QUOTA 500 ovvero la coalizione dei volonterosi, di Giuseppe Germinario

Con il breve ed incisivo post di ieri il sito ha raggiunto quota 500 pubblicazioni tra saggi, articoli, interviste e podcast. A due anni dalla fondazione, mi pare un risultato di tutto rispetto per quantità e soprattutto per qualità considerando soprattutto tre fattori. La redazione è composta da collaboratori in tutt’altre faccende affaccendati e ciononostante disposti a sacrificare gran parte del tempo libero allo studio teorico e all’analisi politica. Non gode di alcuna forma di finanziamento né, tanto meno, dell’accesso a strutture accademiche e di ricerca che possano agevolare un lavoro sistematico. Visti i condizionamenti e lo stato dell’arte di gran parte di quegli ambienti, quest’ultimo aspetto rappresenta certamente un grosso limite operativo ma garantisce nel contempo una libertà di azione che il conformismo vigile perennemente in azione di quelle strutture rischierebbe in qualsiasi momento di soffocare sul nascere.

Lo sparuto gruppo fondatore era appena uscito da una amara e purtroppo poco edificante conclusione del rapporto con il blog di “conflitti e strategie”. L’intento della nuova iniziativa era quello di offrire un luogo aperto di confronto che mettesse a frutto l’intuizione dell’ispiratore di quel blog, Gianfranco la Grassa, cercando di attingere in sovrappiù dalle ceneri delle grandi correnti di pensiero dei due secoli scorsi, in particolare quello marxista, quello liberale e quello del realismo politico. Da qui i contributi interni ed esterni di Longo, Morigi, de la Grange, Buffagni, Visani, Falchi, Visalli, Fagan. Tutti contributi interessanti e originali ma attualmente ancora giustapposti. I limiti oggettivi e soggettivi del coordinatore non consentono di avviare ancora un confronto serrato e di pervenire ad una sintesi comune almeno provvisoria, come deve essere del resto ogni lavoro teorico e di analisi. La complessità crescente della situazione e il ritardo teorico non sono del resto di aiuto. Di sicuro contribuisce una caratteristica prevalente a gran parte dei blog affini presenti nelle piattaforme informatiche: l’assenza, all’interno dello stesso lavoro teorico, di una finalità politica che spinga al confronto rigoroso ma fattivo. L’assoluta prevalenza dell’interesse personale e autoreferenziale nella ricerca condita spesso e volentieri da narcisismo e dominata dal mero interesse professionale. Il tempo e soprattutto la durezza dei tempi che ci attendono aiuteranno probabilmente a superare questi limiti ormai connaturati o quantomeno ad addomesticarli entro cornici più positive.

Diventa fondamentale la ricerca di spazi nelle istituzioni preposte al lavoro teorico e di analisi, l’individuazione e il contatto con quei centri di potere potenziali e consolidati sensibili a queste tematiche e agli approcci sostenuti ancora in maniera larvata e scarsamente convincente nella pletora di iniziative, il conseguimento di risorse finanziarie adeguate.

Tutte condizioni necessarie, anche se non sufficienti, a creare e fornire strumenti a nuove élite e a una nuova classe dirigente. Il cammino è immenso.

Il blog non è stato solo questo.

I contributi di Gianfranco Campa hanno aperto, senza falsa modestia, una vetrina unica in Europa sui contenuti e sui retroscena degli avvenimenti politici nel paese chiave delle dinamiche geopolitiche: gli Stati Uniti.

De Martini, da par suo, ha aperto squarci impressionanti sugli scenari mediorientali. Il suo bagaglio di esperienza e di cultura va ben oltre l’orizzonte offerto dal sito.

Il sottoscritto, con tutti i suoi limiti, Paoloni, Bonelli e Buffagni hanno saputo offrire analisi del contesto nazionale le quali, in diverse occasioni, hanno saputo centrare e innescare, vedi il caso dell’assassinio di Pamela Mastropietro, un dibattito dirompente.

Senza nessuno spirito di recriminazione e al netto della mancata utilizzazione di tecniche adeguate di promozione e diffusione, un impegno che inizia a dare lentamente frutti ma che meriterebbe un riconoscimento più esplicito ed aperto di una parte dei fruitori.

Garanzie certe sulle attività future non ce ne sono, vista la volontarietà dell’impegno e l’esposizione delle iniziative alle vicissitudini personali, anche le più banali, dei collaboratori. L’intenzione di proseguire, di crescere e di allargare la platea di volonterosi c’è. Vedremo se ci saranno le condizioni per costruire una struttura più adeguata e più operativa, quindi più proficua, senza sacrificare la libertà di ricerca e la finalità politica in apparente antitesi. Germinario Giuseppe

interrogativi inquietanti, di Giuseppe Germinario

Oggi Maria Angela Zappia Caillaux, diplomatica, rappresentante permanente dell’Italia all’ONU dal 31 luglio 2018, in quota quindi del Governo Conte e del Ministro degli Esteri Moavero, già ministro plenipotenziario e rappresentante permanente alla NATO nonchè consigliere diplomatico di Matteo Renzi, ha votato in rappresentanza dell’Italia a favore del Migration Global Compact, il documento con il quale si tenta di orientare e regolare, sarebbe meglio dire incentivare, i fenomeni migratori, in contrasto tra l’altro con la posizione statunitense.

I contenuti del documento saranno trattati in altre occasioni.

Oggi interessa ottenere risposta piuttosto a queste domande:

  1. Con quale avvallo la diplomatica ha manifestato il proprio voto? Quello del Ministro Moavero, del Presidente della Repubblica Mattarella, del Capo di Governo Conte?
  2. Nel caso di adesione improvvida, il Presidente Conte e il Ministro Moavero sono pronti e disponibili a sconfessare l’iniziativa del diplomatico e a rimuoverla?
  3. Come si esprimerà a proposito il Parlamento nella prossima votazione sull’argomento? Si assisterà ad un inedito schieramento favorevole al documento e ad una clamorosa rottura della compagine di governo su un tema così dirimente? 
  4. Se confermato si tenterà di ricacciare la Lega nell’alveo del centrodestra e il M5S o parte di esso in quello di centrosinistra sotto mutate spoglie; in alternativa si cerca di relegare quest’ultimo o parte di esso al ruolo di opposizione di comodo? Con questo, quindi, ricondurre lo scontro e il confronto politico nell’alveo classico destra/sinistra con stella polare il ritorno al classico europeismo condiviso?

PS- Per correttezza il voto ha riguardato il Global Compact sui rifugiati. Si tratta comunque di un documento parallello al GMC che comunque agisce e interferisce con esso, compresa l’esplicita accettazione di immigrati come rifugiati sulla base  di una “autocertificazione” sino a prova contraria. Esattamente come avviene ora. Da qui il dissenso USA e russo

Sbagliando s’impara Prima sconfitta, prime riflessioni_di Roberto Buffagni

Sbagliando s’impara

Prima sconfitta, prime riflessioni

 

La trattativa ancora in corso con l’UE segna la prima sconfitta del governo gialloverde. Le sconfitte sono sempre istruttive: usiamola per sbagliare meno e costruire le condizioni della vittoria.

Perché abbiamo perso?

Abbiamo perso perché abbiamo cercato lo scontro sul terreno più favorevole all’avversario, e in condizioni d’inferiorità. Una descrizione dei fatti più che condivisibile è questa di Giorgio La Malfa[1]. Il terreno più favorevole alla UE è il terreno delle regole, dei trattati e della loro “interpretazione autentica”, vulgo la risultante dei rapporti di forza interstatali e interni agli organismi UE, espressa nel linguaggio della razionalità strumentale in un reticolo inestricabile di norme. Il governo è andato a trattare sulla base di due presupposti incompatibili: a) regole, trattati e loro “interpretazione autentica”, sono legittimi benché discutibili e riformabili, come tutto è discutibile e riformabile b)  rivendicando la propria legittimità in quanto espressione della sovranità popolare.

Legittimità A, legittimità B

La legittimità A è la legittimità della UE. Essa si fonda sulla rivendicazione del possesso monopolistico di Tecnica e Scienza, nelle loro varie specificazioni di tecnica e scienza giuridica, economica, politica, etc. In parole povere, l’UE fonda la propria legittimità sulla garanzia scientifica che essa sola sa assicurare “libertà, pace, benessere e progresso per il maggior numero possibile”, in un inedito insediamento al posto di comando politico della razionalità strumentale, weberianamente intesa e ideologicamente declinata in scientismo, utilitarismo, liberalismo (in percentuali variabili). Questa è la legittimità di principio della UE. La sua legittimità di fatto è il fatto nudo e crudo che esiste da un tempo non lungo ma neppur brevissimo, e che la sua esistenza produce effetti più che considerevoli. Che siano buoni o cattivi è materia opinabile: buoni per alcuni, cattivi per altri.

La legittimità B è la legittimità del governo italiano. Essa si fonda sul consenso elettorale della maggioranza degli italiani. Questa è la sua legittimità di principio, ma anche la sua legittimità di fatto, perché è revocabile alle prossime elezioni politiche nazionali.

L’incompatibilità fra legittimità A e legittimità B non è minore dell’incompatibilità fra il principio legittimante l’ancien régime – voto per ordine, conforme la tripartizione indoeuropea tra oratores, bellatores e laboratores –  e il principio democratico e nazionale, voto per testa dei cittadini, che il Terzo Stato rivendicò nella seduta degli Stati Generali di Francia del 6 maggio 1789.

Sul piano ideale, il conflitto tra queste due fonti di legittimità mette in questione le radici stesse della civiltà europea e della modernità occidentale, schierandole in campi avversi sul Kampfplatz filosofico-politico. Sul piano pratico, il conflitto precipita in una domanda molto semplice: “chi ha l’ultima parola?”

A prima vista, la risposta a questa domanda è: “ha l’ultima parola chi dispone della forza maggiore”. Non è una risposta errata, ma è incompleta, perché la forza può presentarsi in molte forme. Nei rapporti tra Unione Europea e governi, il rapporto di forza non viene deciso dalla forza militare. L’Unione Europea non ne dispone, ma i governi che ne fanno parte, che pur ne dispongono, non vogliono né possono farne uso: non possono, perché l’uso della forza militare contro un’entità che ne è affatto priva e alla quale si aderisce formalmente è un atto di barbarie che ha costi politici insostenibili (perdita pressoché totale di consenso e legittimazione morale).

Nei rapporti fra Unione Europea e governi, ha l’ultima parola chi decide la grammatica e la sintassi del linguaggio all’interno del quale non solo l’ultima, ma tutte le parole prendono senso.

“Quando uso una parola, ” disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.”

 “La domanda è, ” rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.”

  “La domanda è, ” replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui.”[2]

 

Chi ha l’ultima parola

Un governo che tratta con l’Unione Europea entra in una camera per il condizionamento operante, o “Skinner box”.[3].

1 Skinner Box

 

 

Una camera per il condizionamento operante consente agli sperimentatori di studiare il comportamento, addestrando la cavia a compiere certe azioni, (es., spingere una leva) in risposta a stimoli specifici, quali una luce o un segnale sonoro. Quando la cavia esegue correttamente il comportamento prescritto, il meccanismo della camera gli consegna del cibo, o un’altra ricompensa. In certi casi, il meccanismo infligge una punizione in caso di risposte scorrette o omesse. Per esempio, per testare il funzionamento del condizionamento operante sugli invertebrati, gli psicologi usano uno strumento denominato heat box, “scatola bollente”. La forma è analoga a quella della Skinner box, ma la scatola è composta di due lati: uno può mutare temperatura, l’altro no. Appena l’invertebrato passa sul lato che può mutare temperatura, la scatola viene riscaldata. Alla fine, l’invertebrato sarà condizionato a restare sul lato che non si può scaldare.

Tra le applicazioni commerciali di maggior successo della Skinner box, le slot machines, o le macchine per videopoker. Il successo commerciale di slot machines e videopoker dipende dal fatto che più a lungo si gioca, più si è destinati a perdere (= successo commerciale per i fabbricanti, insuccesso per i consumatori).

 

Uomini e topi

Un giorno, qualcuno pose a Skinner la domanda: “Che differenze ci sono tra gli uomini e i topi?”. Da scienziato qual era, per rispondere alla domanda Skinner organizzò un esperimento con i suoi studenti. Si costruirono due labirinti identici, uno per i topi e uno per gli umani. La ricompensa, posta al centro del labirinto, era un pezzo di formaggio per i topi e una ricompensa in denaro (5 $) per gli umani.

Risultato: Skinner scopre che  non ci sono differenze nei tempi di apprendimento tra umani e topi. Nel giro di una giornata, entrambi sono in grado di trovare la ricompensa. Ma Skinner non si accontenta, e perfeziona l’esperimento. Elimina le ricompense dai labirinti, e ripete l’esperimento con gli stessi partecipanti: stessi uomini, stessi topi. Tutti gli umani si prestano a ripetere l’esperimento, contro una percentuale del 70% dei topi. Al terzo giorno senza ricompensa, solo il 30% dei topi ripercorre il labirinto, contro il 100% degli uomini. Dopo una settimana senza ricompense, nessun topo entra più nel labirinto, mentre un numero considerevole di uomini ancora va in cerca dei 5 dollari. Dopo un mese, c’è ancora qualche uomo che vaga nel labirinto in cerca della ricompensa.[4]

Differenza tra uomini e topi: gli uomini immaginano, sperano e si illudono; i topi, no. Come diceva Wittgenstein: “Niente è così difficile come non ingannare se stessi.”

 

“Come mi riesce difficile vedere ciò che è davanti ai miei occhi!”[5]

La trattativa tra governo italiano e UE è andata così, proprio come in una Skinner box. Siamo partiti per spezzare le reni a Bruxelles sventolando dai balconi un 2,4% tricolore, e siamo finiti a trattare affannosamente nel cuore della notte su quanti centimetri di fregatura avremmo dovuto alloggiare nelle più intime cavità del nostro corpo. Risultato (ancora indeterminato mentre scrivo): più meno gli stessi centimetri di fregatura che ci saremmo presi se fossimo stati zitti e buoni, e senza promettere nulla, senza sventolare tricolori e percentuali, senza invocare sovranità popolari e nazionali, avessimo fatto un po’ di modesto tira e molla per telefono e ci fossimo accontentati del risultato senza fare tante storie.

A chi mi contesterà che sono ingeneroso e impietoso, che è facile criticare in poltrona e difficile agire sulla linea del fuoco, rispondo che non a caso ho usato la prima persona plurale “noi”. Noi vuole dire anch’io: anch’io ho sbagliato e sottovalutato l’avversario anzi il nemico, e anch’io subisco questa sconfitta, che non è decisiva o addirittura irrimediabile, ma che lo può diventare se non cerchiamo, tutti, di trarne insegnamento per il futuro.

Il primo insegnamento da trarre da questa sconfitta è: non incoraggiare la tendenza a illudersi, nostra personale e del popolo italiano. E’ il lato in ombra della più bella e unica facoltà dell’uomo, quella che lo distingue dai topi: la capacità di immaginare e di sperare, ed è tanto funesta quanto immaginazione e speranza sono provvidenziali. Modestia e serietà, non rodomontate.

Il secondo insegnamento è: il livello principale dello scontro è metapolitico. Questa è una guerra coperta “che non osa dire il suo nome”, tra nemici che si parlano nel linguaggio dell’amicizia, tra padroni e servi che si parlano come pari. Il compito metapolitico principale è trasformarla in guerra aperta, dove sia possibile chiamare pubblicamente, faccia a faccia, nemico il nemico, padrone il padrone. E’ una battaglia difficile e lunga, prima si comincia meglio è. Quindi, se le forze politiche al governo intendono sopravvivere e raggiungere i loro obiettivi, diano vita a centri studi e think tank, facciano del loro meglio per influenzare e ingrandire la piccola parte di accademia che non è pregiudizialmente avversa, attirino intellettuali di valore e prestigio, e non mettano professori di ginnastica al MIUR e opportunisti in posizioni apicali dell’industria culturale.

Il terzo insegnamento è: sabotare la Skinner box. Sabotare la Skinner box prima di doverci rientrare (accadrà presto). Sabotare la Skinner box vuol dire: dotarsi degli strumenti legislativi e delle competenze necessarie per disattivare alcuni dei meccanismi punizione/ricompensa della UE, ad esempio abolendo il pareggio di bilancio sciaguratamente inserito in Costituzione. Non è il mio campo di competenza, ma per fortuna i competenti non mancano: per esempio, Luciano Barra Caracciolo[6], che non dubito abbia elaborato una lista delle più urgenti modifiche legislative indispensabili per migliorare i rapporti di forza tra governo italiano e UE. Sta al governo, basta telefonargli o andarlo a trovare in ufficio.

Il quarto insegnamento è un corollario del terzo: i voti sono munizioni, senza armi le munizioni non servono. Le armi decisive per lo scontro con l’UE sono i provvedimenti di legge che ci consentono di sabotare la Skinner box.

