L’IMPORTANZA DI DIFENDERE LA NAZIONE, (a cura di) Luigi Longo

 

Propongo due letture: una di Manlio Dinucci (Bipartisan il riarmo USA anti Russia) apparsa sul il Manifesto il 18/10/17, l’altra una dichiarazione di diversi studiosi (Una Europa in cui possiamo credere) pubblicata sul sito https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/, ottobre 2017.

Le due letture apparentemente non sono connesse, ma riflettendo più a fondo ci si accorge che sono innervate su due questioni fondamentali che interessano la fase attuale del multicentrismo: la prima riguarda la sfera militare per l’aumento sempre più vistoso della spesa per gli armamenti e per l’importanza dello spazio italiano per le strategie statunitensi in funzione anti Russia (lo spettro dei decisori USA);

la seconda concerne il recupero di una Europa delle nazioni e l’importanza che assume in questa fase la sovranità nazionale, sia per contrastare l’Europa delle regioni sia per un’Europa protagonista tra Occidente e Oriente, per costruire una relazione tra i popoli rispettosa delle differenze.

 

BIPARTISAN IL RIARMO USA ANTI-RUSSIA

di Manlio Dinucci

I Democratici, che ogni giorno attaccano il repubblicano Trump per le sue dichiarazioni bellicose, hanno votato al Senato insieme ai Repubblicani per aumentare nel 2018 il budget del Pentagono a 700 miliardi di dollari, 60 miliardi in più di quanto richiesto dallo stesso Trump. Aggiungendo i 186 miliardi annui per i militari a riposo e altre voci, la spesa militare complessiva degli Stati uniti sale a circa 1000 miliardi, ossia a un quarto del bilancio federale. Decisivo il voto all’unanimità del Comitato sui servizi armati, formato da 14 senatori repubblicani e 13 democratici.

Il Comitato sottolinea che «gli Stati uniti devono rafforzare la deterrenza all’aggressione russa: la Russia continua ad occupare la Crimea, a destabilizzare l’Ucraina, a minacciare i nostri alleati Nato, a violare il Trattato Inf del 1987 sulle forze nucleari a raggio intermedio, e a sostenere il regime di Assad in Siria». Accusa inoltre la Russia di condurre «un attacco senza precedenti ai nostri interessi e valori fondamentali», in particolare attraverso «una campagna diretta a minare la democrazia americana». Una vera e propria dichiarazione di guerra, con cui lo schieramento bipartisan motiva il potenziamento dell’intera macchina bellica statunitense.

Queste alcune delle voci di spesa nell’anno fiscale 2018 (iniziato il 1° ottobre 2017):
10,6 miliardi di dollari per acquistare 94 caccia F-35, 24 in più di quanti richiesti dall’amministrazione Trump;
17 miliardi per lo «scudo anti-missili» e le attività militari spaziali, 1,5 in più della cifra richiesta dall’amministrazione;
25 miliardi per costruire altre 13 navi da guerra, 5 in più di quante richieste dall’amministrazione.

Dei 700 miliardi del budget 2018, 640 servono principalmente all’acquisto di nuovi armamenti e al mantenimento del personale militare, le cui paghe vengono aumentate portando il costo annuo a 141 miliardi; 60 miliardi servono alle operazioni belliche in Siria, Iraq, Afghanistan e altrove. Vengono inoltre destinati 1,8 miliardi all’addestramento e l’equipaggiamento di formazioni armate sotto comando Usa in Siria e Iraq, e 4,9 miliardi al «Fondo per le forze di sicurezza afghane».

Alla «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa», lanciata nel 2014 dall’amministrazione Obama dopo «l’aggressione revanscista russa all’Ucraina», vengono destinati nel 2018 4,6 miliardi: essi servono ad accrescere la presenza di forze corazzate statunitensi e il «preposizionamento strategico» di armamenti Usa in Europa. Vengono inoltre stanziati 500 milioni di dollari per fornire «assistenza letale» (ossia armamenti) all’Ucraina.

L’aumento del budget del Pentagono traina quelli degli altri membri della Nato sotto comando Usa, compresa l’Italia la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100.

Allo stesso tempo il budget del Pentagono prospetta che cosa si prepara per l’Italia.

Tra le voci di spesa minori, ma non per questo meno importanti, vi sono 27 milioni di dollari per la base di Aviano, a riprova che continua il suo potenziamento in vista dell’installazione delle nuove bombe nucleari B61-12, e 65 milioni per il programma di ricerca e sviluppo di «un nuovo missile con base a terra a raggio intermedio per cominciare a ridurre il divario di capacità provocato dalla violazione russa del Trattato Inf».

In altre parole, gli Stati uniti hanno in programma di schierare in Europa missili nucleari analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta, questi ultimi installati allora anche in Italia a Comiso. Ce lo annuncia dal Senato degli Stati uniti, con il suo unanime voto bipartisan, il Comitato sui servizi armati.

LA DICHIARAZIONE DI PARIGI

UN’EUROPA IN CUI POSSIAMO CREDERE

1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

L’Europa è nostra casa.

2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa. Si appella alle esagerazioni e alle distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa, e resta cieca di fronte ai propri vizi. Smerciando con condiscendenza caricature a senso unico della nostra storia, questa Europa falsa nutre un pregiudizio invincibile contro il passato. I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

Una falsa Europa ci minaccia.

3. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

La falsa Europa è utopica e tirannica.

4. Siamo in un vicolo cieco. La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive. I nostri Paesi e la cultura che condividiamo vengono svuotati da illusioni e autoinganni su ciò che l’Europa è e deve essere. Noi c’impegniamo dunque a resistere a questa minaccia diretta contro il nostro futuro. Noi difenderemo, sosterremmo e promuoveremo l’Europa vera, l’Europa a cui in verità noi tutti apparteniamo.

Dobbiamo difendere la Europa vera.

5. L’Europa vera si aspetta e incoraggia la partecipazione attiva al progetto di una vita politica e culturale comuni. Quello europeo è un ideale di solidarietà basato sull’assenso a un corpo di leggi che si applica a tutti, ma che è limitato nelle pretese. Questo assenso non ha sempre assunto la forma della democrazia rappresentativa. Ma le nostre tradizioni di lealtà civica riflettono un assenso fondamentale alle nostre tradizioni politiche e culturali, quali che ne siano le forme. Nel passato, gli europei hanno combattuto per rendere i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare e di questa storia andiamo giustamente orgogliosi. Pur facendolo, talora con modi apertamente ribelli, hanno vigorosamente affermato che, malgrado le ingiustizie e le mancanze, le tradizioni dei popoli di questo continente sono le nostre. Questo zelo riformatore rende l’Europa un luogo alla costante ricerca di una giustizia sempre maggiore. Questo spirito di progresso è nato dall’amore e dalla lealtà verso le nostre patrie.

La solidarietà e la lealtà civica incoraggiano la partecipazione attiva.

6. È uno spirito europeo di unità che ci permette di fidarci pubblicamente gli uni degli altri, anche tra stranieri. Sono i parchi pubblici, le piazze centrali e i grandi viali delle città e dei borghi europei a esprimere lo spirito politico europeo: noi condividiamo una vita e una res publica comuni. Riteniamo nostro dovere assumerci la responsabilità del futuro delle nostre società. Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Non siamo soggetti passivi.

7. L’Europa vera è una comunità di nazioni. Abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure ci siamo sempre riconosciuti affini, anche quando siamo arrivati al contrasto, o persino alla guerra. A noi questa unità nella diversità sembra naturale. Tuttavia è una realtà notevole e preziosa poiché non è né naturale né inevitabile. La forma politica più comune di questa unità nella diversità è l’impero, che i re guerrieri europei hanno cercato di ricreare per secoli dopo la caduta dell’impero romano. L’attrattiva esercitata dal modello imperiale è perdurata, ma ha prevalso lo Stato-nazione, la forma politica che unisce l’essere popolo alla sovranità. Lo Stato-nazione è quindi diventato il tratto caratteristico della civiltà europea.

Lo Stato-nazione è un segno distintivo dell’Europa.

8. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Noi non sosteniamo un’unione imposta o forzata.

9. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimo. L’impero spirituale universale della Chiesa ha portato l’unità culturale all’Europa, ma lo ha fatto senza un impero politico. Questo ha permesso che entro una cultura europea condivisa fiorissero lealtà civiche particolari. L’autonomia di ciò che chiamiamo società civile è dunque diventata una peculiarità della vita europea. Inoltre, il Vangelo cristiano non consegna all’uomo una legge divina esaustiva da applicare alla società, e questo rende possibile affermare e onorare la varietà delle legislazioni positive delle diverse nazioni senza recare minaccia alla nostra unità europea. Non è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo.

Il cristianesimo incoraggiava l’unità culturale.

10. L’Europa vera afferma la pari dignità di qualsiasi persona, senza fare differenze di sesso, di rango o di razza. Anche questo proviene dalle nostre radici cristiane. Le nostre virtù nobili hanno un’ascendenza inequivocabilmente cristiana: l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità. Il cristianesimo ha rivoluzionato le relazioni tra gli uomini e le donne, dando valore all’amore e alla fedeltà reciproca come mai era stato fatto prima. Il legame del matrimonio consente sia agli uomini sia alle donne di prosperare in comunione. La maggior parte dei sacrifici che compiamo sono a vantaggio dei nostri coniugi e dei nostri figli. Anche questo spirito di donazione di sé è un altro contributo cristiano all’Europa che amiamo.

Le radici cristiane nutrono l’Europa.

11. L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica. Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche. Da europei, ci sforziamo per raggiungere la magnificenza, gemma sulla corona delle virtù classiche. A volte questo ha condotto alla competizione violenta per la supremazia. Ma al suo meglio è l’aspirazione all’eccellenza che ispira gli uomini e le donne dell’Europa a creare opere musicali e artistiche d’ineguagliata bellezza o a compiere svolte straordinarie nella scienza e nella tecnologia. Le virtù profonde dei Romani che sapevano come dominare se stessi, nonché l’orgoglio nel partecipare alla vita civica e lo spirito dell’indagine filosofica dei Greci non sono mai stati dimenticati nell’Europa vera. Anche queste eredità sono nostre.

Le radici classiche incoraggiano l’eccellenza.

12. L’Europa vera non è mai stata perfetta. I fautori dell’Europa falsa non sbagliano nel proporre sviluppi e riforme, e tra il 1945 e il 1989 molte di apprezzabile e di onorevole è stato fatto. La nostra vita condivisa è un progetto che continua, non un’eredità sclerotizzata. Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

L’Europa è un progetto condiviso.

13. L’Europa vera è a rischio. I risultati ottenuti dalla sovranità popolare, dalla resistenza all’impero, dal cosmopolitismo capace di amore civico, il retaggio cristiano di una vita autenticamente umana e dignitosa, l’impegno vivo nei confronti della nostra eredità classica stanno tutti scemando. I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.

Stiamo perdendo la nostra casa.

14. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Sta prevalendo una libertà falsa.

15. Per le generazioni europee più giovani, invece, la realtà è molto meno dorata. L’edonismo libertino conduce spesso alla noia e a un profondo senso d’inutilità. Il vincolo matrimoniale si è indebolito. Nel mare torbido della libertà sessuale, il desiderio profondo dei giovani di sposarsi e di formare famiglie viene spesso frustrato. Una libertà che frustra le ambizioni più profonde del nostro cuore diventa una maledizione. Sembra che le nostre società stiano cadendo nell’individualismo, nell’isolamento e nell’inanità. Al posto della libertà, siamo condannati al vuoto conformismo di una cultura guidata dai consumi e dai media. È quindi nostro dovere dire la verità: la generazione del 1968 ha distrutto, ma non ha costruito. Ha creato un vuoto ora riempito dai social media, dal turismo di massa e dalla pornografia.

L’individualismo, l’isolamento e l’astuzia sono diffusi.

16. E mentre ascoltiamo i vanti di questa libertà senza precedenti, la vita dell’Europa si fa sempre più globalmente regolamentata. Ci sono regole ‒ spesso predisposte da tecnocrati senza volto legati a interessi forti ‒ che governano le nostre relazioni professionali, le nostre decisioni nel campo degli affari, i nostri titoli di studio, i nostri mezzi d’informazione e d’intrattenimento, la nostra stampa. E ora l’Europa cerca di restringere ancora di più la libertà di parola, una libertà che è stata europea sin dal principio e che equivale alla manifestazione della libertà di coscienza. Ma gli obiettivi di queste restrizioni non sono l’oscenità e le altre aggressioni alla decenza nella vita pubblica. Al contrario, la classe dirigente europea vuole manifestamente restringere la libertà di parola. Gli esponenti politici che danno voce a certe verità sconvenienti sull’islam e sull’immigrazione vengono trascinati in tribunale. La correttezza politica impone tabù così forti da squalificare in partenza qualsiasi tentativo di sfidare lo status quo. In realtà, l’Europa falsa non incoraggia la cultura della libertà. Promuove una cultura dell’omogeneità guidata da criteri mercantili e della conformità imposta da logiche politiche.

Siamo regolati e gestiti.

17. L’Europa falsa si vanta pure di un impegno senza precedenti a favore dell’eguaglianza. Pretende di promuovere la non-discriminazione e l’inclusione di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le identità. In questo campo sono stati effettivamente compiuti progressi veri, ma il distacco utopistico dalla realtà ha preso il sopravvento. Negli ultimi decenni, l’Europa ha perseguito un grandioso progetto multiculturalista. Chiedere o figuriamoci promuovere l’assimilazione dei nuovi arrivati musulmani alle nostre usanze e ai nostri costumi, peggio ancora alla nostra religione, è stata giudicata un’ingiustizia triviale. L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

Il multiculturalismo è impraticabile.

18. In quest’idea c’è una grande misura di malafede. La maggior parte degli esponenti dei nostri mondi politici è senza dubbio convinta che la cultura europea sia superiore, ma non lo può dire in pubblico perché offenderebbe gl’immigrati. Stante questa superiorità, pensano che l’assimilazione avverrà in modo naturale e rapido. Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, “loro” diventeranno necessariamente come “noi”; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso. Nel frattempo, s’impiega la dottrina multiculturalista ufficiale come strumento terapeutico per gestire le incresciose ma “temporanee” tensioni culturali.

Cresce la fede falsa.

19. Ma vi è una malafede ancora maggiore, di un genere più oscuro. Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il “deficit di democrazia” di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo. Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale dei diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie europee confiscano la vita politica dell’Europa, rispondendo alle sfide in modo tecnocratico: non esiste alternativa. È questa la tirannia morbida ma concreta che abbiamo oggi di fronte.

Aumenta la tirannia tecnologica.

20. Nonostante i migliori sforzi profusi dai suoi partigiani per cercare di tenere in piedi un castello d’illusioni confortanti, l’arroganza dell’Europa falsa sta però ora diventando del tutto evidente. Soprattutto, l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato. L’intrattenimento popolare e il consumo materiale non alimentano la vita civica. Depauperate d’ideali nobili e inibite dall’ideologia multiculturalista a esprimere orgoglio patriottico, le nostre società hanno difficoltà a trovare la volontà di difendersi. In più, non sono certo la retorica dell’inclusione o l’impersonalità di un sistema economico dominato da gigantesche società internazionali per azioni a poter ridare vigore al senso civico e alla coesione sociale. Dobbiamo essere franchi ancora una volta: le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale. Non è solo il terrorismo islamico a portare soldati pesantemente armati nelle nostre strade. Per domare le contestazioni antisistema e persino le folle ubriache dei tifosi di calcio oggi sono necessari poliziotti in tenuta antisommossa. Il fanatismo delle tifoserie sportive è un segno disperato nel bisogno profondamente umano di solidarietà, un bisogno che d’altra parte l’Europa falsa disattende.

