein sprache, ein nation, ein staat), un termine tedesco di origine francese. Questo principio ha caratterizzato la storia dei vecchi contenuti a partire dal XIX secolo. Secondo il principio della staatsnation = ogni nazione (gruppo etnico-linguistico) deve avere il suo Stato con il suo territorio e ogni Stato deve comprendere una nazione. Secondo il senso comune e la maggior parte delle rappresentazioni teoriche, una staatsnation è, in realtà, una kulturnation, ossia una comunità i cui membri condividono gli stessi tratti culturali.

Il concetto di kulturnation corrisponde a entrambi:

1) l’idea herderiana di “volk”/popolo (la cui caratteristica principale è una lingua condivisa da tutti i suoi membri); e a
2) al concetto originale francese di nazione, in cui anche il criterio linguistico è una caratteristica importante.
Il concetto originale francese di nazione fu definito nel 1694 dall’Académie Française. In sostanza, il modello romantico tedesco si basa sulla formula lingua-nazione-stato, mentre il modello francese moderno dopo la Rivoluzione del 1789-1794 si fonda sulla formula opposta Stato-nazione-lingua (questa formula, tuttavia, nella pratica in molti casi si traduce nell’assimilazione e persino nella pulizia etnica delle minoranze).

Il principio della staatsnation postula la formazione di spazi territoriali monoculturali e/o monoetnici politicamente sovrani. Questo principio si basa sulla purezza culturale e/o etnica. Dal XIX secolo in poi, cioè da quando il principio di staatsnation è stato applicato in Europa, ci sono stati ripetuti sforzi per rendere i singoli territori nazionali etnicamente e culturalmente più omogenei. La politica di ricomposizione etnoculturale in nome del principio di staatsnation ha influenzato in alcuni casi 1) la pulizia etnica, 2) la revisione dei confini, 3) l’assimilazione forzata, 4) i bandi, 5) l’immigrazione pianificata, 6) le deportazioni, ecc.

Affrontando la questione della cittadinanza, oggi si ha a che fare con i diritti e la tutela delle minoranze (in molti casi con lo Stato e la società civile). A livello globale, i diritti umani sono stati accettati dopo il 1945, mentre i diritti delle minoranze dopo il 1989. Il fatto è che lo Stato nazionale è stato troppo spesso inteso esclusivamente come espressione geografica. Inoltre, lo Stato nazionale è un’associazione politica di cittadini che vi appartengono anche per i loro tratti culturali, spesso non considerati.

Noi e gli altri

Non tutti possono appartenere indistintamente a uno specifico Stato nazionale. Secondo Max Weber, lo Stato nazionale è un’associazione parzialmente aperta all’esterno. In molti casi, storicamente, ci sono stati esempi di apertura limitata verso gli “altri” o gli stranieri (come il Giappone fino al 1867). Tale visione comporta la creazione di meccanismi istituzionali di selezione sociale che regolano l’affiliazione e l’esclusione. Va sottolineato che sia la cittadinanza che la nazionalità rappresentano gli strumenti fondamentali che definiscono chi ha il pieno diritto di appartenere a uno Stato nazionale e chi ne è escluso.

Un esempio drastico della politica di cittadinanza su base etnica può essere citato nel caso dell’Estonia e della Lettonia (per eliminare l’influenza sulla politica interna della minoranza russa locale) subito dopo lo smembramento dell’URSS, ma contrariamente al caso della Lituania (nel caso lituano solo perché la minoranza russa non era così numerosa rispetto ai casi estone e lettone). In altre parole, nel 1991 l’Estonia e la Lettonia hanno introdotto un modello di cittadinanza secondo la dottrina della staatsnation, che tende a cancellare ogni forma di differenza culturale all’interno del territorio nazionale. Tuttavia, la vicina Lituania dopo il periodo sovietico o la Malesia dopo la fine della dominazione coloniale britannica nel 1956, si sono date un modello di cittadinanza multiculturale, che si basa sulle differenze tra le varie componenti etniche del Paese.

Vengono create istituzioni specifiche per sostenere una logica rigida di inclusione o esclusione dallo Stato nazionale secondo il principio della staatsnation. Ad esempio, secondo la costituzione post-sovietica della Lituania, infatti, solo i lituani di etnia etnica possono essere eletti come presidente del Paese (paragrafo 78: “Respublikos prezidentu gali būti renkamas lietuvos pilietis pagal kilmę…” [Per il Presidente della Repubblica possono essere eletti solo cittadini lituani in base all’origine…]).

Tuttavia, queste istituzioni restrittive sono:

1) la naturalizzazione
2) Assimilazione;
3) Nazione titolata;
4) Minoranze.
In pratica, uno straniero può ottenere la cittadinanza attraverso la naturalizzazione e l’assimilazione. Bisogna però tenere presente che in molti Paesi del mondo la doppia cittadinanza non è ammessa (come in Germania o in Austria). Il processo di acculturazione comporta un cambiamento di appartenenza culturale. Si tratta di un processo più o meno volontario. Di solito, lo straniero deve rinunciare alla sua precedente cittadinanza. Tuttavia, oggi la doppia cittadinanza sta diventando giuridicamente più diffusa come opzione più democratica. Tuttavia, in molti casi è ancora considerata pericolosa per la conservazione delle identità nazionali (ad esempio, il dibattito controverso in Germania).

In pratica, nella maggior parte degli Stati esiste il problema della cittadinanza delle minoranze basata sulla differenza tra la nazione avente diritto e il resto della popolazione (minoranze) (casi della Slovenia e della Croazia). Questo atteggiamento implica un’asimmetria strutturale e nasconde una parziale esclusione e una demarcazione tra cittadinanze di prima e seconda classe con i relativi diritti di minoranza (esempio della Jugoslavia socialista). In molti casi, la cittadinanza è orientata in modo etnocentrico, il che solleva la questione della cittadinanza e della pluralità culturale. Un’altra questione collegata è il rapporto tra cittadinanza e diritto alla differenza.

Domande focali sulla cittadinanza:

1) La cittadinanza ha una funzione unificante e inclusiva?
2) La cittadinanza come espressione di una comunità politica armoniosa?
Dal punto di vista sociologico, la cittadinanza deve essere percepita come un processo agonistico con competizione, tensioni, conflitti, negoziati permanenti e compromessi tra i gruppi coinvolti nella lotta per il riconoscimento dei propri diritti.

Parole finali

Il concetto di cittadinanza è nella maggior parte dei casi inteso come un tema di ricerca nell’ambito della scienza politica. Pertanto, la definizione abituale di cittadinanza è fornita in termini politici, in quanto si riferisce alle condizioni di appartenenza allo Stato-nazione che assicurano determinati diritti e privilegi a coloro che adempiono a particolari obblighi. La cittadinanza è un concetto politico, ma non è una teoria sviluppata e riconosciuta a livello accademico. Tuttavia, formalizza le condizioni per la piena partecipazione a una certa comunità (di fatto, uno Stato-nazione). Originariamente, la definizione politica di cittadinanza sottolinea la natura inclusiva del termine (concetto), in quanto implica che chiunque, all’interno del territorio di uno Stato-nazione, soddisfi determinati obblighi, possa essere incluso come cittadino, con i relativi diritti e privilegi.

Le qualifiche per la cittadinanza, infatti, riflettono una concezione degli scopi della comunità politica e una visione su quali persone sono autorizzate a godere dei benefici dei diritti (e dei doveri) dell’unità politica (Stato). In breve, il concetto di cittadinanza ha applicato determinati diritti e obblighi morali e legali a coloro che la possiedono. Dobbiamo sempre tenere presente che la cittadinanza, da un lato, conferisce determinati diritti, ma dall’altro, richiede anche determinati obblighi.

Dr. Vladislav B. Sotirović
Ex professore universitario
Vilnius, Lituania
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com
© Vladislav B. Sotirović 2024
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Ora, allora.

Forse ricorderete la satira: un tempo era una forma d’arte culturale. Il suo scopo era quello di mettere in ridicolo le mancanze degli individui e della società e trae le sue origini dalle commedie di Aristofane (che pare fosse raccomandato da Platone come la migliore guida per comprendere la politica ateniese) e dai poeti romani Orazio e Giovenale. Ha avuto una lunga e ricca storia in diverse forme e le ragioni per cui oggi sembra inutile tentare la satira hanno molto a che fare con l’incoerenza e l’apparente inutilità del mondo moderno.

Questo perché la satira presuppone un quadro di riferimento ragionevolmente comune tra l’autore e il lettore o lo spettatore, in modo tale che ciò che si intende intendere come eccessivo e ridicolo venga riconosciuto come tale. La satira migliore è una questione di giudizio fine: la rappresentazione di individui e circostanze che sono sufficientemente lontani dalla realtà attuale per essere sorprendenti e divertenti (anche se non necessariamente divertenti), ma anche abbastanza vicini alla realtà attuale che gli eventi e gli individui mantengono una plausibilità di superficie. In molti casi, la satira consiste nel prendere le forme culturali e le idee politiche attuali e nel dare loro un tocco in più, in modo da renderle ridicole. Così ,Brave New World è una satira sull’utopismo scientifico wellsiano, così come 1984 è in parte una satira sulle teorie del manageriale americano James Burnham. Il dottor Stranamore è una satira della letteratura e del cinema apocalittici e seriosi degli anni Cinquanta, con generali pazzi e tecnologia fuori controllo. Nel 1982, la serie televisiva britannica Whoops, Apocalypse! poteva satireggiare l’incipiente boom di storie di disastri nucleari verso la fine della Guerra Fredda.

Come dimostrano alcuni di questi esempi, la satira non deve necessariamente essere divertente, anche se può esserlo. Non ci sono molte risate in 1984, così come in Wedi Zamyatin, una delle sue fonti principali. Ma ci sono una serie di idee satiriche portate all’estremo del ridicolo. Orwell sapeva che il valore scioccante di 1984 sarebbe aumentato notevolmente se fosse stato ambientato non in un Paese immaginario, ma nell’ambiente più improbabile a cui potesse pensare, cioè la sua Inghilterra; e se la non-ideologia del Partito fosse stata mascherata nella terminologia della forma di socialismo democratico molto inglese per cui Orwell stesso aveva combattuto. Così Orwell riprese ed esagerò satiricamente alcune delle paure popolari dell’epoca (polizia paramilitare in uniforme nera a Londra, televisioni che guardavano chi guardava, tentativi di controllo dei pensieri della gente, controlli di fedeltà, cambiamenti improvvisi e violenti di linea di partito, guerre senza fine, un unico Partito) riconoscendo che, sebbene il lettore sapesse che queste cose non sarebbero potute accadererealmente in Inghilterra, tuttavia lo shock di una loro apparizione nell’ambiente familiare di Londra sarebbe stato ancora maggiore.

Pertanto, una satira efficace presuppone un certo grado di consenso su ciò che è o non è reale e su ciò che è o non è possibile. L’ambizione di Molière di ” corriger les vices des hommes en les divertissant (“correggere le mancanze degli uomini divertendoli”) presuppone un ampio consenso su comportamenti accettabili e inaccettabili e la necessità di evitare di portare all’estremo idee e convinzioni (anche religiose). È per questo che la satira funziona meglio in ambienti politicamente e socialmente strutturati, dall’Inghilterra della Modesta proposta di Swift alla Vienna dell Uomo senza qualità di Robert Musil dove la satira è intesa come satira. Così, negli anni Settanta i Monty Python potevano prendere in giro molti aspetti dell’establishment britannico (di cui facevano parte), compresa la religione organizzata in The Life of Brian, perché anche coloro che si sentivano offesi dalla satira riconoscevano e accettavano il mondo che i Python satireggiavano, e che si trattava di satira. Al contrario , latrilogiaIlluminatus di Robert Anton Wilson , inizialmente scritta come satira sulla letteratura cospirazionista degli anni Sessanta, è stata assorbita senza soluzione di continuità da quella stessa cultura, e oggi è spesso vista come una sua espressione.

Sempre più spesso negli ultimi anni si è cominciato a dire che “non si può inventare” e a suggerire che non ha più senso fare satira, perché la realtà la supera inevitabilmente. Non è un’idea nuova, naturalmente. Sebbene il satirico Tom Lehrer, autore di alcune tra le canzoni satiriche più ferocemente divertenti di tutta la storia, abbia in seguito smentito di aver smesso di scrivere dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Henry Kissinger, è vero che sarebbe stato giustificato a farlo. (Ma è anche vero che a quel punto aveva detto praticamente tutto quello che c’era da dire: “La cosa bella di una canzone di protesta è che ti fa sentire bene” rimane il commento definitivo sull’azione politica performativa sessant’anni dopo che l’ha detto).

Tuttavia (e finalmente arriviamo al tema di questo saggio) la maggior parte delle persone ha la sensazione di vivere in un mondo in cui la satira è irrilevante e per molti versi impossibile, in cui ogni telegiornale o feed RSS mattutino porta non solo nuovi orrori, ma anche svolte completamente inspiegabili e surreali, in un mondo in cui nulla ha senso e nulla sembra essere logicamente collegato. In realtà simpatizzo e condivido in gran parte questo punto di vista, perché penso che sia ampiamente vero. Viviamo in un mondo che non possiamo più fingere abbia senso e non sappiamo come affrontarlo.

A titolo di esempio, si consideri una proposta fatta a Hollywood negli anni ’70 per un film in cui centinaia di migliaia di vite, e il futuro stesso del Medio Oriente, sono in ostaggio dei disperati tentativi di due anziani politici corrotti di diversi Paesi di rimanere aggrappati al potere e di non finire in galera, e dell’esatta tempistica di un’elezione in un Paese, e del peso finanziario e politico di varie circoscrizioni elettorali. Immaginate inoltre che i membri religiosi estremisti del governo di un Paese credano di essere vicini al ritorno del loro Messia, che sarà provocato da un attacco nucleare contro l’antico nemico Persia, come indicato nella loro Bibbia, e che altri estremisti religiosi nel secondo Paese pensino che la seconda venuta di Cristo sarà provocata dagli stessi eventi. E poi c’è la storia del tempio sacro e della giovenca rossa. Potete immaginare la reazione di un presunto produttore, anche se al giorno d’oggi siamo arrivati ad accettare questo tipo di eventi come scontati. Siamo molto lontani dai tempi in cui si credeva che le forze economiche profonde strutturassero i principali eventi del mondo.

La distopia è la cugina di primo grado della satira e spesso si sovrappone ad essa, e in realtà non c’è nulla di più affascinante e divertente delle distopie del passato, perché queste storie sono limitate nella loro terribilità da ciò che gli scrittori possono immaginare del futuro, basandosi sulle norme del loro tempo. La violenza urbana di Arancia meccanicadi Anthony Burgess , per quanto sembrasse una scioccante satira distopica sessant’anni fa, e anche un decennio dopo quando Stanley Kubrick ne realizzò la versione cinematografica, oggi sembra pittoresca e molto legata ai suoi tempi più civilizzati. La vera violenza urbana oggi ci spaventa perché è al di fuori di qualsiasi contesto concordato e compreso: non sembra nemmeno distopica, ma semplicemente incomprensibile.

Mentre scrivo, i media francesi riportano la notizia (non molti, a dire il vero) di un alterco a Bordeaux tra un afgano e un’afgana. rifugiato, richiedente asilo e una coppia di giovani immigrati algerini che aveva trovato a bere birra. Rimproverandoli per aver bevuto alcolici alla fine del Ramadan, li ha aggrediti con un coltello e ha ucciso uno di loro. Di recente si sono verificati numerosi episodi di violenza di questo tipo, per lo più tra adolescenti e soprattutto all’interno e nei pressi delle scuole. Alcuni sembrano legati alle bande, altri sono solo il prodotto di una cultura importata in cui i litigi di qualsiasi tipo finiscono spesso in violenza estrema e spesso fatale. C’è poi la quindicenne di origine algerina picchiata quasi a morte da alcuni compagni di classe perché vestiva con abiti “troppo occidentali”.

Non è solo che il sistema francese non ha idea di cosa fare in questi casi: non ha nemmeno idea di cosa pensare. Non ha un quadro di riferimento in cui cercare di collocare questi atti (sempre più frequenti). Il massimo che è stato in grado di fare è cercare di ridurre la pubblicità che attirano, perché tale pubblicità “stigmatizza le comunità vulnerabili” (che sono in realtà le vittime) e “rafforza l’estrema destra”. (In effetti, da anni il sistema francese guarda all’intero fenomeno della violenza religiosa e dell’immigrazione come a un pesce rosso: la bocca continua ad aprirsi, ma non esce nulla di sensato. L’ironia della sorte vuole che i critici più accaniti dell’IdiotPol nei confronti della laicità sancita dalla Costituzione non siano essi stessi credenti religiosi, né vogliano realmente concedere alla religione organizzata il potere sulla politica e sulla società. In astratto, sono ferocemente laici come coloro che criticano, se non di più. Per loro la religione non è una questione di fede, ma semplicemente un marcatore di identità culturale, indossato da comunità “svantaggiate” e “vulnerabili” che si ritiene siano “soggette a discriminazione” e che devono essere “protette” dalle critiche.

È impossibile per queste persone, che dominano la Casta Professionale e Manageriale (PMC) del mondo occidentale, capire che altre persone di altre società credono davvero che i precetti della loro religione siano letteralmente veri e che i comandi della loro religione, così come interpretati da alcuni dei suoi leader, siano operativi, e che quindi siano giustificati dall’uccisione di massa di uomini e donne non sposati che socializzano insieme, o dalla persecuzione, dalle percosse e dallo stupro di ragazze che non rispettano i codici di abbigliamento islamici nelle strade delle città europee. Qualsiasi cosa, letteralmente qualsiasi cosa, dall'”emarginazione” alla “violenza della polizia” alle “avventure militari occidentali” alle attività dei servizi segreti occidentali, è preferibile come modo di spiegare la violenza islamista all’ingrosso e al dettaglio, perché sono cose che capiamo, o almeno di cui siamo abituati a sentire parlare, nella cultura popolare, in TV e al cinema.

Quest’ultimo punto è importante, perché le ricerche in psicologia dimostrano che ciò che le persone credono è molto più legato al numero di volte che si sentono ripetere le cose, che alla coerenza intrinseca di ciò che viene proposto. La pura ripetizione crea familiarità e la familiarità ci fornisce una spiegazione e un quadro di riferimento che ci esonera dalla necessità di ulteriori riflessioni. Di conseguenza, eventi che potrebbero sembrare strani, e di conseguenza spaventosi, possono essere assimilati in un discorso familiare e di conseguenza ci sentiamo meno spaventati. Quando accadono fatti che non possono essere incasellati in un paradigma esistente, ma che sono troppo drammatici per essere ignorati, vengono semplicemente riportati frettolosamente e senza commenti. Il fatto è che la stessa PMC non è assolutamente in grado di comprendere questi atti di violenza, perché sono completamente al di fuori dei limiti della loro esistenza intellettualmente confortevole. Si limita quindi a squittire di virtuosismi e di irrilevanza.( Questa settimanaLe Monde ha pubblicato un lungo articolo sull’assassino afghano, interamente dedicato alla questione tecnica se l’omicidio potesse essere classificato come atto di terrorismo se non fosse stato premeditato. Come se a qualcuno importasse).

Molto di questo, ovviamente, è legato all’ego. L’idea che nel mondo accadano cose che non possiamo capire senza fare uno sforzo particolare; che ci siano eventi in cui l’Occidente non gioca un ruolo dominante, nel bene e nel male; che anche nella nostra società accadano cose che non possiamo incasellare nel nostro tradizionale quadro di riferimento: tutto ciò minaccia la capacità del nostro prezioso ego di afferrare, spiegare e quindi controllare il mondo; più il mondo sembra inspiegabile, più sembra spaventoso e più forte è il desiderio di trovare un modo, un modo qualsiasi, di assimilarlo alle idee che abbiamo già sentito. L’alternativa è il silenzio.

Ad esempio, il monumento che commemora la morte e il ferimento di centinaia di persone negli attacchi dello Stato Islamico del 13 novembre 2015 a Parigi non contiene una sola parola sull’identità o sulle motivazioni degli attentatori. È facile avere l’impressione che le morti siano dovute a una sorta di disastro naturale. In realtà, mentre la Francia ha una grande conoscenza dello Stato Islamico, per averlo combattuto in Siria e in Africa, oltre che in patria, le montagne di studi, le infinite testimonianze di ex membri, di esperti delle regioni e le testimonianze ai processi non possono essere convertite in una semplice storia che segue direttamente da ciò che la gente “sa” (o almeno pensa di sapere) sull’Islam e sul Medio Oriente. Il risultato è quindi il silenzio di fronte a ciò che sembra essere inspiegabile.

È sorprendente come questo appaia anche nella copertura di Gaza. È ormai routine, sulle pagine dei giornali sopravvissuti o nei successivi feed RSS dello stesso sito, vedere immagini orribili e resoconti terrificanti da Gaza stessa, accompagnati da lamenti da Washington che chiedono a Netanyahu di essere un po’ più gentile e discriminante nelle uccisioni. Non è possibile scrivere un’unica notizia che comprenda entrambi gli elementi in modo soddisfacente, per cui l’impressione generale è quella di due storie che non hanno alcun legame causale o tematico, ma che per coincidenza sono state riportate nello stesso momento. Ancora una volta, il silenzio è così forte da urlare. Per trent’anni, fino all’Ucraina compresa, è stato ripetutamente messo in campo l’intero armamentario ideologico del militarismo della PMC: intervento militare, no-fly zone, attacchi aerei, intervento militare sul terreno, sanzioni applicate dall’esercito se necessario. E la più amara delle ironie è che questa è l’unica crisi politica degli ultimi trent’anni in cui l’intervento militare potrebbe porre fine alle sofferenze in mezz’ora.

Ma l’idea di un intervento militare non viene chiaramente in mente ai governi occidentali, perché l’uso della violenza contro uno Stato allineato all’Occidente è impensabile, nel senso letterale del termine. Non rientra nel quadro di riferimento in cui si sta ragionando. Tale quadro di riferimento è in grado di ricevere ed elaborare solo alcuni tipi di input: così, sfogliando alcuni feed RSS questa mattina mi sono imbattuto in una storia su come potremmo alleviare le sofferenze dei palestinesi, parti innocenti, in una guerra tra Israele e Hamas. Queste interpretazioni, per quanto possano apparire bizzarre ai ben informati, rappresentano la massima misura in cui il PMC e le classi politiche e mediatiche ad esso associate possono effettivamente elaborare ciò che vedono in modo da non destabilizzare la loro visione del mondo. Dopotutto, trent’anni fa qualsiasi autore satirico o scrittore di SF distopica avrebbe osato scrivere una storia in cui, nella stessa settimana, venivano imposte sanzioni alla Cina per aver venduto beni alla Russia, mentre Israele veniva fustigato con un pezzo di spaghetti bagnati? Non è nemmeno chiaro come si possa iniziare ad assimilare questi due eventi a una visione del mondo coerente, ed è per questo che non avrebbero mai potuto avere successo come racconto satirico.

Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, ma credo che il punto sia stato chiarito. Se l’idea di vivere in un mondo caotico e privo di significato non è certo nuova, uno dei tanti cambiamenti apportati da Internet è l’aumento massiccio della quantità di dati grezzi disponibili sulle crisi odierne, senza necessariamente aumentare il livello di comprensione. Anche trent’anni fa, agli albori della televisione satellitare, il massimo che si poteva ottenere era una trasmissione di pochi minuti in diretta da un luogo di crisi da parte di un giornalista riconosciuto. Un decennio prima si trattava di filmati, sviluppati negli studi in patria. Ora, dopo un incidente come l’attacco missilistico iraniano contro Israele, siamo bombardati da video per smartphone che possono o meno mostrare incidenti reali che possono o meno essere collegati all’episodio in questione, e da più commenti di quanti se ne possano assorbire. Sarebbe una cosa se tutte queste immagini e tutti questi commenti tendessero nella stessa direzione, ma in pratica molti di essi sono sconnessi e apertamente contraddittori.

Questo produce una situazione che, a mio avviso, non ha precedenti nella storia dell’umanità. Si pensi che fino a un secolo fa le notizie dal mondo esterno erano difficili e costose da reperire e arrivavano in piccoli pacchetti da corrispondenti specializzati. Le persone erano consapevoli delle confusioni e delle contraddizioni della vita, delle cose terribili che potevano accadere, delle crisi inspiegabili che si sviluppavano, ma per lo più in un contesto locale e domestico che comprendevano in larga misura. Solo di recente i notiziari sono pieni di eventi inspiegabili, inaspettati e terribili, perpetrati in luoghi di cui non abbiamo mai sentito parlare, da persone di cui non riusciamo nemmeno a pronunciare il nome.