Il quinto insegnamento è: senza strategia, la tattica si risolve in opportunismo, a volte fortunato ma più spesso no. Strategia vuol dire: individuare l’obiettivo fondamentale da raggiungere, e commisurarvi i mezzi operativi per conseguirlo. Per i gialli, l’obiettivo fondamentale può essere la piena occupazione. Per i verdi, l’obiettivo fondamentale può essere la tutela delle imprese che operano principalmente sul mercato interno italiano. Sono due obiettivi compatibili, benché soggetti alle inevitabili frizioni tra imprenditoria e forza lavoro e alla divisione Nord-Sud. Costituiscono dunque una solida base per la possibile coesione del governo. Se questi sono i loro obiettivi fondamentali, si chiedano i gialli e i verdi se è possibile conseguirli all’interno della UE e dell’euro, e si diano una risposta. Secondo me no, ma quel che importa è decidere e trarne le conseguenze. In assenza di decisione, la Skinner box predispone l’arrivo del “momento Tsipras”, come cortesemente anticipato dal sen. Monti.

Conclusione

Per concludere, prendo in prestito una citazione a un politico rivoluzionario[7] per il quale non nutro simpatia ideologica, ma che qualcosetta ha pur combinato: “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione”. Che cos’è la frase rivoluzionaria? “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Come commenta l’amico Alessandro Visalli, al quale sto rubando queste ultime righe[8], le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’… “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva…se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”. Ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via” che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.

Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva”.

[1] https://www.quotidiano.net/commento/deficit-pil-1.4344583

[2] LEWIS CARROLL (Charles L. Dodgson), Through the Looking-Glass (1872) , capitolo VI. Trad. mia.

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber#Skinner_box

[4]  Richard Bandler e John Grinder, Frogs into Princes: Neurolinguistic Programming,  Real People Pr, 1981 https://www.amazon.it/Frogs-into-Princes-Linguistic-Programming/dp/0911226184

[5] E’ un’altra citazione di Ludwig Wittgenstein.

[6] Si veda ad esempio questo suo scritto: https://orizzonte48.blogspot.com/2018/01/la-presunta-supremazia-del-diritto.html

[7] Vladimir I. Lenin, Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra, ed. Riuniti, 1974

[8] https://tempofertile.blogspot.com/2018/12/circa-marco-bascetta-una-formula-di.html

I NEMICI DELL’EUROPA, di Fabio Falchi_SINTESI DEL MATCH di Roberto Buffagni

I NEMICI DELL’EUROPA

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2018/12/le-improvvide-e-gravi-dichiarazioni-del.html?fbclid=IwAR1lbQ1kqs1rRZo_1QDe14vkea9RFTXBTyMa7zRgQ67Wjb-61rja4UnrlKo

Le improvvide e gravi dichiarazioni del ministro Salvini su Hezbollah e la politica di Israele hanno suscitato il più che comprensibile sdegno di molti italiani (tra cui non pochi sostenitori del “capitano del popolo” leghista), che non sono disposti a tollerare la pre-potenza di Israele (anche se detestano i pregiudizi antisemiti di non pochi che si definiscono  antisionisti), ma hanno pure offerto l’occasione agli “europeisti antiamericani” di sferrare un attacco durissimo contro i populisti e i cosiddetti “sovranisti”. Invero, è particolarmente significativa sotto il profilo geopolitico la posizione di coloro che considerano i “sovranisti” dei nemici dell’Europa (e della stessa Eurasia) più pericolosi dei neoliberali euro-atlantisti. Questa critica del populismo e del “sovranismo” si caratterizza  per la contrapposizione della politica degli Usa a quella della Ue, senza che sia preso in seria considerazione lo scontro in atto ai vertici della potenza d’oltreoceano.

In pratica, gli “europeisti antiamericani” prendono in esame solo un aspetto che contraddistingue oggi lo scenario geopolitico occidentale, ossia il “sovranismo”, sostenuto soprattutto da Trump e Bannon, in quanto si contrappone all’eurocrazia. In questo modo è facile dimostrare che i populisti (compresi i gilet gialli) o i “sovranisti” sono solo dei burattini della Casa Bianca, il cui scopo è mantenere l’Europa “sotto il tallone americano”, facendo a pezzi l’Ue e privilegiando i rapporti bilaterali tra gli Usa e i singoli Paesi europei.

Ovviamente costoro si guardano bene dal prendere in esame la politica degli eurocrati che ha permesso alla Nato di piantare saldamente le tende in Europa orientale o le conseguenze disastrose per l’Europa mediterranea del neomercantilismo (e del nazionalismo!) della Germania o il ruolo della Ue nel golpe neofascista di piazza Maidan, né prendono in esame la politica marcatamente “russofoba” di Bruxelles.

Agli “europeisti antiamericani” è bastato che Macron dichiarasse che per difendersi dall’America (di Trump, non della Clinton o di Robert Kagan!), dalla Russia e dalla Cina (ma senza che egli precisasse come dovrebbe essere questo esercito, chi dovrebbe comandarlo e in funzione di quali interessi dovrebbe essere costituito), per considerare Macron una sorta di “campione” dell’Europa antiamericana, come se il presidente francese (noto idolo dei “bobos” e dei “venusiani” europei per la sua difesa dei “mercati” e del peggiore melting pot) non avesse esplicitamente menzionato la Russia e la Cina tra i nemici della Ue, né fosse il “rappresentante” europeo di quel deep State americano che è così ferocemente ostile a Trump da accusare esplicitamente (Robert Kagan, Madeleine Albright, ecc.) il cowboy della Casa Bianca di essere “fascista” e amico di Putin (“peccato” imperdonabile per i neoliberali).

Non a caso l’Europa che buona parte di costoro hanno in mente è una specie di IV Reich. L’egemonia americana sul Vecchio Continente viene quindi sì criticata ma appunto in un’ottica geopolitica in sostanza non diversa da quella del III Reich. Si capisce quindi che essi vedano nell’Ue “egemonizzata” dalla Germania la possibilità di dar vita ad un nuovo Reich, dopo la catastrofica sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale, che di fatto portò l’Europa occidentale ad essere dominata dall’America e quella orientale dall’Unione Sovietica. Ma è proprio la “condizione di vassallaggio” rispetto agli Stati Uniti  in cui si trova ancora l’Europa (occidentale e orientale) che impone ai gruppi (sub)dominanti europei (che sono tali in quanto non hanno intenzione di smarcarsi dall’America) di schierarsi dalla parte di Trump o di quella degli americani contro Trump, e che prova che le affermazioni di Macron sulla necessità di un esercito europeo sono mera propaganda euro-atlantista.

Nondimeno, secondo questi “europeisti” (che evidentemente non comprendono bene che cosa implichi la “condizione di vassallaggio” dell’Europa rispetto agli Stati Uniti) pure Macron può essere utile “alla causa”, dato che pare “riprendere” quel progetto di difesa europea (la Ced) che fallì (all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso) proprio per l’opposizione della Francia. Ci si “dimentica” però che la Ced era sostenuta dagli americani, i quali, una volta preso atto del fallimento del progetto di difesa europea (in funzione antisovietica), si adoperarono per far entrare la Germania federale nella Nato (il che portò pure alla nascita del Patto di Varsavia). Ben diversa era la politica di De Gaulle, che aveva compreso che l’europeismo in realtà non era altro che euro-atlantismo (proprio come l’europeismo di Macron). Certo anche la politica di De Gaulle non era esente da gravi difetti (a cominciare da uno sciovinismo anacronistico). Comunque sia, il generale francese non solo riconobbe la repubblica popolare cinese, allacciò rapporti con l’Unione Sovietica, fece uscire la Francia dal comando militare della Nato, si oppose all’intervento americano in Vietnam, criticò la politica di pre-potenza di Israele e contestò l’egemonia del dollaro, ma mirava a creare un’Europa delle patrie, ossia una Confederazione europea, rispettosa della sovranità nazionale dei diversi Paesi europei nonché delle molteplici espressioni culturali che caratterizzano il Vecchio Continente. In altri termini, De Gaulle mirava a smarcare l’Europa non dalla politica di un presidente americano ma dall’America, senza però che l’Europa tornasse ad essere minacciata dalla pre-potenza della Germania.

Questo significa allora che i “sovranisti” hanno ragione? Certamente no, né si possono ignorare i pericoli del “trumpismo”. Ma nella misura in cui la politica di Trump (benché sia detestabile soprattutto, ma non solo, per quel che riguarda il Medio Oriente) manda all’aria i disegni egemonici dell’euro-atlantismo, creando dis-ordine a livello geopolitico e indebolendo i centri di comando della Ue, “apre” nuovi scenari geopolitici, che rendono possibile una ridefinizione della politica dei singoli Paesi europei sia sotto il profilo economico che sotto quello geopolitico.

Tuttavia, il fatto che i populisti non sappiano o non vogliano approfittarne, ma preferiscano svolgere il ruolo di lacchè della Casa Bianca, privilegiando una forma di ottuso nazionalismo (senza comprendere che il multipolarismo rende necessaria una politica imperniata sui grandi spazi) e difendendo l’estremismo sionista, non implica certo che si debba fare l’apologia di un europeismo che è funzionale solo agli interessi dell’oligarchia neoliberale occidentale (ossia a quelli del gruppo dominante d’oltreoceano – che si oppone a Trump – e dei cosiddetti “europeisti”), con buona pace di chi pensa che l’orologio della storia si sia fermato nel 1945. In definitiva, i nemici più pericolosi dell’Europa non sono solo i populisti filoamericani  ma pure gli “europeisti”, che siano o non siano filoamericani, perché sia gli uni che gli altri di fatto “sognano” un’Europa senza europei.

Infatti, essere europei significa in primo luogo non essere sudditi – né dell’impero americano (“trumpista” o non “trumpista”) né del IV Reich né di qualsiasi altro impero – ma essere cittadini di una qualsiasi polis europea.  E ciascuna polis europea è contraddistinta da una storia che non si può comprendere senza comprendere la storia e le civiltà dell’Eurasia. La possibilità che le diverse poleis europee, a differenza dalle poleis dell’antica Grecia, coesistano e cooperino in unico grande spazio, superando definitivamente divisioni e opposizioni “incapacitanti”, non è diversa quindi dalla possibilità che anche l’Europa e l’Asia coesistano e cooperino in un grande spazio eurasiatico.

ROBERTO BUFFAGNI

Sintesi partita: se la UE si complimenta con il governo e accetta il compromesso, segna un punto. Se cerca l’umiliazione, si apre al contropiede (non si sa se poi siamo in grado di giocarlo e farle gol). Allo stato, è una sconfitta simbolica, non decisiva benchè seria. Diventa scontro decisivo solo se lo cerca la UE. Il che la dice lunga sul problema di fondo del governo, che è la mancanza di strategia. Se non hai strategia, l’iniziativa ce l’ha sempre l’avversario, e tu reagisci più o meno ordinatamente. Importante evitare gesti disonoranti irreversibili; salvo quelli, niente è perduto. Ci sono voluti vent’anni per sprofondare, non bastano sei mesi per tornare a galla.

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?

1.0 Dall’ascesa del populismo va di gran moda – dall’altra parte della “barricata” – parlare di democrazie illiberali.

Si è scoperto che “democrazia”, questo termine dalle molte definizioni, non è solo quella conosciuta nell’Occidente moderno: ma ve ne sono altre. Talk-show e commentatori, insomma, hanno ri-scoperto Benjamin Costant che, paragonando la libertà degli antichi a quella dei moderni ne evidenziava le differenti caratteristiche[1].

  1. Per lo più tale illiberalismo dei vari Orban, Trump (?), Erdogan, Putin (scusate qualche omissione) e soprattutto Salvini-Di Maio è giudicato tale perché tende a promuovere una forma democratica di governo senza quelle garanzie che fanno parte della cultura liberale (libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di eguaglianza giuridica, in taluni casi di libertà personale). Secondo Orban il modello è quello di una “democrazia cristiana illiberale” questa si propone “di difendere i principi originati dalla cultura cristiana, quali la dignità umana, la famiglia, la nazione. E, pertanto, mentre la democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, è pro-immigrazione e accetta diverse forme di unione familiare, al contrario, la democrazia illiberale dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e poggia sui fondamenti del modello familiare cristiano”. A giudizio di Sabino Cassese “Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una “democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale, La democrazia non può fare a meno della libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso e dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Riggiero, nella sua Storia del liberalismo europeo. I principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi”.

Il tutto prefigura uno scontro di civiltà; come si legge sul Foglio (P. Peduzzi) del 28/08/2018 “la democrazia è diventata un patrimonio delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione, dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà del popolo, la sua pancia… la democrazia liberale è un’equazione formata da due elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio miglior destino” ma attualmente “lo scontro culturale si è trasformato del tutto. Da una parte ci sono dei democrati illiberali, una democrazia con pochi diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono contro il sistema dei partiti tradizionali”. Al punto in cui siamo “la vittoria di Viktor Orban in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e della dicotomia tra democrazia e liberalismo… Il premier ungherese ha farcito la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del 170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’ sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Tale scontro di civiltà anni fa ho pensato che fosse meglio riconducibile ad un nuovo contenuto della prevalente opposizione amico/nemico, che ha ridisegnato sia il “campo” della contesa che gli avversari[2].

La concezione della successione dei diversi discriminanti del politico e dei relativi “campi” è stata esposta da Carl Schmitt[3].

  1. Sul piano concettuale democrazia e liberalismo sono stati distinti. La prima è un regime politico, che individua nel popolo il titolare della sovranità e quindi del potere politico; il secondo una “tecnica” per la limitazione del potere. In questo senso il liberalismo può accedere a qualsiasi regime politico “puro”: monarchia, aristocrazia, democrazia e loro “combinazioni” (status mixtus); nella storia ha generato sempre degli status mixtus, ma è prevalentemente associato alla democrazia.

Secondo la critica di Schmitt all’ideologia liberale manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come ricorda Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre, che “i principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica […] Da ciò consegue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali” (il corsivo è mio).

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in sé autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto senza elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dan laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo criticava nelle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Stael. Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente da secoli come la Francia, non avesse una costituzione, è come comandare a un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è , una costituzione. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente” e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere, uno status, e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come “vera” o “pura” costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”. Ma ritiene il giurista di Pewttenberg “una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[4].

Pertanto è evidente che nell’espressione “democrazia liberale” il sostantivo designa la forma politica (del potere), l’aggettivo le limitazioni introdotte al medesimo potere (i principi dello Stato borghese). Onde ben può esistere una democrazia – e in effetti ne sono esistite tante – che non sia limitata dall’aggettivo. Per la precisione alcuni dei diritti, garantiti della Costituzione, non sono solo necessari alla tutela del diritto del singolo, ma anche allo stesso esercizio libero e reale delle procedure democratiche – elezioni in primo luogo – come sottolinea Cassese.

L’ “illiberalismo” non consisterebbe nella mancanza  di protezione dei diritti fondamentali, ma specificamente di alcuni di essi,  particolarmente incidenti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla (concreta) libertà di decisione dei componenti il corpo elettorale.

Nella tipologia dei regimi democratici descritti da Norberto Bobbio nella voce “democrazia” del Dizionario di politica, le democrazie illiberali andrebbero ricondotte alla terza specie delineata dallo studioso torinese[5].

Quindi democrazie non liberali esistono, ma sono democrazie un po’… farlocche.

Nel notissimo discorso di Gettysburg, Lincoln chiese, nel luogo dove le cannonate nordiste avevano (da poco) autorevolmente interpretato a chi appartenesse la sovranità, una “definizione” di democrazia che è il caso di considerare.

Il Presidente dopo aver esordito “i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali” e ritenuto che il suolo della battaglia era consacrato dagli uomini che vi erano morti, cui nulla potevano aggiungere i vivi, concludeva così “Siamo piuttosto noi a dover essere consacrati al gran compito che ci rimane di fronte: che da questi nobili caduti ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero l’ultima piena misura della devozione; che noi qui solennemente ci si impegni a che questi morti non siano morti invano; che questa nazione, a Dio piacendo, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra”.

Lincoln ribadiva così il legame tra Nazione e democrazia, già istituito da Sieyes. Una nazione di liberi ed uguali, che proprio perché tali hanno pari opportunità di accedere a (tutte) le funzioni pubbliche ed uguali diritti politici, il cui governo doveva essere sorretto dalla volontà e dal consenso popolare, e l’attività del quale doveva essere indirizzata e perseguire l’ “interesse generale” del popolo. A cui ovviamente, apparteneva la sovranità che così costituiva un potere eminente (anche “costituente”) al di sopra la legislazione e l’apparato pubblico e il cui esercizio era inalienabile ed inappropriabile (v. anche l’art. 3 della dichiarazione dei diritti francese del 1789 “Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément”.