La Europa falsa è fragile e impotente.

21. In Europa, i ceti intellettuali sono, purtroppo, fra i principali partigiani ideologici della boria dell’Europa falsa. Senza dubbio, le nostre università sono una delle glorie della civiltà europea. Ma laddove un tempo esse cercavano di trasmettere a ogni nuova generazione la sapienza delle epoche passate, oggi per i più il pensiero critico equivale alla semplicistica ricusazione del passato. La stella polare dello spirito europeo è stata la rigorosa disciplina dell’onestà e dell’obiettività intellettuali. Ma da due generazioni questo nobile ideale è stato trasformato. L’ascetismo che un tempo cercava di liberare la mente dalla tirannia dell’opinione dominante si è mutata in un’animosità spesso compiaciuta e irriflessiva contro tutto ciò che ci appartiene. Questo atteggiamento di ripudio culturale è un modo semplice e a buon mercato per atteggiarsi a “critici”. Negli ultimi decenni, è stato sperimentato nelle sale da convegno, diventando una dottrina, un dogma. E l’unirsi a questo credo viene preso come segno di elezione spirituale da “illuminati”. Di conseguenza, le nostre università sono diventate agenti attivi della distruzione culturale.

Si è sviluppata una cultura del ripudio.

22. Le nostri classi dirigenti promuovono i diritti umani. Combattono i cambiamenti climatici. Progettano una economia di mercato più globalmente integrata e l’armonizzazione delle politiche fiscali. Supervisionano i passi compiuti verso l’eguaglianza di genere. Fanno così tanto per noi! Che importa dunque dei meccanismi con cui sono arrivati ai loro posti? Che importa se i popoli europei sono sempre più scettici delle loro gestioni?

Le èlite esibiscono in modo arrogante le loro virtù.

23. Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato. Oggi l’Europa è dominata da un materialismo privo di obiettivi incapace di motivare gli uomini e le donne a generare figli e a formare famiglie. La cultura del ripudio defrauda le generazioni future del senso d’identità. In alcuni dei nostri Paesi vi sono zone intere in cui i musulmani vivono informalmente autonomi rispetto alle leggi vigenti, quasi fossero dei coloni invece che dei nostri connazionali. L’individualismo ci isola gli uni dagli altri. La globalizzazione trasforma le prospettive di vita di milioni di persone. Quando le si sfida, le nostre classi dirigenti dicono che la loro è semplicemente la gestione dell’inevitabile e la sistemazione delle necessità più impellenti. Nessun’altra strada è possibile, e resistere è irrazionale. Le cose non possono andare altrimenti. Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista. Man mano che le divisioni sociali e la sfiducia civica si fanno evidenti, la vita pubblica europea diviene più rabbiosa, più rancorosa, e nessuno sa dove questo potrà condurre. Dobbiamo smettere di camminare lungo questa strada. Dobbiamo liberarci della tirannia dell’Europa falsa. Un’alternativa c’è.

Un’alternativa c’è.

24. L’opera di rinnovamento inizia con l’autocoscienza teologica. Le pretese universaliste e multiculturaliste dell’Europa falsa si rivelano essere surrogati della religione, con tanto di impegni di fede e pure di anatemi. È l’oppio potente che paralizza politicamente l’Europa. Noi dobbiamo quindi sottolineare che le aspirazioni religiose appartengono al mondo della religione, non a quello della politica, meno ancora a quello dell’amministrazione burocratica. Per ricuperare la nostra capacità di agire nella politica e nella storia, è imperativo risecolarizzare la vita politica dell’Europa.

Dobbiamo rifiutare i surrogati della religione.

25. Quest’impresa esigerà che ognuno di noi rinunci al linguaggio bugiardo che evita le responsabilità e che favorisce la manipolazione ideologica. I discorsi sulla diversità, sull’inclusione e sul multiculturalismo sono vuoti. Spesso è un linguaggio utilizzato per travestire i nostri fallimenti da conquiste: la dissoluzione della solidarietà sociale viene “in realtà” presa come un segnale di benvenuto, di tolleranza e d’inclusione. Ma questo è linguaggio da marketing, inteso a oscurare la realtà invece che a illuminarla. Dobbiamo allora ricuperare il rispetto profondo per la realtà. Il linguaggio è uno strumento delicato, e usandolo come un randello lo si degrada. Dobbiamo farci fautori del decoro linguistico. Il ricorso alla denuncia è il segno della decadenza che ha aggredito il nostro tempo. Non dobbiamo tollerare l’intimidazione verbale, men che meno le minacce di morte. Dobbiamo proteggere chi parla in modo ragionevole anche quando pensiamo che sbagli. Il futuro dell’Europa dev’essere liberale nel senso migliore del termine, ovvero garante di discussioni pubbliche appassionate, libere da ogni minaccia di violenza e di coercizione.

Dobbiamo ripristinare un vero e proprio liberalismo.

26. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Abbiamo bisogno di statisti responsabili.

27. Riconoscendo il carattere particolare dei Paesi europei, e la loro impronta cristiana, non dobbiamo lasciarci confondere dalle affermazioni pretestuose dei multiculturalisti. L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta. Ci attendiamo giustamente che chi migra nelle nostre terre divenga parte dei nostri Paesi, adottando le nostre usanze. Quest’aspettativa deve però essere sostenuta da una politica solida. Il linguaggio del multiculturalismo è stato importato dagli Stati Uniti d’America. Ma l’età d’oro dell’immigrazione negli Stati Uniti è stata all’inizio del secolo XX, un periodo di crescita economica notevolmente rapida in un Paese sostanzialmente privo di Welfare State e caratterizzato da un forte senso d’identità nazionale che ci si attendeva gl’immigrati assimilassero. Dopo avere accolto numeri enormi d’immigrati, gli Stati Uniti hanno poi praticamente sigillato le porte per due generazioni. L’Europa deve imparare da quell’esperienza americana invece che adottare le ideologie americane contemporanee. Quell’esperienza dice che il lavoro è un potente forza di assimilazione, che un Welfare State indulgente può invece impedire l’assimilazione e che a volte la prudenza politica impone di ridurre le cifre dell’immigrazione, anche in modo drastico. Non dobbiamo permettere che l’ideologia multiculturalista deformi la nostra capacità di valutare in sede politica quale sia il modo migliore per servire il bene comune, cosa che peraltro esige che comunità nazionali sufficientemente unite e solidali considerino il proprio bene come comune.

Dobbiamo rinnovare l’unità nazionale e la solidarietà.

28. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa Occidentale ha saputo far crescere sistemi democratici vitali. Dopo il crollo dell’impero sovietico, i Paesi dell’Europa Centrale hanno ricuperato la propria vitalità civica. Sono due delle conquiste più preziose cui l’Europa sia mai giunta. Ma andranno perdute se non affrontiamo il nodo dell’immigrazione e dei cambiamenti demografici in atto nei nostri Paesi. Solo gl’imperi possono essere multiculturali, ed è esattamente un impero ciò che l’Unione Europea diventerà se non riusciremo a fare di una nuova unità civica solidale il criterio per valutare le politiche sull’immigrazione e le strategie per l’assimilazione.

Solo gli imperi sono multiculturali.

29. Molti pensano erroneamente che l’Europa sia scossa solo dalle controversie sull’immigrazione. In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Una giusta gerarchia nutre il benessere sociale.

30. La dignità umana è più del diritto a essere lasciati in pace e le dottrine dei diritti umani internazionali non esauriscono la sete di giustizia, meno ancora la sete del bene. L’Europa deve riorganizzare il consenso attorno alla cultura morale di modo che le gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa. Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Dobbiamo ripristinare la cultura morale.

31. Mentre riconosciamo gli aspetti positivi delle economie di libero mercato, dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato. Non possiamo permettere che tutto sia in vendita. I mercati che funzionano bene esigono che sia il diritto a precedere e a presiedere (rule of law) e il nostro diritto che tutto precede e presiede deve puntare più in alto della mera efficienza economica. Del resto i mercati funzionano meglio quando sono inseriti in istituzioni sociali forti organizzate sui princìpi autonomi non mercantili. La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali. Oggi il gigantismo aziendale minaccia persino la sovranità politica. I Paesi debbono cooperare per dominare l’arroganza e l’irragionevolezza delle forze economiche globali. Noi ci riconosciamo quindi in un uso prudente del potere esercitato dai governi per sostenere beni sociali non economici.

I mercati devono essere ordinati verso fini sociali.

32. Noi crediamo che l’Europa abbia una storia e una cultura degne di essere difese. Troppo spesso, però, le nostre università tradiscono la nostra eredità culturale. Dobbiamo riformare i programmi scolastici per incoraggiare la trasmissione della nostra cultura comune invece che indottrinare i giovani con una cultura del ripudio. Gl’insegnanti e i mentori di ogni livello hanno il dovere della memoria. Dovrebbero essere orgogliosi del ruolo di ponte fra le generazioni passate e future che hanno. Dobbiamo ricuperare anche il senso della cultura europea alta, usando il bello e il sublime come norma comune e rigettando la degradazione delle arti a una fattispecie della propaganda politica. Questo esigerà che si allevi una nuova generazione di mecenati. Le società per azioni e le burocrazie si sono rivelate essere custodi davvero poveri delle arti.

L’istruzione deve essere riformata.

33. Il matrimonio è il fondamento della società civile e la base dell’armonia fra gli uomini e le donne. È il legame intimo tra un uomo e una donna che si organizza per il sostentamento della famiglia e per la crescita dei figli. Noi affermiamo che i ruoli più fondamentali che abbiamo sia nella società sia in quanto esseri umani sono quelli di padri e di madri. Il matrimonio e i figli sono parte integrante di qualsiasi prospettiva di prosperità umana. A coloro che li hanno generati al mondo i figli richiedono sacrificio. È un sacrificio nobile cui deve essere reso onore. Noi pertanto auspichiamo politiche sociali prudenti che incoraggino e rafforzino il matrimonio, la maternità e l’educazione dei figli. Una società che non accoglie i figli non ha futuro.

Il matrimonio e la famiglia sono essenziali.

34. L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve. L’Europa deve attingere alla sapienza profonda delle proprie tradizioni piuttosto che affidarsi a slogan semplicistici e a richiami emotivi divisivi. Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente. È un segno che persino nel mezzo della nostra cultura politica degradata e impoverita è possibile ridare vita all’agire storico dei popoli europei.

Il populismo dovrebbe essere combattuto.

35. Rifiutiamo perché falsa la pretesa di dire che non esiste alternativa responsabile alla solidarietà artificiale e senz’anima di un mercato unificato, di una burocrazia transnazionale e di un intrattenimento dozzinale. L’alternativa responsabile è l’Europa vera.

Il nostro futuro è la Europa vera.

36. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

Dobbiamo assumerci la responsabilità.

Philippe Bénéton – Università di Rennes-(Francia)

Rémi Brague – Università di Parigi I Pantheon – Sorbonne– (Francia) Chantal Delsol – Istituto di ricerca Hannah Arend, Accademia delle Scieze morali e politiche – (Francia)

Roman Joch – Università di Praga – (Repubblica Ceca)

Lánczi András – Università Corvinus di Budapest – (Ungheria)

Ryszard Legutko – Università Jagiellonian di Cracovia (Polonia)

Roger Scruton – Università di Buckingham – (Regno Unito)

Robert Spaemann – Università di Monaco – (Germania)

Bart Jan Spruyt – Fondazione Edmund Burke – L’Aia – (Olanda)

Matthias Storme – Università cattolica di Leuven – (Belgio)

CASA NOSTRA O COSA LORO? I MEDIA CONTINUANO A OMETTERE NOTIZIE DI RILIEVO, di Antonio De Martini (pubblicato su facebook)

 

Durante la visita del re saudita Salman ben Abdulaziz a Mosca, i corrispondenti italiani ci hanno detto che hanno parlato di petrolio.
Può darsi benissimo.

La SAMI (Saudi Arabian Military Industries) ha pubblicato un comunicato informando che sono stati sottoscritti una serie di MOU ( memorandum of understanding) – d’ordine del figlio del re, il crownprince Mohammed ben Salman – con la
Rosoboronexport, per la fornitura del sistema antiaereo A400 famoso ormai in tutto il vicino oriente per la sua inesorabile efficacia.

Altre forniture coinvolte,i missili anticarro Kornet -EM, i LRM TOS-1A e dei lanciabmbe ags30 con le granate relative, un numero imprecisato di Kalashnikov col relativo munizionamento è peggio di tutto, uno dei MOU riguarda l’impianto in Arabia Saudita di fabbriche, con particolare riguardo ai sistemi AS400.

Questo passo gravido di conseguenze, indica che la Russia è in Arabia per restarci; che il principe saudita vuole mostrare indipendenza rispetto all’alleato americano che continua a rifornire anche il rivale Katar ad onta delle sanzioni decise dai sauditi.
E soprattutto che la lobby delle armi ha perso l’esclusiva di un cliente che solo lo scorso anno ha piazzato ordini per 80 miliardi di dollari.

L’ AS 400 che era la garanzia di inattaccabilità dell’Iran potrebbe essere una garanzia a breve scadenza e quindi è bene che non disobbedisca a Mosca; che gli Emirati ( alleati dei sauditi nella vicenda Katar) mostrano interesse per i caccia S35 russi che surclassano nettamente i 24 Rafale francesi comprati dal Katar e che il cugino del crownprince , oggi agli arresti a casa, potrebbe a breve tornare in auge tra gli yankees visto che il giovane Mohammed non si limita a fare il galletto con gli yemeniti, ma alza la cresta anche con gli USA.

Siamo in un’altra vigilia di crisi e i nostri media ci tengono all’oscuro.

