LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

IL GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO, di Giuseppe Germinario

Un epilogo beffardo!
Appena sette settimane fa Renzi era accolto a tavola del Presidente degli Stati Uniti d’America, uscente ma pur sempre il Presidente.
Trattandosi dell’Ultima Cena, non risulta alcun gesto scaramantico da parte di Renzi al suo ingresso a tavola.
Il suo futuro del resto si prospettava fulgido e pregno di aspettative. Uno dei suoi mentori principali presiedeva lo staff elettorale della pressoché certa nuova Presidente statunitense e da quegli ambienti aveva attinto buona parte dei propri consiglieri; con l’uscita, al momento proclamata, della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’Italia si accingeva a sostituirla nel ruolo primario di contraddittorio dell’asse franco-tedesco e di portavoce diretto dell’alleato d’oltreatlantico in sede europea.
Un Capo di Governo che deve la propria fortuna soprattutto all’investitura esterna più che al radicamento negli interessi forti e diffusi del proprio paese, non poteva del resto che costringere le proprie sorti principalmente alle vicende d’oltre confine.
L’elezione di Trump ha rappresentato la rottura della faglia principale su cui era costruito il castello delle aspettative. La sua politica estera e la sua politica economica, almeno nei proclami e nelle intenzioni, sono antitetiche rispetto al progetto e ai legami esibiti sin troppo spavaldamente dal nostro indomito.
La vittoria di Fillon alle primarie repubblicane francesi prefigura una particolare interpretazione della svolta trumpiana fondata su un asse tattico franco-russo-americano potenzialmente antitedesco e, in una prospettiva più larga, anticinese.
La ricandidatura di Angela Merkel, lo sponsor più controproducente da esibire, rappresenta invece il probabile tentativo di conservare la preminenza del sodalizio tedesco-americano in Europa fondato sulla permanenza esplicita o surrettizia del vecchio establishment americano e sulla sconfitta o neutralizzazione della svolta trumpiana.
Sono le due faglie secondarie destinate a rendere ancora più precaria la condizione del paese e la posizione del Matteo dimissionario. Meriteranno assieme alla prima senz’altro un articolo a parte.
Si tratta comunque di uno sciame sismico che ha dissestato le fondamenta e messo a nudo la precarietà dell’edificio renziano.
Un edificio che aveva come tetto una riorganizzazione istituzionale e amministrativa che tendeva correttamente ad una centralizzazione, ad un riordino e ad una semplificazione delle competenze e delle funzioni ma le cui pareti erano costituite da una politica economica e sociale del paese disastrosa non solo per le ripercussioni, la disgregazione, i corporativismi che stanno innescando nella formazione sociale ma soprattutto perché porta a perdere il controllo della produzione di quelle risorse necessarie a garantire l’autonomia politica, la riorganizzazione istituzionale, la coesione della formazione sociale e la prospettiva del nostro paese.
Il risultato è stato una riforma pasticciata della quale si è assunto il patrocinio Renzi ma della quale sono responsabili tutti i partiti; un tentativo di centralizzazione di stampo oligarchico perché incapace di dare una prospettiva di sviluppo e di autorevolezza politica, frutto quindi di un compromesso precario estorto a quelle stesse forze che avrebbe dovuto sconfiggere ed emarginare.
Il piano di implementazione dell’industria 4.0, presentato dal serissimo ministro Calenda, rappresenta l’emblema di quella politica economica. Un piano fondato su incentivi generalizzati ed investimenti di ricerca tesi a digitalizzare, informatizzare ed integrare i processi industriali assecondando però il processo di periferizzazione della merceologia e della tecnologia di prodotto. Una politica antitetica rispetto a quei paesi emergenti tesi a competere con gli Stati Uniti, ma soprattutto del tutto disallineata rispetto alla politica economica tracciata da Donald Trump in America.
