COSTITUZIONE UNGHERESE E STATO DI DIRITTO 1a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE UNGHERESE E STATO DI DIRITTO

La costituzione già vigente in Ungheria, prima dell’attuale (ossia quella adottata nel 1949 ampiamente modificata dopo il crollo del regime comunista) grazie anche agli interventi della Corte costituzionale, era stata adattata alla nuova situazione politica.

Dal 2012 è entrata in vigore la nuova Costituzione. Il testo è suddiviso in tre parti, con numerazione diversa: gli articoli della prima parte sui “principi fondamentali” sono segnati da una lettera (da A a T); la seconda parte sui diritti e doveri (intitolata Libertà e responsabilità) porta numeri romani (da I a XXXI); e, infine, la terza parte sull’organizzazione dello stato ha numeri arabi (da 1 a 54).

La Costituzione del 2012 nel preambolo fa esplicito riferimento al cristianesimo, e recita: “Riconosciamo il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione. Rispettiamo le diverse tradizioni religiose presenti nel nostro paese”; è garantita la protezione del feto (art. II). Un altro articolo definisce il matrimonio come unione tra uomo e donna e dispone la protezione della famiglia come “la base per la sopravvivenza della nazione”. La “fonte del potere pubblico è il popolo” dispone l’art. B.

L’art. C (I° comma) dispone che “il funzionamento dello Stato ungherese si fonda sul principio della separazione dei poteri”.

Sempre l’art. C (II° e III° comma) fonda il monopolio della violenza legittima dello Stato, che appare completato dal diritto ed obbligo (per tutti) di intervenire in modo legittimo, contro simili pretese (di conquistare o esercitare il potere con la violenza) che pare fondante un diritto di resistenza “minore”.

Il controllo di costituzionalità è sia preventivo che successivo (al contrario di quello italiano che è solo successivo); dato che precedentemente era possibile l’azione popolare, il ricorso (diretto) individuale è attribuito (così restringendolo) ai soli soggetti lesi dall’atto impugnato (v. art. 24).

I giudici e i magistrati della Procura “sono indipendenti”; non possono essere iscritti a partiti, né svolgere attività politica. Si noti che i Presidenti della Corte Costituzionale, della Corte Suprema d’Appello e il Procuratore generale sono eletti dall’Assemblea nazionale. Tale soluzione era quella già prescritta nella Costituzione del 1949, tipica degli Stati del socialismo reale, anche se, in quelli, estesa a tutti i giudici, peraltro revocabili (e quindi non inamovibili)[1]. La regolazione delle garanzie istituzionali dello status e della retribuzione dei magistrati è demandata ad una “legge organica”.

L’art. L dispone che “L’Ungheria tutela l’istituto del matrimonio quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia come base della sopravvivenza della Nazione. L’Ungheria sostiene l’impegno ad avere figli”.

L’art. O dispone che “Ognuno è responsabile di se stesso ed è tenuto a concorrere all’espletamento delle funzioni statali e comunitarie secondo le proprie competenze e possibilità”.

L’art. R al comma I° dispone che la Legge fondamentale (cioè la Costituzione) è “la base dell’ordinamento giuridico dell’Ungheria”. Al comma III che “le norme della Legge Fondamentale vanno interpretate in armonia con il loro fine, con la Professione Nazionale ivi compresa, e con le conquiste della nostra costituzione storica”.

L’art. S prescrive le norme per le modifiche costituzionali che ne richiedono l’approvazione con maggioranza qualificata “dei due terzi dei deputati dell’Assemblea Nazionale” (è così una Costituzione rigida). L’art. T (comma IV°) prescrive poi che “le leggi organiche sono approvate con la maggioranza dei due terzi dei deputati presenti” (tali leggi sono prescritte dalla costituzione in materia di particolare rilievo, indicate dalla stessa legge fondamentale).

L’art. I dispone “I diritti inviolabili ed inalienabili dell’uomo vanno rispettati. È obbligo primario dello Stato la protezione di essi”, il III comma prescrive “Le norme che riguardano i diritti e i doveri fondamentali sono stabilite dalla legge. Un diritto fondamentale può essere limitato, nella misura strettamente necessaria, allo scopo di far valere un altro diritto fondamentale o di difendere dei valori costituzionali, in modo proporzionato al fine intenzionato e nel rispetto dei contenuti essenziali del medesimo diritto fondamentale”. Tale ultimo precetto ricorda, per la garanzia del contenuto, l’art. 19 (II° comma) della Grundgesetz tedesca.

Gli articoli dal II al XXX proteggono i diritti di libertà e proprietà garantiti in ogni Stato borghese, con particolare attenzione alla famiglia e ai minori (articoli XVI e XVIII). L’art. XXXI prevede, tra l’altro obblighi e limiti dello Stato d’eccezione, che sono destinati a essere disciplinati dettagliatamente dagli artt. 48-54.

Quanto all’organizzazione dello Stato, l’art. 15 prescrive il principio di legalità per gli atti del Governo, l’art. 21 la sfiducia al Primo Ministro eletto dall’Assemblea Nazionale (con indicazione del sostituto “suggerito” il che ne fa una “sfiducia costruttiva”).

L’art. 30 istituisce il Commissario dei diritti fondamentali che “svolge l’attività di protezione dei diritti fondamentali. Chiunque può richiedere il suo intervento. Il Commissario dei Diritti Fondamentali esamina e fa esaminare gli abusi relativi ai diritti fondamentali dei quali è stato informato, e per risolverli intraprende provvedimenti speciali o generali”; è eletto (con i sostituti dello stesso) dall’Assemblea nazionale, e non può essere (come i sostituti) membro di partiti né svolgere attività politica. Altre norme disciplinano i “governi locali” (artt. 31-35); la finanza pubblica (artt. 36-44); la forza pubblica e le operazioni militari (artt. 45-47).

  1. Com’è noto si è dubitato da parte di organi dell’Unione Europea che, non tanto la Costituzione, ma soprattutto alcune leggi approvate successivamente dall’Assemblea Nazionale, siano lesive dello Stato di diritto.

Occorre previamente fare un breve cenno alla precedente Costituzione dell’Ungheria (del 1949 – in pieno stalinismo) per notare le (enormi) differenze con quella del 2012.

La Costituzione “stalinista” inizia con un entusiastico plauso alla sconfitta e all’occupazione militare dell’Ungheria da parte dell’URSS[2]; prosegue col disporre (art. 4) “Nella Repubblica popolare di Ungheria la massima parte dei più importanti mezzi di produzione è proprietà dello Stato, delle organizzazioni pubbliche o delle cooperative. Mezzi di produzione possono trovarsi anche in mani private” (il corsivo è mio) l’art. 5 dispone la pianificazione; l’art. 6 la “proprietà del popolo” di (quasi tutto); l’art. 9 il diritto (e il dovere) al lavoro.

Il praesidium dell’Assemblea nazionale, come in altre costituzioni degli Stati del “socialismo reale” faceva un po’ di tutto, dalla rappresentanza (internazionale), alla normativa d’urgenza, all’annullamento degli atti degli organi statali per illegittimità (o perché contrastanti con “gli interessi dei lavoratori”)[3].

I giudici erano elettivi (art. 39), come il Procuratore generale. Gli artt. 45-58 tutelavano i diritti dei cittadini e dei lavoratori; gli artt. 59-61 i doveri dei cittadini. Poi l’art. 66 poneva sotto riserva di legge “l’elezione e la revoca” dei deputati.

Si capisce che, data la storia dell’Ungheria nel secondo dopo-guerra e la dura resistenza del popolo all’occupazione sovietica, il costituente del 2012 abbia proclamato nella “Professione nazionale” (cioè il “preambolo”) che “Onoriamo le conquiste della nostra costituzione storica e la Sacra Corona, la quale incarna dell’Ungheria la continuità costituzionale dello Stato e l’unità della nazione. Non riconosciamo la sospensione della nostra costituzione storica avvenuta sotto occupazione straniera. Neghiamo la prescrizione dei crimini disumani commessi contro la nazione ungherese ed i suoi cittadini durante le dittature nazionalsocialista e comunista.  Non riconosciamo la Costituzione comunista dell’anno 1949, perché fondamento di tirannia e ne dichiariamo perciò l’invalidità (il corsivo è mio). Concordiamo con i deputati della prima Assemblea Nazionale libera, i quali, con la loro prima delibera, dichiararono che la nostra odierna libertà germogliò dalla nostra rivoluzione del 1956. La ricostituzione dell’autodeterminazione statale della nostra Patria, persa il diciannove marzo 1944, la consideriamo avvenuta il 2 maggio 1990, data dell’inaugurazione della prima rappresentanza nazionale a seguito di elezioni libere. Riteniamo tale data l’inizio della nuova democrazia e del nuovo ordinamento costituzionale della nostra patria”.