Ciò ha coinciso con un effetto di livellamento provocato da Internet, che assimila tutto a un unico discorso. Paradossalmente, Internet ha ristretto e semplificato enormemente la nostra visione del mondo. Quando ero giovane, le altre parti del mondo, anche quelle europee, erano accettate come diverse. Le narrazioni degli esploratori africani con cui sono cresciuto, le storie di gesta dei ragazzi in Medio Oriente, i documentari della BBC di David Attenborough, tutto risuonava con un senso di quanto fossero diverse le altre culture. La fine degli imperi europei ha significato, tra l’altro, la fine dell’interazione quotidiana con civiltà completamente diverse, in quanto i ministeri delle Colonie sono stati ripiegati e sono diventati appendici minori dei ministeri degli Esteri, e la competenza in culture veramente straniere è diventata molto meno apprezzata. (A questo proposito, gran parte del successo iniziale dei romanzi di James Bond era dovuto alla loro collocazione in luoghi esotici e diversi come la Giamaica o il Giappone, che solo pochi lettori potevano aspettarsi di visitare). Al giorno d’oggi, mentre la gente posta video di se stessa fuori da McDonald’s a Ho Chi Minh City o a metà strada sul Monte Everest, ci illudiamo che il mondo sia finalmente diventato solo una proiezione del nostro ego, e che ora abbiamo un quadro concettuale che può assimilare e interpretare ampiamente qualsiasi cosa, anche se discutiamo furiosamente sui dettagli. Da qui la paura quando l’ego si trova di fronte a qualcosa che non riesce a far rientrare nel contesto che crede di capire.

Naturalmente, l’idea che viviamo in un mondo confuso, irrazionale e spaventoso non è nuova. Per i nostri antenati era probabilmente peggio, almeno nella loro vita quotidiana. Ma ci sono state due tradizioni intellettuali che hanno funzionato come palliativi e spiegazioni almeno parziali. Una, ovviamente, è stata la religione. Nelle società panteistiche come quella descritta nell’Iliade, la questione non si poneva: gli dei facevano quello che volevano ai mortali e basta. Non c’era un sistema etico generale, né la necessità di razionalità. Il monoteismo è sempre stato in grado di proporre una soluzione a questo problema: i disegni di un Dio creatore onnipotente sono tali da non poter essere compresi dagli esseri umani. Esiste infatti un’intera scuola di scrittura mistica, presente sia nel Cristianesimo che nell’Islam, nota come teologia “apofatica”, che sostiene che non possiamo avere alcuna conoscenza di Dio e che è inutile provarci. (Tra l’altro, Kant pensava la stessa cosa).

Il problema di questo argomento è che richiede un certo grado di umiltà, che non è una virtù molto in voga oggi e che tende a minare la nostra visione del mondo guidata dall’ego, in cui tutto deve essere comprensibile per noi e in grado di essere giudicato da noi. (L’argomento non dipende dall’esistenza o meno di Dio per la sua forza, è un argomento sui limiti di ciò che gli esseri umani possono realisticamente aspettarsi di conoscere). L’idea dell’esistenza di forze che non possiamo comprendere è più di quanto il nostro ego possa accettare, quindi, dal XVIII secolo, abbiamo ridefinito Dio come un essere “ragionevole” che possiamo comprendere, e gran parte del sentimento ateo deriva dall’incapacità dell’ego di accettare il concetto stesso di una figura divina le cui caratteristiche non possiamo intrinsecamente cogliere. A un estremo si sostiene che credere in un unico Dio è irragionevole, all’altro si sostiene che l’idea di un Dio che condanna le anime alla perdizione eterna è inaccettabile e non può essere vera. Ma è ovvio che un essere soprannaturale non ha alcun obbligo di accettare gli standard razionali e morali degli occidentali del terzo decennio del XXI secolo. È anche ovvio che nel corso della storia la stragrande maggioranza dei cristiani, almeno, non ha avuto difficoltà ad accettare l’idea della perdizione eterna, proprio come fanno oggi centinaia di milioni di musulmani. Tuttavia, il rifiuto egoistico di tutto ciò che va oltre le nostre capacità di discernimento (come i pesci rossi che decidono che nessuno li stava nutrendo, ma che il cibo arrivava naturalmente nell’acqua) non ci ha lasciato alternative se non quelle umane puramente riduttive per spiegare i paradossi, le crudeltà, le ingiustizie e l’incoerenza generale del mondo.

L’alternativa principale, ovviamente, era il marxismo, o per essere più precisi il marxismo-leninismo istituzionalizzato, come rappresentato e diretto per tre quarti di secolo dal Partito Comunista Sovietico. L’idea che l’umanità si stesse muovendo, anche se in modo irregolare, in una certa direzione sotto la tutela del CPSU forniva allo stesso tempo un quadro analitico per vedere il mondo e un modo per accettare e razionalizzare eventi terribili. Anche i presunti errori – la collettivizzazione forzata, ad esempio – potevano essere spiegati come casi individuali in cui il Partito aveva deviato dal comportamento corretto, ma si era rimesso in carreggiata. Era la destinazione e non il viaggio che contava, anche se questo viaggio passava attraverso le purghe di Stalin e il patto Molotov-Ribbentrop.

Entrambi questi sistemi di pensiero hanno perso gran parte del loro potere politico ed etico, ma le abitudini di pensiero che hanno inculcato rimangono comunque influenti. Il declino della religione formale ha prodotto… beh, stavo per dire teorie del complotto, ma forse è esagerato, perché una teoria è un costrutto intellettuale che genera proposizioni verificabili, e poche o nessuna “teoria del complotto” lo fa. Piuttosto, ha prodotto una visione del mondocospiratoria in cui nulla è come sembra e tutto è il risultato delle macchinazioni di individui e organizzazioni che investiamo di poteri francamente sovrumani. (Gli esponenti di questa visione del mondo, come gli gnostici di un tempo, credono di avere una conoscenza istintiva della verità di ogni situazione, senza bisogno di prove.

All’altra estremità dello spettro, se il marxismo formale ha perso molta della sua influenza, il marxismo volgare, con la sua enfasi miope sulle spiegazioni puramente materiali ed economiche di ogni cosa, rimane estremamente potente come metodo di analisi universale in qualsiasi contesto, relegando fattori come la storia, la geografia, la politica e la cultura a un ruolo subordinato. In molti casi, le due forme di pensiero degenerate riescono a coesistere, a volte nella stessa serie di affermazioni. Naturalmente, una volta che si ha in testa un modello di funzionamento del mondo, questo può essere applicato senza modifiche ovunque. Ricordate il volo della Malaysian Airlines scomparso dopo il decollo qualche anno fa e mai più rivisto? Si è scoperto che sono stati gli americani ad abbatterlo. Beh, probabilmente. Possibilmente.

In teoria, il liberalismo potrebbe fungere da teoria globale sostitutiva per spiegare le miserie e le incoerenze del mondo, ma è troppo incoerente nella sua pratica e persino nella sua teoria (quanti devoti rawlsiani conoscete?) per svolgere un ruolo del genere. Una teoria politica e sociale basata sull’egoismo e sull’egocentrismo generalizzato deve solo accettare i mali e le contraddizioni del mondo dei vincitori e dei vinti come inevitabili, magari da migliorare con una più rigida adesione all’ortodossia liberale. Anche se può identificare i mali, per definizione non può agire in prima persona per alleviarli, perché è una teoria transazionale del mondo. Con tutti i loro difetti, i credenti religiosi e i comunisti andavano a combattere e a morire per le cose in cui credevano: I liberali vogliono solo pagare qualcun altro per morire per le cose in cui credono. È la differenza tra “devo fare qualcosa” e “qualcosa deve essere fatto”.

Ma sto divagando. Beh, un po’. Il punto è che la moderna distruzione liberale della religione e delle idee politiche che mirano a un futuro migliore ha creato un enorme vuoto nella nostra capacità di razionalizzare il mondo, che il liberismo stesso non può colmare. E il liberalismo è impegnato a distruggere tutti gli altri parametri con cui eravamo soliti giudicare e interpretare le azioni: l’interesse nazionale, il bene collettivo, la difesa delle famiglie e delle comunità, e così via. Infine, il liberalismo stesso si è frantumato in fazioni impegnate a mordersi e a scannarsi l’un l’altra per differenze ampiamente immaginate e dettate dall’ego.

È questo, credo, che spiega il tono isterico di gran parte di ciò che oggi passa per discorso politico, per non parlare del dibattito. Le nostre opinioni e le nostre valutazioni del mondo sono in definitiva solo estensioni del nostro ego, senza punti di riferimento esterni concordati, e scegliamo le nostre opinioni e le nostre ideologie come scegliamo una squadra di calcio o una pop star da seguire: essenzialmente per pura emozione. Una sfida alle nostre opinioni è quindi una sfida alla solidità del nostro ego e una sensazione di incertezza su come interpretare un evento ci spaventa. Scegliamo opinioni e punti di vista che troviamo emotivamente soddisfacenti e che rafforzano il nostro ego e, poiché sono generati internamente, anziché essere tratti da schemi comunemente accettati, un punto di vista diverso dal nostro viene percepito come un attacco alla forza del nostro ego.

Lo si è notato nella bagarre seguita a due recenti incidenti: l’attacco alla sala concerti Crocus in Russia e la distruzione del ponte del porto di Baltimora negli Stati Uniti. Ciò che mi ha colpito – e non intendo addentrarmi in speculazioni sostanziali, dal momento che in entrambi i casi sono ancora disponibili poche prove concrete – è che nel giro di pochi minuti dai primi annunci dei media gli opinionisti si sono riversati su Internet con elaborate spiegazioni cospiratorie degli eventi, sebbene non si tratti, come ho suggerito, di teorie del complotto in quanto tali. Questo in un momento in cui persino i fatti fondamentali non erano chiari. Il punto, ovviamente, era quello di intrappolare e addomesticare immediatamente questi eventi in un quadro concettuale che non fosse impegnativo per l’ego, perché già familiare, e che ci facesse sentire di capire il mondo. Anche se pochi di noi sono ingegneri navali, specialisti nella progettazione di ponti portuali, esperti della complessa e violenta storia dello Stato Islamico, specialisti nell’interazione delle reti terroristiche o qualificati per parlare di sabotaggio di grandi navi da carico, tutti noi abbiamo familiarità con i tropi della cultura popolare sulle operazioni “false flag”, sulle misteriose forze di operazioni speciali, sulle oscure azioni dei servizi segreti, sugli ingegnosi mezzi tecnici di sabotaggio e su molte altre cose. Ricorriamo a cose “come” quella serie di Netflix che non abbiamo mai finito di guardare sui russi (o erano i cinesi) che sabotano un ponte (o era un tunnel) perché ci fornisce qualcosa a cui aggrapparci. Poiché selezioniamo le spiegazioni che ci piacciono in base a criteri essenzialmente emotivi ed estetici, siamo incapaci di discutere serenamente le questioni di fondo con qualcuno i cui criteri sono diversi. Finiamo per cercare di cavarci gli occhi a vicenda.

Come ho suggerito, oggi sono disponibili molti più dati (non diciamo “informazioni”) sui principali eventi del mondo di quanti ne possiamo elaborare, eppure la capacità della nostra cultura di dare un senso a ciò che vede è in continuo declino, anche a livello di decisori e influencer. Questo spiega, forse, il distacco di questi ultimi dalla realtà per quanto riguarda l’Ucraina. L’affermazione “non si deve permettere alla Russia di vincere” deve essere completata con la formula “o l’ego strategico occidentale subirà un danno irreparabile, e questo è inaccettabile”. Il pensiero di una sconfitta occidentale e di una vittoria russa è così distruttivo per l’ego che non può essere contemplato, tanto meno permesso di discuterne. La satira, se ne avesse voglia, potrebbe davvero prendersi gioco di questo scollamento dalla realtà: a pensarci bene, forse lo ha fatto molto tempo fa, in Monty Python e il Santo Graal.

Questo diventerà un vero problema negli anni a venire, quando la narrativa che tiene insieme il complesso di sicurezza occidentale comincerà a disintegrarsi e diventerà chiaro non solo che l’influenza occidentale su molti dei problemi del mondo è limitata ora, ma che è sempre stata molto più limitata di quanto l’ego strategico occidentale sia mai stato disposto a contemplare. Una cosa che univa i più ferventi sostenitori del rovesciamento di Gheddafi e del tentativo di rovesciamento di Assad ai loro più acerrimi critici era la convinzione dell’importanza fondamentale delle azioni occidentali. Temo che sia il momento dell’acqua fredda, e l’acqua sarà ancora più fredda in futuro.

Le strutture di potere in declino ancora aggrappate a idee gonfiate della propria importanza sono sempre state un buon materiale per i satirici, ma mi aspetto che in questo caso abbiamo qualcosa di più fondamentale della fine dell’Impero asburgico con cui confrontarci e vivere. Ma d’altra parte, la disintegrazione di quell’Impero e il più ampio caos che seguì la Prima Guerra Mondiale non sono esattamente un buon auspicio per il nostro futuro (nota per me: scrivere un saggio su questo).

Come vivere, dunque, in questa cultura post-satirica e schizofrenica, in cui la verità è qualsiasi cosa ci faccia sentire bene e ci permetta di fingere di capire davvero il mondo? Penso che abbiamo due scelte, che tra loro equivalgono a decidere se pensiamo che il mondo sia intrinsecamente semplice o intrinsecamente complicato, e se possiamo effettivamente affrontare le conseguenze se decidiamo a favore della seconda ipotesi.

Per fortuna, alcuni sono stati qui prima di noi? Esiste un’intera tradizione letteraria e filosofica dell’Assurdo, per lo più in lingua francese (Céline, Sartre, Camus, Ionesco), che guardava essenzialmente al paradosso della ricerca di un senso in un mondo che evidentemente non ne aveva e, cosa interessante, spesso adottava un tono decisamente satirico nel descrivere quel mondo. Il suo esponente più noto, Albert Camus, si chiese se, in un mondo del genere, non fosse meglio uccidersi. La risposta dell’Assurdista (e soprattutto dell’Esistenzialista) fu: “No, andare avanti, senza speranza ma senza disperazione”. Sebbene Camus abbia presentato la sua argomentazione in termini di condizione umana nel suo complesso, non è difficile vedere l’Assurdismo come un prodotto della Prima guerra mondiale e degli eventi degli anni Trenta e Quaranta, che potrebbero essere letti come un suggerimento del fatto che l’umanità ha perso le sue rotelle. La Prima guerra mondiale, in particolare, ha distrutto molte più fondamenta della società (compresa la religione) di quanto si pensi. Forse non è un caso che l’Assurdismo, come l’Esistenzialismo, fosse in declino nei prosperi e pacifici anni Sessanta e Settanta. L’allegra distruzione delle ultime strutture di significato e rilevanza da parte del liberalismo negli ultimi quarant’anni ci ha riportato, senza sorpresa, alla stessa disperante sensazione che nulla sia collegato e nulla abbia senso. Inoltre, a mio avviso, ci suggerisce le stesse possibili risposte: o la ricerca nevrotica di una grande teoria unificante di forze occulte che spieghi tutti gli eventi del mondo, o un più calmo riconoscimento del fatto che il mondo è effettivamente fondamentalmente privo di significato, ma questo non significa che non ci siano ancora cose utili e importanti da fare.

Primo Levi, scienziato e scrittore italiano, fu arrestato nel 1943 per le sue attività di resistenza e alla fine finì ad Auschwitz, dove vide non solo che chi viveva e chi moriva era in gran parte una questione di fortuna, ma anche che il comportamento delle autorità SS che gestivano il campo era completamente imprevedibile e inspiegabile. Utilizzando il tedesco che aveva imparato (una delle cose che lo aiutarono a sopravvivere), un giorno chiese a una guardia del campo perché gli avesse gratuitamente strappato un ghiacciolo che aveva preso per dissetarsi. Hier ist kein warum fu la risposta. “Qui non ci sono perché”. Anche se pochi di noi si troveranno mai in circostanze così estreme, alla fine tutti viviamo in un mondo in cui non ci sono perché, e sarebbe meglio se ci abituassimo.

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Vince Ebert, Non è ancora la fine del mondo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Vince Ebert, Non è ancora la fine del mondo, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 191, € 18,00

Quando un problema serio come la tutela dell’ambiente è affrontato da attivisti, politici, giornalisti, intellos in modo spesso improbabile e, non poche volte, involontariamente comico, il contrappasso è che a criticarlo sia un divulgatore scientifico come Ebert, ma anche styand-up comedian.

È la legge del contrappasso: a comici involontari replica un comico professionista. Come scrive Abbadessa nella prefazione, il saggio “si identifica nella tradizione che attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, che vede nell’ “arma” dell’ironia la tecnica migliore per smontare quelle che a volte appaiono come verità consolidate. Ironia e preparazione scientifica per avere uno sguardo lucido e aperto sul mondo”.

E in effetti usare l’ironia per argomenti seri ha generato alcune delle opere più acute e divertenti della cultura europea: dalle “Provinciali” di Pascal al “Tartufo” di Moliére, dalla “Sacra giraffa” di Madariaga all’ “Ispettore generale” di Gogol. Gli è che gli argomenti, ironicamente demoliti o ridimensionati da Ebert, hanno in comune il connotato, prevalente, di trarre conclusioni apocalittiche da fenomeni di rilevanza assai più modesta, preoccupanti per il benessere di persone e comunità, ma del tutto inidonei a causare la fine del pianeta. Altre presentano evidenti errori, logici e non. Ad esempio la sostenibilità ambientale. Diversi ambientalisti ritengono che la crisi climatica sia dovuta al capitalismo. Ma Ebert ricorda che di solito “i Paesi economicamente più liberi hanno anche i punteggi più alti nell’indice di sostenibilità ambientale. I Paesi economicamente meno liberi sono quelli che hanno anche i valori peggiori di sostenibilità ambientale. Da un punto di vista ecologico, il capitalismo non sembra essere il problema ma la soluzione”. E la Cina, sia quando era comunista che  post-comunista è il più grande bruciatore di carbone del pianeta.

Poi c’è la pressione di gruppo, cioè il ripetere corale (e coordinato) delle tesi ambientaliste.

Ebert scrive che a tanto chiasso il più delle volte corrisponde un riscontro reale modesto: se “un extraterrestre atterra in Germania, legge un giornale qualsiasi, visita un sito di notizie, guarda una televendita o facendo zapping capita un talk show politico. Crederà che per i cittadini di questo Paese quasi niente è più importante del cambiamento climatico” ma non è così. Stando ai dati reali “attualmente 1,6% dei tedeschi mangia vegano, il 5,7% degli alimenti acquistati è bio e la quota di auto elettriche è dell’1,2%”. La conclusione è che l’indifferenza è prevalente perché il Ragnarok ambientalista non è un pensiero che preoccupi le masse “il mainstream non è ciò che pensa la maggioranza, ma ciò che la maggioranza pensa che la maggiorana pensi”.

D’altra parte se la Cina ha triplicato negli ultimi vent’anni le emissioni di Co2 e Sud-Africa e Nigeria investono in centrali a combustibili fossili, è chiaro che, anche se le richieste dei catastrofisti climatici fossero integralmente accolte a Parigi, Londra e Berlino, l’effetto sul riscaldamento globale sarebbe insignificante data la modesta percentuale europea di inquinamento.

Nel complesso un saggio che in un dibattito carico di scomuniche e anatemi, porta l’aria fresca della ragionevolezza.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Il salario della paura, di AURELIEN

Il salario della paura

Le cose si faranno presto sudate.

Vi ricordo che questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potete comunque sostenere il mio lavoro mettendo like e commentando e, soprattutto, trasmettendo i saggi ad altri e i link ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️

E grazie ancora a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando alcune traduzioni in italiano e ha creato un sito web dedicato a queste traduzioni. Grazie anche ad altri che pubblicano occasionalmente traduzioni in altre lingue.

Ora, allora.

Come accade per la maggior parte delle crisi, è possibile tracciare la progressione della risposta occidentale alla crisi ucraina attraverso una serie di fasi emotive distinte. Dalla fine del 2021, siamo passati attraverso l’indifferenza arrogante, l’incredulità e la negazione, la superiorità compiaciuta, l’odio cieco e l’impulso allo sterminio, seguiti dal panico crescente e ora da qualcosa che si avvicina alla paura.

È curioso che, mentre l’effetto della contingenza e delle emozioni sulla storia è ben compreso da biografi e storici, sia spesso assente dagli scritti di scienza politica, sia che si tratti di testi profondamente teorici, sia che si tratti di articoli su Internet di qualche pensatore di passaggio. Il punto, suppongo, è che è molto difficile sviluppare teorie generali sulle Relazioni Internazionali – anche quelle rozze come il Realismo – se si ammette che gran parte del sistema internazionale funziona in realtà attraverso la confusione, la relativa ignoranza e l’emozione. E senza teorie generali, alcuni metterebbero in dubbio l’utilità di avere Dipartimenti di Relazioni Internazionali.

Ora, quando in passato ho cercato di dare un’idea della complessità e della confusione che caratterizzano gran parte della politica internazionale, alcuni hanno obiettato. Essi presumono, o almeno trovano confortante presumere, che nelle crisi vi siano schemi profondi, strategie a lungo termine e obiettivi chiari, e mai come nel caos apparentemente inspiegabile dell’Ucraina.

Non ho intenzione di discutere nuovamente questo punto in questa sede. Ripeterò semplicemente che, sebbene sia molto comune per i Paesi e persino per i gruppi di Paesi avere politiche ragionevolmente coerenti per periodi di tempo, raramente ciò viene deliberatamente pianificato in anticipo, e certamente non nei dettagli. La coerenza è in parte dovuta alla pura inerzia: una volta che le politiche su un certo argomento sono state concordate e sono in corso, continueranno a non essere modificate, a meno che non si faccia uno sforzo deliberato per cambiarle, sforzo che spesso non vale la pena di fare. Allo stesso modo, le politiche che derivano da criteri oggettivi – in particolare la geografia – tendono a essere ragionevolmente stabili nel corso del tempo. Ancora, le politiche multilaterali sono spesso molto difficili da concordare tra Stati con interessi diversi e quindi, una volta raggiunto un compromesso di qualsiasi tipo, esso tenderà a rimanere, perché almeno è qualcosa su cui si è trovato un accordo. Infine, le politiche hanno l’abitudine di acquisire slancio con l’età: una nuova generazione di decisori politici riprenderà le politiche del passato, spesso in forma volgarizzata, perché fanno parte dell’arredamento politico ereditato.

Così è stato per la Russia. Per cominciare, i leader occidentali avevano già attraversato una successione di fasi emotive dal 1988 al 1995 circa. La prima è stata quella dell’incredulità e della negazione, condannando chiunque credesse che in Russia fossero in corso dei veri cambiamenti come un agente di Mosca e un “gorbymaniaco”. Poi c’è stata una sorta di stordimento, di stupore catatonico per il crollo del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica, seguito da un periodo di superficiale trionfalismo che ricorda i sostenitori di una squadra di calcio vincente dopo un rigore. In nessun momento queste reazioni emotive sono state sostenute da un’analisi seria o da seri tentativi di comprensione. Con l’Europa ossessionata dalla propria “costruzione” post-Maastricht, con i Balcani e i cambiamenti politici nell’Europa dell’Est, la Russia è stata considerata come “risolta”: uno Stato in declino ora dipendente dall’Occidente. Quando potevamo, le dedicavamo un po’ di tempo, tra cose più eccitanti.

Da tempo sostengo, e credo sia vero, che alla fine degli anni Novanta si è persa un’enorme opportunità di portare la Russia e l’Occidente in una sorta di relazione produttiva, o almeno reciprocamente non minacciosa, e l’incapacità di farlo è probabilmente il più grande fallimento di politica estera dal 1945. Ciononostante, bisogna chiedersi se un tale risultato fosse praticamente possibile, e sono propenso a pensare che non lo fosse. Sebbene l’attuale situazione disastrosa non fosse inevitabile, e persino l’inasprimento delle relazioni dopo il 2014 avrebbe potuto essere evitato o mitigato con un po’ di riflessione e di impegno, la situazione politica, geografica, economica e di sicurezza sottostante al 1991 era semplicemente così complessa che i più grandi statisti della storia del mondo avrebbero avuto difficoltà a gestirla, per non parlare del modesto insieme di talenti di cui disponevamo.

