Semiconduttori: la ricerca della sovranità (3/5)

I semiconduttori rappresentano la principale sfida tecnologica per gli anni a venire. Sono essenziali per lo sviluppo della tecnologia e dell’industria digitali, e quindi dell’economia. La Cina è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Taiwan. La conquista del mercato dei semiconduttori è quindi una sfida importante per la sovranità dei paesi. 

 

Conflits nella traduzione di un articolo di Dan Wang originariamente pubblicato sul sito di Gavekal

 

3. Successi e insuccessi

 

La grande domanda, ovviamente, è quali saranno i risultati di questo gigantesco sforzo di politica industriale. Una conseguenza evidente è la massiccia espansione della capacità di produzione di chip, che è triplicata tra il 2012 e il 2020. Secondo varie stime, la quota della Cina della capacità di produzione globale di semiconduttori è compresa tra il 15% e il 22%. (La stima più alta include la capacità di chip di fascia molto bassa prodotti da wafer di otto pollici o meno, che la Cina ha in grandi quantità. Le fabbriche moderne lavorano tipicamente con wafer di 300 mm). Le società nazionali controllano più della metà di questa capacità.

 

Il modo in cui questo si traduce in termini di vendite (in volume o in valore) è molto meno chiaro, poiché i produttori di chip tradizionali cinesi sono presenti principalmente nei segmenti di fascia bassa e nuovi entranti stanno appena iniziando ad emergere. Secondo la società di ricerche di mercato IC Insights, le società di circuiti integrati con sede in Cina hanno registrato vendite per 8,3 miliardi di dollari nel 2020, pari al 6% del mercato interno e meno del 2% del mercato globale. Nella maggior parte delle categorie, l’autonomia rimane un sogno lontano e le società tecnologiche cinesi sono ancora vulnerabili alle restrizioni tecnologiche statunitensi.

Da leggere anche:  Pericolo su Taiwan

A livello di segmento, ci sono alcuni punti positivi. A parte un’abilità ormai consolidata nel segmento ATP di basso valore, l’industria cinese della progettazione di chip è dinamica. I brief – l’obiettivo principale degli investimenti del National IC Fund – hanno appena iniziato a prendere slancio e almeno due società cinesi potrebbero entrare a far parte dei ranghi dei produttori di livello mondiale nei prossimi anni. Le fonderie logiche (anche beneficiarie della generosità del Fondo IC) sono più difficili. Non ci sono prove che la Cina possa colmare il divario tecnologico tra essa ei leader del settore, e il campione nazionale del salario minimo è ora ostacolato dalle sanzioni del governo degli Stati Uniti.

 

Design

 

Dopo un avvio secco meno di vent’anni fa, le società cinesi di progettazione di chip hanno compiuto progressi impressionanti. Rappresentano circa il 15% del mercato globale per le società di progettazione di circuiti integrati (senza fabbrica). Nell’intero universo di progettazione di chip, che include anche produttori integrati come Intel che progettano e producono chip, nonché società di prodotti finali che hanno team di progettazione interni, la Cina ha una quota di circa il 5%.

Leggi anche:  Taiwan: la piattaforma dei semiconduttori

Le società di design cinesi lavorano principalmente nelle aree delle comunicazioni mobili, dell’elettronica di consumo e dell’inferenza AI. Le aziende favolose, tra cui Cambricon e Horizon Robotics, si sono ritagliate una nicchia per i chip ottimizzati per le applicazioni di intelligenza artificiale. Come negli Stati Uniti, gran parte dell’azione è nelle aziende industriali o di consumo che hanno iniziato a progettare chip per i propri prodotti. Alibaba, il produttore di veicoli elettrici BYD e la società di elettrodomestici Gree sono tutti entrati in questo gioco.

 

Il gigante del design cinese è HiSilicon, una sussidiaria di Huawei che progetta chip per telefoni cellulari e server, nello stesso modo in cui Apple progetta processori per i propri telefoni. HiSilicon è l’unica azienda cinese che è riuscita a entrare nelle prime 10 società di semiconduttori per fatturato, ma solo per pochi mesi nel 2020, quando le vendite di telefoni Huawei hanno raggiunto il picco.

 

La progettazione di circuiti integrati è sicuramente un’area in crescita, ma le aziende cinesi partono da una base debole. Si basano principalmente sulla proprietà intellettuale di base di ARM, una società britannica e giapponese. E si concentrano principalmente su nicchie che le grandi aziende come Intel, AMD e Nvidia hanno ignorato. Quando si tratta di chip di fascia alta che alimentano la maggior parte dei computer e dei sistemi elettronici avanzati, le aziende cinesi si trovano in una posizione trascurabile.

Leggi anche:  Cina, India, Giappone: colossi della produzione e dell’importazione

Produzione: memoria

 

L’industria cinese dei chip di memoria sta iniziando a decollare, in gran parte grazie al massiccio sostegno del governo per la costruzione di fabbriche. I due tipi principali di memoria sono la memoria volatile DRAM, per l’elaborazione dei dati in tempo reale, e la memoria non volatile NAND, per l’archiviazione a lungo termine. La DRAM è fortemente consolidata, con solo tre attori principali: Samsung, SK Hynix e Micron. Il mercato NAND è più frammentato. È più facile entrare nel settore della memoria rispetto al settore dei chip logici o della fonderia: le barriere all’ingresso sono più basse e la necessità di volumi elevati e cicli di produzione veloci favorisce i cinesi.

 

Il leader del mercato NAND cinese è Yangtze Memory Technologies Co., fondata a Wuhan nel 2016 con 24 miliardi di dollari di finanziamenti dal National Integrated Circuit Fund, dal governo provinciale di Hubei e dalla holding Tsinghua Unigroup, che ha agito come una sorta di agente principale per il politica industriale del governo sui circuiti integrati. YMTC produce piccoli volumi di chip NAND da tre anni. Afferma di avere prodotti che sono quasi competitivi con quelli di Samsung e, sebbene l’industria sia scettica al riguardo, c’è un ampio consenso sul fatto che YMTC sia un attore credibile.

 

Il campione cinese di DRAM è Changxin Memory Technologies,con sede a Hefei, di cui si sa meno. È stata fondata nel 2016 come uno dei tre produttori di DRAM sostenuti dallo stato, uno dei quali (Fujian Jinhua) è già stato disattivato dalle sanzioni statunitensi. CXMT ha acquisito la sua tecnologia concedendo in licenza i brevetti a Qimonda, un produttore tedesco di DRAM in bancarotta. Secondo la società di ricerche di mercato TrendForce, CXMT e YMTC avevano entrambe una quota di mercato di circa il 3% nei loro segmenti nel quarto trimestre del 2020. Le due società hanno assunto un gran numero di ingegneri coreani, che costituiscono il principale talento globale nel campo di chip di memoria. La maggior parte degli operatori del settore oggi si aspetta che YMTC diventi uno dei principali attori globali entro tre o cinque anni. CXMT potrebbe anche avere successo, ma come giovane azienda,

Da leggere anche:  Cina, unica rivale mondiale degli Stati Uniti?

Produzione: fonderie

 

La posizione della Cina nelle fonderie è più debole. Il leader è SMIC, con sede a Shanghai, seguito da Hua Hong Semiconductor, un’altra società di Shanghai. SMIC può produrre chip in un nodo di processo a 14 nanometri. (Il nodo di processo è un indice del livello tecnologico: più piccolo è il numero, più avanzato è il processo. Questi nodi non si riferiscono più alla dimensione dei circuiti, sono definiti in modo un po ‘soggettivo e servono principalmente come regole di marketing.) . SMIC è quindi in ritardo di circa cinque anni rispetto al leader di mercato, TSMC, che ha prodotto in modalità 14 nm nel 2016.

 

Essere indietro di cinque anni potrebbe non sembrare così male, ma SMIC è rimasta indietro di cinque anni rispetto a TSMC dalla sua fondazione, vent’anni fa, e ha costantemente registrato ricavi pari a circa un decimo di quelli di TSMC. È essenzialmente un’impresa statale mal gestita, con problemi di tecnologia e risorse umane persistenti, ma è riuscita a mantenere una nicchia stabile. Con un fatturato di 3,9 miliardi di dollari, si colloca al quinto posto dietro TSMC (46 miliardi di dollari), UMC, Samsung e GlobalFoundries; Samsung è cresciuta molto più velocemente negli ultimi cinque anni. SMIC non è in grado di gestire i chip più sofisticati progettati da aziende cinesi come HiSilicon e, dal 2010,

 

Attrezzature e materiali

 

Per avvicinarsi all’autonomia dei semiconduttori, la Cina dovrà trovare un modo per produrre le apparecchiature e i materiali necessari per realizzare i chip. Questo cestino include il software EDA necessario per progettare i chip, l’attrezzatura specializzata che esegue le fasi di deposizione, litografia, incisione, impianto ionico e controllo del processo che trasformano un wafer di silicio in chip utilizzabili, oltre a prodotti chimici speciali, gas e altri materiali utilizzato in diverse fasi del processo.

Leggi anche:  Cina / Stati Uniti: sii il primo

Le barriere all’ingresso in tutti questi segmenti sono elevate e la concentrazione del mercato è estrema. L’EDA è completamente controllata da tre società americane: questo software deve essere perfetto simulatore della fisica dei semiconduttori, altrimenti il ​​prodotto fabbricato non assomiglierà ai progetti. I beni capitali che consentono di incidere i chip sui wafer sono appannaggio di poche aziende, le più importanti delle quali sono Lam Research, Applied Materials e KLA-Tencor negli Stati Uniti, ASML nei Paesi Bassi e Tokyo Electron negli Stati Uniti Giappone. La macchina più avanzata di ASML è uno strumento di litografia ultravioletta estrema da $ 200 milioni, che proietta i laser su goccioline di stagno fuso per creare un plasma che rilascia luce di lunghezza d’onda straordinariamente corta, l’intero processo è controllato da un software personalizzato. I prodotti chimici e i materiali sono prodotti da un piccolo gruppo di aziende altamente specializzate, molte delle quali in Giappone. Le aziende cinesi occupano minuscole nicchie nel software, nelle apparecchiature e nei materiali, rappresentando l’1-5% del mercato globale, ma sono quasi esclusivamente nella fascia bassa e non vi sono ancora indicazioni di un serio sforzo per recuperare. molti di loro in Giappone. Le aziende cinesi occupano minuscole nicchie nel software, nelle apparecchiature e nei materiali, rappresentando l’1-5% del mercato globale, ma sono quasi esclusivamente nella fascia bassa e non vi sono ancora indicazioni di un serio sforzo per recuperare. molti di loro in Giappone. Le aziende cinesi occupano minuscole nicchie nel software, nell’hardware e nei materiali, rappresentando l’1-5% del mercato globale, ma sono quasi esclusivamente nella fascia bassa e non vi sono ancora indicazioni di un serio sforzo per recuperare.

 

Lezioni di scacchi

 

Finora la campagna cinese sui semiconduttori ha prodotto grandi successi (in particolare HiSilicon) e fallimenti più interessanti. Le battute d’arresto sono un utile promemoria che anche in Cina l’ambizione tecnologica alimentata da grandi somme di denaro non garantisce risultati.

 

Il fallimento più spettacolare è quello della Wuhan Hongxin Semiconductor Manufacturing Co., che era essenzialmente una frode sostenuta da sussidi. Nonostante la sua mancanza di esperienza nel settore, il fondatore ha attirato quasi $ 20 miliardi di investimenti ed è riuscito ad assumere un ex dirigente senior di TSMC, che si è dimesso nel giugno 2020 dopo aver denunciato il tempo che era passato come un “incubo”. Un altro spettacolare fallimento è stato quello di Fujian Jinhua, un corteggiatore DRAM che è stato oggetto di un procedimento penale statunitense dopo aver presumibilmente dirottato segreti commerciali dalla società statunitense Micron. Gli Stati Uniti hanno imposto controlli sulle esportazioni che hanno privato l’azienda di strumenti di produzione da fornitori americani e ASML, e Fujian Jinhua hanno sospeso le operazioni nel 2018. Le joint venture lanciate da TowerJazz, GlobalFoundries e Qualcomm a Nanchino, Chengdu e Guizhou hanno tutte dichiarato bancarotta. Tsinghua Unigroup, una holding sostenuta dallo stato che ha partecipazioni in YMTC e altre importanti società di chip, è inadempiente su alcune delle sue obbligazioni, sebbene le operazioni delle sue sussidiarie non sembrino essere influenzate.

 

Questi fallimenti illustrano diversi ostacoli alle ambizioni dei semiconduttori della Cina. Il crollo di Hongxin mostra il rischio di programmi di sovvenzione pesantemente finanziati ma scarsamente regolamentati. Dopo la debacle, la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma ha annunciato che avrebbe rafforzato la supervisione e un portavoce dell’NDRC ha detto che troppi progetti sono stati avviati da “intrusi non qualificati”. Il caso Fujian Jinhua rivela la difficoltà di ottenere o sviluppare proprietà intellettuale competitiva su scala globale, nonché la vulnerabilità delle aziende cinesi alle sanzioni statunitensi.

Leggi anche:  Ciclope: previsioni dei mercati mondiali

I fallimenti che non implicano la criminalità mettono in luce problemi strutturali più prosaici. Innanzitutto, la fabbricazione dei trucioli è complessa. La creazione di un circuito integrato richiede circa 700 passaggi. Se la percentuale di successo è del 99,9% in ogni passaggio, sarà utilizzabile solo la metà del prodotto finale. In secondo luogo, la Cina è in ritardo: ha iniziato a interessarsi seriamente ai semiconduttori solo alla fine degli anni ’90, quando potenti operatori storici erano già presenti in molti segmenti. Le aziende cinesi devono affrontare una sfida enorme per raggiungere la frontiera tecnologica, per non parlare di portarla avanti. E la natura frammentata del sostegno statale crea una struttura industriale inefficiente. In altri paesi, le industrie nascenti nel settore della tecnologia dell’informazione sono state avviate in cluster ristretti come la Silicon Valley o il parco scientifico Hsinchu di Taiwan. In Cina le start-up sono sparse in tutto il Paese grazie agli incentivi dei governi locali. Infine, per decenni, gli Stati Uniti hanno mantenuto una politica di controllo delle esportazioni informale (e non sempre coerente) al fine di mantenere le aziende cinesi indietro di due generazioni sulle tecnologie avanzate.