Anche se l’ “invalidità” può creare dei problemi di carattere giuridico, allorquando si cerchi di assicurare una continuità giuridico-normativa a cambiamenti della forma di Stato e del regime politico, è comprensibile politicamente che un popolo, così geloso della propria indipendenza, abbia voluto rimarcare la (radicale) discontinuità della nuova Costituzione rispetto al regime di “occupazione straniera”, che è la sostanza di quanto capitato all’Ungheria nel XX secolo. Se il tutto può apparire “politicamente scorretto” è altrettanto storicamente esatto.

In sostanza la “Professione nazionale” afferma sul punto due principi: che la libertà politica è, in primo luogo, quella del popolo di determinare autonomamente la forma della sua esistenza, politica in primo luogo; e che se la volontà del popolo è coartata il prodotto di tale coercizione – coerentemente al principio democratico – non è riferibile al popolo e alla sua volizione, ma all’occupante straniero[4]; onde è invalido.

L’art. B della Carta ungherese proclama che “l’Ungheria è uno stato di diritto, indipendente e democratico” (il corsivo è mio); al comma III che la “fonte del potere pubblico è il popolo”.

Ciò stante occorre vedere se le disposizioni e il preambolo della Costituzione ungherese sono riconducibili al “tipo ideale” dello Stato borghese di diritto.

I principi dello Stato borghese di diritto sono enunciati nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dans laquelle la garantie des Droits m’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Di tale asserzione “non avere una costituzione “è un errore evidente, perché ogni Stato per il solo fatto di esistere è una Costituzione (Santi Romano); ma è sicuramente esatto che, distinzione dei poteri e garanzia dei diritti fondamentali sono le “cartine di tornasole” che distinguono lo Stato di diritto da quello che non lo è.

Su ciò la migliore dottrina concorda. A citare soltanto maestri del diritto pubblico come Vittorio Emanuela Orlando, il quale individuava tra le caratteristiche del “governo rappresentativo” (cioè lo Stato borghese di diritto) la distinzione dei poteri e la tutela giuridica[5]; lo stesso sosteneva Carl Schmitt [6] e, attualizzandolo alla “Stato sociale” Ernst Forsthoff[7].

Applicando tal criterio distintivo è sicuro che la Costituzione dell’Ungheria è quella di uno Stato di diritto: la separazione dei poteri c’è, la tutela dei diritti fondamentali pure. Anche attraverso autorità che in Italia non abbiamo come il “Commissario dei diritti fondamentali”. Se qualcuno può rilevare che la nomina dei magistrati apicali è demandata al potere politico, si può replicare che il tutto risulta anche da altre Costituzioni, come quella USA (la Corte Suprema di nomina presidenziale); peraltro in USA la gran parte dei giudici sono di nomina o elezione da parte di insiemi politici, e nessuno ha, che risulti, dubitato che la Costituzione degli Stati Uniti non fosse riconducibile ad uno Stato di diritto.

Le costituzioni moderne riconducibili allo Stato di diritto hanno diverse forme di governo (presidenziale, parlamentare, del “primo ministro”, federale, e cosi via) ma nessuno – che mi risulti – ha revocato in dubbio che ad esempio, la Costituzione francese (della III e IV Repubblica), parlamentare e centralizzata non fosse di democrazia liberale perché quella degli USA è presidenziale e federale, o viceversa.

[1] L’art. 39 prescriveva “Nella Repubblica popolare di Ungheria tutti i giudici sono eletti; i giudici eletti posso essere revocati”.

[2] Si legge nel preambolo “Il glorioso esercito della grande Unione sovietica ha liberato il nostro paese dal giogo dei fascisti tedeschi, infranto il dominio politico antidemocratico dei proprietari terrieri e dei grandi capitalisti e schiuso al nostro popolo lavoratore il cammino dell’evoluzione democratica. Giunta al potere in virtù delle sue lotte accanite contro i padroni e i difensori dell’antico regime, la classe operaia alleata ai contadini laboriosi ha ricostruito, con l’aiuto disinteressato dell’Unione sovietica, il nostro paese devastato dalla guerra … La Costituzione della Repubblica popolare di Ungheria, indicando il cammino dell’evoluzione futura, è l’espressione dei cambiamenti fondamentali che hanno avuto luogo nella struttura economica e sociale del nostro paese, del risultato di queste lotte e di questo lavoro di ricostruzione”.

[3] V. anche il potere “concorrente” del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 26 della Costituzione ungherese abrogata.

[4] Un liberale o un democratico italiano del Risorgimento non avrebbe pensato nulla di diverso, Per Mazzini o Cavour pensare che i principi fondamentali dell’ordinamento fossero dettati da Metternich, indipendentemente dal loro contenuto, sarebbe sembrato il prodotto di un asservimento non solo materiale, ma anche – e soprattutto – spirituale, se creduto.

[5] v. Principi di diritto costituzionale p. 64 ss. e per i diritti fondamentali p. 264 ss.

[6] v. Verfassunslehre trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione Milano 1984, pp. 212-264.

[7] v. Stato di diritto in trasformazione Milano 1973, segnatamente p. 42.

trasformismo in azione, di Giuseppe Angiuli

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi)euroscettica


In una fase storica contraddistinta da una contrapposizione frontale e difficilmente sanabile fra i popoli del nostro continente e le oligarchie finanziarie riunite attorno alla tecnocrazia U.E., una delle peggiori disgrazie che sono capitate al popolo italiano è stata quella di essersi trovato fra i piedi la peggiore sinistra politica che sia esistita da almeno due secoli a questa parte.
In questi decenni in cui il grande capitale speculativo trans-nazionale, facendo leva sull’imposizione di un assurdo sistema di vincoli di stabilità finanziaria (elemento connaturato ed ineluttabile per un’eurozona nata fin dal principio su presupposti anti-democratici), ha proceduto come un treno inarrestabile nel percorso di sistematico attacco ai diritti sociali che avevano garantito per un lungo periodo il benessere di buona parte degli italiani, il ceto politico un tempo formatosi fra le fila del vecchio partito comunista più forte dell’occidente ha sempre svolto egregiamente, con uno zelo servile assai gradito ai padroni del vapore, il suo ruolo di cane da guardia degli interessi dei grandi poteri oligarchici euro-atlantisti, accompagnando le classi lavoratrici ed i ceti produttivi del nostro
Paese, fin dai tempi dell’approvazione del Trattato di Maastricht, verso una lenta ed ineluttabile agonia, venduta come il meraviglioso paese di Bengodi.
Ma mentre la maggior parte degli ex comunisti italiani (a partire da Napolitano, D’Alema, Veltroni e Bersani) non hanno mai nascosto la loro cieca e fideistica adesione al processo di sistematica erosione della sovranità popolare man mano che prendeva corpo il sempre maggiore accentramento di poteri in capo agli organismi tecnocratici dell’eurozona – al punto che oggi essi appaiono in grave difficoltà dinanzi ai loro storici elettori e sono quasi costretti a rinunciare ad un impegno politico in prima persona – vi è qualcuno, forse più scaltro e più cinico di loro, che ha sempre avuto l’abilità di preservarsi una immagine di uomo dall’intelligenza duttile e creativa, più al passo coi tempi, al punto da essere oggi accreditato, specie dopo la nascita della inedita associazione politica chiamata Patria e Costituzione, come il più presentabile dei leader della sinistra storica italiana, l’unico apparentemente ancora in grado di dare una lettura articolata della crisi dell’eurozona,
l’unico con una visione generale ancora quanto meno legata alla realtà oggettiva dei fatti.
Stefano Fassina, economista di scuola bocconiana, nonostante sia risaputo il suo contributo
scientifico fornito per alcuni anni al Fondo Monetario Internazionale (tempio dell’ideologia neoliberista mondiale), è riuscito a ritagliarsi un ruolo di nicchia che, nel panorama desertificato della sinistra odierna, lo proietta come potenziale punto di riferimento per tante persone di sensibilità progressista che, disorientate dalla decomposizione degli schemi ideologici novecenteschi, quantunque oggi manifestino ostilità alla Unione Europea ed alle sue politiche di austerità, non se la sentono di unire le loro forze a quelle del cosiddetto campo “populista” (Lega e Movimento 5 Stelle).