Le idee che circolavano all’epoca erano tante (la sostituzione della NATO con l’OSCE era la preferita), ma tutte avevano in comune il fatto che nessuno riusciva a spiegare come avrebbero funzionato nella pratica. Non si trattava solo di disunione all’interno della NATO, ma anche di forze potenti, ma non incontrastate, negli Stati dell’ex Patto di Varsavia che vedevano l’unica salvezza possibile per i loro Paesi in un rapporto più stretto con l’UE e forse anche con la NATO. C’era la vertiginosa geometria dei problemi derivanti dalla fine dell’Unione Sovietica e dalla sua sostituzione con una serie di Stati improvvisamente indipendenti, dall’implosione della Russia stessa e dalle complicate relazioni storiche e di sicurezza delle nazioni dell’ex Patto di Varsavia con il loro defunto patrono e tra loro. Forse c’era un percorso attraverso tutto questo, ma devo ammettere che non riuscivo a vederlo all’epoca e non sono sicuro di riuscire a vederlo ora. Non sono mai riuscito a capire su quali basi pratiche si potesse costruire un ordine del genere e non mi sono mai imbattuto in una proposta che sembrasse funzionare. C’erano meno esiti negativi rispetto al disastro attuale, ma nessuno oggettivamente eccellente, e le ragioni di ciò, ancora una volta, hanno poco a che fare con i freddi calcoli strategici e molto a che fare con le emozioni.

Poiché questo saggio riguarda in gran parte l’Occidente, è ragionevole iniziare dicendo che il vero danno è stato fatto alla fine degli anni Novanta, durante la fase di arrogante rifiuto della Russia di avere una qualche importanza. Per molti versi si è trattato di una reazione prevedibile all’eccessiva concentrazione sull’Unione Sovietica e alla genuina paura della potenza militare sovietica che hanno caratterizzato la Guerra Fredda. In un certo senso, la caduta dell’Unione Sovietica ha provocato il superamento di un terribile stato di incertezza e di ansia e ha prodotto nelle capitali occidentali una sorta di atmosfera maniacale di vacanza, mista alla convinzione di aver vinto qualcosa, anche se non si sapeva bene cosa. Tutte quelle sciocchezze su un mondo unipolare hanno in realtà convinto alcuni decisori e opinionisti che l’Occidente potesse davvero fare tutto ciò che voleva e che la realtà si sarebbe piegata ai suoi desideri. Le delusioni in serie in tutto il mondo che ne sono seguite, per quanto siano state pubblicamente fatte sparire, si sono incancrenite sotto la superficie e alla fine hanno contribuito all’isteria sull’Ucraina.(Non perderemo questa occasione!).

Ma questa era solo una parte del quadro. Ho già accennato al nervosismo di molti Paesi europei di fronte alla possibilità di una Germania unificata non più legata alla NATO, ma in realtà l’intero continente europeo era dilaniato da rivalità, gelosie, risentimenti, litigi dimenticati, odi omicidi, storie contestate e ricordi contrastanti di conflitti insanguinati. Lo storico Marc Ferro ha sottolineato molto tempo fa l’enorme effetto pratico che una sola emozione – il risentimento – ha avuto sulla storia. Il problema, ovviamente, è che mentre ci aggrappiamo ai nostri risentimenti nei confronti di altri Paesi, sminuiamo sistematicamente i loro sentimenti di risentimento (o qualsiasi altra emozione negativa) nei nostri confronti. Quanto più grande e potente è il Paese, tanto più questi schemi di pensiero sono radicati e difficili da modificare: la vecchia Unione Sovietica, ad esempio, era semplicemente incapace di capire che la sua enorme potenza militare spaventava davvero i suoi vicini, e questo era uno dei tanti, tantissimi fattori che avrebbero complicato qualsiasi tentativo di costruire un nuovo ordine di sicurezza europeo.

In effetti, tra tutte le emozioni che hanno causato problemi nella storia, la più grande è la paura. Come spiegazione dell’azione storica è presente da molto tempo: tutti ricordano l’affermazione di Tucidide secondo cui la Guerra del Peloponneso iniziò come risultato del crescente potere di Atene e della paura che questo produsse a Sparta. Quando oggi si riconosce che la paura è un fattore, però, di solito si glissa con parole come “esagerata”, “eccessiva”, “fuori luogo” o “irrazionale”, e spesso si suggerisce che le paure siano state “alimentate” o “fomentate”, o qualche altra metafora fisica da governi senza scrupoli per mobilitare l’opinione pubblica. Senza dubbio questo è vero in alcuni casi.

Eppure, anche una minima conoscenza delle crisi storiche reali dimostra che queste sono sorte, e le guerre sono scoppiate, più per la paura che per qualsiasi altra ragione. Gli storici (e soprattutto gli storici economici) si sono sforzati di inquadrare gli eventi del 1914 in una cornice di competizione economica, e senza dubbio questo è stato un fattore secondario. Ma in realtà tutte le grandi potenze erano spaventate da qualcosa. La Germania temeva una guerra su due fronti, la Francia temeva l’invasione di una Germania più potente, l’Austria-Ungheria e la Russia temevano le forze centrifughe nei loro imperi, la Russia temeva ancora una volta un’invasione dall’Occidente, persino i britannici, nel loro modo sobrio, temevano il controllo tedesco dei porti della Manica. Il problema della paura è che è intrinsecamente destabilizzante. Se temo che voi possiate attaccare, anche senza prove dirette, posso decidere che è troppo rischioso fidarsi di voi, quindi mi preparo al conflitto. Ma se mi preparo a un conflitto, perché temo che tu possa attaccare, perché non ti attacco prima? E perché non l’anno prossimo? Anzi, perché non la prossima settimana o addirittura domani? A questo punto, è inutile discutere se i russi avrebbero dovuto “davvero” avere paura delle politiche occidentali in Ucraina negli ultimi tempi. Lo erano, e questo è quanto.

E queste paure hanno una lunga storia. Tranquillamente dimenticata, se non dagli specialisti, è la paura nevrotica a tutti i livelli della società europea dopo il 1918 che negli anni Trenta o Quaranta si sarebbe ripetuta la Prima guerra mondiale e che questa volta l’Europa non sarebbe sopravvissuta. Questo timore era del tutto ragionevole, poiché le tensioni di fondo di quella guerra (in particolare tra Francia e Germania) non erano scomparse e una Germania sempre più forte avrebbe un giorno, sotto una qualche leadership, chiesto minacciosamente una revisione del Trattato di Versailles. Allo stesso modo, la moltiplicazione di nuovi Stati dopo il 1919 aveva causato nuovi problemi senza risolvere quelli vecchi. A ciò si aggiunse la nuova paura popolare dei bombardamenti aerei e dell’uso del gas velenoso come arma. Si prevedeva che la prossima guerra sarebbe iniziata con un attacco aereo totale, con la riduzione in macerie della maggior parte delle città europee e milioni di morti nella prima settimana. (Mia madre, allora adolescente, portò una maschera antigas al lavoro ogni giorno per mesi nel 1939). Chi mai avrebbe voluto una guerra del genere? Quale giustificazione potrebbe esserci per infliggere una tale sofferenza? Il desiderio nevrotico di evitare la guerra a qualsiasi costo (e quanto ci sentiamo compiaciuti di essere superiori a quella generazione!) portò alla politica di non intervento in Spagna e al tentativo fallito di usare il riarmo per costringere la Germania ad accettare una soluzione pacifica al problema dei Sudeti.

Condannata, perché anche i tedeschi avevano paura. La costruzione postbellica della Germania come Stato potente, aggressivo e sicuro di sé non era come Berlino vedeva le cose all’epoca. Alla tradizionale paura dell’accerchiamento da parte di Francia e Russia e dello strangolamento economico da parte della Gran Bretagna, si aggiungeva ora la visione del mondo paranoica, quasi isterica, dei nazisti, che prendevano sul serio le idee pseudoscientifiche dell’epoca sulla lotta per l’esistenza e sul probabile sterminio delle razze più deboli. Gli storici hanno cercato di costruire una visione del mondo nazista sostitutiva, diversa e meno spaventosa di quella che avevano in realtà, ma, per quanto sia difficile da credere, non c’è dubbio che essi vedessero davvero la razza ariana come minacciata di sterminio totale dai suoi nemici razziali, a meno che non riuscissero a sterminare loro per primi. E sebbene la Germania non sarebbe stata militarmente pronta per la guerra, secondo i generali, fino al 1942/43, la paura li portò ad attaccare comunque. Più aspettavano, peggio sarebbe stato.

Possiamo davvero immaginare, oggi, come dovevano sentirsi i decisori della fine degli anni ’40 dopo tutto questo? Dopo due guerre apocalitticamente distruttive in cui molti di loro avevano combattuto, dopo le prigioni e i campi di concentramento da cui alcuni di loro erano tornati, dopo gli spostamenti forzati di massa delle popolazioni, la ridefinizione forzata dei confini e la comparsa di milioni di truppe straniere sul suolo europeo, dopo rivoluzioni, controrivoluzioni, massacri senza numero, guerre quasi civili in Europa occidentale e una vera e propria guerra civile in Grecia, l’Europa era esausta e distrutta psicologicamente quanto devastata fisicamente. E adesso?

In primo luogo, e ovviamente, la paura che la situazione peggiorasse e che l’Europa si sfaldasse, magari in una massa di staterelli etnici in lotta tra loro. I leader politici di allora, che avevano vissuto eventi che i lettori sensibili non permetteranno più di leggere nei libri di storia, erano tutt’altro che perfetti, ma almeno erano adulti, rispetto ai bambini che comandano oggi. Sono riusciti, con un piccolo aiuto da parte degli Stati Uniti, a ricostruire l’Europa dal punto di vista economico, un po’ alla volta, e le forti società civili nella maggior parte degli Stati europei hanno facilitato il ritorno a qualcosa di simile alla politica normale. Ma c’era un problema enorme: l’Unione Sovietica.

Come spesso accade con la paura, la paura era più della propria debolezza che della forza degli altri. Alla fine degli anni Quaranta, l’Europa era di fatto disarmata. Le uniche due potenze militari di rilievo, Francia e Gran Bretagna, erano impegnate all’estero. Gli eserciti europei esistenti alla fine della guerra erano stati praticamente smobilitati e le massicce forze statunitensi erano in gran parte tornate a casa. Questo avrebbe avuto meno importanza se non fosse stato per gli effetti ineluttabili della geografia, che poneva milioni di truppe sovietiche a poche centinaia di chilometri dalle capitali occidentali. È vero che si trattava di truppe di occupazione e che la loro presenza era vista da Mosca come strategicamente difensiva. È vero che i comandanti occidentali non si aspettavano un attacco da quella direzione, anche se, come si disse all’epoca, l’Armata Rossa avrebbe potuto in pratica “camminare fino a Calais” e nessuno avrebbe potuto fermarla.

Ma l’ampia letteratura polemica su chi sia stata la colpa dell’inizio della guerra fredda non coglie il punto. L’Europa era spaventata dalla propria debolezza e sul punto di crollare. Anche una grave crisi politica con l’Unione Sovietica, le cui paure l’avevano spinta a occupare tutto il territorio possibile a ovest dei suoi confini, avrebbe potuto metterla fine. L’Europa era comunque divisa tra vincitori e vinti, occupanti e occupati, chi aveva combattuto e chi era rimasto neutrale, e la maggior parte dei Paesi europei era altrettanto divisa al suo interno. Il timore che i grandi partiti comunisti francese e italiano, forti del prestigio acquisito negli anni della Resistenza, potessero scatenare guerre civili di stampo spagnolo nei loro Paesi era forse “esagerato” (qualunque cosa significhi), ma non irrazionale. Parti del Partito Comunista Francese erano state dissuase solo con difficoltà proprio da questo obiettivo dall’emissario di De Gaulle, il martire della Resistenza Jean Moulin. Alla fine, l’abituale cautela di Stalin e la sua determinazione a non creare Stati “socialisti” al di fuori del suo diretto controllo ebbero la meglio. Ma questo è solo il senno di poi.

Ma queste paure non portarono al “gallinismo senza testa”. I decisori dell’epoca erano sufficientemente razionali da capire che erano molto più a rischio con l’intimidazione che con l’uso della forza bruta. Speravano quindi di stabilizzare la situazione utilizzando gli Stati Uniti come contrappeso e coinvolgendoli nelle questioni di sicurezza europee quel tanto che bastava per far riflettere i russi. Il Trattato di Washington che ne risultò, inferiore alle aspettative degli europei e privo di una componente militare, sembrò comunque fornire un certo grado di conforto. D’ora in poi, si pensava, Stalin avrebbe dovuto fare i conti con la reazione degli Stati Uniti in ogni crisi che si fosse presentata in Europa. Se non fosse scoppiata la guerra di Corea, se i leader europei (e statunitensi) non avessero temuto che fosse solo il preludio di un’aggressione all’Occidente, se la NATO non fosse stata militarizzata in previsione di un attacco imminente, se l’Unione Sovietica non avesse considerato quell’atto come potenzialmente aggressivo… beh, il mondo di oggi sarebbe molto diverso.

Ma la paura reciproca, molto più che le semplici differenze ideologiche, era alla base delle surreali incomprensioni che hanno strutturato la Guerra Fredda, come ho sottolineato altrove. Non lo ripeterò in questa sede, se non per sottolineare quanto sia stato centrale il ruolo della paura in quel periodo, al punto da sopraffare qualsiasi giudizio razionale. Per me rimane un mistero come le unità del Gruppo di forze sovietiche in Germania abbiano potuto muoversi con poche ore di preavviso per far fronte a un attacco della NATO, quando i competenti servizi segreti militari sovietici sapevano benissimo che la NATO non aveva piani di questo tipo, né tantomeno le capacità necessarie. In parte, naturalmente, si trattava della dottrina militare marxista-leninista, secondo la quale l’Occidente capitalista avrebbe sferrato un attacco finale apocalittico nel disperato tentativo di impedire il trionfo del comunismo. Ma soprattutto, credo, era la paura: supponiamo di sbagliarci? Supponiamo che abbiano piani e armi segrete di cui non siamo a conoscenza? Dopo tutto, ci siamo sbagliati nel 1941. Non possiamo essere troppo prudenti.

La paura era il filo conduttore della politica della Guerra Fredda, ma non necessariamente in modo evidente. Una delle caratteristiche più distintive della NATO, curiosamente, era la scarsa fiducia che ogni nazione europea riponeva negli Stati Uniti. Ma questo non coincideva con il timore della lobby pacifista che gli Stati Uniti potessero scatenare per negligenza la Terza Guerra Mondiale: era quasi il contrario. Il timore più comune, infatti, era che gli Stati Uniti, in uno dei loro periodici litigi con l’Unione Sovietica, portassero l’Occidente in una situazione di crisi, dopodiché avrebbero concluso un accordo bilaterale con l’Unione Sovietica e se ne sarebbero andati, lasciando l’Europa in balia di se stessa. La proprietà statunitense del sistema di comando militare significava che, per una questione tecnica, sarebbe stato di fatto impossibile per gli Stati europei continuare a combattere se gli USA avessero deciso di portare a casa la palla. Il timore che ciò potesse accadere fu alla base dello stazionamento delle forze statunitensi il più avanti possibile, in modo che fossero tra i primi a morire.

Fu proprio Suez a far capire agli europei, e in particolare agli inglesi e ai francesi, che non avrebbero potuto contare sul sostegno degli Stati Uniti in una futura crisi. Per i francesi, ciò fu aggravato dalla mancanza di sostegno da parte degli Stati Uniti (e della NATO) alla loro campagna in Algeria dove, secondo la quasi totalità della classe politica francese, stavano difendendo il territorio francese dagli insorti di matrice sovietica. Suez accelerò i preparativi dei francesi per una capacità di difesa puramente nazionale, basata sulle armi nucleari allora in fase di sviluppo e sul recupero del comando nazionale delle forze. Da quel momento in poi, coltivarono un rapporto pragmatico ma comunque indipendente con gli Stati Uniti, basato sull’interesse nazionale, ma anche sul tentativo di evitare, per quanto possibile, di dipendere dagli Stati Uniti per qualsiasi aspetto critico. Anche i britannici temevano di essere abbandonati dagli Stati Uniti, ma la loro risposta è stata opposta: inserirsi così profondamente nel sistema statunitense che gli americani non avrebbero fatto nulla senza consultarli. Anche in questo caso, chiedersi se queste paure fossero “eccessive” è una domanda inutile e senza risposta: si trattava di paure realmente sentite che derivavano in ultima analisi dalla determinazione a non essere mai più abbandonati, come ciascuno riteneva di essere stato, nell’estate del 1940.

Sarà ormai ovvio che molte di queste paure storiche, a lungo slegate dal loro contesto originario, sono in gioco nelle reazioni occidentali alla crisi ucraina, e ne parlerò più approfonditamente tra poco. Ma la paura non è l’unica emozione coinvolta, e una delle chiavi per comprendere le reazioni europee alla crisi (meno quelle statunitensi, forse) è che le leadership europee sono in realtà vittime di interi flussi di emozioni inconsce, spesso in contraddizione tra loro. E sappiamo dagli studi psicologici che l’inconscio non ha il senso del tempo: le emozioni che avevamo da bambini sono potenti oggi come allora. Non è nemmeno necessario che siano basate su eventi reali che ci sono accaduti; possono provenire da libri o film che abbiamo visto, o semplicemente dalla nostra immaginazione..,

Come ho già sottolineato, la risposta alla fine della Guerra Fredda e al venir meno della minaccia di annientamento nucleare è stata, dapprima, un’incredulità frastornante e uno stato di shock, poi una sorta di trionfalismo maniacale che è durato fino al secolo attuale. In una delle più curiose contorsioni intellettuali dei tempi moderni, le politiche economiche inflitte alla nuova Russia negli anni ’90, che hanno quasi distrutto il Paese, sono state elogiate in pubblico come le stesse politiche economiche che avevano “vinto” la Guerra Fredda per l’Occidente. Ma tra le tante emozioni scatenate dalla fine della Guerra Fredda c’erano anche la rabbia e la vendetta, il desiderio di vendetta e di distruzione. Il testosterone accumulato per decenni nelle capitali occidentali non poteva essere scaricato in modo soddisfacente nelle guerre su piccola scala della generazione successiva, e rimaneva molta aggressività repressa: psicologicamente, credo, c’era persino chi in Occidente vedeva di buon occhio almeno un conflitto politico con la Russia, in modo che questa aggressività accumulata potesse andare da qualche parte.

Sebbene la tempistica sia stata in gran parte casuale, la fine della Guerra Fredda ha visto anche la creazione delle Unioni politiche e monetarie europee e la preparazione dell’Euro come moneta unica. Queste iniziative volte a centralizzare il più possibile il potere in organizzazioni sovranazionali erano guidate da un’ideologia che era essa stessa, almeno in parte, una reazione emotiva contro il sanguinoso passato dell’Europa. Sebbene la Gran Bretagna sia stata membro dell’UE per più di vent’anni, i politici e gli opinionisti anglosassoni non hanno mai capito veramente cosa fosse l’ideologia di Bruxelles e Maastricht, e nemmeno che fosse un’ideologia. Ne ho parlato in un saggio subito dopo l’inizio del conflitto e non lo ripeterò qui. È sufficiente dire che si tratta di un’ideologia che vede i fondamenti della società europea – la nazione, la cultura, la lingua, la storia, la religione – come cause di conflitto e come elementi da controllare e addomesticare, in modo che non possano nuocere. La “libera circolazione delle persone” e il diritto dei non cittadini di votare in alcune elezioni rompono il legame storico tra il cittadino e il suo governo, e la creazione di una classe politica europea indistinguibile significa che le elezioni nazionali fanno comunque poca differenza. L’ideologia è una forma di liberalismo d’élite, i cui guardiani, simili a Platone, garantiranno che noi gente comune, da cui non ci si può aspettare che capisca cose complesse, abbiamo qualcuno che prenda decisioni per noi.

Come ho spesso sottolineato, il liberalismo è una filosofia universalizzante, e la sua furia trionfale attraverso i Paesi dell’Europa orientale ha prodotto un sentimento di invincibilità e inviolabilità a Bruxelles, mentre un Paese dopo l’altro si avviava lungo quella che sembrava essere una strada storicamente predestinata. Tranne la Russia: ma fino a una decina di anni fa la Russia poteva essere trattata con disprezzo. Era una nazione economicamente e socialmente arretrata, debole e in declino, proprio come la Cina del XIX secolo.

Quindi, una componente emotiva importante dell’atteggiamento emotivo europeo nei confronti della Russia è la rabbia e la delusione nei confronti di un Paese che sembra ostacolare il progresso e la storia, un Paese che ancora, incredibilmente, dà valore a cose come la storia, l’identità, la cultura, la lingua, la religione e tutte queste altre reliquie del passato che, quando sono state sfruttate da politici estremisti, hanno causato tutte queste guerre e queste sofferenze (ehm, torneremo su questo dettaglio).) In Russia, i leader europei non vedono solo i fantomatici fantasmi del loro oscuro passato, ma vedono un’anti-Europa, una sorta di ombra junghiana di tutto ciò che più temono e rifiutano.

Non sorprende quindi che gli atteggiamenti europei nei confronti della Russia siano stati complessi e contraddittori, costruiti come sono su serie contrastanti di emozioni ricordate a metà da diversi momenti storici e sovrapposte in modo scomodo l’una all’altra. Questo forse spiega l’ovvio enigma: come può la Russia essere allo stesso tempo ridicolmente debole e terribilmente potente, nello stesso articolo o addirittura nello stesso paragrafo?

La risposta, a mio avviso, è che la visione della Russia da parte delle élite europee è un pasticcio emotivo, che sovrappone, come ho suggerito, diversi sentimenti sulla Russia provenienti da diversi periodi storici, ma che non riesce a conciliarli. Così, la Russia è il terrificante gigante militare della Guerra Fredda, ma anche i contadini non addestrati falciati dai tedeschi nel 1914, la massa storicamente inarrestabile di selvaggi a Est ma anche il Paese che è stato cacciato dall’Afghanistan, una dittatura temibile e spietata capace di rovesciare i governi ma anche uno Stato da fumetto con un PIL pari a quello del Belgio e dipendente dalle esportazioni di petrolio. L’arrogante senso di rifiuto che ha caratterizzato il pensiero occidentale sulla Russia fino al 2014 circa ha fatto sì che non ci si preoccupasse di scoprire i fatti reali. Alla fine, la realtà non aveva molta importanza. Avremmo trattato con i russi come volevamo e se a loro non fosse piaciuto, beh, non avrebbero potuto fare molto.

Tutte queste emozioni, non c’è bisogno di dirlo, mancano completamente di sfumature. Gli individui e le nazioni passano dall’uno all’altro senza alcuno stadio intermedio. Al debole di ieri si sovrappone la spaventosa superpotenza di oggi, ma in qualche modo la nostra paura è ancora mista a rabbia e disprezzo. Questo è effettivamente ciò che è accaduto dopo il 2014. La Russia non era più quella degli anni ’90, o comunque quella di Tolstoj e Dostoevskij; o meglio, lo era per certi versi, ma ora sovrapposta ai ricordi della paura dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Dopo la Crimea e i combattimenti nell’Ucraina orientale, per la prima volta il disprezzo per la Russia si è mescolato a una vera e propria paura. Se questa paura occidentale di una nuova Russia irredentista fosse “ragionevole” o meno è un’altra domanda inutile, alla quale la più grande IA del mondo con il più grande foglio elettronico del mondo non potrebbe rispondere, perché non ha una risposta. Che le azioni russe del 2014 abbiano fatto leva sulle emozioni storiche dell’Occidente, in particolare sulla paura, e sugli stereotipi storici, è tutto ciò che si può dire.

In alcuni casi, queste paure erano piuttosto specifiche: Merkel, ad esempio, era erede della tradizionale paura tedesca dei selvaggi dell’Est, dei racconti delle atrocità dell’esercito degli zar nel 1914 e dei ricordi dell’occupazione sovietica di parte della Germania. Hollande era un lontano erede dell’aspro anticomunismo che caratterizzò il Partito Socialista Francese dopo la Conferenza di Tours del 1920. Perciò i due, per ragioni diverse e non necessariamente allo stesso modo di altri leader europei, avevano paura di ciò che gli eventi del 2014 avrebbero potuto comportare. Ma erano anche, ovviamente, preoccupati della propria debolezza. L’operazione NATO in Afghanistan era appena terminata e le forze armate convenzionali della NATO cominciavano ad apparire disperatamente deboli e obsolete. a Non era nemmeno più evidente cosa servissero le forze europee, in particolare . L’idea di costruire un’Ucraina che avesse effettivamente mantenuto una capacità di guerra convenzionale ad alta intensità come cuscinetto protettivo deve essere sembrata un modo per placare questa paura.