 

I principali problemi della Cina sono le spese e il personale. Per quanto enorme possa sembrare il sostegno finanziario della Cina per la sua industria dei circuiti integrati, potrebbe non essere sufficiente. Costruire fabbriche è una cosa, spendere soldi anno dopo anno in ricerca e sviluppo, miglioramento dei processi e nuove attrezzature necessarie per aumentare la produttività e le prestazioni e ridurre il costo dei chip finiti è un’altra. Ogni anno, le aziende cinesi di semiconduttori vengono brutalmente superate dai leader del settore. Le società cinesi produttrici di chip rappresentano meno del 5% della R&S del settore privato globale in questo settore. Il totale dei fondi raccolti dal National IC Fund in cinque anni equivale a un anno del budget di investimento combinato di Samsung e TSMC. TSMC prevede ora di spendere 100 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per espandere la propria posizione dominante nel settore manifatturiero e il nuovo CEO di Intel ha annunciato investimenti per 20 miliardi di dollari in nuovi stabilimenti. A causa dei costi, è difficile per la Cina raggiungere la frontiera tecnologica, per non parlare di portarla avanti.

Leggi anche:  Cina: ripresa economica e minore dipendenza dalla tecnologia americana

Anche con finanziamenti abbondanti, le aziende cinesi produttrici di chip sarebbero ancora a corto di talenti. A causa della loro inesperienza nella produzione, i loro ingegneri non hanno la stessa conoscenza dei processi delle loro controparti estere. Gran parte della conoscenza richiesta per creare elenchi puntati non è incorporata negli strumenti e non può essere acquisita in istruzioni esplicite. Il Ministero dell’Industria e dell’Information Technology stima che l’industria cinese dei chip stia affrontando una carenza di 320.000 ingegneri e che le università cinesi formino solo circa 30.000 ingegneri qualificati all’anno. La carenza di dirigenti senior che sanno come gestire aziende di chip di successo è ancora più acuta. Una delle soluzioni è cacciare ingegneri e dirigenti di aziende leader di Taiwan e della Corea del Sud, attirandoli con enormi stipendi e grandi prospettive di crescita. Ci sono stati acquirenti, ma secondo una società di reclutamento di Taipei, solo un migliaio di ingegneri senior taiwanesi hanno lasciato la terraferma dal 2014 e molti sono tornati a Taiwan dopo un breve periodo. Il processo di formazione di un pool di talenti nazionale sarà lungo. e molti sono tornati a Taiwan dopo poco tempo. Il processo di formazione di un pool di talenti nazionale sarà lungo. e molti sono tornati a Taiwan dopo poco tempo. Il processo di formazione di un pool di talenti nazionale sarà lungo.

Rumor di sciabole, di Giuseppe Germinario

Il 29 aprile scorso abbiamo pubblicato una lettera appello di militari francesi in pensione, sottoscritta ormai da centinaia di migliaia di cittadini francesi, gran parte dei quali militari: http://italiaeilmondo.com/2021/04/29/lettera-al-presidente-lettre-au-president_di-e-a-cura-di-giuseppe-germinario/ .

Il 13 maggio, nel corso della consueta conversazione con GC, abbiamo pubblicato in lingua un appello di venti alti ufficiali americani in pensione (ammiragli e generali), sottoscritto inizialmente dal oltre cento graduati. http://italiaeilmondo.com/2021/05/13/stati-uniti-aggrappati-al-potere-lontani-dalla-realta_con-gianfranco-campa/

https://thefederalist.com/2021/05/10/more-than-120-retired-flag-officers-call-on-americans-to-save-america-our-constitutional-republic-and-hold-those-currently-in-office-accountable/?utm_campaign=ACTENGAGE.

L’11 maggio è apparsa, sul settimanale “Valeurs Acctuelles”, un secondo appello questa volta sottoscritto da militari cadetti francesi  https://www.valeursactuelles.com/societe/exclusif-signez-la-nouvelle-tribune-des-militaires 

Qui sotto la traduzione dei due ultimi documenti e alcune considerazioni:

 I francesi.

 Signor Presidente della Repubblica,
Signore e Signori, Ministri, Membri del Parlamento, Ufficiali Generali, nei vostri ranghi e qualità,

Non cantiamo più la settima strofa della marsigliese, conosciuta come la “strofa dei bambini”. Eppure è ricco di lezioni. Lasciamo che sia lui a prodigarli su di noi:

 

“Entreremo in carriera quando i nostri anziani non saranno più lì. Là troveremo la loro polvere e le tracce delle loro virtù. Molto meno gelosi di sopravvivere loro che di condividere la loro sepoltura, avremo il sublime orgoglio di vendicarli o di seguirli “

I nostri anziani sono combattenti che meritano di essere rispettati. Questi sono ad esempio i vecchi soldati di cui avete calpestato l’onore nelle ultime settimane. Sono queste migliaia di servi della Francia, firmatari di una piattaforma di buon senso, soldati che hanno dato i loro anni migliori per difendere la nostra libertà, obbedendo ai tuoi ordini, per intraprendere le tue guerre o per attuare le tue restrizioni di bilancio, che hai sporcato mentre il popolo della Francia li ha sostenuti.
Queste persone che hanno combattuto contro tutti i nemici della Francia, le hai trattate come faziose quando la loro unica colpa è amare il loro paese e piangere la sua caduta così evidente.

In queste condizioni spetta a noi, da poco entrati in carriera, entrare nell’arena semplicemente per avere l’onore di dire la verità.

Veniamo da quella che i giornali hanno chiamato “la generazione del fuoco”. Uomini e donne, soldati attivi, di tutti gli eserciti e di tutti i ranghi, di tutte le sensibilità, amiamo il nostro Paese. Queste sono le nostre uniche pretese di fama. E se non possiamo, per legge, esprimerci a faccia scoperta, è altrettanto impossibile per noi tacere.

Afghanistan, Mali, Repubblica Centrafricana o altrove, molti di noi hanno subito il fuoco nemico. Alcuni hanno lasciato compagni lì. Hanno offerto la loro pelle per distruggere l’islamismo a cui stai facendo concessioni sul nostro suolo.

Quasi tutti noi abbiamo conosciuto l’operazione Sentinel. Abbiamo visto con i nostri occhi le periferie abbandonate, gli accomodamenti con la delinquenza. Abbiamo subito i tentativi di strumentalizzazione di diverse comunità religiose, per le quali la Francia non significa nulla, nient’altro che un oggetto di sarcasmo, disprezzo o persino odio.

Abbiamo marciato il 14 luglio. E questa folla benevola e diversificata, che ci ha acclamato perché ne siamo l’emanazione, ci è stato chiesto di guardarla per mesi, vietandoci di circolare in divisa, rendendoci potenziali vittime, su un terreno che siamo comunque capaci di difendere.

Sì, i nostri anziani hanno ragione sulla sostanza del loro testo, nella sua interezza. Vediamo la violenza nelle nostre città e nei nostri villaggi. Vediamo il comunitarismo prendere piede nello spazio pubblico, nel dibattito pubblico. Vediamo l’odio per la Francia e la sua storia diventare la norma.

Sosterrete che potrebbe non essere compito dei militari dirlo. Al contrario: poiché siamo apolitici nelle nostre valutazioni della situazione, è un’osservazione professionale che forniamo. Perché questo declino lo abbiamo visto in molti paesi in crisi. Precede il crollo. Annuncia caos e violenza e, contrariamente a quanto voi affermate qua e là, questo caos e questa violenza non verranno da un “pronunciamento militare” ma da un’insurrezione civile.

Per cavillare sulla forma del forum dei nostri anziani invece di riconoscere l’ovvietà delle loro scoperte, dobbiamo essere piuttosto codardi. Per invocare un dovere di riservatezza mal interpretato al fine di mettere a tacere i cittadini francesi, bisogna essere molto ingannevoli. Per incoraggiare i principali ufficiali dell’esercito a prendere posizione ed esporsi, prima di sanzionarli ferocemente non appena scrivono qualcosa di diverso dalle storie di battaglia, devi essere molto perverso.

Codardia, inganno, perversione: questa non è la nostra visione della gerarchia.
Al contrario, l’esercito è, per eccellenza, il luogo in cui ci parliamo sinceramente perché impegniamo la nostra vita. È questa fiducia nell’istituzione militare che chiediamo.

Sì, se scoppia una guerra civile, l’esercito manterrà l’ordine sul proprio territorio, perché gli verrà chiesto. È anche la definizione di guerra civile. Nessuno può desiderare una situazione così terribile, i nostri anziani non più di noi, ma sì, ancora una volta, la guerra civile si sta preparando in Francia e lo sapete perfettamente.

Il grido di allarme dei nostri Anziani si riferisce infine a echi più lontani. I nostri anziani sono i combattenti della resistenza del 1940, che persone come te molto spesso trattavano come faziosi, e che continuarono la lotta mentre i legalisti, paralizzati dalla paura, scommettevano già sulle concessioni con il male per limitare i danni. Questi sono i pelosi 14, morti per pochi metri di terra, mentre si abbandonano, senza reagire, intere contrade del nostro paese alla legge del più forte; sono tutti morti, famosi o anonimi, caduti al fronte o dopo una vita di servizio.

Tutti i nostri anziani, coloro che hanno reso il nostro paese quello che è, che hanno progettato il suo territorio, difeso la sua cultura, hanno dato o ricevuto ordini nella propria lingua, hanno combattuto per te perché la Francia diventasse uno stato fallito?, Che sostituisce la propria regalità sempre più impotente con una brutale tirannia contro quelli dei suoi servitori che vogliono ancora metterlo in guardia?

Agite, signore e signori. Questa volta non si tratta di emozioni personalizzate, formule già pronte o copertura mediatica. Non si tratta di estendere i propri mandati o di conquistare altri. Riguarda la sopravvivenza del nostro paese, del tuo paese.

Gli statunitensi

Lettera aperta di generali e ammiragli in pensione

La nostra nazione è in grave pericolo. Stiamo combattendo per la nostra sopravvivenza come Repubblica Costituzionale come in nessun altro momento dalla nostra fondazione nel 1776. Il conflitto è tra i sostenitori del socialismo e del marxismo contro i sostenitori della libertà e della libertà costituzionale.
Durante le elezioni del 2020 è stata firmata una “Lettera aperta da alti leader militari”, da 317 generali e ammiragli in pensione con la quale si avverte che le elezioni del 2020 potrebbero essere le elezioni più importanti dalla fondazione del nostro paese. “Con il Partito Democratico che accoglie socialisti e marxisti, il nostro storico stile di vita è in gioco. ” Sfortunatamente, la verità di questa affermazione è stata rapidamente confermata, a cominciare dalle modalità di svolgimento delle stesse elezioni.
Senza elezioni eque e oneste che riflettano fedelmente la “volontà del popolo” la nostra Repubblica Costituzionale è perduta. L’integrità elettorale richiede di assicurare che vi sia un voto legale espresso e conteggiato per cittadino. I voti legali sono identificati dai controlli approvati dal legislatore statale utilizzando documenti di identità del governo, firme verificate, ecc. Oggi molti chiamano tali controlli di buon senso “razzisti” nel tentativo di evitare elezioni eque e oneste. Usare logiche razziali per sopprimere la prova di ammissibilità è di per sé una tattica di intimidazione tirannica. Inoltre, nelle nostre elezioni deve essere applicato lo “Stato di diritto” per garantire l’integrità delle procedure. L’FBI e la Corte Suprema devono agire rapidamente nelle situazioni di irregolarità elettorali che sono emerse e non ignorarli come è stato fatto nel 2020. Infine, H.R.1 e S.1, (se approvati), distruggerebbero l’equità elettorale e consentirebbe ai Democratici di rimanere per sempre al potere violando la nostra Costituzione e ponendo fine alla nostra Repubblica Rappresentativa.
A parte le elezioni, l’attuale amministrazione ha lanciato un assalto in piena regola ai nostri
Diritti costituzionali in maniera dittatoriale, aggirando il Congresso, con più di 50 ordini esecutivi rapidamente firmati, molti dei quali hanno annullato le politiche e i regolamenti efficaci della precedente amministrazione.
Inoltre, azioni di controllo della popolazione come blocchi eccessivi, chiusure di scuole e aziende e, cosa più allarmante, la censura dell’espressione scritta e verbale sono tutte aggressioni dirette al nostro fondamentale regime di Diritti. Dobbiamo sostenere e ritenere responsabili i politici che agiranno per contrastare il socialismo, il marxismo e Progressismo, sostenere la nostra Repubblica Costituzionale e insistere su un governo fiscalmente responsabile, concentrandosi su tutti gli americani, in particolare sulla classe media, non su gruppi di interesse particolari o gruppi estremisti che vengono utilizzati per dividerci in fazioni in guerra.
Ulteriori questioni e azioni relative alla sicurezza nazionale:
• L’apertura delle frontiere mette a repentaglio la sicurezza nazionale aumentando il traffico di esseri umani, i cartelli della droga, l’ingresso di terroristi, pericoli per la salute / CV19 e crisi umanitarie. I clandestini stanno inondando il nostro Paese portando in alto costi economici, criminalità, abbassamento dei salari e voto illegale in alcuni stati. Dobbiamo ristabilire il confine controllando e continuando a costruire il muro, supportando il nostro personale addetto al controllo delle frontiere.
Le nazioni sovrane devono avere confini controllati.