Forse vogliono scongiurare l’accaparramento delle scatole di sardine da parte delle nostre massaie.

podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa

Può capitare che anche l’uomo politico più ostinato e cinico, ma con ancora qualche residuo anelito di compassione represso nel fondo dell’animo, possa essere indotto ad un moto, magari un semplice cenno, di comprensione e conforto verso il suo più acerrimo avversario. Lo sconforto che ha colto in mondovisione John Kelly, capo di gabinetto presidenziale, proprio nelle fasi più colorite ed impetuose dell’intervento di Trump all’ONU, può spezzare ogni resistenza e senz’altro indurre a questo impulso. Bisognerebbe del resto mettersi, anche se di malavoglia, nei panni dei rappresentanti del vecchio establishment americano, in particolare neocon. Per mesi hanno dovuto metter mano a tutto il proprio arsenale e portare allo scoperto anche gli arnesi più riservati, quelli da esibire più come deterrenza che da mettere all’opera; hanno pregiudicato la credibilità dei mezzi di informazione, della magistratura, dei servizi investigativi e probabilmente di importanti settori delle forze armate, ma alla fine sembrava che fossero finalmente riusciti una volta per tutte ad addomesticare il Presidente riottoso e ad isolarlo dalla congrega di cattivi consiglieri. Ecco invece riemergere senza preavviso il Trump baldanzoso delle origini. E da quale pulpito! Niente meno che dall’assemblea generale dell’ONU; un sinedrio certamente poco produttivo di strategie politiche, ma certamente spettacolare nella funzione di propagazione mediatica e nella costruzione di immagine di un personaggio politico. Durante la sua performance ha rispolverato gran parte del suo repertorio d’antan: “America First”, il Nazionalismo, l’antiglobalismo, l’antimultilateralismo, l’indispensabile funzione dello stato; ha concesso rispetto ed ammirazione agli statisti dediti alla difesa degli interessi nazionali del proprio paese. Con qualche inverosimile acrobazia logica ha sostenuto però la coerenza della propria politica estera e l’incoerenza dei cosiddetti “stati canaglia” e dei loro sostenitori più o meno occulti. Un funambolismo troppo audace anche per i più perspicaci ed aperti interlocutori. La gran cassa dei saccenti, dimentichi delle batoste elettorali, non ha tardato a pontificare sull’inaffidabilità e sull’irrazionalità del Presidente. Faremmo torto alla nostra intelligenza, oltre che a quella di Trump, ad assecondare questa tesi. Gianfranco Campa ci illumina come di consueto sulla ragione principale di questo comportamento, tutt’altro che irrazionale. Trump sa benissimo che il proprio salvacondotto, nell’operazione trasformista ancora in corso, rimane la conservazione di buona parte del consenso del nocciolo duro del proprio elettorato. Il vecchio establishment non vuol capire che strattonature ulteriori rischiano di isolare del tutto Trump e trascinare il paese in un confronto politico interno dalla virulenza paragonabile solo a quella già conosciuta a metà ‘800. Il taglio particolare del discorso, inoltre, è motivato probabilmente da un’altra ragione ancora più imbarazzante; si tratta forse di una volontà manifesta di evidenziare la contraddizione e di chiedere tra le righe comprensione e tregua a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi interlocutori privilegiati, primo fra tutti Putin, di una politica estera meno interventista e più condivisa. L’inerzia delle attuali dinamiche geopolitiche rende però pressoché impossibili ulteriori prove d’appello. Lavrov, ciò non ostante, ha dichiarato apertamente che “l’attuale incoerenza della politica estera americana” è la conseguenza delle numerose trappole disseminate dalla vecchia amministrazione Obama ai danni del nuovo presidente. Anche su questo Gianfranco Campa è stato particolarmente lucido in un articolo precedente http://italiaeilmondo.com/2017/03/09/sotto-la-copertura-delle-tenebre-di-gianfranco-campa/  _ Giuseppe Germinario

LA DEMOCRAZIA VALE SE SI VOTA GIUSTO; Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk, a cura di Max Bonelli

Questa volta ci troviamo in Donbass (Ucraina), grazie al prezioso contributo di Max Bonelli. Il Donbass è uno dei tanti focolai di guerra pronti a riesplodere in funzione delle strategie conflittuali ai danni della Russia. Ha la peculiarità di essere a poche centinaia di chilometri da Mosca. L’occasione del conflitto scatta con il colpo di mano in Ucraina di quattro anni fa con il quale si è voluto spostare quel paese da una condizione di neutralità e di forte legame con la Russia ad una di vera e propria sudditanza occidentale e nel contempo si è proceduto ad una politica di forte discriminazione della popolazione russa e russofona, ancora più accentuata e violenta di quella dei paesi baltici. Sull’Ucraina si sono concentrate, oltre a quelle strategiche e più prosaiche americane, anche le ambizioni egemoniche dei paesi europei centrali e nordorientali sino a creare un guazzabuglio dal quale è scaturito un regime fantoccio nemmeno in grado di attingere dal proprio paese i componenti del governo. Su tutto ha brillato l’Unione Europea, pronta ad accettare nel proprio seno, un paese in piena guerra civile contrariamente alla prassi ultradecennale. La massima aspirazione possibile, al momento, risulta un congelamento delle posizioni acquisite_ Germinario Giuseppe

Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

Mi trovo al museo della Grande Guerra Patriottica di Donetsk, appena di fianco all’enorme stadio dello Shakhtar Donetsk, che doveva ospitare i successi della squadra del miliardario Rinat Akhmetov. L’uomo che più di tutti in Donbass aveva saputo sfruttare la rottamazione dell’URSS e che in venti anni aveva costruito un impero finanziario con capitale Donetsk. Accanto a questo simbolo oggi nazionalizzato dalla Repubblica, lavora Vladimir Vladimirovic Savelov veterano dell’Afganistan e dell’ultima guerra in Est ucraina. Un età indefinita tra i 50 ed i 60 bruno dal volto affilato, la tradizionale maglietta a righe dei fanti di marina, si intona con un busto sorprendentemente atletico per la sua età.

Un uomo simbolo che aveva  perduto una patria, ideali in quella rottamazione ma che nella ribellione del 2014 ha ridato corpo ad una speranza di un ritorno alla Russia ed ad una società più giusta.

 

D: Prima della guerra in Donbass, che attività lavorativa svolgevi?

 

R:Ho iniziato a servire il mio paese in Afganistan, ho ancora in ricordo parecchie schegge in entrambe le gambe, ero giovane al ritorno ho fatto tanti lavori. Minatore, metalmeccanico, prima della fine dell’Urss ero responsabile dell’educazione ideologica dei giovani di un grande quartiere Kievski di Donetsk. Poi dopo la caduta dell’Unione Sovietica è caduto tutto un mondo ed anche qui a Donetsk i dollari hanno comprato l’anima della gente.

 

D:Quindi la sua collocazione politica era ben chiara prima della guerra?

 

R: Si certo, ero membro del partito.

 

D: L’unione delle repubbliche sovietiche è caduta con uno strano voto democratico, possiamo dire che la prima votazione veramente democratica in Unione sovietica (il referendum del 1991), vede la volontà popolare della maggioranza dei cittadini esprimersi a favore dell’unione ed invece i vertici politici (Eltsin, Kravciuk) decidono di non rispettare questa volontà popolare e lo stato si divide in tante repubbliche, il Donbass a maggioranza russa finisce sotto l’Ucraina. Come ha vissuto personalmente questi 20 anni di indipendenza ucraina?

 

R:

Vorrei fare una premessa partendo dalla fine della guerra patriottica. L’Urss con tutti i paesi con cui collaborava od aveva alleanze non si comportava come un alleato che depredava le nazioni ma anzi le aiutava in maniera tangibile. Faccio l’esempio di Cuba e del Vietnam che hanno avuto più volte i loro debiti condonati. A differenza degli Usa che  ha saccheggiato con le sue multinazionali ed i governi fantoccio l’Africa ed il Medio Oriente. Questa e’ stata una delle concause della cattiva situazione economica dell’URSS negli anni anni 80. Inoltre sono stati sempre fomentati e foraggiati i nazionalismi all’interno dell’Urss dai servizi segreti occidentali per mettere in atto un processo di disgregazione.

Nonostante questo  votammo a favore per tenere l’URSS unita oltre il 60% complessivo della popolazione, ma i dirigenti politici se ne fregarono ed preferirono seguire i desideri delle minoranze nazionalistiche dividendo la Russia dalla Ucraina. Riscontrammo con i fatti che proprio le persone che sventolavano la bandiera della democrazia erano i primi ad ignorarla quando non gli faceva comodo.

Una manovra che ebbe sicuramente come regia la CIA e l’ambasciata americana. Io come  tutto l’Est ucraina da Karkov ad Odessa che aveva votato per rimanere uniti mi ritrovai in uno stato non mio sotto una bandiera che non mi apparteneva.

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D: Trovo molto interessante questa tua riflessione. Nello specifico il Donbass vede la sua volontà democratica violentata non solo in quella occasione, ma anche con il golpe a Maidan. Yanukovych era stato eletto nel 2012 con la stragrande maggioranza dei voti della Crimea e del Donbass. Cosi come non venne rispettato il voto  dei Crimeani per annettersi alla Russia e quello interno dell’11 maggio 2014 a Donetsk e Lugansk con lo stesso proposito.

Concorda con questa mia analisi?

 

R: Certo la volontà del popolo di Donetsk è stata calpestata sistematicamente, con il golpe di maidan dove un legittimo governo è stato rovesciato e l’11 maggio 2014 quando  volevamo rispondere con un atto democratico al golpe pagato dagli americani.  Ma la SBU i servizi speciali ucraini fecero male i loro calcoli quando attuarono il massacro del 2 maggio 2014 ad  Odessa e quello del 9 maggio a Mariupoli dove nel giorno della vittoria spararono alla gente che manifestava pacificamente. Cinquanta morti ad Odessa e venti a Mariupoli. La faccia della democrazia americana venne allo scoperto per tutti e l’11 maggio l’80% voto per l’annessione alla Russia.

Eravamo gente che non aveva votato giusto, da reprimere con la violenza più brutale esattamente come facevano i nazisti tedeschi. Per questo in questo museo abbiamo aperto una sezione dedicata agli eroi morti nella guerra in Donbass Givi, Motorola e tanti altra gente nata qui, russi da tutte le Russie ma anche ucraini che non si riconoscevano nel nazismo di Kiev. In tanti sono morti in questa ribellione. Non potevamo fare altro che ribellarci al sistematico sopruso della nostra volontà.

 

D:Parliamo dell’inizio della guerra civile, possiamo dire che è partita da Slaviansk?

 

R: No,tutto è partito dalla strage di Odessa e Mariupoli, intendo la mobilitazione generale. Io penso che questi processi storici avvengono come una reazione a catena. Il golpe a maidan è stato preparato con un lavoro di anni, sia  e livello di addestramento che sul piano della propaganda antirussa. Poi i servizi Nato-ucraini preparano le stragi Odessa e Mariupoli, stragi che soprattutto ad Odessa possono essere sfuggite di mano anche a loro e che si sono presentate in una brutalità imbarazzante.

Tutto ciò ha portato ad una reazione ancora più forte e da li la guerra civile.

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D: Nel mio libro Antimaidan riporto un video apparso su You

Tube dove cittadini di Donetsk che vivevano al confine con l’aeroporto vedevano arrivare un centinaio di soldati con uniformi ed equipaggiamento non ucraino. Parliamo di marzo, aprile 2014

Cosa ricordi dei combattimenti a cui hai partecipato nel 2014?

Hai avuto la sensazione che l’aeroporto a Donetsk fosse

tenuto da militari non ucraini, intendo uomini di paesi Nato nella primavera di quell’anno?

 

R: Ho partecipato al primo attacco all’aeroporto il 26 maggio eravamo divisi in tre gruppi. Due coprivano dai grandi magazzini Metro e dall’edificio Volvo ed il terzo penetrò nel nuovo terminale. Li e sul perimetro trovammo una resistenza ben organizzata, erano professionisti non sembravano ucraini, certo la sicurezza al 100% non la ho.

Erano ben vestiti ed addestrati, interagivano bene con gli elicotteri di attacco che fecero il grosso delle nostre vittime.

Noi invece eravamo armati di AK con tre  caricatori a testa una autonomia di cinque minuti di fuoco, qualche mitragliatrice e qualche RPG7. Nulla avevamo contro gli elicotteri, abbiamo avuto molti morti al nuovo terminale, una settantina almeno. Mi ricordo che arrivò un cittadino, un camionista, che aveva sentito dei combattimenti con tanti morti e feriti e venne in pantofole con il suo camion ad evacuare i feriti ed i corpi dei morti, sotto il fuoco degli elicotteri. Noi che coprivamo provammo ad attirare il fuoco degli avversari su di noi. Ma alla fine anche dopo l’evacuazione del nuovo terminale la situazione era difficile anche per i gruppi di copertura. Arrivò un anziano, forse accompagnato con la macchina non so, gli mancava una parte di gamba era un veterano della Guerra Patriottica. Ci disse “andate, vi copro io con la mitragliatrice”, non ci fu verso di levargli la mitragliatrice e noi andammo. Fu trovato il giorno dopo morto accanto alla mitragliatrice. Ecco questo ho visto dei combattimenti a maggio. Eravamo quasi tutti di Donetsk, qualche volontario russo ma non erano professionisti, gente normale.

 

Il momento è umanamente pesante, cade il silenzio, mi viene in mente che alla prima tregua quella fatta per le feste natalizie del dicembre 2014, si affrettarono gli ucraini ad avvicendare gli uomini. Ufficialmente il motivo era che non avevano equipaggiamento adatto all’inverno ma tanti osservatori ritenevano che l’avvicendamento riguardava mercenari stranieri sostituiti da reparti scelti ucraini, quelli che persero l’aeroporto nel febbraio del 2015. Chiudo l’intervista con una domanda più leggera.

 

D: Come vedi da cittadino della Repubblica, lo sviluppo economico dell’ultimo anno? La gente ritorna , si riaprono attività produttive, le strade vengono riparate, qual’è la tua opinione?

 

R: Tutto sta andando per il meglio, Zakarchenko il nostro presidente, lavora bene, incomincia la gente a tornare. A fine 2014 questa era una città fantasma abitata da 200.000 persone ma adesso stanno tornando, si parla di 600.000 che risiedono stabilmente, si arriva a 900.000 compresi quelli che  fanno lavori negli altri paesi. I cannoni sparano raramente e la gente  torna alle proprie attività, non possiamo condannare la paura della gente. In guerra tutti hanno paura, non credere a chi dice il contrario.

 

Saluto Vladimir con una stretta di mano ed il dono del mio libro Antimaidan al museo con una piccola dedica. Capisce che il libro è stato scritto per amore di verità, ed oggi in questo momento storico basta raccontare i semplici fatti per essere considerato un amico della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

 

Max Bonelli

 

Donetsk una città che combatte per la pace, di Max Bonelli

A due anni dal mio ultimo viaggio in Donbass per la

presentazione del libro Antimaidan. La pace sembra

prendere il sopravvento su venti di guerra.

FChBfKMYlukOrmai è già passata una settimana dal mio arrivo a Donetsk ed il rombo del cannone l’ho appena sentito la prima notte per una manciata di secondi molto in lontananza verso sud, dalle parti di Makeevka. Ho passato la settimana, passeggiando per una città che mi ha sorpreso per la vivacità della vita civile. Gli spazi pubblici sono ben curati, le strade ben asfaltate e se non fosse per qualche rara finestra che con i suoi fogli di carta stagnola lascia intravedere i ricordi di bombardamenti passati, non si potrebbe certo dire di vivere in una città che ha la linea di fronte a 10 km dalla sua periferia. Contava oltre un milione di abitanti prima della guerra, adesso siamo probabilmente a 2 terzi di questa cifra, ma la gente che passeggia per le strade si presenta ordinata, curata ed indirizzata alle sue attività professionali.

Parlo di questo in un piacevole caffè letterario dal nome italiano “barista” con il Professore Vlaceslav Terkulov capocattreda di lingua russa.