Lo stesso valeva dall’altra parte, ovviamente. Ancora una volta, la questione se il timore russo che l’Ucraina fosse usata come base avanzata per un attacco alla Russia fosse “ragionevole” o meno è irrilevante. Non si trattava di una questione di scacchi a nove dimensioni, ma del rinnovamento delle paure di invasione da parte dell’Occidente che ormai devono essere profondamente radicate nel DNA russo. Ok, l’Occidente non stava basando le armi nucleari in Ucraina adesso. Ma potrebbe farlo tra cinque anni, o tra tre anni. O il mese prossimo. In ogni caso, non possiamo essere troppo prudenti. Se vogliamo eliminare l’Ucraina, facciamolo ora. Perché aspettare?

La caratteristica più pericolosa dell’intera crisi ucraina è stata la totale incapacità delle due parti (tralasciando per un momento gli Stati Uniti) di comprendersi a vicenda e il complesso di emozioni che guida ciascuna di esse. Ma poiché i leader e gli opinionisti non amano pensare di essere guidati da emozioni ataviche, specialmente quelle che comprendono solo a metà, hanno elaborato teorie complesse ed elaborate che permettono loro di vedere le azioni dell’altra parte come guidate da obiettivi e pianificazione razionali, almeno in parte.

Dietro a tutto questo si nasconde un’enorme e spaventosa ironia. Il misto di disprezzo e paura che ha spinto gli europei, ancor più degli Stati Uniti, a confrontarsi frontalmente con la Russia, si basava in ultima analisi sulla convinzione che la Russia si sarebbe sgretolata rapidamente e che l’avventurismo russo, per quanto pericoloso e spaventoso, facesse in realtà il gioco dell’Europa. In poche settimane l’economia avrebbe iniziato a disintegrarsi, il governo sarebbe caduto e il sogno universalizzante del liberalismo europeo sarebbe stato esteso a Mosca. Quando i limiti e le contraddizioni di questa posizione sono diventati evidenti, quando l’anno scorso l’equipaggiamento, l’addestramento e la pianificazione occidentali si sono dimostrati sostanzialmente inutili, lo stato d’animo è cambiato: dall’incredulità, alla preoccupazione, al panico e ora alla paura.

Hanno tutte le ragioni per avere paura, perché, grazie a un’incompetenza quasi incredibile, gli europei si sono costruiti proprio la situazione che temevano dal 1945, solo peggiore. Se consideriamo il 1948 come l’anno di massima paura, in quell’anno l’Europa, pur con tutte le sue debolezze, aveva ancora milioni di uomini e donne con una recente esperienza militare e immense scorte di armi. Le sue società civili e le sue strutture sociali erano sopravvissute alla guerra in gran parte intatte, la coesione sociale era ancora forte e i governi locali e nazionali venivano ricostruiti. Gran parte dell’industria manifatturiera era sopravvissuta alla guerra e molti Paesi avevano mantenuto la capacità di produrre i propri armamenti. Le materie prime provenivano dall’Europa o da Paesi con cui le potenze europee avevano stretti rapporti. L’Europa disponeva di un gran numero di ingegneri e scienziati preparati. La Royal Navy e la US Navy controllavano i mari e il commercio mondiale. Gli Stati Uniti, pur attraversando una fase di isolamento, avevano il monopolio delle armi nucleari e non avrebbero lasciato facilmente che l’Europa cadesse sotto l’influenza sovietica. D’altra parte, l’Unione Sovietica era esausta e si preoccupava soprattutto di consolidare il suo dominio sui Paesi che aveva già occupato.

Oggi non c’è più nulla di tutto questo. La Russia sta uscendo da questa guerra quasi come gli Stati Uniti nel 1945: economicamente e militarmente più forte che all’inizio. L’Europa è economicamente e militarmente debole e politicamente divisa sia all’interno che tra le nazioni. Ho trattato giàin precedenza le fantasie di “riarmo” e non ripeterò l’analisi in questa sede. L’idea della coscrizione è risibile sia da un punto di vista sociale che pratico. Dopo tutto, ci sono società la cui popolazione non potrebbe nemmeno essere convinta a indossare una maschera in spazi ristretti per evitare di respirare germi pericolosi sui propri concittadini. Qualcuno ha detto “servizio nazionale”?

Facciamo scorrere l’orologio in avanti, diciamo fino al 2028. Cosa troviamo? Nell’angolo rosso (se volete), una Russia forte, sicura di sé, arrabbiata e risentita, con forze armate grandi e potenti, armi convenzionali in grado di colpire la maggior parte dell’Europa, ampiamente autosufficiente dal punto di vista economico e con uno stretto rapporto con la Cina. Nell’angolo blu, Stati europei disuniti ed economicamente e politicamente deboli, con una dispersione di unità militari poco forti qua e là, e dipendenti per le materie prime da nazioni con cui le relazioni sono difficili, e per la maggior parte dei prodotti manifatturieri dalla Cina.

Non è difficile capire chi avrà la meglio. Non penso nemmeno per un momento che i russi invaderanno l’Europa occidentale: non ne hanno bisogno. Lo scenario da incubo della pressione politica, sostenuta dalla superiorità militare e resa più grave dalle divisioni interne – l’esatto scenario temuto nel 1948 – si realizzerà. Con una differenza. Dove sono gli Stati Uniti? Da nessuna parte. Invece di essere il contrappeso al potere sovietico e poi russo, come si è sempre sperato, si sono messi fuori gioco, si sono rivelati fondamentalmente deboli militarmente e non saranno più in grado di influenzare le questioni di sicurezza in Europa come hanno fatto in passato. Per quanto ne so, taglierà le sue (considerevoli) perdite e scapperà, proprio come le nazioni europee hanno sempre temuto. Questo lascerà l’Europa in una situazione che potrebbe essere descritta come piuttosto tesa.

In effetti, se fossi un politico europeo, sarei spaventato a morte.

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Piero Visani, Storia della guerra nel XX secolo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Piero Visani, Storia della guerra nel XX secolo, OAKS editrice, 2020, pp. 313, € 20,00.

Questo saggio è stato pubblicato tre anni orsono. Malgrado ciò, e anzi anche per quanto accaduto in tale periodo di tempo, è interessante recensirlo.

Visani scrive una storia della guerra del XX secolo, che, pur nella concisa e gradevole scrittura, descrive sommariamente gli eventi bellici. La corposa bibliografia del saggio (quasi 100 pagine) e l’apparato esauriente delle note sono la misura dell’abbondanza delle fonti con implicito invito all’approfondimento dei fatti (e delle relative valutazioni). Quello che è il merito maggiore dell’opera è di aver distinto, anche nella storia contemporanea le regolarità della guerra (e della politica), dalle novità dei conflitti moderni.

All’interno dei quali regolarità e novità ricorrono entrambe. Ad esempio che la guerra è essenzialmente uno scontro di volontà. Sia nella genesi: alla volontà di aggredire si contrappone quella di difendersi (senza la quale, cioè con la resa, la guerra non inizia). Sia nel condurla (la volontà di sopportare i sacrifici che comporta) sia nello scopo di imporre la propria volontà al nemico (Clausewitz e Giovanni Gentile); sia nella conclusione (la volontà di concludere e di dare un nuovo ordine).

Tutti gli altri fattori e rapporti sono importanti; ma subordinati a quello.

Così’ il fattore potenza: tante guerre, in particolare nel XX secolo quelle partigiane, presentavano uno squilibrio enorme tra potenza dell’occupante, e potenza dei movimenti di liberazione, ma si sono concluse, il più delle volte, con la sconfitta di Golia e il successo di Davide. Né la disparità ha dissuaso il debole dall’iniziarla, né il forte dall’accettare la sconfitta.

O le regolarità dell’obiettivo politico, il cui conseguimento e la possibilità dello stesso è condizione del successo.

Il XX secolo ha rappresentato la novità della potenza distruttiva della tecnica, culminata nel bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Ma il carattere distruttivo (anche del pianeta) ha fatto sì che le guerre successive non abbiano mai ripetuto questa “ascesa agli estremi”. Per cui la guerra si è sviluppata nei           rami bassi: ha guadagnato in estensione quello che perdeva d’intensità.

Il che è particolarmente chiaro nel capitolo dedicato alla guerra ibrida.

Scrive Visani che “La guerra ibrida è forse la più importante forma bellica emersa in questi ultimi anni e può essere definita come una forma di strategia che mescola diverse forme di guerra, da quella politica a quella mediatica, da quella regolare a quella irregolare, dalla guerra informatica a quella economica, fino ad altri mezzi di influenzamento dell’avversario… La sua maggiore peculiarità è che essa ha luogo a tre livelli diversi: quello convenzionale, quello della popolazione locale e quello dell’opinione pubblica mondiale… Naturalmente non si tratta di una forma bellica del tutto nuova, ma nuova è l’estrema dilatazione dei livelli e degli scenari in cui essa può oggi avere luogo”. Il pregio della guerra ibrida, oltre che essere “sottosoglia” atomica, è di permettere di “sfruttare deliberatamente la creatività, l’ambiguità, la non linearità e le componenti cognitive della guerra”. La guerra russo-ucraina, in particolare nella narrazione prevalente sui media occidentali, ha evidenziato questi caratteri. Per cui il saggio di Visami è profetico.

L’opera si apre con la frase di Eraclito che “La guerra è il padre di tutte le cose”. Nella conclusione l’autore chiede “se la guerra non sia diventata – per quanto in forme sempre più ibride e non lineari – l’essenza stessa delle nostre vite, sempre più atomizzate, parcellizzate, conflittuali, in cui al nemico – non importa se interno (inimicus) o esterno (hostis), secondo la nota distinzione schmittiana – non solo non sia più riconosciuta alcuna legittimità, ma neppure ci sia lontanamente l’intenzione di riconoscerla”. Cioè il contrario di quanto pensano le “anime belle”; col risultato, scrive Visani, se “avrà avuto ragione Eraclito, nel senso che la guerra non sarà più solo il padre di tutte le cose, ma sarà TUTTE le cose. O forse lo era già…?”.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Il Piano Bezmenov: L’America si trova ora nell’ultima fase? _Di Scott S. Powell

Argomenti interessanti offuscati da ataviche ossessioni_Giuseppe Germinario

4 aprile 2024
Il Piano Bezmenov: L’America si trova ora nell’ultima fase?
Di Scott S. Powell

Il messaggio di benvenuto del presidente Joe Biden per la domenica di Pasqua, pubblicato su X, che recitava: “Oggi, nella Giornata della visibilità transgender, ho un semplice messaggio per tutti i trans americani: Vi vedo…” è stato scioccante. Molti non riuscivano a capire come il giudizio del Presidente potesse essere così distorto nel giorno più sacro per i cristiani.

Per quanto offensiva, questa frase fornisce una finestra attraverso la quale tutti possono vedere ciò che sta accadendo. Poiché il declino cognitivo di Biden è così evidente, ci sono pochi dubbi sul fatto che egli sia usato dai nemici interni ed esterni dell’America, intenzionati a far crollare la Repubblica costituzionale degli Stati Uniti senza sparare un colpo. E non è difficile riconoscere che il piano seguito è parallelo a quello rivelato quarant’anni fa dal disertore sovietico Yuri Bezmenov, che spiegava le quattro fasi della sovversione comunista: 1) demoralizzazione, 2) disorientamento, 3) crisi e 4) normalizzazione.

Gli Stati Uniti sono stati sottoposti a prolungati attacchi interni di demoralizzazione per diverse generazioni, attraverso il sistema educativo e la cultura che hanno trasmesso messaggi che denigrano gli Stati Uniti e deridono i valori tradizionali.

La seconda fase, nota come disorientamento, ha maggior successo dopo che un’ampia porzione della popolazione è stata demoralizzata. Covid-19 ha portato al disorientamento attraverso l’imposizione di maschere, l’allontanamento sociale, le quarantene, le chiusure e l’abbandono delle migliori pratiche mediche di trattamenti preventivi e terapeutici. Un’altra parte importante del disorientamento inflitto all’America in quel periodo è stato il razzismo generato dalla morte di George Floyd, che ha scatenato rivolte, saccheggi e distruzione di proprietà per diversi miliardi di dollari e l’abbattimento di statue e monumenti storici in molte città degli Stati Uniti.

Ad accrescere il disorientamento degli americani in quel periodo fu il fatto che per settimane nessuno sembrò in grado di fare qualcosa contro i disordini, l’illegalità e la distruzione in atto nelle grandi città americane. Ci furono pochi arresti, mentre circa 1.000 agenti di polizia furono feriti e 33 uccisi. Allo stesso tempo, le città con il maggior numero di illegalità, come Minneapolis, Seattle, New York, Los Angeles, Chicago, Philadelphia e Baltimora, hanno avviato iniziative per ridurre i fondi destinati alla polizia e alle forze dell’ordine.

Quando nulla ha senso, il messaggio subliminale è: “Questa non è l’America che conoscete, è un nuovo mondo in cui siete entrati”. Si tratta di uno stato di disorientamento di massa in un periodo di relativa pace che gli americani non hanno mai sperimentato.

La fase che segue il “disorientamento” è quella della “crisi”. La fase di crisi sarebbe arrivata nel novembre 2020 con i brogli elettorali. Il fattore paura del contagio di Covid è stato sfruttato dagli operatori democratici che hanno apportato modifiche alle regole elettorali degli swing state, ampliando notevolmente i voti per posta e le urne, che tutti sanno facilitare i brogli elettorali.

Contemporaneamente alle modifiche alle regole elettorali per facilitare il riempimento delle urne, è stata intrapresa una campagna di censura e cancellazione dei social media da parte dell’ONG Election Integrity Project (EIP), con sede all’Università di Stanford, in consultazione con la Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA), un’unità del Dipartimento di Sicurezza Nazionale.

L’EIP ha esercitato un’influenza smodata sulle elezioni del 2020 convincendo le principali società di social media come Facebook, Instagram, Twitter, You Tube, Reddit e Pinterest a modificare i termini di servizio dei loro clienti per incorporare un linguaggio sulla “delegittimazione”. Una volta ottenuto questo risultato, secondo Mike Benz, ex responsabile delle politiche di comunicazione del Dipartimento di Stato americano ed esperto di propaganda, la porta sarebbe stata aperta alla censura di massa e alla cancellazione istantanea tramite algoritmi. L’EIP ha quindi esercitato pressioni su tutte le società di social media affinché aderissero alle loro politiche di assistenza clienti e censurassero, cancellassero o deplorassero qualsiasi contenuto che contenesse termini “delegittimati” come: “nuovi protocolli e processi elettorali”, “questioni ed esiti”, “voti per posta”, “voto anticipato”, “urne” e “Antifa”. E quando la storia del laptop di Hunter Biden è scoppiata a metà ottobre 2020, è stata immediatamente delegittimata e tolta da ogni sito di social media.

Alla fine, per ammissione dello stesso EIP, Twitter è stato costretto a cancellare 22 milioni di tweet che contenevano “disinformazione” associata a termini delegittimati che violavano i termini di servizio dell’azienda prima delle elezioni del novembre 2020. Dopo le elezioni, quando molti americani si sono sentiti privati del diritto di voto e hanno avuto molte domande sulle irregolarità percepite, hanno scoperto che i social media hanno efficacemente ostacolato la discussione sui brogli elettorali, ancora una volta facilitata dalla censura e dalla cancellazione di qualsiasi contenuto contenente nuovi termini delegittimati come “Stop the Steal”, “dead voter rolls”, “Sharpiegate”, “manufactured ballots”, “stolen election” e “Postal Service”, per citarne alcuni.

Mentre l’America è ancora nella fase di crisi, alcuni esperti di sovversione sostengono che il regime di censura e di cancellazione che esiste ora fa anche parte dell’ultima e definitiva fase della presa di potere comunista, nota come “normalizzazione”. Se agli americani viene negato l’accesso alle informazioni, si abituano a elezioni truccate, accettano limitazioni alla libertà di parola e acconsentono alla riscrittura della storia facilitata dalla cancellazione e dalla decostruzione del passato, la repubblica costituzionale che era l’America sarà scomparsa e il nuovo mondo del controllo delle élite governative sarà normalizzato. Come avvertì John Adams, il secondo presidente, “La libertà una volta persa è persa per sempre”.

Con le narrazioni informative provenienti da agenzie governative che hanno portali diretti sui social media, combinate con le informazioni e le voci che vengono bloccate, cancellate o deplorate sui social media da ONG come la Election Integrity Partnership, il risultato è un controllo del pensiero orwelliano.

La censura non è solo una violazione del Primo Emendamento e un attacco alla Costituzione. È un tradimento del governo del popolo, dal popolo e per il popolo. Il nostro intero stile di vita è protetto dal Primo Emendamento, che è il muro di protezione contro l’abuso di potere e la tirannia.

Scott Powell è membro del Committee on the Present Danger China e senior fellow del Discovery Institute. Il suo libro senza tempo, Rediscovering America, è stato al primo posto tra le novità di Amazon per otto settimane consecutive. Raggiungetelo all’indirizzo scottp@discovery.org

Immagine: Jakayla Toney

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L’araba fenice dello Stato_Con Piergiorgio Rosso e Gianfranco La Grassa

La questione della fine e del ruolo dello Stato ha assillato per decenni il movimento comunista preso come era nella stretta tra le aspettative utopiche di una società senza gerarchie di potere, di fatto senza la politica ed una visione deterministica della sua funzione come mero strumento della borghesia, del capitale e della sua accumulazione. Un approccio che ha impedito di individuare la funzione imprescindibile del politico nella costruzione delle formazioni sociali in tutti i loro ambiti di attività e di determinare le logiche proprie degli apparati e dei centri decisionali interni allo stato in grado di condizionare pesantemente gli stessi processi di accumulazione capitalistica e il conflitto e la competizione dei soggetti interni ad essa. Con una unica eccezione parziale della scuola althusseriana e la definitiva meritoria rottura operata in Italia negli anni ’90 da Gianfranco La Grassa. La conversazione ha tratto spunto da un interessante saggio di Pierluigi Fagan di seguito indicato: http://italiaeilmondo.com/2024/03/28/comunisti-e-stato-di-pierluigi-fagan/ Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Cthulhu guarda a destra, di ISAAC SIMPSON

Cthulhu guarda a destra

Il regime indossa un abito di pelle

Non abbiamo mai avuto un autore ospite qui, ma si è presentata l’opportunità di far debuttare questo nuovo pezzo di uno scrittore che non solo sottoscrivo, ma che è tra i pochi che ammiro dal punto di vista della prosa e dello stile, più che dell’argomento. E si dà il caso che l’argomento sia di sua competenza, dato che 

 lasua agenzia di marketing dissidente, WILL.

Bernays, il “padre delle relazioni pubbliche”, è quindi per lui un piede di porco naturale con cui aprire il mondo invisibile dell’ingegneria culturale moderna attraverso la foglia di fico della “pubblicità”, e la messinscena segreta dietro le quinte che guida la nostra dialettica. Troverete che l’argomento da lui trattato coincide con molti dei miei pezzi più recenti, fungendo da affascinante corollario ai fili che ho cercato di tessere insieme.

Potete trovare il lavoro di Isaac qui su Substack at The Carousel:

Il carosello

Esplorare il mondo attraverso la propaganda moderna.
Di Isaac Simpson

suTwitter qui, dove si diletta nell’arte della Propaganda Disgraziata.

“Ma, date le nostre attuali condizioni politiche in cui ogni aspirante a una carica deve soddisfare il voto delle masse, l’unico mezzo con cui il leader nato può guidare è l’uso esperto della propaganda….La nostra deve essere una democrazia della leadership amministrata dalla minoranza intelligente che sa come irreggimentare e guidare le masse”. Edward Bernays, Propaganda (1928)

Super Bowl 58. Non riuscivo a capirlo. Ho puntato molto sulle immagini che mi balenavano incontrollate nella mente, e quando mi sono svegliato la mattina dopo ho continuato a vedere la stessa cosa: la cravatta bolo di Post Malone.

La popstar di Ozempick ha evitato i suoi precedenti da femminuccia per un’interpretazione pulita da cowboy di “America the Beautiful”. Perché ci stavo pensando? Dove l’avevo già visto? Ai Grammy, Beyonce era apparsa in tenuta da cowboy indossando una cravatta bolo con un simile fermaglio turchese per promuovere il suo “album country” con le canzoni “Texas Hold ‘Em” e “16 Carriages”. La star del country Luke Combs ha eseguito un mashup curativo con Tracy Chapman. Al Super Bowl, Reba McEntire ha cantato l’inno nazionale.

Per decenni la cultura mainstream ha ignorato la musica bianca, almeno quella dei cantanti che non si travestono a comando. Ma ora i bianchi codificati a destra sono al centro della scena. C’è il tour di scuse della Bud Light, 100 milioni di dollari in più all’impresario di destra Dana White e a Kid Rock per implorare il nostro perdono per la lattina trans. Poi il nuovo spot della Bud Light per il Super Bowl che combina Dana White con Peyton Manning. Il comico “razzista” “cancellato” Shane Gillis, che ha postato sul suo Instagram i tour delle fabbriche di Bud Light, si è seduto in una sezione speciale di Bud Light al Super Bowl. Un quadrato di Bud Light è apparso in cima al replay: “Questo angolo vi è stato offerto da Bud Light”.

Anche nella sezione Bud Light? Post Malone. Anche lui è protagonista dello spot con Dana White e Peyton Manning. E ha anche cantato “America the Beautiful” al Super Bowl, vestito da cowboy. Poi le pubblicità di Gesù “He Gets Us” che ritraggono archetipi cristiani conservatori che lavano i piedi ad archetipi liberali: un senzatetto, una ragazza che ha abortito, un immigrato clandestino. Poi l’eroe del flyover-state Travis Kelce che pubblicizzava gli shottini Pfizer in uno spot che andava in onda back-to-back con la Bud Light, subito dopo l’intervallo, il picco mediatico più costoso della trasmissione del Super Bowl.

Senza alcun preavviso, i media mainstream hanno iniziato a prevedere che il MAGA potrebbe presto interpretare questi spunti come una “cospirazione nazionale per Biden”. È ridicolo pensare che possano essere collegati!

A volte, più grande è la propaganda, più la rendiamo complessa e oscura, quando la realtà è molto semplice: il Partito di Davos, il regime, la cattedrale… come volete chiamarlo, sta ricomprando i bianchi – gli uomini bianchi in particolare – in modo che non votino per Trump, non smettano di comprare la Bud Light e non si dimentichino di iscriversi alla leva.

Affrontando le affermazioni secondo cui questa svolta a destra è stata costruita, il regime interferisce abilmente con la verità: si tratta effettivamente di una cospirazione. Ma non del tipo che intendono loro, e nemmeno del tipo che intende la “destra intellettuale”. Sebbene le agenzie di intelligence abbiano una storia di guerra musicale – la CIA ha condotto una “guerra fredda culturale” contro i sovietici, influenzando la scrittura di “Winds of Change” degli Scorpions – non sono così sicuro che le agenzie di intelligence siano direttamente responsabili di questa recente svolta bianca.

Stanno accadendo due cose. In primo luogo, una correzione culturale naturale, simile a quelle avvenute negli anni Cinquanta e Ottanta, si sta realmente insinuando dai margini estremi della cultura (ad esempio, Dimes Square nella letteratura, e/acc nella tecnologia) al mainstream. Beyonce non è statacostretta ascrivere un album country, ma pensa davvero che sia un’idea interessante. La CIA non sta puntando una pistola alla testa di Post Malone per dirgli di mettersi questa cravatta Bolo o altro. Nessuno obbliga Travis Kelce a fare l’ombrellina per la Pfizer o Shane Gillis per la Bud Light. E nessuno obbliga Taylor Swift a uscire con Travis Kelce.

Ma ricevono suggerimenti, suggerimenti forti, dalle persone che li circondano: i loro manager, i pubblicitari, gli agenti, i formatori, i procacciatori di affari, i tiratori di fili. E vengono pagati, in una forma o nell’altra, che se ne rendano conto o meno. Come si vedrà in seguito, non si tratta di un caso particolare o di una cospirazione, ma di come funzionano da sempre la pubblicità e la propaganda. Le celebrità esistono innanzitutto e soprattutto per incarnare lo status quo e la loro rete di manager rappresenta il potere. “Il regime”. “Loro”.

Tutti i soggetti coinvolti ricevono più soldi e più potere per aver partecipato al progetto di propaganda. Sembra che ci sia una cospirazione per far credere ai bianchi di destra che il regime non li odia perché c’è una cospirazioneMa cospirazione è la parola sbagliata. La parola giusta è pubblicità. La forma di propaganda meno compresa e più insidiosa inventata da un uomo chiamato Edward Bernays.

