Tutto, purtroppo, va come deve andare e la cosa più interessante da commentare in questo articolo di Simplicius è che la valutazione più realistica della situazione strategica viene da Budanov e non da Zuluhzny, nonostante che il primo sia un dirigente di un apparato di sicurezza sicuramente coinvolto in azioni di guerra “illegali”, compresi gravi attentati terroristici del livello del Crocus; mentre il secondo rappresenta il top dell’apparato militare impegnato in azioni di guerra “legali”.
Certamente Budanov descrive la realtà strategica per “ stimolare” maggiore “ sostegno” dagli “sponsor” ma in questo modo non diffonde certo ottimismo come invece cerca comunque di fare Zuluhzny. Ma così Budanov, al contrario di Zuluhzny, pur parlando con “nuora”, forse cerca di dire qualcosa anche a “suocera” ?
E questo fatto non sarebbe sorprendente perché, se pure entrambi, servizi e difesa, siano organi subordinati al un potere “politico “, dovunque questo si situi e quanto legale esso sia, un buon “servizio” deve avere una visione strategica completa su tutti gli elementi che definiscono la sicurezza del sistema e la possibilità di operare nelle “zone d’ ombra”, mentre uno ” stato maggiore è sempre necessariamente incentrato sul “teatro operativo”.
E questa differerenza risulta evidente proprio nei momenti di crisi sistemica.
E’ noto infatti quanto negli anni ’80 il KGB avesse segnalato al Politburo i fattori di crisi sistemica che si addensavano sull’URSS, mentre i vertici militari si focalizzavano solo sui bilanci e lo sviluppo della forza militare; è altrettanto noto che l’intero KGB fu molto “ rapido” ad “adattarsi” al “nuovo corso”, mentre i “militari” rimasero molto più “irrigiditi”, quindi “fuorigioco”.
Questa discrasia non è il prodotto di una maggiore o minore intelligenza ma di un diverso “punto di vista”. Gli eserciti sono, la storia romana ce lo insegna, l’ ultimo organo della stato a ” deperire” rimanendo in grado di funzionare anche quando il sistema è praticamente “morto”; vedi le “inutili” vittorie di Ezio.
E negli anni ’80 lo stato maggiore sovietico infatti fece “opzioni di sviluppo” che, non a caso poi abilmente protette nel caos ” eltsiniano” dai servizi militari russi, sono state poi riprese da Putin e oggi ne costituiscono il suo patrimonio strategico.
I supermissili russi non sono nati ieri, ma “ieri l’altro” quando ancora l’ URSS esisteva.
E non è un caso infatti che questa “nuova” Russia sia poi sorta per l’azione fondamentale di uomini ex-KGB, mentre l’ unica cosa che seppero fare i militari russi per fermare la deriva gorbacioviana fu un putch rapidamente sconfitto perchè i militari non avevano il polso di ciò che la gente realmente pensava.
Infatti senza il favore della gente non si poteva “tornare indietro” anche se “andare avanti “era un “salto nel buio”. E anche se i “politici” non ne erano capaci, “qualcosa” andava fatto; questo i ” servizi” lo sapevano, i “militari” no.
Purtroppo poi in quel “vuoto politico” furono fatte molte ” cose sbagliate”, finché la dura realtà ha creato, nella testa della “gente”, la consapevolezza della necessità di fare arrivare al potere le “persone giuste”.
E qui torniamo all’Ucraina: chi gestirà il “salto ” del post”NATOismo” ucraino? Non c’ è dubbio che il piano-A del Kremlino, nella sua “corsa su Kiev”, contasse sulla rivolta dei militari , cioè in ultima analisi su Zuluhzny e i suoi che per formazione erano tutti militari ex-sovietici.
Ma evidentemente i russi non avevano calcolato che in 8 anni di NATO-ucraina i ” servizi” angloamericani avevano opportunamente “filtrato” l’apparato militare.
Il comando ucraino non era formato da “patrioti” ex-sovietici ma da NATO-collaborazionisti.
E i “servizi” ucraini erano stati ancor più “filtrati”. Ma non si può mettere su un servizio solo di fanatici e opportunisti. Un buon ” servizio” ha bisogno anche di “capaci”, cioè di gente che “vede” e “pensa” da sé e per sé.
E quando collasserà la NATO-ucraina i ” servizi” ucraini saranno certamente i primi a vederlo… e a riposizionarsi!
D’altronde è già successo durante il collasso dell’URSS e quello di Germania ed Italia. Non sono ancora oggi i “nostri” servizi la “longa manus “ dei nostri vincitori di allora?
Budanov non è stupido! Sa che la NATO-ucraina collasserà prima o poi e ci sta forse accennando che non ha ancora deciso se seguire la massa dei NATO collaborazionisti emigrando dove già ci sono i loro “conti esteri” o invece vedere se sia possibile per lui qualcosa d’altro “in patria”.
Daltronde, per tentare di sopravvivere nel distopico futuro che ci hanno preparato i globalisti, tra i popoli torneranno di moda le “autocrazie” o “fascismi” secondo la mitologia piddina.
E qualcuno dovrà pure gestire ciò che resterà dell’ Ucraina; di sicuro, Putin ce lo insegna, un ex- agente dei servizi sarà meglio qualificato di un “ex-attore, no?
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I russi – Putin, Lavrov e altri alti funzionari – sono stati estremamente pazienti, per non dire a lungo sofferenti, quando si è trattato di provocazioni militari sconsiderate e retorica esagerata da parte degli anglo-sionisti. Ora Trump sta rendendo estremamente ovvio che quando ha detto alla Corte Suprema che aveva bisogno di imporre dazi al mondo a causa di un’emergenza di deficit, li stava completamente manipolando. I dazi riguardano solo marginalmente il deficit. La mia ipotesi è che ci siano tre voti garantiti alla Corte Suprema contro il permesso al Presidente di mentire loro in questo modo, e che quando i casi sui dazi arriveranno alla Corte Suprema è del tutto possibile che a quei tre se ne aggiungano almeno altri due che riconosceranno che i dazi devono essere votati dal Congresso.
I dazi sono chiaramente intesi come una mazza per disgregare i BRICS, costringendo così il resto del mondo a baciare il culo a Re Dollaro per sempre. Questo è il significato dell’accorciamento della “scadenza” delle sanzioni/dazi da 50 a 10 giorni. Nel bel mezzo dei negoziati con Cina e India, Trump ha annunciato sanzioni nei loro confronti se non abbandonano la Russia, ovvero se non partecipano alla disgregazione dei BRICS. Sia la Cina che l’India, unite dal Brasile, stanno dicendo a Trump di farsi da parte, e hanno carte forti da giocare.
Questo, unito all’imminente sconfitta di Trump in Ucraina, ha messo Trump di cattivo umore e, come se ce ne fosse bisogno, lo ha portato a ingaggiare una discussione verbale molto sconsiderata con Dmitry Medvedev (Putin sta semplicemente ignorando le dichiarazioni di Trump a questo punto). Il risultato sembra essere un segnale da parte russa che sta finalmente perdendo la pazienza.
DD Geopolitica @DD_Geopolitica
 Trump attacca duramente India e Russia , affermando che “non gli importa cosa fa l’India con la Russia” e definisce le loro economie “morte”.
Poi minaccia Medvedev e lo avverte che sta “entrando in un territorio molto pericoloso”.
23:28 · 30 lug 2025
Ciò ha spinto Medvedev a rispondere così:
DD Geopolitica @DD_Geopolitica
Dmitry Medvedev ha risposto a Donald Trump:
“In merito alle minacce di Trump nei miei confronti sulla sua rete personale Truth Social, alla quale ha vietato l’utilizzo nel nostro Paese:
Se poche parole di un ex presidente russo provocano una reazione così nervosa nel presunto potente presidente degli Stati Uniti, allora significa che la Russia ha assolutamente ragione e continuerà sulla strada scelta.
E per quanto riguarda il discorso sulle “economie morte” di India e Russia o sull'”ingresso in territorio pericoloso”, lasciate che ricordi i suoi film preferiti sui “morti che camminano” e anche quanto possa essere pericolosa la mitica “Mano Morta”.
02:00 · 31 lug 2025
Scott Ritter spiega di cosa sta parlando Medvedev: la Mano Morta:
https://x.com/i/status/1950839900112371771
Scott Ritter @RealScottRitter
IL PERICOLOSO SCAMBIO DI PAROLE TRA TRUMP E MEDVEDEV
Mentre la retorica si fa più accesa, dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze.
Il duro scambio di battute tra il presidente Trump e l’ex presidente Medvedev sottolinea quanto siano diventati pericolosi i rapporti sempre più deteriorati tra Stati Uniti e Russia.
Le minacce promulgate non sono vane.
Il presidente Trump è rimasto affascinato dalla soluzione israeliana “Nasrallah”: la decapitazione della leadership e la rottura dei quadri intermedi, progettate per provocare il rapido collasso di un governo/sistema.
È stato tentato, ma è fallito, in Iran.
Ma Trump è consigliato dai russofobi, convinti che gli Stati Uniti possano attuare con successo un piano del genere contro la Russia.
Questo piano inizia con le sanzioni, come tutti i piani simili.
Si conclude con un attacco di decapitazione su Mosca.
Credo che Scott abbia assolutamente ragione nel dire che questa conversazione tra Trump e Putin, presumibilmente avvenuta durante la presidenza Trump e Putin durante la presidenza Trump 1.0, è una pura invenzione, una pura fantasia. Ma rivelare tali fantasie ai propri interlocutori geopolitici è imprudente e pericoloso:
La conversazione immaginata da Trump con Putin, in cui minacciava di “bombardare Mosca a tappeto”, è indicativa del pensiero del Presidente a questo proposito.
L’attacco di decapitazione preferito viene effettuato utilizzando bombardieri B-52 che lanciano missili da crociera, accompagnati da missili Trident lanciati da sottomarini di classe Ohio operanti al largo delle coste della Russia, consentendo una traiettoria di volo più piatta e tempi di volo più brevi.
Il commento di Medvedev sulla “Mano morta” indica che la Russia è ben consapevole dei piani di Trump.
Il “Dead Hand”, o sistema Perimeter, è un meccanismo/piano di sicurezza di lunga data che garantisce una rappresaglia nucleare su vasta scala nel caso in cui una nazione sia così sciocca da tentare un attacco di decapitazione.
Risale all’epoca sovietica, quando uno speciale reggimento di missili SS-20 era dotato di dispositivi di trasmissione radio al posto delle testate nucleari. Questi missili venivano lanciati trasmettendo codici di lancio che avrebbero indirizzato tutte le armi nucleari strategiche ai loro obiettivi, anche se Mosca fosse stata distrutta.
Non si trattava di teoria: nel mio libro Disarmament in the Time of Perestroika , descrivo come i sovietici trasferirono questa capacità al sistema SS-25, una volta eliminato l’SS-20 in base al trattato INF.
Oggi questa missione è gestita da un reggimento speciale di missili SS-27.
Ci sono altri componenti della “Mano Morta”.
Il fatto che Medvedev ne abbia parlato è un promemoria non proprio gentile rivolto a Trump e ai suoi pianificatori: pensare a un attacco preventivo con decapitazione contro la Russia è un suicidio.
Speriamo che questo messaggio arrivi.
Altrimenti, l’allusione a “The Walking Dead” fatta da Medvedev sarà il futuro degli Stati Uniti e del mondo.
06:44 · 31 lug 2025
A sette mesi dall’inizio del Trump 2.0, sembra proprio che la Russia si stia stufando di Trump. Non è una buona cosa. È pericolosa, perché sta spingendo la Russia alla conclusione che l’aggressione anglo-sionista possa essere fermata solo con una seria punizione.
Larry Johnson ha pubblicato due immagini che la dicono lunga sulla posizione di Trump, che continua ad ascoltare fanatici e idioti. Le immagini parlano da sole:
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Donald Trump afferma di aver parcheggiato i sottomarini nucleari più vicino alla Russia dopo una lite con il collega appassionato di bronzer Dmitry Medvedev. Il Pentagono sembra aver minimizzato i suoi commenti, rispondendo che “si rimette” alle sue dichiarazioni, il che è un modo carino per dire: “Non abbiamo spostato nessun sottomarino, ma diamo solo al piccolo Donnie il suo spazio di sfogo”. Persino il fanatico della guerra John Bolton ha dovuto ammettere che la mossa era una farsa:
Naturalmente, la vera motivazione dell’atto era la necessità di Trump di caricarsi a causa dell’insicurezza derivante dalla sua percepita debolezza e dall’incapacità di far avanzare di un millimetro la Russia sul fronte dei negoziati e della cessazione delle ostilità. Aveva bisogno di dimostrare la sua “forza”, anche se lo ha fatto in un modo che segnala esattamente l’opposto.
Trump ha fatto scalpore anche con la sua dichiarazione sulle incredibili perdite russe, sostenendo che la Russia subisce 20.000 morti al mese:
Ciò fornì materiale di partenza per diversi cicli di notizie della propaganda pro-UA sulle ingenti perdite russe. Fu una scossa necessaria per alimentare le loro speranze, convincendoli essenzialmente che l’attuale situazione al fronte non è così catastrofica come sembra, perché la Russia prima o poi finirà per esaurire gli uomini:
Ma molti importanti analisti ucraini erano scettici:
Lo stesso giorno, la figura dell’ucraina Maria Berlinska ha pubblicato un elenco piuttosto contrastante delle perdite per l’AFU:
Quanto sopra è difficile da leggere, ma lei scrive:
Uccisi ogni giorno: fino a 300 Feriti: fino a 750 AWOL: fino a 500
In breve, scrive che, secondo le sue stime, l’Ucraina perde 26.500 persone ogni mese, ovvero 318.000 all’anno, mentre la Russia ne guadagna 9-10.000 al mese e 120.000 all’anno. Stima che 159.000 all’anno siano le perdite più pesanti per l’Ucraina, ovvero morti e mutilati. I dati ucraini affermano ancora che l’AFU “recluta” tra i 15.000 e i 25.000 uomini al mese, quindi le perdite mensili di circa 26.000 potrebbero rappresentare una perdita netta di circa 10.000 uomini, oppure un pareggio di bilancio, a seconda dei punti di vista. Entrambe le stime sono letali per l’Ucraina, dato che persino lo stesso Zelensky ammette che la Russia guadagna più di 100.000 uomini all’anno in termini di forza lavoro netta totale. Anche se l’Ucraina si limitasse a pareggiare i suoi uomini, il divario di forza lavoro aumenterà sempre di più ogni anno, fino a quando l’Ucraina non sarà completamente sopraffatta. Ma ovviamente: è qui che entra in gioco il piano segreto della NATO di coinvolgere la Russia in un’altra guerra con i Paesi baltici o con qualcun altro, al fine di bloccare quelle forze aggiuntive. Se entro il 2027 la Russia avrà 300.000 uomini in più dell’Ucraina ma dovrà inviarli in Lituania, allora il fronte ucraino manterrà la parità.
Per quanto riguarda le cifre di Trump, sappiamo già che la “comunità di intelligence” statunitense a questo punto inventa letteralmente numeri. Thomas Massie ci aveva già parlato dei comici “incontri riservati” in cui le vittime ucraine sono elencate come “sconosciute”.
Anche Budanov comincia a vedere il futuro segnato, ammettendo che probabilmente saranno la NATO e l’UE a crollare, non la Russia:
“Sebbene io detesti il signor Surkov (ex assistente del Presidente della Russia) per tutto ciò che ha portato qui, temo che questo sia uno degli scenari possibili se tutto rimane com’è adesso”, ha detto Budanov, riconoscendo così che anche i suoi oppositori potrebbero avere ragione.
A proposito, dite quello che volete di Budanov, ma col passare del tempo diventa sempre più onesto ed è una delle poche figure ucraine le cui parole dovrebbero essere ascoltate e potenzialmente affidabili. Non mente a piacimento per il bene dello Stato, anche quando l’occasione si presenta facilmente. Ricordiamo che, quando Navalny morì, andò controcorrente ammettendo che Putin non lo aveva “ucciso” in prigione, come volevano far credere i media prostitutisti a buon mercato. Invece, affermò chiaramente che Navalny era effettivamente morto di problemi cardiaci e che le notizie russe al riguardo erano accurate. Allo stesso modo, di recente ha concordato con Putin sul fatto che ovunque un soldato russo metterà piede rimarrà territorio russo e che l’Ucraina non lo riavrà mai indietro, scegliendo di sbarazzarsi delle assurdità scioviniste a buon mercato sul “restituire” tutto ciò che così spesso consuma i sostenitori ciechi.
Ecco perché l’altra dichiarazione di Budanov, contenuta nella nuova intervista, è ancora più rivelatrice. La sua risposta, lunga e contorta, delinea essenzialmente la probabilità che l’Ucraina, come nazione, possa presto essere cancellata dagli annali della storia se gli eventi continuano nella direzione in cui si stanno dirigendo:
Detto questo, passiamo subito agli aggiornamenti in prima linea, mentre le cose continuano ad accelerare verso la conclusione naturale di alcune importanti battaglie combattute da tempo.
Pokrovsk rimane l’obiettivo principale, mentre gli sforzi russi si intensificano. Oggi abbiamo filmati geolocalizzati di truppe russe che camminano tranquillamente attraverso le zone meridionali della città vera e propria, il che indica che ormai la resistenza è scarsa:
Geolocalizzazione: 48.27223 37.15417
È probabile che la città verrà in qualche modo divisa in due e che le parti orientali saranno conquistate per prime.
Ma in realtà, l’avanzata più urgente si è spostata verso l’estremità orientale del fronte, dove le truppe russe stanno avanzando per isolare Mirnograd. Sebbene non sia stato ancora del tutto verificato, gli ultimi aggiornamenti riportano che le forze russe hanno catturato sia Dorozhne che Sukhetske, il che le avvicinerebbe ulteriormente alla conquista della principale via di rifornimento locale:
Come si può vedere, Novoekonomichne e le aree circostanti sono state recentemente conquistate dalle forze che avanzavano da est. Gran parte di ciò ricorda molto la battaglia di Avdeevka attraverso la ferrovia vicino a Stepove e giù verso il terrikon. A parte questo, come si può vedere ora, le forze russe si stanno muovendo molto più velocemente, senza subire perdite degne di nota, e la resistenza ucraina non è più particolarmente tenace attorno a una città-fortezza così importante.
Analizzando da una prospettiva più ampia, la strategia potrebbe essere quella di svoltare a sud lungo la strada e tagliare per prima la strada a Mirnograd, in modo da provocarne rapidamente il crollo totale, lasciando solo Pokrovsk da conquistare:
Potrebbero addirittura unirsi al gruppo che divide in due Pokrovsk per chiudere l’eventuale calderone.
I soliti noti strillano:
A proposito, ecco una prospettiva interessante per coloro che si chiedono cosa significhi realmente la caduta dell’agglomerato di Pokrovsk-Mirnograd.
Ricordiamo che Avdeevka era essenzialmente la linea del fronte dall’inizio o dalla metà del 2022. Da quel momento in poi, Avdeevka è stata lentamente conquistata e conquistata, con l’ultimo tentativo di conquista iniziato nell’ottobre 2023 e culminato intorno a febbraio 2024:
Ma dopo la caduta di quella fortezza, ci vollero solo otto mesi circa per conquistare l’intera area da Avdeevka all’agglomerato di Pokrovsk. All’epoca, gli analisti scrissero che, dopo la caduta di Avdeevka, la Russia avrebbe invaso rapidamente gli insediamenti più piccoli e i campi deserti, e questo è più o meno quello che accadde.
Ora, lo stesso vale per Pokrovsk: l’area è stata contesa dalla fine dell’anno scorso, ma una volta conquistata, la steppa “deserta” da lì a Pavlograd potrebbe essere inghiottita in mesi. Certo, da Avdeevka a Pokrovsk ci sono circa 40 km e da Pokrovsk a Pavlograd circa il doppio, ma allo stesso tempo si può dire che l’AFU sia doppiamente debole rispetto ad allora e stia perdendo territorio a un ritmo molto più rapido.
In effetti, il WSJ ha appena pubblicato un articolo sulla linea di difesa senza precedenti che l’Ucraina sta cercando frettolosamente di costruire dietro questa linea del fronte come baluardo proprio contro questa futura avanzata:
https://archive.ph/yplbU
Ma anche il WSJ non ha accolto con entusiasmo le prospettive dell’ambizioso progetto:
…fortificazioni che il Paese scommette di poter piazzare in modo rapido e sufficientemente distante da fermare l’offensiva estiva russa. Ma la scommessa difensiva si scontra con probabilità sempre più basse.
Giunto ormai al suo secondo anno, il più ampio programma in prima linea è stato afflitto da ritardi, attacchi e arresti per presunta corruzione. Ora rischia di essere travolto dal nemico che sta cercando di respingere.
Nel goffo tentativo di seguire gli ordini editoriali di minimizzare i guadagni russi, l’articolo si imbatte in una contraddizione esilarante:
La sfida è contenere un esercito russo rafforzato da migliaia di nuove reclute che Mosca sta mandando in battaglia solo per ottenere vantaggi minimi o simbolici. Le unità ucraine, a corto di personale, faticano a difendersi dall’assalto, mentre la Russia cambia tattica ogni giorno e si appropria lentamente del territorio.
Quindi, questi “piccoli” e “simbolici” guadagni stanno rendendo necessario il più colossale – secondo il resoconto del WSJ – progetto di fortificazione difensiva dell’intera guerra? Che senso ha mettersi in imbarazzo e screditarsi in questo modo? Se l’Ucraina si sta affrettando a creare vaste trincee, è chiaramente per una ragione.
L’articolo sottolinea che l’Ucraina ha speso il 2% dell’intero bilancio militare del 2024 solo per queste fortificazioni, e il bilancio del 2025 è ancora più grande .
Successivamente, le forze russe fecero notevoli progressi sul fronte di Krasny Liman, conquistando e conquistando la parte meridionale di Torske:
Di nuovo abbiamo il filmato geolocalizzato di un’alzabandiera da parte del 36° reggimento fucilieri motorizzati russo del 25° CAA:
02.08.25 Krasny Liman – Torskoe
Conseguenze delle operazioni di combattimento nella zona di Krasny Liman.
I militari delle Forze armate russe issano la bandiera della Federazione Russa nella parte meridionale di Torskoe, confermando il controllo sicuro della parte occupata dell’insediamento da parte delle Forze armate russe.
Avanzamento delle Forze Armate russe per oltre 2,5 km attraverso edifici residenziali a Torskoe.
Geo: 48.98944, 37.97611
Il significato di ciò è che le forze russe si stanno avvicinando sempre di più a Krasny Liman, che è l’ultima fortezza principale che porta a Slavyansk:
Poco più a nord, le forze russe sono avanzate anche verso sud:
Su un fronte vicino, dobbiamo apportare una correzione. Nell’ultimo rapporto ho pubblicato un video dell’AFU in cui sostenevo di aver sventato una maldestra avanzata russa sul fronte di Seversk. In realtà, sembra che l’assalto corazzato russo abbia avuto successo, perché oggi abbiamo avuto la conferma del consolidamento delle posizioni russe appena fuori Seversk:
Un’ultima cosa interessante: una bomba russa Fab-3000 avrebbe colpito il ponte Kherson Ostrovska:
Oltre al notevole miglioramento della precisione della bomba, dobbiamo dire che l’evento ha dimostrato perché i ponti, almeno quelli sovietici, sono così difficili da abbattere:
Ma la cosa più interessante è che questo è l’unico ponte che collega l’intera regione isolata alla terraferma di Kherson, il che significa che le forze russe lo bloccheranno completamente se e quando riusciranno a completare il ponte.
Ciò potrebbe significare che le forze russe potrebbero prepararsi a iniziare la conquista a tappe di Kherson. Ricordiamo le ultime parole dell’ufficiale ucraino secondo cui, con l’andamento delle cose in quel settore, la Russia potrebbe finire per assaltare la riva destra, dato che le perdite ucraine stanno aumentando lì e ci sono continue segnalazioni secondo cui le squadre di droni russi stanno di fatto bloccando le unità ucraine con attacchi costanti.
Leggi qui di seguito il racconto di un leader della comunità ucraina di Kherson:
—
Alcune ultime cose degne di nota.
Durante il pellegrinaggio con Lukashenko a Valaam, Putin ha rilasciato alcune dichiarazioni interessanti. Innanzitutto, ha ironicamente corretto Lukashenko, affermando che la Russia non sta “conquistando” il territorio ucraino, ma piuttosto “restituendo” ciò che già le appartiene:
Putin ha anche affermato che la Russia non ha “fretta” di negoziare e che se l’Ucraina non è ancora pronta a soddisfare le richieste russe, allora la Russia può attendere volentieri i negoziati:
È chiaro che Putin non ha ancora ricevuto il messaggio secondo cui la Russia si troverà presto a corto di uomini e carri armati.
Ha anche condiviso la sua prospettiva sulla sovranità e su come il vero obiettivo dell’OMS sia la lotta della Russia per il futuro della propria sovranità, per non finire come i paesi dell’Unione Europea che l’hanno abbandonata, con conseguenti perdite economiche catastrofiche. Questo perché, una volta persa la propria sovranità, si diventa vassalli economici di uno stato “padrone”: l’intero scopo della geopolitica, in ultima analisi, è il dominio economico, dopotutto:
—
Zaluzhny ha anche offerto un’interessante prospettiva sullo sviluppo futuro della guerra, osservando che, a suo parere, la situazione di stallo tecnologico verrà superata entro tre anni, anche se non ha specificato da chi:
Alla fine, conclude – per quanto possa sembrare assurdo ai più – che ciò di cui l’Ucraina ha più bisogno ora non è la manodopera, ma i “cervelli” per sviluppare le future innovazioni tecnologiche che presumibilmente porteranno alla sconfitta della Russia. A quanto pare, la sua strategia principale si basa sul superare la Russia in termini di innovazione al punto che persino un’Ucraina gravemente sottodimensionata possa vincere una guerra di logoramento a lungo termine. Ma quando il tuo Paese non ha più imprese e deve affidarsi a terzi per costruire praticamente tutto, un simile pio desiderio è un’impresa ardua.
—
Infine, l’ultra-globalista Christine Lagarde esprime le sue impressioni sulle differenze tra lavorare con Putin e con Trump, il che sicuramente solleticherà molti:
Il vostro supporto è inestimabile. Se avete apprezzato la lettura, vi sarei molto grato se vi impegnaste a sottoscrivere una donazione mensile/annuale per sostenere il mio lavoro, così da poter continuare a fornirvi resoconti dettagliati e incisivi come questo.
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Il giornale svizzero è serafico sull’accordo commerciale USA-UE. Da quando Trump ha scatenato il conflitto sui dazi ad aprile, è stato chiaro che l’UE non vuole un’escalation nelle sue relazioni con gli Stati Uniti. Al contrario, l’UE sembra sempre più intenzionata a riavvicinarsi al suo vecchio alleato, e la visita della von der Leyen a Pechino la scorsa settimana sembra essere un’esperienza chiave. “L’elenco dei problemi si è allungato”, ha dichiarato lunedì Sefcovic, commissario europeo, “l’accordo di domenica potrebbe essere il punto di partenza per una nuova cooperazione strategica con gli Stati Uniti. I colloqui hanno apparentemente dimostrato che, sebbene l’UE dipenda dagli Stati Uniti dal punto di vista militare, gli Stati Uniti dipendono anche dagli europei in alcuni settori”. Con questa affermazione, Sefcovic ha ovviamente corteggiato anche il favore strategico degli Stati Uniti. Tuttavia, resta ancora molto da vedere. Sebbene l’UE e gli USA discutano da mesi di questioni commerciali, il Presidente Trump non ha intenzione di occuparsi dei dettagli; ciò che conta per lui è il livello delle tariffe e le promesse di investimento dei partner commerciali. Ha ricevuto entrambe le cose. Nulla è stato ancora messo per iscritto. Gli Stati Uniti e l’Unione europea redigeranno ora una dichiarazione congiunta e non si possono escludere nuove sorprese.
29 luglio 2025 L’UE corteggia il favore degli USA nonostante i dazi elevati L’accordo commerciale dovrebbe portare a un nuovo inizio nelle relazioni transatlantiche Di DANIEL IMWINKELRIED, BRUXELLES L’umore a Bruxelles e nelle capitali europee è stato contrastante da quando è stato reso noto l’accordo di massima raggiunto domenica sera tra la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Proseguire cliccando su:
Secondo le leggi di Donald Trump, il fatto che domenica sia stato gentile con la Presidente della Commissione europea deve essere considerato un successo. Tuttavia, l’ha umiliata, costringendola Ursula a un accordo che moltiplica le tariffe medie statunitensi sulle merci europee e che contiene ben poco di favorevole per gli europei. In questo modo, il presidente è riuscito a mettere in cattiva luce l’Europa, l’UE, che considera comunque un’organizzazione di fregatura, riservandosi il diritto di introdurre in futuro tariffe separate. Un alto funzionario dell’UE ha dichiarato lunedì che non saranno superiori al 15%. Tuttavia, con Donald Trump come partner negoziale, si tratta di una cifra di facciata e non è chiaro come funzionerà il sistema. Questo può essere compreso solo se si tiene conto della minaccia di Trump di imporre una tariffa d’importazione del 30% sui prodotti dell’UE senza un accordo. Il ricatto ha funzionato. Il giorno dopo, in Europa c’è stata una grande disillusione, unita alla convinzione che non si sarebbe potuto ottenere nulla di più. La verità è che l’UE, i cui rappresentanti amano agire come guardiani del commercio globale basato sulle regole, sta accettando un accordo che contraddice le loro regole preferite in quasi tutte le sue manifestazioni. Cosa succederà ora?
29.07.2025 L’Europa si ritira C’è grande delusione dopo l’accordo doganale che Ursula von der Leyen ha concordato con Donald Trump. Critiche aspre sono giunte dalla comunità imprenditoriale. Ma si poteva ottenere di più?
Accordo doganale con gli USA Supplementi del 15% su quasi tutte le merci provenienti dall’UE – è visto come una vittoria di Donald Trump. Tuttavia, in Europa si sentono anche voci positive. Per proseguire clicca su:
Alla luce dell’accordo commerciale appena concluso tra l’UE e il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump qualcuno potrebbe pensare: un’intesa con Trump è certamente possibile! Chiunque lo creda davvero non tiene conto di una cosa: la soluzione provvisoria della controversia commerciale tra il Presidente degli Stati Uniti e la Commissione europea non è affatto un accordo su un piano di parità. La Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha subito un ricatto affinché si astenga dal minacciare di imporre tariffe alle aziende europee. Non è chiaro quanto durerà e quando seguirà il prossimo ricatto. L’UE non sta solo accettando tariffe asimmetriche a scapito degli esportatori europei. Si sta anche impegnando a investire centinaia di miliardi di dollari negli Stati Uniti e ad acquistare dagli USA combustibili fossili come il gas naturale liquefatto per un valore sbalorditivo di 750 miliardi di dollari nei prossimi tre anni – quasi il quadruplo rispetto al passato. Peggio di questi dazi è il cambio di paradigma che si è verificato: questo accordo è ben lontano da quella che gli economisti chiamano “politica commerciale basata sulle regole”. Ma è proprio questo che l’UE voleva salvare. Trump ha attuato appieno la sua logica contorta di affarista. Sta imponendo la sua volontà all’UE.