0-JmZWTlcwoD: Non le sembra che la Donetsk di prima della guerra è diversa da quella odierna. Si è passati da un atmosfera dove fare i soldi(dela dinghi) era il credo generale ad un generalizzato senso civico di attaccamento al proprio lavoro?

R: Ti voglio rispondere con un episodio di vita universitaria. Era nell’inverno 2014-2015 facevo lezione agli studenti quando è caduto il missile balistico a corto raggio Tocka U con testata convenzionale. Una esplosione che si è sentita in tutta Donetsk, i vetri vanno in frantumi

e gli studenti presi dal panico vanno alle finestre. Io urlo “che fate” e loro tornano ai loro banchi a scrivere. In realtà intendevo “che fate non sporgetevi alle finestre è pericoloso” i giovani con tanti loro coetanei che morivano con il fucile in mano in quei giorni lo intesero come un richiamo al senso del dovere.

D:Ho visto un servizio comunale che lavora molto professionalmente, molto di più che prima della guerra, giardini puliti, la strada dal confine russo alla città perfetta. Come si spiega questo impegno nel proprio lavoro?

R: I lavoratori comunali e della Repubblica in generale sono gli eroi di questa guerra. L’acqua è mancata un paio di giorni non di più in questi quasi 3 anni di conflitto. Il gas non è mai venuto a mancare. L’elettricità forse un giorno. Lavorano rischiano la vita come accade per i lavoratori che riparano quasi quotidianamente la stazione di filtraggio dell’acqua che è situata sulla terra di nessuno al confine tra i due schieramenti. Gli ucraini sparano sapendo che sono i servizi comunali e non soldati.

La breve intervista viene conclusa con una performance musicale, il professore è un cantautore conosciuto nella russia del sud, era stato invitato a Pavia per una serie di concerti ma ha dovuto rinunciare, il passaporto internazionale poteva essere concesso solo tramite viaggio a Kiev e di questi tempi non è salutare per un abitante di Donetsk intraprendere un simile viaggio.

https://www.youtube.com/watch?v=T7EPV1EkmFg&feature=youtu.be

Non è l’unico segno del blocco internazionale sulla repubblica. Già parecchi chilometri dentro il confine la mia sim italiana era senza copertura.

Nella giornata successiva all’intervista vado alle iniziative per la festa della città che in prima giornata coincide con il giorno dei minatori.

QCl2FOeMr38Una fiera dei prodotti della Repubblica di Donetsk colpisce la mia attenzione. Il (Sdelano Donetsk=Fatto in Donetsk) comprende una variegata offerta di prodotti che va dalla produzione agricola, in forte espansione, a causa del blocco ucraino, alla produzione di macchinari industriali, come pompe idrauliche, generatori elettrici industriali, una grande varietà di profilati di acciaio e tubi di acciaio, materiali per l’edilizia, gomme industriali. Saranno stati una trentina di padiglioni di medie imprese incentrate sul territorio della Repubblica. Considerando che tutta la loro attività è incentrata sulle esigenze interne ed eventualmente del mercato russo, si può immaginare lo sforzo imprenditoriale e la dedizione al lavoro che ci sono voluti per tenere le aziende in vita in un paese in guerra.

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MAMMA NON C’E’ PIU’

La giornata la concludo con una lunga passeggiata in questi parchi ben tenuti al centro della città. Tanti giovani, coppie con bambini piccoli che godono della bella giornata di sole. M’imbatto in una mostra di disegni di bambini delle elementari, per tema la pace ,tenuta dall’associazione (Дети рисуют МИР! bambini disegnano il mondo). Sui loro ricordi la pace è una speranza, la guerra una presenza difficile da evadere, toccherebbe mandarli al premio della pace Obama che ha sponsorizzato questa guerra, alla nostra presidente della camera Boldrini che stringe la mano a dirigenti ucraini con non nascoste simpatie neonaziste. L’innocenza e la sofferenza di questi piccoli quadri sarà un macigno sulla vostra ipocrisia..

Max Bonelli

Ringrazio della collaborazione l’associazione:

Дети рисуют МИР!

RITORNO DA UN LUOGO MAI RAGGIUNTO, di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link del discorso odierno di Donald Trump sul rinnovato impegno in Afghanistan. Si può dire che ormai il processo di normalizzazione della presidenza americana sia compiuto; cambia, almeno nelle intenzioni, la maggiore selettività degli obbiettivi e la copertura ideologica ormai lacerata della tutela dei diritti umani. Si direbbe che Trump e i suoi nuovi tutori fossero alla ricerca del battesimo del sangue di avvio della presidenza. Rivelatisi al momento impraticabili la Corea del Nord e l’Iran, ceduta l’iniziativa in Siria, è rimasto l’Afghanistan, il teatro di azione comune e ormai poco originale alle ultime tre presidenze americane. Lo scontro politico è però tutt’altro che compiuto. Il nocciolo duro del suo elettorato, anche se minoritario, ha mantenuto la propria compattezza e non si lascerà incantare dalle sirene che accompagnano il suo voltafaccia; gran parte del gruppo iniziale di sponsor e sostenitori originari, pur avendo sciolto ormai da tempo la propria rete operativa, hanno aspramente criticato l’illuminazione sulla via di Kabul. Altre volte, negli Stati Uniti, sono emerse queste componenti; si sono rivelati dei fuochi fatui. Questa volta, dopo aver destabilizzato il Partito Repubblicano senza riuscire a controllarlo, le basi appaiono più solide e durature; non è escluso che riescano a trovare la strada per la formazione di una forza politica inedita. Per questo la virulenza dello scontro politico sarà destinata a crescere. La sopravvivenza di Donald Trump, probabilmente, dipenderà dall’esito del suo tentativo di conservare almeno parzialmente il consenso di quel nocciolo; dipenderà in gran parte dalla condizione economica del paese e i dati sembrano offrirgli qualche possibilità. Il probabile fallimento pregiudicherà la sua stessa esistenza di uomo politico e il suo opportunismo cialtrone, esercitato in verità in condizioni estreme, servirà a ben poco. Vedremo gli sviluppi seguendo le sorti di Breibart; sarà la spia che ci aiuterà a cogliere i profondi movimenti nel sottofondo. Sotto il link è disponibile una traduzione in verità approssimativa data la mancanza di tempo. L’Afghanistan  si rivela, ancora una volta, come il crocevia dove le ambizioni di controllo ed egemonia delle potenze di turno rischiano di naufragare. Le forze disponibili annunciate da Trump appaiono limitate, l’entusiasmo degli alleati più stretti sotto terra; tutto si giocherà, probabilmente, sulle rivalità e sui giri di valzer delle potenze regionali. Di sicuro l’asse in via di formazione tra Russia e Cina sarà messo a dura prova dal coinvolgimento dell’India. Dovesse rivelarsi un bluff, le carte non tarderanno ad essere scoperte.

Vice Presidente Pence, il Segretario di Stato Tillerson, i membri del Consiglio dei Ministri, Generale Dunford, vice segretario Shanahan, e il colonnello Duggan. Soprattutto, grazie agli uomini e alle donne di Fort Myer e tutti i membri delle forze armate degli Stati Uniti in patria e all’estero.

Mandiamo i nostri pensieri e preghiere alle famiglie dei nostri marinai coraggiosi che sono stati feriti e persi dopo una tragica collisione in mare, così come a coloro che conducono di ricerca e di recupero sforzi.

Sono qui stasera a tracciare il nostro cammino in avanti in Afghanistan e in Asia meridionale. Ma prima di fornire i dettagli della nostra nuova strategia, voglio dire qualche parola ai servicemembers qui con noi stasera, a chi guarda dai loro posti, e per tutti gli americani ad ascoltare a casa.

Sin dalla fondazione della nostra repubblica, il nostro paese ha prodotto una classe speciale di eroi il cui altruismo, coraggio e determinazione non ha eguali nella storia umana.

patrioti americani provenienti da ogni generazione hanno dato il loro ultimo respiro sul campo di battaglia per la nostra nazione e per la nostra libertà. Attraverso le loro vite – e se le loro vite sono state stroncate, nelle loro opere hanno ottenuto l’immortalità totale.

Seguendo l’esempio eroico di coloro che hanno combattuto per preservare la nostra repubblica, possiamo trovare l’ispirazione del nostro paese ha bisogno di unificare, per guarire, e di rimanere una nazione sotto Dio. Gli uomini e le donne del nostro esercito operano come una squadra, con una missione condivisa, e un certo senso condiviso di scopo.

Esse trascendono ogni linea di razza, etnia, religione, e il colore per servire insieme – e il sacrificio insieme – nella coesione assolutamente perfetto. Questo perché tutte le servicemembers sono fratelli e sorelle. Sono tutti parte della stessa famiglia; si chiama la famiglia americana. Prendono lo stesso giuramento, lottano per la stessa bandiera, e vivono secondo la stessa legge. Essi sono tenuti insieme da uno scopo comune, la fiducia reciproca, e la devozione disinteressata alla nostra nazione e tra di loro.

Il soldato capisce quello che noi, come nazione, troppo spesso si dimentica che una ferita inflitta un singolo membro della nostra comunità è una ferita inflitta su tutti noi. Quando una parte d’America fa male, siamo tutti male. E quando un cittadino subisce un’ingiustizia, soffriamo tutti insieme.

La lealtà verso la nostra nazione esige lealtà reciproca. L’amore per l’America richiede amore per tutti i suoi abitanti. Quando apriamo i nostri cuori al patriottismo, non c’è spazio per i pregiudizi, non c’è posto per il bigottismo, e nessuna tolleranza per odio.

I giovani uomini e donne che inviamo a combattere le nostre guerre all’estero meritano di tornare in un paese che non è in guerra con se stessa a casa. Non possiamo restare una forza di pace nel mondo se non siamo in pace con l’altro.

Come va il nostro più coraggioso per sconfiggere i nostri nemici all’estero – e ci sarà sempre vincere – lasciare che siamo noi a trovare il coraggio di guarire le nostre divisioni all’interno. Facciamo una semplice promessa agli uomini e alle donne chiediamo di combattere nel nostro nome che, quando tornano a casa dalla battaglia, troveranno un paese che ha rinnovato i sacri vincoli di amore e di fedeltà che ci uniscono insieme come una sola.

Grazie alla vigilanza e l’abilità del militare americano e dei nostri molti alleati in tutto il mondo, orrori sulla scala dell’11 settembre – e nessuno può mai dimenticare che – non sono state ripetute sulle nostre coste.

Ma dobbiamo anche riconoscere la realtà io sono qui per parlare di stasera: che quasi 16 anni dopo gli attacchi dell’11 settembre, dopo lo straordinario sacrificio di sangue e il tesoro, il popolo americano sono stanchi della guerra senza vittoria. In nessun luogo questo è più evidente che con la guerra in Afghanistan, la guerra più lunga nella storia americana – 17 anni.

Condivido la frustrazione del popolo americano. Condivido anche la loro frustrazione per una politica estera che ha speso troppo tempo, energia, denaro e, soprattutto vite, cercando di ricostruire i paesi a nostra immagine, invece di perseguire i nostri interessi di sicurezza al di sopra di ogni altra considerazione.

Ecco perché, poco dopo il mio insediamento, ho diretto il Segretario della Difesa Mattis e la mia squadra di sicurezza nazionale di intraprendere una revisione completa di tutte le opzioni strategiche in Afghanistan e in Asia meridionale.

Il mio istinto iniziale era quello di tirare fuori – e, storicamente, io come seguire il mio istinto. Ma tutta la mia vita ho sentito che le decisioni sono molto diversi quando ci si siede dietro la scrivania nello Studio Ovale; in altre parole, quando sei il presidente degli Stati Uniti. Così ho studiato l’Afghanistan con dovizia di particolari e da ogni angolo immaginabile. Dopo tanti incontri, nel corso di molti mesi, abbiamo tenuto il nostro ultimo incontro lo scorso Venerdì a Camp David, con il mio gabinetto e generali, per completare la nostra strategia. Sono arrivato a tre conclusioni fondamentali su interessi fondamentali americani in Afghanistan.

In primo luogo, la nostra nazione deve cercare un risultato onorevole e duratura degno dei tremendi sacrifici che sono stati fatti, in particolare i sacrifici di vite. Gli uomini e le donne che servono la nostra nazione in combattimento meritano un piano per la vittoria. Essi meritano gli strumenti di cui hanno bisogno, e la fiducia che hanno guadagnato, di combattere e di vincere.

In secondo luogo, le conseguenze di una rapida uscita sono sia prevedibile e inaccettabile. 9/11, il peggior attacco terroristico della nostra storia, è stato progettato e diretto dall’Afghanistan perché questo paese è stato governato da un governo che ha dato conforto e rifugio ai terroristi. Un ritiro affrettato creerebbe un vuoto che i terroristi, tra cui ISIS e al Qaeda, avrebbero riempito immediatamente, proprio come è successo prima dell’11 settembre.

E, come sappiamo, nel 2011, l’America frettolosamente ed erroneamente si ritirò dall’Iraq. Come risultato, i nostri guadagni duramente conquistati scivolato di nuovo nelle mani dei nemici terroristi. I nostri soldati hanno guardato come le città che avevano combattuto per, e Bled per liberare, e ha vinto, erano occupati da un gruppo terrorista chiamato ISIS. Il vuoto che abbiamo creato, lasciando troppo presto ha dato rifugio sicuro per ISIS per diffondere, a crescere, reclutare, e lanciare attacchi. Non possiamo ripetere in Afghanistan l’errore nostri capi realizzati in Iraq.

Terzo e ultimo, ho concluso che le minacce alla sicurezza che abbiamo di fronte in Afghanistan e nella regione più ampia sono immense. Oggi, 20 US-designati organizzazioni terroristiche straniere sono attive in Afghanistan e Pakistan – la più alta concentrazione in qualsiasi regione qualsiasi parte del mondo.

Da parte sua, il Pakistan spesso dà rifugio sicuro agli agenti di caos, violenza e terrore. La minaccia è peggio, perché il Pakistan e l’India sono due stati dotati di armi nucleari le cui relazioni tesa minacciare di spirale in conflitto. E che potrebbe accadere.

Nessuno nega che abbiamo ereditato una situazione difficile e preoccupante in Afghanistan e in Asia meridionale, ma non abbiamo il lusso di andare indietro nel tempo e prendere decisioni diverse o migliori. Quando sono diventato Presidente, mi è stata data una mano male e molto complessa, ma sono pienamente sapevo cosa stavo entrando: problemi grandi e intricati. Ma, in un modo o nell’altro, questi problemi saranno risolti – Sono un risolutore di problemi – e, alla fine, vinceremo.

Dobbiamo affrontare la realtà del mondo come esiste in questo momento – le minacce che abbiamo di fronte, e la Confronting di tutti i problemi di oggi, e le conseguenze estremamente prevedibili di un ritiro frettoloso.

Abbiamo bisogno di non guardare oltre vile, feroce attacco della scorsa settimana a Barcellona per capire che i gruppi terroristici si fermeranno davanti a nulla per commettere l’omicidio di massa di innocenti uomini, donne e bambini. L’hai visto di persona. Orribile.

Come ho descritto nel mio intervento in Arabia Saudita tre mesi fa, l’America ei suoi partner sono impegnati a nudo i terroristi del loro territorio, tagliando il loro finanziamento, e di esporre la falsa fascino della loro ideologia del male.