Propaganda Il libro

Quando l’intervallo tra le classi intellettuali e le classi pratiche è troppo grande, le prime non avranno alcuna influenza, le seconde non raccoglieranno alcun beneficio”, hadetto Henry Thomas Buckle. Edward Bernays utilizza questa citazione come pietra miliare della sua argomentazione in Propaganda (1928).

Bernays è il padre della propaganda e delle relazioni pubbliche moderne. Si parla molto di Saul Alinksy e delle sue Regole per i radicali, ma Alinsky è una semplice stalagmite nella caverna di Bernays. La pratica odierna di modellare la percezione pubblica deriva dal lavoro di Bernays, la maggior parte del quale non è stato scritto. Prima di tutto era un professionista; gestiva le attività di propaganda per l’esercito americano, i servizi segreti statunitensi, le campagne presidenziali e le più grandi aziende del mondo.

Tuttavia, scrisse una litania irregolare di libri brevi, come Crystallizing Public Opinion (1923), Propaganda (1928)e Public Relations (1945)che trovo trasparenti e genuini, anche se mal composti. Propaganda è breve, semplice e scritto in modo crudo. Ripropone più volte la stessa argomentazione, come se cercasse, senza fiatare, di aiutarci a capire qualcosa che sa essere al di sopra delle nostre possibilità. Ho cercato di ridurre questo punto a una frase:

La propaganda non è un manifesto, è un’economia.

Che cosa significa? Bernays non lo dice in questo modo, ma ecco come lo sintetizzerei:

Sia nel capitalismo che nella democrazia, l’unico modo per ottenere risultati è l’attuazione di campagne di propaganda da parte di individui non pubblici. Per avere successo, queste campagne devono:

  1. Unire i sottogruppi demografici attorno a un’unica iniziativa, utilizzando entità di cui tali sottogruppi si fidano.

  2. Beneficiare degli interessi comuni delle entità in questione.

  3. Utilizzare o creare un “momento di cultura”.

Una breve spiegazione di queste frasi. In primo luogo, tutti i progetti sociali sono iniziative di propaganda. Semplicemente non c’è altro modo per ottenere realisticamente le cose in strutture dal basso verso l’alto come la democrazia e il capitalismo consumistico.è necessario Per muovere le massee l’unico modo per muovere le masse è la propaganda. In secondo luogo, ogni iniziativa di propaganda deve cercare di unire diversi sottogruppi attorno a un’unica causa; e il modo migliore per farlo è fare appello ai “leader” (più spesso celebrità, marchi, università, società di media, scienziati, ecc. In terzo luogo, per partecipare pienamente, questi “leader” devono essere coinvolti nel gioco: non ci si può limitare a fare appello a queste entitàrazionalmente o emotivamente (ad esempio, “un manifesto”), ma devono avere un interesse economico condiviso nell’iniziativa di propaganda (“un’economia”). Una di queste parti interessate deve essere il media stesso. Infine, quarto: l’unico modo per trasmettere con successo il messaggio dell’iniziativa di propaganda è quello di dirottare un “momento culturale” esistente (ad esempio il Super Bowl) o di crearne uno proprio. In questo modo ci si assicura ulteriormente la complicità dei media.

Non c’è quindi da stupirsi se, dopo 100 anni di propaganda in stile Bernays, viviamo nell’Era della Cospirazione, dove tutti si sentono paranoici e quasi tutto viene etichettato come “teoria del complotto” prima o poi. Ciò che Bernays invoca è effettivamente una cospirazione tattica, ma è un errore interpretare Bernays come un manipolatore clandestino o una specie di Mago di Oz, così come è un errore definire “una cospirazione” l’ascesa alla fama di Travis Kelce. Anche in questo caso, come si vedrà, si tratta di semplice pubblicità.

Come riconosce Bernays, la cospirazione di interessi reciproci, la creazione di coalizioni e l’esecuzione creativa da parte di forze invisibili è il modo in cui i veri leader guidano, dati i criteri populisti della democrazia e del capitalismo. È semplicemente la natura del sistema, ed è per questo che i suoi praticanti spesso non si rendono conto di essere parte di una cospirazione e trovano ridicole tali affermazioni. Le masse devono essere guidate da un piccolo numero di leader, proprio come ogni altra organizzazione umana nella storia del mondo. La propaganda e le pubbliche relazioni (alias pubblicità) sono il modo in cui si ottiene questo risultato. È solo il comunista che crede, senza prove, che possa essere altrimenti.

Esaminiamo ogni passo uno per uno, con una citazione di Propaganda a sostegno .

Governatori invisibili

In primo luogo, la propaganda è essenziale e deve essere eseguita da “tiratori di fili invisibili”. Questa metodologia si sviluppa naturalmente dalla rivoluzione delle trasmissioni, quando le società umane hanno iniziato a essere influenzate da messaggi distribuiti in massa su stampa, radio e televisione.

Un candidato presidenziale può essere “redatto” in risposta a una “domanda popolare schiacciante”, ma è risaputo che il suo nome può essere deciso da una mezza dozzina di uomini seduti intorno a un tavolo in una stanza d’albergo. In alcuni casi il potere degli invisibili tiratori di fili è palese. Il potere del gabinetto invisibile che deliberava al tavolo da poker in una certa casetta verde di Washington è diventato una leggenda nazionale. C’è stato un periodo in cui le principali politiche del governo nazionale erano dettate da un solo uomo, Mark Hanna… Queste persone rappresentano nella mente dell’opinione pubblica il tipo di governante associato all’espressione governo invisibile”.

Ma perché è necessaria l’invisibilità? Perché i propagandisti non si prendono semplicemente il merito del loro lavoro?

Una delle famose campagne di Bernays abbinava uova e pancetta a colazione, che oggi consideriamo un alimento biologico americano (non lo è). Il suo cliente Beech-Nut Packing voleva vendere più bacon confezionato. Bernays corruppe i medici affinché dichiarassero che le colazioni più sostanziose sono più salutari e si arrivò a un fenomeno (“Bacon ‘n Eggs”) che avvantaggia tutte le parti coinvolte, in particolare il consumatore felice. Eppure nessuno pensa a Bernays durante la colazione.

Un altro esempio alimentare: quello che noi chiamiamo “calamari” – calamari fritti serviti con salsa di pomodoro – deriva da una campagna di propaganda simile, articolata in una tesi di laurea di uno studente di nome Paul Kalikstein. Perché non chiamarli “calamari di Kalikstein”?

La risposta è ovvia:

“I leader che prestano la loro autorità a qualsiasi campagna di propaganda lo faranno solo se questa può toccare i loro interessi. Le attività del propagandista devono avere un aspetto disinteressato. In altre parole, una delle funzioni del consulente di pubbliche relazioni è quella di scoprire in quali punti gli interessi del suo cliente coincidono con quelli di altri individui o gruppi”.

Se potessimo vedere la mano invisibile saremmo meno facilmente persuasi. “Prova il calamaro” sembra interessante. “Provate i calamari perché i ristoranti, i distributori, l’industria della pesca e i media del settore alimentare hanno un interesse reciproco nei giganteschi margini che si possono ricavare dall’abbondanza di calamari ultra-economici pescati in Cina” sembra volgare. Il propagandista deve essere invisibile. A nessuno piace sentirsi manipolato. Quando vediamo il mago, perdiamo l’illusione di poter scegliere.

Balcanizzazione e celebrità

Penso spesso al sito web della campagna elettorale di Hillary Clinton del 2016. Nel menu in basso c’era un link per ogni sottogruppo di potenziali elettori di Hillary. Afroamericani per Hillary. Latini per Hillary. Asiatici americani e abitanti delle isole del Pacifico per Hillary. Donne per Hillary. Millennials per Hillary. È stato diviso in questo modo perché è così che i nostri propagandisti invisibili diffondono i loro messaggi, gruppo per gruppo. Uno dei motivi per cui veniamo divisi in sottogruppi rintracciabili fin dalla nascita è che i propagandisti possono più facilmente trasmetterci i messaggi che sanno che riceveremo.

È essenziale per il responsabile della campagna educare le emozioni in termini di gruppi. Il pubblico non è composto solo da democratici e repubblicani. Oggi le persone sono in gran parte disinteressate alla politica e il loro interesse per i temi della campagna deve essere assicurato coordinandolo con i loro interessi personali. Il pubblico è composto da gruppi interconnessi – economici, sociali, religiosi, educativi, culturali, razziali, collegiali, locali, sportivi e centinaia di altri“.

Questo non vale solo per le campagne elettorali politiche, ma per tutti i tipi di propaganda su tutti i canali. Più specifico è il pubblico, più ristretti sono i canali, più efficace sarà la campagna.

La propaganda offre due esempi, uno che riguarda una colazione presidenziale e l’altro un atto legislativo. Il primo:

“La legge sulla maternità Shepard-Towner è stata approvata perché le persone che si sono battute per ottenerne l’approvazione si sono rese conto che le madri costituivano un gruppo, che gli educatori costituivano un gruppo, che i medici costituivano un gruppo, che tutti questi gruppi a loro volta influenzavano altri gruppi, e che presi tutti insieme questi gruppi erano sufficientemente forti e numerosi da impressionare il Congresso con il fatto che il popolo in generale voleva che questa legge diventasse parte della legge nazionale”.

Inoltre, maggiore è l'”influenza” – fama, celebrità, interesse pubblico – che si riesce ad ottenere, più facile è l’accesso ai gruppi in questione.

Il secondo esempio:

Quando il Presidente Coolidge invitò gli attori a colazione, lo fece perché si rese conto non solo che gli attori erano un gruppo, ma che il pubblico, il grande gruppo di persone che amano i divertimenti, che amano le persone che li divertono e che amano le persone che possono essere divertite, doveva essere allineato con lui“.

Si noti la sua disinvolta assunzione che le celebrità possono essere usate come marionette. Questo perché comprende lo scopo della celebrità, forse un po’ più facile da individuare prima che conquistasse il mondo. Vale a dire: lo scopo della celebrità è la pubblicità. Perché i musicisti fanno film? Perché gli attori pubblicano album? Perché le star dello sport diventano annunciatori? Perché quasi tutti hanno la stessa professione: rimanere famosi. Perché vogliono rimanere famosi? Per soldi. Come fanno a rimanere famosi? Essendo utilizzabili dai propagandisti.

Ho lavorato per un breve periodo per un importante agente pubblicitario di Hollywood che si occupava di accordi per le star di prima fascia. Gli accordi prevedevano uno o due giorni di riprese pubblicitarie, poi un pacchetto di sette, quattordici o ventuno “giorni di pubblicità” in cui la celebrità doveva fare praticamente tutto ciò che i marchi volevano. La pubblicità non è un’attività secondaria, è il loro lavoro principale. Sono necessari per aprire le porte ai sottogruppi balcanizzati, in base alle celebrità che tali sottogruppi ammirano.

Raggruppare la popolazione in questo modo ha altri vantaggi. Le persone divise sono più deboli, meno capaci di coalizzarsi in una nazione. È nell’interesse di un regime tirannico – o di qualsiasi regime – tenere le persone ben separate.

Il comune denominatore dell’interesse

Tutto ciò che è stato fatto fino a questo punto riflette la comprensione della propaganda da parte dell’americano medio. Sì, sappiamo di essere raggruppati, sappiamo che le celebrità hanno il potere di guidare le azioni e sappiamo che ci sono propagandisti dietro le quinte che mettono insieme il tutto. Il terzo passo è quello in cui andiamo dietro le quinte. Dove entriamo nel territorio dei cappelli di carta stagnola. Ma non si tratta di una cospirazione; Bernays ha spiegato tutto un secolo fa.

In parole povere, la grande propaganda non è guidata dal desiderio di cambiare l’opinione pubblica. La sua causa ed effetto più vera è il denaro. Ecco perché molte persone vi partecipano senza sapere di farlo. Bernays ne fornisce un esempio dettagliato:

“La validità di una politica di pubbliche relazioni è stata dimostrata anche nel caso di un produttore di scarpe che produceva scarpe di servizio per pattugliatori, pompieri, portalettere e uomini con occupazioni simili. Egli si rese conto che se fosse riuscito a rendere accettabile l’idea che gli uomini che svolgevano questo tipo di lavoro dovevano essere ben calzati, avrebbe venduto più scarpe e allo stesso tempo avrebbe aumentato l’efficienza degli uomini.

Nell’ambito della sua attività, organizzò un ufficio per la protezione dei piedi. Questo ufficio diffondeva informazioni scientificamente accurate sulla corretta cura dei piedi, principi che il produttore aveva incorporato nella costruzione delle scarpe. Il risultato fu che gli enti civici, i capi della polizia, i capi dei vigili del fuoco e altri interessati al benessere e al comfort dei loro uomini, promossero le idee che il suo prodotto rappresentava e il prodotto stesso, con il conseguente effetto di vendere più facilmente un numero maggiore di scarpe.

L’applicazione di questo principio di un comune denominatore di interesse tra l’oggetto che viene venduto e il bene pubblico può essere portata all’infinito”.

Quando leggo quanto sopra, mi viene in mente la scena di Gangs of New York in cui Bill il Macellaio apre il palmo della mano:

“Mulberry Street… e Worth… Cross e Orange… e Little Water. Ognuno dei Cinque Punti è un dito. Quando chiudo la mano diventa un pugno. E, se lo desidero, posso rivolgerlo contro di voi”.

Come i Five Points, Turbo America è gestito come un cartello. Un conglomerato unificato di interessi privati che complottano e pianificano segretamente per farvi agire in determinati modi. E questi modi sono sempre, in fin dei conti, legati al denaro. Questo, più di ogni altra cosa, è il tassello mancante nella comprensione della propaganda da parte della destra americana e il motivo per cui ha perso così tante battaglie per così tanto tempo. Credono che i “leader” necessari per influenzare la popolazione saranno convinti da argomenti razionali… il tutto mentre i “leader” vengono pagati dall’altra parte. Sono come quelli che pensano di piacere alle spogliarelliste.

Un’altra parola per definire questo processo è “clientelismo”. Ogni attore di un’opera di propaganda viene pagato. Essi amplificano il messaggio perché è nel loro interesse comune farlo. E la migliore propaganda si assicura che vengano pagati solo se l’iniziativa ha successo.

Bernays offre un altro esempio di leader locale che cerca di far passare una tariffa più bassa:

“Se fosse un propagandista, invece, pur continuando a usare la radio, la userebbe come uno strumento di una strategia ben pianificata. Dato che sta facendo una campagna per una tariffa bassa, non si limiterebbe a dire alla gente che le tariffe elevate aumentano il costo delle cose che comprano, ma creerebbe delle circostanze che renderebbero la sua tesi drammatica ed evidente. Forse avrebbe allestito una mostra sulle tariffe basse contemporaneamente in venti città, con reperti che illustrassero il costo aggiuntivo dovuto alla tariffa in vigore. Avrebbe fatto in modo che queste mostre fossero inaugurate in modo cerimonioso da uomini e donne di spicco, interessati a una tariffa bassa al di là di qualsiasi interesse per le sue fortune politiche personali. Avrebbe fatto in modo che i gruppi, i cui interessi erano particolarmente colpiti dall’alto costo della vita, istituissero un’agitazione per ottenere tariffe più basse. Avrebbe drammatizzato la questione, magari facendo boicottare a uomini e donne di spicco i capi di abbigliamento in lana, fino a quando il tariffario non fosse stato ridotto. Potrebbe chiedere il parere degli assistenti sociali per sapere se l’alto costo della lana mette a rischio la salute dei poveri in inverno”.

Ogni volta che si legge “gli esperti dicono…” si dovrebbe sentire subito odore di propaganda. Non è che gli esperti dicano cose vere e cose non vere. È che gli esperti non dicono nulla a meno che non faccia parte di una campagna di propaganda. Come le celebrità, questa è la funzione degli esperti. Gli esperti non sono altro che testimoni pagati nel processo della percezione pubblica.

Creare una stampa compiacente

Nel passaggio migliore di Propaganda Bernays spiega il fattore X – una stampa complice – con un’analisi concreta del giornale del giorno. Oh, se potessimo avere tutti questi occhi rossi!

“La misura in cui la propaganda modella l’andamento delle cose che ci riguardano può sorprendere anche le persone ben informate. Tuttavia, basta guardare sotto la superficie dei giornali per avere un’idea dell’autorità della propaganda sull’opinione pubblica. La prima pagina del New York Times nel giorno in cui vengono scritti questi paragrafi contiene otto importanti notizie. Quattro di esse, ovvero la metà, sono di propaganda. Il lettore casuale le accetta come resoconti di eventi spontanei. Ma lo sono davvero? Ecco i titoli che le annunciano: “DUE NAZIONI AVVERTIRANNO LA CINA CHE LA VERA RIFORMA DEVE ARRIVARE PRIMA DI DARE SOLLIEVO”, “PRITCHETT RAPPORTA CHE IL SIONISMO FALLIRÀ”, “GLI IMMOBILI CHIEDONO UN’INDAGINE SUI TRANSITI” e “IL NOSTRO LIVING STANDARD PIÙ ALTO DELLA STORIA, DICE IL RAPPORTO HOOVER”.

Prendeteli in ordine: l’articolo sulla Cina spiega il rapporto congiunto della Commissione sull’extraterritorialità in Cina, presentando un’esposizione della posizione delle Potenze nel pasticcio cinese. Quello che dice è meno importante di quello che è. È stato “reso pubblico dal Dipartimento di Stato in data odierna” allo scopo di presentare al pubblico americano un quadro della posizione del Dipartimento di Stato. La sua fonte le conferisce autorità e il pubblico americano tende ad accettare e sostenere la posizione del Dipartimento di Stato.

Il rapporto del dottor Pritchett, fiduciario della Carnegie Foundation for International Peace, è un tentativo di scoprire i fatti su questa colonia ebraica in mezzo a un mondo arabo inquieto. Quando l’indagine del dottor Pritchett lo ha convinto che a lungo termine il sionismo avrebbe “portato più amarezza e più infelicità sia per gli ebrei che per gli arabi”, questo punto di vista è stato diffuso con tutta l’autorità della Fondazione Carnegie, in modo che il pubblico sentisse e credesse. La dichiarazione del presidente del Real Estate Board di New York e il rapporto del Segretario Hoover sono tentativi simili di influenzare il pubblico verso un’opinione.

Questi esempi non sono forniti per dare l’impressione che la propaganda abbia qualcosa di sinistro. Vengono piuttosto riportati per illustrare come viene data una direzione consapevole agli eventi e come gli uomini dietro a questi eventi influenzano l’opinione pubblica. In quanto tali, sono esempi di propaganda moderna.

Questa pratica di creare circostanze e immagini nella mente di milioni di persone è molto comune. Praticamente nessuna impresa importante viene portata avanti senza di essa, che si tratti della costruzione di una cattedrale, della dotazione di un’università, della commercializzazione di un film in movimento, dell’emissione di grandi obbligazioni o dell’elezione di un presidente”.

Bernays presume, come fa con le celebrità, che la stampa stia al gioco. E questo è un dato di fatto. Ma perché ? Perché la stampa sta al gioco? Le celebrità partecipano all’economia della propaganda per denaro; a livello di base sanno che è il loro lavoro principale. Ma senza la stampa, le celebrità non aprirebbero alcuna porta. Bernays fa sembrare la complicità della stampa come la cosa più facile del mondo. È così?

La risposta, in base alla mia esperienza relativamente consistente con la pubblicità, è assolutamente sì. Sono a conoscenza del fatto che circa l’85% delle notizie (più del 50% di Bernays) deriva da comunicati stampa e iniziative pubblicitarie. I giornalisti di oggi sono pigri, stupidi e timorosi. I responsabili delle pubbliche relazioni, più intelligenti e più impegnati, coltivano i rapporti con loro e li riempiono di regali, viaggi e opportunità di ogni tipo, per non parlare delle storie già scritte per loro, su un piatto d’argento. Mentre i social media hanno distrutto le redazioni giornalistiche, la loro disperazione ha reso i giornalisti ancora più tesi e pronti a svendersi. Anche nelle pubblicazioni più importanti si vedono storie piene di errori. Molte pubblicazioni, ad esempio Forbes, sono diventate praticamente tutte a pagamento: strati su strati di “articoli di collaboratori” che, dietro le quinte, vengono pubblicati per poche migliaia di dollari l’uno.

Ho visto una mia idea finire su Good Morning America per conto di un’importante agenzia di PR in cambio di milioni di dollari. Si trattava di un tentativo di creare un “momento culturale” adatto alla stampa, che alla fine è fallito. È stato inquadrato dall’emittente come contenuto di marca? Assolutamente no. È stata inquadrata come un’iniziativa filantropica che, guarda caso, è stata innescata da una grande banca (simile agli “annunci educativi” di Pfizer/Kelce di cui si parlerà più avanti). Una vittoria per tutti i soggetti coinvolti: le celebrità, i marchi, le emittenti, persino i poveri beneficiari della filantropia e il pubblico stesso. Chi se ne frega se è un po’ fuorviante? Sono tutti contenti. Non ci sono aspetti negativi. Tutti i “leader”, compresa la stampa, amplificano la propaganda. Più la propaganda ha successo, più la loro piccola economia ne beneficia.

Un’opera di propaganda veramente riuscita, tuttavia, non può limitarsi a usare la stampa, ma deve usarlacon successo . Oggi lo fa creando, o più probabilmente sfruttando, un “momento culturale”. Un momento mimetico sul radar. Anteprime di film. Premiazioni. Festival. Se non ne avete uno a portata di mano, ne innescate uno voi stessi. Anche ai tempi di Bernays, i momenti culturali venivano fabbricati di sana pianta: lo fece ripetutamente, ad esempio con la Parata del Progresso della GM, progettata per manipolare il pubblico a considerare le aziende più simili ai governi.

Il motivo per cui il regime sta adottando un approccio così sfacciato è che sta perdendo la sua presa sui momenti culturali. Guardate il potere dei meme, poi guardate il crollo degli spettatori di veicoli di propaganda come gli Oscar. Gli affidabili pali della tenda del mainstream gli stanno sfuggendo dalle dita, democratizzati da un pubblico che non è più prigioniero. Le informazioni trapelate sui file di Twitter e su altre iniziative di censura di massa su mis, dis e malinformazione dimostrano che le agenzie di intelligence, le cosiddette organizzazioni giornalistiche e le organizzazioni non profit incentrate sui media hanno rapidamente ignorato la Costituzione quando i social media hanno sovvertito i loro efficaci canali mediatici.

Pertanto, i propagandisti faranno di tutto per avere accesso a due cose: 1) i momenti culturali che possono creare loro stessi (ad esempio, coppie di celebrità o qualsiasi altra cosa che “rompa internet”) e 2) i pochi grandi “momenti culturali” affidabili che ci sono rimasti.

E il più grande di questi?

Il Super Bowl

I nostri governanti invisibili hanno meno porte da attraversare e meno burattini delle celebrità per aprirle. Per questo motivo, stanno perdendo il controllo dello Zeitgeist. La finestra di Overton è appannata. Bud Light è stato un vero e proprio disastro monetario. TikTok ha reso la Gen Z antisemita. Le star del rap si dichiarano a favore di Trump. I propagandisti si stanno strappando i capelli invisibili.

E così, la NFL, che non è la preferita naturale di un regime di lungo corso, è diventata improvvisamente il centro della scena per tutti i complotti e le pianificazioni di un migliaio di ragazzi del teatro di Washington alimentati dall’adderall. Legioni di uomini e donne gay carrieristi hanno deciso di drogarsi di football americano.

Prima di entrare nei dettagli, analizziamo l’inclinazione a destra del regime secondo i termini di Bernays.

In primo luogo, abbiamo gli invisibili tiratori di fili, i propagandisti stessi: in generale, un regime globalista che affronta una minaccia esistenziale da parte dei nazionalisti e del loro leader Donald Trump. Più specificamente: ABInbev, la casa madre globale della Bud Light, i team di pubblicitari/agenti delle celebrità (vedi sotto), Pfizer e le sue agenzie di propaganda assortite, la NFL e le sue agenzie di propaganda assortite, le reti di patronato Dem e l’industria musicale. Questo gruppo è composto essenzialmente dallo stesso che ha cancellato Alex Jones, Kanye West, Andrew Tate e i loro simili. La parola migliore per definirli è Globohomo.