L’espressione di Lincoln, nella sua icasticità, non si presta a includere i principi dello Stato borghese (anche se non li esclude): al concetto di democrazia che se ne ricava, il liberalismo accede, come scritto, quale aggettivo.

  1. Comunque è un fatto che la lotta della borghesia per il potere, si basava su due richieste fondamentali congiunte: la partecipazione alla direzione politica (elemento democratico) e garanzie dal potere politico (distinzione dei poteri e tutela dei diritti): tra i due c’è un evidente contraddizione poiché, almeno in determinate condizioni, la direzione politica, o meglio la sovranità, richiede la deroga della distinzione dei poteri che dalla tutela dei diritti fondamentali, come nello stato d’eccezione.

E, indipendentemente dallo stato d’eccezione vi sono zone del diritto pubblico in cui conciliare democrazia e tutela nei confronti del potere richiede il discostarsi da un’attuazione coerente del “compromesso” democratico-liberale: così per la giustizia politica, come anche per la giustizia amministrativa, perché a tacer d’altro, determinati atti, detti “politici” sono da sempre sottratti al sindacato giurisdizionale, ammesso in via generale[6].

Democrazia e liberalismo possono essere in contrasto, ma storicamente è solo l’unione dell’uno e dell’altro che ha consentito la nascita del moderno “Stato rappresentativo” (così denominato dai costituzionalisti d’un tempo come Orlando e Mosca) perché ha coniugato due elementi diversi – e talvolta opposti – ma politicamente sinergici. La prova storica a contrario è che, laddove si sono costruiti (nel XX secolo) regimi totalitari, alla abolizione delle forme e procedure democratiche (elezioni, pluritarismo, libertà di candidatura e di voto e così via) si è accompagnata quella dei principi dello Stato borghese: né distinzione tra i poteri, se questi competevano tutti al Fürher, né tutela dei diritti verso il potere politico (la giustizia amministrativa fu abolita dal nazismo e mai istituita degli Stati del socialismo reale). Così che del principio democratico e di quello liberale si può adottare il detto di Catullo “ncl tecum nec sine te vivere possum”.

5.0 Tuttavia, dato che risulta che in Ungheria da qualche anno (2011) è andata in vigore una nuova Costituzione, voluta da Orban – che era al governo (cui sono state apportate alcune modifiche successivamente innovazioni assai deprecate dai politici dell’U.E.).

Ad esaminare il testo di tale Costituzione, a parte la “professione nazionale”, questa non ha nulla di particolarmente diverso dall’impianto costituzionale di una democrazia liberale. Sono riconosciuti i diritti dell’uomo e del cittadino (art. XXX). L’organizzazione dello Stato si uniforma al principio di distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario (art. 1-30). È prevista la Corte costituzionale (art. 24); c’è anche un “Commissario dei diritti fondamentali” per la protezione di questi (art. 30); i giudici sono indipendenti. È regolato lo stato d’eccezione (artt. 48-54) con possibile limitazione dei diritti fondamentali.

Nel complesso, e per quanto valga un testo costituzionale scritto, ovvero parecchio, ma non del tutto, e probabilmente meno dell’ordinamento costituzionale concreto (e della Costituzione materiale). appare  che sicuramente i principi dello Stato borghese di diritto sono applicati.

L’altro caso, che ha indotto il “viso dell’armi” dell’U.E. è la Polonia. Anche qui distinzione dei poteri e tutela dei diritti fondamentali sono previsti dalla Costituzione del 1997.

Tuttavia le preoccupazioni dell’U.E. sono state determinate dalle leggi del 2017 sul potere giudiziario così da avviare una procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE avendo l’organo comunitario constatato l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave e persistente dello Stato di diritto. La normativa suddetta apportava modifiche alla Corte Suprema e al Consiglio Nazionale della magistratura, che ha fatto seguito a leggi sui mezzi d’informazione, sui poteri della polizia e sul Difensore civico.

Tale normativa – che aveva generato un duro scontro tra maggioranza (del Partito “Diritto e giustizia”) e le opposizioni – concerneva l’accesso al Parlamento dei giornalisti e il rinnovo  della dirigenza dei media pubblici. La legge sui media ha previsto l’immediata sospensione di tutti i membri delle direzioni, nonché dei consigli d’amministrazione dei media pubblici. Tuttavia  non sono state riesumate le disposizioni, abolite nel 1990, “classiche” per il controllo dell’informazione: censura e monopolio pubblico, almeno dei mezzi di comunicazione via etere.

In altre parole sembra che la situazione del diritto di espressione/informazione della Polonia attuale somigli parecchio a quella dell’Italia fino agli anni ’70 (inoltrati): un monopolio dell’etere affiancato da un pluralismo della stampa.

Situazione sicuramente non ottimale, ma comunque di limitata pericolosità e che, se non genera una condizione ideale, non appare idonea a connotare addirittura come “illiberale” uno Stato che, almeno dalle disposizioni costituzionali, appare modellato sui principi dello Stato borghese di diritto.

Vero è che altro è scrivere delle commoventi e condivisibili norme nei testi costituzionali e altro dare loro attuazione nella legislazione e nella prassi amministrativa. In specie noi italiani conosciamo bene la prassi di proclamare diritti altisonanti nella costituzione per poi tradirli nella successiva attuazione.

La stufenbau nazionale è essenzialmente cartacea: la costituzione dispone X, il legislatore, profittando delle equivocità della norma superiore e/o del carattere compromissorio[7], emana la legge Z, e l’amministrazione, sulla base di questa, il provvedimento Y. Spesso tra il “prodotto finito” (cioè il comando concreto) e la norma iniziale c’è una divaricazione evidente; in diversi casi una contraddizione manifesta, se non con la lettera, con lo “spirito” della norma superiore.

Pertanto appare maggiormente trasgressiva dei principi dello Stato di diritto, in larga parte trasfusi nella Convenzione EDU – ed in effetti è la causa della mole di lavoro prodotta per l’Italia dalla Corte EDU – la violazione negli atti concreti (sentenze, provvedimenti e così via) di quanto disposto al vertice della piramide.

D’altra parte, se andiamo alla definizione di “Stato di diritto” (nel senso di democrazia liberale o di “Stato borghese di diritto”), questo si basa, oltre che su quelli cennati, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sulla “difesa giuridica” nei confronti del potere, e sul principio di legalità.

Non c’è quindi un sostanziale discostamento di Polonia e Ungheria dai “connotati” dello Stato di diritto. E neanche dallo “Stato costituzionale di diritto” giacché le due citate costituzioni prevedono un controllo di costituzionalità esercitato da una Corte apposita sugli atti legislativi.

Tuttavia è chiaro che una approssimativa garanzia della libertà di informazione è un vulnus alla concezione liberale dello Stato, anche se le limitate compressioni di questo, paragonate alle ben più gravose limitazioni imposte in altre democrazie, non sono tali da giustificare l’espressione di “illiberali”.

Piuttosto il fatto che i leaders di Ungheria e Polonia dichiarino essi stessi di volere una “democrazia (cristiana) illiberale” (o altre consimili) ha fornito il destro per vedere nel loro comportamento molto più illiberalismo di quanto ce ne sia.

Del pari quell’ “illiberalismo” parte dall’identificazione del liberalismo con l’ideologia della globalizzazione. Il che non è vero, se non in parte, giacché la democrazia liberale risulta sempre dall’unione di un principio di forma politica (democrazia) con quelli dello Stato borghese. Senza quella, o almeno senza uno Stato che assicuri l’applicazione del diritto non c’è neanche la garanzia dei diritti, fondamentali e non.

Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”[8]: senza uno Stato i diritto non hanno realtà. Lo sanno bene i globalisti i quali in sostanza vogliono ancora gli Stati, ma sottoposti a poteri non statali, non democratici, e forse anche non “politici”, che cercano – e in gran parte riescono – a dominare.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Costant parlava di “libertà” più che di regimi politici; ma la distinzione tra la libertà dei moderni e quella degli antichi, corrisponde a quella tra “libertà da” e “libertà di” (Berlin) ossia tra diritti “liberali” di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) e diritti (democratici) di partecipazione al potere. Ne riportiamo i passi fondamentali del famoso discorso di Costant, il sistema rappresentativo “è una scoperta dei moderni e vedrete, Signori, che la condizione della specie umana nell’antichità non permetteva a un’istituzione di questo tipo di introdurvisi o di stabilirvisi. I popoli antichi non potevano sentirne la necessità né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li conduceva a desiderare una libertà completamente diversa da quella che questo sistema ci assicura … Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi. Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della religione. Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi”. Sieyès aveva già delineato il fondamento della rappresentanza politica nel discorso all’Assemblea Nazionale del 7/09/1989 sul “Véto royal” (v. Behemoth n. 1). Distinguendo tra categorie di “diritti”, il pensatore di Losanna formulava così la distinzione essenziale tra regimi politici.

[2] Mi si consenta di rinviare al mio articolo “Sentimento politico, Zentralgebiet e criterio del politico” pubblicato in traduzione spagnola in Ciudad de los  Cesares (Santiago – Chile) n. 110 marzo 2017; ora disponibile (su stampa) in italiano negli Annali della Fondazione Spirito de Felice 2018 pp. 135 ss..

[3] Nella conferenza Das Zeitaler der Neutralsierung und Entpolitisierungen  trad. it. di P. Schiera in C. Schmitt Le categorie del politico, pp.    Bologna 1972.

[4] V. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo Dottrina della costituzione, Milano 1983, p. 64.

[5] v. “Modelli ideali più che tipi storici sono le tre forme di democrazia analizzate da Robert Dahl nel suo libro A preface to Democratic Theory (1956); la democrazia madisoniana, che consiste soprattutto nei meccanismi di freno del potere e quini coincide con l’ideale costituzionalistico dello Stato limitato dal diritto o del governo della legge contro il governo degli uomini (in cui si è sempre manifestata storicamente la tirannia); la democrazia populistica, il cui principio fondamentale è la sovranità della maggioranza; la democrazia poliarchica, che cerca le condizioni dell’ordine democratico non in espedienti di carattere costituzionale, ma in prerequisiti sociali, cioè nel funzionamento di alcune regole fondamentali che permettono e garantiscono la libera espressione del voto, la prevalenza  delle decisioni che hanno avuto il maggior numero di voti, il controllo delle decisioni da parte degli elettori ecc.” v. voce citata, Edizione De Agostini – L’Espresso 2006, p. 513.

[6] Per la giustizia politica ricordiamo quanto scrive Schmitt “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica… qui deriva sempre il caratteristica allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generaleVerfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Milano 1984 pp. 182-183; per gli atti politici mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Temi e Dike nella decadenza della Repubblica in Rivoluzione liberale.

[7] Nel senso del “compromesso” formale dilatorio di Schmitt

[8] § 260 dei Lineamenti di filosofia del diritto.

ZERBINI E SCRIVANI, di Antonio de Martini

GLI ZERBINI

Un certo Boccia a nome del “mondo industriale italiano” – che come ormai tutti sappiamo non esiste quasi più – ha indirizzato al governo, con forme e toni ultimativi, una richiesta a “risolvere la crisi”.

Vogliono altri denari oltre alla montagna di aiuti già avuta negli anni e a quelli ottenuti vendendo le proprie aziende a imprese straniere o andando a produrre in paesi schiavisti dove impiegano bambini di dodici anni a un dollaro al giorno.

L’avidità non ha limiti e anche la sfacciataggine progredisce incontrastata.

Nessuno che abbia messo a posto questo signore.

In un paese col senso della realtà , i lobbisti sussurrano all’orecchio dei governi, non sbraitano come comari.

Un governo con senso della dignità o almeno della realtà, avrebbe già spedito la Guardia di Finanza a spulciare conti e corrispondenza, a lui e al coro di pseudo imprenditori che lo attorniava in TV con grinta eversiva.

In un paese col senso della realtà il sindacato sarebbe già insorto – pro o contro- a difesa delle prerogative delle istituzioni e del proprio ruolo di interlocutore primo delle imprese.

In un paese col senso della realtà la sinistra avrebbe richiamato Boccia e pallini al rispetto delle istituzioni e dei ruoli.

Al presidente Mattarella ricordo che quando si lascia “spubblicare” una istituzione, si apre la strada al non rispetto di tutte.

Non ha letto Hemingway e pensa di sapere per chi suona la campana.

I DIALOGHI SI FANNO IN DUE E I NEGOZIATI ALMENO IN TRE.
( parole chiare all’alleato)

Se volete avere un esempio da manuale di come un paese straniero governi i fatti italiani tramite scritturali d’accatto, potete leggere a pagine 15 del “ Corriere della sera” , di oggi 4 dicembre, l’articolo che Maurizio Caprara – la cui famiglia ci è ben nota- dedica ad una riunione dell’ASPEN italiana dove hanno concionato sul tema “ dialogo Stati Uniti-Italia” in cui ha parlato soltanto l’ambasciatore americano. Se parla uno solo, si chiama monologo.

Pare fosse presente anche il nostro ministro degli esteri Moavero, dei cui interventi – se ci sono stati- lo scriba non da cenno. È il destino dei servi.

In pratica, senza un minimo di contraddittorio, l’ambasciatore chiede di comprare gas liquido americano e stoccarlo in grandi quantità in “ maniera da diventare protagonisti in Europa”; di accogliere due rappresentanti del dipartimento di Giustizia USA che ci insegnino a incriminare gli hacker “ russi, cinesi e nord coreani”.

(A noi risulta – grazie a wikileaks- che siamo stati intercettati solo dalle antenne della Ambasciata USA di Roma e dal consolato USA di Milano, ma potrei sbagliare.)
Ci si fa notare che esportiamo negli Stati Uniti “ più di quanto importiamo” .

Lo trovo evidente, dato che loro hanno 300 milioni di abitanti ( di cui il 10% italiani o oriundi) e noi 60.

Il terzo “ fraterno consiglio” che sua eccellenza l’ambasciatore ci da, consiste nel “mantenere la sanzioni alla Russia per perseguire la pace in Ucraina”.

Roba che invece io credevo che bastasse non spedire navi militari negli stetti di Kerk e spendere 5 miliardi di dollari per sobillate la popolazione.

Per fortuna l’Aspen Institute ha un uditorio persino inferiore a quello dello IAI altro serbatoio propagandistico di sciocchezze antinazionali a piè di lista cui nessuno da peso.

LA RISPOSTA ITALIANA CHE È MANCATA:

1) Nella proposta USA non si parla di prezzi del gas e di costo del trasporto e nemmeno delle prospettive concrete esistenti aperte dai giacimenti mediterranei di gas e petrolio trovati nelle acque di Cipro ed egiziane, per non parlare della Libia.

Possiamo svolgere il ruolo di grimaldello, ma in un contesto più vasto che comprenda l’oleodotto transasiatico, i giacimenti mediterranei e il gas liquido USA, nonché l’elettrodotto nordafricano in progettazione.

2) Non ha detto – sua eccellenza- una parola circa il pericolo, non solo ecologico, di stoccare enormi quantità di gas e petrolio sul nostro territorio a prezzi ignoti e maggiori degli attuali.

3) verso la Russia possiamo esportare ANCHE tecnologie e non solo mozzarelle

4) Se i nord coreani ci hackerano, detto con tutta franchezza non ci perplime

5) Dialogo significa scambio di comunicazioni e – in cambio di eventuali alleanze comunque da rivisitare – vogliamo:

a) mano libera nel LEVANTE MEDITERRANEO ( giacimenti di Cipro, Libano, Egitto che siamo disposti a condividere ma non a abbandonare)

b) la piena responsabilità dell’approvvigionamento dalla Libia

c) una Co-garanzia del nostro debito pubblico in maniera da tacitare i farabutti che puntano a far lievitare il debito italiano e il suo costo.

d) Gli USA rispettino il principio di non ingerenza sancito dal Congresso di Vienna e limitino al ragionevole le loro nei fatti italiani o noi ritorneremo ad attivare i circoli di italiani e oriundi negli Stati Uniti per rafforzare le capacità di lobbying dei nostri connazionali.

e ) evitino, per quanto possibile di destinare al nostro paese diplomatici di origini mediorientali.

f) rafforzino le Nazioni Unite cessando di sabotarne i già tenui sforzi verso un ordine internazionale credibile.

G) Disponendo l’Italia di oltre il 50% dei beni culturali del mondo, va riconosciuto il suo ruolo preminente in seno all’UNESCO.

Nulla di non ottenibile da un amico e alleato. Altrimenti potremmo guardarci attorno in cerca di meglio.

IL NEMICO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Un saggio, già pubblicato sul periodico “Rinascita” nel 2012, un po’ datato nei riferimenti, attuale negli argomenti_Giuseppe Germinario

IL NEMICO PRINCIPALE

In Italia si vota tra qualche mese, e l’ “antipolitica” la fa da padrona; prodotti dell’antipolitica sarebbero (sono?) Monti, Grillo, Di Pietro e molte altre figure secondarie. Un’affollata compagnia in cui regna il disaccordo su cosa sia l’antipolitica e cosa proponga. Se ne fa, per connotarla, talvolta una questione di stile (sobrietà, loden) talaltra di ricambio di classe politica, altra di “moralità”, o si riecheggia Saint-Simon e la sua utopia tecnocratico-economicista.