Tuttavia, un’attenta rilettura delle scelte e delle vicende nella storia recente di Stefano Fassina dovrebbe fornire a noi tutti una nutrita serie di argomenti per dubitare seriamente dell’effettiva affidabilità del Nostro quale potenziale leader di una possibile o fantomatica area politica di sinistra patriottica o sovranista.
La politica, come insegna il Machiavelli nel suo mai sufficientemente letto Principe, è spesso l’arte della dissimulazione dei propri intenti strategici, ragion per cui i bene accorti sanno che per valutare in modo attendibile i reali intenti di un uomo politico non ci si può solo soffermare sulle parole o sui discorsi che questi pronuncia in pubblico bensì occorre prima di tutto osservare la coerenza nei comportamenti e nelle scelte che ne segnano il percorso.
Ebbene, applicando tale metro di valutazione agli anni più recenti della carriera politica di Stefano Fassina, non può che emergere un ritratto assai poco limpido dell’economista bocconiano, il quale troppo spesso ci ha dato l’impressione di non credere fino in fondo nelle sue improvvise sterzate euroscettiche alle quali ci ha di tanto in tanto abituato ed a cui ha poi sempre fatto seguire degli improvvisi e puntuali rientri nell’ovile sinistrorso, specie in coincidenza con le più importanti scadenze elettorali.
Ci spiace rilevare che quando in questi anni di drammatica crisi si è trattato di affrontare seriamente la Troika e le sue inaccettabili imposizioni ai popoli europei, Stefano Fassina, nonostante le apparenze, non è mai stato in grado di fare seguire alle sue parole i fatti.
Di sicuro, non si può non riconoscergli delle notevoli doti di camaleontismo e di equilibrismo politico con cui è spesso riuscito ad affabulare i sinistri più euroscettici, illudendoli di essere pronto a costruire per loro una vera casa politica per poi lasciarli puntualmente all’addiaccio, privi di una guida e di una strategia, sedotti e abbandonati, mentre lui non ha avuto molti problemi nel farsi rieleggere al Parlamento nelle fila del raggruppamento post-dalemiano Liberi e Uguali.

Stefano Fassina al Roma Pride nel 2015
Eppure, anche ai sinistri più colti ed euroscettici, quelli che hanno compreso le cause strutturali dei guasti della moneta unica leggendo i libri di Bagnai o di Cesaratto, non dovrebbe risultare molto difficile comprendere che in realtà Fassina non ha mai fatto sul serio quando si è trattato di fare i conti con il mostro tecnocratico dei tempi odierni, chiamato U.E.
Se non bastasse il fatto di essere stato un importante dirigente del PD all’atto della nascita del Governo Monti nel 2011, il Nostro sarà a lungo ricordato soprattutto per avere ricoperto il ruolo di vice Ministro dell’Economia (non proprio un dicastero qualsiasi) nel Governo Letta nel 2013, proprio in coincidenza con un periodo terribile per il popolo italiano, in cui le oligarchie di Bruxelles e di Francoforte imponevano l’adozione di due misure draconiane che a tutt’oggi costituiscono una vera camicia di forza per la nostra economia, rendendo di fatto impossibile l’adozione di sensate misure fondate su investimenti pubblici e spesa a deficit: stiamo parlando del fiscal compact e della famigerata modifica dell’art. 81 della Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio nella nostra magna charta.
E giusto a proposito di tali interventi esiziali per le sorti dell’economia italiana, Fassina nel 2013 – palesando una sudditanza psicologica verso l’Europa a trazione teutonica – aveva impudentemente dichiarato che tali misure di controllo rigoroso sui conti pubblici, “pur sbagliate sul piano economico”, erano comunque utili sul piano politico al fine di “dare garanzie all’opinione pubblica tedesca” (sic)
Non è difficile rintracciare in quelle parole di Fassina lo stesso cinismo manifestato da Mario Monti quando ebbe a definire la crisi greca come “il più grande successo dell’euro”, giacchè con quella crisi che pure ha fatto tanti morti e feriti si sarebbe comunque riusciti a convincere la Germania della presunta sostenibilità della moneta unica nel medio-lungo periodo.
In altri termini, lo stesso Fassina il quale oggi strepita contro la presunta incapacità del Governo giallo-verde di sapere imporsi con la Commissione Europea, all’epoca in cui il famigerato regime del fiscal compact stava giusto entrando in vigore, difendeva le finalità di fondo di quel tipo di misure austeritarie anti-democratiche, che soffocano sul nascere qualsiasi vagito di sovranità degli Stati nazionali e la cui cogenza costituisce il vero fattore che ha impedito al Governo Conte di imprimere dei connotati maggiormente espansivi alla manovra finanziaria per il 2019.

Stefano Fassina in compagnia di Yanis Varoufakis
Ed anche negli anni successivi alla sua plateale rottura con Renzi e col PD, il Nostro, pur essendosi insistentemente proposto – finora con evidente scarso successo – come possibile guida politica di una nuova area di sinistra patriottica, costituzionalista ed apparentemente anti-eurista, non ha mai mancato di lasciarci basiti per avere sempre immancabilmente assunto, in tutti i passaggi decisivi del suo percorso, delle scelte e delle posizioni politiche oggettivamente funzionali ai desiderata dei poteri finanziari globalisti https://www.youtube.com/watch?v=IJXIvF_-q_0.
Poco più di un anno e mezzo fa, nell’aprile del 2017, quando si era nel pieno svolgimento del ballottaggio alle Presidenziali francesi, Fassina non aveva mancato di esortare la sinistra d’oltralpe a prendere posizione netta contro il presunto “pericolo xenofobo” a suo dire costituito da Marine Le Pen e così, aderendo alla più consunta vulgata dell’antifascismo d’accatto, il Nostro aveva dato anch’egli il suo piccolo contributo alla scalata all’Eliseo di Emmanuel Macron, vero garante della finanza cosmopolita e parassita, oggi investito da una vera e propria insurrezione popolare con delle conseguenze geopolitiche tuttora imprevedibili per le sorti della malconcia Francia2
.
A ben vedere, in quella improvvida uscita che sapeva tanto di implicito sostegno a Macron sta tutto lo spirito gesuitico di Stefano Fassina.
In tale occasione, infatti, il Nostro non aveva dichiarato un sostegno esplicito al rampollo del Gruppo Rothschild – la cui candidatura era stata partorita in tutta fretta, in certi salotti parigini che contano, al fine di scongiurare un pericoloso scivolamento della Francia nel campo “populista” – ma nel rivolgersi al compagno Jean-Luc Mélenchon (leader indiscusso della sinistra anti-eurista francese) aveva impiegato quei tipici toni da aut-aut a cui si è soliti ricorrere negli ambienti conformisti di sinistra per manipolare a dovere gli ingenui militanti di base ed il cui significato era:
“Sì è vero, Macron rappresenterà pure gli interessi della grande finanza ma non vorrai mica
schierarti con la neo-fascista Le Pen”?
Nel marzo dello stesso anno 2017, nell’accogliere il citato Jean-Luc Mélenchon a Roma in
occasione dell’importante convegno internazionale sul Piano B per l’uscita dall’euro, Fassina aveva accettato supinamente il veto alla presenza al convegno del prof. Alberto Bagnai (primo economista italiano ad avere portato all’attenzione della nostra opinione pubblica i guasti sistemici dovuti all’incauta adozione della moneta unica), un veto postogli con toni ultimativi da Eleonora Forenza, euro-deputata eletta a Strasburgo con

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https://www.repubblica.it/politica/2017/04/24/news/elezioni_francia_fassina_le_pen_invotabile_me_lenchon_si_schier
i_-163769308/?fbclid=IwAR1RPAgNf3Y7cizjOzkuGMTol_8RvfU1EYSIhLK713Ep-ZelgeRb7iEYGuo
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Rifondazione Comunista e da sempre distintasi per delle posizioni apertamente filo-globaliste.
In questi ultimi tempi, in piena continuità col suo spirito gesuitico, abbiamo assistito ad un Fassina spesso intento ad attaccare insistentemente e con una veemenza oratoria degna di miglior causa l’azione del Governo Conte, quasi che il suo principale obiettivo tattico fosse quello di mettere in difficoltà l’esecutivo proprio nei momenti più delicati della sua azione di contrapposizione/contrattazione con gli organismi implacabili del mostro tecnocratico
chiamato U.E.
E mentre attacca il Governo giallo-verde vestendo i panni del vero sovranista ferito nella sua dignità, lo stesso ineffabile Fassina non mostra di avere alcun imbarazzo nel proporre delle improbabili tavole rotonde sul tema delle nazionalizzazioni con candidati impegnati nella corsa alla segreteria del PD, così come, appena pochi mesi fa, egli non ha avuto alcun ritegno nel rivolgere una lettera aperta all’attuale Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti per invogliarlo ad accogliere una rinnovata unità d’azione tra la sinistra sparuta e in cerca d’autore e le componenti anti-renziane interne allo stesso PD
Con tutto il rispetto per Fassina, se per lui la ricostruzione della sinistra storica passa per una rinnovata collaborazione con il PD (ossia con quel soggetto politico che agli occhi della storia porterà la principale responsabilità per avere attuato, su diktat dei mercati finanziari, una regressione dei diritti sociali a livelli pre-novecenteschi per decine di milioni di lavoratori e giovani precari italiani), noi ci dichiariamo ormai stufi dei suoi consueti funambolismi e facciamo non poca fatica a credere che il suo vero obiettivo politico sia mai stato effettivamente quello di proporsi come credibile soggetto motore di una eventuale area di “sinistra anti-euro”.
Forse sarà ancora in grado di incantare i sinistri più colti ma ingenui, Fassina, portandoli fuori strada per l’ennesima volta per poi lasciarli privi di un contenitore politico degno delle loro attese ma non potrà farcela ad ingannare i patrioti costituzionali più avveduti, i quali oggigiorno, dopo anni di umiliazioni e di sventure inferte al popolo italiano, hanno finalmente capito da quale parte sta l’economista bocconiano, già in forza all’F.M.I. e pertanto faranno volentieri a meno dei suoi consigli per provare a dare risposte in senso keynesiano al grande bisogno di svolta largamente avvertito dalle classi lavoratrici e dai ceti produttivi del nostro Paese, penalizzati da anni di massacro sociale e di distruzione economica compiuti sull’altare dell’austerità eurocratica.
Non ce ne voglia Stefano Fassina ma noi crediamo che, in fin dei conti, tanto la nostra Patria quanto la nostra Costituzione oggi abbiano bisogno di ben altri alfieri per tornare finalmente a risplendere di luce piena.
Giuseppe Angiuli