• La Cina è la più grande minaccia esterna per l’America. Stabilire rapporti di collaborazione con i cinesi incoraggia il Partito Comunista a continuare a progredire verso il dominio del mondo, militarmente, economicamente, politicamente e tecnologicamente. Dobbiamo imporre più sanzioni e restrizioni a ostacolare il loro obiettivo di dominio del mondo e proteggere gli interessi dell’America.
• Il libero flusso di informazioni è fondamentale per la sicurezza della nostra Repubblica, come illustrato dalla libertà di parola e stampa sancito nel 1 ° emendamento della nostra Costituzione. Discorso di censura e espressione, distorsione del linguaggio, diffusione di disinformazione da parte di funzionari governativi, entità private e media sono un metodo per sopprimere il libero flusso di informazioni. Una tecnica tirannica usata per perseguire modalità di società chiusa. Dobbiamo contrastare questo su tutti i fronti a cominciare dalla rimozione della protezione della Sezione 230 dalla grande tecnologia.
• Il reimpegno nell’accordo nucleare iraniano imperfetto porterebbe all’acquisizione da parte dell’Iran dei mezzi per disporre di armi nucleari, sconvolgendo così le iniziative di pace in Medio Oriente e aiutando una nazione terrorista i cui slogan e obiettivi includono “morte all’America” ​​e “morte a Israele”. Dobbiamo resistere al nuovo accordo Cina / Iran e non sostenere l’accordo nucleare iraniano. Inoltre, dobbiamo continuare con le iniziative di pace in Medio Oriente, gli “accordi di Abraham” e con il sostegno a Israele.
• L’arresto del gasdotto Keystone elimina la nostra indipendenza e le nostre cause energetiche recentemente ristabilite e ci porta a dipendere dall’energia da nazioni non amichevoli, eliminando al contempo preziosi posti di lavoro negli Stati Uniti. Dobbiamo riaprire il Keystone Pipeline e riconquistare la nostra indipendenza energetica per la sicurezza nazionale ed economica.
• Usare le forze armate statunitensi come pedine politiche con migliaia di truppe schierate intorno al Campidoglio degli Stati Uniti, costruire, pattugliare recinzioni che proteggono da una minaccia inesistente, oltre a forzare politicamente la situazione.
Correggere quindi le politiche come la teoria della razza critica fattore di divisione nelle forze armate a spese della coesione nella capacità di combattimento in guerra.
• Lo “Stato di diritto” è fondamentale per la nostra Repubblica e per la sicurezza. L’anarchia così come si vede in certe città non può essere tollerata. Dobbiamo supportare il nostro personale delle forze dell’ordine e insistere sul fatto che i DA, i nostri tribunali e il DOJ applichino la legge in modo equo, equo e coerente nei confronti di tutti.
• Le condizioni fisiche e mentali del Comandante in Capo non possono essere ignorate. Deve essere in grado di poter prendere rapidamente decisioni accurate in materia di sicurezza nazionale che coinvolgono la vita e l’incolumità fisica ovunque, giorno e notte.
Le recenti inchieste della leadership democratica sulle procedure del codice nucleare inviano un pericoloso segnale di sicurezza agli avversari armati con sistemi nucleari, sollevando la questione su chi sia al comando. Dobbiamo avere sempre una catena di comando indiscutibile.
Sotto un Congresso Democratico e l’attuale amministrazione, il nostro Paese ha preso una brusca svolta a sinistra verso il socialismo e una forma marxista di governo tirannico che ora deve essere contrastata.
Eleggere quindi candidati al Congresso e alla presidenza che agiranno sempre per difendere la nostra Costituzione Repubblicana. La sopravvivenza della nostra nazione e le sue amate libertà, libertà e valori storici sono a portata di mano
Chiediamo a tutti i cittadini di essere coinvolti ora a livello locale, statale e / o nazionale per eleggere i politici rappresentanti che agiranno per salvare l’America, la nostra Repubblica Costituzionale, e defenestrare quelli attualmente in carica responsabili dell’ufficio.

La “volontà del popolo” deve essere ascoltata e seguita.

https://flagofficers4america.com/opening-statement

Nelle più grandi nazioni del mondo occidentale, a partire dal secondo dopoguerra non sono mancate dichiarazioni pubbliche di alte gerarchie militari e cooptazioni di singoli militari nel personale politico rappresentativo e di governo. In questi giorni sono occorsi invece due fatti inediti: la pubblicazione di tre lettere-appello, due di militari francesi, una di statunitensi.

Quella dei francesi si rivolge alle istituzioni rappresentative; mantiene nella forma un rapporto di tipo istituzionale con le cariche rappresentative dello Stato e tenta quindi di gettare nell’iniziativa tutto il peso politico di una istituzione sulle altre in indirizzo. Quella americana non si premura di salvaguardare nemmeno la forma; parteggia apertamente per una forza politica ancora in fase di ricostruzione e di consolidamento, il Partito Repubblicano di Trump e attacca il radicalismo progressista (comunista) del Partito Democratico.

Il documento francese è soprattutto un atto di denuncia dello stato di disgregazione della formazione socio-politica, dell’effetto pernicioso della diffusione di ideologie comunitariste ostili, legate soprattutto al fondamentalismo islamico, indotto pur con la compiacenza interna da forze esterne, dell’effetto disgregante e divisorio dell’ideologia identitaria e razzista dell’antirazzismo e del dirittoumanitarismo, dell’utilizzo esacerbato, violento e fazioso di parte delle forze dell’ordine contro la popolazione francese più legata al sentimento nazionale. Una situazione che sta trascinando il paese in una situazione di guerra civile endemica alla quale prima o poi l’esercito sarà chiamato a metter fine. Il documento statunitense è invece un esplicito atto di accusa ad una forza politica impegnata a disgregare una nazione, a perseguire un disegno autoritario e di controllo totalitario mirante alla eliminazione delle prerogative fondamentali garantite dalla Costituzione Americana.

La curiosa concomitanza fa sospettare in realtà un qualche legame diretto tra i due eventi, non solo l’esistenza di una affinità e di un sodalizio politico persistenti da oltre due secoli.

Il merito e la struttura dei documenti, la dinamica stessa degli eventi tradiscono però contesti molto diversi.

Il carattere e il contenuto dell’epistola francese sottende di fatto l’esistenza di centri decisionali e di apparati, quantomeno di ampi settori organizzati di essi, ancora operanti e consolidati, fedeli in qualche maniera alla tradizione gaullista. Una tradizione beninteso non antioccidentale, giacché la fedeltà atlantica non è stata mai rinnegata, nemmeno nei momenti di maggior intraprendenza, ma è stata utilizzata per ritagliarsi spazi operativi autonomi resi possibili da una classe dirigente orgogliosa e dotata dei minimi strumenti militari, diplomatici, economici e tecnologici necessari. Settori, però, pesantemente logorati e neutralizzati da quasi trenta anni di politiche e misure sempre più subordinate, anche organizzativamente e logisticamente, al disegno globalista filoamericano. L’elezione di Macron, pur nella fragilità della sua posizione, rappresenta il culmine di questo processo. Ad aggiustamenti continui meramente tattici, più di natura retorica che sostanziale, legati soprattutto alla vivace conflittualità politica e sociale, ha corrisposto una politica di condizionamento ostile di paesi politicamente più fragili, l’Italia in primo luogo, ma di dipendenza sempre più strutturale verso la Germania e quasi di conseguenza verso gli Stati Uniti. Da qui le cessioni di settori strategici, legati al nucleare e alla meccanica pesante, come Alstom, le difficoltà clamorose di Airbus, lo stallo del sistema strategico GPS denominato “Galileo”, la pervicace opera di destabilizzazione e riorganizzazione dello Stato Centrale, avviata con la unificazione degli ispettorati, con il tentativo strisciante di abolizione dell’ordine dei Prefetti, la vera ossatura dello Stato francese, con l’obbiettivo di creare una dirigenza di formazione manageriale intercambiabile, esperta di processi di ottimizzazione, ma povere di etica identitaria. Una pervicacia certosina nel frantumare i centri di potere inserita in un disegno di riorganizzazione favorevole al decentramento politico-amministrativo mestamente simile a quello intrapreso negli anni ’90 sino al 2010 in Italia. Un disegno che trova giustificazioni e alibi nelle necessità di riorganizzazione di uno stato centrale in formazioni socio-politiche più interconnesse, più densamente popolate nell’arco di un secolo, paralizzate dalle incrostazioni sedimentate dal tempo negli apparati; non necessariamente da conseguire con una disarticolazione e indebolimento delle prerogative statali centrali in una fase di incipiente multipolarismo che richiederebbe in realtà dinamiche opposte. Il richiamo alle prerogative regali dello stato, le critiche e i propositi normativi di contrasto al “separatismo” si riducono alla fine a velleità sterili o a tentativi subdoli di strumentalizzare la volontà di contrasto dei processi identitari divisivi per imporre strumenti limitativi e coercitivi generalizzati delle libertà politiche e di associazione.

Il carattere e il contenuto della lettera dei militari americani sottende due tendenze e contesti diversi rispetto a quella transalpina. Nella sua pur breve storia il movimento di Trump è rimasto ben radicato nella truppa e nei quadri intermedi dell’esercito americano con una certa propensione all’isolazionismo, in altre componenti a circoscrivere meglio la sfera di influenza americana, a privilegiare più o meno realisticamente le dinamiche di conflitto geoeconomico e le dispute diplomatiche rispetto all’uso della forza militare, specie se indiscriminato. Il documento ci dice che lo schieramento politico inizia a fare breccia anche negli altri gradi. I loro ingressi non sono più casi isolati. Non parlano a nome di una istituzione, come intendono o pretendono velleitariamente secondo i giudizi i militari francesi; sono una componente se non una vera e propria fazione, data la asprezza del conflitto politico negli Stati Uniti, pronta a logorare e spodestare i centri decisionali che hanno imperato negli ultimi trentacinque anni. Tentano di proporre e giustificare indirizzi di politica estera che indichino con esattezza gli avversari e un programma di politica interna che garantisca coesione sociale, sovranità strategica economica e tecnologica, maggiore controllo interno delle filiere produttive. Dall’altro cercano probabilmente di condizionare dall’interno e di accentuare l’orientamento interventista di un movimento restio ad avventure militari. Additano  esplicitamente come avversari la Cina e l’Iran, omettendo deliberatamente la Russia. Orientamento che aprirebbe nuovi spazi ai paesi europei nel loro vicinato più prossimo. Sul piano interno le analogie con il documento francese sono soprattutto sulla politica di immigrazione e sul carattere divisorio dell’integralismo antirazzista. Rimane una caratteristica di fondo che segna pesantemente i limiti politici ed ideologici del documento: l’epiteto di “socialista” e “marxista” ad un movimento in realtà radicale, globalista e assistenzialista la cui facilità di spesa assistenziale è una mera compensazione dell’impostazione liberista necessaria a non fare implodere la formazione sociale. Una classificazione che, pur al netto dell’accezione americana di quei termini, ben più estensiva ed approssimativa di quella europea, denota la tendenza reazionaria di chi la proferisce piuttosto che le tare della componente radical-progressista. Né, vista la fonte, si potrebbe pensare ad un uso strumentale, per quanto rozzo, di quei termini. Sta di fatto che cotanta idiosincrasia comporta un atteggiamento poco pragmatico sull’importanza dell’intervento pubblico in economia e preclude l’occupazione di quegli ulteriori spazi di consenso nei settori popolari a trazione sindacale che Trump ha cominciato ad erodere pesantemente al Partito Democratico; come pure la tendenza totalitaria e repressiva è solo il riflesso dell’esasperazione individualistica della “maturità” della fase liberale che priva del collante sufficiente le formazioni sociali. Dovesse prevalere, potrebbe alla fine produrre una sorta di nemesi del movimento trumpiano che ha trasformato il Partito Repubblicano sino a ricondurlo nel vecchio alveo.

Per finire in Francia quella lettera rivela la presenza di una forte componente istituzionale resistente ai propositi di subordinazione, ma priva di una espressione e quindi di una piattaforma politica coerente, vista la crisi delle residue formazioni gaulliste e la giustificata diffidenza nei confronti del Front National-RN; negli Stati Uniti la piattaforma politica è più articolata, il radicamento negli apparati comincia ad essere tangibile ma meno compiuto, il pregiudizio ideologico però rischia di annichilire lo slancio e riportare nel vecchio alveo conservatore il movimento. E’ il portato di chi tende a guardare il futuro degli Stati Uniti con gli occhi di un secolo fa, piuttosto che coniugare al futuro quelle chiavi interpretative e rendere praticabili i propositi tirannicidi.

Vedremo! Tutto sommato la partita è ancora aperta, tranne che purtroppo nel nostro “pauvre pays”. I soggetti qualificati ad innescare processi simili potrebbero anche esserci, ma regolarmente ai margini delle situazioni. Manca la molla che li spinga ad agire in un circo sin troppo congestionato. Una decina di anni fa ci fu un timido tentativo in proposito, fallito in poche ore; il documento in fondo alla pagina del sito avrebbe dovuto costituire una prima traccia di lavoro http://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile/. Le condizioni erano improbabili, la dabbenaggine nostra ha fatto il resto. Restano le voci nel deserto.


 

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia, di Davide Gionco

Come Zuan Francesco Priuli nel 1577 (non) risolse il problema del debito pubblico di Venezia
di Davide Gionco

Nel 1577 le casse della Repubblica di Venezia erano sempre più mal messe. La Serenissima veniva da anni di guerre contro i Turchi Ottomani, con la sconfitta nella guerra di Cipro (1570-1573), ed era appena uscita da una epidemia di peste (1575-1577) che aveva colpito quasi tutti i territori della Repubblica.
Il nobile Zuan Francesco Priuli aveva ricevuto nell’ottobre del 1574 alla nomina di provveditore sopra i beni comunali e da qualche anno si industriava a far quadrare i conti del bilancio pubblico.