D’altra parte, per i partiti “tradizionali” (quelli che sarebbero – o farebbero parte – della politica) si profila, per definire la propria posizione, il ricorso ai consueti argomenti (non disdegnati neppure da alcune fazioni “antipolitiche”): da un lato opporsi al comunismo (defunto – per fortuna tranquillamente – da più di vent’anni), dall’altro al berlusconismo, combattere il quale sarebbe scelta di civiltà (ma anche di bon ton). Si fa anche riferimento a temi che, sia pur d’importanza fondamentale, non si definiscono per contrapposizione.

È evidente che tali posizioni sono accomunate dal distacco dai problemi concreti e reali in questo momento storico, e dall’evidente incapacità o non volontà di comprenderli chiedendo, intorno a qualche idola (o pregiudizio condiviso) un consenso del tutto inidoneo, poi, a risolvere la crisi che attanaglia l’Italia e l’Europa.

Se la politica è, in primo luogo, scelta tra l’amico e il nemico, la “politicità” dev’essere valutata in quanto porta (e consegue) a questa scelta: in un mondo dove tutti gli uomini fossero amici, solidali, ispirati da reciproci sentimenti fraterni la politica non avrebbe senso[1].

Anzi come scrive Schmitt la politica trova i suoi momenti più intesi laddove è visto, con chiara determinazione, il nemico e, di converso, quelli più pericolosi (o inutili) quando questi non è percepito (vuoi perché non “visto”, vuoi per rifiuto di ammetterne l’esistenza e così via)[2].

Occorre che si tratti tuttavia, del nemico reale (e non di un nemico immaginario o secondario) e non prendere (indicare) come nemico colui che non lo è nella concreta situazione storica.

Orbene considerare come nemico reale (cioè principale ed attuale) il comunismo, a vent’anni dall’implosione del medesimo, è fare archeologia politica. Né il collasso (avvenuto pacificamente senza nessuno che morisse per difenderlo) né le vicende successive (quante “restaurazioni” di regimi comunisti abbiamo visto in questo ventennio?) ne fanno un nemico credibile[3]. È un nemico ascrivibile alle situazioni e nelle contrapposizioni politiche del “secolo breve” e non sopravvive a queste.

Dall’altra neanche Berlusconi (e il berlusconismo) possono costituire un nemico reale, non appena si consideri la situazione concreta. Di fronte ad una crisi che coinvolge tutta l’eurozona (soprattutto, ma anche tutto il mondo occidentale), addossarne le responsabilità al cavaliere, che anzi ne è stato una “vittima”, essendo uno dei quattro leaders politici europei “detronizzati” dall’inizio (e in conseguenza) della crisi, è comicità involontaria. Se Berlusconi avesse, con la propria opera (anche con i propri errori) il potere di far tremare l’economia occidentale, sarebbe prossimo a conseguire l’onnipotenza. Ma ciò, checché ne pensino i suoi avversari (e lo stesso interessato) non è.

Quindi non può essere nemico né principale, né attuale. Quanto agli altri attori: Monti ha parlato una o due volte di “guerra”, relativamente alla crisi dell’eurozona, senza indicare il nemico, cioè l’elemento più importante. Grillo, nella varietà delle esternazioni, è orientato a ritenere nemica la classe politica e forse l’intera classe dirigente;: anche qua, anche se qualche ragione il comico ce l’ha, vale il discorso fatto per Berlusconi: non è credibile che, per quanto la si possa considerare modesta e pusilla, abbia la responsabilità di tanto sconquasso. Di Pietro muove guerra (a parole) al soggetto politico mediaticamente più esposto: dato il calo dell’ “effetto Berlusconi” indirizza il grosso delle esternazioni contro Monti e Napolitano, anch’essi nemici improbabili (perché non principali, anche se attuali).

La realtà è che fare politica, ancor più in un momento di crisi, e non indicare  cause, conflitti e i soggetti (tra cui il nemico), è, come cennato, inutile: una lunga ammuina, una sceneggiata in cui l’oggetto reale del contendere sono posizioni di (ormai) sottopotere: se (il potere, ed) il conflitto reale non è individuato (e quindi non è combattuto) chi governa come “testa di legno” o gauleiter del (realmente) potente è comunque uno strumento di questo, il collaboratore/esecutore della potestas indirecta (fin quando non si voglia appalesare directa). La situazione è nuova; nella contrapposizione che ha dominato dopo la fine del secondo conflitto mondiale, le posizioni erano chiare, e attraversavano il confine degli Stati,  com’era evidente nei regimi di democrazia liberale e pluripartitica (e occultato invece in quelli di socialismo reale): alla competizione planetaria tra due superpotenze, con ideologie contrapposte, corrispondeva un antagonismo interno tra partiti e organizzazioni sociali che si richiamavano, peraltro in modo palese, all’una o all’altra superpotenza. Il nemico (il capitalista, il comunista) era insieme interno ed esterno.

Ma se, come ora, il “nemico”, peraltro da identificare, appare come (ed esercitante un) potere supernazionale, asseritamene non politico, non ideologico (nel senso che tale termine aveva fino a qualche decennio orsono), e neppure “strutturato” (organizzato in istituzioni tra loro collegate, fino alla dipendenza), il tutto rende da un lato difficile identificare il nemico; ancor più, dall’altro, i rapporti tra questi e le forze politiche (e “non politiche” come poteri forti e così via) interne.

L’unica affermazione che si può fare  con alto grado di probabilità è che il nemico è globale, cioè è “internazionale” “superstatale”, e così tendenzialmente (anche perché la dimensione nazionale costituisce  una piccola frazione di quella globale) esterno. Non solo perché l’incidenza del capitale italiano nella finanza è una (piccola) frazione del totale, ma anche perché anche questa è sostanzialmente svincolata dal potere “interno” esercitato dallo Stato, normalmente, su basi, rapporti, attività di carattere, oggetto e regolazioni totalmente diverse, inapplicabili in tutto o in parte alla finanza globale[4].

Alle difficoltà di applicazione di misure, pensate per l’ “economia reale”, cioè che ha a che fare con res, si aggiunge quella di identificare il nemico, e quella di “classificare” le azioni intraprese dai poteri finanziari globali secondo l’attività umana alla quale devono ricondursi.

Come già scritto altrove[5], anche se l’intenzione della speculazione internazionale (e della grande maggioranza degli speculatori) è quella, ovvia, di far soldi, gli effetti sono stati sicuramente (in gran parte) politici. Sono cambiati quattro governi dell’eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Francia); è modificato (si sta modificando) il  modo di esistenza delle popolazioni europee, in ordine al reddito, alle chances di vita, alle abitudini, e anche alle regole (principi e/o consuetudini giacché non  prescritte nella costituzione formale) della forma politica, in particolare in Italia[6].

D’altra parte neppure il fine di arricchirsi è carattere peculiare e “proprio” dell’attività economica giacché da sempre è uno degli scopi ed effetti della politica e del dominio politico (prede, tributi, riparazioni, confische a carico dei governati o dei nemici vinti)[7].

Ne consegue che l’effetto esclusivamente o principalmente economico non esclude che si tratti di nemico (politico) e non di concorrente (economico). È comunque opportuno chiarire chi e come possa identificarsi (e considerarsi) nemico.

  1. Secondo Hegel il nemico è la “differenza etica”[8]. A considerare in termini più moderni (e conseguenti all’egemonia delle ideologie negli ultimi due secoli) ciò significa che il nemico si caratterizza non tanto per la diversità di nazionalità, di religione, di interessi economici, quanto per la diversa visione ideologica, cioè sull’ordinamento futuro delle comunità umane. La differenza etica, secondo una terminologia corrente (anche in ambito giudiziario) si definisce in una differente “tavola di valori” fondamentali: da un lato libertà, individualismo, separazione dei poteri (e quanto ne consegue). Dall’altro eguaglianza, collettivismo, proprietà collettiva (e quindi concentrazione dei poteri). Altre varianti: Dio, patria, famiglia; o razza, spazio vitale, popolo superiore.

Come Max Weber ha chiarito tra i “valori” c’è lotta senza quartiere: valorizzare significa insieme svalorizzare[9].

L’effetto polemogeno della valorizzazione è stato quanto mai chiaro nel secolo scorso, ideologico per eccellenza, quindi portato a vedere i conflitti (esterni e anche interni alle unità politiche) come risultato di differenti “visioni del mondo” e conseguenti “tavole di valori”. Il tutto poneva in secondo piano che, in primo luogo, il nemico è colui che attenta alla mia esistenza (politica e, spesso, anche fisica) e alla mia indipendenza: e che i motivi delle guerre spesso – anzi quasi sempre nella storia – hanno avuto nulla (o poco) a che fare con le “tavole dei valori”. È il pericolo minacciato all’esistenza indipendente che determina la scelta del nemico reale, e non la contiguità o la distanza ideologica. Un convinto anticomunista come Churchill si alleò con Stalin contro Hitler, perché dall’altra parte della Manica stazionavano le Panzerdivisionen, mentre quelle sovietiche stavano, tranquille, ad oriente della Vistola. Ciò non toglie, che quando queste, all’esito del secondo conflitto mondiale, avanzarono fino all’Elba, Churchill identificasse nuovamente nel comunismo sovietico il nemico reale[10].

L’enfasi sulle “tavole di valori” ha portato a trascurare come la primaria esigenza di ogni sintesi (unità) politica, sia conservare la propria esistenza, capacità d’azione e protezione (dei cittadini). Di fronte a ciò differenze etiche, “tavole di valori” e rispetto delle norme sono relative: la massima romana, universalmente valida “salus rei publicae supremo lex”, va coordinata al detto “primum vivere, deinde philosophari”. Come aveva colto Max Scheler[11].

Scrive Miglio – seguendo in ciò quanto già intuiva Eschilo nelle Eumenidi – che l’esistenza del nemico è essenziale all’unità politica, al punto che “là dove il nemico non c’è, lo si inventa, lo si va a cercare. Dove il nemico poi c’è, ma non ha nessuna voglia di minacciarci, lo si immagina in modo minaccioso”[12].

Per cui c’è l’errore speculare a quello che qui stigmatizziamo: quando il nemico reale non c’è, si costruisce un nemico immaginario[13]. Cioè inesistente (o non animato da intenzione ostile). Errore capitale, al pari dell’inverso. Come sostiene Eric Werner[14] “Affinché il nemico svolga il suo ruolo di cemento, sono dunque necessarie due cose: da una parte che esista oggettivamente, ma dall’altra parte che sia anche effettivamente riconosciuto e designato come tale. E questa seconda condizione, per essere soddisfatta, ne suppone a sua volta un’altra. Bisogna che la collettività accetti di guardare in faccia la realtà, senza lasciarsi indurre in errore da discorsi seducenti”. In un caso non c’è il nemico, nell’altro non lo si riconosce. A tutto profitto del medesimo. Se la guerra è un camaleonte, come pensava Clausewitz, tale può essere anche il nemico[15]: una delle qualità dell’animaletto è la mimetizzazione, che consente di non essere percepito, quindi da un lato non essere vulnerabile, dall’altro di poter compiere atti ostili a proprio comodo.

  1. La crisi – ormai quasi secolare – del sistema Westfaliano è particolarmente acuta in relazione a chi possa essere (legittimamente) nemico. Se Rousseau poteva scrivere che la guerra è una relazione tra due Stati sovrani, nel dopoguerra seguito al secondo conflitto mondiale, la maggior parte delle guerre (circa tre quarti) sono state combattute da soggetti (o con soggetti) che non sono Stati ma partiti rivoluzionari, movimenti guerriglieri, talvolta tribù. Tuttavia ai combattenti irregolari era garantito dal diritto internazionale un trattamento, che li assimilava agli eserciti regolari. Con ciò viene depotenziata, quasi annichilita la massima del diritto romano che “sono nemici (hostes) coloro che ci hanno – o cui abbiamo – pubblicamente dichiarato guerra: gli altri sono briganti o pirati”[16].

Se il nemico non è più lo Stato (e non è più pubblico, in quanto soggetto ordinato, con organi e rappresentanti), ma può essere privato, la guerra cosa diventa?

  1. La guerra è pubblica, se non nel senso soggettivo, sicuramente in quello oggettivo, ovvero di confronto tra parti perché l’una sia costretto a compiere la volontà (e l’interesse) dell’altra; e il tutto al fine di modificare i rapporti di potere e di dominio che, già da Tucidide, sono considerati una delle “costanti” della politica. E così cambi di governi, mutamenti del modo di esistenza, aumento delle imposte onde remunerare gli interessi sul debito pubblico.

Un tempo si chiamavano tributi, indennità, riparazioni, danni di guerra, oggi spread. Se, come appare dalle notizie di stampa, le varie “manovre” economiche (prima di Tremonti, poi di Monti) ci sono costate circa 200 miliardi di euro (anche se “spalmati” in più anni) abbiamo anche l’importo (per ora) del “tributo”. Non è il caso di ripetere quanto già scritto[17] sulla guerra contemporanea, in epoca di pacifismo imperante, da due colonnelli cinesi (riprendendo le concezioni dell’antico pensiero strategico cinese e indù) nel noto volume “La guerra senza limiti”: e cioè che per la guerra non è necessario (sempre) ricorrere alla violenza: basta un embargo, impedimenti al transito di beni e servizi, manovre coordinate di borsa, attacchi informatici, e così via. D’altra parte l’uso di mezzi economici per piegare la volontà del nemico non è neppure una scoperta moderna (pur essendo stata spesso praticata nella modernità).

La situazione creatasi negli ultimi due anni, in particolare in Europa, rientra appieno nelle pratiche di guerra economica, come negli effetti politici della guerra.

  1. A questo punto, tornando al punto di partenza, è il caso di chiedersi se l’antipolitica non trovi il proprio brodo di cultura nell’assenza di guida politica. Se infatti la politica, nel nocciolo duro e nei momenti decisivi, è riconoscimento e indicazione del nemico, che senso ha una guida politica che non lo indichi e non prenda le decisioni conseguenti?

A leggere i discorsi, che nelle emergenze, sono stati pronunciati dai capi politici, si ritrova sempre l’indicazione del nemico. Dall’orazione di Calgaco prima della battaglia con Agricola, a quella di Cromwell contro la Spagna, dal Churchill delle “lacrime, sudore e sangue” all’appello di De Gaulle del 18 giugno 1940.

Certo sono tutti discorsi pronunciati in situazioni estreme, e questa non è, neppure lontanamente, paragonabile a quelle. Ciò non toglie che non vi sia il bisogno di trovarsi in circostanze drammatiche per riconoscere il nemico e prendere le misure opportune per contrastarne gli “atti ostili non violenti”, in cui consiste questo tipo di conflitto. Ma se il riconoscimento non viene fatto, non è dato neppure prendere quelle; non resta che far buon viso a cattivo gioco, riversando sui cittadini il costo emergente, come se si trattasse di un terremoto.

In tal caso, se la guida politica non indica il nemico, non prende le misure necessarie a risolvere il (determinato) conflitto, con quell’(individuato) nemico, vuol dire che non è una “guida” politica, ma tutt’al più un governo dimezzato, ridotto alla sua funzione di comando interno.

In fondo, se si considera la storia, le sintesi politiche dipendenti da altre sono state in primo luogo private del potere di riconoscere (designare) il nemico: questo a partire dalle città federate romane fino ai protettorati coloniali dei secoli passati.

In tali condizioni, con una (classe) politica che non svolge il proprio ruolo, è naturale che vi sia un rifiuto della politica. Ma non è dato intendere quanto ciò sia rifiuto della classe (politica) e quanto della politica in se, dovuto all’effetto affabulatorio delle (varie) ideologia antipolitiche, a cominciare dal marxismo (della società comunista realizzata) alle utopie tecnocratiche-economiciste, alle ipotesi di fine della storia.

  1. Se si va a votare in queste condizioni, ci si sorprende non perché l’astensionismo cresca, ma perché cresce troppo poco. Dare i suffragi a frazioni di classe politica (e aspiranti tali) che considerano solo nemici interni (quando è evidente che attori e fattori della crisi sono soprattutto esterni), appare – innanzitutto – inutile. Come parteggiare per dei duellanti che non si contendono la guida di un paese, ma come spartirsene le spoglie e accollare i costi (sotto la supervisione del vincitore).

Tuttavia per ripartire le spese di una guerra perduta, bastano degli amministratori; per lottare dei capi politici. La gente, forse inconsapevolmente, l’ha capito. E si comporta di conseguenza: che un voto dato non vale una scampagnata persa.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Carl Schmitt Der Begriff des politischen, trad. it. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 143 ss.

[2] v. Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico… dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine politica” op. cit. p. 154-155.