I terroristi che macellano persone innocenti troveranno nessuna gloria in questa vita o nella prossima. Essi non sono altro che delinquenti e criminali, e predatori, e – che è di destra – perdenti. Lavorando a fianco dei nostri alleati, noi spezzare la loro volontà, asciugare il loro reclutamento, impedire loro di attraversare i nostri confini, e sì, ci sarà sconfiggerli, e noi li sconfiggere facilmente.

In Afghanistan e in Pakistan, gli interessi americani sono chiari: Dobbiamo fermare la rinascita di rifugi sicuri che consentono ai terroristi di minacciare l’America, e dobbiamo impedire che armi e materiali nucleari di venire nelle mani dei terroristi e di essere usata contro di noi, o in qualsiasi parte del mondo per quella materia.

Ma di perseguire questa guerra, ci sarà imparare dalla storia. Come risultato della nostra recensione completa, strategia americana in Afghanistan e in Asia meridionale cambierà radicalmente nei seguenti modi:

Un pilastro fondamentale della nostra nuova strategia è un passaggio da un approccio basato sul tempo per uno in base alle condizioni. L’ho detto molte volte come controproducente sia per gli Stati Uniti per annunciare in anticipo le date che intendiamo per iniziare, o alla fine, opzioni militari. Noi non parlare di numeri di truppe oi nostri piani per ulteriori attività militari.

Condizioni sul terreno – non orari arbitrari – guideranno la nostra strategia d’ora in poi. nemici dell’America non devono mai conoscere i nostri piani o credere di poter aspettare fuori. Non voglio dire che quando stiamo per attaccare, ma l’attacco ci sarà.

Un altro pilastro fondamentale della nostra nuova strategia è l’integrazione di tutti gli strumenti del potere americano – diplomatici, economici e militari – verso un esito positivo.

Un giorno, dopo uno sforzo militare efficace, forse sarà possibile avere una soluzione politica che include elementi dei talebani in Afghanistan, ma nessuno sa se e quando ciò accadrà mai. L’America continuerà il suo sostegno al governo afghano ei militari afgani che si confrontano con i talebani in campo.

In ultima analisi, spetta al popolo dell’Afghanistan a prendere possesso del proprio futuro, di governare la loro società, e per raggiungere una pace eterna. Siamo un partner e un amico, ma non vogliamo imporre al popolo afghano come vivere, o il modo di governare la propria società complessa. Non siamo ancora una volta la costruzione della nazione. Stiamo uccidendo i terroristi.

Il prossimo pilastro della nostra nuova strategia è quello di cambiare l’approccio e come trattare con il Pakistan. Non possiamo più tacere porti sicuri del Pakistan per le organizzazioni terroristiche, i talebani e altri gruppi che rappresentano una minaccia per la regione e oltre. Il Pakistan ha molto da guadagnare da partnership con il nostro sforzo in Afghanistan. Ha molto da perdere, continuando a nutrire criminali e terroristi.

In passato, il Pakistan è stato un partner di valore. I nostri militari hanno lavorato insieme contro nemici comuni. Il popolo pakistani hanno sofferto molto dal terrorismo e l’estremismo. Riconosciamo i contributi e quei sacrifici.

Ma il Pakistan ha anche riparato le stesse organizzazioni che cercano ogni giorno di uccidere la nostra gente. Abbiamo prestato miliardi Pakistan e miliardi di dollari, allo stesso tempo sono le stesse che ospitano terroristi che stiamo combattendo. Ma che dovrà cambiare e che cambierà immediatamente. Nessun collaborazione può sopravvivere l’ospitare di un paese di militanti e terroristi che prendono di mira servicemembers e funzionari degli Stati Uniti. E ‘tempo per il Pakistan per dimostrare il suo impegno per la civiltà, l’ordine e la pace.

Un’altra parte fondamentale della strategia per l’Asia del Sud per l’America è quello di sviluppare ulteriormente il partenariato strategico con l’India – la più grande democrazia del mondo e un titolo chiave e partner economico degli Stati Uniti. Apprezziamo importanti contributi indiane verso la stabilità in Afghanistan, ma l’India fa miliardi di dollari nel commercio con gli Stati Uniti, e noi vogliamo che ci aiutano di più con l’Afghanistan, in particolare in materia di assistenza economica e di sviluppo. Ci siamo impegnati a perseguire i nostri obiettivi condivisi per la pace e la sicurezza in Asia meridionale e la più ampia regione indo-pacifica.

Infine, la mia amministrazione farà in modo che voi, i coraggiosi difensori del popolo americano, avrà gli strumenti e le regole di ingaggio necessarie per fare questo lavoro strategia e lavorare in modo efficace e lavorare velocemente.

Ho già revocato le restrizioni precedente amministrazione immessi sul nostri combattenti che hanno impedito il Segretario della Difesa e dei nostri comandanti sul campo da completamente e rapidamente conducendo la battaglia contro il nemico. Microgestione da Washington, DC non vince battaglie. Essi si vincono nel disegno campo sul giudizio e la competenza dei comandanti di guerra e dei soldati di prima linea che agiscono in tempo reale, con l’autorità reale, e con una chiara missione per sconfiggere il nemico.

Ecco perché ci sarà anche ampliare l’autorità per le forze armate americane di indirizzare le reti terroristiche e criminali che seminano la violenza e il caos in tutto l’Afghanistan. Questi assassini devono sapere che hanno nulla da nascondere; che nessun luogo è fuori dalla portata delle armi forza e americani americani. Retribution sarà veloce e potente.

Come abbiamo eliminare le restrizioni ed espandere le autorità nel campo, stiamo già vedendo i risultati drammatici nella campagna per sconfiggere ISIS, tra cui la liberazione di Mosul in Iraq.

Fin dal mio insediamento, abbiamo raggiunto il successo da record al riguardo. Ci sarà anche massimizzare le sanzioni e altri provvedimenti esecutivi finanziaria e della legge contro queste reti per eliminare la loro capacità di esportare il terrore. Quando l’America si impegna i suoi guerrieri in battaglia, dobbiamo fare in modo di avere tutte le armi per applicare rapida, decisiva, e una forza schiacciante.

Le nostre truppe combatteranno per vincere. Ci batteremo per vincere. D’ora in poi, la vittoria avrà una definizione chiara: attaccare i nostri nemici, cancellando ISIS, schiacciando al Qaeda, i talebani impedendo di prendere il controllo dell’Afghanistan, e fermare gli attacchi di terrore di massa contro l’America prima che emergano.

Chiederemo ai nostri alleati della NATO e partner globali per sostenere la nostra nuova strategia con ulteriori truppe e di finanziamento aumenta in linea con la nostra. Siamo sicuri che lo faranno. Dal suo insediamento, ho chiarito che i nostri alleati e partner devono contribuire molto di più soldi per la nostra difesa collettiva, e lo hanno fatto.

In questa lotta, il fardello più pesante continuerà ad essere sostenuti dal buon popolo afghano e le loro forze armate coraggiose. Come il primo ministro dell’Afghanistan ha promesso, ci accingiamo a partecipare allo sviluppo economico per aiutare a sostenere il costo di questa guerra per noi.

Afghanistan sta combattendo per difendere e proteggere il loro paese contro gli stessi nemici che ci minacciano. La più forte delle forze di sicurezza afghane diventano, meno dovremo fare. Afgani assicurare e costruire la propria nazione e definire il proprio futuro. Vogliamo che per avere successo.

Ma ci sarà più usare la potenza militare americana per la costruzione di democrazie in terre lontane, o provare a ricostruire altri paesi a nostra immagine. Quei giorni sono ormai finita. Invece, lavoreremo con gli alleati e partner per proteggere i nostri interessi comuni. Non stiamo chiedendo altri a cambiare il loro modo di vita, ma di perseguire obiettivi comuni che permettono ai nostri figli di vivere una vita migliore e più sicure. Questo realismo di principio guiderà le nostre decisioni in movimento in avanti.

Il potere militare da sola non porterà la pace in Afghanistan o fermare la minaccia terroristica provenienti da quel paese. Ma strategicamente forza applicata mira a creare le condizioni per un processo politico per raggiungere una pace duratura.

L’America lavorerà con il governo afghano finché vediamo la determinazione e il progresso. Tuttavia, il nostro impegno non è illimitato, e il nostro sostegno non è un assegno in bianco. Il governo dell’Afghanistan deve portare la loro parte di fardello militare, politico ed economico. Il popolo americano si aspetta di vedere riforme vere, reali progressi e risultati reali. La nostra pazienza non è illimitata. Vi terremo gli occhi ben aperti.

Nel rispetto del giuramento che ho preso il 20 gennaio, rimarrò fermo nel proteggere vite americane e gli interessi americani. In questo sforzo, faremo causa comune con tutte le nazioni che sceglie di stare in piedi e combattere al nostro fianco contro questa minaccia globale. I terroristi prendono attenzione: l’America non sarà mai mollare fino a quando si è trattata una sconfitta duratura.

Sotto la mia amministrazione, molti miliardi di dollari in più viene speso per i nostri militari. E questo include una grande quantità di essere spesi per il nostro arsenale e difesa missilistica nucleare.

In ogni generazione, abbiamo affrontato il male, e abbiamo sempre prevalso. Abbiamo prevalso perché sappiamo chi siamo e cosa stiamo combattendo.

Non lontano da dove ci siamo riuniti questa sera, centinaia di migliaia di grandi patrioti americani giacevano nel riposo eterno al cimitero nazionale di Arlington. Non v’è più coraggio, sacrificio e amore in questi motivi sacri che in qualsiasi altro posto sulla faccia della Terra.

Molti di coloro che hanno combattuto e sono morti in Afghanistan arruolati nei mesi dopo l’11 settembre 2001. Essi volontari per un semplice motivo: Amavano America, e sono stati determinati per proteggerla.

Ora dobbiamo fissare la causa per la quale hanno dato la loro vita. Dobbiamo unirci per difendere l’America dai suoi nemici all’estero. Dobbiamo ripristinare i legami di lealtà tra i nostri cittadini a casa, e dobbiamo raggiungere un risultato onorevole e duratura degno del prezzo enorme che tanti hanno pagato.

Le nostre azioni, e nei mesi a venire, tutti loro saranno onorare il sacrificio di ogni eroe caduto, ogni famiglia che ha perso una persona cara, e ogni guerriero ferito che hanno versato il loro sangue in difesa della nostra grande nazione. Con la nostra determinazione, faremo in modo che il vostro servizio e che le vostre famiglie porteranno la sconfitta dei nostri nemici e l’arrivo di pace.

Noi spingere in avanti alla vittoria con il potere nel nostro cuore, il coraggio nelle nostre anime, e l’orgoglio eterna in ognuno di voi.

Grazie. Che Dio benedica i nostri militari. E che Dio benedica gli Stati Uniti d’America. Grazie mille. Grazie.

Presidente Donald J. Trump

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, di Luigi Longo (versione integrale)

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

 

L’inizio del declino e il bivio storico

Il declino di una potenza mondiale egemone inizia a presentarsi quando esplodono le contraddizioni interne (conflitti tra agenti strategici delle diverse sfere sociali, fratture sociali e territoriali, degrado totale, eccetera); tale declino è altresì in relazione alle dinamiche di crescita di altre potenze sia regionali sia mondiali che mettono in discussione quella egemonia dominante(1).

Gli strateghi USA, potenza mondiale egemone, sono consapevoli di questo processo, così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] quell’epoca sta ormai per finire […] >> (2). Il declino USA è relativo perché è ancora decisiva la sua egemonia in tutte le istituzioni mondiali. La sua capacità di dominio, attraverso il soft power e l’hard power, è ancora grande in rapporto alle potenze mondiali emergenti, come la Russia e la Cina, in questa fase di multicentrismo (3).

Gli statunitensi si trovano ad un bivio storico dove lo spazio-tempo della decisione si fa sempre più stretto e dovranno scegliere quale strada intraprendere. Questa diramazione prospetta paesaggi mondiali diversi: 1. Una potenza mondiale che rivendica la sua egemonia (G7, FMI, BM, NATO, ONU, WTO) e il suo dominio con la supremazia militare indiscussa (4), ma nel ri-lanciare il suo dominio mondiale monocentrico non si preoccupa delle contraddizioni strutturali interne né, ricerca un nuovo modello di sviluppo o una nuova visione di società; 2. Una potenza mondiale che ri-vede il suo modello sociale, fa i conti con le sue contraddizioni strutturali che rischiano di accelerare il declino e ri-lancia la sua egemonia confrontandosi con le altre potenze.

La prima strada accelera la fase multicentrica e prepara la fase policentrica: il conflitto mondiale; la seconda strada ritarda la fase policentrica e rimane in una fase multicentrica che potrebbe portare ad una condivisione e ad un rilancio di nuove relazionali mondiali nel rispetto delle diversità ( storiche, culturali, sociali, politiche, territoriali, eccetera): parafrasando Karl von Clausewitz si può dire che la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ mia opinione che prevarrà la prima strada, per le seguenti ragioni.

La prima. Gli USA credono di essere la nazione indispensabile e hanno la cultura monocentrica del dominio mondiale. Vale per tutti il seguente pensiero di Henry Kissinger. << La sfida in Iraq non era solo vincere la guerra quanto [mostrare] al resto del mondo che la nostra prima guerra preventiva è stata imposta dalla necessità e che noi perseguiamo l’interesse del mondo [ corsivo mio], non esclusivamente il nostro […] La responsabilità speciale dell’America [ USA, mia specificazione], in quanto nazione più potente del mondo, è di lavorare per arrivare a un sistema internazionale che si basi su qualcosa di più della potenza militare, ovvero che si sforzi di tradurre la potenza in cooperazione […] Un diverso atteggiamento ci porterà gradualmente all’isolamento e finirà per indebolirci. >> (5).

La seconda. La piramide sociale statunitense non reggerà più, la base sta scricchiolando e si arriverà alla implosione della nazione e con essa alla fine dell’idea della grande nazione imperiale. Si stanno indebolendo la struttura e il legame sociale della società, che sono il fondamento della potenza imperiale. Gli agenti strategici dominanti sono incapaci di una nuova visione, di un nuovo modello di sviluppo sociale, di nuovi rapporti sociali che potrebbero emergere dalla cosiddetta società capitalistica. Gli strateghi delle sfere egemoniche ( politica, militare, istituzionale, economica-finanziaria,), portatori della visione classica della logica di funzionamento imperiale, agiscono con la convinzione che il dominio, con la coercizione ( la forza militare imperiale) e il denaro ( il dollaro imperiale), sia l’unica strategia per continuare a mantenersi, come grande nazione imperiale, sulle spalle del resto del mondo (le economie dei diversi capitalismi).

Alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice (6), e hanno cercato di deviare, invano (si vedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale.

La terza. La lezione della storia, a prescindere dal modo di produzione e riproduzione del legame sociale della società storicamente data, è questa: schiacciando esseri umani sessuati e natura, oltre il limite strutturale sociale e naturale, si rischiano grossi guasti. La forbice tra ricchezza illimitata e povertà assoluta non può divaricarsi all’infinito. Non è un discorso pauperistico del limite superato, ma un ragionamento di modello di sviluppo, di una idea nuova del legame sociale e del rapporto sociale ( sia dentro sia fuori il Capitale, ovviamente inteso come relazione sociale) e di rottura dell’equilibrio dinamico del blocco egemone degli agenti strategici dell’insieme delle sfere sociali del Paese (7).