Nel 1577 Priuli decise di affrontare una volta per tutte l’annosa questione degli interessi sul debito pubblico, che nel 1577 avevano raggiunto la somma di 514’983 ducati annui per i depositi in zecca, e di quasi 200’000 ducati per il debito consolidato. Al tempo il debito pubblico veneziano veniva denominato come “monte”. C’era i debito più antico, il “Monte Vecchio”, che andava avanti da secoli. C’erano anche il “Monte Nuovo”, il “Monte Novissimo” e “Monte Sussidio”. Oltre a questo c’erano i “Depositi di Zecca”, che erano il debito più cospicuo.
A conti fatti un terzo degli incassi fiscali e delle rendite della Repubblica doveva essere utilizzato per pagare gli interessi ai creditori. Il Priuli, da esperto di finanze, concluse che questo problema doveva essere eliminato alla radice. Era peraltro scandaloso che la Repubblica, tramite questo meccanismo, contribuisse a far diventare i ricchi sempre più ricchi, a spese dei più poveri che pagavano le tasse.
I governanti di Venezia pensavano che fosse in gioco non solo la salute finanziaria della Repubblica, ma anche l’immagine del patriziato veneziano che per secoli aveva sempre garantito la separazione fra l’interesse pubblico e l’utile privato.

Zuan Francesco Priuli decise di affrontare prima di tutto il debito dei “Depositi di Zecca” (4 milioni di ducati): predispose un piano ventennale fatto di aumenti di imposte, recuperi di crediti d’imposta e di vendite di proprietà pubbliche (quello che fa l’Italia da 30 anni per ridurre il debito pubblico). Il piano fu convintamente approvato dal “consiglio dei dieci” e messo in atto.
Le cose andarono molto meglio del previsto. il 15 giugno 1584 il Senato dichiarava che tutti i debiti aperti in Zecca (il debito pubblico) erano stati rimborsati. Successivamente, durante il programma di riduzione del debito della Zecca, nel 1579 Zuan Francesco Priuli aveva proposto un altro piano per attaccare anche i debiti dei “monti”. In questo caso, però, il piano non venne approvato, in quanto troppi patrizi veneziani avevano protestato per la perduta possibilità di investire i propri denari in madre patria.
Secondo le previsioni del Priuli il pagamento del debito pubblico avrebbe dovuto consentire di ridurre le tasse, in quanto la Repubblica si sarebbe liberata dall’onere di pagare gli alti interessi.
Il Senato, però, decise che le entrate fiscali che prima venivano usate per pagare gli interessi sul debito, fossero accantonate e depositate presso un “Deposito Grande”, che sarebbe servito come riserva finanziaria della Repubblica in caso di bisogno. Lo Stato veneziano aveva deciso, come ogni buon padre di famiglia, di “risparmiare”.

Successivamente, nel 1595, il patrizio Giacomo Foscarini, convinto sostenitore della linea del predecessore Priuli, fece nominare 3 nuovi provveditori per l’affrancazione dei Monti Novissimo (2,4 milioni di ducati) e Sussidio (1,2 milioni di ducati). Anche in questo caso si diede fondo alla raccolta fiscale ed alle dismissioni di beni pubblici. Nell’anno 1600 si iniziò a ridurre, con gli stessi meccanismi, anche il “Monte Vecchio” (0,9 milioni di ducati).
Pare che intorno all’anno 1620 la restituzione di tutti i debiti fosse stata completata.
Fra il 1574 ed il 1620 Venezia aveva rimesso “sul mercato privato” circa 8,5 milioni di ducati.

Il sogno di tutti i governanti europei del XXI secolo, quello di pagare e di estinguere il debito pubblico, fu attuato concretamente per la prima ed unica volta nella storia proprio dalla Repubblica di Venezia.
Ma non sempre è tutto bene ciò che finisce bene.

I ricchi mercanti veneziani, che da secoli investivano i loro denari depositandoli in Zecca ad interessi (in sostanza acquistando dei titoli di stato, come diremmo oggi). Prima in Zecca affluivano i proventi dei commerci, ma anche le doti delle mogli. E vi venivano depositate le doti delle figlie per il futuro matrimonio.
Viste le crescenti difficoltà dei commerci con l’Oriente, causate dagli ostacoli posti dall’Impero Ottomano, ma anche dalla concorrenza subita dai commerci con le Americhe gestiti da spagnoli, inglesi ed olandesi, sempre più veneziani avevano cercato rifugio negli investimenti senza rischi presso la Zecca pubblica.
Ma ora il servizio pubblico della Zecca non era più disponibile.
Pertanto i ricchi veneziani si videro obbligati ad investire diversamente le proprie ricchezze.
Il Priuli aveva previsto che quei soldi sarebbero stati investiti, come ai vecchi tempi, in attività commerciali. Ma si era sbagliato. Quei tempi stavano finendo.
I ricchi veneziani scelsero, invece, di dedicarsi ad investimenti immobiliari sulla terra ferma. Si cita l’esempio di un  certo stampatore Lucantonio Giunti, dopo essersi per tutta la vita dedicato ad altre attività economiche, fra il 1585 e il 1601 investì nell’acquisto di almeno 225 campi e di immobili urbani, al punto da raddoppiare nel giro di soli 16 anni il patrimonio fondiario che aveva ereditato.

Altri fondi furono semplicemente investiti in altre attività finanziarie. Entrarono in contatto con i banchieri fiorentini e genovesi che lucravano nel mercato dei cambi e del credito “internazionale”, prestando denaro ai vari sovrani di tutta Europa. O semplicemente depositarono i propri denari presso le casse di altre città: Roma, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Vienna. Oppure finirono a finanziare le attività del credito ad usura.
A soffrire maggiormente furono gli enti ecclesiastici, che non erano strutturati per diversificare gli investimenti in denaro, acquistando fondi immobiliari e affidando i loro fondi ad istituti finanziari di altre città.

Questi flussi di capitali al di fuori della Serenissima portarono alla riduzione della liquidità nelle casse dello stato, quindi alla riduzione degli investimenti pubblici e degli affari in città, quindi delle entrate fiscali. Per questo furono via via introdotte nuove tasse per far quadrare il bilancio.
Nessun vantaggio arrivò dall’estinzione del debito pubblico, né ai cittadini veneziani, né ai ricchi della classe patrizia.

Nel frattempo continuavano le pressioni dei ricchi investitori affinché lo stato veneziano non fosse da meno dei “concorrenti” genovesi nel fare prestiti ai sovrani stranieri. Ad esempio negli anni 1616-1617 i soldi del “Deposito Grande” furono utilizzati per fare un prestito di 1,75 milioni di ducati al duca Carlo Emanuele I di Savoia per finanziare la sua guerra contro la Spagna. L’attività si era rivelata piuttosto redditizia, per cui gli stessi ricchi veneziani chiedevano di poter versare i loro fondi nel “Deposito”, affinché venissero usati per fare prestiti ad interesse ai vari sovrani europei.

Per questi motivi, negli anni successivi al 1620, gradualmente, ma a grande richiesta, fu ripristinato il servizio pubblico del debito, che consentiva di mantenere sufficientemente bassa la tassazione e di offrire un servizio pubblico di risparmio apprezzato da molti. Tuttavia il danno era stato fatto. I decenni di “politiche di austerità” (come le chiameremmo oggi) e le grosse perdite di capitali subite da Venezia lasciarono dei segni permanenti, contribuendo all’inevitabile declino della Repubblica che aveva prosperato come città più ricca d’Europa per 1000 anni.

L’esperto di finanze Zuan Francesco Priuli ed il suo successore Giacomo Foscarini non avevano compreso la funzione del debito pubblico in uno stato. Lo stato non è una famiglia che deve rimborsare i debiti. Non è una famiglia che deve risparmiare per i tempi a venire.
Il “debito pubblico” non è altro che una cassa comune nella quale i risparmiatori versano i loro risparmi. Da un lato i cittadini usufruiscono di un servizio pubblico di risparmio privo di rischi, utile per chi non fa l’investitore finanziario di mestiere. Dall’altro lato lo Stato dispone di un fondo cassa comune a cui attingere per finanziare le proprie attività a beneficio della collettività che consente di mantenere basso il carico fiscale.
Per comprendere il concetto è sufficiente guardare al bilancio dello Stato italiano.

Nel 2021 la previsione è di incassare complessivamente 579’980 milioni di euro.
Le spese “utili al popolo”, che sono le spese correnti più le spese in conto capitale, sono pari a 580’095 + 111’860 = 691’956 milioni di euro.
E’ vero che il debito pubblico ci “costa” 81’507 milioni di interessi, ma se non ci fosse il debito pubblico, mancherebbero a bilancio 691’956 – 579’980 = 111’976 milioni di euro che ci arrivano dal “fondo cassa comune” del debito pubblico.
Se non avessimo il debito pubblico, gli italiani dovrebbero pagare 112 miliardi di euro in più di tasse. Se le entrate fiscali oggi sono di 505 miliardi di euro, significherebbe un aumento delle tasse del 22% rispetto ad oggi, sapendo che già l’Italia è fra i primi posti al mondo in termini di pressione fiscale.

Inoltre, se non ci fosse il debito pubblico, gli italiani non saprebbero dove fare investimenti sicuri e privi di rischi.
Se lo Stato Italiano, come lo fu la Repubblica di Venezia per secoli, è un fornitore di servizio pubblico di risparmio, allora la riduzione o la cancellazione del debito pubblico significherebbe la cancellazione del servizio pubblico di risparmio.
Come se tutte le banche presso le quale teniamo i nostri risparmi ce li restituissero dicendo “tenetevi indietro i vostri soldi, fatene cosa volete”. A quel punto i risparmiatori non potrebbero che rivolgersi a banche estere o a nazioni estere per richiedere un simile servizio di risparmio.
In una situazione del genere girerebbero molti meno soldi in Italia per gli investimenti privati supportati dalle banche e perderemmo, di conseguenza, anche tutti i benefici derivanti dalla realizzazione di quei beni e servizi, diventando più poveri.

Quindi chi propone di “ridurre il debito pubblico”, se non proprio di estinguerlo, dimostra di non avere capito che cosa è il debito pubblico, così come non lo aveva capito Zuan Francesco Priuli.
Chi, con nozione di causa, ha proposto ed ottenuto che nei trattati europei fosse prevista la riduzione del debito pubblico, lo ha fatto precisamente per spingere gli investitori a rivolgersi al settore del risparmio e degli investimenti privati ovvero verso le banche private, a tutto vantaggio dei gruppi finanziari che le possiedono.

Come già era avvenuto a Venezia, il risultato di 30 anni di politiche di riduzione del debito pubblico sono stati un progressivo aumento delle tasse, unito alla dismissione di beni pubblici, alla riduzione dei servizi pubblici ed all’aumento della liquidità circolante nella “finanza estera”.
Se agli inizi del 1600 la “finanza estera” erano altre città rispetto a Venezia, oggi la “finanza estera” sono i mercati finanziari internazionali, i luoghi in cui gli investimenti rendono di più, che sono in genere i luoghi in cui gli investitori non pagano le tasse, non devono rispettare i diritti umani, non devono preoccuparsi di rispettare l’ambiente. Esattamente i fattori che consentono di massimizzare le rendite.
Se, invece, gi investimenti fossero centrati sulla finanza pubblica, avremmo la possibilità di indirizzarli secondo le finalità politiche di redistribuzione delal ricchezza (che è lo scopo delle tasse), di rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.

In conclusione il debito pubblico non è quella “cosa cattiva” di cui ci parlano ogni giorno su tv e giornali, ma è un prezioso strumento per la collettività, da salvaguardare e da gestire al meglio, magari con il supporto di una banca centrale pubblica, come lo era la Zecca della Serenissima.

pubblicato anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/05/14/come-zuan-francesco-priuli-nel-1577-non-risolse-il-problema-del-debito-pubblico-di-venezia/

GUERRA SENZA MILITARI, di Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA SENZA MILITARI

In un’intervista a “La verità” il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, tra molte cose condivisibili, ha introdotto un tema il quale, quasi totalmente dimenticato, è riproposto dalla crisi pandemica. Ha detto Rizzo che “è evidente che oggi conta più un ospedale di un F-35 o di una corazzata. Una nazione che salvaguarda la sanità è strategicamente più avanzata”.

In effetti è nel pensiero costituzionale e filosofico che una costituzione – e più in generale l’organizzazione politica di uno Stato – è buona quando consente di affrontare e superare le emergenze (le guerre, in primo luogo) e che sono le crisi possibili a dover forgiare l’assetto dei poteri pubblici (v. Ludendorff).

Per fare un esempio, restando all’irenico (tardo) secolo XX, De Gaulle sosteneva la necessità dell’art. 16 della Costituzione della V Repubblica (i poteri eccezionali del Presidente) con i caratteri della guerra moderna (anche atomica).

Va da se che, come sostiene l’on.le Rizzo, in una crisi sanitaria, indipendentemente dalle cause (se naturali, o frutto di imperizia umana, o anche – ma è assai improbabile – per attacco batteriologico) carri armati e cannoni sono del tutto inutili a difendersi. Ma vaccini ed ospedali, di converso, sono le casematte della difesa sanitaria.

In un libro di oltre vent’anni fa, due (allora) colonnelli cinesi descrivevano le nuove forme di guerra: commerciale, finanziaria, economica, informatica (e così via) tutte connotate da avere lo stesso scopo della guerra “classica” – e cioè quello di costringere il nemico a fare la nostra volontà (Clausewitz e Gentile), ovvero accrescere la nostra potenza, e dal non far uso della violenza, ma d’altri mezzi, denominandole così “operazioni di guerra non militari”. Per combattere le quali i mezzi militari servono a poco. Anche perché possono causare una pericolosa escalation.

Ai fini dell’influenza delle possibili crisi sulla conformazione delle istituzioni pubbliche la causa (naturale od umana) della stessa è poco o punto influente. Decisivo è che queste siano attrezzate a difendere la comunità che in esse si organizza per proteggersi.