29.07.2025 La rabbia doganale raggiunge l’Europa Donald Trump impone le sue condizioni all’UE nell’accordo sui dazi – e la presidente della Commissione von der Leyen si sottomette. Quale prezzo dovranno pagare la Germania e gli altri Paesi?
Addio alla politica commerciale basata sulle regole È possibile, potrebbe pensare qualcuno alla luce dell’accordo commerciale appena concluso tra l’UE e il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump: un’intesa con Trump è certamente possibile! Proseguire cliccando su:
Nonostante appelli drammatici, il governo tedesco si attiene al suo piano di deportazione in Siria. Lo dimostra una risposta del 22 luglio del Ministero degli Esteri federale a un’interrogazione parlamentare del Partito della Sinistra. In essa si afferma che il governo tedesco ha un grande interesse nel successo del “processo di transizione politica” in Siria. “La situazione dei diritti umani e delle minoranze in Siria è un argomento ricorrente nei colloqui con il nuovo governo siriano”. Allo stesso tempo, il Ministero degli Esteri federale dichiara di sostenere i Paesi responsabili delle espulsioni e di “lavorare per facilitare i rimpatri”. Cansu Özdemir, portavoce per la politica estera del gruppo parlamentare di sinistra, che ha posto l’interrogazione e organizzato l’incontro al Bundestag, ha commentato: “È scandaloso che il governo tedesco voglia normalizzare in questo modo il governo islamista di transizione, anche se Ahmed al-Sharaa e i suoi gruppi terroristici stanno attualmente massacrando la comunità religiosa drusa”. “Le richieste di asilo siriane erano basate sulla persecuzione da parte del regime di Assad e sulla guerra civile, questi motivi di protezione sono stati rimossi”, ha dichiarato Alexander Throm (CDU), portavoce del gruppo parlamentare CDU/CSU.
28.07.2025 Voli di deportazione in Siria: la delicata missione del governo Nonostante il massacro dei drusi, il governo tedesco si attiene ai suoi piani di deportazione nel Paese. La procedura è simile all’accordo segreto con il regime talebano in Afghanistan.
DI PHILIPP WOLDIN E KEVIN CULINA Suweida è nota per la tranquillità, la tolleranza religiosa e la coesistenza pacifica, dice Evlin Assaf in una grande sala conferenze del Bundestag a Berlino a proposito della provincia siriana meridionale. Proseguire cliccando su:
Ampio ventaglio di cronache e commenti sul quotidiano di Francoforte. Alla radice, emerge che chiunque oggi pensi che l’Europa debba trasformarsi rapidamente in una grande potenza di fronte agli sconvolgimenti geopolitici vive nel mondo dei sogni. È in questo contesto autoinflitto che va giudicato l’accordo tra l’Unione europea e gli Stati Uniti nei negoziati commerciali. Assomiglia a una limitazione dei danni, ma nemmeno gli europei sono riusciti a fermare il presidente americano, simile a un rullo compressore, nel suo tentativo di distruggere l’ordine liberale del commercio mondiale. Gli Stati Uniti sono la prima potenza economica, ma non sono onnipotenti e sono vulnerabili di fronte al declino dell’industria e all’aumento del debito nazionale. Trump è comunque riuscito a far apparire i suoi partner negoziali come dei deboli. Dopo l’accordo, alcuni commentatori si chiedono se un approccio più aggressivo da parte di Bruxelles avrebbe portato risultati migliori. A differenza di Pechino, un’Europa militarmente vulnerabile che continua ad avere bisogno della NATO non può permettersi un duro conflitto commerciale con Washington per motivi di politica di sicurezza. Gli accordi che l’amministrazione Trump sta cercando di ottenere con l’UE e che ha recentemente concluso con il Regno Unito e il Giappone sono l’espressione di un ricatto, non la base per una cooperazione prospera. L’Unione europea, in qualità di principale negoziatore per gli Stati membri, difficilmente avrebbe accettato un accordo del genere in circostanze normali.
29 luglio 2025 Aspre critiche all’accordo doganale UE con Trump Parigi: sottomissione dell’Europa / Industria tedesca: tariffa base del 15 per cento dolorosa
t.g./wmu/loe./mic. Bruxelles/Berlino/Parigi.
L’accordo tra gli Stati Uniti e la Commissione UE per evitare una guerra tariffaria è stato accolto da ampie critiche in Europa. il primo ministro francese François Bayrou ha descritto l’accordo tariffario come una “sottomissione dell’UE”. Proseguire cliccando su:
La notizia della “conclusione” della trattativa USA-Europa sui dazi ha – come era prevedibile – alzato i toni del confronto politico, così come della confusione che approcci ideologici e comunque settoriali comportano. Qualche settimana fa provavo a valutare i comportamenti degli attori nella trattativa sulla base di regole (e costanti) politiche, a lato di quelle più invocate, economiche, ed ora, anche se sullo sfondo, alle conseguenze sociali. Ci riprovo ad individuare gli idola taluni sfornati da tempo e ora aggiornati.
Il primo è la cattiveria (e l’ignoranza) di Trump. Il quale, secondo i suoi detrattori, ha il vizio capitale: a) di agire per conseguire l’interesse (del popolo) americano, e b) di non applicare idee di qualche Balanzone di regime, colme di buone intenzioni e condite da zuccherosi appelli.
A cui bisogna notare che da qualche secolo (o anche di più) si ritiene che il governante capace sia quello che realizza l’interesse della comunità, e non quello che predica bene e anche quando razzola altrettanto bene, non consegue il reale interesse comunitario (un tempo chiamato – o meglio sussunto –al bomun commune).
Al riguardo gran parte dei commentatori concorda sul fatto che l’accordo è più vantaggioso per gli U.S.A.. Non sono in condizione di giudicare, specie a lungo termine, né i benefici né le perdite. Sta di fatto che se Trump ha “messo nel sacco” la baronessa, bisogna ammettere che è stato bravo: se qualcuno sceglie un mediatore per trattare lo vuole fedele e capace, non uno sprovveduto remissivo. Di questo tipo di governanti ne abbiamo avuti tanti in Italia (e qualcuno anche in Europa): da chi vagheggiava di un’economia renana al “ce lo chiede l’Europa” per giustificare la loro arrendevolezza senza assumersene la responsabilità (si sa che servilità e viltà vanno quasi sempre a braccetto). Così che tacciare il Tycoon di aver messo l’Europa nel sacco conseguendo vantaggi per gli americano è fargli un complimento.
Terzo: non è che a indebolire l’Europa nel negoziato è stato proprio quello che il vicepresidente Vance aveva rimproverato ai governanti europei: di aver perso il consenso dei propri elettori? Come mi è capitato di sostenere, questo è uno dei fattori di potenza del governo: il sostegno non unico, ma principale che assicura la coerenza tra vertice e base, governanti e governati. Se l’avversario sa che è dubbio o carente, ne approfitta, nei frangenti estremi muovendo guerre, in altri facendolo pagare nelle trattative. Nella specie ha concorso con la frammentazione istituzionale dell’U.E., potenziandone gli inconvenienti.
Quarto: sarebbe colpa dei sovranisti. Questo non si capisce proprio (se c’è qualcosa da capire in un’affermazione di propaganda di bassa categoria). Se è sovranista Trump e riporta tale successo, il fascino del sovranismo dovrebbe crescere. La tesi è comunque quanto mai debole per più ragioni.
La prima è che a condurre la trattativa è stata la Von der Leyen, dato che la competenza (giuridica) appartiene alla Commissione U.E. (pare), il tutto tra gli strepiti dei centrosinistrati nazionali i quali l’hanno invocata quale migliore dei negoziatori possibili.
Ma se la Von der Leyen ha il potere (di negoziare) ha pure la responsabilità del negoziato: il nesso tra potere e responsabilità è un nesso naturale (e quanto mai opportuno); cosa che i centrosinistrati carichi di battaglie perse e risultati negativi vedono come l’orco i bimbi.
In secondo luogo, dato che il tutto costituisce, a prenderlo sul serio, un tradimento, occorrerebbe qualche prova del fatto o almeno indicare un qualche interesse a favorire l’arcinemico Trump. Ma delle prime non ce n’é, e del secondo, non si capisce quale vantaggio ricavi Orban o la Meloni dal favorire gli interessi americani, a scapito di quelli nazionali.
A cercare una spiegazione più aderente alla realtà è che la debolezza istituzionale e politica dell’Unione si ripercuote sui rapporti internazionali, dazi americani compresi. Neppure usare la baronessa come capro espiatorio, addebitandole responsabilità maggiori di quelle – istituzionali – che le competono è condivisibile,. Se un’entità politica ha poco potere, di conseguenza ha poco diritto, come sosteneva Spinoza: tantum juris quantum potentiae.
E chi la rappresenta ha mezzi modesti, non superiori ai risultati.
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Potrebbero aspettare che la Russia accetti un cessate il fuoco (se mai accadrà), poiché sostituirlo con Zaluzhny mentre le ostilità sono ancora in corso potrebbe indebolire ulteriormente l’Ucraina a vantaggio della Russia.
Il servizio di intelligence estero russo (SVR) ha pubblicato un rapporto a fine luglio in cui si afferma che l’Asse anglo-americano ha organizzato un incontro segreto sulle Alpi con il Capo di Stato Maggiore di Zelensky , Yermak , il capo del GUR Budanov e l’ex Comandante in Capo, ora Ambasciatore in Gran Bretagna, Zaluzhny, sul futuro dell’Ucraina. Secondo loro, Yermak e Budanov avrebbero concordato con la proposta dell’Asse anglo-americano di sostituire Zelensky con Zaluzhny, proposta che potrebbe essere avanzata con pretesti anticorruzione e “ripristinare” i legami dell’Ucraina con l’Occidente.
Sputnik ha condiviso la seguente valutazione del rapporto dell’SVR da parte dell’ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei Marines degli Stati Uniti Scott Ritter: “L’SVR e il suo servizio stampa ‘non sono un organo di stampa’, ha sottolineato Ritter. ‘Non sono lì per informare il pubblico quando diffondono informazioni. Di solito lo fanno per raggiungere un obiettivo o uno scopo’ – in questo caso, a indicare il desiderio di ‘infliggere il massimo danno a Zelensky in un momento in cui è ritenuto più vulnerabile’ e di aumentare le divisioni all’interno del suo governo e tra lui e Zaluzhny”.
Il rapporto dell’SVR ha fatto seguito all’articolo critico del Financial Times su Yermak, che secondo l’SVR avrebbe “incastrato” Zelensky convincendolo a reprimere le istituzioni anticorruzione per giustificare qualsiasi tentativo occidentale di sostituirlo con questo pretesto, pubblicato quasi un anno dopo l’articolo critico di Bloomberg su di lui. La valutazione di Ritter sulle intenzioni dell’SVR è quindi credibile, ma visto che loro e persino Putin avevano previsto in passato l’imminente caduta di Zelensky, resta da vedere se ciò accadrà a breve:
Tornando all’ultimo rapporto di SVR, la nuova escalation a tre punte di Trump del coinvolgimento americano nel conflitto ucraino e la recente subordinazione del suo Paese all’UE in quanto suo più grande stato vassallo di sempre, attraverso il loro accordo commerciale totalmente sbilanciato, potrebbero vanificare qualsiasi presunto precedente imperativo degli Stati Uniti di sostituire Zelensky. Dopotutto, Trump è stato semplicemente manipolato per spingerlo a procedere a oltranza, nonostante il suo noto battibecco con Zelensky alla Casa Bianca in primavera, e i suoi nuovi vassalli dell’UE danno già priorità alla guerra per procura su tutto il resto.
Pertanto, si può sostenere che l’Occidente abbia già “resettato” i suoi legami con l’Ucraina, nonostante Zelensky sia ancora al potere, invece di sostituirlo a tale scopo, come l’SVR ha affermato che avrebbe cercato di fare a breve, cosa che anche il giornalista premio Pulitzer Seymour Hersh ha segnalato essere in programma 11 giorni prima dell’SVR. Ciononostante, il successore più probabile di Zelensky sembra effettivamente essere Zaluzhny, proprio come riportato dall’SVR e da Hersh, ma l’Occidente potrebbe aspettare a insediarlo fino a quando la Russia non accetterà un cessate il fuoco ( se mai accadrà ).
Questo perché sostituirlo mentre le ostilità sono ancora in corso potrebbe indebolire ulteriormente l’Ucraina a vantaggio della Russia. Farlo dopo la fine delle ostilità potrebbe simbolicamente annunciare una nuova era per l’Ucraina, e anche servire come ricompensa alla Russia per il rispetto del cessate il fuoco, soddisfacendo la sua richiesta di un leader ucraino legittimo con cui Putin potrebbe poi firmare un accordo di pace. Questi calcoli sono i più sensati dal punto di vista degli interessi occidentali, ma potrebbero sempre cambiare a seconda dell’andamento del conflitto.
Il suo drammatico dispiegamento di due sottomarini nucleari nei pressi della Russia ha tre scopi politici.
Trump ha annunciato venerdì che gli Stati Uniti schiereranno due sottomarini nucleari vicino alla Russia in risposta ai post sui social media dell’ex presidente e vicepresidente in carica del Consiglio di sicurezza Dmitry Medvedev che mettevano in guardia sul rischio di un attacco nucleare.guerra con gli Stati Uniti. Trump evidentemente ha interpretato ciò come una minaccia a causa della posizione ufficiale di Medvedev, tuttavia, e probabilmente aveva anche in mente il loro battibecco di metà giugno, quando Trump ha criticatoMedvedev ha affermato che altri paesi potrebbero fornire all’Iran armi nucleari.
La realtà, però, è che le dure parole di Medvedev sono solo un’operazione psicologica. Come è stato valutato un anno fa in seguito al suo tweet aggressivo dopo l’assassinio del capo di Hamas Ismail Haniyeh, “il ruolo di Medvedev, fin dall’operazione speciale, è stato quello di valvola di sfogo ultranazionalista in patria e tra i sostenitori della Russia all’estero, il ‘poliziotto cattivo’ del ‘poliziotto buono’ di Putin. Spesso dice le cose più stravaganti per fare notizia, il che potrebbe in parte essere inteso come un’operazione psicologica contro l’Occidente secondo la ‘Teoria del Folle'”.
L’ultima operazione psicologica di Medvedev, tuttavia, si è probabilmente ritorta contro di lui, servendo da pretesto a Trump per inasprire ulteriormente le tensioni militari con la Russia. Aveva già annunciato la sua nuova escalation su tre fronti a metà luglio, dovuta a falchi anti-russi come Lindsey Graham.manipolandolo per spingerlo a procedere a oltranza , quindi è possibile che abbia pianificato una seconda fase in vista della scadenza del nuovo termine per la consegna a Putin. L’impiego di sottomarini nucleari è tuttavia puramente simbolico, poiché gli Stati Uniti non li utilizzeranno realisticamente.
Tuttavia, questa trovata drammatica ha tre scopi politici, che ora spiegheremo. Il primo è che funge da carne rossa per i falchi anti-russi che aspettavano con ansia un’escalation così simbolica. In secondo luogo, i leader europei possono affermare che l’accordo commerciale (totalmente sbilanciato) del loro blocco con gli Stati Uniti ha procurato a Trump il sostegno per la continuazione della guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina, distraendoli così dal fatto che l’UE si è subordinata in cambio agli Stati Uniti, diventando il più grande stato vassallo di sempre .
Il terzo obiettivo è il più importante di tutti ed è guidato dall’intenzione di Trump di intromettersi nella politica russa. Per essere più precisi, Medvedev è già succeduto a Putin una volta, quindi è possibile che lo faccia di nuovo, dato che è relativamente giovane e ancora formalmente coinvolto nel processo decisionale, quindi Trump potrebbe volerlo “addomesticare” preventivamente come parte di un gioco di potere. Anche se Medvedev non dovesse succedere a Putin, Trump vuole comunque fare pressione su Putin affinché lo imbarazzi, sempre come parte di un gioco di potere.
Trump potrebbe non solo sfruttare i post di Medvedev come pretesto per un’ulteriore escalation delle tensioni militari con la Russia (probabilmente come parte di una strategia pianificata), poiché è anche noto per prendere le cose sul personale. Non si può quindi escludere che si senta umiliato dai post di Medvedev e voglia quindi farne un esempio per paura di apparire debole in patria e all’estero se non lo facesse. Di conseguenza, la sua ultima drammatica escalation potrebbe essere puramente personale, non parte di una strategia geopolitica.
In ogni caso, Trump ha appena reso meno probabile che mai che Putin faccia concessioni all’Ucraina e agli Stati Uniti, dato che Putin non obbedisce mai alle pressioni pubbliche, per non parlare delle minacce nucleari (che finora non sono state usate contro di lui). Putin ha anche ribadito venerdì mattina di cercare ancora di raggiungere i suoi obiettivi massimi, quindi l’escalation simbolica di Trump potrebbe essere stata semplicemente un modo per sfogarsi e attribuire a Medvedev la fine della loro nascente ” Nuova Distensione ” per convenienza politica, come spiegato.
Lo scandalo per la demolizione da parte dell’Azerbaijan di un monumento dedicato a Ivan Aivazovsky nell’ex regione del “Nagorno-Karabakh” è drammaticamente esploso dopo che Baku ha minacciato di chiudere le istituzioni di lingua russa nel Paese in risposta alla dura reazione di Mosca a questa mossa.
Le relazioni russo-azerbaigiane sono peggiorate nell’ultimo mese, come i lettori possono scoprire di più qui , qui e qui , con le ultime tensioni sorprendentemente legate a un famoso pittore russo del XIX secolo di origine armena, Ivan Aivazovsky (battezzato Hovhannes Aivazian). L’Azerbaigian ha appena demolito un monumento a lui dedicato a Khankendi, l’autoproclamata capitale dell’ormai defunta entità separatista di “Artsakh” che gli armeni locali chiamavano “Stepanakert”, eretto nel 2021.
L’agenzia TASS, finanziata con fondi pubblici, ha inizialmente riferito che l’accaduto si era verificato a “Stepanakert”, prima di cambiare la località in “Nagorno-Karabakh”, la cui descrizione geografica non è più utilizzata da Baku. L’inviato speciale del Presidente russo per la cooperazione culturale internazionale, Mikhail Shvydkoy, ha poi lamentato che “la questione, ne sono certo, sarebbe stata risolta in modo civile [se la Russia fosse stata informata in anticipo], ad esempio spostandola sul suolo russo. Invece, si tratta di un’azione dimostrativa e ostile nei confronti della Russia”.
Il portavoce del Ministero degli Esteri azero, Aykhan Hajizada, ha risposto con rabbia condannando l’uso iniziale di “Stepanakert” da parte della TASS, difendendo la rimozione del monumento di Aivazovsky perché eretto sul territorio del suo Paese durante il breve periodo di peacekeeping russo senza il consenso di Baku e minacciando minacciosamente di chiudere teatri, scuole e pubblicazioni in lingua russa in Azerbaigian se “le azioni e le dichiarazioni anti-azerbaigiane” degli alti funzionari russi dovessero continuare. Ecco cosa ha detto:
“Sebbene in Azerbaigian siano presenti teatri, scuole e pubblicazioni in lingua russa, in Russia non ci sono teatri, scuole, giornali o riviste in lingua azera. Nonostante questa disparità, non affermiamo la ‘cancellazione’ della cultura azera in Russia. Tuttavia, gli alti funzionari russi dovrebbero essere consapevoli che, se le loro azioni e dichiarazioni anti-azerbaigiane dovessero continuare, questa disparità nella rappresentazione culturale potrebbe essere affrontata e corretta di conseguenza dall’Azerbaigian.”
Ciò rappresenta un’escalation molto grave dal punto di vista russo, che rischia di trasformare le tensioni sullo smantellamento del monumento di Aivazovsky in una vera e propria crisi politica da cui le relazioni bilaterali potrebbero non riprendersi mai più se l’Azerbaigian dovesse dare seguito alle minacce appena avanzate da Hajizada. Dopotutto, avrebbe potuto semplicemente condannare la scelta iniziale delle parole della TASS e difendere le azioni del suo governo, il che sarebbe stato diplomaticamente accettabile anche se gli osservatori non fossero stati d’accordo con le sue affermazioni.
Sarebbe stato comunque scandaloso che si fosse rifiutato di spiegare perché la Russia non fosse stata informata in anticipo della demolizione del monumento, il che avrebbe potuto portare a una “risoluzione civile” della questione, secondo Shvydkoy, ma in quel caso avrebbero potuto superare la questione ancora più facilmente. Ora che la chiusura delle istituzioni in lingua russa è minacciata, tuttavia, i politici russi si preoccuperanno se l’Azerbaigian stia seguendo la strada dell’Ucraina, come ha lasciato intendere la direttrice di RT Margarita Simonyan su X.
Putin ha elogiato Ilham Aliyev per il suo sostegno ai russi etnici e alla lingua russa in Azerbaigian durante la sua visita a Baku.Summit nell’agosto 2024, eppure ora la sua controparte sta evidentemente considerando un’inversione di rotta che potrebbe portare all'”ucrainizzazione” dell’Azerbaigian, come certamente la vedrebbe il Cremlino. Se la minaccia di Hajizada non verrà presto formalmente ritirata, la Russia potrebbe tornare sui suoi passi.suopolitica volta a cercare di risolvere i loro problemi, che potrebbe come minimo portare l’Azerbaijan a essere definito un “paese ostile” con tutto ciò che ne consegue.
Se i dazi di Trump non costringeranno l’India a diventare un vassallo degli Stati Uniti, cosa che gli Stati Uniti sfrutterebbero per estorcere concessioni alla Cina prima del suo obiettivo finale di ripristinare l’unipolarismo, allora Trump potrebbe accontentarsi di lasciare che la Cina subordini l’India come parte dello scenario “G2″/”Chimerica”.
Mercoledì Trump si è scagliato contro l’India in una serie di post in cui annunciava dazi del 25% sulle sue esportazioni, con il pretesto delle sue barriere commerciali e degli stretti legami con la Russia. Ha poi annunciato un accordo petrolifero con il Pakistan e ha previsto che “forse un giorno venderanno petrolio all’India!”. Il suo ultimo post ha descritto l’economia indiana come “morta” e ha affermato che “abbiamo fatto pochissimi affari con l’India”, nonostante sia l’ economia in più rapida crescita al mondo e il suo commercio bilaterale ammontasse a quasi 130 miliardi di dollari nel 2024.
Il Ministero del Commercio e dell’Industria indiano ha risposto con calma all’annuncio di Trump sui dazi, ribadendo il suo impegno nei colloqui e dichiarando che lo Stato “prenderà tutte le misure necessarie per tutelare il nostro interesse nazionale”, il che probabilmente lo ha fatto infuriare, poiché si aspettava che Modi lo chiamasse con ansia. L’accordo commerciale favorevole concluso con il Giappone la scorsa settimana e quello totalmente sbilanciato con l’UE che ne è seguito lo hanno incoraggiato a giocare duro con l’India, pensando che anche lei si sarebbe allineata.
Gli Stati Uniti vogliono che l’India apra i suoi mercati agricoli e lattiero-caseari, interrompa le massicce importazioni di petrolio russo a prezzi scontati e si diversifichi rapidamente, abbandonando le attrezzature militari russe. Tuttavia, soddisfare la prima richiesta sarebbe disastroso per il 46% della forza lavoro indiana impiegata in questi settori, mentre la seconda rischierebbe di rallentare la sua crescita economica e la terza renderebbe la sua sicurezza dipendente dagli Stati Uniti. Il risultato finale, quindi, farebbe deragliare l’ascesa dell’India come Grande Potenza e la trasformerebbe in un vassallo degli Stati Uniti.
Trump è determinato a fare proprio questo, ovvero la continuazione della politica di Biden, come spiegato di seguito:
Per comodità del lettore, queste analisi saranno ora riassunte e inserite nel contesto attuale.
In breve, l’ascesa dell’India come Grande Potenza, assistita dalla Russia, accelera l’avvento della tripla – multipolarità che a sua volta aiuterà a far nascere la complessa multipolarità, che ridurrebbe notevolmente la probabilità di ripristinare l’unipolarità guidata dagli Stati Uniti o il breve periodo di bi-multipolarità informale sino-americana (“G2″/”Chimerica”). La Russia specialeL’operazione e la reazione dell’Occidente ad essa rivoluzionarono le relazioni internazionali e crearono l’opportunità per l’India di recuperare il tempo perduto nel diventare una grande potenza con una veraglobaleinfluenza .
Se i dazi di Trump non costringeranno l’India a diventare un vassallo degli Stati Uniti, cosa che gli Stati Uniti sfrutterebbero per estorcere concessioni alla Cina prima del loro obiettivo finale di ripristinare l’unipolarità, allora Trump potrebbe accontentarsi di lasciare che la Cina subordini l’India, come parte dello scenario “G2″/”Chimerica”. In ogni caso, non si aspetta che l’ascesa dell’India come Grande Potenza continui, a causa del dilemma a somma zero in cui i dazi avrebbero dovuto collocarla tra il diventare vassallo degli Stati Uniti o della Cina, ma l’India potrebbe comunque sorprendere tutti.
Sta rimodellando la visione dei politici indiani sull’Occidente e alimentando il risentimento nei confronti dei loro governi nella società.
L’ex rappresentante permanente dell’India presso le Nazioni Unite, Syed Akbaruddin, ha recentemente pubblicato un articolo informativo su NDTV intitolato ” Blitz tariffario: l’India sta diventando un danno collaterale nella guerra di qualcun altro? “. Il succo è che l’Occidente, tramite le minacce di sanzioni del 100% da parte di Trump ai partner commerciali della Russia alla scadenza del termine da lui concesso a Putin per un cessate il fuoco in Ucraina e all’UE tramite le sue nuove sanzioni che vietano l’importazione di prodotti petroliferi russi lavorati da paesi terzi, sta esercitando un’indebita pressione sull’India.
Non possono sconfiggere la Russia sul campo di battaglia per procura, né rischierebbero la Terza Guerra Mondiale affrontandola direttamente, quindi se la prendono con i suoi partner commerciali esteri nella speranza di mandare in bancarotta il Cremlino. Questo è controproducente, tuttavia, poiché le loro minacce di sanzioni potrebbero affossare i legami bilaterali, avvicinare l’India a Cina e Russia ( risanando così il nucleo centrale dei BRICS e della SCO ) e far impennare i prezzi globali del petrolio, finora rimasti gestibili grazie alle massicce importazioni indiane dalla Russia.
Tuttavia, un rispetto parziale è possibile anche a causa del danno che le sanzioni occidentali potrebbero infliggere all’economia indiana, quindi non si può escludere che l’India possa ridurre le sue importazioni e non esportare più prodotti petroliferi russi trasformati verso l’UE. Un rispetto completo è tuttavia improbabile , poiché l’India rischierebbe di rovinare i suoi legami con la Russia, con tutto ciò che ne potrebbe derivare, come accennato in precedenza , riducendo al contempo il suo tasso di crescita economica attraverso l’aumento dei prezzi dell’energia e compensando così la sua prevista ascesa a Grande Potenza.
Tuttavia, anche nello scenario di un’adesione parziale, la pressione occidentale sull’India a proposito della Russia si è già ritorta contro di loro. Le loro minacce coercitive e le conseguenze concrete di una mancata adesione, ammesso che si possano fare eccezioni per un’adesione parziale, stanno rimodellando la visione che i politici indiani hanno dell’Occidente e alimentando il risentimento verso i loro governi nella società. I “bei vecchi tempi” in cui si dava per scontato ingenuamente che l’Occidente operasse in buona fede e fosse un vero amico dell’India non torneranno mai più.
Questo è un bene dal punto di vista degli oggettivi interessi nazionali dell’India, poiché è più utile aver finalmente compreso la verità piuttosto che continuare a nutrire illusioni sulle intenzioni dell’Occidente e a formulare politiche basate su quella falsa percezione. Al contrario, questo è un male dal punto di vista degli interessi egemonici dell’Occidente, poiché i suoi decisori politici non possono più dare per scontato che l’India accetterà ingenuamente qualsiasi loro richiesta e si fiderà ciecamente delle sue intenzioni. Questa nuova dinamica potrebbe portare a rivalità.
Per essere chiari, la prevista ascesa dell’India a Grande Potenza non rappresenta una sfida sistemica per l’Occidente come la traiettoria di superpotenza della Cina, né è “dirompente” come lo è stato il ripristino dello status di Grande Potenza della Russia. L’India ha costantemente cercato di facilitare la transizione sistemica globale verso la multipolarità fungendo da ponte tra Oriente e Occidente, il che integra gli interessi oggettivi dell’Occidente, seppur minando quelli soggettivi egemonici, responsabili di molti dei problemi del Sud del mondo.
Cercare di subordinare l’India e poi trattarla come una rivale quando non si sottomette potrebbe quindi destabilizzare ulteriormente questa transizione già caotica, portando potenzialmente a conseguenze imprevedibili che accelereranno il declino dell’egemonia occidentale più di quanto accadrebbe se l’Occidente trattasse l’India da pari a pari. Fare ancora più pressione sull’India e poi punirla per la mancata piena conformità alle proprie richieste non farà che accelerare questo risultato. È improbabile che si riesca a convincere l’India a sottomettersi, quindi è opportuno abbandonare questa politica.
Alla base dei loro calcoli c’erano interpretazioni opposte del dilemma del prigioniero sino-indo-indiano.
Trump ha annunciato lunedì di aver ridotto la scadenza di 50 giorni concessa a Putin per un cessate il fuoco in Ucraina a “circa 10 o 12 giorni a partire da oggi”, il che significa che prevede di imporre dazi fino al 100% a tutti i suoi partner commerciali entro il 7-9 agosto, ma probabilmente con eccezioni come l’UE che ha appena sottomesso. Anche la Turchia potrebbe essere esclusa, dato il suo tentativo di espandere la propria influenza verso est a spese della Russia, così come potrebbero esserlo i partner commerciali minori degli Stati Uniti come le repubbliche dell’Asia centrale, purché limitino gli scambi con la Russia.
La domanda che tutti si pongono è se imporrà dazi a Cina e India, se non taglieranno o almeno limiteranno le importazioni di risorse dalla Russia. Sono i principali partner commerciali della Russia, che insieme formano il nucleo RIC dei BRICS , eppure commerciano di più con gli Stati Uniti (con cui sono in corso trattative commerciali) che con la Russia. Cina e India sono anche alcune delle maggiori economie mondiali, quindi l’imposizione di dazi del 100% da parte degli Stati Uniti potrebbe destabilizzare l’economia globale e aumentare i prezzi per gli americani.
Trump ha appena concluso un accordo commerciale sbilanciato con l’UE, trasformandola nel più grande stato vassallo degli Stati Uniti di sempre , il che potrebbe incoraggiarlo a imporre dazi a Cina e/o India nonostante i loro colloqui commerciali in corso, se dovessero sfidarlo, qualora ritenesse che questo nuovo accordo possa contribuire a ridurre le conseguenze negative per gli Stati Uniti. Sta quindi calcolando che Cina e/o India ridurranno almeno le importazioni di energia dalla Russia, volontariamente o sotto costrizione tariffaria, colpendo così le sue casse e rendendo Putin più incline alle concessioni nel tempo.