Poi, i sottogruppi. I bianchi. I fan della NFL. Gli elettori dell’oscillazione. Americani “flyover” (ad esempio, i tifosi dei Kansas City Chiefs). Bevitori di birra. Guardatori del Super Bowl. Ascoltatori di podcast. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Ma il punto è che tutti questi sottogruppi devono essere convinti di una cosa: ilregime è vostro amico. Donald Trump non lo è.

Terzo, “leader” con un comune denominatore di interesse a trasmettere il messaggio in cambio di benefici. Sappiamo già che la NFL si piega facilmente alle pressioni progressiste: hanno scritto “non essere razzista” sul campo. Per Kelce, tight end, il cielo è il limite. Lui e i suoi manager/agenti/pubblicisti vengono pagati oltre i loro sogni più sfrenati. Grandi guadagni anche per Shane Gillis, Dana White, Post Malone, ecc. e le loro schiere di agenti e manager. Per la Bud Light, una via di ritorno nei cuori degli americani normali. Stampa complice? Grandi titoli cliccabili su una coppia di celebrità e sull’ultimo grande polo culturale che possono ancora controllare.

Non cospirazione, pubblicità

Per capire l’arco della macchina Travis Kelce, bisogna partire dai fratelli Eanes. Secondo il New York Times,

La realtà è che la maggior parte dell’ascesa di [Kelce] è durata anni: il risultato di un piano aziendale attentamente curato e sviluppato dai fratelli Eanes, 34 anni, che è sbocciato proprio al momento giusto“.

I gemelli neri erano compagni di college di Kelce all’Università di Cincinnati. Tipi da party promoter che lo facevano entrare nei club. Nessuno si trovava nel posto giusto al momento giusto. Kelce li portò con sé. A un certo punto, decisero di “rendere Kelce famoso come la Rock”.

Per un decennio, questo piano è fallito miseramente, proprio come i piani identici sognati dagli homies di tutti gli altri tight end della NFL. Prima di Kelce, la donna americana media poteva nominare zero tight end – c’è un grande trend di TikTok “Taylor put Kelce on the Map” che prende in giro questa realtà. Ma Kelce era diverso. Diversi mesi prima di “inseguire aggressivamente” Taylor Swift “attraverso il suo agente”, Kelce, uno sconosciuto, ha fatto un’ospitata al SNL. Sicuramente è stato il primo tight end a farlo.

Come? Perché? La chiave è capire come funziona la pubblicità. La celebrità che vedete è la punta di un iceberg di propagandisti invisibili. Oltre ai fratelli Eanes – propagandisti visibili gettati sotto i riflettori per oscurare quelli reali – Kelce ha

“… uno stratega creativo, un coordinatore della comunità, un pubblicista di Los Angeles, uno chef personale e un allenatore. Ha quattro agenti di calcio, guidati da Mike Simon della VMG. In primavera è diventato anche cliente della Creative Artists Agency (CAA) per soddisfare la sua voglia di recitare”.

E cosa dice questo iceberg? Lo si sente risuonare dagli articoli pubblicitari del New York Times e di Vanity Fair: TravisKelce ha un “fascino trasversale”. Questo “fascino trasversale” è “stato parte dei piani dei fratelli Eanes fin dall’inizio”. Stronzate. I fratelli Eanes sono semplicemente gli emissari del colore giusto che hanno bussato alla porta del regime al momento giusto. Sono arrivati alla CAA proprio al momento giusto, quando il regime era alla ricerca di una star del flyover-state per influenzare gli elettori del flyover-state. E non solo, anche una che aveva ottime probabilità di arrivare al Super Bowl. Così, per puro colpo di fortuna, il sogno dei fratelli Eanes è diventato realtà. Non è una cospirazione, è pubblicità. Non la CIA, ma la CAA.

Dopo che Dave Chappelle è “impazzito”, il suo primo spettacolo si è concluso con un’oscura illustrazione di come le persone molto potenti che lo circondano lo abbiano manipolato in modi che non avrebbe mai potuto immaginare. L'”allenatore” di Kanye West, Harley Pasternak, ha minacciato di internare Kanye se non avesse chiuso la bocca. A chi hanno poi dato la colpa entrambe le star? Agenti. Manager. Ari Emanuel, Scooter Braun, CAA, WME. Agenti che, tra l’altro, si sono scontrati anche con Taylor Swift. Sostituti del regime, collegati da tubi ben noti ai pianificatori di Washington e Davos. Sono i tiratori di fili. E odiano che sia reso visibile.

Il lancio

Kelce arrivò alla porta del regime pronto a vendersi. La censura non era riuscita a uccidere il nazionalismo, quindi era giunto il momento di provare con la propaganda delle celebrità. Così lo hanno esaminato e hanno deciso di farne un “leader” dei sottogruppi in questione e allo stesso tempo un “momento culturale”, forse non rendendosi conto di quanti propagandisti avrebbero avuto bisogno di usarlo per eseguire la loro propaganda a destra. È interessante notare che Kelce doveva a suo fratello, l’ancor meno noto centro degli Eagles Jason Kelce, alcuni favori. Jason aveva aiutato il più irregolare Travis a ritrovare la retta via. Se mi fai diventare una star, disse Travis, porta Jason con te.

Kelce è diventato il volto globale di Pfizer. L’annuncio è stato definito una “campagna educativa”, mentre ovviamente è tutt’altro: la Pfizer non vuole che ne sappiamo di più sul vaccino, vuole che lo prendiamo alla cieca e che le nostre compagnie assicurative paghino il conto. La Pfizer sta emorragando i profitti in eccesso ottenuti con i vaccini obbligatori per combattere il crollo delle entrate con ogni mezzo necessario. Non è una questione controversa.

La campagna pubblicitaria presenta Kelce che “fa due cose contemporaneamente”, come grigliare e tagliare il prato, come si dovrebbe fare con il prossimo Covid e l’antinfluenzale. Questo tipo di concetto comico ha tutte le caratteristiche di una grande pubblicità di agenzia. Stranamente, assomiglia poco alle normali pubblicità farmaceutiche, di solito rovinate da avvertenze e altri vincoli. Ho lavorato nella pubblicità farmaceutica: qualunque cosa si faccia, è impossibile fare uno spot farmaceutico divertente. Troppa burocrazia. Non è così per questo spot della Pfizer.

Contemporaneamente, Kelce è apparso in TV come testimonial di DirecTV McDonald’s, Subway, Valspar, State Farm, Experian, Campbell’s Soup, DraftKings e della stessa NFL. Non è mai successo che anche un famoso quarterback apparisse in così tanti spot nazionali con prodotti al limite della concorrenza (ad esempio Subway, McDonald’s) durante la stessa estate. Per un tight end? Oltremodo inaudito. Prodotto.

E poi c’era tutto il resto. Un documentario di Amazon Prime sui due fratelli Kelce. Il duo aveva improvvisamente il miglior podcast del Paese, con le loro chiacchiere vuote che battevano i comici (Rogan, Gillis, Theo Von), gli opinionisti (Tucker, Shapiro) e i true crime. Il fatto che i progressisti/globalisti non siano riusciti a entrare nella Top 10 dei podcast li ha sicuramente fatti impazzire, e questo è un altro motivo per cui hanno puntato su Kelce. Jason (non Travis) è stato il secondo classificato della rivista People come uomo più sexy in vita. Dopo la vittoria del Super Bowl, un comunicato stampa di Travis ha spiegato che i “valori” di lui e Taylor Swift sono il motivo per cui sono così amati. La stampa complice ha annunciato che Kelce avrebbe prodotto un film con “tagli fiscali verdi di Obama”. Gli sgravi fiscali verdi di Obama sono a disposizione di tutti i registi e tutti i registi li utilizzano, ove possibile. Non è una “notizia” per Kelce o per qualsiasi regista usarli; solo se i pubblicitari decidono di renderlo tale.

I documentari di Amazon e gli spot televisivi nazionali, in particolare quelli con concetti comici intelligenti, non si realizzano da un giorno all’altro. Come minimo, ci vogliono mesi per produrli e diffonderli. Tutto questo non si traduce in una psyop, ma nella creazione di una porta d’accesso per le celebrità ai bianchi del flyover che il regime ha bisogno di riconquistare. Il regime ha sempre meno “leader” su cui contare, e assolutamente nessuno in grado di catturare una maggioranza bianca che sta sempre più voltando le spalle. Se non ne ha uno, se ne crea uno.

Relazioni pubblicitarie

Non importa se Taylor Swift sia complice del tentativo di Travis Kelce di diventare il re dei negri del regime, ma dobbiamo comunque affrontare la questione della relazione. L‘idea che Taylor possa tradire le donne  partecipando a un’economia di propaganda fa assolutamente paura a molti intellettuali di destra, in particolare alle donne, nonostante la Swift abbia molte altre doti propagandistiche, come ad esempio indossare cuscinetti per il sedere sul palco per apparire più affine. Come le sue mutande imbottite, anche la questione di Kelce è un vero e proprio cuneo. La nostra destra dissidente, sempre più lunga, trova offensivo che i MAGA-tard pensino che la Swift finga: dicono che si tratta di una “mentalità da perdente” e che spaventerà le elettrici che amano l’aborto.

La Swift è quindi compliceSa che si tratta di una campagna pubblicitaria volta a convincere i bianchi a innamorarsi di nuovo di un regime che li odia? Ovviamente non c’è modo di saperlo. Non abbiamo le riprese delle telecamere e, anche se le avessimo, molte di queste cose non vengono dette. Quando l’iniziativa filantropica di una banca sostiene Good Morning America, si capisce, non si dice, che seguirà una copertura favorevole.

Ma la mia personale convinzione è che sì, a un certo livello Taylor sa di partecipare a una farsa. Penso che Kelce sia probabilmente gay e che Swift sia così impegnata, con la sua intera vita catturata dalla proiezione, che le “relazioni reali” non sono nemmeno lontanamente possibili. Tutta la sua vita è una farsa, quindi perché la sua vita sentimentale dovrebbe essere diversa? Quando si è all’apice della fama, è più raro avere una relazione “vera” che una finta. Ricordo sempre quello che Shia Labeouf disse di Megan Fox, mentre era “sposata” con un altro uomo.

“Senti, sei sul set per sei mesi, con qualcuno che fa il tifo per te e tu fai il tifo per lui. Non ho mai capito la separazione tra lavoro e vita in quella situazione. Ma il tempo che ho trascorso con Megan era una cosa nostra, e credo che la chimica sullo schermo si veda”.

Per la Swift non c’è separazione tra lavoro e vita. Le relazioni a quel livello di fama non sono quasi mai reali. Ed è per questo che non durano quasi mai. Questo è vero da sempre. Non è che “Hollywood è gestita da pedofili”, è che Hollywood, come la DC e ogni altro centro di potere, è gestita da persone per le quali le relazioni monogame fanno parte dello spettacolo, del personaggio che si interpreta sul palcoscenico della vita.

Credo che Swift abbia avuto qualche favore da ripagare dopo essersi scontrata con Scooter Braun e la stessa rete hollywoodiana di CAA/WME che ha cercato di distruggere Kanye. A differenza di Kanye, che li ha definiti ebrei, Taylor ha usato un approccio diverso. Ma si è comunque fatta dei grossi nemici. Credo che stia ricevendo qualcosa di grosso, detto o non detto, in cambio dell’elevazione di Kelce.

Ma questa è pura speculazione e non ha alcuna importanza. Se si accetta che Kelce stesso sia un burattino, e che lo sia diventato prima di “perseguire aggressivamente” Taylor, il fatto che lei sia o meno pienamente consapevole del suo ruolo nell’iniziativa non fa alcuna differenza sostanziale, se non per i fragili ego femminili che sarebbero feriti dall’apprendere che il loro idolo è una tipica celebrità. Eppure tutte consumano avidamente lo show della HBO “The Idol”, un resoconto dettagliato di come gli agenti/manager si fondono in un iceberg di propaganda. È il MAGA, ancora una volta, ad avere la giusta dimensione, usando solo il loro naso per rilevare la verità: Travis Kelce e Taylor Swift sono un’economia di propaganda.

L’opposto della censura

Quando il regime ha imposto alla NFL di apporre slogan antirazzisti sulle end zone, lo ha fatto con mano pigra e pesante. Un’insegnante esausta che dice alla sua classe di stare zitta. Senza sfumature. “FINE RAZZISMO”. Una regola impressa su una lavagna. A loro non importava della NFL. Sono ragazzi e donne del teatro gay. Si è visto.

Ma ora, mentre Trump sembra inevitabile e i fallimenti di Covid si accumulano, vediamo l’occhio di Sauron spostarsi verso la NFL. Ora sono davvero interessati ad essa, così come sono interessati alla musica country, ai cappelli mimetici e alla pesca a mosca, spostando lo sguardo dal topo di quartiere del South Side al bifolco del Lago di Ozarks. E non è tutto tattico. I bianchi di destra sono diventati così alienati da diventare esotici, proprio come lo erano un tempo i ragazzi neri nati nelle case popolari. E, come sempre, il primo istinto del regime è quello di comprare tutta la ribellione in vista.

Lo pensano davvero? Si preoccupano davvero dei bianchi di pianura? È possibile che, spostando la loro attenzione, un po’ di genuina empatia si trasmetta ai loro nuovi giocattoli. Ma questo non significa che si preoccupino dei poveri bianchi più di quanto si siano preoccupati dei poveri neri prima di loro.

Ma c’è una differenza sostanziale. Vale a dire che nella fabbrica della cultura sono rimasti sempre meno uomini bianchi etero. I maschi bianchi che scrivono nelle sale degli autori televisivi sono crollati dal 75% al 35% in un decennio. E quanti sono quelli di destra? Zero. Zero. Con i neri attivisti o le donne femministe, si possono assumere, istruire e far credere ai loro sottogruppi che il regime ama i neri e le donne. Lo stesso Bernays fece proprio questo con la sua leggendaria campagna di sigarette femministe Torches of Freedom. Ma ora la propaganda di regime sembra aver indossato un abito di pelle bianca: sembra inquietante e falsa perché non ci sono più bianchi di destra a renderla reale. Possono convincere Gillis a tenere in mano una lattina di Bud Light. Ma Gillis potrebbe sopravvivere nella stanza di uno scrittore di lungo corso?

Diciamo “Cthulhu nuota sempre a sinistra” per spiegare perché gli americani, in un dato anno, vedono sempre la morale di dieci anni prima come inaccettabilmente conservatrice. Questo è vero anche quando la cultura si sposta brevemente a destra: anche negli anni Ottanta, quando il reaganismo e i banchieri sono diventati cool, il movimento di fondo dei valori è continuato verso sinistra. In un certo senso, anche il libertarismo “l’avidità è un bene” era uno spostamento a sinistra, almeno nella misura in cui la sinistra è uguale al caos. Ma ora sembra che non si possa andare più a sinistra. Quindi, o Cthulhu si sposterà davvero a destra, e stiamo assistendo ai movimenti telegrafici di un sincero cambiamento di mare che vedrà i cristiani pro-life e le femministe pro-choice lavorare fianco a fianco nelle corporazioni globali. Oppure, molto più probabilmente, Cthulhu non ha assolutamente intenzione di spostarsi a destra, ma solo di apparire. È una farsa mal riuscita. E la frattura nella società americana non potrà che approfondirsi.

Cosa fare? Per le persone di destra, l’unica risposta è adottare le efficaci tattiche di propaganda di Cthulhu, per quanto dolorose possano essere.

La propaganda è, in un certo senso, l’opposto della censura: aggiungere informazioni invece di rimuoverle. La destra americana si sente a proprio agio nell’identificare e criticare la censura perché di solito coinvolge le agenzie governative di intelligence. Non si preoccupano se questo li porta a essere etichettati come teorici della cospirazione. Le rivelazioni portate alla luce da quei rari giornalisti non complici come Matt Taibbi e Mike Benz mostrano reti di organizzazioni amministrative come l’FBI, la CIA e il DHS che collaborano con gruppi di patronato come l’Atlantic Group, l’Aspen Institute e l’NCoC per attuare iniziative con nomi come Virality Project e Civic Listening Corps su piattaforme mediatiche come Time e Twitter. L’ascesa dei social media ha dato vita a un tipo di censura che stiamo appena iniziando a comprendere. La destra lo accetta e lo riconosce, anche se c’è poco da fare, almeno finché non riusciremo a controllare le agenzie di intelligence. Possiamo però fare qualcosa per la propaganda.

Ma la propaganda rende la destra nervosa. Coinvolge altrettante inquietanti “agenzie” a tre lettere (CAA, non CIA) e globalisti pazzi di potere, eppure i conservatori diventano improvvisamente ingenui quando entrano nel mondo del marketing. È difficile sopravvalutare quanto sia devastante questa debolezza, come hanno rivelato i recenti discorsi sulle reti clientelari della destra, o sulla loro mancanza. Ma comprendendo Bernays e il funzionamento delle economie di propaganda, la propaganda stessa diventa meno misteriosa, meno amorale, meno “complottista”. Se considerata senza paura, è un substrato malleabile che porta i messaggi oltre la mente e nel cuore, perché coinvolge l’interesse comune dei suoi bersagli proprio come i suoi promulgatori. Cthulhu può essere superficialmente rivolto a destra, ma la gente non se la beve. Solo noi possiamo costruire il vero mostro culturale codificato a destra. Se solo riuscissimo a seguire il manuale.

Un post ospite di
propagandista ribelle isaacsimpson.com willtheagency.com

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La rivolta del partito esterno, di AURELIEN

La rivolta del partito esterno.

Nel frattempo, Everyman può andare a farsi fottere.

Sono lieto di annunciare che sono stato contattato per la traduzione di questi saggi in portoghese e il primo è stato pubblicato .

Vi ricordo che questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potete sostenere il mio lavoro apprezzando e commentando e, soprattutto, trasmettendo i saggi ad altri e i link ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️

E grazie ancora a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando alcune traduzioni in italiano e ha creato un sito web dedicato a queste traduzioni.

Bene, allora.

ho letto il nuovo libro di Emmanuel Todd La Défaite de l’occident Nelle ultime settimane(“Lasconfitta dell’Occidente “). Ci ho messo un po’ di tempo perché, pur non essendo un libro particolarmente lungo, è piuttosto denso e ricco di dati, grafici e tabelle.

Se leggete il francese e riuscite a procurarvene una copia, dovreste farlo: Todd è una di quelle figure polivalenti che la vita intellettuale francese offre di tanto in tanto (o lo faceva), e lavora all’intersezione tra antropologia, demografia, sociologia ed economia, con una buona dose di politica. È noto soprattutto per aver previsto la caduta dell’Unione Sovietica quindici anni prima che avvenisse, basandosi interamente sui dati demografici ufficiali. Ora, quasi cinquant’anni dopo, guarda all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti, e non gli piace quello che vede. Inutile dire che il libro è stato accolto con urla di rabbia in Francia, anche perché è scritto esplicitamente nel contesto della guerra d’Ucraina e fornisce spiegazioni basate sui dati per i fallimenti dell’Occidente, così come per la notevole forza di resistenza dei russi e per la disunione dell’Occidente stesso.

Gran parte del libro è occupato da indagini sociologiche e antropologiche sulle strutture familiari, sull’urbanizzazione e sui tipi di osservanza religiosa. (Todd vede l’inevitabile distruzione degli Stati Uniti derivante dal fatto che le ultime vestigia della serietà protestante in materia di lavoro e istruzione sono ormai scomparse, lasciando il Paese nelle mani di una ricca oligarchia nichilista priva di qualsiasi ideologia collettiva). Queste sono cose che esulano dal mio campo di competenza, ma voglio solo riprendere un paio di punti che egli solleva sull’istruzione, nel contesto di una discussione più ampia e generale. Sono convinto che gran parte dei problemi dell’Occidente al momento derivino dal fatto che abbiamo dimenticato il significato e lo scopo dell’istruzione, e che non la valutiamo più per se stessa, ma solo come qualcosa da acquistare per ottenere in seguito un flusso di reddito. Questo comporta una serie di gravi conseguenze sociali e politiche. Di tanto in tanto farò riferimento al libro di Todd e anche a uno o due altri autori, che mi sembrano tutti orientati in una direzione simile. Come persona che ha trascorso praticamente tutta la sua vita associata al sistema educativo, in un modo o nell’altro, in diversi Paesi, come studente, ricercatore, genitore, pensatore, conferenziere e insegnante di vari argomenti in diverse parti del mondo, e con contatti nei sistemi scolastici e universitari di diversi Paesi, mi si può forse scusare se offro alcune riflessioni.

Oggi non ci poniamo mai la domanda “perché educare le persone?”. La necessità è tacitamente data per scontata e, se mai fosse necessaria una giustificazione, sarebbe che una società complessa come la nostra crollerebbe se le persone non fossero istruite per aiutarla a funzionare. Questo è vero fino in fondo, ma non spiega perché l’istruzione fosse necessaria in primo luogo. Definirla un “diritto umano” non ha senso, poiché qualsiasi cosa può essere definita un diritto umano se un numero sufficiente di attori potenti è in grado di imporne l’accettazione come tale. Si può anche sostenere che l’istruzione sia necessaria per la crescita economica, ma, come sottolineaHa-Joon Chang , questa relazione non è semplice: più istruzione non significa necessariamente maggiore crescita economica.

In alcune situazioni, l’istruzione è in realtà un rischio. Nelle società statiche, in cui le cose sono viste come ordinate dagli dei o dalla natura e idealmente non soggette a cambiamenti, l’istruzione è nel migliore dei casi inutile al di fuori dell’area ristretta del funzionamento dello Stato nella sua forma attuale, e nel peggiore dei casi pericolosa, poiché potrebbe dare alla gente idee insicure e pericolose. Le società aristocratiche e teocratiche hanno spesso cercato di ostacolare o controllare l’istruzione, o anche la stampa e la distribuzione dei libri, e questo ha creato problemi quando le stesse società hanno voluto abbracciare la tecnologia e modernizzarsi (così alcuni dei problemi con i laureati in Iran oggi).

Ciò suggerisce che dovremmo cercare la spiegazione fondamentale del bisogno di istruzione nel desiderio di cambiamento politico, e forse la perdita di entusiasmo per l’istruzione tra le élite politiche più recenti come segno che il cambiamento politico e lo sviluppo non sono più importanti per loro. Più in generale, dovremmo anche aspettarci che il desiderio di controllo dell’istruzione rifletta il desiderio di controllare, accelerare o rallentare il ritmo del cambiamento politico: qualcosa che le élite di oggi hanno dimenticato.

Dipende da quanto indietro si vuole andare, credo, ma probabilmente dovremmo almeno riconoscere che nel mondo antico “educazione” significava essenzialmente insegnare ai giovani ciò che dovevano sapere per prendere il loro posto nella società. Nelle comunità agricole, c’era un enorme carico di conoscenze da trasmettere solo per quanto riguardava le colture e l’allevamento, per non parlare dell’assistenza sanitaria, della gravidanza, dell’educazione dei figli, della caccia, delle abilità militari e forse di molto altro. Come sottolinea Joseph Henrich , la pesca delle foche nell’Artico richiedeva un’intera serie di tecnologie che dovevano essere accuratamente elaborate e praticate, per poi essere insegnate alle generazioni successive se non si voleva che la tribù morisse di fame. In Grecia, l’educazione era originariamente in parte fisica e in parte musicale e poetica. In seguito, ad Atene, si estese allo studio della matematica, della retorica e di materie simili, che influenzarono i corsi universitari fino ai tempi di Shakespeare. Ma queste materie non erano scelte a caso, bensì per soddisfare un bisogno ben preciso: menti sane in corpi sani, appunto.

In Occidente, probabilmente il primo “bisogno” di istruzione dopo l’epoca classica fu nella Chiesa, dove i testi erano richiesti e dovevano essere copiati a mano, dove si dovevano tenere i conti e scrivere opere teologiche e documenti amministrativi. Tuttavia, la letteratura medievale (in gran parte scritta da laici) e i documenti storici dimostrano che l’alfabetizzazione era un’esigenza diffusa anche tra gli uomini e le donne delle classi medie e alte: forse il dieci per cento della società inglese era in grado di leggere entro il 1400, anche se questo non implicava necessariamente la conoscenza del latino, ad esempio. (In effetti, il controllo dell’insegnamento del latino, nella misura in cui la Chiesa poteva gestirlo, era anche controllo del potere politico). Ma naturalmente anche i membri più umili della società, soprattutto i mercanti, dovevano saper leggere e scrivere, per firmare contratti e tenere la contabilità. Nella maggior parte dei Paesi, sembra che ci fossero scuole laiche almeno nelle principali città, e naturalmente l’istruzione avveniva anche in famiglia.