Ed è proprio questa una ragione decisiva per mantenere, almeno in parte, lo Stato sociale del XX secolo. In questo l’Italia si è dimostrata (largamente) impreparata e quindi vulnerabile; l’Europa poco meglio. In fondo dai dati disponibili sulla pandemia, lo Stato più efficiente è stato Israele, preparatissimo a far guerra e a difendere la popolazione. Al contrario di gran parte dei governanti europei, per quelli d’Israele (compresi i governati) l’emergenza non è un oggetto riposto negli archivi della storia, ma una possibilità reale. Ossia proprio quello che popoli abituati a considerare il progresso come un dato acquisito ed immodificabile, e i quattro cavalieri dell’apocalisse dei pensionati del medesimo, non riescono più a concepire né affrontare. Tra i pochi effetti non negativi della crisi, un tuffo nella realtà non è da disprezzare.

Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO

1.0 Per interpretare la situazione politica presente è tuttora di attualità il pensiero di Carl Schmitt; a prescindere dai tanti spunti che possono trarsene, al presente sono particolarmente interessanti alcune tesi sostenute dal pensatore di Plettemberg tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’60, assai prima dell’“epoca” contemporanea, successiva al collasso del comunismo, all’ “aumento” della globalizzazione (e alla morte del giurista).

2.0 In primo luogo è opportuno – per spiegare l’incremento straordinario qualche anno dopo il collasso del comunismo dei partiti popul-sovran-identitari – ricordare quanto scrisse nel discorso Das zestalter der neutralisierung und ent politisierungen1 (del 1929).

Sostiene Schmitt in tale scritto che la vita spirituale europea si è sviluppata negli ultimi quattro secoli (cioè nella modernità) cambiando centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e infine all’economico) “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale. Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche”2.

Tale centro si riferimento è decisivo e prevalente “Lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche poiché i temi polemici e decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo”3. Dopo il collasso del comunismo l’ultima scriminante del “politico” (ossia quella tra borghesia e proletariato) è venuta meno. Fukuyama scriveva che, dopo la vittoria delle liberaldemocrazie, era arrivata la fine della storia. Previsione sbagliata perché presuppone l’esaurirsi di ogni ragione di conflitto; cosa impossibile perché l’elemento del conflitto e della lotta (Machiavelli e Duverger tra i tanti) è un presupposto del politico ad esso connaturale (Freund). Pensare che l’uomo, zoon politikon, possa esistere senza una dimensione politica, presuppone cambiarne la natura, ossia quello che il giovane Marx pensava di poter fare ed è – invece – risultato impossibile.

Piuttosto alla scriminante borghese/proletario se n’è sostituita un’altra diversa. Il passaggio tra una scriminante amico/nemico e la successiva, scriveva Schmitt, ha un effetto politico decisivo: “La successione sopra descritta – dal teologico, attraverso il metafisico e il morale, fino all’economico – significa nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali successivamente è stato spostato il centro”. In tale processo “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro”, ma nel contempo e progressivamente “si sviluppa immediatamente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali” (i corsivi sono miei).

Che appare proprio quanto successo negli ultimi trent’anni. Dopo una (breve) fase in cui si pensava la globalizzazione “post-comunista” come ad una era stabile e “pacifica”, stante l’egemonia planetaria degli USA, s’intravedevano i primi scricchiolii da distribuire equamente in due categorie: le guerre umanitarie e, ancor più, l’emergenza di antagonisti – nemici – dell’ordine globalizzato. Ambedue convergenti nel confortare la tesi che la storia – e i conflitti – fossero tutt’altro che finiti. Quanto alle guerre “umanitarie” per lo più denominate in inglese e qualificate come operazioni di polizia internazionale, a parte le definizioni rimanevano guerre comunque; e neppure granché apprezzabili secondo le intenzioni esternate, giacché già quattro secoli fa Francisco Suarez metteva in guardia da guerre del genere. In ordine al nemico dell’“ordine nuovo”, in un primo tempo il fondamentalismo islamico, il tutto provava che un ordine, per quanto auspicabile, non può prescindere dal fatto che qualche gruppo di uomini non lo apprezzi, e in misura così intensa da arrivare (sempre) a combatterlo politicamente, e nei casi estremi, con le armi.

3.0 Era così evidente che l’“ordine nuovo” stava generando dialetticamente nuove ostilità, nuovi nemici e nuovi conflitti.

Rimaneva, e in parte rimane, poco chiaro su quale centro di riferimento spirituale si fondi la contrapposizione, interna all’occidente euroatlantico, tra populisti e globalisti. Quello che invece è chiaro – e può servire ad individuare il centro di riferimento è che sovran-popul-identitari da un lato e globalisti dall’altro fanno riferimento a coppie di valori/idee contrapposti che elenchiamo (senza pretesa di essere esaurienti):

NAZIONE/UMANITÁ

ESISTENTE/NORMATIVO

COMUNITÁ/SOCIETÁ

INTERESSE NAZIONALE/INTERESSE GLOBALE

Dei quali la prima colonna si riferisce al sovran-populismo, la seconda alla globalizzazione.

È appena il caso di citare qualche esempio. Per esistente/normativo mi permetto di rinviare a quanto da me scritto sulla Costituzione ungherese4. Quanto alla contrapposizione comunità/società è meno evidente ma comincia ad emergere dalle dichiarazioni costituzionali dei paesi “sovranisti” (v. le Costituzioni polacca e ungherese).

Che il termine a quo e ad quem di questi sia la Nazione e non l’umanità è del tutto evidente e non ha necessità di spiegazioni.

Quando all’interesse nazionale, come obiettivo di governo è anch’esso evidente, a parte le recenti vicende della Diciotti e del Ministro degli interni Salvini, che l’hanno riportato al centro del dibattito politico. E si potrebbe parlare di un “rieccolo” perché è sempre stato la bussola dello Stato moderno (e delle sintesi politiche antiche).

A trovare una frase che sintetizzi in poche parole la posizione dei sovranisti non si può che risalire all’affermazione di Sieyès “La Nazione è tutto quello che può essere per il solo fatto di esistere”5. Affermazione che scandalizza sicuramente un globalista.

4.0 La seconda concezione da prendere in esame per la valutazione della situazione politica contemporanea è quella che emerge, tra gli scritti di Schmitt, da “Terra e mare”. Fondamento di tale scritto è che l’esistenza umana è determinata dallo spazio in cui vive, dalla percezione che ne ha e dalle opportunità che offre. Pertanto questo determina o co-determina i rapporti politici, economici e sociali. In particolare il diritto. Scriveva Maurice Hauriou che il diritto conosciuto, elaborato, applicato dai giuristi è quello di società sedentarie, basate sul rapporto con la terra (e così, anche con il territorio come elemento dell’istituzione politica, in particolare – ma non solo – dello Stato moderno). Mentre il giurista francese contrapponeva le società sedentarie a quelle nomadi e spiegava gran parte degli istituti delle prime col rapporto con la terra e con un’esistenza orientata alla produzione regolare, Schmitt approfondiva la diversità tra esistenza marittima ed esistenza terreste, e in particolare che “la storia universale è una storia della lotta della potenza del mare contro la potenza della terra…”.

La novità nella storia moderna, sosteneva Schmitt, è che la Gran Bretagna, nel XVI secolo, si decise per un’esistenza marittima, assai più di come avevano fatto in altre epoche potenze marittime come Atene o Venezia ed in parte, anche Cartagine. Da ciò derivò l’espansione commerciale (ed industriale) inglese6.

Questo fatto era considerato da Schmitt determinante sia per il diritto internazionale che per l’assetto politico europeo westphaliano. L’equilibrio che ne derivava, conseguiva da quello di terra e mare (potenze continentali e potenza marittima) e tra stati europei. Nessuna delle quali era in grado di egemonizzare le altre, perché non avrebbe avuto la forza di imporsi ad una loro coalizione, un po’ come Machiavelli notava per gli Stati italiani (e dell’equilibrio tra gli stessi) della sua epoca. In questo senso la sovranità degli Stati, costruita intorno alla parità giuridica degli stessi – prescindendo dalla parità di fatto, aveva un certo senso, proprio perché la parità di fatto tra gli stessi – o almeno tra i maggiori – non era tanto lontana; e, d’altra parte la disparità poteva essere compensata con un’accorta politica di alleanze (e all’inverso di neutralità).

Il tutto entrava in crisi con il XX secolo; sosteneva Schmitt che “nel diritto internazionale le idee generiche ed universalistiche sono le armi tipiche dell’interventismo”7; e che “Una concezione giuridica coordinata ad un impero sparso su tutta la terra (ossia quello britannico) tende naturalmente ad argomenti universalistici”8

Nello scritto “Grande spazio contro universalismo”9, il giurista di Plettemberg ribadisce, con riferimento alla dottrina Monroe, la contraddittorietà dell’interpretazione universalistica all’enunciazione originaria della suddetta dottrina. Scrive Schmitt “È essenziale che la dottrina Monroe resti autentica e non falsificata, fintantoché è fissa l’idea di un grande spazio concretamente determinato, nel quale le potenze estranee allo spazio non possono immischiarsi.

Il contrario di un siffatto principio fondamentale, pensato a partire dallo spazio concreto, è un principio mondiale universalistico, che abbraccia tutta la terra e l’umanità. Questo conduce naturalmente a intromissioni di tutti in tutto. Mentre l’idea dello spazio contiene un punto di vista della delimitazione e della divisione e per questo enuncia un principio giuridico ordinatore, la pretesa universalistica di intromissione mondiale distrugge ogni delimitazione e distinzione razionale10 (il corsivo è mio).

Ciò ha fatto sì che si è convertito “un principio di non ingerenza concepito spazialmente in un sistema generale di intromissione delocalizzata” e così è diventato uno strumento ideologico della democrazia e “delle concezioni con essa collegate, in particolare del “libero” commercio mondiale e del “libero” mercato mondiale, al posto dell’originario e vero principio Monroe”11. Combinando all’uopo status quo e pacta sunt servanda, “cioè un semplice positivismo contrattuale”, con i principi ideologici del liberalcapitalismo.

Il risultato complessivo è che la dottrina Monroe, come interpretata negli anni tra le due guerre mondiali da la misura “della contrapposizione fra un chiaro ordinamento spaziale che poggia sul principio fondamentale del non intervento di potenze estranee allo spazio a fronte di un’ideologia universalistica, che trasforma tutta la terra nel campo di battaglia dei suoi interventi e intralcia il passo ad ogni crescita naturale dei popoli viventi12 (il corsivo è mio).

La situazione oggi è diversa: l’evoluzione dell’ordinamento internazionale con l’ONU (e la Carta dell’ONU), il divieto dell’uso della forza (v. art. 2, 4 della Carta dell’ONU), i poteri del Consiglio di sicurezza, la dottrina della “responsabilità di protezione”, le operazioni di peacekeeping e soprattutto la “difesa dei diritti umani” (e non solo) hanno complicato la situazione.

A cosa può servire la lezione di Carl Schmitt e, in particolare, la dottrina dei “grandi spazi”?

Sembra di poter rispondere che due concezioni (esplicite ed implicite alla stessa) e comunque intersecantesi possono essere utilmente applicate.

La prima delle quali è il realismo politico in relazione al concetto di sovranità. Come scrive il giurista tedesco, il problema della sovranità, probabilmente il principale, è conciliare l’aspetto politico con quello giuridico.

Se infatti il connotato distintivo della sovranità è l’assolutezza giuridica (non essere condizionato dal diritto ma esserne “al di sopra”)13, occorre coniugarla con i limiti di fatto. Come scrive Schmitt “Nella realtà politica non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti, irresistibile e funzionante con la sicurezza della legge di naturaLa conciliazione del potere supremo di fatto e di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità. Da qui sorgono tutte le difficoltà”14 (il corsivo è mio). Altro infatti è la sovranità degli U.S.A. o della Cina, altro quella di S. Marino o del Liechtenstein. Trasposto nella situazione contemporanea, questo significa che mentre si censurano – giustamente – le violazioni dei “diritti umani” o il genocidio (ad esempio dei curdi in Iraq) e si parte per la “guerra giusta” ai ruandesi o a Saddam, ci si guarda bene dal fare la guerra a Putin per il Dombass o la Crimea e così alla Cina per Hong-Kong. Da notare che, mentre Hong-Kong è sotto sovranità cinese – e almeno può valere il carattere classico territoriale di questa – non è così per i citati territori nell’Europa orientale, entrambi – prima di annessioni ed occupazioni – facenti parte dell’Ucraina; la quale ha così subito una violazione della (propria) sovranità – al contrario della Cina. A questo punto, dati i “due pesi, due misure” c’è da chiedersi se non valga, come criterio di comportamento e decisione concreta, quello del “grande spazio”: mentre alla Russia è stato (di fatto) riconosciuto l’intervento in una repubblica prima facente parte dell’URSS, cioè del proprio “grande spazio”, lo stesso non è stato esercitato per proteggere popolazioni, diritti umani, e nel caso dell’Ucraina, l’integrità territoriale.

Per cui il realismo intrinseco alla concezione schmittiana (registra) e regola molto più che l’idealismo di quello15.

La seconda concezione che appare alla base del concetto di “grande spazio” è quella che collega il concetto di potenza (e di potere) di Max Weber e il “diritto” inteso qui come ordine. Scrive Weber definendola, che “la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”16. Nell’uso corrente fino a qualche decennio orsono erano chiamati potenze gli Stati, almeno quelli capaci di esercitare il comando all’interno e così tutelare la propria indipendenza, anche senza (o con minima) egemonia politica esterna. In termini fattuali è la capacità di far valere la propria volontà che determina l’essere potenza.

La quale applicando la formula di Spinoza tantum juris quantum potentiae determina i limiti fattuali delle potenze e quindi della capacità giuridica di esercitarli. Come scriveva il filosofo olandese “Se dunque la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. “… Per diritto naturale io intendo dunque le stesse leggi o regole della natura, secondo le quali ogni cosa accade, vale a dire, la stessa potenza della natura; perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza17 (i corsivi sono miei). E nell’ambito del “grande spazio” è relativamente facile per la potenza egemone esercitarla. Del pari, per lo più, ha l’interesse a farlo, per le connessioni e i rapporti che la congiungono ai propri vicini o satelliti. Rispettare i quali è la condizione perché si consegua facilmente uno stato di pace. Assai più che cercare di imporre un’unità del mondo, senza che tale unità si possa conseguire in pace con l’unico modo storicamente possibile: mantenendo il pluriverso, conforme all’assetto d’interessi, potenze e rayas.