Da parte sua, Putin calcola che la Russia possa ancora raggiungere pienamente i suoi obiettivi – controllare l’intera regione contesa, smilitarizzare l’Ucraina, denazificarla e quindi ripristinarne la neutralità costituzionale – anche se Cina e/o India dovessero limitare gli scambi commerciali con essa, anche se non è sicuro che lo faranno. Entrambe sono sottoposte a un’enorme pressione da parte degli Stati Uniti, a modo loro, quindi potrebbe aspettarsi che la sfidino. Se entrambi lo facessero, potrebbero risolvere i loro problemi, trasformando così la RIC in una forza con cui gli Stati Uniti dovrebbero fare i conti.
I calcoli di Trump e Putin hanno in comune il dilemma del prigioniero . Le minacce tariffarie di Trump e gli altri pilastri della sua nuova politica a tre punte nei confronti dell’Ucraina, legati agli armamenti, mirano di conseguenza a estorcere concessioni economico-politiche da Cina e India e concessioni geopolitiche e di sicurezza dalla Russia. Trump si aspetta che almeno uno dei partner asiatici dei BRICS aderisca, anche solo in parte, consentendogli così di esacerbare la rivalità sino-indo-indiana a vantaggio dell’egemonia statunitense e quindi di esercitare maggiore pressione sulla Russia.
Nessuno di loro vuole essere l’ultimo a raggiungere un accordo con gli Stati Uniti, ritiene Trump, e di conseguenza hanno molta meno flessibilità negoziale che mai. Putin, al contrario, ritiene che Cina e India siano più preoccupate delle conseguenze che l’altra potrebbe avere se il loro Paese diventasse il principale partner della Russia, se il loro Paese rispettasse gli Stati Uniti ma il loro rivale no (come spiegato qui ), piuttosto che delle conseguenze dei dazi minacciati da Trump. È anche fiducioso che gli Stati Uniti non possano comunque impedire alla Russia di raggiungere i suoi obiettivi.
Questo risultato pone gli Stati Uniti sulla strada del ripristino della loro egemonia unipolare attraverso una serie di accordi commerciali sbilanciati, poiché probabilmente punteranno subito agli americani prima di affrontare definitivamente l’Asia.
La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha concordato un accordo quadro con gli Stati Uniti in base al quale l’UE applicherà dazi del 15% sulla maggior parte delle importazioni, si impegnerà ad acquistare 750 miliardi di dollari di esportazioni energetiche statunitensi e investirà 600 miliardi di dollari nell’economia statunitense, parte dei quali saranno destinati ad acquisti militari. I dazi statunitensi sulle esportazioni di acciaio e alluminio dell’UE rimarranno al 50%, mentre l’UE ha accettato di non imporre alcun dazio agli Stati Uniti. L’alternativa a questo accordo sbilanciato era che Trump imponesse i suoi minacciati dazi del 30% entro il 1° agosto .
La solidità macroeconomica dell’UE si è notevolmente indebolita negli ultimi 3 anni e mezzo a causa delle sanzioni anti-russe imposte in solidarietà con gli Stati Uniti a quello che fino ad allora era stato il suo fornitore di energia più economico e affidabile. L’UE si trovava quindi già in una posizione di grave svantaggio in caso di potenziale guerra commerciale. L’incapacità dell’UE di raggiungere un importante accordo commerciale con la Cina dopo il ritorno di Trump al potere, come durante il loro ultimo vertice alla fine della scorsa settimana, ha reso l’esito di domenica un fatto compiuto, a posteriori.
Il risultato finale è che l’UE si è semplicemente subordinata al ruolo di più grande stato vassallo degli Stati Uniti di sempre. I dazi del 15% imposti dagli Stati Uniti sulla maggior parte delle importazioni ridurranno la produzione e i profitti dell’UE, rendendo così più probabile una recessione. In tal caso, l’impegno dell’Unione ad acquistare energia statunitense, più costosa, diventerà più oneroso. Allo stesso modo, il suo impegno ad acquistare più armi dagli Stati Uniti indebolirà il ” Piano ReArm Europe “, con l’effetto combinato delle suddette concessioni che cederanno ulteriormente la già ridotta sovranità dell’UE agli Stati Uniti.
Ciò potrebbe a sua volta incoraggiare gli Stati Uniti a premere per ottenere condizioni migliori nei negoziati commerciali in corso con altri Paesi. Sul fronte nordamericano, Trump prevede di riaffermare l’egemonia statunitense su Canada e Messico attraverso mezzi economici, il che gli consentirebbe di espandere più facilmente la “Fortezza America” verso sud. Se riuscisse a subordinare il Brasile , allora tutto ciò che si trova tra questo e il Messico si allineerebbe naturalmente. Questa serie di accordi, insieme a quello della scorsa settimana con il Giappone , rafforzerebbe la posizione di Trump nei confronti di Cina e India.
Idealmente, spera di replicare i successi giapponesi ed europei con i due Paesi asiatici dei BRICS , che insieme rappresentano circa un terzo dell’umanità, ma non è scontato che ci riesca. La migliore possibilità per Trump di costringerli ad accordi altrettanto sbilanciati è quella di collocare gli Stati Uniti nella posizione geoeconomica più vantaggiosa possibile durante i colloqui, da cui la necessità di costruire rapidamente la “Fortezza America” attraverso una serie di accordi commerciali, e poi dimostrare che le sue minacce tariffarie non sono un bluff.
” La rivalità sino-indo-indiana influenzerà la decisione di Trump sulle sanzioni secondarie anti-russe “, come spiegato nell’analisi precedente, con questa variabile e la politica di triangolazione kissingeriana degli Stati Uniti che determineranno in modo significativo il futuro dei loro colloqui commerciali. Se fallisse, Trump potrebbe non imporre dazi al 100% su Cina e/o India, ma alcuni sarebbero comunque previsti. Ciononostante, con il Giappone, l’UE e probabilmente la “Fortezza America” dalla sua parte, questo “Occidente globale” potrebbe proteggere gli Stati Uniti da alcune delle conseguenze.
La grande importanza strategica della subordinazione dell’UE al ruolo di più grande stato vassallo degli Stati Uniti sta quindi nel porre gli Stati Uniti sulla strada del ripristino della loro egemonia unipolare attraverso accordi commerciali consecutivi, con il probabile obiettivo di puntare alle Americhe prima di affrontare definitivamente l’Asia. Non c’è garanzia che gli Stati Uniti ci riusciranno, e una serie di accordi commerciali sbilanciati con le principali economie ripristinerebbe solo parzialmente l’unipolarismo guidato dagli Stati Uniti, ma le mosse di Trump rappresentano ancora una possibile minaccia esistenziale al multipolarismo.
Il suo obiettivo è quello di subordinare il Brasile a uno stato vassallo, in modo che diventi la componente principale della “Fortezza America” della sua visione del “Global West”.
Nelle ultime settimane, il Brasile è stato sottoposto a forti pressioni da parte di Trump in merito al processo all’ex presidente Jair Bolsonaro, al commercio bilaterale e ai BRICS . Trump ha quindi pubblicato una lettera di sostegno a Bolsonaro, chiedendo la ” fine immediata ” del caso contro di lui per l’accusa di aver organizzato un colpo di stato fallito; ha minacciato dazi del 50% sul Brasile il mese prossimo, nonostante goda di un surplus commerciale con quel paese; e potrebbe aggiungere un altro 10%, esclusivamente sulla base della sua appartenenza ai BRICS.
La dimensione economica di questa nuova campagna di pressione potrebbe persino degenerare in un ulteriore dazio del 100% se il Brasile continuerà a commerciare con la Russia dopo la scadenza di 50 giorni fissata da Trump per un accordo di pace in Ucraina. Come riportato da CBS News a metà luglio, “il Brasile è il principale acquirente di fertilizzanti russi, essenziali per sostenere le sue esportazioni di soia, zucchero e caffè”, quindi non può realisticamente interrompere gli scambi con la Russia. Tutti i dazi saranno tuttavia a discrezione di Trump, che potrebbe quindi abbassarli o addirittura rinunciarvi se si raggiungesse un accordo.
Trump non vuole solo che le accuse contro il suo amico Bolsonaro vengano ritirate, che vengano messe in atto garanzie per facilitare ulteriormente gli scambi commerciali con gli Stati Uniti e impedire il trasbordo di merci provenienti da paesi con tariffe più elevate nel suo mercato, e che il co-fondatore Brasile prenda le distanze dai BRICS. Il suo obiettivo è subordinare il Brasile come stato vassallo, indipendentemente da chi finirà per guidarlo dopo le prossime elezioni presidenziali dell’autunno 2026, in modo che diventi la componente principale della “Fortezza America” della sua visione di “Occidente globale”.
Con “Occidente globale” si intende l’insieme di stati guidati dagli Stati Uniti in America Latina, Europa e Asia-Pacifico, con i relativi progetti geopolitici “Fortezza America”, NATO e AUKUS+ (Australia, Giappone, Nuova Zelanda, Filippine e Corea del Sud). L’inclusione del Brasile nella “Fortezza America” è fondamentale per il successo di questo progetto, poiché la mancata subordinazione e, soprattutto, il mancato mantenimento di questo status a tempo indeterminato indebolirebbero l’egemonia degli Stati Uniti sul resto dell’America Latina.
Questo perché il Brasile è un polo emergente nell’emergente ordine mondiale multipolare. Questo prestigioso status è il risultato della sua enorme popolazione, della sua economia impressionante e della sua relativa sovranità rispetto alla maggior parte degli altri paesi iberoamericani. Sebbene i cartelli della droga e i loro criminali locali continuino a rappresentare una minaccia costante per la sicurezza, non hanno nemmeno lontanamente il potere militare e politico che hanno in Messico, il che impedisce al Messico di svolgere il ruolo di cui è capace anche il Brasile ed è il motivo per cui gli Stati Uniti armano alcuni di loro .
Il piano degli Stati Uniti per subordinare il Brasile ha subito delle inversioni nel corso degli anni. L’amministrazione Obama ha contribuito a rimuovere i socialisti al potere dopo che erano diventati troppo indipendenti geopoliticamente, ma quella di Biden ha aiutato Lula a tornare al potere dopo che questi aveva abbracciato la visione liberal-globalista dei Democratici mentre era in prigione, come documentato nelle diverse decine di analisi elencate alla fine di questo articolo . L’amministrazione Trump non vuole solo rimuovere ancora una volta i socialisti, ma subordinare ancora di più il Brasile.
IbridoLa guerra è il mezzo per costringere il Brasile a istituzionalizzare i suoi rapporti commerciali grossolanamente squilibrati con gli Stati Uniti, oppure subire dazi fino al 160% per il suo rifiuto, il che avrebbe dovuto orchestrare le prossime elezioni in modo che i socialisti perdessero. Tuttavia, recenti sondaggi danno Lula in vantaggio in tutti gli scenari se si ricandidasse, quindi i brasiliani potrebbero schierarsi patriotticamente a fianco dei socialisti. Se riusciranno a sopportare il dolore abbastanza a lungo, allora, lungi dal diventare la base della “Fortezza America”, il Brasile potrebbe alla fine esserne la rovina.
Preservare i propri interessi nazionali nei confronti di Gaza è considerato una priorità molto più importante.
A fine luglio, dopo le recenti dichiarazioni di Trump sulla Grande Diga della Rinascita Etiope (GERD), si è concluso che Trump avesse secondi fini nel sostenere l’Egitto in questa disputa. Questi sospetti hanno trovato conferma dopo che Arab News ha riportato che “fonti diplomatiche egiziane di alto livello” hanno dichiarato al loro sito gemello che il Cairo ha respinto il prezzo da pagare per un “intervento decisivo (degli Stati Uniti)”. Sostengono che l’Egitto debba sostenere il piano israeliano di ricollocazione di Gaza e forse, alla fine, anche ospitare molti, se non tutti, i cittadini di Gaza.
Finora è stato un rossodal punto di vista degli interessi di sicurezza nazionale dell’Egitto, poiché sospetta che militanti di Hamas affiliati ai Fratelli Musulmani possano infiltrarsi nel Paese sotto la copertura dei rifugiati e da lì in poi mettersi all’opera per rovesciare nuovamente il governo. Ciononostante, è quella che gli Stati Uniti considerano la soluzione più semplice a questa crisi umanitaria, motivo per cui questa richiesta sarebbe stata avanzata all’Egitto in cambio di un “intervento decisivo” nella disputa sul GERD.
Gli Stati Uniti sanno anche che questa è una linea rossa per l’Egitto, come spiegato sopra; pertanto, stanno cercando di costringere l’Egitto a un dilemma sulle sue percepite priorità di sicurezza nazionale. Dopotutto, l’Egitto ha falsamente affermato per anni che il GERD rappresenti presumibilmente una minaccia esistenziale, pur facendo attenzione a non descrivere apertamente la popolazione di Gaza come tale, eppure, a quanto pare, ha appena respinto le condizioni degli Stati Uniti per schierarsi dalla sua parte sull’Etiopia. Le “fonti diplomatiche egiziane di alto livello” di Arab News stanno quindi inavvertitamente screditando la narrazione del loro Paese.
È chiaro che la potenziale accoglienza di militanti di Hamas affiliati ai Fratelli Musulmani che potrebbero infiltrarsi nel Paese sotto la copertura dei rifugiati rappresenta una minaccia esistenziale per l’Egitto molto più grave di quanto i suoi funzionari abbiano mai affermato che GERD rappresentasse, giustificando di conseguenza la loro scelta. A dire il vero, è una scelta saggia da parte loro mantenere la posizione e non invertire la rotta per qualsiasi motivo, poiché ci sono limiti a ciò che gli Stati Uniti possono fare per costringere l’Etiopia a una sorta di accordo con l’Egitto, che ora affronteremo.
Contrariamente a quanto affermato da Trump, GERD non è stato finanziato dagli Stati Uniti, quindi non ha alcun pretesto plausibile per intervenire in questa disputa senza il permesso dell’Etiopia. GERD è già stato costruito, quindi non esiste uno scenario realistico in cui gli Stati Uniti convincano l’Etiopia a sospendere il progetto. Un altro punto è che sanzioni paralizzanti e altre forme di … la pressione bellica , come il sostegno a una potenziale imminente offensiva eritrea-TPLF sostenuta dall’Egitto , potrebbe ritorcersi contro gli alleati degli Stati Uniti, dell’UE e del Golfo, come spiegato qui .
L’Egitto avrebbe potuto quindi scommettere che è meglio preservare i propri interessi di sicurezza nazionale di fronte allo scenario di militanti di Hamas affiliati ai Fratelli Musulmani che si infiltrano nel Paese sotto la copertura dei rifugiati, piuttosto che sacrificare questo come prezzo per un “intervento decisivo” degli Stati Uniti nella disputa sul GERD. Come accennato in precedenza, se l’Egitto mantenesse questa scelta, sarebbe saggia dal suo punto di vista, ma anche vantaggiosa per l’Etiopia, scongiurando lo scenario di pressioni statunitensi richieste dall’Egitto.
In effetti, l’Etiopia potrebbe persino ribaltare le dinamiche a sfavore dell’Egitto in questo momento cruciale se accettasse di ospitare alcuni sfollati di Gaza, come secondo quanto riportato di recente da Axios , l’iniziativa starebbe prendendo in considerazione. In tal caso, gli Stati Uniti potrebbero fare un favore all’Etiopia nei confronti dell’Egitto, dissuadendolo dal sostenere qualsiasi offensiva Eritrea-TPLF. Se ciò dovesse accadere, e resta da vedere ma non può essere escluso, l’Egitto potrebbe quindi pentirsi profondamente di aver chiesto agli Stati Uniti di schierarsi contro l’Etiopia nella disputa sul GERD.
Non sono dovuti a un complotto del tipo “dividi et impera” da parte degli Stati Uniti o di chiunque altro, come alcuni potrebbero ipotizzare.
Giovedì sono scoppiati intensi scontri lungo il confine tra Cambogia e Thailandia, tracciato dai francesi in epoca coloniale, nell’ultima fase di questo conflitto di lunga data . Entrambe le parti si accusano a vicenda di averli iniziati, ma c’è motivo di credere che sia stata la Thailandia a dare inizio alle ostilità. Prima di spiegarne il motivo, è importante screditare preventivamente le speculazioni di alcuni osservatori favorevoli al multipolarismo, che potrebbero presto affermare che dietro questi scontri ci siano gli Stati Uniti, proprio come li accusano di ogni conflitto nel Sud del mondo.
La Cambogia è il principale partner della Cina nell’ASEAN, con legami così stretti che da anni circolano voci secondo cui la Cina starebbe complottando in segreto per istituire una base navale lì, affermazioni che entrambe le parti hanno prevedibilmente smentito. Ciò che la Cina sta facendo, tuttavia, è costruire un canale in Cambogia per alleviare la sua dipendenza dalle importazioni ed esportazioni del fiume Mekong, la cui foce è controllata a intermittenza dal rivale Vietnam. Le implicazioni strategiche di questo megaprogetto sono state analizzate qui all’inizio della primavera.
Per quanto riguarda la Thailandia, pur essendo un ” principale alleato non-NATO “, è anche membro ufficiale dei BRICS+ dopo aver formalizzato i suoi legami con il gruppo all’inizio di quest’anno. Come la Cambogia, il principale partner commerciale della Thailandia è la Cina, e si è parlato occasionalmente della costruzione di un canale attraverso l’istmo di Kra . Anche la ferrovia regionale ad alta velocità che la Cina sta costruendo per Singapore transiterà attraverso la Thailandia . Questi fatti sfatano le speculazioni secondo cui la Thailandia potrebbe ancora una volta fungere da proxy regionale degli Stati Uniti.
L’ultimo conflitto è quindi il risultato organico del lungo conflitto tra Cambogia e Thailandia, che riguarda il controllo di templi storici di importanza culturale lungo il confine conteso, e non un sistema di divisione et impera degli Stati Uniti o di qualsiasi altra terza parte. Detto questo, la causa sopra menzionata non è responsabile dell’ultimo scoppio di violenza, che è probabilmente dovuto al prestigio danneggiato dell’influente esercito thailandese a seguito di un recente scandalo sulle tensioni latenti da maggio in poi.
Il Primo Ministro Paetongtarn Shinawatra è stato sospeso meno di un mese fa dopo la trapelazione della registrazione di una chiamata con l’ex Presidente cambogiano Hun Sen su questa disputa. È ancora molto influente ed era amico di suo padre, l’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra. Alcuni dei suoi commenti sono stati interpretati come un insulto alle forze armate, che sono ancora estremamente influenti nella società thailandese e molto venerate, per non parlare della responsabilità di una dozzina di colpi di Stato, tra cui quello contro Thaksin nel 2006.
Non è quindi azzardato sospettare che l’orgoglioso esercito thailandese, che surclassa quello della Cambogia sotto ogni punto di vista , abbia avviato quella che si aspettava essere una guerra breve ma vittoriosa per ripristinare il proprio prestigio sociale. Dopotutto, dato il suddetto grave divario tra le loro forze armate, è dubbio che la Cambogia possa scatenare una guerra con una Thailandia molto più forte, mentre è molto più plausibile che l’esercito thailandese possa scatenare una guerra breve, che si aspettava di vincere, con una Cambogia molto più debole.
Entrambi sono orgogliosi successori di civiltà ricche e affini, il che spiega il contesto emotivo di questo conflitto, che riguarda il controllo di templi storici di importanza culturale lungo il confine conteso e la cui ultima fase è stata presumibilmente avviata dall’esercito thailandese, come spiegato. Non è ancora chiaro quale sarà l’esito, ma l’ultima ondata di violenza non è stata il risultato di un complotto di terze parti, ma è stata la naturale conseguenza delle dinamiche interne della Thailandia dopo il recente scandalo del Primo Ministro.
La smilitarizzazione e il cambio di regime potrebbero essere all’ordine del giorno.
Gli ultimi scontri tra Cambogia e Thailandia sulla loro decennale disputa di confine, presumibilmente avviati dall’esercito thailandese per ripristinare il prestigio danneggiato in un recente scandalo politico, come spiegato qui , potrebbero ” sfociare in una guerra “, secondo il Primo Ministro ad interim. La Thailandia non riconosce la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1962 a favore della Cambogia e rifiuta la mediazione di terze parti nell’attuale conflitto, quindi è probabile che i combattimenti continuino finché non verrà raggiunto un obiettivo tangibile.
Questo scenario solleverebbe naturalmente la questione della strategia finale della Thailandia. Ufficialmente si sta solo difendendo da quella che sostiene essere un’aggressione immotivata e dalle incursioni transfrontaliere della Cambogia, ma più a lungo si protrae il conflitto, più è probabile che l’escalation della missione possa modificarne gli obiettivi dichiarati. Dopotutto, la minaccia percepita alla sicurezza rappresentata dalla Cambogia si sta intensificando, quindi gli obiettivi della Thailandia potrebbero evolversi verso la “smilitarizzazione” del suo vicino e forse persino l’attuazione di un cambio di regime per garantirlo.
L’ex Primo Ministro cambogiano Hun Sen, che continua a esercitare la sua influenza come Presidente del Senato e padre dell’attuale Primo Ministro Hun Manet, è stato recentemente dipinto come un fantasma in Thailandia. Si potrebbe quindi presto diffondere la narrativa secondo cui il continuo governo di lui e di suo figlio sul Paese rappresenti una minaccia duratura per la sicurezza della Thailandia, da cui la possibile soluzione proposta di sostituirli con un regime fantoccio che smilitarizzi la Cambogia e ceda i territori contesi.
Hun Sen era già stato demonizzato dall’Occidente, che nel 2019 aveva fortemente insinuato di volerlo rovesciare a costo di far ricadere la Cambogia nella guerra civile; inoltre, sosteneva che avesse stretto un accordo segreto con Pechino per ospitare una base navale cinese. Pertanto, non sarebbe troppo difficile per la Thailandia radunare i governi occidentali attorno a una potenziale campagna per un cambio di regime in Cambogia. In cambio del loro sostegno politico, la Thailandia potrebbe promettere al suo regime fantoccio di allontanare la Cambogia dalla Cina.
Per essere chiari, questa speculazione sulla sua conclusione non significa che la Thailandia abbia avviato l’ultimo conflitto su richiesta dell’Occidente, ma solo che il leader statunitense del blocco potrebbe vedere un’opportunità se gli obiettivi della Thailandia si spostassero verso un cambio di regime nel caso in cui il conflitto degenerasse in guerra. Anche se questo obiettivo diventasse ovvio per la maggior parte degli osservatori, coloro che sono favorevoli al multipolarismo e hanno legami con la Thailandia potrebbero comunque negarlo per paura di incorrere nella sua severa legge sulla lesa maestà , che alcuni ritengono venga abusata per soffocare le critiche ai militari.
Allo stesso modo, a causa dell’economia molto più ampia della Thailandia e della sua posizione geostrategica al centro della subregione del Grande Mekong, Cina e Russia potrebbero essere riluttanti a condannare questa potenziale campagna di cambio di regime, per non parlare del proporre sanzioni al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I loro ecosistemi mediatici globali, che includono influencer indipendenti che sostengono la loro visione del mondo e raramente contraddicono i loro funzionari (anzi, di solito evitano critiche costruttive alle loro politiche), potrebbero cogliere l’occasione per astenersi dalle critiche alla Thailandia.
L’esercito della Thailandia è nettamente superiore a quello della Cambogia sotto tutti gli aspetti, quindi potrebbe facilmente invadere Phnom Penh per deporre Hun Sen e suo figlio, a meno che qualcosa non vada storto o il Vietnam non intervenga (anche se anche lui lo ha fatto ). Problemi con loro). Anche l’opinione pubblica in Thailandia sembra favorire un cambio di regime in Cambogia, ma in ultima analisi spetta ai militari decidere se perseguirlo o meno. Potrebbero pensare che questo sia il momento perfetto per porre fine una volta per tutte alle minacce provenienti dalla Cambogia, quindi potrebbero benissimo spingere in tal senso.
Pagare parte di questo conto in cambio del sostegno ucraino alla sicurezza dei suoi confini è uno dei costi che il Ghana deve pagare nell’ambito del suo coinvolgimento nella nascente coalizione regionale anti-russa che progetta di condurre una guerra ibrida prolungata contro gli alleati di Mosca della Confederazione/Alleanza Saheliana.
Zelensky ha annunciato, dopo una telefonata con la sua controparte ghanese all’inizio di luglio, che “il Ghana è pronto a finanziare la nostra produzione (di droni) e noi siamo pronti ad aiutare i nostri partner a proteggere i loro confini”. Ciò ha colto di sorpresa molti osservatori, dato che il Ghana ha un PIL pro capite che è poco meno della metà di quello dell’Ucraina. Tuttavia, la cosa ha più senso se si considera che l’ Africa occidentale è uno dei fronti della Nuova Guerra Fredda . La Russia sostiene l’ Alleanza / Confederazione del Sahel, mentre Francia, Stati Uniti e Ucraina sostengono i suoi oppositori.
Il sostegno fornito da quest’ultima trilaterale ai separatisti tuareg designati come terroristi in Mali e ai radicali islamici, anch’essi designati come terroristi, in Burkina Faso e in Niger non è finora riuscito a disgregare questo blocco. Ciò non significa che questa sovversione non abbia alcuna possibilità di successo, ma che il continuo supporto alla sicurezza russo rende il tutto molto più difficile del previsto. Come piano di riserva, hanno quindi cercato preventivamente basi regionali per facilitare un prolungato conflitto ibrido.guerra , quindi l’importanza del Ghana.
Già nel gennaio 2024, il Wall Street Journal riportava che “gli Stati Uniti stanno tenendo colloqui preliminari per consentire ai droni da ricognizione americani non armati di utilizzare gli aeroporti in Ghana, Costa d’Avorio e Benin”. Da questi colloqui non è ancora emerso nulla di concreto, ma l’ ultimo aggiornamento di due mesi fa, a maggio, mostra che gli Stati Uniti hanno deciso di concentrare i propri sforzi sulla Costa d’Avorio . Il Ghana è proprio accanto, ed entrambi confinano con l’Alleanza/Confederazione del Sahel, quindi è logico che l’Ucraina coltivi legami con esso.
Tuttavia, dato il ruolo sopra menzionato che l’Ucraina ha svolto nei confronti della Russia in Africa su richiesta degli Stati Uniti, si dovrebbe anche dare per scontato che questo accordo semi-legittimo verrà sfruttato come copertura dall’Occidente per intensificare la sua guerra ibrida contro l’Alleanza/Confederazione del Sahel. La base operativa clandestina dell’Ucraina in Ghana, ipotizzata come imminente, si concentrerà sul Burkina Faso, mentre la base per droni apertamente pianificata dagli Stati Uniti nella vicina Costa d’Avorio dividerà la sua attenzione tra quel paese e il Mali.
Gli Stati Uniti e la Francia ” guidano da dietro le quinte ” fornendo supporto a Costa d’Avorio, Ghana e Ucraina, che promuoveranno i loro interessi comuni nei confronti dell’Alleanza/Confederazione Saheliana, facendo così il grosso del lavoro e sostenendo gran parte dei costi. Costa d’Avorio e Ghana temono allo stesso modo le ricadute del terrorismo e lo scenario di colpi di Stato militari patriottici di ispirazione russa; l’Ucraina ha un conto in sospeso con la Russia, mentre Stati Uniti e Francia vogliono invertire le tendenze multipolari regionali.
Questa convergenza di interessi spiega perché proprio il Ghana abbia accettato di finanziare parzialmente la produzione di droni ucraini, dato che è uno dei costi che deve sostenere in quanto membro di questa coalizione. Il loro accordo funge da pretesto antiterrorismo per coinvolgere direttamente le forze ucraine, convenzionali e/o non convenzionali (come il GUR), in questa pianificata offensiva di guerra ibrida contro il fronte meridionale dell’Alleanza/Confederazione del Sahel. Burkina Faso, Mali e Niger dovrebbero quindi prepararsi al peggio.
Gli Stati Uniti cercano di esercitare influenza su questa regione che rifornisce gran parte dell’industria delle terre rare della vicina Cina.
I media occidentali hanno pubblicato una serie di articoli per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importante ruolo che lo Stato Kachin del Myanmar svolge nell’industria globale dei minerali di terre rare. L’ultima fase della lunga guerra civile del Paese, più complessa di quanto la maggior parte dei resoconti occidentali e non occidentali la facciano apparire, come spiegato qui nel febbraio 2024, ha visto i separatisti regionali prendere il controllo di siti che producono circa la metà delle terre rare pesanti del mondo. Ecco cinque dei suddetti resoconti a riguardo:
In sintesi, l’Esercito per l’Indipendenza Kachin (KIA) sta cercando di espandere il controllo sul suo stato omonimo, il che minaccia le autorità militari al potere con cui è in guerra da decenni. Secondo quanto riferito, la Cina ha chiesto loro di interrompere l’offensiva, altrimenti ridurrà le importazioni delle sue terre rare. Ciò potrebbe a sua volta destabilizzare le catene di approvvigionamento globali se il KIA non ottempera e la Cina porta a termine il suo ultimatum, poiché detiene un quasi-monopolio sulla lavorazione di queste risorse.
È in questo contesto che gli Stati Uniti hanno appena revocato le sanzioni ad alcuni alleati della giunta al potere. Alleviando parte della pressione esercitata su di loro da quando hanno ripreso il potere nel Paese all’inizio del 2021, dopo le contestate elezioni parlamentari di diversi mesi prima, che hanno scatenato l’ultimo round di quella che è di gran lunga la guerra civile più lunga al mondo, gli Stati Uniti sembrano segnalare interesse per un accordo. Ogni pressione potrebbe essere rimossa se il Myanmar si (con)federalizzasse e concedesse agli Stati Uniti influenza sul Kachin.
Il Myanmar potrebbe essere tentato di prendere in considerazione questa possibilità, visto che le sue forze armate sono state in difficoltà negli ultimi due anni. È anche così preoccupato di diventare sproporzionatamente dipendente dalla Cina che ha ampliato in modo significativo i legami con la Russia come mezzo per proteggersi da tale scenario. Un accordo sulle risorse politiche mediato dagli Stati Uniti potrebbe quindi mantenere i generali al potere e indurre il Myanmar a diversificare il suo gioco di equilibrismo con la Cina, facendo sì che gli Stati Uniti completino il ruolo della Russia in questo senso.
La corsa sino-americana per le terre rare, che la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha definito parte della “corsa tecnologica” guidata dall’intelligenza artificiale, è una delle massime priorità della politica estera statunitense. Di conseguenza, è più importante per gli Stati Uniti ottenere il controllo su queste risorse o almeno influenzare i fornitori cinesi, come sta cercando di fare attraverso l’accordo di pace recentemente mediato tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda, come spiegato qui , piuttosto che “diffondere la democrazia” in Myanmar.
Questo grande imperativo strategico spiega l’inaspettata revoca delle sanzioni da parte degli Stati Uniti nei confronti di alcuni alleati della giunta al potere, avvenuta in concomitanza con la pubblicazione da parte dei media occidentali di articoli volti a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importante ruolo svolto dallo Stato Kachin del Myanmar nel settore globale dei minerali di terre rare. Questi resoconti contribuiscono a preparare l’opinione pubblica occidentale a comprendere perché gli Stati Uniti potrebbero presto sacrificare gli obiettivi di “democrazia” della precedente amministrazione in Myanmar, stipulando un accordo politico-finanziario con i generali.