[3] Il che non significa che non vi sia (e non vi sarà) una “sinistra”, dato che l’esistenza di forze politiche riconducibili al di essa concetto è una costante  storica; né che sia opportuno conservare istituti e norme di un’epoca (e di una visione del mondo, di una situazione politica) tramontata.

[4] Dovrebbero far oggetto di un’autonoma riflessione, a tale proposito, quelle considerazioni nel pensiero politico e giuridico degli ultimi due secoli che legano i caratteri dello Stato e del diritto “classico” alla terra, al territorio (e quindi al “confine”, che delimita il diritto applicabile). A cominciare dalle affermazioni di Louis de Bonald, che sottolineava come il capitale commerciale non avesse limiti al proprio accrescimento, a differenza della proprietà fondiaria (e feudale): con le relative conseguenze di ordine politico “I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. Observations sur l’ouvrage de M.me la Baronne de Staël, trad. It. La Costituzione come esistenza, Roma 1985, p. 44; di M. Hauriou che ritiene il diritto e l’ordine vigente legato all’età sedentaria dell’umanità v. Precis de droit consitutionnel, p. 41 ss. e  che sia detto incidentalmente, scriveva che “le organizzazioni della società reale (positive) sono tutte disorganizzate dal denaro” e portava ad esempio l’impero romano, il basso medioevo e l’organizzazione  capitalista (a lui) contemporanea (v. La science sociale traditionnelle in Écrits sociologiques, Paris 2010, pp. 239-241); di Hegel nei paragrafi  245-248 dei Grundlinien; di Carl Schmitt che vi è tornato sopra più volte, elaborando la dicotomia terra-mare, determinante diversi tipi di esistenza, e quindi di diritto di guerra. Occorre considerare quanto questo apparato istituzionale (e concettuale) sia adatto a “proteggere” (ossia a difendere, governare e regolare) attività umane che sono esattamente l’opposto del “sedentario” del “territoriale” del “delimitato”. Un diritto elaborato per società sedentarie è – quanto meno – depotenziato dal carattere immateriale della finanza globalizzata. Su questo è interessante leggere gli interrogativi che si è posto G. Tremonti in Uscita di sicurezza (Milano 2012, in particolare pp. 20 ss.).

[5] Ci si permetta di richiamare quanto da me scritto in “Nemico, ostilità e guerra” pubblicato elettronicamente sul sito del Cestudec; su stampa in Cile su Ciudad de los Cesares n. 96; e in Francia su Catholica n. 116, pp. 63 ss., cui rinviamo.

[6] Ci si riferisce al carattere tecnico del governo Monti, il cui primo connotato è di essere tale in negativo, nel senso che i componenti dell’esecutivo non sono politici (di professione o di vocazione o d’ambedue).

Ma un governo tecnico nel senso cennato, contraddice a due principi dello Stato e della democrazia moderni: che l’apparato burocratico abbia al proprio vertice personale politico (Max Weber); e questo sia tale per “carriera” (il cursus honorum “normale” del politico, cioè l’elezione o la nomina in organi designati dal corpo elettorale, come assemblee regionali o degli enti locali, e non per aver passato un concorso pubblico). E che l’organo così composto sia riferibile alla volontà del corpo elettorale. Che è il carattere (anche) della repubblica parlamentare, cioè della forma di governo vigente. Nel caso del governo Monti a collegarla alla lettera della Costituzione (ed al carattere democratico) è solo il voto parlamentare di fiducia, dato che non risulta che alcuno dei componenti l’esecutivo sia stato mai eletto, neppure in un consiglio di quartiere.

[7] V. sul punto G. Miglio Lezioni di scienza della politica, vol. II, Bologna 2012, in particolare pp. 320 ss. (ma il tema dell’ “appropriazione” e della “rendita” politica è trattato in più punti dell’opera citata).

[8] Hegel scrive: “Quella differenza nel suo manifestarsi è la determinatezza, e questa è posta come qualcosa che va negato. Ma questo qualcosa da negare dev’essere essi stesso una totalità vivente […]. Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come il proprio contrario, come il contrario dell’essere degli opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” trad. it. in Il dominio della politica, a cura di Nicolao Merker, Roma 1997, p. 174.

[9] V. sul punto anche Carl Schmitt in Die Tirannie der Werthe.

[10] Sul nemico reale v. le pagine di Carl Schmitt in Teorie des partisanen, trad. it. Milano 1981, pp. 68 ss.

[11] Il quale sosteneva, in Politica e morale (trad. it. Brescia 2011) “La politica ha a che fare, in primo luogo, con i valori vitali della collettività: non con la «felicità del maggior numero», né con i valori spirituali. Esistenza vitale e libertà vengono prima di tutto il resto”; per cui la “politica non è in alcun modo subordinata alla «legge morale»: l’agire morale è essenzialmente differente dall’agire politico, anche nel singolo. L’agire politico e quello morale, e il diritto, tuttavia sono subordinati all’ordine oggettivo dei valori (assiologia)” e proseguiva “La politica non può mai essere vincolata a «norme» (corrispondenti all’ordine dei valori). Le norme si modificano, mentre l’ordine dei valori resta fisso”. In effetti anche l’ordine dei valori si modifica, anche se molto più lentamente delle norme. Ad esempio dell’Unità d’Italia a considerare le “tavole di valori” deducibili dalle costituzioni (formali e materiali) ne abbiamo avute almeno tre, corrispondenti ai regimi liberale, fascista e repubblicano.

[12] Op. cit., p. 248; v. (tra i tanti) sul punto E Werner L’anteguerra civile, Roma, 2004, pp. 72 ss..

[13] Occorre considerare che in molte lingue indoeuropee il nemico è linguisticamente il non-amico (cioè il non appartenente alla “comunità” politica, potenzialmente ostile); v. A.A.V.V. Amicus (inimicus) hostis, Milano 1992 in particolare il saggio di A. Vitale p. 87 ss.

[14] Op. loc. cit.

[15] In effetti Clausewitz chiama camaleonte la guerra perché “in ogni momento modifica la sua natura” (v. Vom Kriege trad. it. Milano 1970, p. 40). Il nemico lo fa con l’aspetto; la guerra cambia di natura.

[16] D 118, 50, 16.

[17] V. nota 5.

Verità per Regeni? Verità su Regeni!_di Roberto Buffagni

Verità per Regeni?

“Verità per Regeni”? Vediamo un po’. Di verità sull’argomento ce n’è solo una briciola. Cominciamo da quella, poi passiamo alle ipotesi.

Briciola di verità

Regeni lavorava per una azienda privata di intelligence, la Oxford Analytica.[1] All’epoca dei fatti, il responsabile di Oxford Analytica è David Young, capo dell’équipe che per conto del presidente Nixon scassinò gli uffici del Partito Democratico al Watergate, facendosi beccare e innescando il processo che condusse all’impeachment e alle dimissioni dello statista repubblicano. Nel board, a fare da testimonials, ci sono John Negroponte[2], responsabile diretto dell’organizzazione degli squadroni della morte nell’America Latina anni Ottanta, e Sir Colin McColl[3], Control dell’MI6 (ora SIS) dal 1988 al 1994.

Regeni agente segreto?

Regeni non, ripeto non era un agente segreto. Per Oxford Analytica, Regeni lavorava da precario, in subappalto, stesso tipo di rapporto che intercorre fra un fattorino che consegna la pizza a domicilio e la catena di fast food che lo assume. Conforme a una plurisecolare tradizione di rapporti organici d’interscambio tra Oxbridge e servizi segreti britannici, il rapporto diretto con Oxford Analytica ce l’avevano i suoi professori di Cambridge, che utilizzavano i graduate students e i ricercatori come manovalanza a basso prezzo. Queste agenzie private di intelligence non sono la SPECTRE. Si fanno pagare a caro prezzo informazioni di secondo e terz’ordine, abbagliando gli acquirenti con i nomi di prestigiosi pensionati dell’intelligence. Siccome lavorano esclusivamente per il profitto economico, certo non si danno la pena di addestrare gli agenti sul campo, e tantomeno i fattorini come Regeni. Regeni infatti, a quanto risulta dalla semplice lettura dei giornali, non era stato neanche minimamente addestrato. Nei giorni precedenti il suo sequestro, ad esempio, agenti della sicurezza egiziana erano passati a casa sua per informarsi su di lui. Probabile che Regeni neanche lo sapesse, perché  non s’era creato una rete di sicurezza intorno alla sua abitazione (basta pagare qualcuno dei vicini e il portinaio, non ci vuole James Bond); oppure l’ha saputo e l’ha sottovalutato. Ignoranza e sottovalutazione in un contesto come l’egiziano, dove il governo è sottoposto a tensioni politiche interne e internazionali enormi, e mentre sono in ballo poste economiche e politiche immense (era stato scoperto un enorme giacimento di petrolio nelle vicinanze e andavano firmati i contratti per l’estrazione, e in Egitto c’è il canale di Suez) sono l’equivalente di un tentato suicidio, come sedersi a prendere l’aperitivo in corsia di sorpasso in autostrada.

Escludo poi ogni rapporto diretto tra Regeni e il SIS. Il SIS non aveva nessun bisogno di reclutare Regeni; più pratico e sicuro usarlo a sua insaputa, tanto c’erano i suoi prof. di Cambridge e dell’American University del Cairo a fargli fare quel ch’era utile facesse. I servizi d’informazione usano abitualmente il metodo della leva lunga: stare il più lontani possibile dal personale che usano, utilizzando intermediari, in modo da garantirsi la plausible deniability.[4] Regeni presentava anche il pregio di non essere cittadino britannico, e di essere quindi per antonomasia expendable: i servizi inglesi sono celebri, oltre che per la loro abilità, per la loro cattiveria abissale e il loro cinismo terrificante in un mondo dove i chierichetti non allignano. Si acquisti al modico prezzo di 9 euro The Secret Servant: The Life of Sir Stewart Menzies, Churchill’s Spymaster di Anthony Cave Brown[5] e si vedrà quel che intendo.

A maggior ragione escludo ogni rapporto diretto tra Regeni e AISE.  E’ vero che i servizi d’informazione italiani, dopo la sciagurata riforma e sostituzione del vecchio personale con il nuovo, sono molto peggiorati da tutti i punti di vista, anzitutto professionale: opera di Massimo D’Alema, il Signore si ricordi di lui al momento buono .

(Digressione: uno degli errori più gravi della riforma è stato smettere di pescare i quadri dalle FFAA, mentre l’addestramento e la selezione militari sono indispensabili se si vogliono quadri adeguati al servizio di spionaggio e controspionaggio. Esempio, Calipari. Io non credo a complotti o rappresaglie degli americani. Calipari, ottimo funzionario di polizia, è morto coraggiosamente proteggendo la Vispa Teresa Sgrena perché, non avendo formazione militare, ha fatto un errore blu in zona di operazioni. Al momento di esfiltrare la Sgrena ha privilegiato la velocità del mezzo, perché dove non si combatte, è effettivamente più sicuro fare così: la cosa importante è arrivare a destinazione sicura prima che l’opposizione riesca a organizzare una risposta e a intercettarti. In zona di operazioni, invece, e specialmente in quella zona di operazioni, salire in automobile civile e andare sparati = disegnarsi un bersaglio sul cofano, e infatti l’hanno centrato. E’ un errore che io, pur non essendo né  James Bond né von Clausewitz, non avrei fatto mai. Bastava prendere un autoblindo, andare a 40 kmh, e oggi Calipari sarebbe vivo e vegeto e potrebbe illustrare alla Sgrena alcune realtà fondamentali del mondo e della politica internazionale).

In sintesi: escludo un rapporto organico tra Regeni e l’Aise perché se fosse vero, l’Aise andrebbe subito gettato nelle fiamme dell’inferno in toto, in quanto composto esclusivamente da traditori o da minus habentes con QI inferiore a 80, essendo il risultato più che prevedibile dell’operazione in cui sarebbe stato coinvolto Regeni un colossale autogol per l’interesse nazionale italiano.

Pure ipotesi

Regeni studia sociologia a Cambridge. Viene mandato al Cairo, alla American University, celeberrimo centro di reclutamento dell’anglosfera per la classe dirigente egiziana e non solo. Lì fa ricerche di sociologia “embedded”, dice la professoressa Maha Abdel Rahman, la sua tutor[6]. Cosa vuole dire “embedded”? Vuole dire che non va in archivio e basta, ma frequenta ambienti sociali i più vari, registra posizioni politiche e progetti, prende indirizzi e telefoni, nomi di leader, etc. I professori di Cambridge vendono queste e altre informazioni a Oxford Analytica, che le ridistribuisce tra i suoi clienti. Non so se Regeni ci abbia guadagnato qualche soldo, magari sì magari no, ma non è questo il punto. Il punto è che le informazioni raccolte da Regeni sono anche la materia prima per chi organizza “rivoluzioni colorate” et similia. Le rivoluzioni colorate funzionano così: prima si fa leva sulle opposizioni liberali e occidentaliste buone, democratiche e non violente, poi si gioca la carta vera, perché la linea di faglia vera sta lì: la carta etnico-religiosa, che tanto liberale e non violenta non è (“democratica” forse, nel senso che trova largo appoggio tra le masse). L’impero britannico la carta etnico-religiosa contro i nazionalismi arabi e non solo la sta giocando da un duecento anni, non è una cosa nuova. Tra Fratelli musulmani e Gran Bretagna, per esempio, c’è un rapporto organico da sempre[7]. Il presidente democraticamente eletto dell’Egitto, prima di Al Sissi, era Muḥammad Mursī[8], del Partito Libertà e Giustizia, espressione politica dei Fratelli musulmani.

Non so se Regeni provasse simpatia ideologica per le “opposizioni democratiche”; probabilmente sì, visto che voleva pubblicare sul “il Manifesto”, che si è illustrato per l’appoggio ideologico alle “rivoluzioni colorate” in quanto le fa el pueblo che quando scende in piazza ha sempre ragione. Secondo me è una ideologia disastrosa, ma in questo caso l’ideologia è il meno. Il più è questo: che né Regeni aveva capito da solo, né i suoi mandanti gli avevano spiegato, che stava partecipando in prima linea a un’azione di guerra coperta (destabilizzazione) contro il governo egiziano. In guerra ci si fa male, molto male. E’ poi quasi certo che ci lasci la pelle se ci vai senza una minima preparazione, se passeggi lungo la linea del fuoco con il gelato in mano. Ora, perché Regeni non ci sia arrivato da solo non lo so. Perché  da giovani ci si sente invulnerabili? Perché uno studioso non è un uomo d’azione? Non lo so.  Ma i suoi mandanti, invece, lo sapevano eccome.

I suoi professori di Cambridge avevano sicuramente un rapporto diretto con l’agenzia privata di intelligence per cui lavoravano. Avevano sicuramente un rapporto o diretto, o indiretto attraverso l’agenzia privata, con il SIS[9]. Poi magari anche i suoi professori non si rendevano pienamente, emotivamente conto di quel che stavano facendo fare a Regeni, perché  un conto è andare sul campo, un conto fare analisi seduti nel proprio studio con il termosifone che ronfa: anche l’analista militare più spregiudicato, se non ha visto mai un morto ammazzato, se non si è mai sentito fischiare nelle orecchie una pallottola, stenta a mettersi nei panni del soldato in zona di combattimento. In questo campo, tra la teoria e la pratica c’è la stessa differenza che passa tra un manuale di educazione sessuale e un rapporto sessuale vero e proprio.

Il fatto è che a Regeni, i don e i fellows di Cambridge non gliel’hanno raccontata chiara. Non gli hanno detto, versione A: “Giulio, ti mandiamo sul campo a raccogliere dati in vista di una destabilizzazione del governo egiziano, siamo certi che ci andrai volentieri perché  gioverà alla tua carriera e perché così combatterai per la democrazia, il progresso e il bene del popolo egiziano.” Se gliel’avessero detto, magari Regeni, che non era stupido, ci pensava un attimo, si domandava a quali rischi andava incontro, quali coperture gli assicuravano sul campo, chiedeva perlomeno di essere addestrato a un mestiere che – lo avrà visto, qualche film di spionaggio! – sapeva non essere di tutto riposo, etc.

Gli avranno invece detto, versione B: “Giulio, sei proprio bravo, perché non approfondisci la tua ricerca entrando nel vivo della dialettica sociale egiziana? Gioverà alla tua carriera e darai un contributo al progresso sociale in Egitto.” Regeni non ha tradotto la versione B nella versione A, ha pensato che tutto sommato faceva solo della ricerca sociologica, anche più interessante e coinvolgente; che essendo straniero e occidentale, coperto da importanti istituzioni quali le università di Cambridge e American del Cairo, dalle diplomazie italiana, americana e inglese era al sicuro, ed è andato sulla linea del fuoco senza aver mai sparato un colpo neanche al poligono, senza aver visto una pistola tranne che in TV, e senza sapere sul serio che quella era la linea del fuoco: perché in una guerra coperta, la linea del fuoco è la strada sotto casa, l’edicola dove compri il giornale, il bar dove fai colazione la mattina, la tua camera da letto.