Cioè limitandolo e determinandolo con criteri oggettivi e facilmente percepibili ed applicabili. Perché come scriveva Schmitt, l’unità del mondo non è l’unità dell’ecumene, ma “della organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità. È il grande problema se l’umanità è già matura per sopportare un solo centro del potere politico”.

Che vi sia una religione, una teologia di sostegno a un tale ipotetico centro, la quale abbia capacità di resistenza ad obiezioni e critiche elementari, Schmitt non lo crede. Non l’ideologia del progresso, dato che progresso tecnico e morale “non camminano insieme” (né tra i governanti, né tra i governati). Né può confortare il razionalismo, non foss’altro – aggiungo – perché vale sempre il giudizio di De Maistre che l’uomo “per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (onde la ragione non basta); oltretutto il progresso tecnico ha l’inconveniente di accrescere il potere del governo. Come scriveva Goethe “è pericoloso per l’uomo ciò che, senza farlo migliore, lo rende più potente”18. E non la si vede neppure oggi che in quel (tentativo/progetto) di unità del mondo stiamo ancora, anche se ormai pare volgere al tramonto. Dietro l’unità di un mondo dominato dalla potenza vittoriosa nella contrapposizione borghese/proletaria, occorre riconoscere che il pensatore di Plettemberg aveva visto bene il futuro politico: una nuova contrapposizione amico-nemico, una costante dicotomia terra/mare, una pace attraverso l’equilibrio di (e tra) grandi spazi. Cioè tutto il contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Trad. it. ne le Categorie del politico Bologna 1972 p. 167 ss.

2 Op. cit. p. 172

3 E prosegue “Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico. Quando il dato teologico-religioso cessò di essere il centro di riferimento, anche questa massima perdette il suo interesse pratico. Nel frattempo esso si è mutato, passando attraverso la fase della nazione e del principio di nazionalità (cujus regio ejus natio) , nella dimensione economica e ora dice: nel medesimo Stato non possono esistere due sistemi economici contraddittori; l’ordinamento economico capitalistico e quello comunistico si escludono a vicenda” op. cit. p. 172.

4 v. Attacco alla Costituzione ungherese in Nova Historica n. 67, anno 17, pp. 153-168, in particolare p. 164-165.

5 e continuando le citazioni dell’abate, tra le molte “Le nazioni della terra vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”

6 Anche Hegel sottolinea determinati diversi tipi di attività, e legando al mare lo sviluppo dell’industria e del commercio v. Lineamenti di filosofia del diritto, §247.

7 V. Il concetto di impero nel diritto internazionale, p. 27.

8 E prosegue “Una tale concezione non concerne uno spazio determinato ed unito né il suo ordinamento interno, ma in prima linea la sicurezza delle comunicazioni fra le sparse frazioni dell’impero”.

9 Trad it. Di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 491-503.

10 E prosegue “In effetto l’originaria dottrina Monroe americana non ha niente a che fare con i principi fondamentali ed i metodi del moderno imperialismo liberalcapitalistico. Come vera e propria dottrina dello spazio si trova anzi in pronunciata contrapposizione ad una trasformazione della terra in un astratto mercato mondiale del capitale senza tener in alcun conto lo spazio… Che una siffatta falsificazione della dottrina Monroe in un principio imperialistico del commercio mondiale fosse possibile, resterà per tutti i tempi un esempio impressionante dell’influenza inebriante di vuote parole d’ordine” Con l’interpretazione che ne dava W. Wilson “non intendeva all’incirca un trafserimento conforme del pensiero spaziale, non interventistico, contenuto nella vera dottrina Monroe, agli altri spazi, ma al contrario un’estensione spaziale ed illimitata dei principi liberaldemocratici alla terra intera ed a tutta l’umanità. In questo modo egli cercava una giustificazione per la sua inaudita ingerenza nello spazio extraeuropeo”, op. ult. Cit. pp. 493-494 (il corsivo è mio).

11 E continua che i due Roosevelt e Wilson avevano fatto “di un pensiero spaziale specificamente americano un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli, essi hanno tentato di utilizzare la dottrina Monroe come uno strumento del dominio del capitale anglosassone sul mercato mondiale”

12 Op. ult. cit., p. 503.

13 Con la nota problematica su quanto l’assolutezza si applichi all’interno e quanto lo possa essere all’esterno, ossia nei riguardi dei soggetti di diritto internazionale (Stati e “ordinamento in fieri” già distinte da Bodin.

14 v. Der Begriff des Politischen, trad it. Di P. Schiera ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 44.

15 Idealismo, che in concreto, è spesso la fusione di interessi e paternostri.

16 Economia e società, trad. it. di T. Bagiotti, MIlano 1980, p. 51. Poco dopo scrive “ Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (p. 52).

17 Trattato politico, trad. it. di A. Droetto , Torino 1958, p. 161.

18 I passi ultimi citati sono tratti dal volume L’unità del mondo ed altri saggi, curato da A. Campi, A. Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303 ss. Schmitt scrive, proseguendo “L’unità mondiale di una umanità organizzata solo tecnicamente fu anche per Dostoievski un tremendo incubo. Questo incubo si aggrava via via che la tecnica cresce. E che rimedio è ancora possibile oggi, date le enormi possibilità tecniche e la crescente intensità del potere politico?” .

Lettera al Presidente, lettre à monsieur le Président_di e a cura di Giuseppe Germinario

Invito a leggere questa lettera-appello pubblicata in Francia il 22 aprile scorso. Segue qualche considerazione_Giuseppe Germinario

“Per un ritorno all’onore dei nostri governanti”: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo

Su iniziativa di Jean-Pierre Fabre-Bernadac, ufficiale di carriera e direttore del sito di Place Armes , una ventina di generali, un centinaio di alti ufficiali e più di mille altri soldati hanno firmato un appello per un ritorno di onore e dovere all’interno della classe politica. Valeurs Actuelles diffondono, con la loro autorizzazione, la lettera intrisa di convinzione e impegno da parte di questi uomini legati al loro Paese.

Signor Presidente,
Signore e Signori del Governo,

Signore e Signori, Membri del Parlamento,

L’ora è seria, la Francia è in pericolo, diversi pericoli mortali la minacciano. Noi che, anche nella riserva, rimaniamo soldati di Francia, non possiamo, nelle attuali circostanze, restare indifferenti alle sorti del nostro bel Paese.

Le nostre bandiere tricolori non sono solo un pezzo di stoffa, simboleggiano la tradizione, attraverso i secoli, di coloro che, qualunque sia il loro colore della pelle o la loro fede, hanno servito la Francia e hanno dato la vita per essa. Su queste bandiere, troviamo in lettere d’oro le parole “Onore e Patria”. Tuttavia, il nostro onore oggi sta nella denuncia della disgregazione che colpisce la nostra patria.

– Disgregazione che, attraverso un certo antirazzismo, si manifesta con un unico scopo: creare sul nostro suolo un malessere, addirittura odio tra le comunità. Oggi alcuni parlano di razzismo, indigenismo e teorie decoloniali, ma attraverso questi termini è la guerra razziale quella che vogliono questi odiosi e fanatici partigiani. Disprezzano il nostro Paese, le sue tradizioni, la sua cultura, e vogliono vederlo dissolversi portandogli via il suo passato e la sua storia. Così attaccano, attraverso statue, antiche glorie militari e civili analizzando parole vecchie di secoli.

– Disgregazione che, con l’islamismo e le orde suburbane, porta al distacco di molteplici lembi della nazione per trasformarli in territori soggetti a dogmi contrari alla nostra costituzione. Tuttavia, ogni francese, qualunque sia il suo credo o il suo non credo, è ovunque a casa in Francia; non può e non deve esistere nessuna città, nessun distretto in cui non si applicano le leggi della Repubblica.

– Disgregazione, perché l’odio ha la precedenza sulla fraternità durante le manifestazioni in cui il potere usa la polizia come agenti ausiliari e capri espiatori di fronte ai francesi in gilet giallo che esprimono la loro disperazione. Questo mentre individui infiltrati e incappucciati saccheggiano aziende e minacciano le stesse forze di polizia. Tuttavia, questi ultimi applicano solo le direttive, a volte contraddittorie, fornite da voi, governanti.

I pericoli aumentano, la violenza aumenta di giorno in giorno. Chi avrebbe previsto dieci anni fa che un giorno un professore sarebbe stato decapitato al momento di uscire dal liceo? Tuttavia, noi, servitori della Nazione, che siamo sempre stati pronti a garantire con la vita il nostro impegno – come richiesto dal nostro stato militare, non possiamo essere di fronte a tali atti degli spettatori passivi.

Inoltre, coloro che guidano il nostro paese devono assolutamente trovare il coraggio necessario per sradicare questi pericoli. Per fare ciò, spesso è sufficiente applicare le leggi esistenti senza debolezze. Non dimenticare che, come noi, la grande maggioranza dei nostri concittadini non ne può più delle vostre colpevoli tergiversazioni.

Come ha detto il cardinale Mercier, primate del Belgio: “Quando la prudenza è ovunque, il coraggio non è da nessuna parte. ” Allora, signore e signori, basta rinvii, la situazione è seria, il lavoro è enorme; non perdete tempo e sappiate che siamo pronti a sostenere politiche che tengano conto della salvaguardia della nazione.

D’altra parte, se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un’esplosione e l’intervento dei nostri camerati in servizio in ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri connazionali sul territorio nazionale.

Come si vede, non è più tempo di procrastinare, altrimenti domani la guerra civile metterà fine a questo caos crescente e le morti, di cui voi sarete responsabili, si conteranno a migliaia.

I generali firmatari:

General de Corps d’Armée (ER) Christian PIQUEMAL (Legione straniera), General de Corps d’Armée (2S) Gilles BARRIE (Fanteria), Generale di divisione (2S) François GAUBERT ex governatore militare di Lille, Generale di divisione (2S ) Emmanuel de RICHOUFFTZ (fanteria), generale di divisione (2S) Michel JOSLIN DE NORAY (truppe di marina), generale di brigata (2S) André COUSTOU (fanteria), generale di brigata (2S) Philippe DESROUSSEAUX di MEDRANO (treno), aria Generale di brigata (2S) Antoine MARTINEZ (Air Force), Generale di brigata aerea (2S) Daniel GROSMAIRE (Air Force), Generale di brigata (2S) Robert JEANNEROD (Cavalleria), Brigata generale (2S) Pierre Dominique AIGUEPERSE (fanteria) generale Brigade (2S) Roland DUBOIS (Trasmissioni), gBrigadier General (2S) Dominique DELAWARDE (Fanteria), Brigadier General (2S) Jean Claude GROLIER (Artiglieria), Brigadier General (2S) Norbert de CACQUERAY (Directorate General of Armament), Brigadier General (2S) Roger PRIGENT (ALAT), Brigadier Generale (2S) Alfred LEBRETON (CAT), Medico generale (2S) Guy DURAND (Servizio sanitario dell’esercito), Contrammiraglio (2S) Gérard BALASTRE (Marina).

Il documento ha una rilevanza intrinseca sia per la qualità che per il numero dei firmatari, tutti militari di vario ordine e grado dell’armée, che per il tono sorprendentemente ultimativo impresso. Un accento che non lascia troppi spazi a vie di mezzo e tempi lunghi. Può essere l’indizio di qualcosa di grosso e di risolutivo in via di preparazione, come di una prosopopea senza esito fattivo, ma che porterà di sicuro discredito e dileggio ai promotori pur mossi dalle migliori intenzioni. Sicuramente è un grido di allarme. La situazione in Francia, pur comune a gran parte dei paesi occidentali, in realtà è particolarmente grave se addirittura un politico dall’approccio globalista e cosmopolitico del calibro del Presidente Macron, coltivato certosinamente in quegli ambienti, ha dovuto assumere occasionalmente e artatamente le vesti del sovranista; vesti che non sono con ogni evidenza le sue.
Assume un peso ancora più significativo e interessante sia per il merito esplicito e sottinteso che per il contesto che l’appello ha smosso ed entro il quale sta agendo.
  • nel merito ci rivela in primo luogo quello che sul nascere avevamo prontamente sottolineato a suo tempo in vari articoli del sito: il movimento di massa dei “Gilet Gialli” per le sue modalità operative e per la contestuale diffusione territoriale presupponeva l’esistenza di addentellati se non proprio di una direzione e indirizzo veri e propri di importanti centri decisionali e politici presenti nelle istituzioni francesi. La sorprendente denuncia, per altro più che fondata, nel documento dell’utilizzo violento, strumentale e decisamente sproporzionato di settori delle forze dell’ordine sono una sorta di certificazione di quanto sottolineato. Stigmatizza giustamente e apertamente la funzione politica dell’antirazzismo e delle rivendicazioni antidiscriminatorie prevalenti odierni, capovolgendoli paradossalmente in forme subdole di razzismo, di frammentazione e separatismo identitari tali da erodere irreversibilmente le fondamenta della coesione sociale e della nazione. L’islamismo radicale in realtà è forse la forma più scoperta e radicale di queste manifestazioni, ma ne esistono altre, concomitanti, molto più subdole, perché espressione diretta della cultura occidentale e sostenute da buona parte delle élites dominanti; anche questi, aspetti più volte evidenziati nei nostri articoli.
  • Riguardo al contesto e alle dinamiche innescate il documento ci dice analogamente molto di più del significato letterale delle parole ivi contenute. Si rivolge correttamente di fatto a tutte le forze politiche e a tutti i rappresentanti delle istituzioni. I promotori infatti hanno stigmatizzato gelidamente l’invito inopportuno e intempestivo di Marine Le Pen ad aderire al suo partito, il RN ex Front National. Una conferma dei rapporti deteriorati e di sorda diffidenza già emersi dopo pochi mesi dalle elezioni europee e a pochi mesi dal loro ingresso con la fuoriuscita di importanti esponenti di questa area dal partito della Le Pen, ma anche della funzione di eterna oppositrice di comodo di quest’ultima nel panorama politico transalpino. Si inserisce in una vasta campagna politica portata avanti da organi di informazione conservatori in Francia ben consolidati ed affermati, tra i vari questo https://www.valeursactuelles.com/clubvaleurs/politique/philippe-de-villiers-jappelle-a-linsurrection/ Segue numerose vicende significative tra le quali la clamorosa defenestrazione per via giudiziaria di Fillon, personaggio per altro inadeguato, dalla candidatura alle ultime presidenziali e le rumorose dimissioni del popolare Pierre de Villiers, fratello di Philippe, da comandante delle forze armate nel luglio del 2017 e del quale per altro brilla l’assenza tra i firmatari.