3
Per il resoconto dettagliato della vicenda che fece infuriare Alberto Bagnai, sospingendolo definitivamente fra le
braccia di Salvini e della Lega, si legga qui: http://goofynomics.blogspot.com/search?q=Fassina+convegno+Piano+B
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https://www.facebook.com/events/301223977164077/
5 Cfr. il testo della “Lettera aperta a Nicola Zingaretti, per una sinistra che riparta”, qui pubblicata:
https://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/lettera-aperta-a-nicola-zingaretti-per-una-sinistra-cheriparta_a_23468974/

la fine di un ordine mondiale, la costruzione di uno nuovo_traduzione e commento di Giuseppe Germinario

Il saggio riprodotto qui in calce è particolarmente interessante per due motivi: la rilevanza dell’autore e gli argomenti addotti. Prende atto del declino di un mondo e di un sistema di relazioni e di dominio. Sembra illudere inizialmente in qualche maniera i lettori sulla possibilità di un sistema di relazioni basato sull’equilibrio di potenze. Conclude la propria analisi riproponendo un multilateralismo fondato ancora una volta sulla supremazia “benevola” degli Stati Uniti. Sul finale, in perfetta continuità, rovescia le responsabilità del disordine sulle ambizioni delle potenze emergenti glissando elegantemente sulle politiche predatorie degli USA operate ai danni della Russia, negli anni ’90 e sull’espansionismo e la destabilizzazione cosciente di intere regioni del globo. La constatazione più amara è che negli Stati Uniti si riesce a discutere di questi momenti di transizione e della posizione da assumere nel contesto. A discutere ben inteso all’interno di un confronto politico cruento di una violenza inaudita e inedita da un secolo e mezzo a questa parte. L’Italia al contrario sembra galleggiare con l’incoscienza di chi non vuol vedere il pericolo tra i flutti. Il merito di Trump e della sua amministrazione sgangherata è di aver saputo porre e imporre la questione nel teatro politico. Il paradosso è che l’individuazione in un senso o nell’altro delle scelte di quel paese comporterà molto probabilmente comunque la sua sconfitta personale ed l’eliminazione probabilmente traumatica. L’editoriale del Washington Post del 22 dicembre https://www.washingtonpost.com/politics/a-rogue-presidency-the-era-of-containing-trump-is-over/2018/12/22/26fc010e-055b-11e9-b5df-5d3874f1ac36_story.html?utm_term=.ed45953c9237 rappresenta un chiaro facinoroso e arrogante avvertimento da prendere maledettamente sul serio. Lo abbiamo detto più volte nei nostri articoli e podcast. Si tratterà di un epilogo che esigerà comunque un fìo particolarmente doloroso.

Una nota che forse vale più di decine di considerazioni. Nella sua recente visita natalizia alle truppe stanziate in Iraq abbiamo visto Trump e una raggiante Melania immersi calorosamente nella truppa.

Anche Bush e Obama hanno fatto questa mossa, ma hanno preteso il contatto con truppe disarmate ed hanno goduto di un atteggiamento molto meno caloroso.

L’ex ambasciatore americano a Damasco ha sostenuto la scelta del ritiro americano dalla Siria; segno che gli stessi apparati non sono poi così monolitici nella loro avversione e che lo scontro politico rischia di non risolversi con un semplice regolamento di conti interno al palazzo_Buona lettura_Giuseppe Germinario

https://www.foreignaffairs.com/articles/2018-12-11/how-world-order-ends?cid=int-nbb&pgtype=hpg

Come finisce un ordine mondiale

E ciò che viene nel suo risveglio

Di Richard Haass

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Un ordine mondiale stabile è una cosa rara. Quando uno emerge, tende a venire dopo una grande convulsione che crea sia le condizioni che il desiderio di qualcosa di nuovo. Richiede una distribuzione stabile del potere e un’ampia accettazione delle regole che regolano la condotta delle relazioni internazionali. Ha bisogno anche di abilità di governo , dal momento che un ordine è fatto, non nato. E non importa quanto siano mature le condizioni iniziali o il desiderio iniziale, il mantenimento richiede diplomazia creativa, istituzioni funzionanti e azioni efficaci per adattarlo quando le circostanze cambiano e lo rafforzano quando arrivano le sfide.

Alla fine, inevitabilmente, anche l’ordine meglio gestito finisce. L’equilibrio del potere su cui si basa tende a dissestarsi. Le istituzioni che lo sostengono non riescono ad adattarsi alle nuove condizioni. Alcuni paesi cadono, e altri emergono, come risultato di mutevoli capacità, voleri vacillanti e crescenti ambizioni. I responsabili della difesa dell’ordine commettono errori sia in ciò che scelgono di fare che in ciò che scelgono di non fare.

Ma se la fine di ogni ordine è inevitabile, i suoi tempi e modi non lo sono. Né è ciò che viene nella sua scia. Gli ordini tendono a scadere in un prolungato deterioramento piuttosto che in un improvviso collasso. E così come il mantenimento dell’ordine dipende da una strategia efficace e da un’azione efficace, una buona politica e una diplomazia proattiva possono aiutare a determinare il modo in cui tale deterioramento si manifesta e ciò che comporta. Eppure, affinché ciò accada, qualcos’altro deve venire prima: riconoscere che il vecchio ordine non ritorna mai e che gli sforzi per resuscitarlo saranno vani. Come per ogni finale, l’accettazione deve venire prima che si possa andare avanti.

Nella ricerca di paralleli con il mondo di oggi, studiosi e professionisti hanno guardato molto lontano come all’ antica Grecia, dove l’ascesa di una nuova potenza ha portato in guerra Atene e Sparta; al periodo dopo la prima guerra mondiale, con gli Stati Uniti isolazionisti e gran parte dell’Europa seduta sulle proprie mani, come la Germania e il Giappone i quali hanno ignorato gli accordi e hanno invaso i loro vicini. Ma il parallelo più illuminante del presente è il Concerto dell’Europa nel diciannovesimo secolo, lo sforzo più importante e di successo per costruire e sostenere l’ordine mondiale fino al nostro tempo. Dal 1815 fino allo scoppio della prima guerra mondiale un secolo dopo, l’ordine stabilito in occasione del Congresso di Vienna ha definito molte relazioni internazionali e impostato (anche se spesso non è riuscito a far rispettare) le regole di base per la condotta internazionale. Fornisce un modello su come gestire collettivamente la sicurezza in un mondo multipolare.

La fine di quell’ordine e ciò che seguì offrì lezioni istruttive per oggi e un avvertimento urgente. Solo perché un ordine è in declino irreversibile non significa che il caos o la calamità siano inevitabili. Ma se il deterioramento è gestito male, la catastrofe potrebbe ben seguire.