Leggete la nostra storia completa su Benjamin Netanyahu qui. È inoltre possibile leggere un fact-check dell’intervista qui.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato un’ampia intervista al TIME il 4 agosto presso l’ufficio del primo ministro a Gerusalemme.
Nel corso dell’intervista, Netanyahu ha discusso della possibilità di una guerra totale con l’Iran e Hezbollah, della gestione della guerra di Israele contro Hamas, della catastrofe umanitaria a Gaza, delle prospettive di un accordo di normalizzazione israelo-saudita, delle relazioni tra Stati Uniti e Israele e del futuro di Israele e del Medio Oriente.
Di seguito la trascrizione, leggermente modificata per chiarezza, dell’intervista tra Netanyahu e il corrispondente del TIME Eric Cortellessa.
Grazie. Apprezzo il suo intervento. Non vedo l’ora di parlare della guerra di Israele contro Hamas, delle minacce regionali più ampie e del futuro dell’unico Stato ebraico del mondo. Vorrei iniziare con le notizie. Mentre parliamo, l’IDF è in stato di massima allerta in attesa di un attacco iraniano. Israele può difendersi contemporaneamente da Hamas, Hezbollah, Houthi e Iran?
Sì. Se l’Iran attaccasse direttamente Israele e lanciasse una guerra contro di esso.
Se l’Iran attaccasse direttamente Israele e lanciasse una guerra contro di lui, chiederebbe agli Stati Uniti di intervenire in sua difesa?
Apprezzo sempre il sostegno americano e lo apprezzerei in ogni caso. È già stato dimostrato nell’attacco del 14 aprile. Ma non intendo entrare nel merito dei nostri preparativi difensivi o, se vogliamo, offensivi. Faremo ciò che è necessario per difenderci.
Fotografia di Paolo Pellegrin-Magnum Photos per TIME
Pensa che l’amministrazione Biden stia inviando una posizione di forza sufficiente contro l’Iran per dissuaderlo dall’attaccare Israele o dal lanciare una guerra totale contro di esso?
Meno luce c’è tra Israele e l’America, più efficace è la deterrenza nei confronti dell’Iran e dei suoi proxy. Apprezzo il fatto che il Presidente Biden abbia inviato gruppi da battaglia, gruppi di portaerei qui nella prima parte della guerra. Apprezzo il fatto che lo stia facendo ora.
Negli ultimi anni, l’Iran si è avvicinato a un’arma nucleare. Come sapete, ora sta arricchendo l’uranio fino al 60% di purezza, secondo l’AIEA, che sospetta che possa sviluppare due armi nucleari se l’uranio viene ulteriormente arricchito. Quali misure sta adottando Israele per fermare tutto questo?
Beh, abbiamo fatto dei passi, credo che le azioni che abbiamo intrapreso nel corso degli anni abbiano ritardato l’arricchimento dell’Iran, ma non l’hanno fermato, e ora sono vicini ad essere uno Stato di soglia, uno Stato nucleare, per quanto riguarda l’arricchimento. Ci sono altre componenti, altri elementi per la realizzazione di un’arma nucleare che sono ancora lontani. Ma mi sono impegnato – l’ho ripetuto più volte – a fare tutto ciò che è in nostro potere per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari. Non solo ci minaccerebbe di distruzione, ma credo che minaccerebbe la pace del mondo intero.
Una guerra totale con Hezbollah è inevitabile?
Penso che Hezbollah debba considerare le conseguenze di attaccare Israele e di aprire una guerra più ampia. Penso che se ci stanno pensando, dovrebbero pensarci due volte.
Se non li affrontate ora, siete preoccupati di poter ripetere l’errore con Hamas, dove guadagnano ancora più forza e capacità e poi vi colgono di sorpresa anni dopo?
È un tema molto sentito, soprattutto dopo il 7 ottobre. Non stiamo affrontando solo Hamas. Stiamo affrontando il più ampio asse del terrore iraniano che comprende Hamas, gli Houthi, Hezbollah, le milizie in Siria e in Iraq e anche gli sforzi che stanno cercando di fare per creare un altro fronte in Cisgiordania, in Giudea e Samaria. Siamo quindi di fronte a un vero e proprio asse iraniano e capiamo che dobbiamo organizzarci per una difesa più ampia, che non riguarda solo noi ma tutti i Paesi della regione, compresi i nostri partner arabi.
Quindi, se non succede ora, pensa che succederà più avanti?
Non c’è nulla di predeterminato. Penso che più forti siete, più forti sono le vostre alleanze, meno è probabile che dobbiate intraprendere azioni militari, ma per… ma i Romani avevano ragione, sapete, se volete la pace, preparatevi alla guerra.
Quando la gente del nord potrà tornare a casa?
Non posso dirlo con certezza, ma è un obiettivo. Uno dei nostri obiettivi principali è fare in modo che i circa 60.000 israeliani che hanno evacuato le loro case possano tornare a vivere nelle loro comunità in pace e sicurezza. Questo è ancora l’obiettivo che dobbiamo raggiungere.
A posteriori, pensa che sia stata una decisione giusta quella di evacuare le comunità del nord?
Credo che all’epoca fossimo preoccupati che quello che era successo a Gaza, cioè un’invasione di terra e massacri, si sarebbe ripetuto nel nord. E credo che ora la nostra preoccupazione sia quella di assicurarci che possano tornare con la sicurezza.
Voglio fare una transizione al mondo prima del 7 ottobre e voglio darvi la possibilità di rispondere. Perché lei e il suo governo avete permesso ai qatarini di finanziare Hamas?
Beh, non è solo il mio governo. È il governo precedente, quello prima di me e quello dopo di me. Non stava finanziando Hamas. Di fatto, sosteneva l’amministrazione civile gestita da vari funzionari, molti dei quali non appartenenti ad Hamas. Ma il motivo per cui i governi successivi hanno accettato è che volevamo assicurarci che Gaza avesse un’amministrazione civile funzionante per evitare un collasso umanitario. Per esempio, avere i soldi per gestire le fognature, l’approvvigionamento idrico, il sistema educativo, e così via. Voglio dire che l’intero sistema sarebbe potuto crollare e ci sarebbero state epidemie. Avremmo potuto avere molti altri problemi che volevamo assicurarci di evitare;
Voglio leggere qualcosa che hai detto…
Ma aggiungerò qualcosa. Questo non mi ha impedito di condurre tre vere e proprie campagne militari contro Hamas in cui abbiamo ucciso migliaia di terroristi, eliminato alcuni dei loro vertici militari e cercato di impedire loro di avere la capacità di attaccarci. Una cosa che non abbiamo fatto è stata quella di non sradicare completamente Hamas, perché ciò avrebbe richiesto un’invasione di terra su larga scala per la quale non avevamo alcuna legittimità interna o internazionale. Guardate che problema di legittimità abbiamo ora, dopo che hanno condotto il peggior attacco terroristico al popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto;
Voglio tornare su questo punto tra un secondo, ma voglio anche chiederle qualcosa che ha detto nel 2019 a una riunione del partito Likud. Voglio leggerlo per lei. “Chiunque voglia ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il sostegno ad Hamas e il trasferimento di denaro ad Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza”.
È un’affermazione falsa. Non ho mai detto questo.
Non l’hai mai detto?
Non l’ho mai detto. Tra le tante citazioni errate che mi vengono attribuite. Questa non è proprio in cima alla lista, ma ci si avvicina.
Altri membri del suo governo, con cui ho parlato, hanno detto che lei voleva dare ad Hamas qualcosa da perdere, in modo che non volesse attaccare Israele.
No, semplicemente non ne aveva la capacità. Non mi sono mai fatto illusioni su Hamas. Quando mi sono dimesso dal governo di Sharon prima che lasciasse Gaza, ho detto: “Quello che succederà è che avrete l’Hamistan. Avrete uno Stato del terrore sostenuto dall’Iran proprio alla periferia di Tel Aviv”. Nel 2014 ho definito Hamas “Daesh e ISIS” e ho detto che dobbiamo costantemente ridurre e distruggere le loro capacità militari. Ma non siamo arrivati a tagliare le erbacce, ma non siamo entrati in azione per sradicarle completamente fino al 7 ottobre. Il 7 ottobre ha dimostrato che coloro che dicevano che Hamas era stato scoraggiato si sbagliavano. Semmai, non ho messo abbastanza in discussione il presupposto che era comune a tutte le agenzie di sicurezza.
Guardando al passato, è stato un errore permettere ai qatarini di trasferire denaro a Gaza?
Non credo che abbia fatto una grande differenza, perché il problema principale era il trasferimento di armi e munizioni dal Sinai a Gaza. Non era tanto una questione di soldi, quanto di disponibilità. Era una questione di disponibilità, ed è per questo che ora insisto sulla necessità di tagliare questa via di rifornimento per il periodo post-Hamas, in modo da non dover rifornire la rinascita del terrore.
Perché non avete eliminato Hamas prima? Avresti potuto arrivare fino in fondo nel 2014;
No, non avrei potuto. Non credo che ci fosse… non c’era un consenso. C’era, infatti, un consenso tra i militari sul fatto che non avremmo dovuto farlo. Ma soprattutto, si può scavalcare l’esercito, ma non si può, non si può agire nel vuoto. Non c’era alcun pubblico, alcun sostegno interno per tale azione. Non c’era certamente il sostegno internazionale per un’azione del genere, e per intraprendere un’azione del genere sono necessari entrambi, o almeno uno di essi. Credo che questo sia diventato evidente subito dopo il massacro del 7 ottobre.
Manifestanti che chiedono un accordo per il rilascio degli ostaggi davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme il 3 agosto.Paolo Pellegrin-Magnum Photos per TIME
I servizi militari e di intelligence israeliani avevano avvertito che la vostra revisione giudiziaria stava dividendo Israele e che Hezbollah e Hamas la vedevano come un indebolimento della deterrenza di Israele. Perché non li ha ascoltati?
In realtà si sono preoccupati di dire che questo non è il caso di Gaza. Hanno detto che potrebbe avere ripercussioni sulla comunità in generale, in altre parti del Medio Oriente, ma sono stati abbastanza precisi sul fatto che non ha riguardato Gaza. Ma la cosa più importante è che credo che ciò che li ha davvero colpiti, se mai, sia stata l’idea di qualcuno che si rifiuta di servire. Il rifiuto di servire a causa di un dibattito politico interno. Penso che, se non altro, questo abbia avuto un effetto, come è risultato, e l’ho detto prima del 7 ottobre, non fatevi illusioni, quando arriverà il momento, saremo tutti lì, tutte le fazioni, tutte le fazioni in una disputa interna si uniranno per combattere come un solo uomo contro un attacco.
Pensa che abbiano visto come un’apertura il fatto che la vostra società fosse così spaccata e divisa?
Non credo che questo sia stato il fattore determinante. Sono comunque determinati a cancellarci dalla mappa. È sempre stata la posizione di Hamas, e i piani per questo attacco in realtà hanno preceduto la riforma giudiziaria di, mi lasci controllare, ma credo sia circa un anno.
Il Presidente Trump mi ha detto che lei è stato “giustamente criticato” per il 7 ottobre. Si sbaglia?
Non voglio entrare in una discussione, ma direi che… criticato per cosa?
Per il fatto che è successo sotto il suo controllo;
Beh, sapete, quando succede sotto i vostri occhi, sospetto di aver provato la stessa cosa che ha provato il Presidente Roosevelt dopo Pearl Harbor e il Presidente George W. Bush dopo l’11 settembre. Succede durante il tuo turno di guardia. Si cerca di capire come si sarebbe potuto evitare. Ma in questo momento la mia responsabilità qual è? Vincere la guerra, assicurarmi che non si ripeta, distruggere le capacità militari di Hamas in modo che non si ripeta.
Ne ha discusso con Trump a Mar-a-Lago?
No, ma non entrerò nel merito delle nostre discussioni;
I capi dell’IDF e dello Shin Bet si sono scusati per il 7 ottobre. Quando lei si è scusato, è stato per un post sui social media che incolpava l’establishment militare e di sicurezza. Perché non si è scusato con il popolo israeliano per il 7 ottobre?
Ho detto che dopo la fine della guerra ci sarà una commissione indipendente che esaminerà tutto quello che è successo prima, e tutti dovranno rispondere a domande difficili, compreso me;
Lo farete subito? Ti scuserai?
Non credo che possiamo farlo ora, nel bel mezzo di una guerra. Chiedere scusa? Certo, certo. Mi dispiace profondamente che sia successa una cosa del genere. E si guarda sempre indietro e si dice: avremmo potuto fare qualcosa per evitarlo? Dovrebbe essere come non esserlo?
Certo, ma qual è la sua responsabilità?
Penso che esamineremo tutto questo, questa domanda, ed esamineremo in dettaglio, esattamente cosa è successo? Come è successo? Come è avvenuto il fallimento dell’intelligence, della capacità operativa e di altre politiche che hanno contribuito? Ci sarà tempo per affrontarlo. Ma credo che occuparsene ora sia un errore. Siamo nel bel mezzo di una guerra, una guerra su sette fronti. Credo che dobbiamo concentrarci su una cosa: vincere.
Dopo l’assassinio di Shukr a Beirut e di Haniyeh a Teheran, pensa che ci sia ancora la possibilità di un accordo per il rilascio degli ostaggi?
Sì, penso di sì. Penso che siano aumentati perché alcuni degli elementi più estremi che si oppongono all’accordo non sono più con noi.
So che Israele non ha rivendicato la responsabilità dell’assassinio di Haniyeh, ma il Presidente Biden ha affermato che l’uccisione di Haniyeh non è stata “utile” per i colloqui di cessate il fuoco. Come risponde?
Ho detto che non abbiamo intenzione di commentare, e non ho cambiato il mio punto di vista;
La valutazione degli Stati Uniti è che sia stato Israele.
Come ho detto, nessun commento.
I funzionari statunitensi e le famiglie degli ostaggi temono che lei stia escalando le tensioni nella regione per sabotare l’accordo di cessate il fuoco. Cosa risponde a questa affermazione?
Non è vero. Siamo di fronte a un cappio di morte che l’Iran sta cercando di metterci intorno al collo, e credo che il messaggio che stiamo inviando, a 360 gradi, è che non saremo agnelli condotti al macello. Israele non è, non è un agnello sacrificale per gli iraniani o per i loro proxy;
Ci sono più di 100 ostaggi ancora in cattività. Quanti crede che siano ancora vivi?
Beh, non tutti, purtroppo;
Hai qualche base per credere a un certo numero?
Non ho intenzione di farlo;
Lei ha giurato una vittoria totale contro Hamas, il che significa, prima di ogni altra cosa, porre fine al suo dominio sulla Striscia di Gaza. Rimuovere Hamas dal potere è una priorità più alta della restituzione degli ostaggi?
Penso che siano obiettivi complementari. Non si escludono a vicenda. Più pressione militare esercitiamo, più ci avviciniamo al raggiungimento di entrambi gli obiettivi. Primo, liberare gli ostaggi. È una funzione pura e semplice della pressione che esercitiamo su Hamas e, in secondo luogo, fa avanzare il nostro obiettivo di distruggere le capacità militari di Hamas e di assicurarci che non gestisca Gaza.
È disposto ad accettare un accordo che rilasci tutti gli ostaggi, ma che non ponga fine al controllo di Hamas sulla Striscia di Gaza?
No, non credo. E credo che in Israele ci sia un ampio consenso sul fatto che se lo facessimo, ci sarebbe solo una ripetizione. Ci saranno futuri sequestri di ostaggi, ci sarà un futuro 7 ottobre, e in realtà potrebbero accadere cose peggiori. Quindi dobbiamo raggiungere entrambi gli obiettivi, liberare tutti gli ostaggi e vincere la guerra. E credo che sia possibile. Tra l’altro, abbiamo già rilasciato, abbiamo già ottenuto il rilascio di più della metà, come sapete, e abbiamo insistito, quando è stato presentato l’accordo, per aumentare il numero, in realtà di 30 unità. Siamo passati da 50 a 80 in quel particolare rilascio e ne abbiamo rilasciati altri nelle operazioni di salvataggio. Ma il mio impegno è quello di liberare tutti gli ostaggi. E in effetti, credo che il modo in cui stiamo procedendo sia l’unico modo per raggiungere questo obiettivo.
I vostri stessi capi della sicurezza, negli ultimi giorni, hanno affermato che le vostre richieste, tra cui quella di permettere a Israele di riprendere i combattimenti dopo un accordo di cessate il fuoco con gli ostaggi, stanno paralizzando le possibilità dell’accordo. Come risponde?
Non voglio entrare nel merito di ciò che dicono esattamente. Non lo stanno dicendo, e alcuni capi della sicurezza stanno dicendo che sto facendo un salto mortale. Ma, in definitiva, questo è un Paese con un esercito, non un esercito con un Paese. In definitiva, la responsabilità di prendere una decisione spetta ai vertici politici dei leader politici. È così che funziona in una democrazia. E a volte si è d’accordo, a volte si è in disaccordo. La maggior parte delle volte, per come prendiamo le decisioni e con il consenso, ma non sempre. Questo vale anche per gli Stati Uniti. Voglio dire, ricordate che credo che la maggior parte dei capi della sicurezza e dei capi militari abbiano detto al Presidente Obama che non avrebbe dovuto abbattere Bin Laden e lui ha deciso diversamente. Questo succede anche qui, a volte.
Ma dirò questo: credo che il modo in cui sto cercando di raggiungere l’accordo sia quello di massimizzare il numero di ostaggi che vengono rilasciati nella prima fase, ostaggi vivi che vengono rilasciati nella prima fase, ma anche di assicurarsi che Hamas non possa prendere il controllo di Gaza dopo l’accordo. Questo è un aspetto che andrebbe contro tutto ciò di cui abbiamo parlato. Inoltre, non garantirebbe il rilascio di tutti gli ostaggi. E io mi impegno a farlo;
Netanyahu nel suo ufficio di Gerusalemme il 4 agosto.Paolo Pellegrin-Magnum Photos per TIME
Molti americani vogliono che voi poniate fine alla guerra. Può spiegare loro perché è così imperativo, secondo lei, che la conseguenza del 7 ottobre sia che Hamas perda Gaza?
Voglio porre fine alla guerra. Finirei la guerra domani, se potessi. E comunque, se Hamas deponesse le armi, si arrendesse, andasse in esilio, la guerra finirebbe immediatamente. E perché ne abbiamo bisogno? Perché Hamas, l’enclave di Hamas, l’enclave terroristica iraniana, è a 40 miglia da Tel Aviv, ok? Lasciarli al loro posto non solo significa che avrebbero la possibilità di ripetere la ferocia del 7 ottobre, ma anche di andare ben oltre. Quando agiscono all’unisono con l’asse del terrore iraniano, con Hezbollah nel nord, con gli Houthi e altri che ci sparano addosso simultaneamente, è qualcosa di inaccettabile.
Israele può ripristinare la sua deterrenza senza raggiungere questo risultato?
No, penso che sia importante raggiungerlo, non solo perché eliminiamo quel fronte così vicino al centro del nostro Paese e a tutte le strutture strategiche che abbiamo, ma anche per mandare un messaggio agli altri elementi dell’asse del terrore iraniano: Se compirete questa orribile barbarie, il peggior attacco al popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto, intraprenderemo un’azione potente contro di voi e non sarete in grado di ripeterla;
Signor Primo Ministro, ovviamente non dobbiamo farci illusioni sul nemico che avete di fronte e sulle tattiche che utilizza. Hamas inserisce deliberatamente le sue infrastrutture militari e i suoi depositi di armi all’interno di aree civili densamente popolate. E naturalmente tutto questo è iniziato il 7 ottobre. Ma secondo la sua stima, quanti gazesi sono stati uccisi in questa guerra e quanti erano civili rispetto ai combattenti?
La nostra migliore valutazione è di un rapporto di uno a uno, ma è andato calando naturalmente. Un rapporto di uno a uno, probabilmente nelle più difficili condizioni di guerra urbana, è un risultato straordinario per il governo israeliano. Ogni vittima civile, l’ho già detto e lo ripeto, è una tragedia;
Quante ce ne sono state?
Beh, se è circa la metà. Quindi stiamo parlando di quanto 15.000, di più.
Il numero è 40 [40.000] in questo momento, quindi lei sta dicendo 20 [20.000]?
È difficile dire il numero esatto di vittime civili o militari, ma è circa 40 per tutti. È circa metà e metà. La nostra migliore valutazione è di uno a uno. Ma è interessante notare che quel numero sta diminuendo, diminuendo precipitosamente, e il luogo in cui le vittime civili sono state più basse è Rafah. La comunità internazionale e gli Stati Uniti ci hanno detto di non entrare a Rafah perché le vittime sarebbero state migliaia. In effetti, alcuni parlavano di 20.000 vittime, perché a Gaza c’erano 1,4 milioni di persone e dove sarebbero andate? Ebbene, si è scoperto che sono andati tutti. Se ne sono andati tutti nella zona umanitaria che abbiamo designato a due miglia da Rafah, e il numero di civili uccisi, il numero di terroristi che abbiamo ucciso, che sono stati uccisi a Rafah, supera ora le 1.500 unità. Il numero di civili uccisi è di poche decine, la maggior parte dei quali in una bomba di piccolo diametro che ha colpito un deposito di armi di Hamas e che ha ucciso, si dice, circa 40 persone a Rafah, probabilmente la metà dei quali terroristi. Quindi il numero di vittime civili a Rafah, che avrebbe dovuto essere una catastrofe umanitaria e di vittime civili, si è rivelato esattamente l’opposto, perché abbiamo agito, perché abbiamo detto alla gente di andarsene, perché abbiamo detto loro, abbiamo mandato messaggi, volantini, abbiamo telefonato, abbiamo detto loro di andarsene, e se ne sono andati, e sono felice di vedere che il numero sta diminuendo.
Tra l’altro, non avremmo nulla. Nessuno di loro verrebbe giù se non fosse per… Nessuno di loro sarebbe in realtà, perché praticamente non ci sono state vittime significative a Gaza, se ci fosse una condizione che non esiste a Gaza, ma esiste in tutti gli altri teatri di guerra urbana dove i numeri sono in realtà più alti, e questo perché Gaza è bloccata, perché la gente non può andare nel Sinai. Se potessero, lascerebbero completamente il teatro di guerra e Israele non sarebbe costretto a intraprendere le azioni che intraprende. Questo è ciò che è accaduto in Siria. Questo è ciò che è successo in Iraq. Questo è ciò che è successo in Yemen. La gente se ne va. A Gaza non possono andarsene, e noi dobbiamo affrontare l’enorme compito di assicurarci di ricollocarli in uno spazio molto ristretto. Ma ci siamo riusciti e sono felice di vedere che ci siamo riusciti. Man mano che andiamo avanti, riusciamo sempre meglio in questo – a Rafah, quasi al 100%.
Ma è d’accordo sul fatto che, secondo qualsiasi stima, questa guerra ha avuto un tragico costo in termini di vite umane?
Certo. Senta, ogni volta che vengono uccisi dei civili, c’è… vede… Senta, conosco gli orrori della perdita di persone. Conosco gli orrori. La guerra è un inferno. Credo che l’abbia detto Sherman, e vi dirò che è davvero un inferno. Quando si perdono i propri soldati, quando si perde la propria gente e quando si vedono civili uccisi dall’altra parte, è qualcosa che si vuole evitare. E io ho adottato, e Israele ha adottato, metodi insoliti che nessun militare ha mai adottato nella storia per evitare queste perdite. Ecco perché il rapporto è relativamente basso. Il rapporto è un numero, ovviamente. Per ogni civile ucciso, per ogni famiglia di un civile ucciso, le statistiche non contano, ma guardando in termini ampi e storici Israele ha fatto qui, in condizioni impossibili, condizioni impossibili, penso, uno sforzo esemplare di evitare le vittime civili o di minimizzarle.
Dennis Ross ha detto, dopo il 7 ottobre, che avreste dovuto creare corridoi umanitari fin dall’inizio del conflitto per evitare vittime civili. Perché non l’avete fatto?
L’abbiamo fatto. Questo è completamente contrario ai fatti. Certo che l’abbiamo fatto. Abbiamo creato subito zone umanitarie e zone sicure e la gente si è trasferita lì;
Ci sono state molte segnalazioni di civili palestinesi morti perché non potevano avere accesso alle cure mediche. Perché non avete allestito ospedali da campo per i gazesi come avete fatto per ucraini e siriani?
Prima di tutto, l’abbiamo fatto noi. Cioè, abbiamo chiesto ad altri di farlo, perché noi non eravamo nelle zone sicure. Ma abbiamo permesso agli Emirati di creare gli ospedali da campo. Abbiamo permesso ad altri di fare lo stesso, ed erano ospedali funzionanti. Il problema è che molti degli ospedali palestinesi di Gaza non erano affatto ospedali. Sono diventati posti di comando per Hamas. Siamo entrati in questi ospedali. Avete trovato a malapena dei pazienti. Avete trovato terroristi. Avete trovato depositi di armi. Avete trovato centri di comunicazione, centri di comunicazione militari. Si sono trovati tunnel che entravano e uscivano dagli ospedali. Questo è uno dei problemi che abbiamo dovuto affrontare;
Israele avrebbe usato sistemi di intelligenza artificiale chiamati Lavender e Where’s Daddy? per identificare gli obiettivi di Hamas e bombardarli nelle loro case. È vero?
Non intendo entrare nel merito delle nostre capacità di raccolta di informazioni;
Alti funzionari israeliani hanno confermato il programma a più riprese. Stanno mentendo?
Loro forse sì, io no.
Più di 2 milioni di persone a Gaza devono affrontare l’insicurezza alimentare. Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme di una carestia a Gaza e più di 30 bambini sarebbero morti per malnutrizione. Le Nazioni Unite dicono che state usando la fame come arma di guerra. Come rispondete?
Non è vero. Abbiamo fatto di tutto per consentire l’assistenza umanitaria dall’inizio della guerra, abbiamo consentito l’arrivo di circa 40.000 camion di aiuti. Sono 500, mezzo milione di tonnellate di cibo, ok, mezzo milione di tonnellate. Abbiamo asfaltato le strade per permettere a quei camion di entrare. Abbiamo aperto passaggi terrestri per permettere a quei camion di entrare. Abbiamo permesso i lanci aerei. Abbiamo permesso il trasporto via mare. E in effetti, il conteggio delle calorie in questo momento, la media delle calorie che ogni uomo, donna e bambino di Gaza potrebbe raggiungere, potrebbe avere, è di circa, è di oltre 3.000 calorie, che è ben, ben oltre i livelli di sussistenza. Prendiamo centinaia, migliaia di prigionieri, migliaia di prigionieri, prigionieri palestinesi. La prima cosa che facciamo è assicurarci che non abbiano addosso cinture o giubbotti suicidi. Quindi chiediamo loro di togliersi la maglietta. Trovatemi un esempio, uno, di persona emaciata, non ne troverete nemmeno uno. A volte si trova il contrario. Semplicemente non è vero. Quindi questi rapporti non sono affidabili. I mercati di Jabalia e di altre zone di Gaza sono pieni di cibo e così via. Questo non significa che non ci siano state interruzioni di cibo. Ci sono state, ma non perché Israele non abbia permesso la fornitura. Non è perché Israele ha bloccato la fornitura di cibo, ma perché Hamas l’ha rubato. Questo è il problema.
A questo proposito, Hamas saccheggia gli aiuti. Lo sanno tutti. Ma non state usando l’IDF per assicurare la distribuzione degli aiuti. Avete le vostre forze a Gaza. Potreste impedire i saccheggi. Perché non lo fate?
Questo è un dibattito molto importante che si sta svolgendo all’interno dei nostri quartieri. Perché il modo in cui si potrebbe fare è quello di inviare molte più forze militari, occupare Gaza e gestire Gaza. E noi vorremmo evitarlo. Vorremmo eliminare l’esercito di Hamas, ma far sì che sia un’amministrazione civile, un’amministrazione civile gazana, a gestire il tutto. Per ora. E stiamo lavorando su come farlo. Meno parlo di come lo faremo, più è probabile che…
Quindi è possibile che inizi a usare…
Non è una possibilità. È un obiettivo;
Avete intenzione di provare a farlo prima o poi?
Ci stiamo lavorando;
Avete un obiettivo in termini di tempistica?
Prima è, meglio è, ma una delle cose che cerchiamo di fare è reclutare gazesi locali per fare esattamente quello che ha detto lei, distribuire il cibo. E la prima cosa che è successa è che Hamas li ha uccisi. Quindi stiamo lavorando su altre possibilità. Ma ancora una volta, meno ne parlo, più è probabile che si concretizzi.
Perché nessuno degli israeliani che hanno distrutto le scorte di cibo per i gazesi è stato perseguito?
Lo hanno fatto. Non lo so. Non so se non siano stati perseguiti. Le mie istruzioni erano, e le istruzioni del gabinetto erano, di intraprendere tutte le azioni, le azioni legali necessarie, le azioni delle forze dell’ordine per impedire a queste persone di bloccare le strade. E ci hanno provato. Ci hanno provato, ma credo che in generale abbiamo messo un freno a tutto questo.
I gruppi che lo hanno fatto possono ancora beneficiare di donazioni deducibili dalle tasse. Lo eliminereste per loro?
Non ho idea di chi stia facendo cosa. Ho chiesto alla polizia, alle forze dell’ordine, di fare ciò che è necessario per prevenire tutto questo. E lo stanno facendo. Anzi, credo che la maggior parte di essi sia cessata;
Come Primo Ministro e come capo del gabinetto di guerra, si assume la responsabilità del trattamento dei prigionieri palestinesi?
Sì, certo. Pensiamo che questo sia un Paese di leggi. Bisogna obbedire alle leggi, alle leggi di guerra. Significa che se ci sono trasgressioni, devono essere indagate e, se necessario, perseguite. Non è una domanda.
Signore, l’ONU e altri organi di controllo hanno riferito che le forze militari israeliane hanno abusato dei prigionieri palestinesi, anche attraverso la privazione del sonno, il waterboarding, gli attacchi dei cani e persino la violenza sessuale. Cosa state facendo per questi presunti abusi?
Abbiamo le nostre agenzie indipendenti, i nostri mezzi indipendenti per monitorare qualsiasi, qualsiasi trasgressione di questo tipo. Israele, credo, è famoso per questo. Ha quello che viene definito un vero e proprio sistema giudiziario, sia all’interno che all’esterno dell’esercito. In effetti, è probabilmente il sistema legale più indipendente del pianeta, quindi l’argomentazione che non stiamo indagando su questo è ridicola;
A proposito di persone indagate, vorrei chiederle cosa è successo a Sde Teiman. Dopo che un detenuto palestinese è stato portato in ospedale con gravi ferite all’ano dopo essere stato aggredito sessualmente con un palo, i manifestanti di estrema destra, tra cui alcuni legislatori, hanno preso d’assalto un centro di detenzione per protestare contro l’arresto di nove presunti sospetti. Come saranno ritenuti responsabili?