Il dibattito e gli schieramenti politici in Francia sono certamente meno delineati rispetto alla situazione offerta dagli Stati Uniti, certamente più nitidi e chiari rispetto alla frivolezza e alla irrilevanza dei temi affrontati in Italia. Si avvicina a quella americana nella frammentazione geografica e socioeconomica e nel livello politico di ostilità. Può aiutare a decifrare ciò che in realtà si muove meno consapevolmente e in drammatico ritardo anche nel nostro paese. Rivela le intenzioni politiche e le prospettive di autonomia presenti in maniera strutturata in una parte rilevante della sua classe dirigente, ma evanescenti nella nostra. Prospettive ed intenzioni da realizzare però con una qualche possibilità di successo solo a patto di dosare l’azione politica e gli obbiettivi alla reale condizione di forza del paese, ormai strettamente integrato politicamente e ormai militarmente nel campo occidentale piuttosto che essere guidata dalla illusione di grandeur di tempi ormai passati. E’ il discrimine che passa tra la eventuale ripetizione del tentativo gaullista degli anni ’60 e una sua disastrosa parodia. In Francia non mancano espressioni e autorevoli pubblicazioni dotate dell’adeguata consapevolezza della posta in palio. L’intervista a de Villiers, citata in precedenza, fa invece parte della categoria dei velleitari, forse non a caso così ampiamente promossa. Parla di insurrezione, un atto politico forte ed estremo, necessario in delimitati momenti, contingenze e ambiti di azione; in realtà pensa ad una battaglia culturale conducibile in altri ambiti che prescindono tra l’altro dalla detenzione effettiva di potere. Parla di un nemico politico, in realtà lo confonde e lo assimila ad una componente e/o un avversario, il capitalista, in particolare il rentier, in posizione dominante in ambito economico, largamente influente in ambito sociale, ma dal punto di vista politico e nelle sue varie frazioni solo parte di centri decisionali cooperanti e in conflitto tra di essi; una figura alla quale le forze politiche, anche le più “antagonistiche”, non sanno che offrire modalità diverse di regolazione piuttosto che la sua estinzione vista la inesistenza di alternative. Un limite di impostazione che accomuna paradossalmente le componenti radicali dei due versanti opposti e contrapposti. Da qui l’omologazione fuorviante ad un’unica tendenza del radicalismo islamico che, per quanto settario, ha una funzione aggregante e alternativa e del particolarismo identitario e nichilista, legato alla rivendicazione del desiderio personale come diritto e della diversità come convivenza giustapposta di gruppi separati. Il richiamo alla patria, alla nazione, alla identità nazionale rischia di ridursi ad una sterile declamazione. L’avversario politico diventa indefinito, come regolarmente accaduto con i movimenti mondialisti antiglobalisti e il più delle volte quello sbagliato o quello meno rivelante, portando il più delle volte inavvertitamente la serpe in casa. Così per de Villiers, non solo per lui, sul podio di nemico numero uno assurge l’economista Klaus Schwab, il gruppo di Davos, la cupola globalista senza avvedersi che tali gruppi certamente esistono, perpetrano propositi di cambiamento della natura umana e di controllo totalitario globale, ma solo se compatibili con le mire di controllo e di potere politico di centri decisionali, di unità statali tanto totalitari nelle intenzioni quanto costretti a prendere atto dell’esistenza di altri centri contrapposti e potenzialmente dalle mire similari. Le implicazioni di tale rappresentazione sono molteplici: si può cadere nella tentazione velleitaria di un pedissequo ritorno al passato tipico dei reazionari, nel rifiuto della tecnologia piuttosto che nella valutazione del suo utilizzo e dei principi che ne informano gli sviluppi, fermo restando che la conoscenza e l’ambizione di controllo dei processi naturali sono parte integrante dello sviluppo scientifico quali che siano i rapporti sociali e a prescindere da come questi rapporti vi entrino; si possono proporre “sante alleanze” (ad esempio tra tutti gli stati) contro una cosiddetta cupola che è in realtà parte integrante del sistema di potere di qualcuno di essi; non si riesce a percepire l’esistenza di varie “cupole” anche finanziarie al servizio di centri e stati “amici” o ritenuti tali o esenti per natura da certi esercizi di potere. La lettera, forse al di là della valutazione e delle stesse intenzioni dei firmatari, assume quindi una importanza politica enorme, specie in una Europa addomesticata ormai da oltre settanta anni. Vedremo verso quale versante penderà la propensione dei promotori; quel declivio ne determinerà la sorte. In Italia ci guardiamo bene dal raggiungere quel crinale che obbligherebbe senza scampo ad una scelta. Potrebbe essere ancora una volta la nostra salvezza da tragedie immani ma anche successi che invece la Francia ha conosciuto; sicuramente, nel migliore dei casi, si tratterebbe di una sopravvivenza di una classe dirigente, meno di un popolo, costantemente con il cappello in mano. Giuseppe Germinario

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE, di Pierluigi Fagan

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE. Il 20 gennaio, Joe Biden prende ufficialmente possesso della Casa Bianca, sei giorni dopo cade il Governo Conte, tre settimane dopo, entra in carica il Governo Draghi. Tre settimane dopo si dimette da segretario PD Zingaretti e pochi giorni dopo torna dalla legione straniera francese lo sbiadito Letta. Molinari a nomina Exor quindi casa Agnelli, è già direttore di Repubblica da un anno. I primi di Aprile, il nuovo ed indaffarato Presidente del Consiglio italiano trova il tempo per far la sua prima visita estera in Libia dove si sta tentando una via di stabilizzazione ancora incerta basata su un governo di origine affaristico-tripolitana, ovvero la parte salvata dalla capitolazione contro le armate di Haftar (Egitto, Russia, Emirati Arabi, Francia), dalla Turchia. Ma qualche giorno dopo, il cauto e diplomatico Draghi dà del dittatore a Erdogan nel mentre il capo del governo libico e con lui mezzo governo si reca in Turchia a portare omaggi e prender ordini. Nel mentre, un ragazzo campano già quasi leader di un movimento politico dai contorni imprecisi, già Ministro degli Esteri di un governo che guardava con amicizia alla Russia e viepiù alla Cina, diventa il primo straniero ricevuto ufficialmente a Washington dal piccolo ma coriaceo Blinken. Il crash course atlantista di Di Maio è spettacolare: German Marshall Fund, Brooking Institute, Atlantic Council, tra quelli che si possono citare, ma -in questi casi- è norma vi siano anche incontri più riservati, brevi, chiari e precisi. NYT, infine, incorona pubblicamente Draghi come nuovo perno di una Europa rinascente ora che Merkel tramonta, la Germania diventerà oggetto di instabilità dilaniata da crisi di leadership, mentalità inadeguata ai tempi (sotto il profilo economico e monetario), capitolo Nord Stream, ambiguità filo-russe e filo-cinesi. Draghi serve anche a contenere, ma con persuasione, Macron e la strana coppia (che in verità non si ama affatto sul piano personale), oltreatlantico è già brandizzata “Dracon”. Macron viene per secondo come si vede, per esigenze di sonorità del neologismo forse, perché a sua volta indebolito dalla perdita dell’asse con Merkel e dalla prossima resa dei conti elettorali tra un anno verso la quale Le Pen sta assumendo un peso sempre più solido e potenzialmente convincente.
Se Mattarella è, per via di ordinamento giuridico, il perno condizionante ogni evoluzione di quadro politico italiano commissariato dagli Stati Uniti negli ultimi settanta a passa anni e se Draghi è il nuovo statista italiano quale l’Italia non ha più dai tempi del centro-sinistra (Andreotti, Moro, Craxi), ma con più prestigio internazionale non certo politico ma economico-bancario che conta anche di più, vorrei dire due cose su Letta, ma appena accennate.
Saprete che Letta dopo esser stato uno dei tanti vuoti a perdere delle eterne baruffe chiozzotte italiche in cui governi senza potere si alternano come in una eterna commedia dell’arte che l’Autore non sa più come terminare dilatando finti colpi di scena che ormai non hanno alcun senso, da decenni e decenni, deve aver ricevuto il saggio consiglio di andar a fare l’Erasmus della Grande Politica in Francia, diventando addirittura direttore della più prestigiosa scuola di affari politici internazionali Sciences-Po (1872). Sebbene, l’ultima versione ufficiale on line dei membri della Commissione Trilaterale, non lo riporti, fino ad un mese fa risultava attivo membro del think tank atlantista fondato nel 1973 da Rockefeller, Kissinger e Brzezinsky. Nel Comitato esecutivo, siedono Mario Monti e Paolo Magri dell’ISPI. Altri italiani sono: Dassù (vice-Ministro affari esteri governi Monti e Letta, Aspenia, Aspen Institute, Fondazione Italia USA, LUISS), Vittorio Grilli ora JP Morgan ma ai tempi di Ciampi braccio operativo di Draghi al Tesoro, l’ex ignota giornalista RAI Monica Maggioni che dopo una lunga visita negli Stati Uniti divenne uno dei pochi giornalisti autorizzati a seguire dal di dentro (embedded) l’invasione Bush dell’Iraq fino a diventare magicamente presidente della RAI sotto il governo Renzi. Abbiamo poi manager, banchieri e Tronchetti Provera e fino a poco tempo fa c’era anche Maurizio Molinari.
A due anni dalla fondazione, nel pieno della crisi degli anni ’70, la Trilateral che do per nota ai lettori nella sua essenza, ispirazione e ruolo, dà mandato a tre studiosi di fare una analisi strategica sul momento occidentale. Ne esce il famoso rapporto “La crisi della democrazia” di Cozier, Watanuki e l’ineffabile Huntington (quello dello “Scontro delle Civiltà” Garzanti, 1996), edito in Italia con prefazione di Gianni Agnelli. In sostanza, il rapporto avvertiva i committenti che per il sistema occidentale le cose andavano a mettersi in sempre più complicata prospettiva e se non si poneva rimedio alle vampate democratiche generate dai processi politici degli anni ’60 e ’70 ritenuti eccessivamente politicizzati, cioè “democratici”, gli ordini di sistema sarebbero inevitabilmente collassati. Tradotto, non era la democrazia ed esser in crisi era la crisi ad esser generata dalla democrazia o meglio se non generata, peggiorata sino alle più estreme conseguenze. Inizia così un movimento di pensiero poco noto agli studiosi che si sveglieranno solo ad anni Novanta inoltrati quando si cominciò a parlare di “post-democrazia”. Per via delle magiche sincronie tra immagini di mondo – think tank – mondo dei saperi e delle conoscenze ufficiali, l’anno dopo il rapporto Trilateral, a Stoccolma riscoprono un dimenticato economista austriaco tale Friedrich von Hayek e gli danno addirittura un Nobel (1974). Ma per esser più chiari, due anni dopo lo danno anche a Milton Friedman. Così inizia la temperie neoliberista, da analisi, strategie, narrazioni, simboli, che fertilizzano menti e consessi da cui nascono processi poi concretizzati da Thatcher prima e Reagan poi, fino al Washington Consensus (1989) e poi al WTO (1994). Analizzati dagli economisti, questi quadri teorici sono in realtà di natura politica e geopolitica.
Sul piano della teoria, possiamo farla semplice: da metà anni ’70 inizia un teorizzato processo di costante diminuzione della democrazia occidentale poiché la società politica va in conflitto con la società di mercato e la società di mercato è l’ordinatore degli Stati Uniti d’America che è l’ordinante del sistema occidentale. In Italia c’è un partito che si chiama Partito Democratico che ha oggi un segretario che va in giro a parlare di giovani, donne, diritti umani, erasmi e nuovi mondi sostenibili, il quale è membro storico di un think tank che da decenni pilota la de-democratizzazione occidentale.
Ma chi se ne frega. Tutti presi dalla critica neoliberale, anticapitalista, dai sovranismi, dai populismi, dalla critica culturale del politicamente corretto, dalla settimana di “poltrone e sofà” o da quella omofoba, dalla moneta sovrana o come fosse Antani con la scappellamento a destra (lo scappellamento è sempre “a destra”), dai palpitamenti per Putin con brividini euro-asiatici, o il fiero Johnson o il divino Trump, a nessuno viene in mente di fare una serie riflessione politica sulla democrazia. A volte si avverte un vasto a diffuso disagio sul termine, parlo di gente normale, tra noi stessi.
La democrazia è una entità concettuale sconosciuta in teoria politica. Non c’è nel pensiero liberale se non come democrazia delle élite così come nacque più di tre secoli fa in Inghilterra, non c’è nella teoria marxista (neo-post, cinquanta sfumature di Marx), è appena trainata in secondo piano da quella socialista, è aborrita da tutti gli elitisti, odiata dai conservatori, dai fascisti, dai nazionalisti, dai vari mélange di rossobrunisti, financo dai progressisti, dai né di destra-né di sinistra, seppellita dalle ambigue nebbiosità mentali dei post moderni e dei biopolitici fino ai chierici dei tre monoteismi ed i sacerdoti scientisti e gli intelligenti artificiali. Se ne occupano attivamente solo gli americani ed il loro giro largo di affiliati e se ne occupano per svuotarla sistematicamente di senso reale per usarne il brillante simulacro che è un “sotto il vestito niente”, un caso paradigmatico di conflitto schizoide tra parola e cosa.
Sovrano è chi decide in auto-nomia, cioè di chi è in grado di darsi la legge (nomos) da sé (auto) altro che Schmitt. E se ne non sei in grado, arruolati in una delle tante offerte di vociante servitù volontaria, anche quella critica, l’importante è parlar d’altro, lascia fare, lascia passare, lascia pensare, non ti preoccupare, puoi anche lamentarti tanto se non hai una teoria forte a riguardo, non capirai neanche di cosa si sta parlando.