Il legame tra l’ascesa del protestantesimo, la nascita della stampa e la diffusione dell’alfabetizzazione è un argomento troppo vasto per essere affrontato in questa sede. È sufficiente dire che la diffusione del protestantesimo attraverso la stampa di Bibbie in volgare, opuscoli religiosi e commenti e sermoni di teologi come Lutero, Zwingli e Calvino, creò le condizioni per un ampio cambiamento sociale e politico e fornì ai governi una potente arma per promuoverlo e perpetuarlo. Una popolazione istruita, o almeno alfabetizzata, era essenziale per il mantenimento al potere dei governanti protestanti e, a sua volta, la domanda di letteratura religiosa in lingua volgare nei Paesi protestanti era enorme. È passato un tempo spaventosamente lungo da quando ho dovuto leggere alcune controversie religiose del XVI secolo, ma ricordo di essere rimasto impressionato dall’enorme quantità di letteratura religiosa in volgare dell’epoca, da quanto fosse popolare e ampiamente diffusa e da quanto fosse frequentemente ristampata.

A sua volta, naturalmente, una classe media alfabetizzata acquisì potere politico, iniziò a cercare lavoro presso l’aristocrazia e la Corte e persino, in piccola parte, iniziò a costituire le proprie basi di potere. Todd suggerisce – e non è il primo – che il maggior grado di urbanizzazione e quindi di complessità nei Paesi protestanti, così come l’incoraggiamento dell’alfabetizzazione per consentire la lettura della Bibbia, ebbero un impatto misurabile sulla crescita economica e sui rapporti di potere interni. Certamente, l’aspirazione ad alfabetizzare la classe operaia per consentirle di leggere la Bibbia e condurre così una vita migliore è durata a lungo nei Paesi protestanti, lasciando ancora deboli tracce nelle scuole domenicali metodiste della mia prima giovinezza.

Naturalmente, non furono solo i Paesi protestanti a registrare una crescita della complessità delle loro società e delle loro economie, ma, senza essere troppo schematici, è giusto dire che nei Paesi cattolici la Chiesa mantenne a lungo un effettivo monopolio dell’istruzione e che, anche con l’affermarsi dell’istruzione di massa nel XIX secolo, continuò a cercare di esercitare quanto più potere possibile su ciò che era permesso insegnare. Avrò altro da dire a riguardo tra poco, ma per il momento limitiamoci a notare quanto sia irrimediabilmente ingenuo, in questo contesto, il concetto moderno di educazione che si trova nella Casta Professionale e Manageriale (PMC) e che ignora completamente le questioni del potere e dell’ideologia (se non come abili esercizi intellettuali) a favore di una concezione depoliticizzata dell’educazione che consiste nell’ottenere certificati come investimento per aumentare i guadagni.

La “necessità” dell’istruzione è stata dimostrata soprattutto con la Rivoluzione industriale e le sue esigenze di una forza lavoro qualificata, nonché con l’ulteriore complessità che lo sviluppo economico ha portato con sé. Tuttavia, la spiegazione puramente utilitaristica della crescita dell’istruzione è di per sé inadeguata: per molti Paesi, essa è stata uno strumento di politica statale, per creare una società coerente e una “scuola per la nazione”. L’istruzione primaria (cioè fino a 10/11 anni) divenne obbligatoria in Prussia all’inizio del XVIII secolo e, forse sorprendentemente, in Austria cinquant’anni dopo. un L‘idea si diffuse rapidamente in tutta Europa, anche se gli inglesi, forse senza sorpresa, furono tra gli ultimi ad adottarla, nel 1880. In quel caso, l’iniziativa era strettamente legata all’allargamento del diritto di voto: “Dobbiamo educare i nostri futuri padroni”, come disse il primo ministro britannico Disraeli.

Ciò che dovrebbe essere ormai evidente è la serietà fondamentale con cui l’istruzione veniva presa all’epoca e quanto fosse strettamente legata alle lotte politiche ed economiche del tempo. In nessun luogo questo è più vero che in Francia, che è importante non solo in sé, ma perché il suo esempio ha ispirato molti altri Paesi europei all’epoca della Rivoluzione e in seguito, e perché le aspre battaglie tra i tentativi laici e religiosi di controllare l’istruzione continuano ancora oggi, in una veste un po’ diversa.

Prima della Rivoluzione l’istruzione era interamente nelle mani della Chiesa ed era teoricamente obbligatoria fin dai tempi di Luigi XIV. I bambini comuni (prevalentemente maschi) venivano educati attraverso una rete di scuole gestite dai vescovi locali, ma poiché le famiglie dovevano pagare le tasse, la frequenza era nel migliore dei casi irregolare. Nelle grandi città, ordini religiosi come i gesuiti crearono collegi gratuiti, destinati prevalentemente alle classi medie. Alcuni di questi, come il Lycée Louis Le Grand di Parigi, esistono ancora oggi e attirano una clientela ricca e spesso conservatrice.

Fin dall’inizio, l’educazione popolare fu una delle priorità della Rivoluzione e della Repubblica. I cittadini, a differenza dei sudditi, avevano bisogno di essere istruiti per svolgere il loro ruolo. Diverse leggi sottrassero il controllo dell’istruzione alla Chiesa per darlo allo Stato, ma durante e dopo l’epoca di Napoleone la Chiesa riuscì a recuperare molto del suo potere. È importante notare che, già all’inizio della Rivoluzione, le università, con i loro programmi di studio ancora basati sulle idee classiche, furono spazzate via e sostituite da istituti di formazione professionale, per formare gli ingegneri, i medici, gli avvocati e altri soggetti di cui la nuova Repubblica avrebbe avuto bisogno: un’iniziativa ampiamente copiata in tutta Europa.

Nonostante il ritorno della monarchia, e successivamente dell’Impero di Luigi Napoleone, l’impegno per l’istruzione universale come priorità nazionale rimase, anche se il lavoro effettivo di educazione dei bambini era svolto dalla Chiesa. Al momento dell’insediamento della Terza Repubblica, nel 1871, esisteva già una forte corrente politica che voleva un’istruzione gratuita e obbligatoria, sotto il controllo dello Stato e non della Chiesa, e basata sui principi repubblicani. Va da sé che questo programma era profondamente politico: la Chiesa era un feroce oppositore di ogni aspetto della società moderna e della democrazia, e un sostenitore acritico della monarchia; più assoluta era, meglio era. Finché i bambini venivano educati secondo queste idee, costruire una Francia moderna e repubblicana era impossibile.

L’istruzione moderna e laica fu lentamente introdotta in Francia verso la fine del XIX secolo, gratuita fino all’età di tredici anni e contro la violenta opposizione della Chiesa e dei tradizionalisti in generale. Le sue truppe d’assalto (la “cavalleria della Repubblica”) erano una nuova generazione di insegnanti professionalmente preparati, spesso provenienti da ambienti della classe operaia, che cercavano di insegnare l’educazione civica e i principi della Repubblica piuttosto che i dogmi religiosi, trovandosi così in perenne conflitto con i sacerdoti locali che dicevano ai loro parrocchiani che l’educazione laica era un peccato contro Dio. Quando nel 1905 avvenne l’irrevocabile separazione tra Stato e Chiesa, Clemenceau, allora primo ministro, inviò la polizia e l’esercito nelle scuole per sfrattare i preti e le suore che si rifiutavano di andarsene. (Non sorprende che siano tornati sotto il regime di Vichy tra il 1940 e il 1944).

La battaglia per liberare finalmente l’istruzione dall’influenza religiosa si è protratta fino agli anni ’60, quando la Chiesa si opponeva ancora all’istruzione dei ragazzi e delle ragazze nelle stesse scuole (cosa che, ironia della sorte, viene ora messa in discussione da un’altra religione). E nelle campagne, l’influenza della Chiesa locale sull’istruzione si è protratta fino agli anni ’70, soprattutto a scapito delle ragazze, il che spiega perché la sinistra francese (e in particolare il partito ibrido islamico-kokista di M. Mélenchon) ha perso molto sostegno tra le donne che sono cresciute in quell’epoca e non desiderano che ritorni qualcosa di simile.

Spero che questo piccolo tour senza fiato illustri quanto l’educazione fosse un argomento serio, controverso e politicamente importante. Prima di passare al declassamento dell’importanza dell’istruzione negli ultimi decenni a favore di “istruzione!!!” o “non abbiamo bisogno di edukayshun”, riflettiamo per un istante su ciò che questi primi pionieri hanno effettivamente realizzato, con lavagna, gesso e qualche libro, perché, molto più delle Università, per certi versi, è un indice di ciò che si può fare e di ciò che è stato distrutto.

Il partecipante medio alla Prima guerra mondiale, un soldato al fronte o una donna in una fabbrica di munizioni, i cui nonni erano molto probabilmente analfabeti, lasciava la scuola a tredici anni. Tuttavia, gli studi condotti in vari Paesi mostrano un livello di alfabetizzazione molto elevato nelle lettere scambiate con le famiglie, oltre a indicare il tipo di libri che venivano letti all’epoca. (Il soldato medio al fronte del 1914 era stato educato a scrivere una prosa chiara, grammaticale e ben costruita in una mano leggibile, e l’operaio medio era abbastanza abile da fare calcoli aritmetici mentali e calibrare macchinari in tempi molto precedenti ai primi dispositivi di calcolo analogici. I commessi potevano e sapevano eseguire complessi calcoli aritmetici a mente.

In alcuni casi, questo può essere quantificato con precisione. In Francia, grazie al controllo nazionale dei programmi scolastici e dei materiali per i test, gli standard scolastici possono essere confrontati aritmeticamente tra le generazioni. In generale, i tredicenni del 1914, per non parlare del 1934, avevano un’età di lettura almeno pari, e probabilmente superiore, ai sedicenni di oggi. (Le ristampe dei libri di testo di matematica destinati ai ragazzi di 12-13 anni negli anni ’30 sono ampiamente disponibili e la maggior parte degli adulti ammetterà di avere difficoltà ad utilizzarli senza calcolatrice. Ma in molti casi, in realtà, l’Occidente ha avuto vita facile. Le lettere inviate a casa dai soldati giapponesi in Manciuria negli anni ’30 dimostrano che i bambini cresciuti in campagna avevano imparato e sapevano usare una lingua scritta in cui sono necessari circa 3.500 caratteri per leggere un giornale.

Il che ci porta alla cultura popolare. Una delle conclusioni di Paul Fussell nel suo capolavoro The Great War and Modern Memory è che abbiamo dimenticato quanto fossero alfabetizzate le classi lavoratrici che partirono per la guerra nel 1914. I libri di poesia erano ovunque, le lettere a casa contenevano citazioni bibliche e citazioni di grandi opere letterarie a memoria. L’istruzione era considerata non come una forma di prigionia o di repressione, ma proprio come un mezzo di miglioramento e di fuga. In Gran Bretagna, la Workers’ Educational Association era stata istituita nel 1903 per fornire istruzione gratuita alla gente comune, spesso sotto forma di conferenze tenute da esperti, ed era molto popolare. In Europa, i partiti di sinistra avevano le loro sezioni educative.

E la gente voleva essere istruita. In Gran Bretagna, la Everyman’s Library fu lanciata nel 1906 da JM Dent, per fornire anche ai più poveri l’accesso alla letteratura classica del mondo, in formato tascabile, al prezzo di uno scellino. I libri (tra cui un’enciclopedia in più volumi) ebbero un successo strepitoso e sono ancora in stampa. Il titolo della serie è tratto da un discorso di Conoscenza nell’omonima opera teatrale medievale, che dice:

Verrò con te,

e sia la tua guida,

Nel tuo bisogno

per andare al tuo fianco.

(Non riesco a pensare a una sintesi migliore di ciò che è l’educazione. Quanti di noi, cresciuti in un deserto culturale dopo la Seconda guerra mondiale, devono la propria sanità mentale e persino la propria sopravvivenza alla biblioteca pubblica locale e ai pochi libri che i nostri genitori potevano permettersi di comprare?) Le biblioteche pubbliche e private fiorirono e Allen Lane lanciò la Penguin Books nel 1935, tra lo scetticismo generale per il fatto che la gente comune avrebbe pagato 6d per letteratura e saggistica di qualità. Sappiamo cosa è successo dopo. Nel 1946 un insegnante di lettere classiche, EV Rieu, portò a Lane una traduzione inglese dell Odissea di Omero Dubitando che la gente comune volesse davvero leggere Omero, Lane la pubblicò comunque come primo Classico Penguin, vendendo tre milioni di copie in pochi anni. Ad esso seguirono centinaia di altre ristampe e traduzioni che in precedenza erano state pensate, e pagate, solo per le élite colte. Non diteciche non abbiamo bisogno di istruzione, fu il verdetto popolare.

Tutto questo, va ribadito, era fatto da e per la gente comune. La maggior parte dei lettori di Rieu aveva lasciato la scuola a quindici anni o prima. (Del resto, i classici in lingua inglese tra quelli che leggevano erano stati acquistati al loro primo apparire, da milioni di persone comuni come loro, spesso in forma di rate mensili). Ma, come i loro coetanei altrove, avevano assorbito un livello di istruzione e cultura generale superiore a quello odierno. Ma questo non perché fossero in qualche modo più bravi o più intelligenti di noi, sottoposti come erano alle pressioni della povertà e della guerra, ma perché i governi e la società si impegnavano con risorse per l’istruzione della gente comune, cosa che oggi non avviene più, e la gente comune aveva una sete di istruzione che da allora è stata estirpata. Ancora oggi, quando gli esperti si arrovellano sulle statistiche, cercando di capire quali differenze tecniche nei metodi educativi spieghino i diversi risultati nei vari Paesi, dimenticano che ciò che fa davvero la differenza non sono le tecniche intelligenti, o i computer, o ancora più denaro, ma l’impegno fondamentale. È davvero sconfortante osservare gli scolari africani che la mattina camminano per chilometri fino a scuola, spesso a piedi nudi, solo per imparare. Ed è difficile, o impossibile, tornare indietro nel tempo, quando si commettono errori. Uno degli argomenti di Todd è che l’élite WASP degli Stati Uniti, con il suo retaggio puritano, che premiava l’istruzione a tutti i livelli, è ormai scomparsa. L’élite non culturale guidata dal denaro e dal successo che l’ha sostituita è troppo eterogenea per costituire una classe dirigente in grado di fornire un esempio, e non sembra comunque interessata all’istruzione della gente comune. Gli “asiatici” in senso lato se la cavano molto bene negli Stati Uniti, secondo le statistiche, ma questo non sembra avere alcun impatto emulativo al di fuori della loro comunità. Nel frattempo, naturalmente, e a differenza degli Stati Uniti, culture come la Russia, la Cina e l’India mantengono un ampio sostegno all’istruzione a tutti i livelli.

Ora, notate che non ho quasi mai usato la parola “università”. Le strutture economiche e di governo moderne e i sistemi politici democratici di Paesi come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e persino il Giappone sono stati costruiti sull’istruzione di massa della gente comune. In effetti, la pressione per la democrazia e la sua realizzazione e sfruttamento attraverso i partiti politici di massa erano inseparabili da essa. L’istruzione oltre i sedici anni era per pochi, quella oltre i diciotto era per una minima parte, di solito i ricchi.

Questo non vuol dire, ovviamente, che le università non fossero necessarie. Ma prima ho accennato alla loro trasformazione, durante la Rivoluzione francese, in istituti di formazione d’élite a carattere prevalentemente tecnico, molti dei quali esistono ancora oggi. Le università in senso moderno sono nate essenzialmente come un movimento parallelo, come istituzioni in cui i giovani della classe media che intendevano intraprendere una carriera nella legge, nella Chiesa, nella medicina e nelle nuove ed entusiasmanti materie dell’ingegneria e della scienza venivano a studiare, accanto a materie tradizionali come i classici, la matematica e la filosofia. L’istruzione di massa produsse una domanda propria di insegnanti di materie come la storia, la geografia, la letteratura e le lingue, e naturalmente fu necessario creare un gruppo di esperti per formare gli educatori. Infine, la crescita delle dimensioni e dell’importanza del governo ha creato la necessità di un gruppo di giovani intellettualmente preparati e maturi per il suo personale, a volte con normali lauree, altre con una formazione specialistica di alto livello. Si noti che, ancora una volta, tutti questi sviluppi sono stati guidati dalla necessità e hanno comportato investimenti e incoraggiamenti significativi da parte del governo.

Una generazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, nella maggior parte dei Paesi si era creata una società effettivamente tripartita. C’era una base operaia e industriale, con un livello di istruzione ragionevole, spesso tecnicamente preparata e che manteneva in gran parte le proprie tradizioni e la propria cultura. Di tanto in tanto, qualcuno scappava da questa base e “faceva bene” da solo. C’era uno strato intermedio di persone provenienti da ambienti modesti, la maggior parte delle quali lasciava la scuola a diciotto anni e si dedicava a lavori tecnici o amministrativi di medio livello: anche in questo caso, alcuni di loro si imbattevano nel livello successivo. Questo livello frequentava l’università e si avviava alle carriere professionali e alle posizioni amministrative più elevate. Si trattava, ovviamente, di una società gerarchica e di classe, ma nella maggior parte dei Paesi occidentali era sufficientemente aperta e flessibile da permettere a talenti di vario tipo di trovare la propria strada, e la tendenza generale degli anni Sessanta e Settanta ad ampliare i posti all’università, che rifletteva l’aumento della necessità di laureati, ha permesso a persone come me di avere un’istruzione universitaria. La Open University, fondata in Gran Bretagna nel 1969, ha stupito i suoi critici scoprendo che la gente comune era disposta ad alzarsi alle cinque del mattino per guardare le lezioni in TV prima di andare al lavoro. Con tutti i loro difetti e le loro ingiustizie, questi sistemi (in cui l’università era gratuita e molti Paesi ti pagavano per andarci) sembrano appartenere ormai a un passato mitico.

Diverse cose si sono combinate per distruggere questi sistemi relativamente aperti. La disoccupazione, una parola che i bambini nati dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno sentito per la prima volta nelle lezioni di storia, è tornata con prepotenza dopo gli effetti combinati dell’inflazione e della deflazione della crisi del prezzo del petrolio del 1973-4. Proprio mentre la crisi veniva affrontata, nei Paesi occidentali emersero alcuni governi malvagi, decisi a rovesciare il consenso del dopoguerra e a spezzare il potere dei sindacati. (La disoccupazione raddoppiò, ad esempio, nel primo anno del regime della Thatcher, nel 1979-80). Per la prima volta, la disoccupazione cominciò a colpire le persone ben qualificate, compresi i neolaureati. E per la prima volta i governi si resero conto che un modo per ridurre i dati sulla disoccupazione era quello di mantenere le persone nell’istruzione, indipendentemente da quanto inutili o banali fossero i loro studi. A partire dagli anni ’80, i governi hanno iniziato a stipare più studenti negli istituti esistenti e a ridurre i requisiti di ingresso. In alcuni Paesi è stato facile: in Francia, dove il diploma di maturità dà diritto a frequentare l’università, si trattava solo di rendere l’esame progressivamente più facile e di ampliare il numero di materie che si potevano studiare. Un baccellierato in edilizia permetteva di iscriversi a una laurea in filosofia.

Allo stesso tempo, l'”istruzione” è passata dall’essere qualcosa di cui il Paese e gli individui avevano bisogno, a una pallottola magica in grado di ridurre la disoccupazione e compensare i posti di lavoro e le competenze perse a causa della deindustrializzazione, della delocalizzazione dell’economia e della distruzione del settore pubblico, che aveva impiegato un gran numero di laureati. Non si trattava di una politica ma di uno slogan, come se l’offerta creasse la propria domanda. L’università è stata commercializzata come un investimento commerciale per i giovani e i loro genitori, con la minaccia implicita che se non si andava all’università si avevano poche possibilità di trovare un lavoro. I datori di lavoro si resero presto conto che richiedere lauree per lavori che non ne avevano bisogno era un buon modo per restringere la gamma dei potenziali candidati.

L’effetto fu quello di creare una nuova casta nella società: i Credentialed, che avevano titoli di studio (a volte diversi) ma standard molto variabili di istruzione effettiva. Tendevano a sposarsi, a socializzare e a lavorare insieme e costituivano la base di quella che divenne nota come Casta Professionale e Manageriale (PMC). Mentre cinquant’anni prima si sarebbero mescolati professionalmente e persino socialmente con altre classi, ora lo facevano raramente. La precarizzazione e l’esternalizzazione dei servizi umili ha fatto sì che i precedenti, seppur limitati, contatti tra le classi non esistessero più. Il macellaio e il panettiere locali hanno lasciato il posto al supermercato, il personale della banca alla linea telefonica del computer, le biglietterie alle macchine. Al contrario, i non-lavori della classe media sono esplosi di numero, poiché le persone laureate in nulla si sono spostate nel “management” e nelle “risorse umane”, dove potevano fare i danni maggiori.

E dopo un po’ di tempo, questa classe, la cui espressione politica ho chiamato Partito, cominciò a sviluppare una coscienza e alcune opinioni piuttosto dure. Dopo tutto, a cosa serviva l’educazione della gente comune? I lavori qualificati erano praticamente scomparsi; le segretarie, i giovani manager e gli amministratori erano stati sostituiti dai computer; gli specialisti in informatica, medicina o ingegneria potevano essere reperiti all’estero e, comunque, questa nuova cosa di Internet avrebbe reso superfluo gran parte dell’insegnamento, non è vero? Senza il consenso d’élite sull’istruzione che esisteva dal XIX secolo, essa non aveva più la stessa importanza, se non nella misura in cui riguardava la vita della PMC stessa. Quindi, più scuole private, tutori personali e una vita per i figli della PMC più esigente e rigorosa di quanto i gesuiti del XVIII secolo avrebbero ritenuto ragionevole. Per quanto riguarda il resto della popolazione, i due terzi o tre quarti al di fuori della PMC, i loro voti non erano più necessari e i partiti di massa del passato furono liquidati. Il Partito, nelle sue diverse manifestazioni, aveva capito che se solo la metà della popolazione votava, e se il PMC dominava completamente la politica, le ONG e i media, spesso muovendosi agevolmente tra di loro, non c’era bisogno di partiti di massa, né di rivolgersi a più del 20% circa della popolazione votante.

Di conseguenza, l’istruzione è diventata una sorta di campo di gioco e di battaglia per il PMC. A scuola, potevano sperimentare tutte queste ingegnose teorie educative che ricordavano dalla loro giovinezza, quando l’idea era che nessuno dovesse essere costretto a imparare o a fare qualcosa che non voleva. Se gli standard di lettura e scrittura si abbassavano catastroficamente, era un peccato: alla fine era la politica che contava, e i loro figli erano protetti. Naturalmente, una volta che i governi rinunciano a cercare di definire i programmi scolastici, altre forze cercheranno di prendere il sopravvento. In Francia e in molti altri Paesi europei, sono gli islamisti che cercano di fare sempre più breccia nel sistema educativo laico costruito con tanta determinazione e contro un’opposizione così violenta. Al giorno d’oggi, gli insegnanti ricevono regolarmente minacce di morte se insegnano qualcosa che i rigidi genitori musulmani disapprovano: nemmeno la Chiesa cattolica è arrivata a tanto. Ma non sono i nostri figli, i nostri figli sono protetti da tutto questo. E poi le università, i loro programmi, l’insegnamento e l’amministrazione sono diventati un campo di battaglia tra le diverse lobby sociali e politiche del PMC, che cercano di controllare ciò che possono e di distruggere ciò che non possono, come annoiati cortigiani in lotta alla corte di un monarca assolutista.

Perché in realtà non tutto andava bene con la PMC. Oggi non c’è il numero di posti di lavoro necessario per impiegare con successo tutti i laureati, e quelli che esistono sono spesso precari e temporanei. Quando andavo a scuola, una coppia di insegnanti (visto che spesso si sposavano tra loro) poteva avere una casa decente, una macchina e le vacanze, e un tenore di vita relativamente invidiabile. Oggi una coppia rappresentativa lavora fino all’osso, scompare sotto una montagna di scartoffie inutili, è costretta a ballare passi coreografati da pedagoghi che non sono mai entrati in un’aula, e aspetta stancamente la pensione in una casa che spera di poter comprare un giorno. (Una coppia di giovani avvocati o medici che vive in una grande città potrebbe trovarsi in una situazione simile). E la situazione non è molto migliore a livello universitario: in molti Paesi la maggior parte dell’espansione dei posti di insegnamento è avvenuta in posizioni temporanee, o in “Istituti” e “Centri” finanziati con denaro agevolato, spesso da donatori dilettanti che seguono i venti prevalenti della moda. Già trent’anni fa, durante una delle mie periodiche fughe dal governo al mondo accademico, ricordo che una collega mi disse che passava una buona metà del suo tempo non a fare ricerca e a scrivere, ma a trovare opportunità e a scrivere proposte per il successivo finanziamento agevolato triennale. Da allora la situazione è peggiorata.