Così ha fatto una fine atroce, lasciando nella mente dei suoi genitori un’immagine di orrore senza nome che non si spegnerà mai finché resteranno vivi, e gli angoscerà la veglia e il sonno per sempre.

A occhio e croce, sono stati i servizi egiziani a torturare e uccidere Regeni. L’interrogatorio serviva a ottenere i nomi dei suoi contatti, e forse anche le intenzioni dei suoi mandanti, che probabilmente Regeni non conosceva: motivo più che sufficiente per spiegare la ferocia delle torture. Se ti chiedono una cosa che non sai, come fai a confessare? E come fa l’interrogante a esser certo che davvero non sai? Deve spingersi al punto da potersi dire, “se lo sapeva me l’avrebbe detto di sicuro”.

Il fatto che siano stati gli egiziani a ucciderlo non vuol dire che l’ordine sia partito dal governo egiziano. Intanto, di polizie più o meno segrete ce ne sono tante. Poi, un’eventuale operazione inglese ha potuto svolgersi così (pura ipotesi): gli inglesi fanno arrivare informazioni mezze vere mezze false su Regeni: lavora per gli inglesi (vero) è un personaggio importante che sa cose decisive (falso). Magari fanno filtrare l’informazione a una polizia egiziana che ha bisogno di fare bella figura o di fregare un corpo concorrente. Questi lo rapiscono, lo interrogano, ci vanno giù pesante perché sono sicuri che ne valga la pena, e quando capiscono che li hanno fregati e Regeni non sa un gran che, sono arrivati troppo in là e devono ucciderlo comunque. Poi danno incarico a qualcuno di farlo sparire – magari proprio a quelli che gli hanno passato l’informazione farlocca, perché “chi rompe paga e i cocci sono suoi”-  ma quel qualcuno è l’infiltrato degli inglesi che invece di far sparire il cadavere lo butta a lato strada e lo fa ritrovare.

Conclusione

La verità giuridica sul caso Regeni non si raggiungerà mai, perché contro l’accertamento delle prove c’è l’ostacolo insormontabile di interessi politici ed economici colossali. La verità storica va cercata anzitutto in Gran Bretagna, e solo in subordine in Egitto. La verità umana è che un giovane e intelligente italiano è stato ingannato, a fini di interesse economico personale e politico nazionale,  dai docenti britannici che avevano l’obbligo etico di proteggerlo – la parola tutor viene dal latino tueri, proteggere, custodire, difendere – e mandato a morire di una morte atroce[10]. Ai suoi genitori e a tutti i suoi cari, è stato inflitto un dolore incancellabile; e per di più, a loro insaputa essi sono stati coinvolti e strumentalizzati in una operazione d’intossicazione e d’ influenza, ordita dai principali responsabili della morte di Giulio Regeni,  volta a confondere le acque e a sviare l’attenzione del pubblico dalla realtà dei fatti, cioè da loro.

 

 

[1] http://www.lastampa.it/2016/02/16/esteri/regeni-a-londra-lavor-per-unazienda-dintelligence-Ue3kZmmArej9wuMH279t5J/pagina.html

 

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/John_Negroponte

[3] https://wikispooks.com/wiki/Colin_McColl

[4] http://italiaeilmondo.com/2018/01/17/disinformazione-un-breve-vademecum_1a-parte-di-roberto-buffagni/

[5] https://www.amazon.it/Secret-Servant-Stewart-Churchills-Spymaster/dp/0718127455/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1543654420&sr=8-1&keywords=The+secret+servant%3A+the+life+of+Sir+Stewart+Menzies%2C+Churchill%27s+spymaster

[6] https://www.lastampa.it/2018/01/24/italia/la-tutor-di-cambridge-impose-a-regeni-di-affidarsi-a-unattivista-GNaS3l5g4Z0hroND31xCKP/pagina.html

[7] Tra mille, si legga questo articolo: https://www.counterpunch.org/2017/03/10/the-secret-to-our-nations-security/

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Mohamed_Morsi

[9] https://www.sis.gov.uk/

[10] http://www.lastampa.it/2016/02/19/esteri/giulio-regeni-mandato-allo-sbaraglio-dai-suoi-docenti-inglesi-sv1TscnNnGt3oBUwjPoz2H/pagina.html

 

http://italiaeilmondo.com/2018/11/27/chi-si-rivede-regeni-secondo-di-antonio-de-martini/

Le sette armi inarrestabili che permettono agli Stati Uniti di dominare il mondo, traduzione e commento di Giuseppe Germinario

Le sette armi inarrestabili che permettono agli Stati Uniti di dominare il mondo

Fonte: The Tribune, Michel Cabirol , 

L’articolo riportato tradotto qui sotto riveste un grande interesse. Svela una parte importante dei numerosi strumenti a disposizione della classe dirigente statunitense nell’ambito delle relazioni economiche e del controllo e gestione dei dati in grado di condizionare ed influenzare pesantemente le politiche degli altri stati e degli altri attori geopolitici, compresi quelli economici. Mette a nudo anche un’altra verità: i paladini e garanti della libertà del mercato in realtà non hanno fatto altro che dosare nel tempo e secondo le contingenze misure di protezionismo, di liberismo e di regolamentazione in modo tale da affermare e consolidare la propria posizione di influenza e di controllo predicando il disarmo altrui. Trump, affermando le prerogative degli stati nazionali, non ha fatto altro che svelare consapevolmente questi meccanismi da sempre operanti anche sotto le mentite spoglie di una globalizzazione mitizzata come una era di libertà ed emancipazione assoluta degli individui e delle formazioni politiche. Di fatto e tra mille contraddizioni in divenire cerca di perimetrare meglio e più stabilmente l’area di influenza americana rispetto alle velleità di realizzazione del dominio unipolare degli ultimi tre decenni che tanti squilibri pressoché ingovernabili ha creato nel contesto geopolitico e nella stessa formazione sociale statunitense. Un riconoscimento nella sostanza di un contesto geopolitico multipolare e multicentrico incipiente dove più che di dominio degli Stati Uniti si può parlare di sua prevalenza, pur se ancora netta. Una delle carenze di valutazione che inficia la validità generale dell’articolo. Alcune altre sono presto dette. Si tende ad attribuire alla amministrazione di Trump una bellicosità e una distruttività di gran lunga maggiore delle precedenti omettendo la cruda e caotica sostanza celata nella politica di ingerenza dirittoumanitarista incarnata dai Clinton, Bush e soprattutto Obama. Tende, ancora una volta, a surdeterminare la funzione dell’azione politica nell’economico rispetto agli altri ambiti di azione, compreso quello militare pur apprezzando il ruolo riconosciuto all’azione politica in essa piuttosto che la concessione unilaterale, prevalente in altre analisi, alle intrinseche leggi inesorabili dell’economico. Omette l’azione “positiva” non solo ostativa di tutto il vario e vasto armamentario disponibile nell’arsenale americano comprese le leve finanziarie. Omette le implicazioni tattiche e strategiche del riconoscimento del ruolo e delle prerogative degli stati nazionali ad opera della dottrina di Trump in via di formazione. Tutti elementi che impediscono una emersione adeguata del complesso di azioni e reazioni che stanno preparando un diverso e intricato scenario geopolitico dai molti attori e dalle molte variabili tendenzialmente sempre meno padroneggiabili da un unico soggetto rispetto alla condizione di fine secolo e lungi, quindi, da una condizione di dominio assoluto e da un ruolo di “poliziotto del mondo”. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Il protezionismo e una politica extraterritoriale aggressiva consentono agli Stati Uniti di Trump di dominare il resto del mondo. E il presidente degli Stati Uniti ha appena rafforzato le misure per controllare meglio gli investimenti stranieri negli Stati Uniti. In Francia, il Senato sostiene la creazione di piattaforme finanziarie specifiche e un ruolo maggiore dell’euro al fine di contrastare le sanzioni extraterritoriali statunitensi.

Gli Stati Uniti, l’iperpotenza alla quale nulla può resistere o quasi nulla. Con Donald Trump, Washington assume oggi completamente questo ruolo di poliziotto del mondo. L’attuale presidente americano non ha fatto altro che uso di un arsenale giuridico messo all’opera per un lungo periodo di tempo dai suoi predecessori come la legge Helms-Burton e d’Amato adottate nel 1996. Essi penalizzano le transazioni commerciali, rispettivamente con Cuba, la Libia e Iran. I precedenti presidenti degli Stati Uniti non hanno mai esitato a usare questo arsenale.

Di conseguenza, tra il 2009 e il 2016, le banche europee hanno per esempio pagato alle autorità degli Stati Uniti circa 16 miliardi di sanzioni previste per le violazioni alle sanzioni internazionali degli Stati Uniti  e / o alle norme anti-riciclaggio di denaro , tra cui 8,97 miliardi per BNP Paribas . Queste sanzioni inducono “anche, inevitabilmente, le domande su un possibile targeting delle imprese europee e la lealtà di certe pratiche di governo degli Stati Uniti” come hanno anche stimato a febbraio 2016 in un report gli autori commentando sulla extraterritorialità della legge Americana, Pierre Lellouche e Karine Berger.

Sovranità, Donald Trump risveglia una piccola Europa

Tuttavia, Donald Trump fa un passo avanti senza complessi. Il ritiro unilaterale degli Stati Uniti l’8 maggio scorso dall’accordo nucleare con l’Iran ratificato nel 2015 e la concomitante reintroduzione delle sanzioni americane si è indebolita, ha addirittura annientato l’attuazione di un accordo politico, tuttavia considerato capitale nella lotta contro la proliferazione nucleare e la stabilità regionale. Questa decisione porta a un massiccio ritiro di società europee dal commercio con l’Iran per timore di sanzioni extraterritoriali da parte degli Stati Uniti. Washington ha anche intensificato le sanzioni contro la Russia di Putin e ha anche lanciato una guerra commerciale contro la Cina. È molto Tanto che gli Stati Uniti praticano una politica estera giuridica senza complessi …

Al di là delle sanzioni economiche e finanziarie che gli Stati Uniti impongono a società non americane, Washington mette a repentaglio la qualità delle relazioni transatlantiche e colpisce principalmente l’autonomia delle decisioni economiche degli altri paesi e la loro sovranità diplomatica. Inoltre, vediamo la nascita di alleanze inimmaginabili solo poco tempo fa: l’Unione europea è alleata con la Cina e la Russia per contrastare gli Stati Uniti sul primato iraniano. In Francia, il Senato sostiene la creazione di piattaforme finanziarie specifiche e un ruolo maggiore dell’euro al fine di contrastare le sanzioni extraterritoriali statunitensi. In tal modo,

“Questa non è una banca, ma un dispositivo su cui registrare il + e -,” ha detto il senatore Philippe Bonnecarrere Mercoledì, salutando il suo lato sia “rustica e robusta”. “Quando l’Iran vende petrolio alla Cina o in India, il + sarebbe in linea con questa piattaforma in proporzione al fatturato,” ha detto il senatore centrista del Tarn (centrista Union), autore di un rapporto della Commissione Affari europei del Senato, dal titolo “L’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi: quali risposte dall’Unione europea?”.

1 / L’arma di extraterritorialità

Il predominio degli Stati Uniti sul mondo poggia su alcune leggi degli Stati Uniti le quali si applicano alle persone fisiche o giuridiche nei paesi terzi a causa dei legami a volte tenui con gli Stati Uniti (un pagamento in dollari, per esempio). È l’arma inarrestabile degli Stati Uniti per punire persone e società non americane. Le leggi si applicano in particolare a tutte le società che operano su mercati finanziari statunitensi regolamentati. Queste leggi riguardano essenzialmente tre aree: le sanzioni internazionali imposte, anche unilateralmente, dagli Stati Uniti; corruzione di funzionari pubblici all’estero; e, infine, l’applicazione della tassazione personale degli Stati Uniti ai cittadini statunitensi non residenti. Per Donald Trump l’applicazione della dottrina di extraterritorialità è una costante

2 / L’arma delle sanzioni economiche

Ieri, Cuba, Libia, Sudan, oggi, ancora Iran, Russia. Gli Stati Uniti attuano le sanzioni economiche e gli embarghi caso per caso. Ad esempio, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato la CAATSA (Controversia degli americani attraverso il Sanctions Act), per punire la Russia per “contrastare i nemici degli Stati Uniti attraverso le sanzioni”. Questa legge impone sanzioni economiche contro qualsiasi entità o paese che concluda contratti di armi con società russe. Gli Stati Uniti hanno anche ripristinato un embargo contro l’Iran a maggio e hanno esortato il resto del mondo a rispettarlo, oppure imporre sanzioni finanziarie a società americane e straniere che lo violerebbero. Donald Trump ha chiamato alla fine di settembre tutti i paesi del pianeta per isolare il regime iraniano, denunciando la “Dittatura corrotta” al potere secondo lui a Teheran.

E attenti a coloro che vogliono scivolare nelle fessure. L’Office of Foreign Assets Control (OFAC), un dipartimento del Tesoro che applica le sanzioni finanziarie internazionali statunitensi, impiega circa 200 persone e ha un budget di oltre $ 30 milioni. In particolare, l’UFAC monitora le transazioni finanziarie globali per rilevare movimenti sospetti. Tutte le transazioni effettuate dai canali ufficiali sono registrate e quindi controllabili quando vi sono mezzi di elaborazione di massa. Questo è ovviamente il caso degli Stati Uniti.

Nel 2014, BNP Paribas ha ricevuto una multa stratosferica di quasi $ 9 miliardi per aver violato le sanzioni internazionali statunitensi. In questo caso, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha sottolineato la dimensione della sicurezza nazionale, che è una delle giustificazioni tradizionali per l’extraterritorialità. All’inizio di settembre, Société Générale ha valutato le multe che dovrà pagare dopo aver effettuato transazioni in dollari coinvolgendo paesi soggetti a sanzioni statunitensi, tra cui l’Iran, a quasi 1,2 miliardi di euro.

Attualmente, Danske Bank, la più grande banca danese, ha annunciato all’inizio di ottobre di essere indagata dalle autorità statunitensi. La sua filiale estone, che è al centro dello scandalo, ha visto circa 200 miliardi di euro passare attraverso i conti di 15.000 clienti stranieri non residenti in Estonia tra il 2007 e il 2015. Le transazioni sono state fatte in dollari ed euro. Una gran parte di questi fondi è stata ritenuta sospetta, il che potrebbe portare l’ammontare di denaro sporco a diverse decine di miliardi di euro, principalmente dalla Russia.

3 / L’arma anticorruzione

Nessuna questione di giocare con la corruzione. Gli Stati Uniti stanno guardando. Ad esempio, la legge statunitense punisce la corruzione di funzionari pubblici all’estero. Questa lotta è incarnata nel 1977 dal Foreign Corrupt Practices Act (FCPA) e gli Stati Uniti hanno messo i mezzi in atto. Come tali, sono stati tra i principali sostenitori della Convenzione sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni commerciali internazionali, adottata nel quadro dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) nel 1997. Inoltre, la lotta alla corruzione è chiaramente considerata la seconda priorità dell’FBI, subito dopo l’antiterrorismo.

Il mancato rispetto di questa legislazione ha comportato sanzioni molto gravi per le società europee. È il caso di Alstom, che nel 2014 ha ricevuto una multa di 772 milioni di dollari per aver violato la legislazione anti-corruzione degli Stati Uniti. Siemens, che ha acquistato l’attività di trasporto di Alstom, è stata anche raggiunta nel 2008 dal sistema di giustizia americano (800 milioni), proprio come Total (398 milioni), Alcatel (137 milioni) e molti altri … Airbus è altrove nel crocevia della giustizia americana, che controlla le indagini del Serious Fraud Office britannico e l’ufficio del procuratore nazionale francese lanciato contro il produttore europeo.

4 / L’arma del protezionismo commerciale

Questo è uno dei maggiori rischi per il commercio globale, l’aumento delle misure protezionistiche. Nel 2017, il 20% di questi sono state emanate dagli Stati Uniti, che aumenta notevolmente il loro impatto sull’economia globale, AON ha affermato nella sua 21 ° edizione della mappatura internazionale dei rischi politici, il terrorismo e la violenza politica. “L’impatto di includere la decisione di Donald Trump è significativa in metallurgia e aerospaziale e potrebbe portare a misure di ritorsione, soprattutto dalla Cina , aveva stimato in aprile Jean-Baptiste Ory, Responsabile Rischi politici Polo Aon Francia.

Non si sbagliava. Dopo l’imposizione di reciproche tariffe punitive del 25% su 50 miliardi di merci quest’estate, Donald Trump ha imposto tariffe punitive sui beni cinesi per un valore di 250 miliardi di dollari all’anno all’inizio di settembre. Inoltre minaccia di incassare 267 miliardi di dollari in importazioni aggiuntive, quasi tutte le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti. Pechino aveva promesso di contrattaccare con l’imposizione di tariffe del 5 o del 10% su prodotti statunitensi del valore di $ 60 miliardi di importazioni annuali.