Una vittoria non troppo schiacciante del sì probabilmente avrebbe segnato il destino delle due componenti, accorciato una loro agonia comunque in corso e reso più trasparente il sistema politico.
Sta di fatto che l’esito del referendum ha riportato in campo almeno temporaneamente e più saldamente Silvio Berlusconi e la componente minoritaria del PD. Assisteremo al tentativo di ricostituire il gioco destra-sinistra e con questo puntare ad ingabbiare la Lega e Fratelli d’Italia nel centrodestra e rinsaldare una sinistra progressista comunque minoritaria. Alla bisogna si troveranno le forme di collusione necessarie a neutralizzare l’ascesa del Movimento Cinque Stelle (M5S). La Lega, dal canto suo, sino a quando non si emanciperà dal proprio peccato originale di forza localistica ed autonomistica difficilmente potrà resistere a lungo alle sirene dei vecchi schieramenti. Non si conoscono però ancora casi di emancipazione dal peccato originale se non rinnegando la religione che lo inculca.
Il risultato, però, ha anche confermato l’esistenza di tante talpe capaci di rendere instabile il terreno ma ancora cieche ed incapaci di individuare la via di uscita in superficie. Una luce fioca ma esposta attualmente alla disgrazia di avere, quelle stesse talpe, delle guide le quali piuttosto che indirizzarle e tracciare loro la strada pretendono direttive precise da loro stesse.
È appunto la retorica della democrazia dal basso e dell’annichilimento dei poteri forti, tanto cara alle forze politiche proclamatesi alternative, in particolare il M5S, tanto loquaci quanto in realtà inconcludenti; è questo l’aspetto oscuro e paralizzante del cosiddetto populismo. Il paese, al contrario, ha disperatamente bisogno di un ceto politico deciso ed autorevole, di poteri forti capaci di aggregare la pletora di interessi in cui è frammentato il paese in un progetto di emancipazione politica.
L’elezione di Trump da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di studio.
Il declino drammatico del nostro paese è passato d’altro canto proprio attraverso l’annichilimento e la subordinazione di questi poteri piuttosto che dal loro rafforzamento.
All’inizio ho parlato di epilogo. Forse è una affermazione troppo drastica.
Renzi è stato colpito e probabilmente si metterà da parte per qualche tempo. La personalizzazione dello scontro non è stato solo un calcolo sbagliato del protagonista, ma era intrinseca al fatto che il suo governo è nato per fare le riforme istituzionali. Il suo destino sarebbe stato comunque legato all’esito del referendum. Se riuscirà a conservare la carica di Segretario avrà ancora diverse carte da giocare anche nell’immediato; dovesse perdere anche quella, dovrà altrimenti attendere le eventuali invocazioni dei ribelli che lo hanno scalzato ma che si sono dispersi nella palude. A quel punto il suo progetto di Partito della Nazione circondato da satelliti assumerebbe un significato del tutto diverso e più integrato nella logica degli schieramenti classici.
Con un Trump però forte e soprattutto coerente con se stesso difficilmente potrà assurgere ad un ruolo di primo piano.
Piuttosto cresceranno spazi per un Berlusconi quasi esanime o qualcuno dei suoi eventuali eredi, ma con scarsi benefici per il paese; oppure, ma è solo una speranza poco corroborata, qualcosa di realmente nuovo potrebbe sorgere dalle macerie delle forze di opposizione e mettere in condizione di trattare su basi più dignitose e paritarie la nostra collocazione estera e le nostre condizioni di sviluppo.
Dipenderà ancora una volta soprattutto dal comportamento dei nostri vicini di casa.

ps_ per una ricostruzione storica del Governo Renzi consiglio la seguente lettura http://italiaeilmondo.com/2016/12/05/%CE%BC%CE%B1%CE%B8%CE%B8%CE%B1%CE%B9o%CE%BD-matteo-dono-di-dio-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-apparso-il-12-novembre-2014-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/

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