Non sono sicuro che si possa andare avanti ancora a lungo. Qui, naturalmente, ci avviciniamo alla teoriadi Peter Turchin sulla sovrapproduzione delle élite. Credo che la teoria di Turchin sia sostanzialmente corretta, ma sospetto che il problema sia ancora più generale: a qualsiasi livello, in qualsiasi società, se le qualifiche educative e intellettuali dei suoi membri superano la capacità della società di assorbirle utilmente, ci saranno problemi. Ecco perché, ad esempio, le ribellioni coloniali erano quasi sempre guidate da élite con istruzione occidentale che erano frustrate da ciò che potevano ottenere sotto il colonialismo e volevano il potere per sé, e perché i gruppi di ribelli in Africa oggi sono spesso guidati da giovani studenti incapaci di trovare un impiego soddisfacente. Potrebbe accadere la stessa cosa in Occidente?

Non nello stesso modo, ovviamente. Ma ci sono segni di una spaccatura che sta emergendo tra il partito interno e quello esterno della PMC, e la situazione si sta aggravando. Per molti versi, l’attuale situazione equivale a un esplicito ripudio da parte del Partito Interno dell’accordo del dopoguerra, basato sull’istruzione universale e sul reclutamento di persone comuni nel Partito Esterno e persino in quello Interno, se dotate delle necessarie capacità. (Ma ora l’idea del Partito Interno è quella di monopolizzare il potere e la ricchezza per sé, riducendo progressivamente le possibilità dei membri del Partito Esterno di unirsi ad esso. L’IA sarà probabilmente solo l’ultima di una serie di iniziative volte a indebolire e impoverire il Partito Esterno, dato che molti posti di lavoro nel campo dell’istruzione, della legge e del management ne saranno vittime.

Il modello di una società in cui il Partito Interno possiede tutta la ricchezza e tutti gli altri, dal ciclista che consegna il cibo all’avvocato di medio livello, vivono in uno stato di insicurezza e servilismo permanente non è sostenibile, e non è certo che sarà mai raggiunto in questa forma. Ma l’iperconcentrazione di ricchezza e potere che si sta sviluppando farà capire al Partito Esterno che i suoi interessi non sono solo diversi da quelli del Partito Interno, ma addirittura opposti. È a quel punto che le rivoluzioni diventano classicamente possibili. Ma le rivoluzioni richiedono due cose: un’ideologia e forze politiche che portino al cambiamento. Il PMC nel suo complesso, come il Partito di Orwell, non ha un’ideologia in quanto tale. Allo stesso modo, è interessato solo al potere e il suo ultraliberismo rende impossibile qualsiasi tipo di alleanza efficace. Passa quindi gran parte del suo tempo in una feroce competizione per il potere nelle istituzioni che controlla, soprattutto quelle educative. Questo atteggiamento esclude necessariamente qualsiasi tipo di alleanza con la maggioranza della popolazione, che comunque disprezza e da cui cerca disperatamente di differenziarsi. E questa popolazione non produce più abitualmente il tipo di leader che in passato emergeva dalla classe operaia e dalla classe medio-bassa, grazie a una politica educativa illuminata.

Nelle ultime due generazioni si è assistito a una trasformazione fondamentale delle questioni relative all’istruzione: da: quali sono i bisogni del Paese e della società? a: come possiamo fare soldi educando i figli del giardiniere? Di tutte le miopi stupidaggini perpetrate dal Partito nelle ultime due generazioni, questa è forse la più stupida e, in definitiva, la più distruttiva dal punto di vista sociale. Forse hanno bisogno di un po’ di educazione.

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L’essenza del flop della VR di Apple, di SIMPLICIUS THE THINKER

L’essenza del flop della VR di Apple

Alcuni hanno fatto notare che il tanto decantato Apple Vision Pro, che doveva essere il salvatore dell’AR/VR e inaugurare l’era cyberpunk che cambia i paradigmi, in realtà ha fatto inaspettatamente, più o meno, più o meno, purtroppo...flop.

Ok, in realtà c’è un dibattito su questo punto. Secondo alcune indiscrezioni, il dispositivo ha venduto 200.000 unità, un numero presumibilmente impressionante. Tuttavia, altri sostengono che la maggior parte di queste erano prevendite e che dopo il rilascio le cose si sono arenate. Infatti, quasi la metà dei primi acquirenti ha intenzione di restituire le cuffie, adducendo vari problemi:

Non preoccupatevi: questa non vuole essere una recensione tecnica pedante. Ma per evitare le premesse, riconosciamo che l’Apple Vision Pro costa ben 3.500 dollari per il suo prezzo base più basso. Per i modelli di fascia più alta con 1 tb di memoria, al netto delle tasse e di altri accessori consigliati o di qualità, il prezzo massimo è di poco inferiore ai 5.000 dollari. Questo fatto da solo impedisce alla stragrande maggioranza delle persone di prendere in considerazione l’acquisto. Tim Cook si è preoccupato di dare un’occhiata alla società di recente? So che i signori della tecnologia di Cupertino si rinchiudono nelle loro paludate enclavi, ma di sicuro hanno qualche consulente per valutare almeno occasionalmente la temperatura degli operai che lavorano sotto le nuvole. Non sono passati molti decenni da quando si poteva comprare un’auto nuova al prezzo di questi orrendi occhiali da sci, e sembra che Apple creda davvero ai dati della Fed sul reddito pro capite.

Il divario tra l’élite tecnologica e la plebaglia comune si sta allargando a tal punto? Chi, sano di mente, pensava che questo sarebbe diventato un accessorio di moda?

Questo è il nocciolo della questione. Il potenziale fallimento del Vision Pro, come i Segway e i Google Glass prima di lui, è indice di una frattura metafisica tra i comuni mortali e la classe dirigente tecno-transumanista.

La strada che si biforca

Qualcuno potrebbe storcere il naso: ecco che ricomincia con quei filosofismi fantasiosi. Ma in questo caso uso il termine metafisica molto deliberatamente, per indicare che l’élite sta iniziando a divergere dal resto dell’umanità nel senso più fondamentale: a livello di realtà-concetto.

Nel mondo delle élite, il dogma del giorno è la crescita assente e il progresso perpetuo, di cui ho parlato qui:

DISPACCI DALLA CENTRALE DI BEDLAM

Iperstizioni e culto del progresso pilotato

24 MARZO 2023
Hyperstitions and the Cult of Steered Progress

Iperstizioni: la capacità degli esseri umani di creare il proprio futuro. Ma è questo un genio che non vogliamo far uscire dalla bottiglia?

È seguita dall’alta società dei tecnoburocrati come una fede cieca. Il motivo è semplice: dà loro una rubrica di base per il successo e la realizzazione, in assenza di un vero significato o di una profondità spirituale, di cui sono tutti innegabilmente privi. Dà alla vita una freccia fittizia da seguire, adatta alle valutazioni del mondo da parte del cervello sinistro. Per intenderci: se si riesce a disegnarla elegantemente su un grafico, con la linea inclinata che mostra una crescita verso l’alto, allora è Buona e tutto va bene per il mondo; un senso di appagamento, di conferma e di convalida tutto in uno.

In parole povere, fa credere ai tecnici di fare la cosa giusta: migliorare il mondo. Li fa sentire importanti e necessari. Li fa sentire bene con se stessi in quella grandiosa lacuna post-cristiana di stampo nietzschiano che abitiamo. Non pensano alle reali implicazioni più profonde, di secondo ordine, dei loro costrutti tecnologici: finché possono tracciare un movimento verso l’alto e cifre crescenti, la ricompensa dell’autocompiacimento segue. È la fede immortale del culto del progresso.

Questo progresso ha un’inerzia intrinseca che riempie la tecno-élite a bassa intelligenza con una nuova vertigine ogni volta che viene superato un punto di accelerazione. L’applauso quasi infantile al “progresso” superficiale si traduce in una crescente ignoranza della vera metafisica della natura umana. Con ogni nuova “eccitante” scoperta, diventano sempre più orgogliosi, la loro auto-validazione vibra come le viti di una macchina incomprensibile. Diventa una dipendenza: sempredi più, sempre di più esempre più velocemente. Non c’è una teleologia intrinseca al di là dell’astrazione vagamente narcisistica dell’utopia dell’abbondanza infinita. Basta ammassare un numero sufficiente di questi aggeggi e di queste diavolerie tecnologiche e saremo tutti santi immortali che si crogiolano nel godimento.

Di solito scrivo degli sviluppi tecnologici futuri con una sfumatura di cauto ottimismo, almeno per quanto riguarda l’adozione o la maturazione delle tecnologie attualmente in voga, siano esse VR/AR, AI, ecc. Ma in uno spirito contrarianista, ecco un breve manifesto sul perché ci sono buone probabilità che questa tecnologia venga rifiutata dalla società, generando alla fine non il nirvana della civiltà, ma l’indifferenza.

L’enigma del pendolo di Krugman

Nel 1998, l’economista Paul Krugman ha formulato la sua tanto declamata previsione, che io definisco il Pendolo di Krugman:

“La crescita di Internet subirà un drastico rallentamento, poiché diventa evidente la falla nella ‘legge di Metcalfe’: la maggior parte delle persone non ha nulla da dirsi! Entro il 2005 sarà chiaro che l’impatto di Internet sull’economia non è stato superiore a quello del fax”.

Come sempre accade nei discorsi su Internet – cosa che per certi versi riscatta quanto detto sopra – le cose vengono diluite, generalizzate o deliberatamente travisate per spingere qualsiasi agenda di conferma si desideri. In questo caso, la reazione è stata riduttivamente legata alla parte della dichiarazione che dice, in sostanza, che Internet non avrà un grande impatto [sull’economia].

Se nei primi estatici anni della bolla internet questa previsione sembrava sempre più ridicola, più ci avviciniamo a oggi, più le persone hanno cominciato a ripensarci. In primo luogo, oggi possiamo affermare con certezza che Internet ha avuto un effetto deleterio sradicando le economie locali, svendendole agli affamati avvoltoi aziendali del globalismo. Questo ha scatenato un effetto boomerang che alla fine ha permesso di acquistare qualche anno di merci a basso costo, sventrando le nostre fondamenta e riducendo la qualità della nostra vita.

Si può sostenere che, al di là dell’arricchimento delle aziende, la previsione di Krugman era accurata nel prevedere che Internet non avrebbe avuto alcun reale beneficio economico per l’uomo comune. Non è interessante che i critici della previsione scelgano di valutarla utilizzando il denominatore di Wall Street e delle grandi imprese? In base alle misure delle medie del Dow Jones e del Nasdaq, si potrebbe pensare che l’economia non abbia fatto altro che crescere grazie a Internet. Ma il cittadino medio è poco legato al mercato azionario e ne ha ricevuto pochi benefici reali.

Per esempio, il seguente articolo di Snopes usa assurdamente il totale del mercato di Apple, Google e altri, come indicazione dell’errore di Krugman:

L’implicazione è che le smisurate ricchezze accumulate da queste aziende, facilitate dal boom di Internet, abbiano in qualche modo migliorato la società, l’umanità o l’economia in generale. In realtà, gli standard di vita dell’uomo comune sono totalmente scollegati dalla valutazione di Apple, e si potrebbe addirittura dire che sonoinversamente proporzionali: mentre le grandi aziende si sono arricchite, noi tutti siamo diventati più poveri per questo; l’era del consolidamento aziendale non ha fatto altro che aumentare la cartellizzazione, danneggiando la concorrenza e distruggendo le economie locali.

Internet ha davvero cambiato il modo di vivere degli esseri umani? Al di là delle movenze superficiali dell’oziare davanti agli schermi degli smartphone, scorrendo cascate di contenuti scialbi, si può sostenere che Internet abbia avuto un effetto reale marginale sulla vita quotidiana. È servito semplicemente come una sorta di surrogato più debole e annacquato di altre cose; siti web pieni di imprecisioni e poco impegnativi come sostituti di contenuti ben realizzati e pubblicati fisicamente, e così via. Ha fornito la comodità di fare certe cose più velocemente: comprare i biglietti del cinema online invece che al cinema. Ma questo cambia davvero qualcosa a livello fondamentale nell’attività umana?

Per molti versi la vita è quasi indistinguibile da quella di trent’anni fa: le persone continuano a svolgere gli stessi compiti, vanno al lavoro, tornano a casa e magari, invece di guardare la TV, scorrono il telefono o guardano Netflix. Invece di fare la spesa nei grandi magazzini, può scegliere di ordinare su Amazon. Si può affermare senza ironia che Internet non ha cambiato quasi nulla e, in effetti, anche i pochi cambiamenti superficiali che ha stimolato stanno probabilmente regredendo, soprattutto perché le persone abbandonano i social network e cercano sempre più una via d’uscita dal panopticon digitale.

Questo è il punto successivo: nella loro gioia di calpestare la predizione, gli apostoli senza fede hanno completamente ignorato la parte più notevole di essa:

“La crescita di internet rallenterà drasticamentela maggior parte delle persone non ha nulla da dirsi!.

E qui sta il problema, che riguarda la nostra discussione sulla metafisica.

I techguru ignorano l’impulso evolutivo umano-biologico di base: assumono un proprio telos distorto della condizione umana, che soddisfa i loro criteri di bias di conferma. È una forma di wishful thinking: vogliono che gli esseri umani siano in un “certo modo” perché quel “modo” coincide con un mondo – o una realtà – chesi adatta all’ideale utopico dei techguru, soprattutto quello in cui sono lodati e riccamente ricompensati per i loro “contributi” all’umanità.

Gran parte degli sviluppi tecnologici della modernità non soddisfano in alcun modo i bisogni umani più elementari, essenziali o fondamentali: l’impulso di cui ho parlato. Le idee sbagliate derivano dagli stessi discepoli del Culto del Progresso che usano la foto ingannevole della disparità di elettricità tra la Corea del Nord e la Corea del Sud dallo spazio come una rubrica definitiva del “Progresso”; è un progresso vuoto e senza significato.

Allo stesso modo, i guru della tecnologia partonosemplicemente dal presupposto che, poiché i dispositivi VR come l’Apple Vision Pro sono una meraviglia tecnologica o un balzo in avanti, questi gadget possiedono innatamente una qualche forma di convalida evolutiva umana; il prodotto è buono perché è innovativo. Ergo, deve essere oggettivamente un’evoluzione naturalmente ordinata del nostro tessuto sociale, senza fare domande.

Ma queste persone sopravvalutano l’essenzialità dei loro aggeggi. Ogni volta che questi gadget hanno fallito, una scusa incorporata li ha sempre attribuiti a qualche problema imprevisto, “senza dubbio” da correggere nelle iterazioni future. Il fallimento non viene mai attribuito alla totale incomprensione dei bisogni e dei valori umani da parte dei techguru. Per esempio, ora si dice che il VR Pro è stato “eccessivamente ingegnerizzato” perché era la prima volta che Apple si cimentava in questa tecnologia e aveva bisogno di attirare le persone con un lancio impressionante. Le future iterazioni probabilmente ridurranno alcune delle cose superflue, rendendo l’unità non solo meno costosa ma anche più attraente in generale. Questa è la quintessenza della mancanza di autoconsapevolezza.

E se vi dicessi che nessuna modifica di questo tipo può salvare questi prodotti? E se, a sua insaputa, la predizione di Krugman avesse rivelato il seme di qualche verità nascosta della vita?

“Le persone non hanno nulla da dirsi!”.

Lasciate che queste parole riecheggino in voi come un fantasma uditivo mentre riflettete sulle loro implicazioni. Nessuna quantità di ornamenti tecnologici può annullare le dinamiche umane fondamentali. Queste spinte del “progresso” cercano di trascinarci in un futuro per il quale gli esseri umani non sono stati progettati e per il quale non hanno alcun interesse innato, al di là della novità superficiale e di breve durata di “stare al passo con i Jones” e del fattore FOMO che ci induce a fare acquisti assenti di robaccia venduta in modo coercitivo e che offre poco significato o miglioramento alle nostre vite.

Parlo per esperienza: sedotto dal primo fattore “wow” dei giocattoli VR, sono diventato l’orgoglioso proprietario di uno dei set più costosi, per poi annoiarmi nel giro di poche settimane e non toccarlo più. Mi ha insegnato qualcosa sull’esperienza umana: per quanto le nostre moderne vite da tabula rasa possano sembrare banali e poco eccitanti, il vaporoso intruglio di questi mondi virtuali sintetici è un pessimo sostituto. Viene da chiedersiache cosa servono esattamentequesti espedienti moderni ?

È proprio quello che si è chiesto Max Read in una recente rubrica:

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Saluti dal quartier generale di Read Max! Nel tentativo di giocare con il formato e di evitare l’incombente burnout, la newsletter di questa settimana presenta tre brevi articoli su articoli recenti o eventi di cronaca. Di seguito troverete alcune riflessioni su: Come pensare e comprendere la divertentissima polemica sul papa nero di Google Gemini…
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A cosa servono i chatbot A.I.?

Devo fare una confessione: Non so davvero a cosa servano i chatbot dell’intelligenza artificiale. Cioè, so che ChatGPT e MidJourney e qualsiasi altra chatbot generativa basata su LLM sono bravi in certe cose – riassumere e organizzare pezzi di testo, per esempio, o generare immagini passabilmente dettagliate di certi tipi – e un po’ meno bravi in altre cose – giocare partite di scacchi complete e coerenti, per esempio – e direttamente pessimi in alcune cose, come citare precedenti legali. Ma in senso più ampio, non ho idea a cosa servano: Quale sia il loro uso ideale, o addirittura cosa la gente voglia da loro. Va bene, perché sono un idiota che non capisce la maggior parte delle cose. Ma ho sempre più il sospetto che anche nessuno dei responsabili di questi chatbot capisca a cosa servono o cosa dovremmo fare con loro.

In sostanza, l’autore si serve della recente debacle di Google Gemini per chiedersi quale dovrebbe essere esattamente lo scopo dell’IA generativa. Nelle fasi iniziali della mania per l’IA, la maggior parte delle persone era troppo accecata dall’eccitazione per la novità superficiale per potersi chiedere. I chatbot erano “divertenti” e creavano “immagini fantastiche”.

Ma ora che abbiamo lentamente iniziato a vedere il lato oscuro di questa tecnologia – la sovversione ideologica, appunto – più persone stanno iniziando a sollevare la questione. È chiaro che le IA non sono concepite come un compendio infallibile di conoscenza enciclopedica, poiché introducono troppi pregiudizi non ammessi, diventando schive o manipolatrici quando le si chiama in causa. Né serviranno mai come motori di bias di conferma totalmente soddisfacenti per i misantropi sempre più squilibrati della sinistra. Per questo motivo occupano l’armadietto delle novità mediocri, non del tutto adatte allo scopo di un compito particolare, che altri strumenti specializzati svolgono meglio.

Accontentando tutti, non accontentano nessuno.

Ma questo porta alla questione più ampia e generale che lega il tutto. Chiedetevi: perché, esattamente, queste IA sono così poco adatte al nostro mondo? Io sostengo: perché la metafisica del mondo è molto diversa dalle bugie che ci sono state insegnate.

I gruppi cosmopoliti e leali delle bigtech cercano di globalizzare l’umanità, cioè di “connetterci tutti”, come predicato all’infinito nelle pubblicità che ritraggono il mondo come una scintillante ostrica comune in cui tenersi per mano e cantare allegramente, mentre “condividiamo” le nostre “storie” e “culture” in un purè di streghe omogeneizzato: l’estasiante visione kalergiana del mondo come un busteefelicemente fiorente .

Dato il fine dichiarato dell’élite tecnocratica, i loro aggeggi nanici, fabbricati nei bui laboratori sotterranei di Palo Alto e di Mountain View, saranno necessariamente progettati per massimizzare l’accelerazione verso questo fine. Ciò significa che i nuovi gadget come il VR Pro dovranno necessariamente rispettare le regole della globalizzazione dei vostri pensieri, delle vostre esperienze, del vostro mondo interno, delle vostre concezioni e, in ultima analisi, della vostra metafisica, per allinearsi a quella della casta dei tecnovampiri submontani, di quegli ingegneri sociali e biotecnologi che si agitano nelle loro tane senza Dio affamate di luce.

Lo scopo di queste cuffie è quello di martellare e plasmare le vostre bio-risposte esperienziali, per rivestirle e pressarle a freddo nella struttura pressofusa adatta a servire la visione predesignata della nuova élite transnazionalista del mondo. In termini pratici, questo significa usare le simulazioni tattili e cinestesiche iper-reali per trapiantarci dalla terra radicata dei nostri antenati e delle nostre memorie biologiche ad altri nomoilontani e alieni , dove possiamo incarnare il perfettamente docile cittadino globale.

Collegare, immedesimarsi, assimilare.

Questa digi-derattizzazione è lo strumento postmoderno perfetto per riscrivere il sacro codice biologico che è stato l’enigma ne plus ultra dell’ultima spiaggia per la classe dirigente.

Ma proprio come il pendolo di Krugman ha oscillato contro logica verso la linea di partenza, così ci sono buone ragioni per credere che le voci di imminenti rivoluzioni della singolarità dell’IA possano essere premature. Così come l’umanità ha in gran parte respinto i tentativi di sprofondare nell’inferno della derattizzazione digitale attraverso una perpetua immersione nel freddo cibernetico, anche la nuova era dei chatbot e degli assistenti personali AGI/ASI “senzienti” potrebbe rivelarsi una novità passeggera.

Non fraintendetemi, è chiaro che le prossime trasformazioni dell’IA lasceranno la loro impronta, influenzando una serie di settori lavorativi e aumentando l’intrusione nelle nostre vite:

Hai chiesto l’AI con lo spazzolino da denti?

Ma ciò che è meno chiaro è quanto effettivamente in modo sostanziale cambierà nel mondo. Molte delle “innovazioni” dell’intelligenza artificiale potrebbero fungere da rumore di fondo e da vetrina, proprio come fa oggi Internet. Come in passato, Internet sembra onnipresente e onnicomprensivo, eppure cosa c’è di veramente diverso oggi, a parte la possibilità di cuocere senza pensieri davanti a un telefono a piacimento?

Potremmo svegliarci nell’anno 2075 e le cose potrebbero sembrare “trasformate” in superficie. I robo-taxi ci pedineranno, i robo-concierge ci segnaleranno per le strade con battute spiritose, i robo-maggiordomi ci delizieranno con storie generative per rasserenare il nostro spirito, le pubblicità saranno interattive e “senzienti” – e sempre più rumorosamente invadenti e fastidiose. Ma cosa sarà effettivamente diverso? Forse non molto.

Per quanto riguarda le cuffie e i mondi virtuali, è molto probabile che l’umanità respinga i pesanti tentativi di cablatura. I nostri valoriinnati, guidati dall’istinto, continueranno a scontrarsi con le trasmutazioni metafisiche imposte dalla “realtà potenziata” dei tecnocrati e dai sogni di connettività globale. Per questi tecnovampiri è fatale il fatto che gli esseri umani, in ultima analisi, hanno esigenze molto più semplici di quelle che si addicono ai loro progetti impetuosi. Le basi del comfort e del sostentamento, la famiglia, la casa e la sicurezza; la cultura generazionale radicata. L’unico modo per deprogrammare questo codice sorgente biologico è quello di sottoporre il sistema a shock massicci e a richiami esogeni di dopamina, per ricablarci dall’esterno. Ma tali stratagemmi probabilmente falliranno, poiché la natura artificiale delle digi-Utopie progettate dai tecnovampiri non sarà mai conforme alle ancore ipostatiche del nostro essere, le cui scaglie generazionali sono saldamente scavate nella nostra carne collettiva.

Senza dubbio, stiamo entrando nella prossima fase del progresso umano. Il tema del prossimo secolo sarà: L’essenza, definendo che cos’è e perché è importante, e poi – per loro – tentandodi decodificarla.

L’essenza è il paradosso finale per i tecnovampiri, l’ultima stringa del codice enigmatico umano, che ha messo in crisi le loro macchine di analisi e i loro congegni cibernetici. L’essenza è eterna e al di là della loro comprensione. È la perla scintillante all’interno dell’ostrica dell’umanità che non sono in grado di sottrarci. Ma nel prossimo secolo, con l’aiuto delle loro superintelligenze artificiali di nuova concezione, la metteranno nel mirino e ci proveranno.

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