5 / L’arma CFIUS

Gli Stati Uniti erano già uno dei paesi in cui gli acquirenti stranieri dovevano mostrare le loro parti riservate per acquisire una società americana con tecnologie sensibili. Non era abbastanza per Donald Trump. Mercoledì l’amministrazione statunitense ha deciso di adottare ulteriori misure per bloccare l’industria degli investimenti stranieri. Le nuove regole, relative alla riforma della commissione per gli investimenti esteri (CFIUS) adottata quest’estate, richiederanno agli investitori stranieri di presentare alle autorità qualsiasi acquisizione – non solo acquisizione di imprese – in una società statunitense appartenente ad uno dei 27 settori chiave designati, tra cui aeronautica, telecomunicazioni, industria informatica, semiconduttori e batterie. Questa riforma è il primo aggiornamento delle regole CFIUS da oltre 10 anni. Tuttavia, l’amministrazione Trump preparerebbe altri regolamenti per i campi dell’intelligenza artificiale e delle infrastrutture.

Queste nuove regole entreranno in vigore il 10 novembre prima della realizzazione finale in 15 mesi. Ora si aspettano che qualsiasi investimento straniero in una delle industrie chiave venga rivisto e alla fine bloccato se rappresenti “una minaccia di erosione della superiorità tecnologica” , secondo un alto funzionario del Tesoro. Tre criteri motivano l’ispezione del CFIUS: se c’è partecipazione straniera, da qualunque parte provenga, anche di minoranza; se esiste un’assegnazione straniera di un seggio nel consiglio di amministrazione della società americana in questione e se l’investitore straniero può influenzare il processo decisionale all’interno di tale società tecnologica.

Nessun paese straniero è stato preso di mira in modo specifico, ma in passato il CFIUS, un organismo intergovernativo la cui amministrazione fiduciaria è il Tesoro, ha bloccato le acquisizioni da parte degli investitori cinesi. Huawei ha già dovuto abbandonare l’acquisizione di aziende di computer statunitensi 3 Leaf nel 2012 e 3 Com nel 2008. Nel 2016, secondo le ultime cifre, il CFIUS aveva esaminato 172 transazioni, che erano al momento dell’acquisizione, e ha avviato 79 indagini con un’unica decisione negativa.

6 / L’arma ITAR

Quattro lettere preoccupano l’industria della difesa: ITAR (International Traffic in Arms Rules). Perché? Se un sistema di armamenti contiene almeno una componente statunitense ai sensi delle normative ITAR statunitensi, gli Stati Uniti hanno il potere di vietare la loro vendita all’esportazione in un paese terzo. Tuttavia, molte società francesi ed europee integrano componenti americane tra cui elettronica, in molti materiali, in particolare nei settori dell’aeronautica e dello spazio. “La nostra dipendenza da componenti soggetti alle regole ITAR è un punto critico” , aveva riconosciuto nel maggio 2011 all’Assemblea nazionale il CEO di MBDA, Antoine Bouvier.

Recentemente, Washington ha posto il veto sull’industria degli armamenti francesi, vietando l’esportazione del missile da crociera Scalp della MBDA in Egitto e Qatar. Di conseguenza, questa decisione impedisce la vendita di ulteriori Rafale al Cairo. Questo è chiaramente un attacco alla sovranità della Francia. Questa non è la prima volta che gli Stati Uniti giocano con i nervi della Francia. Quindi, hanno esitato a lungo per utilizzare i regolamenti ITAR su un file francese in India. Alla fine non lo fecero. Nel 2013, avevano già rifiutato una richiesta di riesportazione negli Emirati Arabi Uniti di componenti “made in USA” necessario per la fabbricazione di due satelliti spia francesi (Airbus e Thales). La visita di François Hollande negli Stati Uniti nel febbraio 2014 ha risolto positivamente questo problema.

7 / L’arma del Cloud Act

Ora la legge Cloud (Overseas Chiarire Legale L’uso della legge sui dati) si applica a tutte le società sotto la giurisdizione degli Stati membri e che i dati di controllo, indipendentemente dal luogo in cui sono memorizzati, secondo l’avvocato Yann Padova . I principali cloud player statunitensi e le loro affiliate dovranno conformarsi. Proprio come faranno le altre compagnie del settore, anche europee, che operano sul territorio americano. Chiaramente, i dati memorizzati al di fuori degli Stati Uniti ma su server di proprietà di società statunitensi non possono più essere considerati sicuri. The Cloud Act offre agli Stati Uniti l’opportunità di accedere ai dati quando è ospitato dai fornitori di servizi cloud statunitensi, senza che gli utenti siano informati,

Fonte: The Tribune, Michel Cabirol , 

Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica. di Luigi Longo

Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica.

di Luigi Longo

 

 

[…] la Nato non è un’alleanza fra eguali. Essa pone

                                                           necessariamente gli alleati europei in posizione di

                                                           subalternità e li costringe ad allinearsi agli obiettivi

                                                           degli Stati Uniti. […] La storia degli ultimi dieci anni,

                                                           dalla guerra del Golfo a quella del Kosovo, dimostra che

                                                           la Nato non agisce e non agirà mai se non al servizio degli

                                                           obiettivi di Washington e niente altro. La Nato interverrà

                                                           solo se gli Stati Uniti lo decidono e non agirà se essi non lo

                                                           vogliono.

Samir Amin*

 

Lo spazio della resistenza è la matrice di ogni possibile

                                                           futuro cambiamento. Da esso possiamo aspettarci, pur

                                                           se non ancora a breve termine, anche una resistenza al

                                                           bombardamento etico ed all’interventismo umanitario,

                                                           che scommettono sull’idiozia e sull’ignoranza dell’uomo.

                                                           Ma l’uomo è un animale idiota ed ignorante, quando lo è,

                                                           solo a breve termine. A lungo termine l’uomo è un animale

                                                           reattivo e intelligente.

Costanzo Preve**

 

 

L’Europa e il progetto degli Stati Uniti d’America

 

Il declino dell’Europa inizia con la prima guerra mondiale e si consolida con la seconda guerra mondiale. Con le due guerre gli Stati Uniti si sono affermati come potenza mondiale egemone il cui inizio può essere datato con la guerra di secessione (1861-1865) che < […] era stata un fenomeno importantissimo sì, ma non solo americano. La sua portata mondiale nacque dal fatto che essa fu la prima guerra “industriale” dell’età contemporanea, il prodromo mal studiato e incompreso dei due conflitti mondiali in cui naufragò quel mondo di nazioni la cui comparsa aveva segnato l’inizio dell’età moderna.>> (1).

Avanzerò alcune riflessioni sulla fine dell’Unione Europea come espressione del progetto statunitense nella fase monocentrica e la metamorfosi della Nato come nuovo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica (2).

Si chiude una fase che è iniziata nel secondo dopoguerra con l’affermazione definitiva della potenza degli Stati Uniti come centro di coordinamento, prima nella << Grande Area >> comprendente l’emisfero occidentale, l’Estremo Oriente e l’ex impero britannico con le sue risorse energetiche mediorientali, e dopo, nel mondo intero, con la implosione del socialismo irrealizzato dell’URSS e del suo blocco (1990-1991, preceduta dalla caduta del muro di Berlino del 1989): << […] All’interno della Grande Area gli Stati Uniti avrebbero conservato un “potere incontrastato” e la “supremazia militare ed economica”, e avrebbero allo stesso tempo “limitato qualsiasi esercizio di sovranità” da parte degli Stati che potevano intralciare i loro piani >> (3).

L’attuale Europa è figlia del progetto ideato e attuato dagli agenti strategici statunitensi nella fase monocentrica << L’Unione Europea […] non sarebbe mai diventata tale se non fosse stata il progetto, pensato, finanziato e guidato segretamente dagli Stati Uniti, di uno Stato Federale europeo politicamente a loro legato, per non dire vassallo degli Usa, come è emerso da documenti alcuni venuti alla luce nel 1997, altri desecretati nel 2000 grazie a un ricercatore della Georgetown University di Washington, Joshua Paul. Un piano volutamente portato avanti sotto traccia e gradualmente dal dopoguerra a oggi […] >> (4).

Il progetto Europa statunitense è stato imposto sia con il consenso attraverso il Piano Marshall (1947-1948): << Il 5 giugno 1947, meno di tre mesi dopo il drammatico discorso con cui era stata enunciata la Dottrina Truman (del mondo libero sotto l’egida statunitense, mia precisazione), il segretario di stato George C. Marshall […] parlò della necessità di elaborare un nuovo piano di aiuti per l’Europa […] comitati americani ed europei occidentali formularono un piano (l’ERP) a carattere quadriennale, sotto la direzione degli Stati Uniti, che prevedeva una serie di sovvenzioni e di prestiti gestiti da un nuovo organismo del governo americano denominato Amministrazione per la Cooperazione Economica (ECA). Con l’inclusione della Germania occidentale, ma senza la partecipazione dell’Unione Sovietica e degli altri paesi dell’Europa orientale, e al di fuori della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Europa (ECE), l’ERP contribuì non poco a creare la violenta rottura del periodo della guerra fredda. Tale situazione si aggravò poi per la maniera provocatoria con cui gli Stati Uniti, ignorando l’ECE, delinearono e presentarono il Piano Marshall ma anche per l’intransigenza dell’URSS, che interpretò l’ERP come un’aggressiva iniziativa antisovietica. Secondo un commentatore, “con il Piano Marshall la guerra fredda assume il carattere di una guerra di posizione. Entrambe le parti si cristallizzarono su posizioni di ostilità reciproca”. Sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti cercarono reciprocamente di creare piani di ricostruzione per le loro sfere di influenze; il confronto sembrò istituzionalizzarsi con i Piani Marshall e Molotov >> (5); sia con la forza attraverso la NATO (1949) << Lo strumento principale al servizio della strategia di Washington è la Nato, il che spiega il suo sopravvivere al crollo dell’avversario contro il quale era stata creata. La Nato oggi parla in nome della “comunità internazionale”, esprimendo anche con questo il suo disprezzo per il principio democratico che governa questa comunità per mezzo dell’Onu. […] L’obiettivo ben confessato di questa strategia è di non tollerare l’esistenza di alcuna potenza capace di resistere ai comandi di Washington, e cercare quindi di smantellare tutti i paesi giudicati “troppo grandi” per creare il massimo numero di stati satelliti, prede facili per stabilire basi americane destinate alla loro “protezione”. Uno stato solo ha il diritto di essere “grande”: gli Stati Uniti […] >> (6).

 

 

 

La metamorfosi della Nato e il declino degli USA

 

Ho già accennato alla metamorfosi della Nato in precedenti scritti (7). Un cambiamento di ruolo che non è solo quello militare ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento dell’area di influenza in funzione del conflitto con le potenze mondiali emergenti (pensiamo, per esempio, alla guerra economica sulle fonti energetiche russe e sulle nuove vie della seta cinesi).

Qui voglio evidenziare soltanto il ruolo della Nato come strumento diretto di controllo per le nuove strategie statunitensi che la fase multicentrica impone, dell’Europa (8).

La Nato diventa una organizzazione che tiene insieme l’Europa, attraverso una centralizzazione della filiera del comando con una sfera decisiva militare e istituzionale-territoriale (9), per l’approntamento di opere infrastrutturali funzionali allargamento delle sfere di influenza e di contrasto alle due potenze mondiali protagoniste dell’attuale fase multicentrica (10). Inoltre gli Usa prediligono in maniera più strutturale i rapporti bilaterali con gli Stati europei (non dimentichiamo che l’Europa non è un soggetto politico) per realizzare a) le strategie del divide et impera, b) l’utilizzo delle basi militari presenti in tutta Europa soprattutto in Germania e in Italia, c) le linee guida dello sviluppo, degli Stati o di macro regioni, finalizzato alle esigenze delle proprie strategie. Una sorta di sistemi di valori territoriali (11) embedded nelle strategie statunitensi che mantengono l’unità europea con il controllo militare (le basi militari che occupano il continente Europa vorranno dire pure qualcosa!!!) ed economico (si pensi, per esempio, all’Italia e ai suoi territori e città Nato; alla spesa militare italiana integrata ed al servizio della politica militare Nato) (12).

Fabio Mini coglie parzialmente, nella misura in cui non dà il peso determinante egemonico agli Stati Uniti, la questione del rapporto Europa-Nato:<< […] Senza una vera e propria autonomia nella politica estera e di sicurezza l’Unione Europea ha dovuto affidarsi alla Nato che così ha potuto affiancare gli Stati Uniti nel loro intento d’impedire la nascita di una entità sovranazionale autonoma e indipendente. […] L’organizzazione politico-militare dell’Unione prevede una serie di duplicati di quella Nato che consentono soltanto equilibrismi, giochi di cappello e di ruolo. La stessa struttura di comando e controllo politico-militare è ridondante nel numero e inefficace nei risultati. La responsabilità di tutti i paesi membri e in particolare dell’Italia è grave non tanto per ciò che hanno combinato ma per ciò che non hanno fatto. Non hanno preteso la costituzione di un vero collante giuridico e politico fra i paesi membri, non hanno promosso la costituzione di un esercito comune, anzi tramite la politica industriale della difesa hanno incrementato la dipendenza dagli americani (corsivo mio). Non hanno resistito alle pressioni esterne e hanno permesso che l’Europa fosse di nuovo divisa in blocchi e che l’Unione Europea fosse divisa in fazioni. […] La Nato al servizio degli Stati Uniti dovrebbe essere un assetto importante. In realtà quello che conta per loro è la capacità della Nato di tenere sotto controllo tutti gli altri paesi, volenti o nolenti. Lo scopo principale della stessa alleanza è quello di mantenere la coesione dei membri. Nel momento in cui tale coesione scricchiola, l’alleanza non è più utile e le pressioni americane si spostano sui singoli Stati membri (corsivo mio). La stessa Nato diventa un tramite e una vittima consapevole e contenta di tali pressioni dirette ad aumentare i bilanci militari. Le pressioni sono esercitate anche con l’apertura di nuove missioni all’esterno o all’interno della stessa alleanza. Spesso crisi e salassi avvengono contemporaneamente e i paesi della Nato devono subirle mentre l’organizzazione della Nato, controllata dai neo-filoamericani dell’Europa orientale e settentrionale, si adopera per eliminare le eventuali e sempre deboli resistenze: un compito complementare e marginale che non conta molto nemmeno per gli stessi americani >> (13).

Sergio Romano, invece, non coglie il problema del rapporto Europa-Nato quando afferma, riprendendo la risposta di Donald Trump a Emmanuel Macron che parlava di sicurezza europea avanzando il disegno della Comunità Europea di Difesa (Sic!), << […] Ma l’organizzazione militare del Patto Atlantico, soprattutto all’epoca di Trump, non sembra essere in grado di dare una risposta convincente al problema della sicurezza europea. E’ stata usata dagli americani per guerre che si sono dimostrate sbagliate e ha avuto l’effetto, dopo la sua estensione al di là della vecchia cortina di ferro, di peggiorare i nostri rapporti con la Russia >> (14).

Il problema che non si vuole vedere per tante ragioni è che gli Usa comandano la Nato e attraverso di essa realizzano le loro strategie di conflitto strategico nell’attuale fase multicentrica. L’Europa è subordinata tramite la Nato agli Usa; pertanto, la questione da porre è: come uscire dalla sudditanza europea statunitense e quale progetto-processo di uscita dalla Nato per ri-costruire una Europa indipendente e autonoma che sappia dialogare con l’Oriente, la cui visione multicentrica delle potenze può bloccare la sciagurata fase policentrica che significa il conflitto militare (15).

Gli Usa non hanno una nuova visione del mondo per fermare il proprio declino, relativo o accentuato che sia, (16) e ri-lanciare la sfida egemonica della fase multicentrica, nè Donald Trump e i centri strategici che rappresenta sono nelle condizioni di costruire una nuova visione. Gli Usa sono una potenza in declino e non hanno la forza economica, scientifica, culturale e politica per rilanciare e costruire un nuovo modello di egemonia capace di sconfiggere le potenze mondiali che si stanno organizzando per mettere in discussione l’ordine monocentrico e affermare l’ordine mondiale multicentrico (17).

Nella fase multicentrica (a maggior ragione nella fase policentrica) la sfera militare assume un particolare peso nella formazione del blocco degli agenti strategici egemonici che delineano le linee del conflitto tra le potenze mondiali (è da approfondire la teoria, la pratica e la pratica teorica della relazione tra gli agenti strategici delle sfere sociali che configurano il blocco egemone strategico).

Nella presidenza Trump sta prevalendo la sfera militare (non è un caso la forte presenza politica di provenienza militare) che basa la sua strategia di contrasto al declino e di rilancio della egemonia solo sulla forza, avendo scelto, per la peculiare storia statunitense, la strada dell’accumulazione distruttiva (18).