DISTRUZIONE E PROTEZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISTRUZIONE E PROTEZIONE

Si sente sempre più spesso ripetere quanto sosteneva (tra gli altri) Schumpeter che il capitalismo induce un processo di distruzione creatrice selezionando gli imprenditori più efficienti ed espellendo gli altri. L’occasione per incentivare questa selezione – un aspetto di darwinismo sociale – sarebbe la pandemia: le imprese che riescono a superare la crisi sono le più efficienti, mentre quelle che non sopravvivono, meritano di essere chiuse.

Anche se il ragionamento ha una sua validità e in Italia spesso si è fatto il contrario – con risultati deludenti – invocarlo in relazione alla pandemia è errato per due motivi, che poco hanno a che fare con l’efficienza economica.

Il primo è che l’uomo non è solo homo aeconomicus ma, tra l’altro – Aristotele docet – zoon politikon: e per l’appunto tale caratteristica lo porta a costituire gruppi politici il cui fondamento è, come scriveva Hobbes, lo scambio tra protezione e obbedienza: si deve obbedire a chi da protezione e, in cambio, si ha il dovere di proteggere chi obbedisce. Se però tale rapporto diviene impossibile, viene meno sia il dovere d’obbedienza che quello di protezione, come scriveva il filosofo di Malmesbury. Ne consegue che ciò che economicamente è condivisibile può essere politicamente da evitare (e viceversa). Anzi tante politiche di sostegno a imprese, e ancor più, a settori economici poco efficienti sono state motivate con argomentazioni di carattere politico, nel senso suddetto.

Ad esempio la politica europea di sostegno all’agricoltura (a cominciare dal MEC), molto costosa, era volta al sostegno della produzione, tesa anche (e probabilmente soprattutto) ad evitare che la carenza alimentare fosse utilizzata da altre potenze per motivi ostili. Come capitato agli Imperi centrali nella prima guerra mondiale.

Ed è meno evidente, ma d’importanza considerevole che politiche economicamente valide, specie nel breve periodo, in una visione più ampia e di lungo periodo, siano controproducenti sul piano politico. Così la distruzione di piccole aziende, tenuto conto che i piccoli imprenditori, e, in genere i ceti medi, sono il sostegno sociale decisivo, oggi, delle democrazie liberali.

E, a tale proposito, non è detto che la “distruzione creatrice” di tante piccole imprese, vada a favore di un migliore “funzionamento” del mercato. La concentrazione del capitale in poche grosse aziende, rende assai più facile gestire il mercato in funzione non della libera concorrenza e del favor consumatoris, ma di accordi oligopolistici tendenti a limitarlo o eluderlo.

Il secondo: per quale ragione qualche milione di piccoli imprenditori dovrebbe essere a favore di politiche che non garantiscono protezione? Al punto che coloro che le sostengono tendono a vagheggiare l’opportunità della loro distruzione?

Se Hobbes si era sforzato di dimostrare la razionalità del potere (e dell’associazione) politica proprio per lo scambio protezione-obbedienza, per quale ragione l’individuo razionale del filosofo inglese dovrebb’essere diventato un Tafazzi, tutto contento di soffrire e insieme mantenere e votare governanti intenzionati – e giulivi nel manifestarlo – a farlo morire socialmente ed economicamente (e talvolta, complice la pandemia, anche fisicamente)?

In realtà la tesi criticata è frutto di due postulati: che ciò che è economicamente valido esaurisce il “bene” (sociale e individuale). Come se l’uomo fosse solo un essere economico. E non anche economico. La storia prova che non è così: vi sono state nazioni non disponibili a barattare il benessere economico con l’indipendenza politica.

Anche perché nel lungo periodo, è questa a garantire quello, più che l’inverso.

De Bonald scriveva che durante la Rivoluzione e le guerre napoleoniche gli svizzeri, un popolo (all’epoca) di “pastori e frati” avevano difeso la propria indipendenza assai meglio dei Paesi Bassi che “contavano i più ricchi uomini d’affari del mondo” (forse è anche per quello che gli svizzeri sono diventati assai più ricchi dei pur benestanti olandesi).

In secondo luogo c’è il (consueto) modo di ragionare consistente nel confrontare una “legge” generale e soprattutto astratta (anche tendenzialmente valida), applicandola a una situazione specifica e concreta, senza adeguarla. Con il risultato che l’abito confezionato da pensatori (talvolta neppure da talk-show) vesta male chi l’indossa, magari non per colpa del sarto, ma perché l’abbigliando ha la gobba. E l’abilità del politico, come diceva Giolitti, è quella del bravo sarto che confeziona il vestito adatto a chi lo deve portare. Chi pensa il contrario è, come donna Prassede, troppo affezionato alle proprie idee (con la conseguenza di non cambiarle e spesso neppure di adattarle): è un puro “ragionare” ideologico.

E non può quindi pretendere che venga condiviso, perfino con entusiasmo, da coloro che ne pagano il conto.

Avv. Teodoro Klitsche de la Grange

 

La Francia tra l’Edipo algerino e quella dei decoloniali, di Bernard Lugan

 

Quando l’ingustizia e la sopraffazione diventano un alibi per giustificare la propria esistenza e protrarre la propria agonia_Giuseppe Germinario

Il “sistema” algerino e i “decoloniali” accusano la Francia di essere responsabile dei loro problemi. Un atteggiamento edipico già ben descritto a suo tempo da Agrippa d’Aubigné quando scrisse che:

“Il cadavere della Francia si sta decomponendo sotto gli occhi di due bambini: il primo è un criminale e il secondo un parassita. Uno è rivolto alla morte e l’altro alla devastazione. ”

Nel gennaio 2021, un giornalista algerino, rilanciato compiacentemente dai media francesi, ha persino chiesto un risarcimento alla Francia per il “saccheggio” del ferro “algerino” che, secondo lui, sarebbe stato utilizzato per realizzare la Torre Eiffel !!!

Tuttavia, come ha mostrato Paul Sugy, i pezzi che compongono il monumento emblematico sono stati fusi in Lorena, nelle acciaierie di Pompeo, dal minerale di ferro estratto dalla miniera di Lurdres, anch’essa situata a Meurthe-et-Moselle …

L’affermazione tanto esorbitante quanto surrealista di questa borsa di studio del “Sistema” algerino non è la follia di un miniato. Al contrario, fa parte di una strategia di richieste eccessive intese a ottenere scuse, quindi riparazioni “dure e veloci” dalla Francia.

Tuttavia, bisogna vedere che, fino all’arrivo al potere di François Hollande, la posizione algerina era stata relativamente “mantenuta”. Né Georges Pompidou, né Valéry Giscard d’Estaing, né François Mitterrand, né Jacques Chirac né Nicolas Sarkozy avrebbero accettato tali richieste di scuse. Tuttavia, tutto è cambiato con le dichiarazioni irresponsabili di François Hollande seguite da quelle di Emmanuel Macron sul tema della colonizzazione. Da lì, essendosi autoumiliata la Francia, l’Algeria si è trovata quindi in una posizione di forza per pretenderne sempre di più. Tanto più che messo alle strette dalla strada, pur essendo in gioco la sua sopravvivenza, il “Sistema” algerino ha solo due mezzi per cercare di deviare la marea della protesta popolare che minaccia di prevalere:

1) Attacco al Marocco, come nel 1963, quando la “Guerra delle Sabbie” gli permise di mettere da parte la rivolta Kabyle. Ma, con il Marocco, che si strofina contro di esso …

2) Niente del genere con il cappone francese i cui attuali leader non osano ricordare ai loro omologhi algerini che nel 1962, la Francia “madre generosa”, lasciò in eredità alla sua “cara Algeria” secondo l’espressione del compianto Daniel Lefeuvre, un’eredità composta da 54.000 chilometri di strade e binari (80.000 con binari sahariani), 31 strade nazionali di cui quasi 9.000 km asfaltate, 4.300 km di ferrovie, 4 porti attrezzati a standard internazionali, 23 porti sviluppati (di cui 10 accessibili a grandi cargo e di cui 5 che potrebbero essere serviti da navi di linea), 34 fari marittimi, una dozzina di aeroporti principali, centinaia di strutture ingegneristiche (ponti, gallerie, viadotti, dighe, ecc.), migliaia di edifici amministrativi, caserme, edifici ufficiali, 31 idroelettrici o centrali termiche, un centinaio di importanti industrie nell’edilizia, metallurgia, cemento, ecc. dic scuole, istituti di formazione, scuole superiori, università con 800.000 bambini iscritti a 17.000 classi (cioè altrettanti insegnanti, due terzi dei quali francesi), un ospedale universitario da 2.000 posti letto ad Algeri, tre grandi ospedali della capitale ad Algeri, Orano e Costantino , 14 ospedali specializzati e 112 ospedali polivalenti, l’eccezionale cifra di un letto ogni 300 abitanti. Per non parlare del petrolio scoperto e messo in funzione dagli ingegneri francesi. Nemmeno un’agricoltura fiorente è rimasta incolta dopo l’indipendenza, a tal punto che oggi l’Algeria deve importare anche concentrato di pomodoro, ceci e persino semola di cuscus …

Tutto ciò che esisteva in Algeria nel 1962 era stato pagato con le tasse francesi. Nel 1959, l’Algeria ha così assorbito il 20% del bilancio statale francese, vale a dire più dei bilanci combinati di istruzione nazionale, lavori pubblici, trasporti, ricostruzione e alloggi, industria e commercio! E tutto ciò che la Francia ha lasciato in eredità all’Algeria era stato costruito dal nulla, in un paese che non era mai esistito da quando era passato direttamente dalla colonizzazione turca alla colonizzazione francese. Anche il suo nome gli era stato dato dalla Francia …

L’atteggiamento dei “decoloniali”, da parte sua, nasce da un complesso edipoesistenziale accoppiato con una dose di schizofrenia.

Secondo loro, la Francia, che li accoglie, li nutre, li veste, li accudisce, li ospita e li educa, è una nazione “geneticamente schiava, razzista e colonizzatrice”, in cui i discendenti dei colonizzati sono in una situazione ”, cioè di” dominato “. Da qui la loro cosiddetta “emarginazione”. A questa affermazione di vittimismo si aggiunge un sentimento vendicativo e conquistatore, ben riassunto da Houria Bouteldja, una delle figure di spicco di questa corrente:

“La nostra semplice esistenza, unita a un peso demografico relativo (da 1 a 6) africanizza, arabizza, berberizza, creolizza, islamizza, i neri, la figlia maggiore della Chiesa, una volta bianca e immacolata, come sicuramente lucidano il sacco e le onde del surf e ripulire i blocchi di granito con pretese di eternità (…) ”.

Autenticamente francofobici, odiando la Francia, i “decoloniali” rifiutano quindi tutto ciò che è connesso ad essa. Hafsa Askar, vicepresidente del sindacato studentesco UNEF, ha scritto il 15 aprile 2019, il giorno del suo incendio:

“Non mi interessa Notre-Dame de Paris, perché non mi interessa la storia della Francia … Wallah … non ce ne frega niente (traduzione: combattiamo la c …), oggettivamente, è il tuo delirio di piccoli bianchi.

Tuttavia, esprimendo il loro risentimento e il loro odio per la Francia nella lingua dell’odiato “colono”, e affermandosi intellettualmente attraverso i suoi riferimenti filosofico-politici, i “decoloniali” hanno un atteggiamento schizofrenico …

Tuttavia, non c’è il minimo paradosso di questi adulatori il cui “pensiero” è germogliato sul suolo filosofico della rivoluzione del 1789. Attaccando frontalmente, e in modo edipico, i dogmi dei loro genitori – “valori della Repubblica” , “diritti umani”, “convivenza” e “secolarismo” – i “decoloniali” hanno infatti polverizzato il quadro dottrinale e morale di questa sinistra universalista che, per decenni, è stata il vettore della decadenza francese. Poiché non sopravviverà alla morte della sua ideologia e dei suoi “valori fondanti”, qui lascia gradualmente la storia, aprendo così la strada a un cambio di paradigma.

Spetta ai portatori di forze creative cogliere questa storica opportunità!

– Per la critica alla storia ufficiale dell’Algeria scritta dall’FLN e da Benjamin Stora, faremo riferimento al mio libro Algeria, la storia sottosopra .

– Per l’analisi e la confutazione dell’ideologia “decoloniale” si consulti il ​​mio libro Responding to the decolonials, the islamo-leftists and the terrorists of pentance .

L’Italia al centro del Mediterraneo_con Antonio de Martini

L’incidente ancora in via di soluzione nel canale di Suez dovrebbe contribuire a porre in primo piano la collocazione e il ruolo strategico dell’Italia nel Mediterraneo. I protagonisti esterni al paese hanno dimostrato più volte di esserne ampiamente consapevoli; paradossalmente lo stesso non si può dire riguardo alla classe dirigente italiana, soprattutto l’attuale. E se qualche barlume qua e là dovesse sorgere in proposito mancherebbe ad essa l’ambizione, la volontà e la capacità di utilizzo dei mezzi e delle opportunità che si aprirebbero nei vari frangenti. Dovrebbe essere questo il centro del dibattito politico propedeutico ad una svolta sempre più inderogabile, indispensabile a garantire l’esistenza dignitosa stessa della nazione_Buon ascolto, Giuseppe Germinario

PS_ Luigi Negrelli è nato in Trentino, a Fiera di Primiero

https://rumble.com/vf5l0h-litalia-al-centro-del-mediterraneo-con-antonio-de-martini.html

 

1 19 20 21 22 23 53