Nessuno può fare irruzione in una base militare, nessuno può o deve interferire con le forze dell’ordine. Questa è una posizione critica che ho mantenuto, e non mi interessa se viene da destra o da sinistra. In effetti, una delle cose che credo sia necessario fare è assicurarsi che le forze dell’ordine siano uniformi e severe, e non lo sono sempre state, ma dovrebbero esserlo.
Quando ha condannato questa rivolta, ha detto che non prendiamo d’assalto i centri di detenzione e che non blocchiamo le strade, riferendosi ai manifestanti per gli ostaggi e ai manifestanti per la riforma giudiziaria. Perché ha equiparato queste due cose?
Ho anche detto che c’è stato un caso in cui i manifestanti, uno dei principali manifestanti, è stato portato in una stazione di polizia militare e poi in un tribunale, e migliaia di persone hanno preso d’assalto la stazione di polizia e credo anche il tribunale. E in effetti è stato rilasciato sotto questo tipo di pressione. Allora era sbagliato, forse hanno dato l’esempio a qualcun altro che era sbagliato, e questo è sbagliato. Non accetto nessuna delle due cose;
Ben Gvir ha creato un’atmosfera di violenza permissiva contro i prigionieri palestinesi? Dovrebbe dimettersi o essere licenziato?
Non credo che dovremmo permettere che ciò accada. Non è questa la politica del governo e non credo che qualcuno creda seriamente che non faremo rispettare le leggi. Le facciamo rispettare. Lo abbiamo fatto in questo caso, lo abbiamo fatto. Dovremmo farlo in tutti i casi.
Cosa risponde ai suoi detrattori che sostengono che la sua prosecuzione della guerra a Gaza stia creando una nuova generazione di terroristi, mettendo così a rischio la sicurezza di Israele invece di garantirla?
Penso che questo sia assurdo. Abbiamo un’enclave terroristica, un’enclave terroristica sostenuta dall’Iran, impegnata nella distruzione di Israele. Più credono di poterlo fare, più il terrorismo aumenterà in futuro. L’unico modo per distruggere queste persone, che come ho detto hanno commesso il peggior oltraggio contro il popolo ebraico dopo l’Olocausto, è assicurarsi che siano sconfitte. È come dire che l’azione degli alleati contro i nazisti ha creato altri nazisti? Certo che no. Bisognava distruggere quel regime. Non significa che oggi non ci siano neonazisti in Germania, ma negli ultimi 80 anni la Germania non ha avuto un regime nazista e ha avuto un regime democratico. Non so se riusciremo a ottenere un regime democratico a Gaza, ma dobbiamo assicurarci che Hamas e i suoi simili non gestiscano Gaza, e questa è l’unica cosa che creerà speranza per una nuova generazione di palestinesi: finché crederanno che Gaza sarà gestita da Hamas, non ci sarà una nuova generazione di persone in grado di vivere in pace con Israele.
Vorrei passare alla sua visione di una Gaza postbellica. Lei ha descritto la vittoria totale come il raggiungimento di tre obiettivi: Numero uno: distruggere l’infrastruttura militare di Hamas e togliergli il potere. Numero due: liberare gli ostaggi. Numero tre, l’installazione di una nuova entità governativa palestinese civile che possa governare su Gaza e non minacciare Israele. L’esercito israeliano ha un piano per il numero uno. Tutti conoscono le linee di base per il numero due, ma qual è il vostro piano per il numero tre?
Si tratta di due cose fondamentali: la smilitarizzazione e la de-radicalizzazione. Smilitarizzazione significa che bisogna assicurarsi che Hamas sia distrutto, ma anche che non possa riprendersi. E questo significa, prima di tutto, impedire il contrabbando di armi e terroristi dal Sinai a Gaza. Ecco perché insisto sul controllo, sul controllo continuo del corridoio di Philadelphi tra l’Egitto, tra il Sinai e Gaza. Ma questo significa anche che per il prossimo futuro, fino a quando non emergerà un’altra forza, Israele dovrà avere il compito di agire contro qualsiasi tentativo di ripresa del terrorismo. In secondo luogo, mi piacerebbe vedere un’amministrazione civile gestita da gazesi, magari con il supporto di partner regionali, che gestisca l’amministrazione civile di Gaza. Smilitarizzazione da parte di Israele, amministrazione civile da parte di Gaza.
Diteci i dettagli;
E, naturalmente, anche cambiando ciò che viene insegnato nelle scuole, ciò che viene insegnato nelle moschee. Questo è essenzialmente ciò che gli Stati Uniti hanno fatto nel dopoguerra in Germania e in Giappone. Hanno smilitarizzato e de-radicalizzato, e quei Paesi sono in pace con gli Stati Uniti da quasi un secolo.
A un osservatore esterno, questo sembra qualcosa che richiederebbe una generazione per essere raggiunto. Potrebbe fornire dettagli specifici di un piano che il popolo israeliano, gli americani e il resto del mondo possano considerare come un modo credibile per arrivarci?
Non credo che sia istantaneo. Penso che ci vorrà un po’ di tempo per farlo, ma credo che sia l’unica cosa ragionevole da fare, a meno che non si voglia che si ripeta quello che è successo.
Quanto tempo pensa che ci vorrà?
Penso che dovremmo iniziare il prima possibile. Ed è su questo che stiamo lavorando in questo momento.
Con quali Paesi arabi sta parlando della creazione di un simile governo palestinese?
Meno ne parlo, più è probabile che avremo successo.
Secondo quanto riferito, state parlando con l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania. È così?
Lei è un giornalista. Sei libero di chiedere a chiunque tu voglia.
Voglio dire, queste nazioni vorranno davvero entrare a cavallo dei carri armati israeliani?
Penso che tutti capiscano, anche se non lo dicono pubblicamente, che la sconfitta di Hamas non serve solo a Israele, ma anche agli interessi della pace e della sicurezza nell’intera regione, che lo ammettano apertamente o meno. Sicuramente ce lo hanno detto in conversazioni private.
In passato, lei ha parlato di “Stato meno” per i palestinesi, o di “autonomia più”. Ma può spiegare perché il punto di arrivo per risolvere questo conflitto non è uno Stato palestinese?
Ho sempre detto che la mia visione di un accordo, un accordo a lungo termine, con i palestinesi significherebbe che essi dovrebbero avere tutti i poteri per governarsi da soli, ma nessuno dei poteri per minacciarci. Ciò significa che la responsabilità principale della sicurezza sarà lasciata nelle mani di Israele, e questa è una sottrazione di poteri sovrani. Non c’è dubbio. È l’unico accordo ragionevole che potremmo avere. Infatti, quando abbiamo lasciato le aree adiacenti a Israele e abbiamo ceduto il nostro potere, abbiamo avuto un ingresso immediato e una presa di potere da parte dei proxy dell’Iran, Hezbollah in Libano, quando abbiamo lasciato il Libano, Hamas quando abbiamo lasciato Gaza. Non credo che dovremmo ripetere quell’errore. Dobbiamo avere la capacità di garantire la sicurezza generale di Israele. Ciò significa che qualsiasi accordo con i palestinesi dovrà avere i poteri di cui hanno bisogno per governarsi, ma non quelli che potrebbero minacciarci. Il principale di questi è la sicurezza.
Ma anche se si mantiene il controllo della sicurezza, gli Stati Uniti hanno basi in Corea del Sud, in Giappone, in Germania. Sono presenti ovunque. Voglio dire, non si potrebbe mantenere un certo livello di sicurezza, o il controllo di sicurezza necessario, anche se si tratta di una sovranità inferiore a quella di altri Paesi, e permettere loro di avere un proprio Stato?
Beh, non entro nel merito delle etichette. Mi occupo del contenuto, e il contenuto è ancora una volta, i poteri critici che riguardano la sicurezza devono essere affidati, devono rimanere nelle mani di Israele, fino a quando non mi dimostrerete che c’è un’altra forza che potrebbe prenderne il posto, e non lo vedo nell’immediato futuro, anche se se me lo dimostrerete, lo prenderò in considerazione.
La scorsa primavera il Presidente Biden ha dichiarato al TIME che la gente dovrebbe avere “tutte le ragioni per credere” che lei stia prolungando la guerra per la sua autoconservazione politica. Come risponde?
Semplicemente non è vero. Non ne ho bisogno. Non mi interessa la mia conservazione politica. Mi preoccupa la conservazione del mio Paese e, in questo momento, non intendo prolungarla. Vorrei che finisse il più presto possibile. Anzi, più assistenza abbiamo, più velocemente lo risolveremo. È quello che ho detto al Congresso. Ho parafrasato Churchill. Ha detto: “Dateci gli strumenti, faremo il lavoro e lo finiremo”. Io ho detto: “Dateci gli strumenti più velocemente e finiremo il lavoro più velocemente”. E questa rimane la mia posizione.
I suoi critici, qui in Israele e all’estero, dicono che lei non vuole porre fine alla guerra perché verrebbe votato e poi dovrebbe affrontare una possibile condanna per frode, corruzione e violazione della fiducia. So che il processo è in corso come Primo Ministro, ma come risponde a queste accuse?
Beh, in primo luogo, questo. Voglio dire, non c’è… non c’è questa canard, questa narrazione che io stia prolungando la guerra è falsa. Sto cercando di porre fine alla guerra il più rapidamente possibile. In secondo luogo, il mio processo sta procedendo in Israele. I leader politici non godono di alcuna immunità da procedimenti giudiziari o legali. In effetti, il mio processo è in corso da tre anni. È totalmente indipendente da ciò che accade all’esterno, proprio perché Israele ha un sistema giudiziario indipendente. Non è soggetto ai capricci di nessun leader politico. E tra l’altro, quel processo si sta disfacendo ora. Non se ne sente parlare molto, ma si sta davvero dipanando. Quindi non è questo il problema. È un problema fasullo. A volte mi sorprende che giornalisti di alto livello, non come lei, scrivano articoli sui principali giornali del mondo per spiegare che sto cercando di prolungare la guerra per evitare di essere processato.
Non riesco a capire a chi ti riferisci;
Salve! Sono stato sotto processo negli ultimi tre anni!
Prima del 7 ottobre, eravate sulla soglia di un accordo di normalizzazione saudita. So che non è finita. Ma Ghazi Hamad di Hamas, con cui ho parlato lo scorso autunno, ha detto che Hamas ha attaccato Israele con l’obiettivo non solo di cercare di fermare l’accordo, ma di scatenare una risposta israeliana che vi metterebbe il mondo contro. Prendete quello che dice con un granello di sale. Ma a tal fine, non ci sono riusciti?
No, penso che non ci riusciranno, perché una volta che avremo vinto, credo che le cose andranno al loro posto e, di fatto, l’accordo saudita diventerà più probabile. In ogni caso, non ho rinunciato all’accordo. Lo ero…
Ma il mondo ha trattato Israele come un paria globale negli ultimi 10 mesi.
Questo dice qualcosa sul mondo, non su Israele. Qui c’è una democrazia che combatte contro la peggiore barbarie che abbiamo visto sul pianeta per molti decenni, e il fatto che i governi democratici siano sottoposti a pressioni interne da parte di gruppi marginali e non sostengano completamente Israele o siano disposti ad accogliere questi estremisti dovrebbe essere imputato a loro, non a Israele.
È preoccupato che questo stia plasmando la percezione di Israele per la prossima generazione non solo di americani, ma di tutto il mondo, e che questo possa avere implicazioni a lungo termine per la sua sicurezza?
Sì, ma la distruzione ha implicazioni maggiori sulla sicurezza di Israele, quindi preferisco avere una cattiva stampa che un buon necrologio.
I sauditi dicono di volere uno Stato palestinese, o almeno vogliono che alla fine ci si muova verso uno Stato. Com’è possibile trovare un accordo di normalizzazione con i sauditi quando Ben-Gvir e Smotrich cambiano le condizioni sul terreno per escludere uno Stato palestinese, o anche uno Stato minimo, come lei lo ha definito?
Guardate, tutti i governi israeliani si sono basati su sistemi parlamentari [e] si sono basati su coalizioni. Lo hanno fatto tutti. I governi precedenti hanno persino fatto una coalizione con un partito affiliato ai Fratelli Musulmani che rifiuta la sopravvivenza stessa di Israele. Non ho sentito alcuna critica al riguardo. Ma una cosa vi posso assicurare: io dirigo lo spettacolo, prendo le decisioni. Formulo la politica.
Quindi capisco cosa significa mettere insieme una coalizione, ed è stato difficile negli ultimi due anni;
Lei ha vissuto qui;
E ci sono state molte elezioni in un breve periodo di tempo. Ma perché avete dato a Ben-Gvir e Smotrich queste posizioni di potere?
Beh, credo che sia un’assegnazione naturale. È quello che decidono gli elettori. E anche alcuni dei partiti che avrebbero potuto unirsi a me hanno deciso di non farlo, alcuni degli altri partiti. Sono stato molto contento quando uno di loro si è unito alla nostra coalizione all’inizio della guerra, e mi è dispiaciuto vederli andare via. È una loro decisione. Quindi penso che si dovrebbe chiedere – è così che si sbriciola il biscotto democratico.
Di quale altra coalizione avrebbero potuto far parte?
Avrebbero potuto entrare nel mio governo;
No, sto parlando di Ben-Gvir e Smotrich.
No, sto dicendo che gli altri partiti si sono rifiutati. Avete bisogno di un governo. Serve una maggioranza per governare, ok? Se i partiti si rifiutano di entrare nella coalizione, Israele rimane senza governo;
Ha dovuto metterli in quelle posizioni?
Non voglio entrare nel merito delle trattative di coalizione. Forse volevano un lavoro ancora più influente. E questo va bene. Voglio dire, va bene. Ma alla fine, credo che abbiamo deciso, credo che abbiamo deciso quello che il popolo di Israele ha deciso in elezioni libere e democratiche;
Smotrich una volta ha detto che lei è, come ha detto lui, “pienamente d’accordo con noi” quando si tratta dei suoi piani di annessione della Cisgiordania. Si sbaglia?
Non so se ha detto questo, ma se ha detto questo non è vero, perché non ho chiesto l’annessione. Ho spiegato che il nostro obiettivo è raggiungere una soluzione negoziata. Finora non è successo, e spero che un giorno accada, ma non lo vedo senza un cambiamento sostanziale nell’Autorità Palestinese. Insegnano ai loro figli sostanzialmente la stessa cosa che insegna Hamas: che Israele deve essere distrutto, deve essere dissolto. Glorificano gli attentatori suicidi. Pagano per uccidere: più ebrei si uccidono, più danno alle famiglie degli assassini o agli assassini stessi. Questo non è di buon auspicio per la pace. Ma credo che molti dei nostri vicini arabi lo capiscano, anche se non lo dicono apertamente;
Si impegnerà a non procedere all’annessione della Cisgiordania, qui e ora?
Non è questa la direzione che stiamo prendendo;
Parte di ciò che gli Stati Uniti offrono per la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele è il sostegno alla loro industria nucleare. È preoccupato che l’Arabia Saudita si stia dirigendo verso lo status di armamento nucleare e che questo possa portare alla proliferazione nucleare in Medio Oriente?
Penso che saremmo preoccupati per qualsiasi cosa che abbia questa possibilità. Sono sicuro che anche gli Stati Uniti sono preoccupati;
Vorrei parlare delle relazioni tra Stati Uniti e Israele. Sono forse due le cose più essenziali per garantire la sopravvivenza a lungo termine di Israele. In primo luogo, la volontà e la resistenza del popolo israeliano. In secondo luogo, il sostegno bipartisan a Israele a Washington. In passato ci sono stati periodi di frattura bipartisan sulla sicurezza di Israele, con Eisenhower, George Herbert Walker Bush, Obama, ma ciò che preoccupa i sostenitori di Israele…
Presidente Johnson.
Il Presidente Johnson, di sicuro, è il cambiamento generazionale che si verifica con il passaggio di una generazione che ha vissuto l’Olocausto e le sue conseguenze. Temono che la frammentazione del sostegno a Israele in questa epoca e oltre sia fondamentalmente diversa da quella di 20 o 50 anni fa. È preoccupato per questo?
Sì. Continuo a pensare che Israele goda dell’ampio sostegno di un’ampia fetta del popolo americano. E questo è stato evidenziato da un sondaggio dopo l’altro, ma lei ha ragione. Nel sondaggio di Harvard-Harris, l’80% degli americani, alla domanda: “Lei sosterrebbe Israele o Hamas”, ha risposto in modo coerente. Sostengono Israele, ma il 20% sostiene Hamas. E a ben guardare, non è molto diverso dal 20% che sostiene che Bin Laden era nel giusto e l’America nel torto. Quindi in America sta succedendo qualcosa di fondamentale. Non credo che l’erosione del sostegno, di cui si parla molto, tra alcuni settori dell’opinione pubblica americana sia legata a Israele. È piuttosto legata all’America. Cosa sta succedendo in America? L’America sta subendo importanti cambiamenti interni. Spero e credo che manterrà la sua posizione di difensore della libertà e della democrazia nel mondo. Sono pienamente d’accordo, ma non credo che sia Israele. Israele non ha cambiato le sue politiche. Non è questo. È che, per molti versi, gli Stati Uniti stanno cambiando e spero che il sostegno bipartisan, che lei ha ragione è essenziale per Israele, rimanga intatto.
Smotrich, almeno nell’ambito del suo mandato, sta approvando questi avamposti non autorizzati. Sta snellendo il processo di approvazione degli insediamenti. Sta cambiando il processo burocratico per portare avanti la sua agenda ideologica. Non è un cambiamento di politica?
No, non credo. Penso che la questione sia decisamente esagerata. Non cambia fondamentalmente l’impronta delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria, in Cisgiordania. Basta prendere una foto satellitare e confrontarla per vedere che non c’è stato quel cambiamento di cui si parla. Ma noi siamo impegnati. È parte della nostra patria. Intendiamo restarci. Non faremo pulizia etnica degli ebrei come non faremo pulizia etnica degli arabi;
La scorsa settimana ha ricevuto 57 standing ovation, ma quasi 130 democratici hanno saltato il suo discorso, compresa Kamala Harris, una delle due persone che saranno il prossimo presidente. Perché gli israeliani dovrebbero fidarsi di lei per mantenere il sostegno bipartisan a Israele a Washington?
Beh, sto facendo tutto il possibile per farlo. E non vengo a Washington come repubblicano o democratico. Vengo come israeliano. Cerco di trovare un accordo ogni volta che posso, ma mi batto anche per Israele ogni volta che devo farlo. E non l’ho fatto solo con presidenti democratici o amministrazioni democratiche. Mi sono opposto ad alcune politiche di George H.W. Bush, un repubblicano. Mi sono opposto alle politiche di George W. Bush sull’operazione Scudo difensivo, quando ha detto che Israele doveva andarsene subito. Mi sono dichiarato contrario. Ho parlato con 50 senatori dell’epoca contro questa politica, che ritenevo contraria agli interessi di Israele e, tra l’altro, anche a quelli dell’America. Quindi faccio il possibile per difendere Israele quando posso. Il primo ministro israeliano deve essere in grado di dire due cose. Deve dire no quando deve e sì quando può. Ed è quello che ho fatto.
Alcune decisioni da lei prese negli ultimi anni hanno allontanato i democratici. La percezione che lei abbia appoggiato Mitt Romney rispetto a Obama nel 2012, i suoi tentativi di impedire l’accordo sul nucleare iraniano e il suo ultimo discorso al Congresso, inizialmente contro il volere di Joe Biden. Perché mai vorrebbe rischiare di togliere questo sostegno bipartisan in un momento come questo?
Non voglio rischiare il sostegno bipartisan. Voglio, infatti, mobilitarlo, come ho cercato di fare nel discorso, al fine di mobilitare, in questo discorso e nei precedenti sforzi, il sostegno bipartisan, anche di fronte al cambiamento dell’elettorato, per gli obiettivi vitali di sopravvivenza di Israele. Questo è ciò che faccio. E in ogni caso, non intervengo. Contrariamente a quanto si dice, non intervengo nella politica americana e mi aspetto che gli altri non intervengano nella nostra;
Questa primavera i campus universitari americani sono stati invasi da proteste contro la guerra di Israele a Gaza. Secondo i sondaggi, i giovani simpatizzano maggiormente con i palestinesi. State perdendo il sostegno della prossima generazione di americani, compresi gli ebrei?
Penso che abbiamo un grosso lavoro da fare. Mi preoccupa. Non è una cosa che penso, non sono un facilone. Non dico: “Beh, non mi riguarda”. Certo che mi riguarda. Ma credo che dovrebbe preoccupare anche l’America. Perché quando le giovani generazioni sostengono questi assassini, questi stupratori, questi decapitatori di donne, questi bruciatori di bambini, allora l’America ha un problema. Non è un problema di Israele;
Ma cosa farete per rimediare? Questa è una tempesta in arrivo;
Cercare di dire la verità, come ho fatto la settimana scorsa al Congresso, e sono stato contento dell’accoglienza ricevuta. L’accoglienza è stata molto ampia, tra l’altro, ben accolta al di là della linea partitica, non da tutti, ma sono stato molto gratificato nel vedere la reazione di un pubblico molto ampio in America e, tra l’altro, in tutto il mondo. La gente ha sentito la verità. È difficile [incomprensibile] la verità perché c’è la preponderanza di elementi ostili a causa della superiorità numerica. E nei social media e in alcuni strumenti di essi, in particolare, si forma la mente dei giovani che li utilizzano. È un grosso problema. Dovremmo preoccuparci tutti di questo, e non solo di Israele.
Che cosa la minaccia maggiormente con i giovani?
Cosa mi minaccia di più tra i giovani?
Non lei personalmente, ma Israele.
Beh, credo che il fatto sia l’ignoranza. Più di ogni altra cosa, l’ignoranza. La mancanza di conoscenza. Alcune di queste persone che protestano non hanno idea di cosa stiano protestando. Non credono ancora che Hamas abbia davvero commesso questi oltraggi.
Di recente ha incontrato il Vicepresidente Harris. Quale pensa sia la sua posizione su Israele e sull’attuale situazione in Medio Oriente?
Innanzitutto, sono stato molto contento di avere l’opportunità di parlare con lei, come ho fatto con il Presidente Biden e con il Presidente Trump. Ha parlato del suo sostegno a Israele. Questo non significa che non abbiamo disaccordi. Ho avuto disaccordi con i presidenti americani. Allo stesso tempo, ho avuto molti accordi con loro.
Perché il suo ufficio ha criticato le sue osservazioni dopo l’incontro? Potreste avere bisogno di lei nei prossimi anni.
Ho semplicemente detto, e l’ho detto anche nell’incontro con lei e con il Presidente e con il Presidente Trump, che più Israele è vicino, in questo momento cruciale, più l’America, le posizioni americane e israeliane sono vicine, più si ottiene un risultato positivo. La gente cerca sempre la luce del giorno. Ma in tempo di guerra si guarda al microscopio. E abbiamo un obiettivo comune. Vogliamo il rilascio degli ostaggi. Vogliamo il ripristino della pace. Io la voglio dopo una vittoria israeliana, quindi più siamo allineati e meglio è.
Che cosa c’era di giorno?
Beh, spero che non ce ne siano.
I sondaggi mostrano che il 72% degli israeliani pensa che lei dovrebbe lasciare il suo incarico ora o quando la guerra sarà finita. Intende rimanere Primo Ministro quando la guerra sarà finita?
Resterò in carica finché riterrò di poter contribuire a guidare Israele verso un futuro di sicurezza, sicurezza duratura e prosperità. Ma non dipende solo da me. Siamo in una democrazia, la decisione di chi resta in carica e chi no dipende in ultima analisi dalla gente. Sono stato rieletto sei volte. Ho perso due volte. Può succedere in una democrazia.
Dovrebbe rimanere Primo Ministro?
Beh, per il momento penso di essere alla guida dello sforzo che protegge il Paese e ne assicura il cammino verso la vittoria, che credo si stia avvicinando.
Se un leader dell’opposizione presiedesse al peggior fallimento della sicurezza nella storia di Israele, direbbe che dovrebbe rimanere al potere?
Dipende da cosa fanno. Che cosa fanno? Sono in grado di guidare il Paese in guerra? Possono condurlo alla vittoria? Sono in grado di assicurare che il dopoguerra sarà all’insegna della pace e della sicurezza? Se la risposta è sì, dovrebbero rimanere al potere. In ogni caso, questa è la decisione del popolo;
Che cosa deve fare per guadagnarsi la possibilità di rimanere Primo Ministro dopo questo?
Non mi interessa rimanere Primo Ministro. Mi interessa preservare il… Non stiamo parlando del mio futuro. Stiamo parlando del futuro del Paese. Ho dedicato la mia vita adulta, prima come soldato, poi come diplomatico e infine come leader politico, ad assicurare la sopravvivenza e la sicurezza dello Stato di Israele e la sua prosperità, trasformando, fondamentalmente liberando la sua economia. E finché sentirò di poter contribuire a questo, lo farò. E finché il popolo lo sentirà. Questa non è… non viviamo in una monarchia. Viviamo in una democrazia.
Beh, è vero. E lei è Primo Ministro da quanto, circa 18 anni?
Non ancora, ma…
Quasi, quasi ci siamo. Quasi 18 anni. Quali altri leader di Paesi o società democratiche sono rimasti al potere così a lungo?
Beh, ci hanno provato.
Pensa che sia un bene per una democrazia avere lo stesso leader al potere per 18 anni?
Penso che dipenda dal popolo. Sono loro a scegliere e a decidere chi lavora davvero per loro. Ma non è una decisione personale. Non la impongo io, così come la gente pensa che io imponga tutto ciò che accade, anche nell’esercito. Di solito le decisioni vengono prese per consenso. Ma sì, alla fine la responsabilità è del Primo Ministro e del Gabinetto, ed è il popolo a decidere chi sarà il Primo Ministro e il Gabinetto. Non è, insomma, il popolo a decidere. Non lo è. Non è qualcosa che è governato da regole. Se mi chiedete, quando è stata l’ultima volta che qualcuno ha fatto una cosa del genere? Credo sia stato più di mezzo secolo fa, non so, in Canada o in Australia o qualcosa del genere, ma la politica, sapete, non è perché io abbia poteri esorbitanti. Non controllo la stampa o la magistratura o le altre istituzioni. È il popolo che decide in libere elezioni democratiche, e sono felice che Israele le abbia.
Di certo non controllate la stampa qui in Israele, lo so;
Ne è sicuro?
Beh, ce ne sono alcuni, ce ne sono alcuni.
L’immagine che viene data è che io sia una specie di, sapete, ho questi poteri fantastici che in qualche modo garantiscono che io governi. In realtà, non è così. Il popolo ha il potere di decidere;
So che stiamo arrivando alla fine. Voglio rispondere alle ultime domande. Gli ex Primi Ministri Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Ehud Barak, persino Ariel Sharon, hanno tutti affermato che Israele deve permettere la creazione di uno Stato palestinese per preservare l’ideale sionista di rimanere una democrazia a maggioranza ebraica. Lei è d’accordo?
Sono d’accordo sulla necessità di mantenere una maggioranza ebraica, ma penso che dovremmo farlo con mezzi democratici. Penso anche che i palestinesi in Giudea e Samaria siano cittadini di Israele, e non voglio – ecco perché non voglio – incorporarli. Penso che ci sia una soluzione potenziale. E ancora, credo che significhi che dovrebbero gestire le loro vite. Dovrebbero votare per le proprie istituzioni. Dovrebbero avere il loro autogoverno. Ma non dovrebbero avere il potere di minacciarci.
E questo lo capisco e lo apprezzo. Ma Israele può rimanere una democrazia se governa continuamente, perennemente, su milioni di palestinesi?
Non lo credo. Non governiamo la loro terra. Non governiamo Ramallah. Non gestiamo Jenin. Ma entriamo in azione quando dobbiamo prevenire il terrorismo. È una questione di… Penso che sia una trappola concettuale in cui le persone sono bloccate. Pensano che l’unica possibilità sia una sovranità completa e totale. Questo non accade in campo economico. In questo momento, ci sono Paesi che sono asserviti a istituzioni più grandi, istituzioni esterne, che governano, per esempio, nell’Unione Europea. Ma non solo lì, anche in molti altri luoghi. L’idea che l’unica cosa che dovremmo fare è rinunciare alla nostra sicurezza dando in futuro la sovranità assoluta ai palestinesi senza avere la capacità di prevenire l’emergere del terrorismo o di altre minacce alla sicurezza dalle aree adiacenti è insensata. Non è di buon auspicio per la pace. Garantisce che non si vada verso la pace. Si va verso la guerra, che è quello che è successo più volte, quando ce ne siamo andati, quando abbiamo tolto il controllo militare ai territori a noi adiacenti. Pensateci. Voglio dire, lei viene dal New Jersey, giusto?
Beh, a un certo punto ho vissuto lì;
Vicino a New York, giusto? Ve lo immaginate? L’ho detto a uno dei miei interlocutori. Vi immaginate di poter permettere l’insediamento di uno Stato impegnato nella distruzione dell’America attraverso il ponte di Washington? Voglio dire, questo non accadrà. Questo è ciò che si chiede a Israele. Le distanze sono così minime, Israele sarebbe potenzialmente così fragile e incapace di difendersi. E chi ci dice: dategli uno Stato a cinque metri di distanza, non a migliaia di chilometri, ma a un miglio di distanza, e rinunciate al potere di intervenire militarmente in questo Stato se diventa, come è, ostile a voi, non ha senso;
Non crede che sia dovere di un Primo Ministro responsabile preservare le condizioni per un eventuale risultato a due Stati?
Non lo chiamo così, non lo etichetto, ma ho già detto che non voglio governare i palestinesi, ma di certo non permetterò loro di minacciare l’esistenza dell’unico e solo Stato ebraico. Quindi ci dovrà essere una divisione del potere.
Molti israeliani ed ebrei americani temono che il sionismo, come l’ho appena descritto, non sopravviva a questa guerra. Cosa risponde a questa preoccupazione?
Beh, lo farà, se vinceremo. E se non lo faremo, il nostro futuro sarà in grave pericolo. Dobbiamo quindi vincere, e questo richiede una risoluzione. Occorre guardare sia alle azioni militari, ma anche al quadro più ampio dell’asse iraniano che lavora discretamente con i partner arabi per plasmare il dopoguerra, il Medio Oriente postbellico, cosa che stiamo facendo e cercando di mantenere, intensificando di fatto il sostegno degli Stati Uniti e delle altre democrazie. Questo non avviene nel pieno della guerra. Posso capirlo per quanto riguarda l’opinione pubblica occidentale, ma quando il polverone si calmerà, credo che la gente vedrà che abbiamo condotto una guerra essenziale, non solo per la nostra difesa, ma per la difesa dell’Occidente e della civiltà contro la barbarie.
Signor Primo Ministro, la ringrazio per il suo tempo. Lo apprezzo molto.
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Da Bandera a BlackRock
A Varsavia, i rifugiati ucraini manifestano per chiedere armi occidentali; i loro striscioni sono finanziati da ONG statunitensi ed europee come la National Endowment for Democracy.