FUORI Dalle CENERI

L’ordine globale della seconda metà del ventesimo secolo e la prima parte del ventunesimo nacquero dal naufragio di due guerre mondiali. L’ordine del diciannovesimo secolo seguì una precedente convulsione internazionale: le guerre napoleoniche che, dopo la rivoluzione francese e l’ascesa di Napoleone Bonaparte, devastarono l’Europa per oltre un decennio. Dopo aver sconfitto Napoleone e i suoi eserciti, gli alleati vittoriosi – Austria, Prussia, Russia e Regno Unito, le grandi potenze di quel tempo- si riunirono a Vienna nel 1814 e nel 1815. Al Congresso di Vienna, si impegnarono a garantire che gli eserciti di Francia non minacciassero mai più i loro stati e che i movimenti rivoluzionari non minacciassero mai più le loro monarchie. I poteri vittoriosi fecero anche la scelta saggia di integrare una Francia sconfitta, un percorso molto diverso da quello preso con la Germania dopo la prima guerra mondiale e un po’ differente da quello scelto con la Russia sulla scia della guerra fredda.

Il congresso ha prodotto un sistema noto come Concert of Europe. Pur essendo centrato in Europa, costituiva l’ordine internazionale del suo tempo data la posizione dominante dell’Europa e degli europei nel mondo. C’era una serie di intese condivise sui rapporti tra Stati, soprattutto un accordo per escludere l’invasione di un altro paese o il coinvolgimento negli affari interni di un altro senza il suo permesso. Un ruvido equilibrio militare dissuase qualsiasi Stato dalla tentazione di rovesciare l’ordine; dal tentare in primo luogo (e impedire a qualsiasi stato che provasse di avere successo). I ministri degli esteri si sono incontrati (in quello che è stato definito “congresso”) ogni volta che si è presentato un problema importante. Il concerto è stato conservatore in tutti i sensi. Il trattato di Vienna aveva apportato numerosi adeguamenti territoriali e poi bloccato i confini dell’Europa, permettendo modifiche solo con l’accordo di tutti i firmatari. Ha anche fatto il possibile per sostenere le monarchie e incoraggiare gli altri a venire in loro aiuto (come fece la Francia in Spagna nel 1823) quando furono minacciati dalla rivolta popolare.

JEAN-BAPTISTE ISABEY

Un’incisione del Congresso di Vienna, 1814.

Il concerto ha funzionato non perché ci fosse un accordo completo tra le grandi potenze su ogni punto, ma perché ogni stato aveva le proprie ragioni per sostenere il sistema generale. L’Austria era più preoccupata di resistere alle forze del liberalismo che minacciavano la monarchia dominante. Il Regno Unito si è concentrato sul respingere una nuova sfida dalla Francia, proteggendosi anche contro una potenziale minaccia dalla Russia (il che significava non indebolire la Francia così tanto da non poter aiutare a compensare la minaccia dalla Russia). Ma c’era abbastanza sovrapposizione di interessi e di consenso sulle domande di primo ordine da impedire la guerra tra le principali potenze dell’epoca.

Il concerto durò tecnicamente un secolo, fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Ma aveva smesso di svolgere un ruolo significativo molto prima di allora. Le ondate rivoluzionarie che hanno travolto l’Europa nel 1830 e nel 1848 hanno rivelato i limiti di ciò che i membri potevano fare per mantenere l’ordine esistente all’interno degli stati di fronte alla pressione dell’opinione pubblica. Poi, più consequenzialmente, arrivò la guerra di Crimea. In apparenza si combatteva per il destino dei cristiani che vivevano all’interno dell’Impero ottomano, in realtà il confronto era molto più incentrato su chi avrebbe controllato il territorio di quell’impero decadente. Il conflitto ha contrapposto Francia, Regno Unito e Impero ottomano alla Russia. Durò due anni e mezzo, dal 1853 al 1856. Fu una guerra costosa che mise in evidenza i limiti della capacità del concerto di impedire una guerra di grande potenza; la grande potenza che aveva reso possibile il concerto non esisteva più. Le guerre successive tra Austria e Prussia e la Prussia e la Francia dimostrarono che il conflitto di grande potenza era tornato nel cuore dell’Europa dopo una lunga pausa. Le cose sembravano stabilizzarsi per un po’ di tempo, ma era un’illusione. Sotto la superficie, il potere tedesco stava montando e gli imperi stavano marcendo. La combinazione pose le basi per la prima guerra mondiale e la fine di quello che era stato il concerto.

CHE COSA METTONO L’ORDINE?

Quali lezioni si possono trarre da questa storia? Come qualsiasi altra cosa, l’ascesa e la caduta delle grandi potenze determinano la fattibilità dell’ordine prevalente, dal momento che i cambiamenti di forza economica, coesione politica e potere militare modellano ciò che gli stati possono e sono disposti a fare oltre i loro confini. Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo, una potente e unificata Germania e un moderno Giappone sorsero, l’impero ottomano e la Russia zarista declinarono, e la Francia e il Regno Unito diventarono più forti ma non abbastanza forti. Quei cambiamenti hanno capovolto l’equilibrio di potere che era stato il fondamento del concerto. La Germania, in particolare, è arrivata a considerare lo status quo incoerente con i suoi interessi.

Anche i cambiamenti nel contesto tecnologico e politico hanno influito su questo equilibrio sottostante. Sotto il concerto, le richieste popolari di partecipazione democratica e le ondate di nazionalismo minacciavano lo status quo all’interno dei paesi, mentre nuove forme di trasporto, comunicazione e armamenti trasformavano la politica, l’economia e la guerra. Le condizioni che hanno contribuito a dare origine al concerto sono state gradualmente annullate.

Poiché gli ordini tendono a terminare con un piagnisteo piuttosto che con un botto, il processo di deterioramento spesso non è evidente ai responsabili delle decisioni finché non si è evoluto considerevolmente.

Tuttavia sarebbe eccessivamente deterministico attribuire la storia alle sole condizioni sottostanti. L’arte del governo conta ancora. Che il concerto sia nato e sia durato finché ha messo in evidenza che le persone fanno la differenza. I diplomatici che lo fabbricarono – Metternich d’Austria, Talleyrand di Francia, Castlereagh del Regno Unito – furono eccezionali. Il fatto che il concerto abbia preservato la pace nonostante il divario tra due paesi relativamente liberali, la Francia e il Regno Unito e i loro partner più conservatori mostrano che i paesi con diversi sistemi e preferenze politici possono lavorare insieme per mantenere l’ordine internazionale. Il piccolo che si rivela buono o cattivo nella storia è inevitabile. La guerra di Crimea avrebbe potuto essere evitata se sulla scena fossero stati presenti leader più capaci e attenti. Non è affatto chiaro che le azioni russe abbiano giustificato una risposta militare da parte della Francia e del Regno Unito sulla natura e sulla scala che ha avuto luogo. Il fatto che i paesi abbiano fatto ciò che hanno fatto sottolinea anche il potere e i pericoli del nazionalismo. La prima guerra mondiale è scoppiata in gran parte perché i successori del cancelliere tedesco Otto von Bismarck non sono stati in grado di disciplinare il potere del moderno stato tedesco che ha fatto così troppo da provocare.

Altre due lezioni si distinguono. Innanzitutto, non sono solo i problemi principali che possono causare il deterioramento di un ordine. Il sodalizio di grande potenza del concerto si è conclusa non a causa di disaccordi sull’ordine sociale e politico in Europa, ma a causa della competizione alla periferia. E in secondo luogo, poiché gli ordini tendono a finire con un gemito piuttosto che con un botto, il processo di deterioramento spesso non è evidente per i responsabili delle decisioni finché non è avanzato considerevolmente. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, quando divenne evidente che il Concerto dell’Europa non si svolgeva più, era troppo tardi per salvarlo o addirittura per gestire la sua dissoluzione.

UN RACCONTO DI DUE ORDINI

L’ordine globale costruito all’indomani della seconda guerra mondiale consisteva in due ordini paralleli per gran parte della sua storia. Uno è nato dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Al suo centro c’era un equilibrio approssimativo della forza militare in Europa e in Asia, sostenuto dalla deterrenza nucleare. Le due parti hanno mostrato un certo grado di moderazione nella loro rivalità. Il “Rollback” – il linguaggio della Guerra Fredda per quello che oggi viene chiamato “cambio di regime” – è stato respinto sia come irrealizzabile sia perché imprudente. Entrambe le parti hanno seguito regole informali della strada che includevano un sano rispetto reciproco per i cortili altrui e gli alleati. Alla fine raggiunsero una comprensione dell’ordine politico in Europa, l’arena principale della competizione della Guerra Fredda, e nel 1975 codificarono quella comprensione reciproca negli Accordi di Helsinki. Anche in un mondo diviso, i due centri di potere concordavano su come si sarebbe condotta la competizione; il loro era un ordine basato su mezzi piuttosto che fini. L’esistenza di solo due centri di potere ha reso più agevole raggiungere un simile accordo.