 

La fase di transizione

Quando dico che la grande nazione imperiale USA è in fase di declino non intendo assolutamente che essa smette di lottare per il mantenimento o per una rinnovata supremazia mondiale ( intesa come centro di coordinamento per un nuovo ordine mondiale), per la semplice ragione che è ancora lunga la fase di transizione di egemonia mondiale verso una nuova potenza o una rinnovata egemonia: << Il nostro confronto delle passate egemonie mostra che il ruolo di nuove potenze aggressive nell’affrettare i crolli sistemici è diminuito di transizione in transizione, mentre è cresciuto il ruolo giocato dalla dominazione sfruttatrice esercitata dalla potenza egemone in declino […] Non ci sono nuove potenze aggressive credibili che possono provocare il crollo del sistema mondiale imperniato sugli Stati Uniti, ma, rispetto alla Gran Bretagna un secolo fa, gli Stati Uniti hanno possibilità anche maggiori di trasformare la loro potenza egemonica in declino in una dominazione sfruttatrice. Se alla fine il sistema crollerà, sarà principalmente per la refrattarietà degli Stati Uniti all’adattamento e alla conciliazione.>> (8).

Affinchè ci siano le condizioni di passaggio di egemonia da una potenza in declino ad un’altra occorrono le seguenti condizioni. << […] i paesi emergenti devono essere rispetto alla potenza in declino:

  1. più larghi e diversificati geograficamente;

  2. più efficienti economicamente e organizzativamente;

  3. più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato mondiale e sistema interstatale;

  4. più inclusivi socialmente all’interno;

  5. più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi [ funzionari del capitale, mia specificazione lagrassiana] a quelli dello forze organizzate del lavoro subalterno.

Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. In questo caso, gli Stati Uniti hanno offerto al processo accumulativo:

  1. un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey (9) [ il termine spatial fix è di difficile traduzione e, perciò, si preferisce mantenere la dicitura inglese, anche se potrebbe essere impropriamente tradotto con soluzione spaziale così il traduttore Michele Dal Lago (9), mia precisazione ], più vasto e vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;

  2. un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura inglese;

  3. un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema interstatale più complesso e stratificato ( dall’Fmi all’Onu) di quello inglese, basato su gold standard e concerto europeo;

  4. un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla soddisfazione degli interessi dei lavoratori;

  5. un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.

Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. >> (10).

Le due potenze emergenti mondiali, Russia e Cina, non sono in grado di creare le condizioni per la sostituzione della potenza mondiale egemone, ammesso e non concesso che esse aspirino ad un dominio mondiale e non semplicemente, come lascia pensare la loro storia, ad una fase multicentrica ( che ritardi o annulli la fase policentrica del conflitto mondiale) nella quale confrontarsi su una visione diversa delle relazioni internazionali a partire dalla propria autonomia nazionale, dalla propria cultura, dal proprio legame sociale e dalla propria peculiarità territoriale.

Gli strateghi statunitensi non vogliono perdere il loro ruolo di grande nazione imperiale e temono il formarsi e il consolidarsi di poli, di aree, di regioni aggreganti intorno alle due potenze emergenti, in grado di mettere in discussione il loro dominio mondiale. Per questa ragione avendo scelto la strada di egemonia sfruttatrice, gli Stati Uniti sono la potenza mondiale più spregiudicata e pericolosa per l’intera umanità considerato, il livello di strategia atomica avanzata e radicale raggiunto. Alain Badiou, non molto tempo fa, sosteneva che:<< La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza.>> (11).

Gianfranco La Grassa dichiara che:<< L’eccezionalità del “mondo bipolare”, durato abbastanza a lungo, ha assicurato nella parte “centrale” del mondo (quella più sviluppata) un periodo di pace, legato però alla subordinazione di molti paesi all’uno o all’altro polo. Adesso siamo entrati in una fase molto diversa, che per di più va cambiando a sua volta “pelle” in periodi successivi e con il tentativo del predominante di uno dei due poli (il sopravvissuto) di avere il completo controllo della situazione. Tale tentativo non è per nulla favorevole al mantenimento di un minimo di equilibrio; da qui il disordine crescente attuale. Quindi, quel predominante (evidentemente gli Usa) deve essere contrastato e si deve arrivare al punto che esso si trovi nella situazione di rischiare tantissimo insistendo sulla sua prepotenza e arroganza. Non si ottiene questo risultato se non con l’unione degli sforzi di alcuni altri paesi, in cui si verifichi la presa del potere da parte di forze politiche capaci di decisa autonomia e di collegarsi fra loro in funzione anti-predominante>> (12).

Gli Stati Uniti si preoccupano, nel medio periodo, soprattutto della Russia (13) sia perché è stata la storica nemica del “mondo bipolare”, sia perché è la nazione centrale tra Asia e Europa ( il cuore della terra, l’immenso territorio bicontinentale), sia perché è stata la nazione dove è avvenuto un evento storico di grande importanza: la rivoluzione dei dominati che a partire dall’atroce macelleria della prima guerra mondiale hanno sperato in un mondo migliore. La lezione storica della rivoluzione russa indica che la maggioranza della popolazione se si organizza, pensa e progetta, può cambiare l’ordine costituito e pensare un nuovo legame sociale e nuovi rapporti sociali e questo a prescindere dal giudizio storico sulla rivoluzione russa del 1917.

Lo spettro della Russia

La paura degli agenti strategici statunitensi nei riguardi della Russia (14) scaturisce, oltre che dalla forza militare ( soprattutto nucleare), dal ruolo centrale che la potenza emergente può avere nella formazione di un polo aggregante ( una sorta di polarizzazione di blocchi tra potenze mondiali) che pone dei limiti all’arroganza egemonica sfruttatrice di una superpotenza in declino.

 

La strategia di Kissinger

 

Henry Kissinger, un protagonista delle strategie di dominio statunitensi, aveva capito l’importanza della centralità della Russia, sia come nazione vettore tra i due continenti, Asia e Europa, sia come nazione strategica per l’egemonia mondiale, sin dai tempi del tentativo di apertura delle relazioni sino-americane, alla fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta del Novecento. L’apertura della collaborazione tra USA e Cina si inseriva allora nel conflitto acuto tra URSS e Cina ed era indirizzata formalmente alla costruzione di “un ordine internazionale più pacifico”, mentre nella sostanza mirava a contrastare l’URSS, ritenuta, forse, già allora un gigante militare-nucleare con i piedi di argilla. Questa apertura tattica avrebbe potuto accelerare il processo storico di implosione del sistema del socialismo irrealizzato e la fine del mondo bipolare. Il tentativo non riuscì per il conflitto interno agli strateghi statunitensi nel quale prevalse la continuazione della logica del mondo bipolare (15).

Oggi Henry Kissinger ri-lancia, nella logica del tutto torna ma in maniera diversa, per la seconda volta, la politica estera degli Stati Uniti verso una coevoluzione ( una sorta di comunità pacifica sulla scia della comunità atlantica) delle relazioni sino-americane in modo da contrastare la eventuale nascita di un polo Russia-Cina, in questa fase di loro collaborazione soprattutto nella sfera economico- finanziaria ( le nuove vie della seta cinese, gli accordi di area, il sistema bancario alternativo, eccetera), che metterebbe in seria difficoltà gli USA e ne accentuerebbe, nel medio-lungo periodo, il declino (16).

In una recente intervista, apparsa su “La Stampa” del 27/3/2017 a cura di Paolo Mastrolilli, Henry Kissinger ribadisce sia la logica di contenimento della Russia (la Russia non ha diritto a stare in Medio Oriente) sia la logica di apertura verso la Cina ( un negoziato diretto tra Washington e Pechino per raggiungere un accordo di sicurezza dell’intera regione dell’Estremo Oriente a partire dalla questione della Corea del Nord).

 

La strategia di Brzezinski

 

Zbigniew Brzezinski, un altro importante protagonista delle strategie di dominio degli Stati Uniti, ritiene la Russia una nazione centrale, nel breve e medio periodo, per la nascita di poli di potenze mondiali in grado di sfidare l’egemonia USA che riconosce in declino e che rilancia con una architettura del dominio mondiale fondata nella sostanza sul monocentrismo statunitense. Egli è talmente ossessionato dalla Russia che  già nel 1997, anno di pubblicazione del suo libro “La grande scacchiera”, scriveva sulla divisione della Russia:<< Una confederazione composta da una Russia europea, una repubblica siberiana e una dell’Estremo Oriente, potrebbe sviluppare con maggior facilità rapporti economici più stretti con l’Europa, come pure con i nuovi Stati dell’Asia centrale e con l’Oriente.>>, ovviamente all’interno di << una comunità internazionale fondata su una reale cooperazione, che assecondi le antiche aspirazioni e garantisca i fondamentali interessi dell’umanità. Ma, nel frattempo, è assolutamente indispensabile che non emerga alcuna potenza capace d’instaurare il proprio dominio sull’Eurasia e di sfidare per ciò stesso l’America >> (17).

Zbigniew Brzezinski pensa l’Europa e la Nato ( non più solo militarizzazione del territorio europeo ma anche coesione economica, sicurezza dei territori e delle città, eccetera) come teste di ponte contro la Russia, mentre ritiene importante una intesa con la Cina nel rispetto della suddetta coevoluzione delle relazioni sino-americane. Sono importanti la Nato e la UE ( per il dominio statunitense non conta il suo l’asservimento unitario o fondato su relazioni tra stati) per la espansione ad Est ( vedasi la questione Ucraina) e nel Medio Oriente ( vedasi la questione Siria). E’ un attacco alla Russia molto pericoloso perché mira al suo contenimento e alla perdita della sua sovranità inviolabile, sia attraverso il blocco degli accessi al mediterraneo ( in Ucraina c’è la base navale di Sebastopoli, in “affitto” a Mosca fino al 2042, più una serie di caserme, poligoni e porti usati dalla Russia; in Siria c’è la base navale di Tartus, la base aerea di Humaymim e la stazione di ascolto di Lataqia), sia attraverso la riduzione delle risorse energetiche strategiche della Russia con la realizzazione del gasdotto del Qatar verso l’Europa (che taglierebbe la quota russa del mercato europeo), sia con la costruzione da parte della Turchia di un hub energetico ( che ne ridurrebbe la dipendenza dal gas russo) nell’Europa meridionale (18).

Gabriel Galice così analizza:<< […] L’Eurasia è centrale, l’America deve esservi presente per dominare il pianeta, l’Europa è la testa di ponte della democrazia in Eurasia, la Nato e l’Unione europea devono di conseguenza estendere la propria influenza in Eurasia, gli Stati Uniti devono giocarsi simultaneamente la Germania e la Francia ( carte delle rispettive zone di influenza alla mano), alleati fedeli anche se ciascuno a modo suo, irrequieti e capricciosi.>> (19).

Concludendo queste brevi riflessioni si può sostenere ragionevolmente che l’obiettivo della strategia USA è quello di impedire la formazione di un polo di potenza mondiale tra la Russia e la Cina in grado di metterne in discussione l’egemonia. Il giocatore più pericoloso, nel breve-medio periodo, in questa lotta per contrastare l’egemonia mondiale assoluta statunitense e per pensare un mondo multicentrico, è la Russia. E’ la nazione che va combattuta e ridimensionata con ogni mezzo. E’ lo spettro degli agenti strategici dominanti statunitensi.

 

 

En Passant

 

 

I sub-sub-dominanti italiani hanno subito rinnovato con l’amministrazione Trump le catene della servitù volontaria per un mondo monocentrico americano. Hanno le facce da servi di gaberiana memoria.

L’Europa va rifondata a partire dalla demolizione del progetto Europa tanto caro ai suoi padri fondatori, esecutori di un progetto pensato e attuato dagli USA per le loro strategie di dominio mondiale: fatto noto ma non conosciuto.

Ritengo che sia ancora valido quanto scriveva Costanzo Preve:<< Un’Europa delle nazioni, e nello stesso tempo delle nazioni eguali, ed in più delle nazioni amiche della Russia e della Cina, e infine disposte anche ad essere amiche degli Stati Uniti, se questi ultimi rinunceranno saggiamente alla pretesa di impero universale basato su di un dominio militare soverchiante e sull’imposizione di un’unica cultura linguistica anglosassone.>> (20).

Un nuovo progetto Europa: con chi? con quale pensiero? con quale organizzazione? con quale progetto di società? con quale relazione sociale? con quale prassi politica?

Sono domande che scaturiscono dalla grande lezione storica della rivoluzione russa.

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Su questi temi rinvio a Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mandadori, Milano, 2003; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
  2. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignmente in “ The American Interest” ( www.the-american-interst.com) , n.6/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  3. Joseph S. jr Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016; con una lettura critica si veda anche Etienne Balibar, Populismo e contro-populismo nello specchio americano, www.ariannaeditrice.com, 27/4/2017.
  4. Per un’analisi storica, geopolitica, militare, finanziaria si rimanda alla rivista “Limes”, n.2/2017, “Chi comanda il mondo”, in particolare gli articoli di Dario Fabbri (La sensibilità imperiale degli Stati Uniti è il destino del mondo), di Alberto De Sanctis (Gli Stati Uniti tengono in pugno il tridente di Nettuno), Giorgio Arfaras (Il dollaro resta imperiale). Per un’analisi del consolidamento delle potenze mondiali emergenti e delle transizioni egemoniche si veda Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di, Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010. Per un’analisi sulla supremazia militare si rimanda ai lavori puntuali di Manlio Dinucci pubblicati sul sito www.voltaire.org e sul quotidiano “il Manifesto” e ai Rapporti SIPRI ( e non solo) ( www.sipri.org) . E’ interessante sottolineare quanto detto da Noam Chomsky in una recente intervista concessa a “il Manifesto” del 20/4/2017:<< L’Atomic Bulletin of Scienctists nel marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello di strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia >>.
  5. La citazione del pensiero di Henry Kissinger è tratta da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp. 59-60.

6.Così David Calleo:<< [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>. La citazione è tratta da Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op. cit., pp.335-336.

  1. Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale ( nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali. La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali. Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre ( politica, economica e culturale), David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio. Cfr il mio, La nazione e lo stato: una grande illusione dei popoli. La rottura teorica del conflitto strategico. Tempo e spazio della ricerca, www.conflittiestrategie.it, 5/7/2016 e www.italiaeilmondo.com, 26/12/2016.

  2. Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op.cit., pag. 336.

    9. David Harvey, The geopolitics of capitalism in Social relations and spatial structure, a cura di, D. Gregory e J. Urry, Londra, Mcmillan, 1985, pp.128-163, ora in Giovanna Vertova, a cura di, Lo spazio del capitale. La riscoperta della dimensione geografica nel marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 97-147.

    10. Giorgio Cesarale, Le lezioni di Giovanni Arrighi in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, op. cit., pp.19-20; sulla riorganizzazione sistemica statunitense si veda anche Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pp.41-43.