In Mali, un sistema di difesa aerea portatile (MANPADS) introdotto di nascosto dagli arsenali di Kiev è stato utilizzato per abbattere un elicottero delle Nazioni Unite. I MANPADS come quello qui sotto sono missili terra-aria leggeri, lanciati a spalla, progettati per essere trasportati e dispiegati da una singola persona. Secondo il Dipartimento di Stato americano , tra il 1975 e il 2017, 40 aerei civili sono stati colpiti dai MANPADS, causando circa 28 incidenti e oltre 800 morti in tutto il mondo.
Questo singolo incidente è solo un esempio di migliaia di armi non tracciate utilizzate per alimentare il caos globale.
A Leopoli, BlackRock ha concluso un accordo da 15 miliardi di dollari per rimodellare l’economia ucraina devastata dalla guerra, mentre Donald Trump Jr. propone grattacieli alle élite serbe di Belgrado.
Il conflitto in Ucraina è più di una guerra: è il fulcro di una campagna occidentale per dominare l’Europa orientale. Attraverso attivisti in esilio, armi sul mercato nero, accaparramenti di terre da parte delle multinazionali e reti d’élite, l’Occidente sta forgiando un impero ombra, non con i soldati, ma con contratti, delegati e propaganda.
Questo articolo ripercorre una strategia lunga un secolo, dai patti della Guerra Fredda con nazionalisti ucraini come Stepan Bandera alla moderna colonizzazione economica da parte di aziende come Monsanto e BlackRock. Da Bucarest a Tbilisi, emerge una nuova frontiera: un rifugiato, un accordo, un proiettile alla volta.
Radici storiche: da Bandera al manuale della NATO
La campagna dell’Occidente per il controllo dell’Europa orientale non iniziò a Maidan a Kiev, ma all’ombra della Seconda Guerra Mondiale. L’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN), fondata nel 1928, abbracciò tattiche fasciste sotto la guida di Stepan Bandera, orchestrando pogrom e alleandosi con la Germania nazista per perseguire uno stato etnico. In un promemoria del 1951, ora declassificato e diffuso dalla CIA, Bandera veniva definito “il fascista ucraino e la spia professionista di Hitler”.
Bandera collaborò con l’intelligence tedesca per condurre le operazioni, spesso operando di nascosto dietro le linee nemiche per creare quello che può essere descritto solo come puro caos, al fine di indebolire le difese avversarie in Polonia e Unione Sovietica. In definitiva, Bandera aveva una visione per un’Ucraina indipendente, arrivando persino a tentare di ratificare una Dichiarazione d’Indipendenza ucraina, e va da sé che la Germania ne fu scontenta.
Successivamente, i tedeschi lo arrestarono e lo incarcerarono per diversi anni. Dopo il suo rilascio, riaffermò il suo impegno ad aiutare la Germania e gli fu nuovamente consentito di riprendere le operazioni contro l’Unione Sovietica fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Lui e la sua famiglia finirono per vivere in Germania, e sia la Polonia che l’Unione Sovietica tentarono di farlo estradare, accusandolo di terrorismo. Intervennero le forze di controspionaggio degli Stati Uniti, che lo consideravano un agente “anticomunista”.
Stepan Bandera
Nel dopoguerra, Stati Uniti e Gran Bretagna consideravano questi ultranazionalisti non come un ostacolo, ma come strumenti contro l’Unione Sovietica. L’ Operazione Belladonna della CIA e i rifugi londinesi dell’MI6 addestrarono i militanti dell’OUN allo spionaggio e al sabotaggio, mentre le scuole di intelligence americane li dotarono di competenze per la guerra segreta.
Gli sfollati ucraini, tra cui i veterani galiziani delle Waffen-SS, furono protetti dal rimpatrio sovietico e reinsediati in Canada e Gran Bretagna come alleati anticomunisti. Oltre il 90% dei 250.000 profughi ucraini, molti dei quali legati a reti nazionaliste, trovò rifugio in Occidente, gettando le basi per l’attuale influenza della diaspora.
La costituzione della NATO nel 1949 consolidò questa strategia, dando priorità ai rappresentanti anti-russi rispetto alle preoccupazioni morali. Coltivando queste risorse ideologiche, l’Occidente ha elaborato un piano per destabilizzare lo spazio post-sovietico, utilizzando il fervore nazionalista per seminare reti politiche che persistono nel moderno attivismo dei rifugiati e nei colpi di Stato sostenuti dall’Occidente.
Rivoluzioni colorate: instabilità ingegneristica
La presa dell’Occidente sull’Europa orientale prospera sul caos progettato, perfezionato attraverso rivoluzioni colorate che rovesciano governi e alimentano reti filo-atlantiste. Il modello emerse nella Rivoluzione dei Bulldozer in Serbia del 2000, dove il gruppo giovanile Otpor!, sostenuto da fondi statunitensi tramite il National Endowment for Democracy (NED), si mobilitò contro Slobodan Milošević in seguito a elezioni contestate.
I manifestanti assaltarono i media statali di Belgrado con un bulldozer, costringendo Milošević a estromettere il partito e aprendo la Serbia ai mercati occidentali. Seguì la Rivoluzione delle Rose in Georgia del 2003, con gli attivisti di Kmara, addestrati dai veterani di Otpor! e finanziati dai gruppi NED e Soros, che cacciarono Eduard Shevardnadze a causa di accuse di brogli elettorali.
Il regime filo-NATO di Mikheil Saakashvili ha rafforzato l’influenza occidentale. In Ucraina, il nazionalismo progressivo ha alimentato la Rivoluzione Arancione del 2004, innescata da un voto truccato. Miliardi di dollari provenienti da NED, USAID e ONG sostenute da Soros hanno formato attivisti, influenzando l’opinione pubblica a sostegno di Viktor Yushchenko.
Protesta durante la Rivoluzione Arancione del 2004
Per far comprendere meglio la portata dell’intervento occidentale e la sua influenza in Ucraina, ecco un breve video del simposio “L’Ucraina a Washington” del 13 dicembre 2013. Il video dura poco meno di otto minuti e la qualità non è eccelsa, ma è utile per dare un’idea di quanto a lungo gli Stati Uniti, in particolare, abbiano esteso i loro tentacoli nei meccanismi interni del governo ucraino.
Nel video qui sopra ci sono alcuni punti che saltano all’occhio. Victoria Nuland in persona racconta di essere appena tornata dall’Ucraina, dal suo terzo viaggio in cinque settimane. Afferma anche che dal 1991 gli Stati Uniti hanno investito oltre cinque miliardi di dollari per un'”Ucraina democratica”.
L’Euromaidan del 2014, un seguito più sanguinoso, vide gruppi di estrema destra come Svoboda e Pravy Sektor, finanziati da fondi occidentali, guidare un colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti a Kiev. Una telefonata trapelata tra i funzionari statunitensi Victoria Nuland e Geoffrey Pyatt rivelò che Washington aveva scelto personalmente Arsenij Yatsenyuk per allineare l’Ucraina agli interessi della NATO e dell’UE.
Victoria Nuland durante l’udienza al Senato.
Queste rivoluzioni raramente hanno prodotto le democrazie promesse. Le riforme filo-occidentali della Serbia si sono arenate dopo l’assassinio del Primo Ministro Zoran Djindjic nel 2003, lasciando intatta la corruzione delle élite.
Nel 2007, Saakashvili in Georgia affrontò le proteste per l’autoritarismo, che minarono la sua immagine riformista. La Rivoluzione arancione in Ucraina si trasformò in lotte intestine, consentendo il ritorno di Viktor Yanukovich nel 2010, mentre Euromaidan scatenò la guerra civile a Donetsk.
I critici sostengono che l’obiettivo dell’Occidente non fosse la libertà, ma il controllo, sostituendo i regimi anti-USA con regimi flessibili per assicurarsi risorse e punti d’appoggio strategici. Questa strategia ora si sta diffondendo ulteriormente. Le proteste in Romania del 2024-2025, alimentate dalle controversie elettorali e dall’attivismo della diaspora ucraina, riecheggiano le tattiche di Maidan. I manifestanti a Bucarest, alcuni sostenuti da ONG occidentali, hanno protestato contro la presunta ingerenza russa, amplificando il sentimento anti-Mosca.
La Serbia sta affrontando nuovi disordini, con le proteste studentesche a Belgrado del 2024-2025 per il crollo mortale della ferrovia di Novi Sad che hanno alimentato un malcontento più ampio. ONG occidentali ed esuli ucraini avrebbero alimentato questi movimenti, contrastando la posizione neutrale del presidente Aleksandar Vučić. Fomentando il caos, l’Occidente coltiva una quinta colonna di attivisti ed esuli, da Varsavia a Tbilisi, per imporre la propria agenda in tutta l’Europa orientale.
La quinta colonna dei rifugiati: una forza politica leale
Il conflitto in Ucraina ha causato lo sfollamento di oltre 6 milioni di rifugiati in tutta Europa, trasformando una crisi umanitaria in una risorsa strategica per l’Occidente. Gli esuli ucraini vengono trasformati in una quinta colonna: una rete transnazionale che promuove i programmi della NATO e dell’UE nell’Europa orientale.
In Polonia, che ospita quasi 1 milione di rifugiati, gli attivisti si sono radunati a Varsavia per chiedere armi occidentali nel 2022-2023, sostenuti dal NED, che ha stanziato 22 milioni di dollari nei media e nelle attività di advocacy della diaspora nel periodo 2022-2024.
Rifugiati ucraini: Medyka, Polonia. Foto: Daniel Cole
In Romania, gli esuli si sono uniti alle proteste di Bucarest del 2024 contro le controversie elettorali, amplificando le narrazioni anti-russe.
La diaspora ucraina della Lituania fece pressioni per l’invio di truppe NATO e la sua stampa riecheggiò i punti di vista atlantisti.
Durante le proteste di Tbilisi del 2024 in Georgia contro la sospensione dell’adesione all’UE da parte del partito Sogno Georgiano, i rifugiati ucraini sventolavano bandiere dell’UE e dell’Ucraina, alcune legate alla Legione Georgiana di estrema destra.
Le proteste in Slovacchia del 2024-2025 contro le politiche filo-russe del primo ministro Fico hanno visto la partecipazione di attivisti ucraini, con Fico che ha accusato Mamuka Mamulashvili della Legione georgiana di complotto golpista.
Leader della legione georgiana Mamuka Mamulashvili.
In un’intervista del 2023 all’Economist, Zelenskyy ha avvertito che la riduzione degli aiuti occidentali potrebbe provocare “una reazione imprevedibile” da parte di milioni di rifugiati ucraini in Europa. Ha sottolineato la loro gratitudine, ma ha avvertito che metterli alle strette “non sarebbe una buona notizia” per l’UE, il che implica potenziali disordini per fare pressione sugli alleati.
Questa leva si basa sui precedenti della Guerra Fredda, quando 250.000 sfollati ucraini, tra cui quadri nazionalisti, furono reinsediati in Canada e Gran Bretagna per contrastare l’influenza sovietica.
Questa quinta colonna comporta rischi destabilizzanti. L’estrema destra ucraina, spinta da un nazionalismo crescente, si infiltra nelle reti di esuli. I rapporti polacchi del 2023 collegavano attivisti ucraini a concerti affiliati all’Azov a Cracovia.
L’intelligence tedesca ha segnalato la radicalizzazione, citando legami con le milizie. I crimini commessi da rifugiati ucraini, l’incendio doloso in Polonia, un tentato omicidio di un funzionario slovacco nel 2024 e l’accoltellamento di cinque persone in Piazza Dam ad Amsterdam da parte di un disertore ucraino, avvenuto il 10 giugno 2025, hanno scatenato la reazione locale. Il sospettato di Amsterdam rischia l’ergastolo, e le autorità collegano l’attacco alla disperazione dei rifugiati.
Le ONG occidentali, dando priorità al sentimento anti-russo, finanziano gruppi che mescolano patriottismo ed estremismo. Le proteste di Belgrado in Serbia del 2024-2025, sostenute dalle ONG occidentali, hanno visto gli esuli ucraini alimentare i disordini anti-Vučić.
Come il sostegno della CIA all’OUN negli anni ’40, l’Occidente di oggi coltiva esuli per destabilizzare gli stati non allineati, riecheggiando le tattiche delle rivoluzioni colorate. Dai raduni di Varsavia alle strade di Tbilisi, i rifugiati ucraini stanno rimodellando la politica dell’Europa orientale: una protesta, un crimine, una bandiera NATO alla volta.
Protesta anti-Fico a Bratislava, Slovacchia, 25 gennaio 2025. Abbiamo evidenziato la bandiera slovacca per non perderla.
Armi senza frontiere: armare il caos
L’afflusso di armi dall’Occidente all’Ucraina, destinato a contrastare la Russia, ha scatenato una cascata di caos, alimentando i mercati neri e alimentando attacchi in tutti i continenti. Dal 2022, gli Stati Uniti hanno fornito oltre 43 miliardi di dollari in aiuti militari, inclusi missili Javelin, MANPADS Stinger e droni, a cui si aggiungono 16 miliardi di dollari da parte dell’UE.
La scarsa sorveglianza della NATO ha trasformato l’Ucraina in un centro di contrabbando, con armi che emergono dal Mali alla Siria, fino al Messico. Il rapporto dell’Europol del 2023 ha segnalato armi leggere ucraine, come gli AK-47, utilizzate dai cartelli balcanici, mentre gli investigatori delle Nazioni Unite hanno rintracciato i MANPADS in al-Qaeda nel Sahel maliano.
Membro del cartello messicano con pistola AT4 svedese.
In Siria, un video del 2024 del mercenario arabo Abu Hassan mostrava Javelin americani, NLAW britannici e armi spagnole, presumibilmente contrabbandate dalla corrotta Legione Internazionale ucraina a Kherson, dove prestava servizio prima di fuggire.
I post su X suggeriscono che ciò rifletta un modello più ampio di aiuti non monitorati, sebbene le affermazioni russe sul coinvolgimento dell’Ucraina potrebbero essere esagerate. Questo caos si estende al suolo russo. L’attacco del 22 marzo 2024 al municipio di Crocus a Mosca, che ha causato 145 morti e 551 feriti, ha coinvolto quattro aggressori tagiki, arrestati nell’oblast’ di Bryansk, vicino al confine con l’Ucraina, armati di armi che alcuni ipotizzano fossero collegate ai porosi arsenali ucraini.
L’Ucraina e l’Occidente hanno liquidato la notizia come disinformazione, ma la tempistica, nel contesto della guerra in Ucraina, solleva interrogativi. A Donetsk, i civili hanno subito attacchi incessanti dal 2014, con oltre 14.000 vittime, compresi i bombardamenti delle forze ucraine del 2024-2025, spesso con l’impiego di munizioni fornite dall’Occidente.
L’attacco ferroviario di Bryansk, avvenuto tra il 31 maggio e il 1° giugno 2025, ha causato il crollo di un ponte autostradale su un treno passeggeri, uccidendo sette persone e ferendone 69. Le autorità russe hanno accusato l’esercito ucraino di aver utilizzato esplosivi, accusa che Kiev nega. Gli attentati di Kursk del 2024-2025, tra cui l’esplosione del ponte del 1° giugno e le incursioni ucraine, hanno causato decine di morti, e Mosca ha rivendicato l’intenzione di Kiev di massimizzare le vittime civili.
I soccorritori lavorano su un ponte danneggiato nella regione russa di Bryansk.
L’Europa orientale ne risente degli effetti a catena. Romania e Bulgaria fungono da hub del contrabbando, con Bucarest che ha sequestrato granate ucraine nel 2024 e i porti bulgari che hanno segnalato componenti di droni. Le proteste serbe di Belgrado del 2024-2025 hanno visto il rischio di un’escalation di pistole di provenienza ucraina, legate all’attivismo per i rifugiati. Le milizie di estrema destra ucraine, come Azov, guidate da un fervente nazionalismo, spesso facilitano questi flussi, riecheggiando l’armamento dell’OUN da parte della CIA negli anni ’40.
Le autorità polacche hanno collegato l’incendio doloso del 2023 ai depositi di armi ucraini, mentre l’intelligence tedesca del 2024 ha segnalato legami neonazisti. Le indagini del Pentagono sulle perdite di MANPADS sottolineano la preoccupazione occidentale, eppure la strategia persiste. Questa proliferazione serve fini occidentali, distraendo Russia e Cina con disordini globali e facendo pressione su stati neutrali come la Serbia. Tuttavia, il costo è evidente: cartelli, jihadisti e agenti ucraini, armati dalla NATO, minacciano la stabilità che l’Occidente afferma di difendere. Dagli arsenali di Kiev alle rovine di Donetsk, queste armi catalizzano un ordine frammentato: un affare sul mercato nero, una morte civile alla volta.
Imperialismo morbido: reti d’élite e la connessione Trump
Oltre a governi e aziende, le élite occidentali stanno creando imperi privati nell’Europa orientale, esercitando un soft power attraverso il mercato immobiliare, le criptovalute e accordi segreti. Questo imperialismo ombra, distinto dal caos bellico della Sezione V, si basa sull’arricchimento personale e sulla leva politica, completando la presa dell’Occidente sulla regione.
Donald Trump Jr. ha guidato la carica, promuovendo sviluppi di lusso a Belgrado, in Serbia, dal 2024, con un progetto alberghiero da 200 milioni di dollari lanciato nel giugno 2025, sostenuto da investitori statunitensi interessati ai Balcani. Affinity Partners di Jared Kushner, in partnership con fondi sauditi, sta sviluppando un hub crittografico da 500 milioni di dollari a Bucarest, in Romania, annunciato nel maggio 2025, sfruttando il boom digitale dell’Europa orientale.
Queste iniziative rispecchiano la privatizzazione di cui si è parlato in precedenza, in cui il controllo economico segue la destabilizzazione, ma in questo caso le famiglie dell’élite ne traggono profitto diretto. Questa tendenza si estende all’intera regione. Nei resort bulgari sul Mar Nero, aziende legate a Trump hanno acquisito proprietà costiere nel 2024-2025, sostituendo i proprietari locali a causa dell’afflusso di manodopera rifugiata della Sezione IV.
A Varsavia, in Polonia, il settore immobiliare sostenuto da Kushner include un accordo da 300 milioni di dollari per la costruzione di una torre per uffici nell’aprile 2025, sfruttando le reti di esuli ucraini per la costruzione. Queste mosse riecheggiano i patti d’élite della Seconda Guerra Fredda, in cui figure nazionaliste sostenute dall’Occidente come Stepan Bandera si assicuravano la loro influenza.
Oggi, l’estrema destra ucraina, spinta da un fervente nazionalismo, si schiera con queste élite: le società di sicurezza legate all’Azov proteggono i progetti di Trump Jr. a Belgrado. Accordi segreti amplificano questo potere.
Membro del Battaglione Azov [Credito fotografico: Noah Brooks]
Nel 2024, l’inviata statunitense Victoria Nuland, legata al colpo di stato di Euromaidan della Sezione III, incontrò gli oligarchi serbi per promuovere le infrastrutture sostenute da Trump, alludendo a favori politici.
La visita di Joe Biden in Ucraina nel 2016, con pressioni per cambiamenti nel consiglio di amministrazione di Burisma, ha creato un precedente per l’ingerenza delle élite. Questo imperialismo soft è al servizio del predominio occidentale.
Le minacce di Trump alla Russia per il 2025, comprese le “cose davvero brutte” prima dell’attacco al treno di Bryansk del 1° giugno, si uniscono all’espansione economica, esercitando pressioni su Mosca e arricchendo al contempo le élite statunitensi. I post di X la denigrano come una “occupazione dorata”, con gli utenti che notano che i legami di Kushner con l’Arabia Saudita segnalano una nuova era coloniale. Eppure, l’Occidente la maschera come investimento, ignorando gli spostamenti locali e l’erosione della sovranità.
Unità neonazista Karpatska Sich, con totenkopf delle SS e distintivi del Reichsadler.
In Ucraina, l’accordo del 2023 di BlackRock e il progetto di Belgrado di Trump si intrecciano, con i profitti che finiscono nelle mani di pochi eletti. Dalle torri di Belgrado ai centri crypto di Bucarest, l’Europa orientale viene rimodellata, non dai carri armati, ma da reti d’élite, un grattacielo, un accordo, un oligarca alla volta.
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Negli ultimi due anni ho scritto diversi saggi nel tentativo di dare un’occhiata vaga al mondo post-Ucraina, tra cui uno sulle conseguenze politiche della sconfitta e uno sulla difficoltà e le conseguenze di una “vittoria” russa. Sono stato molto critico nei confronti dell’incapacità dell’Occidente di comprendere e reagire a ciò che sta accadendo, ma non ho detto molto sulle opzioni che potrebbero essere ancora concretamente aperte all’Occidente, e in particolare all’Europa, quando arriverà il momento di iniziare a raccogliere i cocci e a ripulire il sangue.
Ora, naturalmente, ricordiamo tutti il vecchio luogo comune secondo cui le previsioni sono difficili, soprattutto per quanto riguarda il futuro. Ma oggi, invece di fare previsioni, proporrò un approccio strutturato a questo problema che potrebbe aiutare a ridurre un po’ l’incertezza finale. Il primo passo è suddividere tutti i fattori rilevanti in
Cose che sono già accadute o che possono essere considerate tali.
Cose il cui sviluppo generale è abbastanza chiaro, ma su cui c’è spazio per il dibattito su come potrebbe andare a finire.
Tutto il resto.
Riflettendo attentamente sulle prime due categorie, possiamo in linea di principio ridurre le restanti a proporzioni più gestibili. Una volta fatto ciò, potremo valutare quale margine di manovra l’Occidente possa effettivamente avere e forse individuare alcune possibilità realistiche.
Quindi, a che punto siamo ora? Direi che ci sono almeno quattro cose che dobbiamo considerare risolte. Alcune potrebbero sorprendere qualcuno di voi.
Il primo riguarda le dimensioni e la potenza dell’esercito russo, e la base industriale e scientifica che lo sostiene. In parole povere (e lo ripeto ancora una volta), in un momento in cui l’Occidente ha ampiamente rinunciato alla sua capacità di guerra terrestre/aerea con l’impiego di metalli pesanti, i russi hanno mantenuto la loro. Non c’è nulla di magico in queste scelte: la tradizione russa è quella della guerra terrestre, e il Paese ha importanti confini terrestri. Ciò ha significato che hanno mantenuto un esercito considerevole e anche il servizio militare nazionale per produrre un gran numero di soldati addestrati. Il loro equipaggiamento è stato ottimizzato per il tipo di guerre che si aspettavano di combattere, e la struttura e la dottrina del loro esercito (sebbene si tratti di un argomento complesso) sono rimaste molto più vicine al modello della Guerra Fredda rispetto a quelle dell’Occidente. La loro industria della difesa è rimasta sotto il controllo statale e, in generale, il Paese ha mantenuto la sua tradizionale enfasi su scienza, tecnologia e ingegneria. Ha anche lavorato duramente per diventare il più possibile indipendente strategicamente. Inoltre, è un Paese vasto e diversificato, con comunicazioni terrestri con gran parte del mondo e imponenti giacimenti di materie prime. Tra le altre cose.
Niente di tutto questo cambierà. Ciò significa che il predominio militare russo sull’Occidente non è una minaccia futura, né un pericolo da evitare, è una realtà presente e, per ragioni che approfondiremo tra poco, è improbabile che cambi in tempi utili. Ora, come in precedenti saggi, vorrei sottolineare la differenza tra sistemi d’arma e capacità effettiva . I sistemi d’arma di per sé sono inutili se non forniscono la capacità di fare ciò che si desidera. Pertanto, la vera questione è se i sistemi d’arma di cui dispone un esercito consentano all’esercito di svolgere i compiti assegnati. Quindi, la capacità marittima (e soprattutto subacquea) dell’Occidente è molto buona, e probabilmente migliore di quella della Russia. Ma non vi è alcuna prospettiva evidente di un conflitto marittimo con la Russia. Allo stesso modo, i sistemi nucleari occidentali, sebbene forse meno moderni di quelli russi, sono certamente adeguati, ma i sistemi nucleari non si combattono tra loro e, almeno al momento, non vi è alcun segno che le nazioni siano abbastanza folli da impegnarsi in una guerra nucleare. Se consideriamo i compiti concreti che potrebbero essere affidati ai militari, i russi hanno una capacità di svolgere i loro compiti molto maggiore rispetto ai nostri.
Né è utile confrontare direttamente le prestazioni degli equipaggiamenti russi e occidentali, come hanno l’abitudine di fare i nerd militari. È probabile che almeno alcuni aerei da caccia occidentali siano superiori ad almeno alcuni aerei da caccia russi, ma questo deve essere prima valutato in base ai numeri e alle capacità dell’armamento principale, e poi valutato nel contesto di operazioni reali, che non riguardano giostre cavalleresche tra singoli aerei, ma piuttosto il controllo dello spazio aereo. Al momento, i russi possono controllare efficacemente lo spazio aereo molto più facilmente dell’Occidente, utilizzando missili piuttosto che aerei da combattimento. Lo stesso vale per i confronti tra carri armati, un altro argomento preferito dai nerd militari. (I combattimenti tra carri armati in Ucraina sono stati estremamente rari.)
Il secondo è l’infrastruttura politica, militare e intellettuale a supporto della capacità militare. Questo è un po’ più complicato, quindi abbiate pazienza. La guerra in Ucraina è combattuta da circa 700-800.000 soldati russi con una considerevole infrastruttura amministrativa, logistica e di comando nelle retrovie, con strutture per sostituire le perdite e riparare ciò che non può essere riparato sul campo, schierare equipaggiamenti nuovi e modificati, curare i feriti gravi, organizzare l’incessante flusso di personale e logistica in entrambe le direzioni, reclutare, addestrare, schierare e congedare un numero enorme di personale, sviluppare e acquisire nuovi equipaggiamenti, modifiche e miglioramenti, adattare dottrine e tattiche, raccogliere informazioni sul nemico e pianificare operazioni future e predisporre piani di emergenza. Tra le altre cose. Una guerra di questo tipo richiede anche una direzione strategica e operativa di alto livello e una stretta integrazione con i servizi segreti e il servizio diplomatico.
Un’infrastruttura del genere non esiste al momento in Occidente. Anche se una fata magica concedesse alle nazioni occidentali dieci volte la dotazione di equipaggiamento bellico ad alta intensità di cui dispongono attualmente, e anche se gli uffici di reclutamento fossero invasi da ondate di volontari, non ci sarebbe alcuna infrastruttura per trasformare tutto ciò in forze dispiegabili, figuriamoci in grado di sostenerle. La Russia richiama circa 300.000 coscritti all’anno in due lotti e recentemente ha assunto 30.000-40.000 volontari al mese. Al contrario, il Regno Unito recluta 12.000-15.000 militari all’anno e gli Stati Uniti circa 50.000-60.000. Queste due situazioni non sono semplicemente paragonabili, e ovviamente i russi hanno un’unica infrastruttura, mentre l’Occidente ne ha decine. I russi dispongono anche di linee di rifornimento ben consolidate e collaudate che vanno verso Occidente verso qualsiasi potenziale conflitto. L’Occidente ora non ha nulla che assomigli a questo.
I russi possiedono anche la dottrina, l’addestramento e l’esperienza per comandare un numero molto elevato di truppe a quello che viene chiamato il livello operativo di guerra, che riguarda la pianificazione militare di alto livello e i concetti progettati per raggiungere l’obiettivo politico strategico. I russi, allievi di Clausewitz, sono sempre stati bravi in questo. Un modo di vederla in pratica è considerare che ci siano generali russi in Ucraina che comandano forze pari all’intero esercito tedesco , e che a loro volta riferiscono a un ufficiale con responsabilità di livello ancora più elevato. Non credo che ci siano informazioni affidabili né sul numero di truppe in Ucraina né sugli ordini di battaglia russi, ma è sufficiente dire che i russi stanno operando su una scala e con una complessità che nessun esercito occidentale saprebbe gestire, anche se truppe ed equipaggiamenti dovessero apparire all’improvviso. Inoltre, gli eserciti occidentali dovrebbero sviluppare queste capacità organizzative e intellettuali collettivamente, mentre i russi, per definizione, sono un’unica forza che fa la stessa cosa. Questo non cambierà.
Sapere come farlo in teoria è solo una parte, ovviamente: è necessaria anche l’esperienza pratica di manovrare e combattere forze ingenti, che i russi hanno e l’Occidente no. L’Occidente può ancora studiare la teoria nelle sue accademie militari, ma il divario tra teoria e pratica è il motivo per cui i militari commettono errori quando scoppia una guerra. I tedeschi commisero errori in Polonia nel 1939 e impararono da essi. I russi commisero errori in Finlandia nel 1940 e impararono da essi. Gli eserciti del 1914 impiegarono forse un anno per comprendere la natura della guerra che stavano combattendo, e un altro paio d’anni per iniziare a trovare risposte ai problemi che poneva. Potevano farlo perché avevano la popolazione e la base militare e industriale per resistere a lungo termine. L’Occidente oggi non ce l’ha. I russi commisero diversi errori nei primi mesi della guerra in Ucraina, ma avevano la capacità di imparare da essi e apportare cambiamenti e miglioramenti. L’Occidente no. È intrappolato in una situazione paradossale: l’unico modo per acquisire esperienza in questo livello di guerra è praticarla, ma praticarla distruggerebbe le forze effettivamente presenti in Occidente, senza alcuna possibilità di sostituirle. Questo non cambierà.
Il terzo è la natura geografica. La Russia è un paese enorme, con comunicazioni terrestri con la maggior parte del mondo. In caso di conflitto con qualsiasi stato NATO, può spostare rapidamente le forze dove sono necessarie, lungo linee di comunicazione interne sicure e in gran parte al riparo dalla minaccia di attacchi. Ha anche lo spazio per concentrare ingenti forze a scopo intimidatorio, se non necessariamente per combattere. Questo non cambierà. Le forze occidentali sono sparse ovunque: si pensi per un attimo alle sfide logistiche e di altro tipo di portare le forze spagnole in Romania o le forze italiane nei Paesi Baltici, su lunghe distanze, principalmente via mare e con la costante minaccia di attacchi. Una brigata simbolica in Polonia per un periodo è una cosa. L’intero esercito francese schierato nei campi in Estonia è qualcosa di completamente diverso. Inoltre, la Russia può mantenere forze molto ingenti adiacenti ai confini della NATO per tutto il tempo che desidera. La NATO non può fare il contrario. Per estensione, la dispersione geografica significa debolezza politica. L’appartenenza alla NATO, dal Portogallo all’Islanda alla Turchia, vincolata dalla geografia e con confini con la Russia mai pianificati, ora ha pochi interessi comuni. Composta in larga maggioranza da piccoli paesi con forze militari molto limitate, e soggetta al principio secondo cui all’aumentare dei numeri in modo aritmetico, il potenziale di disunione aumenta in modo geometrico, la NATO è un’alleanza che di recente è diventata ancora più frammentata di quanto non fosse in passato. Questo non cambierà.