L’altro ordine post-seconda guerra mondiale era l’ordine liberale che operava a fianco dell’ordine della guerra fredda. Le democrazie sono state le principali partecipanti a questo sforzo che ha usato gli aiuti e il commercio per rafforzare i legami e promuovere il rispetto dello stato di diritto all’interno e tra i paesi. La dimensione economica di questo ordine è stata progettata per creare un mondo (o, più esattamente, la metà non comunista) definito dal commercio, dallo sviluppo e da operazioni monetarie ben funzionanti. Il libero scambio sarebbe diventato un motore di crescita economica e vincolerebbe i paesi in modo che la guerra venisse giudicata troppo costosa per il salario; il dollaro è stato accettato come valuta globale de facto.

La dimensione diplomatica dell’ordine ha dato risalto all’ONU. L’idea era che un forum globale permanente potesse prevenire o risolvere le controversie internazionali. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, con cinque membri permanenti di grande potenza e posti aggiuntivi per un membro in rotazione, orchestrerebbe le relazioni internazionali. Eppure l’ordine dipendeva tanto dalla volontà del mondo non comunista (e degli alleati statunitensi in particolare) di accettare il primato americano. A quanto pare erano pronti a farlo, poiché gli Stati Uniti erano considerati il ​​più delle volte come un egemone relativamente benigno, uno ammirato tanto per quello che era a casa quanto per quello che faceva all’estero.

Entrambi questi ordini servivano gli interessi degli Stati Uniti. La pace di fondo è stata mantenuta in Europa e in Asia a un prezzo che una crescente economia americana avrebbe potuto facilmente permettersi. L’aumento del commercio internazionale e le opportunità di investimento hanno contribuito alla crescita economica degli Stati Uniti. Nel corso del tempo, più paesi si sono uniti ai ranghi delle democrazie. Né l’ordine riflette un perfetto consenso; piuttosto ognuno ha offerto un consenso sufficiente in modo che non fosse direttamente messo in discussione. Laddove la politica estera degli Stati Uniti si è messa nei guai, come in Vietnam e in Iraq, non è stato per impegni di alleanza o considerazioni di ordine, ma per decisioni sconsiderate di perseguire costose guerre di scelta.

SEGNI DI DECADIMENTO

Oggi, entrambi gli ordini si sono deteriorati. Anche se la Guerra Fredda si è conclusa molto tempo fa, l’ordine che ha creato si è frammentato in modo più polverizzato in parte perché gli sforzi occidentali di integrare la Russia nell’ordine mondiale liberale hanno ottenuto ben poco. Un segno del deterioramento dell’ordine della Guerra Fredda è stata l’invasione del Kuwait del 1990 da parte di Saddam Hussein, cosa che Mosca probabilmente avrebbe evitato negli anni precedenti con la motivazione che era troppo rischioso. Sebbene la deterrenza nucleare sia ancora valida, alcuni degli accordi per il controllo degli armamenti sono stati infranti e altri sono sfilacciati.

Sebbene la Russia abbia evitato qualsiasi sfida militare diretta alla NATO, ha comunque mostrato una crescente volontà di perturbare lo status quo: attraverso il suo uso della forza in Georgia nel 2008 e in Ucraina dal 2014, il suo intervento militare spesso indiscriminato in Siria e il suo uso aggressivo della guerra informatica per tentare di influenzare i risultati politici negli Stati Uniti e in Europa. Tutti questi rappresentano un rifiuto dei principali vincoli associati al vecchio ordine. Dal punto di vista russo, si potrebbe dire lo stesso dell’allargamento della NATO, un’iniziativa chiaramente in contrasto con il detto di Winston Churchill “In vittoria, magnanimità”. La Russia ha anche giudicato la guerra del 2003 in Iraq e l’intervento militare NATO del 2011 in Libia, intrapresa in nome dell’umanitarismo, ma evolutisi rapidamente in cambiamenti di regime.

L’ordine liberale mostra gli stessi segni di deterioramento. L’autoritarismo è in aumento non solo nei posti più ovvi, come la Cina e la Russia, ma anche nelle Filippine, in Turchia e nell’Europa orientale. Il commercio globale è cresciuto, ma recenti cicli di negoziati commerciali si sono conclusi senza accordo e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) si è dimostrata incapace di affrontare le sfide più urgenti di oggi, comprese le barriere non miranti e il furto di proprietà intellettuale. Il risentimento nei confronti dello sfruttamento del dollaro da parte degli Stati Uniti per imporre sanzioni aumenta, così come la preoccupazione per l’accumulo di debito del paese.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU è di scarsa rilevanza per la maggior parte dei conflitti mondiali e gli accordi internazionali non sono riusciti in modo più ampio a far fronte alle sfide associate alla globalizzazione. La composizione del Consiglio di sicurezza ha sempre meno somiglianze con la reale distribuzione del potere. Il mondo si è messo a verbale, come contro il genocidio e ha affermato il diritto di intervenire quando i governi non riescono a mantenersi rispettando la “responsabilità di proteggere” i loro cittadini, ma il discorso non si è tradotto in azione. Il Trattato di non proliferazione nucleare consente solo a cinque stati di avere armi nucleari, ma ora ce ne sono nove (e molti altri che potrebbero seguirne l’esempio se decidessero di farlo). L’UE, l’accordo regionale di gran lunga più significativo, sta lottando con la Brexit e con le dispute sulla migrazione e la sovranità. E in tutto il mondo, i paesi sono tentati di resistere alla supremazia americana

BAZ RATNER / REUTERS

Soldati russi in corrieri militari corazzati su una strada vicino a Sebastopoli, Crimea, marzo 2014.

SPOSTAMENTI DI POTENZA

Perché sta succedendo tutto questo? È istruttivo guardare indietro alla graduale fine del concerto d’Europa. L’ordine mondiale di oggi ha faticato a far fronte all’avvicendamento di potere: l’ascesa della Cina, l’apparizione di diverse potenze medie (Iran e Corea del Nord, in particolare) che rifiutano importanti aspetti dell’ordine e l’emergere di attori non statali (dai cartelli della droga alle reti terroristiche ) che possono rappresentare una seria minaccia per l’ordine all’interno e tra gli stati.

Anche il contesto tecnologico e politico è cambiato in modo importante. La globalizzazione ha avuto effetti destabilizzanti che vanno dal cambiamento climatico alla diffusione della tecnologia in molte più mani che mai, incluso una serie di gruppi e persone intente a sconvolgere l’ordine. Il nazionalismo e il populismo sono aumentati – il risultato di una maggiore disuguaglianza all’interno dei paesi, la dislocazione associata alla crisi finanziaria del 2008, la perdita di posti di lavoro causata dal commercio e dalla tecnologia, l’aumento dei flussi di migranti e rifugiati e il potere dei social media di diffondere l’odio.

Nel frattempo, l’arte di governo efficace è carente. Le istituzioni non sono riuscite ad adattarsi. Nessuno oggi progetterebbe un Consiglio di sicurezza dell’ONU che assomiglia a quello attuale; ma una vera riforma è impossibile dal momento che chi perde l’influenza blocca qualsiasi cambiamento. Gli sforzi per costruire quadri efficaci per affrontare le sfide della globalizzazione, compresi i cambiamenti climatici e gli attacchi informatici, sono venuti meno. Gli errori all’interno dell’UE, ovvero le decisioni di stabilire una moneta comune senza creare una politica fiscale comune o un’unione bancaria e di consentire un’immigrazione quasi illimitata in Germania, hanno creato una forte reazione contro i governi esistenti, le frontiere aperte e la stessa UE.

Gli Stati Uniti, da parte sua, si sono impegnati con costosi sforzi per cercare di ricostruire l’Afghanistan, invadere l’Iraq e perseguire il cambio di regime in Libia. Ma ha anche fatto un passo indietro dal mantenere l’ordine globale e in alcuni casi si è reso colpevole di costose iniziative coperte. Nella maggior parte dei casi, la riluttanza degli Stati Uniti ad agire non ha riguardato le questioni centrali ma quelle periferiche che i leader hanno cancellato perché non valevano il costo, come il conflitto in Siria, dove gli Stati Uniti non hanno risposto significativamente quando la Siria ha usato per la prima volta armi chimiche o fare di più per aiutare i gruppi anti-regime. Questa riluttanza ha aumentato la propensione degli altri a ignorare le preoccupazioni degli Stati Uniti e ad agire in modo indipendente. L’intervento militare a guida saudita nello Yemen è un esempio calzante. Le azioni russe in Siria e in Ucraina dovrebbero essere viste anche in questa luce; è interessante notare che la Crimea ha segnato la fine effettiva del Concerto d’Europa e ha segnato una battuta d’arresto drammatica nell’ordine attuale. I dubbi circa l’affidabilità degli Stati Uniti si sono moltiplicati sotto l’amministrazione Trump, grazie al suo ritiro dai numerosi patti internazionali e il suo approccio condizionale verso gli inviolabili impegni di alleanza degli Stati Uniti in Europa e in Asia.