    11. La citazione di Alain Badiou è tratta da Alain de Benoist, L’impero del “bene”. Riflessioni sull’America d’oggi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004, pag. 107.

    12. Gianfranco La Grassa, Alcune verità che sembrano dimenticate, www.conflittiestrategie.it, 29/4/2017.

    13. La Cina è sostanzialmente una potenza economica mondiale funzionale alla logica imperiale USA: cosa è l’enorme surplus commerciale cinese pari a 347 miliardi di dollari e il consistente debito pubblico statunitense pari a 1058 miliardi di dollari che detiene se non una relazione “economico-finanziaria” asimmetrica a favore degli Stati Uniti: << Esportatori netti, tali paesi [ Giappone, Cina, India, Russia, eccetera, mia precisazione] sono costretti ad acquistare titoli di stato USA per mantenere apprezzato il dollaro e reinvestire il surplus commerciale nel più stabile luogo della terra, l’unico a non aver mai conosciuto cambi di regime. In nuce: per mantenere il benessere del loro principale acquirente, nonché garante delle vie di comunicazioni. Da qui l’accorato appello di Xi Jiuping per il mantenimento dell’attuale schema a guida americana >> ( Dario Fabbri, op. cit., pag.38). Per non parlare degli investimenti diretti e indiretti all’estero “propulsivi” ( investimenti fissi e azioni) per gli USA e “passivi” per Cina e Russia: << Gli Stati Uniti investono nel resto del mondo in maniera diretta- impianti- o in maniera indiretta-azioni- dieci volte più della Cina e della Russia messi insieme. Intanto che avviene questo, la gran parte delle riserve dei paesi che hanno accumulato avanzi commerciali- come la Cina, la Russia e i paesi produttori di petrolio- è trasformata in riserva in dollari ( e minor misura in euro) […] la maggior ricchezza cumulata da questi due paesi da quando è cambiato il sistema ( dagli anni Ottanta in Cina, dagli anni Novanta in Russia) non ha ancora spinto verso la strada della “dinamicità”. Questi due paesi, che per ora comprano- per bilanciare i propri avanzi commerciali – i buoni Tesoro degli Stati Uniti, potrebbero però- col passare del tempo- diventare dinamici nel campo degli investimenti esteri >>. Per non dire, infine, della moneta come riserva di valore (USA):<< […] si noti che per ora la Cina e la Russia investono all’estero, mentre spingono per l’uso delle proprie monete come mezzo di scambio che però è cosa ben diversa dalla moneta come riserva di valore >> ( Giorgio Arfaras, op. cit., pp.52-53).

    14. Sulla paura americana si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti editore, Roma, 2016, pp.272-312.

    15. Per una minuziosa e interessante ricostruzione della prima fase di apertura delle relazioni sino-americane, soprattutto i colloqui Kissinger-Zhou Enlai-Mao, si rimanda a Henry Kissinger, Cina, Arnoldo Mondadori, Milano, 2011, pp.185-216; si veda anche l’intervista rilasciata da Henry Kissinger allo storico Niall Ferguson e pubblicata, a cura di Alfonso Desiderio, in www.limesonline.com, 4/10/2011; Gianfranco La Grassa, Sul mondo bipolare e la sua “pace”, www.conflittiestrategie.it, 7/4/2015.

    16. Sul rilancio delle relazioni sino-americane improntate alla coevoluzione, alla collaborazione e alla competizione economica-sociale si legga Henry Kissinger, Cina, op. cit., pp.401-473. Henry Kissinger specifica che << L’etichetta adatta a definire le relazioni sino-americane è più “coevoluzione” che “partnership”. “Coevoluzione” significa che entrambi i paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti. Nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari.>>, ivi, pag. 470; si veda anche Henry Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2015.

  3. 17. Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pag.268 e pag.8. Zbigniew Brzezinski, come riporta lo storico Guy Mettan, << […] inserendosi nella più pura delle tradizioni geo-imperialiste di Mahan, Mackinder e Spykman, e in totale contraddizione con i discorsi di coloro che predicavano la fine degli imperi territoriali e l’obsolescenza della geopolitica occidentale […] pubblica La grande scacchiera. L’America e il resto del mondo, opera in cui riattualizza i concetti dei suoi predecessori applicandoli alla nuova situazione postsovietica. La stessa tesi verrà riaggiornata nel 2004 ( la vera scelta) per poi lasciar posto a un nuovo modello nel 2012 che teneva conto dell’ascesa della potenza cinese >> in Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag.288.
  4.  
    1. 18. Si veda Robert Kennedy jr., I retroscena della politica Usa in Siria che ha portato alla guerra attuale, www.vietatoparlare.it, 28/4/2017; Redazione l’antidiplomatico, La guerra dei gasdotti che brucia sotto la Siria, www.l’antidiplomatico.it, 26/9/2016.
    2. 19.
    3. La citazione di Gabriel Galice è tratta da Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag. 288.
    4. 20.
    5. Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2005, pag.82.

     

IL PAPA E L’ANTIPAPA, di Giuseppe Germinario

Dopo otto anni di fatiche presidenziali, Barack Obama ha deciso di concedersi un lungo meritato periodo di riposo. Un paio di settimane di soggiorno in Polinesia, presumibilmente di vero ozio, seguite da una lunga permanenza in Italia, assieme ai familiari, dai primi di maggio ed ancora in corso, sia pure inframezzato, stando almeno ai comunicati ufficiali, da un frettoloso rientro di pochi giorni negli Stati Uniti.

A un reduce di cinquantasei anni, ancora nel pieno delle energie, non si può certo chiedere un istantaneo rientro nell’anonimato della vita quotidiana, magari in pantofole davanti al televisore e con i nipotini che ancora mancano all’appello. Eccolo, quindi, presenziare nel frattempo a incontri e convegni per altro lautamente remunerati sull’alimentazione, sulla crisi climatica, sulla ecologia, sulla fame nel mondo; sulle tragedie che affliggono, come maledizioni divine o “umane”, il significato è pressoché simile, il genere umano.

Bisognerà concedergli anche il necessario periodo di adattamento da una vita di sfarzi e protezioni regali a quella di inerme cittadino e concedergli l’indulgente e benevolente comprensione ai suoi pernottamenti da diecimila dollari a notte e alle sue scorte blindate, ben più ingombranti della decina di automezzi destinati solitamente ad un convoglio presidenziale.

La fragilità dell’uomo affiora, però, guardando agli itinerari europei dei suoi spostamenti e alle persone dai quali più o meno riservatamente cerca conforto e riconoscimento. Solitamente la nostalgia comincia ad insinuarsi nel vuoto di aspettative, ma solo dopo un certo tempo.

In Obama, questo tratto è apparso praticamente il giorno stesso del suo abbandono della Casa Bianca. Quanto il personaggio sia abbarbicato ed affezionato agli incarichi di prestigio lo abbiamo visto nella fase di transizione, di passaggio delle consegne al nuovo presidente; non ha fatto altro che disseminare di trappole e di fatti compiuti una fase di passaggio che dovrebbe invece agevolare il più possibile l’ingresso del neoeletto. Quasi una ripicca per la sconfessione di otto anni di “change”.

A maggio ha fatto qualcosa di più. Si è guardato bene dal metter piede in casa saudita e in Israele, ancor meno in Egitto e in Turchia, paesi dalle spiagge altrettanto rinomate; segno che qualche traccia di realismo e di istinto di sopravvivenza deve essergli rimasto. In Europa, invece, ha ripercorso e soprattutto anticipato l’itinerario politico, già tracciato da un anno, di Trump al G7 e al Quartier Generale della Nato. Potrebbe apparire una preoccupante dissociazione della personalità, di chi si vede ancora investito delle trascorse funzioni, senza averne diritto, incapace di metabolizzare il trapasso.

Sta di fatto che il suo soggiorno in Italia è stato punteggiato da incontri pubblici e soprattutto riservati, ancorché protetti da una cortina assoluta di discrezione. Non sono mancate le puntate in Germania ad incontrare Angela Merkel e non sappiamo chi altri sino ad arrivare in Scozia, a meno di un ripensamento ufficialmente legato a problemi di sicurezza.

Si insinua il sospetto che la spiegazione psicologica di questo comportamento sia assolutamente riduttiva.

In effetti Obama aveva dichiarato più volte che la fine del suo impegno politico non avrebbe coinciso con quello del suo mandato presidenziale; la disfatta della Clinton ha certamente aperto la strada ad una sua presenza meno discreta volta a ricostruire il malconcio Partito Democratico senza grandi concessioni alle derive social-radicali, ormai ben radicate, espresse da Sanders e messe in quiescenza con qualche furbata di troppo nelle primarie democratiche del 2016. La coincidenza al momento di questa ambizione con gli interessi e le strategie di gran parte dello stato profondo impegnato a neutralizzare ed orientare le velleità conciliatrici verso la Russia e a impedire lo sconvolgimento del sistema di relazioni geoeconomiche perpetrati dalla parte più militante delle forze sostenitrici di Trump consente a BO (Barach Obama) di assolvere contemporaneamente ad entrambi gli impegni. A normalizzazione eventualmente compiuta lo Stato Profondo potrà finalmente tornare a disporre nuovamente di più opzioni politiche e BO potrà rifugiarsi in lidi più tranquilli, nella routine dello scontro tra gli scenari classici del palcoscenico politico.

Il viaggio di Trump in Medio Oriente e in Europa ha sancito lo stato avanzato di questa sua normalizzazione e il prezzo doloroso che una parte del vecchio establishment rischia di pagare a questo successo.

La clamorosa riattribuzione del ruolo egemone dei sauditi nel contesto arabo-sunnita suona come un campanello di allarme sulla persistenza della solidità di legami tra i Saud e la fazione democratica americana, rivelata apertamente dagli archivi di Wikileaks.

Un investimento che poggia sul sodalizio, tutto da rinsaldare ma con costi e incognite fondamentali, di due paesi “minori” di quell’area le cui ambizioni possono essere soddisfatte solo con l’esplicito appoggio esterno. I due paesi sono ovviamente Israele, “minore” per la sua collocazione geografica ed il peso demografico, e l’Arabia Saudita, ancora più esposta nella sua influenza ideologica ed economica, grazie alla crisi irreversibile e progressiva del petrolio. I costi a carico di Israele sono l’eventuale accordo per un definitivo riconoscimento di status dei palestinesi; a carico dei sauditi il rischio connesso a un tradimento dell’ISIS e all’ulteriore sacrificio della componente sunnita irachena già decimata dagli americani e dall’attuale governo dell’Iraq e sopravvissuta grazie al patto militare con l’ISIS. Le incognite sono le ambizioni da potenza regionale dell’Egitto da una parte, in procinto di fondersi con il Sudan e in grado di contrastare efficacemente il predominio ideologico dei sauditi; della Turchia, dall’altra, attualmente sospesa, ma tentata e spinta a realizzare un sodalizio con l’Iran, con pretese le quali, se non ben soppesate, rischiano di destabilizzarla ulteriormente. Il bersaglio immediato ridiventa l’Iran. La migliore condizione di realizzazione del piano sarebbe una accondiscendenza più o meno tacita delle due superpotenze emergenti, eventualmente timorose di veder sorgere al proprio fianco un competitore geopolitico del calibro della coppia Turchia-Iran. Una preoccupazione minore per la Russia, piuttosto che per la Cina. Una trama azzardata, ma che consentirebbe a Trump di ottenere sul piano economico e sociale, grazie ai contratti e alle collaborazioni in via di sottoscrizione, qualche risultato sacrificando i suoi propositi di svolta in politica internazionale.

Cosa c’entrerebbe l’Italia, o meglio la nostra scalcagnata classe dirigente, in tutto questo? C’entra, eccome!

Sin dai tempi dello “smacchiatore” Bersani si preconizzava un nuovo ruolo dell’Italia in Nord-Africa e Medio-Oriente. Lontana dai fasti di Mattei, in realtà il paese si sta riducendo ad una mera funzione di marchio per conto terzi, con tutti gli sballottolamenti legati alla competizione tra i paesi possessori. Piuttosto, come sollecitato da Trump, si chiede di svolgere una funzione di mediazione con Francia, Gran Bretagna e Germania che li spinga all’azione comune contro l’ISIS. Una azione particolarmente rischiosa soprattutto per i primi due paesi, proprio perché l’uso massiccio di queste frange integraliste sono state il veicolo di ritorno della loro influenza nell’area Nordafricana e Mediorientale e potrebbero intensificare le ritorsioni terroristiche in caso di ulteriori voltafaccia.

È certamente uno degli oggetti di disputa tra il Papa Trump e l’Antipapa Obama, l’argomento forte e decisivo di quest’ultimo essendo la precarietà della condizione dell’attuale Presidente e la ventilata sua prematura defenestrazione. Una panacea per una intera classe dirigente europea cresciuta malamente sulla russofobia e sull’espansionismo americano ad est a scapito della propria indipendenza politica, ma evidentemente pronta o quanto meno tentata a cogliere il repentino trasformismo dell’attuale Presidente. In Italia una parte della compagine governativa e della sedicente opposizione pare tentata ad assecondare la richiesta in cambio di un ruolo americano attivo di mediazione in Libia, in funzione antifrancese e antirussa. Ne rimane un’altra, legata al buon Matteo, legata nei suoi abbracci mortali fuori tempo massimo.

L’esito della disputa ci dirà se l’Antipapa si qualificherà come il messaggero diabolico del genio del male o si ridurrà alla figura di un impostore al servizio di una fazione politica ormai compromessa e miserabile. Quanto al Papa, pur con qualche sussulto, il solco pare sempre più quello classico conservatore con una qualche attenzione in più alla coesione sociale interna. L’imprevedibilità e il rivolgimento in un primo tempo sembrano spiazzare i due principali contendenti nello scacchiere internazionale. L’apertura di più fronti ostili, in realtà, rischia di rafforzare i loro propositi di momentanea collaborazione, pur tra le tante debolezze di quelle formazioni sociali e delle loro classi dirigenti ed accentuare il processo di formazione multipolare con tutti i rischi e le opportunità che classi dirigenti adeguate potrebbero affrontare e cogliere nello scenario mondiale.

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia 3a parte. di Luigi Longo

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

http://italiaeilmondo.com/2017/05/16/gli-stati-uniti-e-lo-spettro-della-russia-di-luigi-longo-2a-parte/

http://italiaeilmondo.com/2017/05/09/gli-stati-uniti-e-lo-spettro-della-russia-di-luigi-longo/

Lo spettro della Russia

 

 

La paura degli agenti strategici statunitensi nei riguardi della Russia (14) scaturisce, oltre che dalla forza militare ( soprattutto nucleare), dal ruolo centrale che la potenza emergente può avere nella formazione di un polo aggregante ( una sorta di polarizzazione di blocchi tra potenze mondiali) che pone dei limiti all’arroganza egemonica sfruttatrice di una superpotenza in declino.