Gli Stati Uniti non hanno attualmente forze di combattimento terrestri di rilievo in Europa. Hanno una sola divisione corazzata negli Stati Uniti che, in teoria, potrebbe essere portata a capacità operativa e inviata oltre Atlantico, ma ciò richiederebbe mesi o addirittura anni, e non c’è un posto dove collocarla. Ci sono aerei statunitensi in Europa e potrebbero essere rinforzati in una certa misura in caso di crisi, ma è difficile immaginare come possano essere efficaci contro il tipo di difesa aerea stratificata che possiede la Russia. In ogni caso, l’idea di una base avanzata di unità militari durante la Guerra Fredda era che, in caso di crisi e di guerra, sarebbero state rafforzate da riserve mobilitate. Anche se tali riserve esistessero (il che è difficile immaginare che possano mai esistere), non esiste un’infrastruttura amministrativa e fisica per condurle dove sarebbero necessarie. In caso di crisi, la Russia potrebbe mobilitare il suo esercito e spostare le unità abbastanza rapidamente, utilizzando le sue linee di comunicazione interne. Ma immaginate, per un momento, di dover richiamare e inviare centinaia di migliaia di riservisti dalla Francia e dalla Germania in Romania, con tutto il loro equipaggiamento. Ecco perché calcoli superficiali sulla dimensione totale delle forze militari occidentali e russe non colgono il punto. Inoltre, è facile capire che una crisi politica in Svezia e alcune minacce provenienti dalla Russia potrebbero portare a massicci e costosi spostamenti di truppe verso Nord per rispondere a timori che alla fine si rivelano irrimediabilmente esagerati. C’è un limite al numero di volte in cui la NATO può giocare a questo gioco, mentre la Russia, con le sue linee di comunicazione interne, può continuare a giocarci per un po’ di tempo. Nulla di quanto sopra cambierà.
Infine, ci sono cambiamenti permanenti nella tecnologia militare. Ora, con “permanenti” non intendo che la tecnologia rimarrà la stessa per sempre, o che sarà importante come lo è ora per sempre; intendo che è stata inventata e quindi sarà disponibile in modo permanente. Ci sono due tecnologie in particolare che sono importanti in questo caso. La prima è convenzionalmente chiamata “droni”, ma è più complicata di così. Diverse tecnologie combinate consentono a veicoli volanti autonomi ma controllati a distanza in rete di attaccare bersagli con grande precisione a distanze che vanno da uno o due chilometri a diverse centinaia di chilometri oltre la linea del fronte, e questa distanza è in continuo aumento. Droni piccoli ed economici possono essere guidati manualmente verso i loro bersagli. Droni a lungo raggio possono essere inviati in modo indipendente, utilizzare i loro sensori per rilevare e attaccare i bersagli in un ordine programmato e condividere i dati di puntamento con altri droni o velivoli. I droni possono essere utilizzati per pattugliamenti e ricognizioni, per attaccare altri droni e per confondere le difese nemiche. Ciò ha due conseguenze principali.
Una è che il campo di battaglia diventa molto più trasparente. La sorpresa, sebbene non impossibile, è diventata molto più difficile, tranne che a bassa quota e in circostanze speciali come l’attacco ucraino a Kursk. Le concentrazioni di forze possono essere individuate rapidamente e questa capacità (ad esempio tramite infrarossi) è in continuo miglioramento. L’altra è che i droni hanno anche prodotto una rivoluzione in termini di precisione. I russi ora li stanno usando, in coordinamento con i missili, per attaccare bersagli molto precisi ben dietro la linea del fronte, realizzando così finalmente i sogni degli appassionati di potenza aerea di cento anni fa. Nella Seconda Guerra Mondiale, la precisione dei bombardamenti non era semplicemente sufficiente a disarmare un paese dal cielo: oggi, con i droni, sta diventando così.
Il risultato di questi due sviluppi è, in linea di principio, quello di favorire la difesa, perché è l’attaccante che deve muoversi ed esporsi. Credo di non essere il primo ad aver notato, diversi anni fa, che il campo di battaglia in Ucraina assomiglia molto al fronte occidentale della Prima Guerra Mondiale. A quell’epoca, il problema per l’attaccante era attraversare il terreno aperto tra le linee del fronte dei due schieramenti prima che il difensore potesse emergere, predisporre le proprie difese e inviare rinforzi. Filo spinato e altre fortificazioni rendevano il compito dell’attaccante ancora più difficile. Le soluzioni trovate – sbarramenti striscianti, veicoli blindati, tattiche di infiltrazione – hanno i loro analoghi oggi, ma, anche alla fine della guerra, il ruolo dell’attaccante era ancora più difficile. Tenete presente, però, che stiamo parlando solo del livello tattico e solo di un difensore in una posizione preparata e fortificata. Il fatto che le forze NATO accorse in Finlandia potessero difendersi strategicamente non conferisce loro particolari vantaggi. In effetti, i droni da ricognizione in rete possono offrire un vantaggio che ogni aggressore ha sempre desiderato: sapere quali attacchi stanno avendo successo, e quindi dovrebbero essere rafforzati, e quali stanno fallendo. Al momento, i russi hanno un vantaggio significativo in queste tecnologie e hanno il vantaggio che la condivisione dei dati all’interno di una forza armata è molto più semplice rispetto alla condivisione dei dati tra più forze. Questo non cambierà.
La seconda tecnologia è quella dei missili ad alta precisione e velocità. Si tratta di un settore in cui i russi si sono specializzati dalla fine degli anni ’40 (si sono impossessati di molti scienziati e di gran parte della tecnologia del programma tedesco V2) e hanno continuato a svilupparlo, così come le relative tecnologie di difesa missilistica difensiva. L’Occidente non ha dato la stessa importanza ai missili, preferendo gli aerei con equipaggio per entrambi gli scopi. Il risultato è che la Russia dispone oggi di un arsenale di missili ad alta precisione che possono essere lanciati da terra, da navi o da aerei, e utilizzati in combinazione con i droni. L’Occidente ha una capacità limitata contro alcuni di questi missili, ma sembra che i russi siano ora riusciti a superare una soglia tecnologica per la produzione di missili contro i quali, in linea di principio, non esiste alcuna difesa possibile, a causa della velocità con cui arrivano.
Potrebbe essere possibile, in un ipotetico momento futuro, utilizzando tecnologie non ancora concepite, distruggere questi missili nel numero necessario a respingere un attacco serio, ma ai fini pratici la situazione non cambierà. Come i droni, questi missili sono ora estremamente precisi e l’effetto di qualsiasi missile sul suo bersaglio dipende fortemente da questa precisione, poiché la potenza della testata esplosiva diminuisce molto rapidamente con la distanza. Pertanto, in alcune circostanze, i moderni missili ad alta velocità e alta precisione possono ottenere effetti che solo le armi nucleari tattiche avrebbero potuto ottenere in passato. Ciò significa che attacchi ad alta precisione possono essere condotti a distanze di centinaia di chilometri, utilizzando missili che in linea di principio non possono essere intercettati. Questo darà finalmente ai paesi le capacità che i sostenitori dei bombardieri con equipaggio umano sognavano negli anni ’20. Si tratta di una tecnologia (in realtà, una serie di tecnologie) che non può essere disinventata e che avrà un approccio trasformativo al combattimento e alla gestione delle crisi.
Passiamo ora agli elementi del futuro su cui sussistono legittimi dubbi su ciò che potrebbe accadere. Uno di questi è la debole e quasi mistica fede nell’idea di un riarmo occidentale. Ho già fatto alcune osservazioni denigratorie su questa possibilità e ho dedicato diversi saggi al motivo per cui la coscrizione non verrà reintrodotta e quindi perché le forze armate occidentali non potranno mai essere sostanzialmente più numerose di quanto non siano ora. Non intendo ripetere tutto questo. Mi limiterò a toccare un paio di punti su cui c’è legittimo margine di disaccordo, anche se non molto. Il primo è l’effetto pratico, se presente, degli annunci di forti aumenti della spesa per la difesa da parte di alcune potenze occidentali. Qui, il punto più ovvio è che si può acquistare solo ciò che è disponibile per l’acquisto. Sembra che si dia per scontato che questo denaro verrà speso per equipaggiamenti, o più colloquialmente “armi”, ma le armi non servono a nulla senza persone addestrate a usarle.
E le “armi” richiedono supporto e il supporto richiede più persone. Se avete mai visto un carro armato da combattimento trasportato, saprete che si muove su un enorme rimorchio, guidato da qualcuno con l’addestramento e l’esperienza per manovrare sessanta tonnellate di carro armato e dieci tonnellate di veicolo senza colpire nulla. Anche queste persone servono, e in effetti, nonostante tutti i discorsi sfrenati su miliardi e miliardi di questa o quella valuta, nessuno è mai stato in grado di spiegare come persone attualmente non motivate ad arruolarsi possano improvvisamente diventarlo, e in gran numero. Immagino che l’intenzione sia quella di scaricare il problema su una società di consulenza per il reclutamento. Ma la realtà è che “arruolati nella Bundeswehr, fatti addestrare e trascorri il resto del tuo impegno seduto in un campo in Polonia, ubriacandoti la sera e combattendo bande di skinhead polacchi” non funzionerà bene come slogan di reclutamento. In effetti, non c’è motivo di supporre che le forze occidentali saranno in grado di aumentare sostanzialmente di dimensioni, indipendentemente da quanti soldi vengano spesi, e ci sono molte ragioni per pensare che non sarà così. E senza riserve, gli eserciti occidentali diventerebbero istituzioni fragili, annientate dopo pochi giorni di combattimento.
La seconda possibilità è che, in qualche modo, e con sufficienti incentivi finanziari, la tecnologia occidentale possa produrre equipaggiamenti in quantità e qualità sufficienti per affrontare l’attuale squilibrio. Ora, naturalmente, questo dipende dalla capacità di reclutare o arruolare personale militare in quantità che ora possiamo solo immaginare, e abbiamo appena visto quanto sia difficile. Ma potrebbe essere vero, nonostante tutto, che il massiccio aumento della domanda di servizi militari recentemente promesso possa in qualche modo tradursi in almeno un modesto aumento complessivo delle capacità?
La prima cosa da dire è che probabilmente potresti permetterti di arrivare a un reclutamento ragionevolmente completo della tua struttura attuale . Gli incentivi finanziari possono fare una certa differenza, a quanto pare, se non altro perché è stato dimostrato che disincentivi finanziari, come salari bassi, hanno l’effetto opposto. Quindi un forte aumento dei salari probabilmente produrrebbe più candidati, anche se non necessariamente idonei. Esistono una serie di potenziali trucchi da applicare, a seconda del paese, dall’istruzione universitaria gratuita, al consentire agli ex detenuti di prestare servizio, all’eliminazione della nazionalità o di altri ostacoli, e infine al semplice abbassamento degli standard di salute e forma fisica per l’ammissione, sulla base del fatto che, con sufficiente impegno, quasi chiunque può finalmente essere reso sufficientemente idoneo per prestare servizio. Dico “quasi” perché le reclute con diabete o Long Covid (tra molti altri esempi) potrebbero essere semplicemente troppo difficili da portare a termine.
Quindi, in pratica, completare le forze armate occidentali fino alle attuali dimensioni previste potrebbe essere il massimo che si possa sperare, e questo fungerebbe da verifica di realtà al massimo livello di ciò che si può realizzare, anche con cifre folli. Si potrebbero imporre obblighi rigorosi ai riservisti per spremere qualche persona in più dal sistema, in caso di necessità. E questo è tutto. Ma sicuramente si possono acquistare equipaggiamenti? Dopotutto, sicuramente più si paga, più si ottiene, no?
Beh, fino a un certo punto. Ci sono alcuni equipaggiamenti relativamente semplici da utilizzare (veicoli logistici, ad esempio) le cui scorte potrebbero essere tenute in riserva per guasti e azioni nemiche in tempo di guerra, perché potrebbero essere guidati dai riservisti richiamati, o perché gli autisti civili potrebbero essere mobilitati in base alla legislazione di emergenza. Allo stesso modo, se si perde un carro armato perché un drone ne fa saltare i cingoli o il motore si guasta, un carro armato in riserva potrebbe essere una buona idea. Successivamente, si passa ai livelli delle scorte: munizioni, ovviamente, ma anche materiali di consumo per i veicoli, cingoli di riserva per carri armati e, naturalmente, droni. La disponibilità di velivoli non è mai al 100% e l’opportunità di schierarne alcuni in riserva contribuirebbe a mantenere alto il numero di unità. Ma, ancora una volta, il denaro non basta a comprare tutto.
Il problema è che il mondo non è un negozio Amazon e il denaro non può creare capacità, né manodopera qualificata, per non parlare di materie prime, dove non ce ne sono. Un recente rapporto della Commissione Europea ha evidenziato la preoccupante percentuale di materiali importati negli armamenti europei, che vanno dai componenti esplosivi agli acciai e leghe speciali, fino ai sottogruppi elettronici. L’Europa dipende completamente dalle importazioni per 19 materiali critici utilizzati nella produzione di equipaggiamenti per la difesa, e il fornitore più importante è la Cina. Ciò che preoccupa di più è che l’Europa importa relativamente poche materie prime vere e proprie, estratte dal terreno per i beni di difesa: in molti casi, importa materiali lavorati e semilavorati, a loro volta composti da leghe, compositi ecc., provenienti da diversi Paesi. Sarebbe teoricamente possibile, a costi enormi, creare intere nuove industrie nei Paesi occidentali (gli Stati Uniti sono in una situazione altrettanto grave) per produrre, ad esempio, materie prime semilavorate. Ma nessuna somma di denaro può fornire all’Occidente giacimenti minerari che non possiede e che sono soggetti a ogni tipo di sconvolgimento immaginabile, sia naturale che politico.
I tempi in cui le aziende del settore della difesa “producevano” equipaggiamenti di difesa sono ormai lontani. Oggigiorno, le aziende del settore della difesa sono meglio descritte come “integratori di sistemi”, che prendono sottoinsiemi, sistemi di navigazione e controllo, sistemi d’arma e di controllo del fuoco, tra gli altri, e li integrano in un sistema funzionale, che cambia gradualmente nel tempo, man mano che i componenti vengono aggiornati. Questo produce molteplici punti di guasto singoli, e non necessariamente per motivi maligni. Un costruttore di gruppi di carrelli di atterraggio, ad esempio, potrebbe già lavorare a pieno regime per rifornire clienti in tutto il mondo.
La difesa è diventata vittima del neoliberismo di mercato. Così tanto è stato subappaltato, esternalizzato e delocalizzato che la realizzazione di sistemi d’arma è ora un affare di vertiginosa complessità che coinvolge molti fornitori e paesi. E come abbiamo visto, non sono necessariamente le importazioni principali a contare tanto quanto il fornitore di materie prime al subappaltatore, e in alcuni casi gli integratori di sistemi di difesa potrebbero persino non sapere chi sia. Garantire le catene di approvvigionamento, non solo per le attrezzature, ma anche per i pezzi di ricambio e le munizioni, è già abbastanza difficile. Un’espansione massiccia dei requisiti lo rende esponenzialmente più difficile.
Tutto ciò può sembrare strano. Gli appaltatori della difesa non accolgono con favore guerre e riarmo? Non si batteranno tra loro per nuovi contratti succosi? Beh, fino a un certo punto, quando si tratterà di sfruttare la capacità eccedente con una nuova produzione incrementale. Ma anche in quel caso, mentre durante la Guerra Fredda le aziende della difesa erano spesso nazionalizzate o fortemente dipendenti dalle vendite governative, ora sono dominate dalla pervasiva ossessione psicotica per i profitti dei successivi tre mesi. Il management potrebbe benissimo decidere che anche i modesti sforzi per reclutare personale extra, rimettere in funzione le linee di produzione e setacciare il mondo alla ricerca di maggiori forniture di sottoassiemi e componenti non possano essere giustificati agli azionisti. Le aziende della difesa traggono profitto da lunghi periodi di pace, quando la domanda è stabile, la produzione può essere prevista con anni di anticipo e le modifiche pianificate vengono eseguite regolarmente. Dopotutto, non c’è niente di più redditizio che vendere un anno di pezzi di ricambio per un’attrezzatura che è in servizio da vent’anni. Investimenti speculativi in nuove fabbriche, formazione di nuova forza lavoro, ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, sviluppo di nuove tecnologie per prodotti che potrebbero non funzionare mai e non essere mai acquistati sono un vero veleno per i dirigenti odierni, ossessionati dagli MBA.
La terza possibilità è un’improvvisa esplosione di unità e determinazione tra le potenze occidentali di fronte a una Russia rinascente e a un sistema di pianificazione in grado di trasformare tale volontà politica in iniziative logiche e coerenti. Anche solo suggerire una cosa del genere, forse, è ridicolo, alla luce della confusione, del disordine, del panico, del dilettantismo e dell’ignoranza dell’ultimo decennio circa, per non parlare della mancanza di qualsiasi visione del futuro, per quanto superficiale e controversa. Come ho già suggerito , l’unica politica che unisce l’Occidente al momento è la fede cieca e il rifiuto di contemplare la realtà, nella speranza che in qualche modo, in qualche modo, si sfugga alle conseguenze dei propri errori cumulativi nei rapporti con la Russia dalla fine della Guerra Fredda. Quando quest’ultima speranza svanirà, il risultato più probabile non sarà una cupa determinazione collettiva a sopravvivere, ma piuttosto una frenesia in cui le nazioni si rivolteranno contro le altre, i politici contro i politici e gli esperti contro gli esperti, tutti alla ricerca di discolparsi e di trovare un colpevole. Il mondo, diciamo, nel 2026 sarà così al di là di ciò che i governi occidentali saranno in grado di comprendere e gestire, che il risultato sarà una paralisi istituzionale e una sorta di esaurimento nervoso collettivo. Certo, ci saranno forti dichiarazioni di sfida e appelli all’unità e alla determinazione, ma questi sentimenti saranno rivolti all’opinione pubblica occidentale, e non alla Russia, che non ne terrà conto perché non saranno supportati da nulla.
L’ultima possibilità – o meglio, l’incertezza – riguarda il grado di disponibilità dei russi a riprendere le normali relazioni dopo la fine della guerra. Stranamente, in alcuni ambienti sembra esserci la convinzione che i russi si rivolgeranno all’Occidente con un atteggiamento di umiltà, se non addirittura in ginocchio, chiedendo perdono e cercando di essere riammessi nel Sistema Internazionale (™). Non riesco a immaginare da dove provengano tali convinzioni. I russi saranno la potenza militare dominante in Europa, l’Occidente sarà incapace di opporre una seria resistenza militare e gli Stati Uniti saranno di fatto fuori dai giochi. Ciò non significa che i russi vorranno quindi espandersi militarmente verso l’Occidente, anche se ritengo sia lecito supporre che lo faranno in casi specifici, se lo riterranno essenziale per la loro sicurezza. (Anche i commentatori più anti-occidentali e filo-russi sono, a mio avviso, troppo inclini a concedere ai russi il beneficio del dubbio in casi simili). Ciò che è in gioco qui non è la futura divisione territoriale dell’Ucraina, né le circostanze esatte della fine della guerra in quel Paese. Si tratta della configurazione politica e militare dell’Europa per i prossimi 25-50 anni, e di garantire il dominio russo sull’Europa, in modo tale che non possa sorgere alcuna minaccia futura. Non posso pretendere di psicoanalizzare il carattere russo, ma dopo quello che hanno passato per molte generazioni, è probabile che saranno pronti a ricorrere a misure estreme se lo riterranno necessario. Storicamente, i russi hanno preferito l’hard power al soft power: per usare la formula di Machiavelli, preferendo essere temuti piuttosto che amati, se queste sono le uniche due opzioni.
In una certa misura, la condotta russa sarà influenzata da più ampie considerazioni di politica internazionale. Non considereranno importante creare un’impressione favorevole in Occidente, ma presteranno attenzione ai paesi BRICS e ad altri, per evitare di apparire come una minaccia o come l’ennesima potenza imperialista emergente. Cercheranno di rafforzare la propria influenza nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e in varie organizzazioni internazionali, così come presso l’Unione Africana e l’ASEAN, non perché considerino queste organizzazioni particolarmente significative di per sé, ma come un modo per diffondere potere e influenza a livello internazionale.
Se si accetta l’analisi di cui sopra, le incertezze rimanenti si dividono essenzialmente in due tipi. Il primo è la misura in cui i leader occidentali possono effettivamente accettare una posizione di inferiorità militare, e la vulnerabilità politica che ne consegue, non come una possibilità teorica ma come una realtà con cui convivere. Il secondo è l’effetto su istituzioni europee come la NATO e l’UE, che saranno probabilmente fatali, ma la cui fine potrebbe essere caotica e persino violenta. Dopo generazioni di prediche e istruzioni al mondo su cosa dovrebbe fare, è ragionevole temere che il sistema politico occidentale possa semplicemente crollare sotto tali pressioni.
A un certo punto, l’Occidente dovrà rinunciare a gesti di rabbia, indignazione ipocrita e richieste ridicole, e iniziare a capire come convivere con la Russia. E sarà alle sue condizioni. Quale altra scelta c’è? L’Occidente si trova di fronte a una Russia molto più potente, arrabbiata e potenzialmente vendicativa, che ha sacrificato vite e denaro per perseguire quelli che considera i suoi interessi fondamentali di sicurezza. Tali atteggiamenti dureranno a lungo e dobbiamo iniziare a tenerne conto fin da ora. Ciò significa, come ho suggerito, una politica moderata e non conflittuale nei confronti della Russia, orientata a preservare la sovranità nazionale e l’indipendenza politica il più possibile.
Riporterebbe inoltre l’equilibrio del potere militare in Occidente a Gran Bretagna e Francia, le uniche due potenze nucleari europee. Paesi come Germania e Polonia, che cercano di espandere le proprie forze convenzionali, stanno sprecando tempo e denaro in modo molto limitato. In passato, si sosteneva con fondatezza che i piccoli paesi dotati di forze armate capaci avrebbero potuto imporre a un invasore un costo sproporzionato rispetto a qualsiasi vantaggio. Questo non è più vero. Le forze armate di quei due paesi, inclusi quartier generali, aree di raduno, porti militari, aeroporti e depositi di rifornimento e riparazione, potrebbero essere smantellate da missili a lungo raggio in poche ore, senza che sia possibile alcuna risposta. Teoricamente, i droni russi potrebbero dare la caccia e distruggere ogni singolo carro armato e veicolo corazzato della Bundeswehr o dell’esercito polacco senza possibilità di rappresaglia.
Quindi le probabili conseguenze includono un massiccio rimescolamento delle carte in Occidente e un ritorno alle politiche di difesa nazionale e alle alleanze ad hoc. È probabile che alcuni dei nuovi membri della NATO e dell’UE vengano semplicemente lasciati a se stessi: non c’è comunque nulla che si possa fare per loro. Non è una bella prospettiva per alcuni, senza dubbio, ma dovremmo iniziare a rifletterci fin da ora. Qual è l’alternativa, esattamente?
Un secondo saggio di Powell teso a dare una interpretazione sottile ed originale , controcorrente rispetto alla narrazione predominante europea, sia conformista che critica. Se dal punto di vista “dell’onda lunga della storia” e della pianificazione strategica degli apparati e dei centri di potere consolidati, il cosiddetto “stato profondo”, la tesi è largamente attendibile, nella dinamica della contingenza politica la zona grigia è molto più estesa ed attiva. Non penso che Trump miri ad ingabbiare gli Stati Uniti su priorità strategiche troppo estese per l’attuale condizione di potenza degli Stati Uniti, quanto a scomporre e frammentare i sodalizi presenti nel mondo, retaggio delle precedenti politiche imperialistiche statunitensi e delle emergenti reazioni a quelle; la presenza, al suo interno, di una grande forza politica decisamente ostile all’interventismo di matrice demo-neocon rappresenta ancora una significativa deterrenza ad una svolta trasformista così evidente. Piuttosto, mira a distruggere una delle strutture di impronta globalista ed universalista, l’Unione Europea, tra le tutte che vorrebbe debellare, comprendendo in queste anche i BRICS, che globalisti non sono; a parassitare le risorse e le residue capacità finanziarie ed economiche dei paesi europei; a sconfiggere l’asse sorosiano e neocon, fortemente radicato in Europa e rappresentato istituzionalmente dal trinomio Merz-Macron-Starmer con punto focale la Germania. È appunto la Germania, il bersaglio grosso, il nodo geografico da colpire pesantemente. La stessa Germania che si fa scudo della Unione Europea per attenuare e deviare i colpi. Di fatto, più che la scelta soggettiva della componente governativa statunitense, è la sua incoerenza e la incapacità di risolvere a proprio favore il conflitto interno agli USA a determinare le dinamiche evidenziate da Powell. Per non parlare del successo di immagine e tattico che Trump sta conseguendo, a dispetto della denigrazione pesante ai suoi danni, almeno qui in Europa, ma non solo. Non è una sfumatura di poco conto. Piuttosto che gridare al lupo d’oltre oceano, i veri alternativi realisti, che evidentemente scarseggiano paurosamente in Europa, dovrebbero concentrare gli sforzi contro chi, per stupidità e mero spirito di sopravvivenza della propria specie, sta aprendo la stalla europea e chiudendo drammaticamente e ottusamente ogni via di uscita alternativa presente negli Stati Uniti, in Russia, in Cina, in India e in Africa. Il nemico, non l’avversario, lo abbiamo in casa e dalla sua sconfitta dipenderà l’esito generale dello scontro epocale in atto. Giuseppe Germinario
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Il miosaggio contrarian di ieriche esaminava gli elementi chiave dell’accordo sul “commercio e gli investimenti” tra Stati Uniti e Unione Europea, ha suscitato qualche reazione. Questo è comprensibile quando la prima reazione è quella di vedere l’accordo come una prova della capitolazione europea. “L’Europa non ha ottenuto nulla, Trump ha ottenuto tutto”, come “capitola” la von der Leyen (VDL). La mia argomentazione implicava che questo inquadramento non ha colto alcuni elementi importanti del cosiddetto accordo, che in realtà ha dato all’élite di Bruxelles ciò che desiderava in modo particolare, senza rinunciare a molto nella sostanza. E sì, il resto dell’Europa – concepito in modo più ampio – è stato abbandonato.
Le reazioni sono state di diverso tipo.
Alcune reazioni hanno respinto la possibilità che VDL possa avere sufficiente astuzia o intelligenza strategica per pensare e realizzare una tale mossa.
Altri non potevano immaginare che l’UE non capitolasse, punto e basta, rinunciando alle pretese di autonomia/sovranità europea e rinunciando agli interessi economici dell’Europa (in particolare in termini di impegni ad acquistare il GNL americano ad alto costo e a fare investimenti massicci negli Stati Uniti).
Questo saggio prende spunto da queste reazioni per un’analisi più approfondita, e devo ringraziare i vari lettori per i loro commenti e le loro reazioni – anche, e forse soprattutto, quelli che hanno reagito più duramente. Questo saggio procede in tre parti.
In primo luogo, esplora queste due dimensioni in modo un po’ più dettagliato.
In secondo luogo, analizza l’impegno dell’UE a spendere 750 miliardi di dollari per le forniture di difesa degli Stati Uniti. In questo modo, spero di dare ulteriori sfumature all’argomento e di suggerire che le speranze di VDL di accalappiare gli Stati Uniti probabilmente entreranno in conflitto con i limiti industriali americani e le sue ambizioni militari altrove.
Infine, introduce un altro aspetto di una serie di accordi recenti, ossia l’impegno fittizio di altri ad acquistare altri aerei Boeing. Sebbene gli impegni all’acquisto di aerei Boeing non siano emersi nelle discussioni dell’UE, essi sono stati elementi centrali degli “accordi” raggiunti altrove. Tuttavia, la situazione della Boeing conferma che in realtà questi “accordi” sono in gran parte un teatro politico, progettato per fornire “grandi numeri” che facciano notizia.
In questo modo, si sostiene che la maggior parte di questi cosiddetti impegni di acquisto e di investimento non si concretizzeranno in tempi brevi (o non si concretizzeranno affatto), ma – almeno nel caso della Boeing – contribuiscono alla realizzazione di obiettivi di finanziarizzazione piuttosto che di risultati produttivi. L’inefficacia dell’accordo commerciale e di investimento risuona in tutto l’Atlantico. Parla della priorità del teatro sulla sostanza materiale. Ma la materialità si affermerà, come è inevitabile che sia. Le promesse monetizzate non significano nulla se i sistemi industriali non sono in grado di mantenerle.
La disgiunzione tra l’inquadramento degli interessi europei da parte di Bruxelles e quelli degli Stati membri e dei cittadini dell’UE comincia a farsi sentire. Ci si chiede se non si stia arrivando a un “momento temporale” in cui lostatus quopuò essere sufficientemente scosso per far emergere un percorso europeo alternativo. In caso contrario, sotto l’attuale leadership, è destinata a diventare ciò che ho precedentemente descritto come il “capolinea” di un impero transatlantico.
Ancora sull'”affare” UE
La prima domanda che ci si pone è se la VDL sia in grado di architettare un simile approccio. La risposta breve è “chi può saperlo con certezza”.
È possibile che glieffettidell'”accordo” sono quelli che ho descritto nel pezzo originale non presuppone che siano premeditati o intenzionali. Potrebbe essere semplicemente una funzione del caso. Detto questo, il “gioco” in questione non è particolarmente complicato. Se l’imperativo principale della von der Leyen era quello di mitigare il rischio che gli Stati Uniti abbandonassero la difesa dell’Europa, allora “concedere” su tutti gli elementi “non essenziali” non è né complicato né difficile da concepire. Infatti, ironia della sorte, proprio come Trump ha usato i dazi come leva di politica non commerciale, la von der Leyen ha usato anche la concessione di dazi sulle merci dell’UE verso gli Stati Uniti come contrappeso a misure che incentivano gli Stati Uniti a impegnarsi per la sicurezza dell’Europa.
Non aveva una mano forte, ma ha giocato con quello che aveva per raggiungere un unico obiettivo: mitigare il rischio che gli Stati Uniti abbandonassero le priorità di sicurezza dell’Europa come lei – e quelli del du-umvirato di Bruxelles – vedevano le cose. In questo caso, mi riferisco sia alla Commissione europea che alla NATO. I rappresentanti di questi due organismi hanno lavorato instancabilmente per trascinare gli Stati Uniti nelle guerre europee e per rendere difficile per l’America uscirne. In una certa misura (la qualifica è qualcosa che discuto più avanti), ci è riuscita – per progetto o per caso.
In ogni caso, se la VDL non è stata astuta, la critica successiva alla VDL è che ha subordinato completamente l’Europa agli interessi americani. Ciò presuppone che gli altri elementi dell’accordo siano materialmente significativi. Se lo fossero, l’etichetta di “trattato ineguale” avrebbe un peso. Se, invece, gli altri elementi dell'”accordo” sono vuoti, allora l’accusa di capitolazione in queste ultime discussioni può sembrare vera, ma non dovrebbe essere confusa con la materialità dei loro effetti e con ciò che questo implica.
Sulle tariffe
La questione delle tariffe vede gli Stati Uniti imporre il 15% sui prodotti importati dall’UE e l’UE avere zero tariffe sui prodotti americani importati. Criticare questo presuppone che il parametro di riferimento sia l’equivalenza tariffaria. Questo significa ammettere che il quadro di reciprocità di Trump è quello che conta, ma su questioni di commercio i prezzi relativi bilaterali possono essere compresi in modo significativo solo facendo riferimento alle rispettive strutture di ciascuna economia in questione e al più ampio regime di produzione e commercio che coinvolge altre parti. Un aumento generale delle tariffe sui beni importati in America, con aliquote simili, non modifica in modo significativo le differenze di prezzo relative.