GESTIONE DEL DETERIORAMENTO

Dati questi cambiamenti, sarà impossibile far risorgere il vecchio ordine. Sarebbe anche insufficiente, grazie all’emergere di nuove sfide. Una volta riconosciuto, il lungo deterioramento del Concerto dell’Europa dovrebbe servire da lezione e da avvertimento.

Per gli Stati Uniti tenere a mente che l’avvertimento significherebbe rafforzare alcuni aspetti del vecchio ordine e integrarli con misure che spiegano il cambiamento delle dinamiche di potere e i nuovi problemi globali. Gli Stati Uniti dovrebbero imporre il controllo degli armamenti e gli accordi di non proliferazione; rafforzare le sue alleanze in Europa e in Asia; rafforzare gli stati deboli che non possono competere con terroristi, cartelli e bande; e contro l’interferenza dei poteri autoritari nel processo democratico. Tuttavia, non dovrebbe rinunciare a cercare di integrare Cina e Russia in aspetti regionali e globali dell’ordine. Tali sforzi implicheranno necessariamente un mix di compromessi, incentivi e pushback. Il giudizio che i tentativi di integrare la Cina e la Russia sono per lo più falliti non dovrebbe essere un motivo per respingere gli sforzi futuri.

Gli Stati Uniti devono anche rivolgersi ad altri per affrontare i problemi della globalizzazione, in particolare i cambiamenti climatici, il commercio e le operazioni informatiche. Questi richiederanno di non risuscitare il vecchio ordine ma di costruirne uno nuovo. Gli sforzi per limitare e adattarsi ai cambiamenti climatici devono essere più ambiziosi. L’OMC deve essere modificata per affrontare le questioni sollevate dall’appropriazione della tecnologia da parte della Cina, la fornitura di sussidi alle imprese nazionali e l’uso di ostacoli non chiari al commercio. Le regole della strada sono necessarie per regolare il cyberspazio. Insieme, questo equivale a un invito per un concerto dei nostri giorni. Tale chiamata è ambiziosa ma necessaria.

Gli Stati Uniti devono mostrare moderazione e riprendere un certo grado di rispetto per riconquistare la propria reputazione di attore benevolo. Ciò richiederà alcune nette distinzioni dal modo in cui la politica estera degli Stati Uniti è stata praticata negli ultimi anni: per cominciare, non invadere più incautamente altri paesi e non più armare la politica economica degli Stati Uniti attraverso l’uso eccessivo di sanzioni e tariffe. Ma più di ogni altra cosa, l’attuale e riflessiva opposizione al multilateralismo deve essere ripensata. È una cosa che un ordine mondiale può svelare lentamente; è tutt’altra cosa per il paese che ha avuto una grande mano nel costruirlo per prendere l’iniziativa per smantellarlo.

Tutto ciò richiede anche che gli Stati Uniti mettano la propria casa in ordine – riducendo il debito pubblico, ricostruendo le infrastrutture, migliorando l’istruzione pubblica, investendo di più nella rete di sicurezza sociale, adottando un sistema di immigrazione intelligente che permetta agli stranieri di talento di venire e rimanere, affrontando disfunzione politica rendendo meno difficile votare e rovinando il frangente. Gli Stati Uniti non possono promuovere efficacemente l’ordine all’estero se sono divisi in casa, distratti da problemi interni e privi di risorse.

Le alternative principali a un ordine mondiale modernizzato supportato dagli Stati Uniti appaiono improbabili, poco attraenti o entrambe. Un ordine guidato dalla Cina, ad esempio, sarebbe di natura illiberale, caratterizzato da sistemi politici interni autoritari e da economie stataliste che premiano il mantenimento della stabilità interna. Ci sarebbe un ritorno alle sfere di influenza, con la Cina che tentava di dominare la sua regione, probabilmente con il risultato di scontri con altre potenze regionali, come India, Giappone e Vietnam le quali probabilmente avrebbero costruito le loro forze convenzionali o addirittura nucleari.

Un nuovo ordine democratico, basato su regole, modellato e guidato da potenze medie in Europa e in Asia, così come il Canada, per quanto un concetto attraente, semplicemente mancherebbe della capacità militare e della volontà politica interna di arrivare molto lontano. Un’alternativa più probabile è un mondo con poco ordine, un mondo di più profondo disordine. Il protezionismo, il nazionalismo e il populismo guadagnerebbero e la democrazia perderebbe. Il conflitto all’interno e oltre i confini diventerebbe più comune e la rivalità tra grandi potenze aumenterebbe. La cooperazione sulle sfide globali sarebbe quasi del tutto esclusa. Se questa immagine sembra familiare, è perché corrisponde sempre più al mondo di oggi.

Il deterioramento di un ordine mondiale può innescare tendenze che provocano catastrofi. La prima guerra mondiale è scoppiata circa 60 anni dopo che il Concerto dell’Europa era stato demolito a tutti gli effetti in Crimea. Quello che vediamo oggi assomiglia alla metà del diciannovesimo secolo in modi importanti: l’ordine post guerra mondiale, post-guerra fredda non può essere ripristinato, ma il mondo non è ancora sull’orlo di una crisi sistemica. Ora è il momento di assicurarsi che non si concretizzi mai, che si tratti di un crollo delle relazioni USA-Cina, uno scontro con la Russia, una conflagrazione in Medio Oriente o gli effetti cumulativi dei cambiamenti climatici. La buona notizia è che è tutt’altro che inevitabile che il mondo alla fine arriverà a una catastrofe; la cattiva notizia è che è tutt’altro che certo che non lo farà.

 

Macron, il re bambino_di Emmanuel Todd_Traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Todd: “Lo stato non può essere incarnato da un bambino … o Emmanuel Macron è ora visto come un bambino dai francesi”

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Esclusivamente per Atlantico, Emmanuel Todd ci fornisce la sua analisi del fenomeno dei giubbotti gialli. Per lo storico, i Yellow Vests rappresentano una forma di padre collettivo in un paese disorientato da un re bambino.

Atlantico: in un contesto segnato dall’emergere del movimento dei giubbotti gialli, qual è oggi la principale sfida affrontata da Emmanuel Macron?

Emmanuel Todd: Al di là di tutte le politiche economiche, sociali, politiche, europee che sorgeranno nel 2019, che sembra terribile, Emmanuel Macron sarà di fronte ad un problema di legittimità assolutamente nuova. Max Weber aveva usato il concetto di potere carismatico; un individuo, un leader, che affascina in modo subliminale e irrazionale ma che non è necessariamente un dittatore pericoloso. E mi sembra che Emmanuel Macron arricchirà le nostre tipologie del concetto di presidente anti-carismatico. Mi spiego Dobbiamo riprendere la sequenza. C’era un elemento carismatico nell’elezione di Macron, che affascinava le classi medio-alte. Ho visto questo intorno a me. Parlava con un’aria un po’ allucinatoria, in un modo che percepivo assolutamente privo di interesse, ma che, nell’ambiente piuttosto macronista in cui vivo, trasportava le persone. Era percepito come giovane e molto intelligente. Credo che la questione della sua intelligenza superiore sia risolta per tutti, tuttavia ha prodotto una crisi sociale senza precedenti in Francia. Ma rimane giovane. E, infatti, quando sentiamo parlare di lui, dei manifestanti o anche dei giornalisti, è chiaro che ora ha l’immagine di un bambino per tutti noi francesi. “È un bambino” “È un bambino cattivo, viziato.”

La possibilità teorica di un’incarnazione stabile dello stato da parte di un bambino non esiste. Nella funzione di governo c’è la funzione paterna; una banalità che non ha atteso Freud e la psicoanalisi. Il re, il presidente, il capo, devono essere un padre. E oggi siamo in una situazione strutturalmente invertita in cui il leader è un bambino e dove non è impossibile che, simmetricamente, i Gilets Gialli rappresentino una forma di padre collettivo. Perché ciò che colpisce di queste rotonde era l’età delle persone. Erano occupati, tra gli altri, da persone dai capelli bianchi, pensionati, padri nel senso generico del termine. Un paese non può vivere con una sfida che rappresenta un’immagine paterna e un leader che rappresenta l’immagine di un bambino.

Quindi, come si fa a interpretare il fatto di un movimento dagli effettivi contenuti, ma sostenuto da una larga maggioranza della popolazione, in un clima insolitamente violento?