 

La strategia di Kissinger

 

Henry Kissinger, un protagonista delle strategie di dominio statunitensi, aveva capito l’importanza della centralità della Russia, sia come nazione vettore tra i due continenti, Asia e Europa, sia come nazione strategica per l’egemonia mondiale, sin dai tempi del tentativo di apertura delle relazioni sino-americane, alla fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta del Novecento. L’apertura della collaborazione tra USA e Cina si inseriva allora nel conflitto acuto tra URSS e Cina ed era indirizzata formalmente alla costruzione di “un ordine internazionale più pacifico”, mentre nella sostanza mirava a contrastare l’URSS, ritenuta, forse, già allora un gigante militare-nucleare con i piedi di argilla. Questa apertura tattica avrebbe potuto accelerare il processo storico di implosione del sistema del socialismo irrealizzato e la fine del mondo bipolare. Il tentativo non riuscì per il conflitto interno agli strateghi statunitensi nel quale prevalse la continuazione della logica del mondo bipolare (15).

Oggi Henry Kissinger ri-lancia, nella logica del tutto torna ma in maniera diversa, per la seconda volta, la politica estera degli Stati Uniti verso una coevoluzione ( una sorta di comunità pacifica sulla scia della comunità atlantica) delle relazioni sino-americane in modo da contrastare la eventuale nascita di un polo Russia-Cina, in questa fase di loro collaborazione soprattutto nella sfera economico- finanziaria ( le nuove vie della seta cinese, gli accordi di area, il sistema bancario alternativo, eccetera), che metterebbe in seria difficoltà gli USA e ne accentuerebbe, nel medio-lungo periodo, il declino (16).

In una recente intervista, apparsa su “La Stampa” del 27/3/2017 a cura di Paolo Mastrolilli, Henry Kissinger ribadisce sia la logica di contenimento della Russia (la Russia non ha diritto a stare in Medio Oriente) sia la logica di apertura verso la Cina ( un negoziato diretto tra Washington e Pechino per raggiungere un accordo di sicurezza dell’intera regione dell’Estremo Oriente a partire dalla questione della Corea del Nord).

 

La strategia di Brzezinski

 

Zbigniew Brzezinski, un altro importante protagonista delle strategie di dominio degli Stati Uniti, ritiene la Russia una nazione centrale, nel breve e medio periodo, per la nascita di poli di potenze mondiali in grado di sfidare l’egemonia USA che riconosce in declino e che rilancia con una architettura del dominio mondiale fondata nella sostanza sul monocentrismo statunitense. Egli è talmente ossessionato dalla Russia che  già nel 1997, anno di pubblicazione del suo libro “La grande scacchiera”, scriveva sulla divisione della Russia:<< Una confederazione composta da una Russia europea, una repubblica siberiana e una dell’Estremo Oriente, potrebbe sviluppare con maggior facilità rapporti economici più stretti con l’Europa, come pure con i nuovi Stati dell’Asia centrale e con l’Oriente.>>, ovviamente all’interno di << una comunità internazionale fondata su una reale cooperazione, che assecondi le antiche aspirazioni e garantisca i fondamentali interessi dell’umanità. Ma, nel frattempo, è assolutamente indispensabile che non emerga alcuna potenza capace d’instaurare il proprio dominio sull’Eurasia e di sfidare per ciò stesso l’America >> (17).

Zbigniew Brzezinski pensa l’Europa e la Nato ( non più solo militarizzazione del territorio europeo ma anche coesione economica, sicurezza dei territori e delle città, eccetera) come teste di ponte contro la Russia, mentre ritiene importante una intesa con la Cina nel rispetto della suddetta coevoluzione delle relazioni sino-americane. Sono importanti la Nato e la UE ( per il dominio statunitense non conta il suo l’asservimento unitario o fondato su relazioni tra stati) per la espansione ad Est ( vedasi la questione Ucraina) e nel Medio Oriente ( vedasi la questione Siria). E’ un attacco alla Russia molto pericoloso perché mira al suo contenimento e alla perdita della sua sovranità inviolabile, sia attraverso il blocco degli accessi al mediterraneo ( in Ucraina c’è la base navale di Sebastopoli, in “affitto” a Mosca fino al 2042, più una serie di caserme, poligoni e porti usati dalla Russia; in Siria c’è la base navale di Tartus, la base aerea di Humaymim e la stazione di ascolto di Lataqia), sia attraverso la riduzione delle risorse energetiche strategiche della Russia con la realizzazione del gasdotto del Qatar verso l’Europa (che taglierebbe la quota russa del mercato europeo), sia con la costruzione da parte della Turchia di un hub energetico ( che ne ridurrebbe la dipendenza dal gas russo) nell’Europa meridionale (18).

Gabriel Galice così analizza:<< […] L’Eurasia è centrale, l’America deve esservi presente per dominare il pianeta, l’Europa è la testa di ponte della democrazia in Eurasia, la Nato e l’Unione europea devono di conseguenza estendere la propria influenza in Eurasia, gli Stati Uniti devono giocarsi simultaneamente la Germania e la Francia ( carte delle rispettive zone di influenza alla mano), alleati fedeli anche se ciascuno a modo suo, irrequieti e capricciosi.>> (19).

Concludendo queste brevi riflessioni si può sostenere ragionevolmente che l’obiettivo della strategia USA è quello di impedire la formazione di un polo di potenza mondiale tra la Russia e la Cina in grado di metterne in discussione l’egemonia. Il giocatore più pericoloso, nel breve-medio periodo, in questa lotta per contrastare l’egemonia mondiale assoluta statunitense e per pensare un mondo multicentrico, è la Russia. E’ la nazione che va combattuta e ridimensionata con ogni mezzo. E’ lo spettro degli agenti strategici dominanti statunitensi.

 

 

En Passant

 

 

I sub-sub-dominanti italiani hanno subito rinnovato con l’amministrazione Trump le catene della servitù volontaria per un mondo monocentrico americano. Hanno le facce da servi di gaberiana memoria.

L’Europa va rifondata a partire dalla demolizione del progetto Europa tanto caro ai suoi padri fondatori, esecutori di un progetto pensato e attuato dagli USA per le loro strategie di dominio mondiale: fatto noto ma non conosciuto.

Ritengo che sia ancora valido quanto scriveva Costanzo Preve:<< Un’Europa delle nazioni, e nello stesso tempo delle nazioni eguali, ed in più delle nazioni amiche della Russia e della Cina, e infine disposte anche ad essere amiche degli Stati Uniti, se questi ultimi rinunceranno saggiamente alla pretesa di impero universale basato su di un dominio militare soverchiante e sull’imposizione di un’unica cultura linguistica anglosassone.>> (20).

Un nuovo progetto Europa: con chi? con quale pensiero? con quale organizzazione? con quale progetto di società? con quale relazione sociale? con quale prassi politica?

Sono domande che scaturiscono dalla grande lezione storica della rivoluzione russa.

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Sulla paura americana si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti editore, Roma, 2016, pp.272-312.

15.Per una minuziosa e interessante ricostruzione della prima fase di apertura delle relazioni sino-americane, soprattutto i colloqui Kissinger-Zhou Enlai-Mao, si rimanda a Henry Kissinger, Cina, Arnoldo Mondadori, Milano, 2011, pp.185-216; si veda anche l’intervista rilasciata da Henry Kissinger allo storico Niall Ferguson e pubblicata, a cura di Alfonso Desiderio, in www.limesonline.com, 4/10/2011; Gianfranco La Grassa, Sul mondo bipolare e la sua “pace”, www.conflittiestrategie.it, 7/4/2015.

  1. Sul rilancio delle relazioni sino-americane improntate alla coevoluzione, alla collaborazione e alla competizione economica-sociale si legga Henry Kissinger, Cina, op. cit., pp.401-473. Henry Kissinger specifica che << L’etichetta adatta a definire le relazioni sino-americane è più “coevoluzione” che “partnership”. “Coevoluzione” significa che entrambi i paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti. Nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari.>>, ivi, pag. 470; si veda anche Henry Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2015.
  2. Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pag.268 e pag.8. Zbigniew Brzezinski, come riporta lo storico Guy Mettan, << […] inserendosi nella più pura delle tradizioni geo-imperialiste di Mahan, Mackinder e Spykman, e in totale contraddizione con i discorsi di coloro che predicavano la fine degli imperi territoriali e l’obsolescenza della geopolitica occidentale […] pubblica La grande scacchiera. L’America e il resto del mondo, opera in cui riattualizza i concetti dei suoi predecessori applicandoli alla nuova situazione postsovietica. La stessa tesi verrà riaggiornata nel 2004 ( la vera scelta) per poi lasciar posto a un nuovo modello nel 2012 che teneva conto dell’ascesa della potenza cinese >> in Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag.288.
  3. Si veda Robert Kennedy jr., I retroscena della politica Usa in Siria che ha portato alla guerra attuale, www.vietatoparlare.it, 28/4/2017; Redazione l’antidiplomatico, La guerra dei gasdotti che brucia sotto la Siria, www.l’antidiplomatico.it, 26/9/2016.
  4. La citazione di Gabriel Galice è tratta da Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag. 288.
  5. Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2005, pag.82.

 

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, di Luigi Longo

 

 

 

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

 

L’inizio del declino e il bivio storico

 

 

Il declino di una potenza mondiale egemone inizia a presentarsi quando esplodono le contraddizioni interne (conflitti tra agenti strategici delle diverse sfere sociali, fratture sociali e territoriali, degrado totale, eccetera); tale declino è altresì in relazione alle dinamiche di crescita di altre potenze sia regionali sia mondiali che mettono in discussione quella egemonia dominante(1).

Gli strateghi USA, potenza mondiale egemone, sono consapevoli di questo processo, così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] quell’epoca sta ormai per finire […] >> (2). Il declino USA è relativo perché è ancora decisiva la sua egemonia in tutte le istituzioni mondiali. La sua capacità di dominio, attraverso il soft power e l’hard power, è ancora grande in rapporto alle potenze mondiali emergenti, come la Russia e la Cina, in questa fase di multicentrismo (3).

Gli statunitensi si trovano ad un bivio storico dove lo spazio-tempo della decisione si fa sempre più stretto e dovranno scegliere quale strada intraprendere. Questa diramazione prospetta paesaggi mondiali diversi: 1. Una potenza mondiale che rivendica la sua egemonia (G7, FMI, BM, NATO, ONU, WTO) e il suo dominio con la supremazia militare indiscussa (4), ma nel ri-lanciare il suo dominio mondiale monocentrico non si preoccupa delle contraddizioni strutturali interne né, ricerca un nuovo modello di sviluppo o una nuova visione di società; 2. Una potenza mondiale che ri-vede il suo modello sociale, fa i conti con le sue contraddizioni strutturali che rischiano di accelerare il declino e ri-lancia la sua egemonia confrontandosi con le altre potenze.

La prima strada accelera la fase multicentrica e prepara la fase policentrica: il conflitto mondiale; la seconda strada ritarda la fase policentrica e rimane in una fase multicentrica che potrebbe portare ad una condivisione e ad un rilancio di nuove relazionali mondiali nel rispetto delle diversità ( storiche, culturali, sociali, politiche, territoriali, eccetera): parafrasando Karl von Clausewitz si può dire che la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ mia opinione che prevarrà la prima strada, per le seguenti ragioni.

La prima. Gli USA credono di essere la nazione indispensabile e hanno la cultura monocentrica del dominio mondiale. Vale per tutti il seguente pensiero di Henry Kissinger. << La sfida in Iraq non era solo vincere la guerra quanto [mostrare] al resto del mondo che la nostra prima guerra preventiva è stata imposta dalla necessità e che noi perseguiamo l’interesse del mondo [ corsivo mio], non esclusivamente il nostro […] La responsabilità speciale dell’America [ USA, mia specificazione], in quanto nazione più potente del mondo, è di lavorare per arrivare a un sistema internazionale che si basi su qualcosa di più della potenza militare, ovvero che si sforzi di tradurre la potenza in cooperazione […] Un diverso atteggiamento ci porterà gradualmente all’isolamento e finirà per indebolirci. >> (5).

La seconda. La piramide sociale statunitense non reggerà più, la base sta scricchiolando e si arriverà alla implosione della nazione e con essa alla fine dell’idea della grande nazione imperiale. Si stanno indebolendo la struttura e il legame sociale della società, che sono il fondamento della potenza imperiale. Gli agenti strategici dominanti sono incapaci di una nuova visione, di un nuovo modello di sviluppo sociale, di nuovi rapporti sociali che potrebbero emergere dalla cosiddetta società capitalistica. Gli strateghi delle sfere egemoniche ( politica, militare, istituzionale, economica-finanziaria,), portatori della visione classica della logica di funzionamento imperiale, agiscono con la convinzione che il dominio, con la coercizione ( la forza militare imperiale) e il denaro ( il dollaro imperiale), sia l’unica strategia per continuare a mantenersi, come grande nazione imperiale, sulle spalle del resto del mondo (le economie dei diversi capitalismi).

Alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice (6), e hanno cercato di deviare, invano (si vedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale.

La terza. La lezione della storia, a prescindere dal modo di produzione e riproduzione del legame sociale della società storicamente data, è questa: schiacciando esseri umani sessuati e natura, oltre il limite strutturale sociale e naturale, si rischiano grossi guasti. La forbice tra ricchezza illimitata e povertà assoluta non può divaricarsi all’infinito. Non è un discorso pauperistico del limite superato, ma un ragionamento di modello di sviluppo, di una idea nuova del legame sociale e del rapporto sociale ( sia dentro sia fuori il Capitale, ovviamente inteso come relazione sociale) e di rottura dell’equilibrio dinamico del blocco egemone degli agenti strategici dell’insieme delle sfere sociali del Paese (7).

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Su questi temi rinvio a Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mandadori, Milano, 2003; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
  2. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignmente in “ The American Interest” ( www.the-american-interst.com) , n.6/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  3. Joseph S. jr Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016; con una lettura critica si veda anche Etienne Balibar, Populismo e contro-populismo nello specchio americano, www.ariannaeditrice.com, 27/4/2017.
  4. Per un’analisi storica, geopolitica, militare, finanziaria si rimanda alla rivista “Limes”, n.2/2017, “Chi comanda il mondo”, in particolare gli articoli di Dario Fabbri (La sensibilità imperiale degli Stati Uniti è il destino del mondo), di Alberto De Sanctis (Gli Stati Uniti tengono in pugno il tridente di Nettuno), Giorgio Arfaras (Il dollaro resta imperiale). Per un’analisi del consolidamento delle potenze mondiali emergenti e delle transizioni egemoniche si veda Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di, Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010. Per un’analisi sulla supremazia militare si rimanda ai lavori puntuali di Manlio Dinucci pubblicati sul sito www.voltaire.org e sul quotidiano “il Manifesto” e ai Rapporti SIPRI ( e non solo) ( www.sipri.org) . E’ interessante sottolineare quanto detto da Noam Chomsky in una recente intervista concessa a “il Manifesto” del 20/4/2017:<< L’Atomic Bulletin of Scienctists nel marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello di strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia >>.
  5. La citazione del pensiero di Henry Kissinger è tratta da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp. 59-60.

6.Così David Calleo:<< [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>. La citazione è tratta da Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op. cit., pp.335-336.

  1. Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale ( nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali. La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali. Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre ( politica, economica e culturale), David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio. Cfr il mio, La nazione e lo stato: una grande illusione dei popoli. La rottura teorica del conflitto strategico. Tempo e spazio della ricerca, www.conflittiestrategie.it, 5/7/2016 e www.italiaeilmondo.com, 26/12/2016.

 

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