Ricominciamo dalle basi. Le tariffe aumentano i costi per le imprese e i consumatori statunitensi, non per i produttori stranieri. Quando si applica un dazio del 15% alle merci europee, l’onere ricade sulle imprese americane, che assorbono la perdita nei loro margini o la trasferiscono in prezzi più alti. In misura minore, alcuni esportatori possono anche assorbire parte dell’onere riducendo i propri costi, ma questa non è l’esperienza generale.
E soprattutto, le tariffe influenzano i modelli commerciali solo se spostano la competitività relativa. In questo caso, semplicemente, non sta accadendo. Se gli Stati Uniti impongono una tariffa del 15% sui beni dell’UE e tariffe simili sulle importazioni da altri Paesi, la posizione relativa dell’Europa non cambia. Le imprese europee non sono state escluse. Piuttosto, vengono inserite in una matrice universale di protezionismo americano. In questo contesto, le tariffe diventano un rumore di fondo, non un segnale direzionale. Tutti sono colpiti allo stesso modo, quindi nessuno è strategicamente svantaggiato. Anzi, l’Europa potrebbe addirittura guadagnarci in termini relativi, non essendo trattata peggio dei concorrenti.
Peggio ancora (dal punto di vista di Washington), i tassi di cambio potrebbero adeguarsi. Se le tariffe statunitensi riducono i ricavi delle esportazioni dell’UE o la domanda esterna, è probabile che l’euro si indebolisca rispetto al dollaro, compensando completamente l’impatto delle tariffe. Una tariffa del 15% potrebbe essere semplicemente contrastata da un deprezzamento del 10% della valuta, lasciando invariati i prezzi effettivi in termini di dollaro. Il tasso overnight UE-USA ha mostrato un deprezzamento dell’euro. Vediamo se questo rimane in vigore per un periodo significativo.
Consideriamo ora la giustificazione principale delle tariffe, ovvero l’idea che esse incentivino le aziende a rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti. Questa teoria dipende da una semplice equazione: la penalizzazione dei costi indotta dalle tariffe deve essere maggiore dello svantaggio di operare negli Stati Uniti. Ma è improbabile che questa equazione sia valida ai livelli tariffari emergenti del 15-20%. Nella maggior parte dei settori, in particolare quello manifatturiero, lo svantaggio in termini di costi di operare negli Stati Uniti rispetto ai centri di produzione offshore può facilmente superare il 30-40%, se si tiene conto dei salari, dei costi dei terreni, della conformità e delle spese generali di regolamentazione. Una tariffa del 15% non colma questo divario.
In effetti, abbiamo uno squilibrio tra l’entità della sanzione e quella dell’incentivo. La tariffa è abbastanza alta da interrompere le catene di approvvigionamento e danneggiare i margini di profitto, ma non abbastanza da rendere il reshoring economicamente conveniente.
E anche se i numeri funzionassero, il premio per il rischio politico di investire negli Stati Uniti è aumentato notevolmente. La percezione che la politica commerciale e industriale americana sia irregolare, politicamente motivata e di breve durata è ormai profondamente radicata. Per molte aziende, la risposta logica non è quella di trasferirsi negli Stati Uniti, ma di diversificarsi completamente. Come minimo, le aziende potrebbero semplicemente cercare di aspettare i prossimi anni e vedere se le cose si sistemano dopo Trump.
Il risultato è un regime tariffario che non raggiunge nessuno degli obiettivi dichiarati. Non rende l’industria statunitense più competitiva. Non induce il reshoring. Non sposta i flussi commerciali in modo strategico. Piuttosto, aumenta i costi interni, erodendo il potere d’acquisto. Crea incertezza nelle catene di approvvigionamento globali, nella misura in cui sono esposte ai capricci della politica americana, il che contribuisce a minare la credibilità dell’America come partner economico stabile.
Detto questo, l’effetto di un’aliquota tariffaria fissa varierà da settore a settore e da linea di prodotto a linea di prodotto. Questa è l’inevitabile conseguenza dell’applicazione di strumenti spuntati come questo a contesti altamente variabili. Non sorprende quindi che alcuni settori dell’UE abbiano reagito a gran voce contro l’accordo tariffario, e il più ovvio è laFederazione delle industrie tedesche. Paradossalmente, i lavoratori americani del settore auto e le case automobilistiche hanno criticato l’accordo tariffario raggiunto con il Giappone. È probabile che si verifichino oscillazioni e aggiustamenti, il che è ben lontano dalla “reciprocità tariffaria” come punto di riferimento economico significativo.
Sul GNL
Se la questione delle tariffe produce effetti discontinui, le promesse sul GNL sono palesemente irrealistiche e vuote.
Per stimare i valori in dollari rispetto a questi volumi, i prezzi tipici del GNL nel 2024 sono compresi tra 30-40 euro per MWh (≈ 32-43 dollari/MWh). Con 112 bcm ≈ 112 miliardi di m³ ≈ 84 milioni di tonnellate (conversione approssimativa), e l’equivalente in MWh, si ottiene quanto segue:
1 m³ ≈ 10,55 kWh, che si traduce in 112 bcm ≈ 1.181 TWh, con il risultato di 1.181 miliardi di kWh / 1 MWh = ~1.181 TWh.
A 40 $/MWh che si traduce in circa 47 miliardi di dollari totali nel 2024.
Importazioni totali di GNL: ~112 bcm per un valore di ≈ 45-50 miliardi di dollari nel 2024;
Dagli Stati Uniti (45-50 %): ~50 bcm, per un valore di ≈ 20-25 miliardi di dollari;
Dalla Russia (15-18 %): ~17-20 bcm, per un valore di ≈ 6-8 miliardi di dollari;
Dal Qatar (~11 %): ~12 bcm, per un valore di ≈ 4-5 miliardi di dollari; e
Altri (20-25 %): ~22-28 bcm, per un valore di ≈ 10-12 miliardi di dollari.
L’accordo commerciale energetico tra Stati Uniti e Unione Europea prevede obiettivi ambiziosi (ad esempio, 250 miliardi di dollari all’anno di acquisti energetici). Tuttavia, come me, altri – come riportato daReuters– hanno messo in dubbio la fattibilità, data la capacità attuale. L’obiettivo di 250 miliardi di dollari annui di scambi energetici tra Stati Uniti e Unione Europea è fondamentalmente irrealizzabile, sia per motivi strutturali legati all’offerta che per motivi legati alla domanda.
Per quanto riguarda l’offerta, ovvero la capacità di GNL degli Stati Uniti, esistono vincoli reali lungo l’intera catena di approvvigionamento. Iniziamo con i vincoli relativi alle materie prime competitive dal punto di vista dei costi. Le esportazioni di GNL negli Stati Uniti dipendono dal gas naturale proveniente dai giacimenti di scisto (principalmente Permian e Haynesville). La produzione nazionale di gas si è stabilizzata o ha rallentato la crescita a causa della pressione degli investitori per la disciplina del capitale e dei venti contrari della regolamentazione. Non c’è un surplus significativo che possa sostenere un raddoppio o una triplicazione delle esportazioni di GNL, nonostante l’aggiunta di capacità (Golden Pass, Plaquemines e Corpus Christi Stage III). Ci sono anche colli di bottiglia nella liquefazione e nel carico. La capacità di liquefazione degli Stati Uniti è esaurita. Nel 2024, la capacità operativa sarà di circa 14 miliardi di piedi cubi al giorno (Bcf/d) (≈ 145-150 bcm/anno). Le espansioni previste (ad esempio, Golden Pass e Plaquemines) non entreranno in funzione su scala fino al 2026-2028, e anche in quel caso non raggiungeranno i volumi impliciti di 250 miliardi di dollari all’anno. A questo si aggiungono i vincoli di trasporto. Il GNL richiede navi cisterna criogeniche specializzate (Q-Flex, Q-Max, ecc.) e c’è già una carenza globale di navi metaniere. Le tariffe di noleggio sono elevate e la pipeline di costruzione è in arretrato. Anche se la fornitura statunitense fosse disponibile, non ci sono abbastanza navi cisterna per trasferirla in Europa. Infine, sia negli Stati Uniti che nell’UE vi sono limitazioni in termini di infrastrutture dei terminali. Molti terminali di rigassificazione dell’UE operano vicino alla capacità. Le nuove unità di rigassificazione galleggianti (FSRU) sono utili, ma non possono assorbire centinaia di bcm aggiuntivi da un giorno all’altro.
Per quanto riguarda la domanda, esistono anche vincoli materiali. Come si è detto, dal 2021 la domanda di gas nell’UE è diminuita del 18% circa. Ciò è dovuto alla contrazione industriale, all’aumento dell’efficienza energetica e alla sostituzione con le energie rinnovabili. Le importazioni di GNL sono diminuite di 22 miliardi di metri cubi solo nel 2024. C’è anche la saturazione degli stoccaggi. Lo stoccaggio di gas in Europa è stagionalmente pieno entro l’autunno. Ulteriori acquisti di GNL resterebbero inutilizzati o deprimerebbero ulteriormente i prezzi di mercato, rendendoli commercialmente non convenienti. La sensibilità ai prezzi dei mercati europei solleva inoltre seri dubbi sulla capacità del mercato UE di assorbire le presunte forniture americane aggiuntive. A ~10-12$/MMBtu, gli acquirenti dell’UE non possono permettersi di bloccare grandi volumi a lungo termine senza la certezza della domanda. Gli acquirenti industriali esitano a firmare contratti a lungo termine. L’incertezza sulle politiche di decarbonizzazione e il timore di incagliare gli asset, oltre alla disponibilità di alternative più economiche come il gasdotto norvegese e le fonti rinnovabili, contribuiscono a smorzare l’entusiasmo per i contratti a lungo termine. Infine, ma non meno importante, l’attuale politica energetica dell’UE mira a eliminare gradualmente il gas, compreso il GNL, entro la metà degli anni 2030. Impegnarsi in grandi volumi di GNL dagli Stati Uniti è in contraddizione con gli obiettivi di zero netto e di indipendenza energetica, creando ancora una volta incertezza nel mercato per le decisioni aziendali.
L’ipotesi che la von der Leyen non fosse a conoscenza della realtà del mercato del GNL sembra alquanto fantasiosa. Il fatto che abbia poi affermato che gli Stati Uniti offrono il GNL migliore e più economico (quando è dimostrabile che è più costoso del gas russo) può far pensare che sia fuori dalla sua portata su questi temi. Forse. Più caritatevolmente si potrebbe adottare una difesa ispirata a Trump: è solo un’iperbole d’effetto. In ogni caso, poco importa se conosce o meno lo stato delle esportazioni di GNL dagli Stati Uniti o la realtà dei vincoli del settore e della catena di approvvigionamento. Come ho discusso nel pezzo originale, il problema non riguarda le intenzioni di acquisto, ma la capacità fisica. Questa non è sufficiente a soddisfare gli importi di spesa previsti, a meno che non si verifichi un aumento significativo dei prezzi.
Sugli investimenti
Per quanto riguarda la questione degli “investimenti”, come per il cosiddetto accordo con il Giappone, ci sono pochi dettagli significativi che possano aiutare a dare un senso all’impegno. Proprio come nel caso del Giappone, l’UE guadagna ingenti dollari grazie al suo surplus commerciale con gli Stati Uniti, che anima le costernazioni di Trump. Questi dollari devono essere riciclati e lo sono. Gran parte di questi va in obbligazioni statunitensi.
Se il cosiddetto “accordo” sugli investimenti dovesse spostare i dollari detenuti dall’UE in altre attività americane, ci sono pochi dettagli su come ciò avverrà, per non parlare di come potrebbe essere applicato. La vacuità della “promessa” di VDL è confermata danotizieche l’UE ha ammesso di non poter garantire la consegna dei 600 miliardi di dollari perché questi devono provenire dal settore privato. Per quanto riguarda il fatto che sia un contentino per Trump, è del tutto chimerico.
Un commento su Interessi
Ora, tutto questo rende von de Leyen più o meno un vassallo americano? La mia tesi è che nulla di tutto ciò è contrario a questa configurazione fondamentale, anche se forse la nozione di potenza subimperialepotenza subimperiale– come introdotto da Clinton Fernandes per descrivere il rapporto dell’Australia con gli Stati Uniti – è più appropriato. In ogni caso, qualunque sia l’etichetta, l’affermazione che Bruxelles vede gli interessi europei come fondamentalmente allineati al soddisfacimento degli interessi americani, in modo da mantenere gli Stati Uniti impegnati con l’Europa su questioni di sicurezza, non è incoerente con l’argomentazione parallelamente avanzata sopra e nel pezzo originale, secondo cui la VDL non ha finito per rivelare molto che fosse di significato materiale (piuttosto che teatrale/simbolico).
A parte l’osservazione sullo status subimperiale dell’UE, possiamo fare altre due osservazioni. In primo luogo, se l’interesse dei responsabili di Bruxelles era principalmente legato al rischio che gli Stati Uniti abbandonassero la sicurezza dell’Europa, allora il calcolo era semplice: tutto il resto può e deve essere subordinato al mantenimento dell’implicazione americana nelle questioni di sicurezza europee. La capitolazione agli Stati Uniti su questioni ritenute secondarie ha permesso alla von der Leyen di ottenere l’unica cosa che le interessava. Il fatto che questa “cosa” possa essere contraria ad altri interessi europei non invalida il fatto che la von der Leyen abbia ottenuto ciò cheleivoleva.
Naturalmente questo mette in evidenza la natura degli “interessi europei”, come questi vengono inquadrati e rifratti attraverso le varie priorità specifiche degli Stati membri. Così, mentre Bruxelles – attraverso la von der Leyen – può aver dato priorità all’impegno degli Stati Uniti nei confronti delle questioni di sicurezza europee attraverso promesse di vario tipo, non tutti gli Stati membri vedranno le cose in questo modo. Infatti, sia il Primo Ministro francese che la Federazione delle industrie tedesche si sono espressi contro l’accordo. In alcuni ambienti europei è evidente e palpabile la rabbia per quello che viene visto come un tradimento degli interessi europei da parte di VDL.
Comprare dal MIC statunitense
La promessa di aumentare gli ordini dal complesso militare industriale statunitense è stata una delle caratteristiche principali dell'”accordo”. Questo ha fatto leva su tutto ciò che si sa di Trump, e non sorprende che abbia funzionato. La mia argomentazione iniziale è che questo impegno vincola effettivamente gli Stati Uniti agli interessi di sicurezza dell’Europa per molto tempo a venire; semmai, la riflessione che segue suggerisce che questo vincolo è discutibile a causa dei limiti di capacità associati al sistema militare industriale americano.
Von der Leyen ha promesso che nei prossimi anni l’Europa effettuerà nuovi ordini netti per 750 miliardi di dollari alle aziende americane del settore della difesa. Non sono state fornite tempistiche.
Il problema di questa promessa? È un miraggio. La base industriale della difesa degli Stati Uniti sta già funzionando ad alta capacità. Le commesse per il futuro – soprattutto per il Dipartimento della Difesa (DoD) americano – hanno già fatto sentire il loro peso sulla produzione futura. Se la NATO e l’UE si accodano ora con nuovi ordini massicci, di fatto escludono le ambizioni strategiche americane nell’Indo-Pacifico. Un sistema di produzione progettato per acquisti incrementali non può semplicemente scalare al ritmo o al volume immaginato. Il risultato è una collisione incombente tra la domanda globale apparente e la realtà industriale.
Cominciamo con i fatti. I sei principali appaltatori statunitensi del settore della difesa – Lockheed Martin, RTX (Raytheon), Northrop Grumman, General Dynamics, Boeing e L3Harris – generano complessivamente oltre 270 miliardi di dollari di fatturato annuo (2024), la maggior parte dei quali proviene da contratti governativi statunitensi. La Lockheed Martin, la più grande di tutte, ha avuto un fatturato di circa 71 miliardi di dollari nel 2024, di cui circa il 65% legato direttamente al Pentagono e circa il 26% derivante dalle esportazioni, soprattutto verso gli alleati attraverso le Foreign Military Sales.
Queste aziende non sono inattive. La maggior parte è già al completo con anni di anticipo. Il portafoglio ordini della Lockheed supera i 150 miliardi di dollari e altri hanno code pluriennali simili. Che si tratti di jet da combattimento, missili di precisione, sistemi di difesa aerea o sottomarini, le linee di produzione sono a pieno regime. In molti casi, i tempi di consegna variano da 18 mesi a cinque anni, e questo senza un nuovo aumento della domanda globale.
Ora entra in gioco la nuova promessa europea. Di fronte al duplice shock della guerra russa in Ucraina e dell’erosione della fiducia nelle garanzie americane a lungo termine, i Paesi dell’UE e della NATO stanno correndo per modernizzare ed espandere i propri arsenali. Tuttavia, la maggior parte di essi non dispone di un’industria della difesa nazionale sufficientemente solida da essere in grado di produrre rapidamente. La risposta? Comprare americano. La Germania sta già acquistando F-35. La Polonia sta acquistando carri armati HIMARS e Abrams. I Paesi baltici vogliono più Javelin. Il Regno Unito sta aumentando gli ordini di difesa aerea di fabbricazione statunitense. Questo è solo l’inizio.
Alla vigilia dell’incontro Trump-VDL, gli europei avevano concordato di creare fondi per la militarizzazione che avrebbero finanziato l’espansione industriale nazionale. Poiché il Regno Unito non fa formalmente parte dell’UE, gli è stato detto che gli sarebbe stata addebitata una tassa per partecipare alla prevista espansione del fabbisogno europeo. Tutto questo era un teatrino. La capacità industriale europea non avrebbe mai potuto soddisfare le ambizioni. Ma ha creato un’atmosfera che ha fatto sì che Washington ne prendesse atto. L’idea che l’UE o i suoi membri possano espandere la spesa per la difesa, ma che gli Stati Uniti ne siano esclusi, non è stata accolta con favore all’interno della Beltway.
In ogni caso, l’offerta di acquistare ulteriori 750 miliardi di dollari di materiale per la difesa dagli Stati Uniti ha placato Trump e qualsiasi preoccupazione residua che Washington potesse avere di “perdersi”. Se le ambizioni europee si tradurranno in 750 miliardi di dollari di nuovi ordini da parte delle aziende statunitensi nel prossimo decennio, si aggiungeranno agli attuali acquisti degli Stati Uniti, che a loro volta si stanno espandendo a causa delle crescenti tensioni con la Cina. Ciò significa che gli ordini europei saranno in diretta concorrenza con la strategia indo-pacifica dell’America.
Il perno del Pentagono verso l’Asia si basa molto sulla sua capacità di dispiegare sistemi avanzati – caccia, sottomarini, ipersonici, fuochi a lungo raggio – in nome della deterrenza nei confronti della Cina. Ma questi sistemi sono costruiti dalle stesse aziende a cui ora si chiede di rifornire l’Europa su larga scala. A differenza delle economie di guerra degli anni ’40, oggi la produzione di difesa è ad alta tecnologia, strettamente regolamentata e difficile da scalare. Gli Stati Uniti non dispongono più di migliaia di fabbriche inattive che possono essere convertite da un giorno all’altro. Né hanno un’eccedenza di manodopera qualificata, di materiali rari o di catene di fornitura integrate.
Anche un ipotetico afflusso di 750 miliardi di dollari di nuovi ordini da parte degli alleati della NATO si scontrerebbe con colli di bottiglia produttivi pluriennali. Non si tratta di beni commerciali che possono essere affrettati. Le piattaforme d’arma comportano un’ingegneria complessa, un rigoroso controllo di qualità, lunghi cicli di collaudo e, in molti casi, controlli sulle esportazioni o restrizioni di sicurezza che rallentano l’integrazione nelle forze armate straniere. Molti sottosistemi critici – avionica, propulsione, guida – provengono da subappaltatori poco diffusi che operano a loro volta ai margini.
Inoltre, gli appaltatori statunitensi del settore della difesa non sono incentivati a incrementare bruscamente la produzione. In quanto società quotate in borsa, preferiscono margini stabili e prevedibili a una domanda volatile e basata su picchi. Le impennate della domanda generano carenze che fanno salire i prezzi, ma lasciano sostanzialmente inalterato il volume complessivo. A meno che i governi non siano disposti ad assumersi completamente i rischi della capacità inutilizzata, il settore privato non investirà miliardi in un’espansione speculativa. Né è probabile che il Pentagono permetta ai suoi principali fornitori di dare priorità agli ordini europei rispetto ai requisiti statunitensi. È proprio questo il dibattito in corso sul fatto che gli Stati Uniti possano permettersi di consegnare sottomarini all’Australia, dati i limiti di produzione.
Questo ci porta a un dilemma strategico: l’America non può armare contemporaneamente l’Europa e l’Asia nella misura prevista. Qualcosa deve cedere.
Se gli Stati Uniti continuano a espandere le proprie forniture, impegnandosi al contempo a fungere da arsenale primario per l’Europa, rischiano di diluire la propria attenzione strategica e di minare la deterrenza nell’Indo-Pacifico. Al contrario, se le aziende statunitensi danno priorità agli ordini europei per ottenere entrate a breve termine, potrebbero lasciare l’America esposta proprio nel teatro in cui sostiene che si deciderà il futuro dell’ordine globale.
La realtà materiale ha l’ultima parola. I vincoli evidenti nel sistema militare industriale statunitense non sono i soli. Sono evidenti anche in un’altra componente chiave di altri accordi commerciali conclusi nelle ultime settimane: l’impegno di vari Paesi ad acquistare più aerei Boeing.
Sulla Boeing
I recenti annunci di Trump – che hanno fatto parlare di “ordini” di aerei dall’Arabia Saudita, dal Qatar, dall’Indonesia e dal Giappone – sono stati presentati come trionfi della capacità di concludere accordi. Questi impegni fittizi, che secondo quanto riferito riguardano oltre 350 aerei Boeing, sono stati presentati come vittorie per la produzione, l’occupazione e la diplomazia americana.
Ma se si toglie la spettacolarizzazione, ciò che emerge non è una rinascita del settore manifatturiero, bensì lafinanziarizzazionedelle promesse industriali. È improbabile che questi accordi, in gran parte sotto forma di memorandum d’intesa (MOU) non vincolanti, vengano realizzati durante il mandato di Trump o anche negli anni immediatamente successivi. L’attuale arretrato di quasi 5.000 aerei della Boeing richiederebbe già più di un decennio per essere smaltito a pieno regime.
Qual è il punto?
Questi “accordi” non riguardano la consegna. Si tratta divalutazione. Si tratta diasset narrativi– costrutti finanziari orientati al futuro che possono essere sfruttati oggi per rafforzare la liquidità, l’affidabilità creditizia o il capitale politico di un’azienda. E nel frattempo i titoli dei giornali sono un ottimo teatro politico.
L’arretrato – anche quando non è contrattualmente esecutivo – diventa uno strumento finanziario, che consente all’azienda di raccogliere debiti, strutturare finanziamenti o emettere titoli garantiti da attività basati sulla promessa implicita di entrate future.
Dagli ordini agli strumenti
Boeing, come molte grandi aziende industriali, non registra questi MOU come entrate o attività di bilancio. Ma questo non significa che siano privi di significato in termini finanziari. Svolgono un ruolo sottile ma potente nell’architettura finanziaria di Boeing.
I backlog, una volta sufficientemente “solidi”, servono spesso come giustificazione economica per gli accordi di finanziamento. Il debito strutturato può essere costruito sulla base delle entrate future previste. I pre-pagamenti dei clienti possono essere registrati come passività che compensano la liquidità corrente, mentre le attività di produzione convertono le promesse narrative in attività come l’inventario e i crediti. Anche quando i contratti non procedono, la semplice presenza di un accordo politicamente approvato può ungere le ruote della finanza.
Ciò non è dissimile dalle operazioni sfortunate di Greensill Capital, che forniva finanziamenti a fronte di vendite future previste, ma non realizzate. La differenza sta nella scala e nell’approvazione. Mentre il modello di finanziamento di Greensill è crollato sotto il peso di ipotesi sbagliate, i protocolli d’intesa Trump-Boeing sono sostenuti dalla legittimità del teatro politico e dal sostegno sistemico dei mercati finanziari affamati di rendimento.
Il capitalismo nell’era dell’anticipazione
Quello che Trump ha favorito non è un rinnovamento industriale, ma un caso da manuale diaccumulazione finanziarizzata. In questo regime, la produzione economica reale diventa secondaria rispetto alla circolazione di crediti finanziari su flussi di reddito futuri attesi – e spesso speculativi. Lo Stato svolge un ruolo cruciale di supporto. Non si limita a deregolamentare, macostruirel’impalcatura dei mercati finanziari trasformando lo spettacolo politico in una garanzia finanziaria utilizzabile.
È questo che rende gli “accordi” Trump-Boeing così rivelatori. Sono privi di contenuti industriali a breve termine, ma ricchi di utilità finanziaria. I memorandum d’intesa non impegnano Boeing a rispettare i tempi di consegna, né rappresentano contratti esecutivi che attivano il riconoscimento dei ricavi. Ma possono ancora essere utilizzati per strutturare il debito, rassicurare i creditori, sostenere i prezzi delle azioni e fornire liquidità alla Boeing proprio perché il capitalismo finanziario non richiede più risultati tangibili. Richiedenarrazioni credibili.
Il caso della Boeing non riguarda solo un’azienda o un ex presidente. Si tratta della mutazione in corso del capitalismo stesso, in cui i giganti della produzione vengono valutati meno in base a ciò che costruiscono e più in base a come monetizzano il loro futuro. L’economia reale diventa un palcoscenico per la produzione simbolica, mentre gli strumenti finanziari si nutrono di speculazione. Gli accordi di Trump con i Boeing non sono falsi. Sono probabilmente peggiori:finanziariamente reali ma materialmente vuoti. Sono l’esempio di un sistema in cui le promesse industriali sono utilizzate come armi per l’ingegneria dei bilanci e le figure politiche giocano il ruolo di intermediari non per ottenere risultati, ma per creare l’apparenza di attività che possono essere valutate e scambiate.
Se la Boeing consegnerà mai quei 350 aerei, sarà un miracolo della produzione. Ma allo stato attuale, la vera consegna sta già avvenendo, non sulle piste o sulle catene di montaggio, ma nei dipartimenti di finanza strutturata delle banche d’investimento e negli algoritmi speculativi del capitale globale.
L’inutilità di Pirro di accordi immaginari.
Cosa lega in definitiva questi fili? L’impegno di spesa dell’UE per la difesa, le promesse di investimento che non possono essere applicate, i teatrali “ordini” di Trump per i Boeing e le manovre e le offerte dell’élite di Bruxelles per l’acquisto di GNL americano nonostante i vincoli materiali; è la crescente divergenza tra spettacolo politico e realtà materiale. L’intera serie di accordi di Trump appare sempre più vuota. Sono pieni di grandi numeri ma poveri di dettagli. Sono distaccati dai vincoli dei sistemi reali e spesso comportano costi strategici di opportunità che sono in contrasto con altre priorità americane. In molti casi si tratta di vittorie di Pirro.
Dal punto di vista della von der Leyen, la logica è chiara: ha giocato una mano limitata e ha ottenuto ciò che desiderava di più, ossia un continuo impegno americano per la sicurezza in Europa. Secondo i suoi calcoli, cedere su questioni secondarie come le alte tariffe sulle esportazioni dell’UE, le tariffe zero sulle merci statunitensi, un’offerta di investimento non realizzabile, un impegno sul GNL che sfida la realtà e un simbolico ordine militare futuro di 750 miliardi di dollari era un prezzo tattico che valeva la pena di pagare per legare gli Stati Uniti all’architettura di difesa dell’Europa.
Ma questa strategia, se c’è stata, è costruita su fondamenta fragili. Se non c’era una strategia e tutto è avvenuto per caso, allora gli americani sono più ingenui. L’ipotesi che queste promesse si trasformino in una leva reale ignora i limiti strutturali della base industriale della difesa statunitense. Gli appaltatori americani sono già sotto pressione, le loro pipeline di produzione sono state rivendicate per anni, i loro incentivi sono legati più alla crescita del portafoglio ordini che alle consegne effettive.
Peggio ancora, la mossa politica della von der Leyen ha messo in luce la fragilità del consenso europeo. Le forti reazioni del Primo Ministro francese e della Federazione delle industrie tedesche sottolineano quanto sia sottile il mandato di Bruxelles. Se da un lato la von der Leyen si è assicurata l’attenzione degli americani, dall’altro ha approfondito le fratture all’interno dell’UE subordinando gli interessi economici e strategici dei principali Stati membri a una visione centralizzata e altamente contestabile.
L’offerta di GNL non fa che amplificare l’irrealtà. È più che probabile che Bruxelles sappia che gli Stati Uniti non possono fornire i volumi di gas promessi a prezzi competitivi. L’idea che il GNL statunitense sia “più economico e migliore” è puro teatro. In pratica, l’Europa continuerà ad acquistare gas da un’ampia gamma di fornitori, compresa, silenziosamente, la Russia. Le dimensioni energetiche dell’accordo sono quindi simboliche, non strutturali.
Nel frattempo, le “vittorie” di Trump – massicce esportazioni di prodotti per la difesa e centinaia di vendite di aerei Boeing – non sono più reali. Gli ordini di aeromobili sono perlopiù protocolli d’intesa inapplicabili, che difficilmente si concretizzeranno entro un decennio. Servono invece come asset narrativi, strumenti di valutazione, di finanziamento e di comunicazione politica. E gli ordini di difesa promessi dall’Europa? Potrebbero non raggiungere mai le fabbriche americane in quantità significative. Anche se lo facessero, stresserebbero un sistema già sull’orlo del baratro. In questo senso, anche le vittorie di Trump sono di Pirro. Guadagna i titoli dei giornali, ma siede su un settore della difesa che non può dare risultati, su un panorama strategico sempre più incoerente e su una base industriale che si affatica sotto il peso della sua stessa inflazione simbolica. L’intera vicenda mette in luce il fallimento non solo del coordinamento transatlantico, ma anche della capacità svuotata della produzione americana e delle disfunzioni della politica finanziarizzata.
Su entrambe le sponde dell’Atlantico, e altrove, questi accordi riflettono una realtà preoccupante: stiamo scambiando gli annunci per i risultati, il ritardo per la capacità e la narrazione per la sicurezza. La vera consegna in questo ciclo non sono armi, gas o aerei. Si tratta invece di titoli di giornale, leva finanziaria e illusioni politiche. Queste illusioni possono essere redditizie nel breve periodo. Ma sono fragili. E quando arriva il momento della consegna – non delle promesse, ma della capacità – potrebbero non reggere.
Questo “accordo”, che ha provocato reazioni rabbiose in varie parti d’Europa, si tradurrà in un’azione politica significativa e in un cambiamento? Se le priorità di Bruxelles – la sua concezione dell’interesse europeo – sono in contrasto con quelle degli Stati membri e dei cittadini in generale, allora forse – solo forse – stiamo raggiungendo quella che Walter Benjamin chiama una “rottura temporale”, un momento in cui le masse superano la loro insensibilità e la loro serialità intorpidita e trovano un modo per fare breccia.
È una domanda per entrambe le sponde dell’Atlantico.
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