 

 

Dal progetto UE della fase monocentrica al progetto Nato della fase multicentrica

 

La Nato diventa lo strumento di coordinamento dell’Europa per le strategie Usa nell’arginare le potenze mondiali della fase multicentrica, al contrario del recente passato dove era l’Unione Europea, con i suoi luoghi istituzionali e i suoi agenti strategici esecutori e gestionali, lo strumento di coordinamento.

Il progetto UE degli Usa, creato nel secondo dopoguerra, cessa la sua funzione e viene sostituito dal progetto Nato: dalla guerra di posizione della fase monocentrica alla guerra di movimento della fase multicentrica.

Con la fine del progetto UE finirà anche l’euro (19) che è un sistema monetario dipendente da quello basato sul dollaro (il denaro è un simbolo delle relazioni sociali e dei rapporti di forza nonché strumento di lotta tra dominanti): saranno i tempi delle strategie statunitensi a eliminare l’euro e le sue gerarchie di valori territoriali nazionali [si pensi al ruolo primario della Germania e a quello secondario della Francia (20)].

Una volta eliminato il sistema basato sull’euro, sostituito con quello basato sulla Nato, il vassallo tedesco e il valvassore francese dovranno trovare altri campi economico-finanziari per difendere il loro sviluppo nazionale in competizione con altre economie nazionali (valvassini); i predominanti statunitensi con il nuovo sistema monetario e le nuove architetture istituzionali (costruzione di nuove gerarchie) imporranno sia relazioni dirette con le nazioni europee, sia il loro coordinamento per la realizzazione delle loro strategie.

I valvassini liberati dal sistema dell’euro possono competere e valorizzare le loro qualità sociali e le loro peculiari risorse storiche e possono scardinare e comporre nuove gerarchie basate su nuovi sistemi territoriali di valore.

Per l’Italia e la Germania la situazione è particolare, come racconta Marco Della Luna << […] l’Italia è collocata, per ragioni storiche di sconfitte militari, in una posizione di sudditanza rispetto a certe potenze straniere e ai loro interessi (lo dimostra il fatto che, a 73 anni dalla II Guerra Mondiale, è ancora occupata da circa 130 basi militari statunitensi), cioè si trova in posizione subordinata entro la gerarchia degli Stati, e deve obbedire entro un foedus iniquum (patto di alleanza asimmetrico, mia precisazione), per dirla nel latino giuridico. Si sa che, per Italia e Germania, esistono in tal senso protocolli aggiunti al trattato di pace con gli Alleati, il cui contenuto non è pubblico, e che vengono fatti sottoscrivere ai capi del governo. I suoi presidenti della Repubblica e i predetti magistrati sono garanti di questa obbedienza agli interessi stranieri e non fanno altro che impedire che i governi vadano contro tale condizione di sottomissione esponendo il Paese a ritorsioni che sarebbero peggiori della sottomissione stessa. […] In ogni caso, bisogna anche fare un’opera di divulgazione-ufficializzazione dei trattati e dei protocolli riservati che vincolano e sottomettono l’Italia a comandi e interessi stranieri, altrimenti ogni ragionamento politico ed economico rimane minato dalla grande incognita costituita da tali obblighi, e di importanti atti politici contrari agli interessi nazionali rimarrà sempre il dubbio se siano stati compiuti per costrizione, per tradimento o per incompetenza. >> (21).

L’attuale Europa è finita. E’ stata ridotta ad una espressione geografica (22) a servizio delle strategie statunitensi e, per la prima volta nella sua storia, non sarà protagonista del conflitto tra le potenze mondiali che si formeranno nella fase multicentrica e in quella policentrica. Sarà, ahinoi, solo un campo di battaglia del conflitto mondiale.

All’interno di questo cambiamento europeo che resta, comunque, subordinato alle strategie dei pre-dominanti (gli agenti strategici principali) statunitensi, mancano dei decisori che vogliono attuare un processo di sviluppo nazionale autodeterminato, a partire dalla creazione di uno spazio della resistenza, capace di incunearsi nei giochi che si aprono nella fase multicentrica per proporre un progetto e una strategia di uscita dalla servitù volontaria verso gli USA e guardare a Oriente per le possibili costruzioni di nuove relazioni, di nuove idee di sviluppo, di nuove idee di società, di una Europa diversa (23). Purtroppo, ahinoi, questi decisori non si vedono in giro per l’Europa né si vedranno nel breve-medio periodo, considerata la situazione di degrado culturale, politico e sociale. I dominanti possono fare ancora sonni tranquilli.

Resta un problema storico da affrontare e riguarda i soggetti che si formano nelle varie fasi oggettive della storia nazionale, europea e mondiale. La domanda che si pone è: come i soggetti (sessuati) di trasformazione arrivano, sono pronti alle aperture delle finestre, delle crepe che le fasi multicentrica e policentrica necessariamente apriranno?

Oggi soffriamo la mancanza di una teoria adeguata che ci orienti nella pratica e nella pratica teorica per pensare un progetto-processo di autonomia e di autodeterminazione nazionale ed europeo. Siamo ridotti a scoprire, con le elezioni statunitensi, europee e nazionali (sic), l’esistenza di stati profondi (i luoghi istituzionali dove gli agenti strategici principali, esecutivi e gestionali realizzano il dominio) e a riscoprire l’illusione ideologica che con la vittoria elettorale, cioè la presa del potere non del dominio, gli obiettivi indicati (a prescindere dalle finalità reali, ripeto reali) nel programma elettorale minimamente squilibranti del sistema sono irrealizzabili.

Concludo riportando un interessante, a mio avviso, passo del Lenin interpretato da Gyorgy Lukacs << L’onnipotenza dominante della prassi è dunque realizzabile soltanto sulla base di una teoria orientata in senso onnicomprensivo. Ma la totalità oggettivamente dispiegata dell’essere è infinita, come Lenin sa bene, e quindi non può mai essere compresa adeguatamente. Così qui l’infinità della conoscenza e l’imperativo sempre attuale del giusto agire immediato sembrano dare origine a un circulus vitiosus. Ma ciò che non ha soluzione teorico-astratta, in pratica può essere tagliato come il nodo gordiano. L’unica spada adatta per farlo è ancora una volta un comportamento umano che anche qui possiamo opportunamente definire solo con parole shakespeariane: «L’essere pronti è tutto». Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai d’imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire. Da ciò derivava una qualità singolare, in apparenza paradossale, del suo atteggiamento teorico: non ritenne mai di avere finito d’imparare dalla realtà, ma in pari tempo la conoscenza così acquisita era in lui sempre così ordinata e orientata da permettergli di agire in qualsiasi momento.>> (24).

 

 

 

 

 

 

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

 

*Samir Amin, Fermare la Nato. Guerra nei Balcani e globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1999, pag.6.

**Costanzo Preve, Il bombardamento etico, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000, pag. 163.

 

 

NOTE

 

  1. Raimondo Luraghi, La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, BUR Rizzoli, 2013, pp.7-8.
  2. Sulla fase multicentrica si veda Gianfranco La Grassa, Crisi, multipolarismo e gruppi sociali in conflittiestrategie.it, 16/11/2018; Francisco La Manna, Intervista esclusiva a Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici,conflitto strategico in www.scenarieconomici.it, 21/11/2018.
  3. Noam Chomsky, Chi sono i padroni del mondo, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pag.59.
  4. A rilanciare questa narrazione, già oggetto nel 2000 di un breve articolo del Telegraph di un giovane Ambrose Evans-Pritchard, è stato soprattutto un libro inglese, divenuto un best seller, di Christopher Brooker, Richard North, The Great Deception. A Secret History of the European Union, Continuum International Publishing Group Ltd, 2003 in Maria Grazia Ardizzone, L’UE dalle origini al TTIP. Le operazioni segrete Usa per dar vita a uno Stato Federale Europeo in ariannaeditrice.it, 3 giugno 2016 (già riportato nel mio scritto del 2016 su La fase multipolare e l’accentramento dei poteri apparso sui blog Conflittiestrategie e Italiaeilmondo).
  5. Thomas G. Paterson, Il piano Marshall in Elena Aga Rossi, a cura di, Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, il Mulino, Bologna, 1984, pag. 222; si veda anche Giovanni Arrighi, Il lungo xx secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996, pp.385-387 e David Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Feltrinelli, Milano, 2014, pp.150-166. Giovanni Arrighi e David Harvey hanno proposto nelle loro ricerche, con saperi diversi, un paradigma sociale territoriale fondato sul potere territoriale e l’accumulazione del capitale. Il paradigma, a mio modo di vedere, ha un orientamento economico-sociale-territoriale e non afferra la totalità del rapporto sociale perché fondamentalmente tiene separato il potere territoriale (lo Stato) e l’accumulazione del capitale. Credo che la questione possa essere interessante con un confronto con il paradigma del conflitto strategico lagrassiano che può superare questa separazione, caratteristica di tutte le teorie economiche e sociali, con la costruzione di un diverso paradigma multidisciplinare.
  6. Samir Amin, Fermare la Nato. Guerra nei Balcani e globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1999, pp. 32-33. Per una ricostruzione storica della nascita della Nato si rimanda, con una lettura critica, a Marco Clementi, La Nato, il Mulino, Bologna, 2002.
  7. Luigi Longo, Tav, Corridoio V, Nato e Usa. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico; americanizzazione del territorio; gli Stati Uniti e lo spettro della Russia; le infrastrutture militari nella fase multicentrica. I primi due scritti sono stati pubblicati sui siti conflittiestrategie.it e www.italiaeilmondo.com; gli altri due sul sito www.italiaeilmondo.com.
  8. Manlio Dinucci, La Nato espandibile e sempre più costosa si allarga sull’Europa in ilmanifesto.it, 11/7/2018.
  9. Luigi Longo, La fase multipolare e l’accentramento dei poteri in conflittiestrategie.it, 13/6/2016.
  10. La Cina, e non la Russia, potrebbe essere la potenza mondiale che nel lungo periodo sarà in grado di contendere la egemonia mondiale agli Usa perché a) ha la capacità di sviluppare tutti i settori decisivi di una potenza egemonica (politico, economico, scientifico – tecnologico e culturale), b) svolge un ruolo fondamentale nella creazione di nuove istituzioni internazionali di coordinamento [ la Asian Infrastructure Bank (AIIB), la Shangai Cooperation Organition, il Brics, il Silk Road Fund e la Belt and Road Iniziative (BRI) ] c) instaura diverse forme di relazioni internazionali che non sono nè la forma coloniale né la forma neocoloniale, ma sono relazioni di integrazione, di innervamento che danno ampi strumenti e possibilità di sviluppo, per dirla con David Harvey, per una costruzione di valore territoriale. Si veda, Nicola Tanno, intervista a Diego Angelo Bertozzi sulla Belt and Road Iniziative in materialismostorico.blogspot.com, 11/07/2018; Vladimiro Giacchè, La UE e la BRI: un rapporto complicato in www.marx21.it, 2/11/2018.
  11. Sul significato dei valori territoriali si rimanda a David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano, 2018, pp.131-172.
  12. Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, in millennium.org, 29/01/2014; sull’importanza della Nato si rimanda, con una lettura critica, a Eric R. Terzuolo, Perché alla Nato non rinunceremo mai in Limes n.4/2018, pp.51-58; sul ruolo sempre marginale dell’Europa si consiglia Manlio Dinucci, Usa e Nato soppiantano la UE in crisi in www.retevoltairenet.org, 3/7/2018; sull’integrazione dei sistemi militari industriali degli Stati europei con quello statunitense si suggerisce Manlio Dinucci, Il potere politico delle armi in www.voltairenet.org, 2/10/2018 e Gianandrea Gaiani, Missioni, Finanze, Industria: le ambiguità (a)strategiche della difesa italiana in Limes n.5/2018, pp.89-97.
  13. Fabio Mini, Siamo servi di serie B e non serviamo a niente in Limes5/2018, pp.75-87.
  14. Sergio Romano, Macron e l’esercito europeo, la chance di correggere De Gaulle in corriere.it, 17/11/2018.
  15. Si veda la imbarazzante (per la servitù intellettuale e politica espressa in difesa di questa Europa ancorata agli Stati Uniti) e apologetica lettera aperta di sei pensatori tedeschi Siamo seriamente preoccupati della crisi dell’Europa e della Germania per il riaffacciarsi della brutta testa del nazionalismo (I primi firmatari: Hans Eichel ex ministro delle finanze, Jürgen Habermas filosofo e sociologo, Roland Koch ex premier statale dell’Assia, Friedrich Merz avvocato e politico della CDU, Bert Rürup è l’economista capo di Handelsblatt, Brigitte Zypries è un ex ministro della giustizia e ministro dell’economia) in https://global.handelsblatt.com/opinion/europe-unity-future-habermas-koch-merz-zypries-975335?fbclid=IwAR1EIvJGxWOgdIg9HwKpiNZxZ6UR, 25/10/2018; sulla stessa scia Massimo Cacciari ed altri si veda Marco Damilano, Ora il PD si sciolga per far nascere la nuova Europa. L’appello di Massimo Cacciari in l’Espresso del 9/11/2018; sulla considerazione di una Europa occupata dalle basi Usa-Nato e il recupero della tradizione di territori europei con una pluralità di valori finalizzati alla costruzione di una coscienza e di una costituzione europea si pone in maniera problematica Franco Cardini, Europeisti traditi: perché questa Europa ha deluso in byoblu.com, video del 5/11/2018.
  16. Sul declino Usa rimando a Noam Chomsky, Chi sono i Padroni del mondo, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pp.74-105; Gianfranco La Grassa, Un sommario excursus storico per capire, conflittiestrategie.it, video del 11/11/2018.
  17. Sulla incapacità statunitense di una nuova visione del mondo come conseguenza della fine di una idea di sviluppo della modernità rinvio a Aleksandr Dugin, L’Occidente e la sua sfida (I e II parte) in ariannaeditrice.it, 18/10/2018; sulla mancanza di una ferma determinazione politica, propria della dottrina di Monroe del 1823, dovuta alla divisione tra gli agenti strategici statunitensi si veda Nico Perrone, Progetto di un impero 1823.L’annuncio dell’egemonia americana infiamma le borse, La Città del Sole, 2013, Napoli; sui limiti della politica estera degli USA collegati al vecchio retaggio da guerra fredda, sulle difficoltà di impostare una politica estera adatta alla nuova fase multipolare che si sta delineando e sulle lacune nonché sui conflitti decisionali basati su vecchi schemi cognitivi e su un modello decisionale istituzionale che esalta l’esecutivo, la natura elitaria, la lotta interistituzionale, i “groupthink”, si rimanda all’interessante articolo di Giulia Micheletti, Le origini interne della strategia geopolitica statunitense, 03/03/2014, www.eurasia-rivista.org.
  18. E’ emblematica la risposta degli agenti strategici statunitensi (a prescindere dal loro insanabile conflitto interno) alla << […] proposta cinese di razionalizzare e potenziare Transiberiana e Suez in forma cooperativa [che] è finora la maggiore iniziativa finanziaria e infrastrutturale del XXI secolo e inverte la direzione secolare delle influenze. La leadership americana sembra aver finora replicato alla cieca, con interventi inefficaci e controproducenti di guerra ibrida, cinetica o economica lungo la Loc terrestre (Intermarium, Mena, Asia centrale, Corea) e marittima (il Mar Cinese Meridionale e i due passaggi artici) che minano la coesione occidentale e spingono tutte le potenze eurasiatiche emergenti (che sentono di aver il futuro dalla loro) verso una pericolosa coalizione di necessità contro il vecchio ordine che si ostina ottusamente a respingerli >> in Virgilio Ilari, L’Italia è un’espressione geografica. Capiamola in Limes4/2018, pag.152.
  19. Luigi Longo, L’uscita dall’euro non è un problema prioritario. Prioritaria e la sovranità nazionale ed europea in conflittiestrategie.it, 16/1/2015.
  20. Marco Della Luna, Deficit di bilancio e deficit di efficienza in marcodellaluna.info, 30/9/2018.
  21. Marco Della Luna, L’Italia e il nemico carolingio in marcodellaluna.info, 28/10/2018; Sulla questione di uscita dalla Nato e sul ruolo dei Trattati si veda anche Fabio Mini, Siamo servi di serie B…, op.cit.; Fabio Mini, USA-Italia, comunicazione di servizio in Limes n.4/2017.
  22. Per un significato storico del concetto di espressione geografica si invia all’interessante articolo di Virgilio Ilari, L’Italia…, op. cit., pp. 149-154.
  23. Costanzo Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2009, pp.101-115; Samir Amin, Fermare la Nato…, op.cit., pp.64-75.
  24. Gyorgy Lukacs, Unità e coerenza del suo pensiero. Postilla all’edizione italiana 1967 in www.gyorgylukacs.wordpress.com, 27/10/2018. Originariamente apparso in italiano in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi, Torino 1970, ora in L’uomo e la rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.

 

 

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