Forse uno dei motivi della loro approvazione generale da parte della popolazione corrisponde al modello di autorità inversa. Se iGiubbotti Gialli sono il padre, allora è normale che essi sono, essi stessi, un potere carismatico collettivo e sono supportati dal 70-75% di opinione. Sono la legittimità. Il modello interpretativo funziona molto bene qui. Spiegherebbe anche la tolleranza per la violenza, la cosa più sorprendente. Sarebbe una forma simbolica di sculacciata politica. Più semplicemente: stiamo vivendo una nuova forma di potere vacante che ha tutti i tipi di applicazioni. Ci soffermiamo sull’autorità implicita dei Giubbotti Gialli, ma si pone anche  la questione di un efficace controllo dell’apparato statale da parte di Emmanuel Macron. Non conosciamo quale sia il suo livello di controllo della forza di polizia i cui leader sindacali vengono ad annunciare il primo atto delle loro rivendicazioni il giorno dopo l’atto quinto dei Gilets. Ricadiamo sull’idea che l’autorità non può essere incarnata da un bambino che a partire dai suoi attacchi verbali contro la gente comune a terra, dal caso Benalla, si è costruito anche l’immagine di un bambino violento.

La sua politica europea è in genere immatura. Emmanuel Macron, con le sue riforme radicali, voleva che i francesi si comportassero come bambini saggi e che i tedeschi gli dessero un buon punto. La politica di Emmanuel Macron è da un capo all’altro completamente infantile. L’attuale dibattito a cui stiamo assistendo sulla resistenza di Bercy rafforza questa immagine di un presidente bambino. Un presidente adulto avrebbe già decimato Bercy.

Vedi questo movimento trovare la via della strutturazione politica?

Al di là di Emmanuel Macron, ciò che abbiamo potuto vedere, specialmente negli spettacoli televisivi, è stato un rovesciamento generalizzato del rapporto dell’autorità intellettuale. Abbiamo visto macronisti, enarchi o meno, deputati LREM, persone con un minimo di istruzione e pulizia su di loro di fronte a Giubbotti Gialli emersi dalla base. Ma era così ovvio che erano più intelligenti e dinamici dei superiori istruiti che erano di fronte a loro! Siamo di nuovo qui davanti a un problema di inversione di autorità. Sono rimasto molto colpito dal livello di coerenza e determinazione di queste persone, tuttavia presentato dal sistema dei media come incoerente e incapace di unirsi. Si potrebbe immaginare l’emergere di un partito politico. Daniel Schneidermann, nei suoi commenti a RT France, tendeva verso questa ipotesi. Ma gli ultimi sondaggi di opinione non evocano questo percorso.

Durante i tuoi primi interventi su questo movimento, hai mostrato dispiacere per il fatto che i giubbotti gialli non attacchino l’Europa. Tuttavia, possiamo vedere che i giubbotti gialli sono sovrarappresentati nei cosiddetti partiti “euroscettici”. Come spiega questo paradosso?

Ho deplorato che i gilet gialli non non mettano sotto accusa direttamente, non solo l’euro come cintura monetaria europea, responsabile di gran parte dei mali dell’economia francese, ma anche l’impossibilità di una protezione commerciale nell’Unione europea. Mi dispiace che non ci sia alcun riferimento all’Europa. D’altra parte, quello che colpiva era l’abbondanza di riferimenti alla nazione rivoluzionaria. C’erano bandiere francesi ovunque, cantavano la marsigliese, c’era una richiesta esplicita della nazione come processo rivoluzionario. Questo è molto importante perché se siamo in un processo di rinascita nazionale, il movimento marcia lui stesso verso lo shock frontale con il concetto europeo.

Qualcosa viene lanciato a un livello ideologico profondo. Penso di essere stato un po’ ingenuo, un po’ techno, nella mia concezione delle cose, dicendo solo che dovevamo uscire dall’euro, che è un discorso tecnico. Quello che sta accadendo è molto più profondo e ci mette in una traiettoria di rottura con l’euro. E, naturalmente, è un processo generale in Europa. Ognuna delle nazioni europee viene rinazionalizzata: i tedeschi hanno iniziato il processo, poi gli inglesi con la Brexit, e oggi gli italiani e i francesi. Lo stile di ciascuno è caratteristico della moltiplicazione delle nazioni. Credo che ciò che dobbiamo integrare in Francia sia questa idea della rinascita della nazione rivoluzionaria.

Non ho una visione astratta delle nazioni, non voglio tornare a un’essenza del popolo come è stato fatto in precedenza in deliri nazionalisti, ma le sottostanti strutture familiari tradizionali, che hanno i loro valori legati al mondo moderno o post-moderno. La Germania rimane condizionata dai valori autoritari e ineguali della famiglia, con la sua primogenitura maschile; il liberalismo inglese si riferisce a una famiglia nucleare individualista che fa ampio uso della volontà; la tradizione rivoluzionaria francese si riferisce alla famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino, cioè a una precoce autonomia dei bambini e ad un egualitarismo intransigente delle regole ereditarie. Negli ultimi anni, di fronte ad una inerte Francia, come ferma nella storia, con le sue classi dirigenti germanofile, il suo tasso di disoccupazione del 10%, e la sua popolazione passiva, non ero lontano dall’immaginare che la tradizionale cultura francese fosse morta. Ma il movimento dei Giubbotti Gialli, questa formidabile protesta spontanea contro lo Stato, è il risorgere della potente cultura liberale francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare. Questa formidabile protesta spontanea contro lo stato è la potente rinascita della cultura liberale egualitaria francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare.

Come analizzi le difficoltà della sinistra nell’incarnazione di questo movimento?

Se prendiamo gli ultimi sondaggi per le prossime europee, vediamo il Rassemblement National al 24%, Debout France all’8%, quindi France Insoumise al 9%. Quello che stiamo attraversando, forse per me, è un’altra battaglia persa. Ho combattuto per una rinascita della nazione a sinistra, ma quello che sembra emergere è l’incapacità della France Insoumise di incarnare l’idea nazionale. Si sono appena separati da Djordje Kuzmanovic che ha rappresentato questa corrente sovrana. È davvero triste per me, questa incapacità della sinistra, persino quella contestataria, di incarnare e prendere in mano l’idea di nazione.

Seguendo la logica dell’elezione di Donald Trump o Brexit, è la destra di governo che è riuscita a canalizzare e incarnare quelli che potremmo chiamare i Gilet gialli anglosassoni; questo ruolo dovrebbe quindi spettare a LR?

C’è una generalità occidentale del supporto dell’aspirazione nazionale da parte della destra, con Trump e Brexit per esempio. Ma in Francia, la servitù volontaria delle classi superiori nei confronti della Germania frammenta il modello. I LR mi sembrano sempre più vicini a LREM, probabilmente tentati da una fusione degli europeisti, vale a dire gli anti-nazionali, in un’unica forza. Questo è il significato della consultazione di Sarkozy da parte di Macron prima del suo discorso riparatore ai francesi. Noto di sfuggita che Wauquiez soffre anche della sua immagine di bambino.

Perché oggi solo le forze di destra sono in grado di occuparsi delle aspirazioni popolari? C’è un’apparente contraddizione. Ma tutto diventa sorprendente. La rappresentazione ideologica è vacillante, oscillante. Sentiamo che i giovani sovranisti di destra riprendono un discorso di lotta di classe, parlano come il Marx della “lotta di classe in Francia”. Esiste tuttavia una logica di simmetria nella confusione: la realtà socialista prima di Macron era di persone che si ritenevano di sinistra quando erano di destra. Quindi, perché non ora il contrario? L’assurdo bussa alla porta: la scienza politica avrà bisogno di un’ampia infusione di psicoanalisi, di fantascienza e umorismo.

Quindi ho difficoltà a immaginare una traduzione politica dei giubbotti gialli. Quello che osservo è piuttosto un aumento della sovranità di destra che si incarna nella DLF e nella RN e, incidentalmente, Florian Philippot al suo piccolo livello. Sarebbe pericoloso per gli europeisti rallegrarsi di questo implicito rinnovamento della scissione delle ultime elezioni presidenziali. La situazione diventa così grave che non è più certo che “il bambino” sarà rieletto.

Quali sono le particolarità francesi di questa tendenza “voto Brexit e Trump”?

La più grande di queste è in Francia la violenza dello scontro tra un mondo popolare e di classi medie che aspirano alla rinazionalizzazione e le classi superiori che raggiungono un livello eccezionale di universalismo post-nazionale. Io lo percepisco come una perversione dell’universalismo Francese sostenuto dalle sue classi superiori, un sogno umano universale per i soli potenti. “Educati in alto di tutti i paesi, unitevi!” È, naturalmente, di solito il sogno della globalizzazione, ma è probabile che in Francia, con il nostro concetto di uomo universale, il mito ha preso forme isteriche che si fonde in modo sottile con il nostro bisogno di sottomissione alla Germania. “Uomo universale borghese ben oltre il trauma del 1.940” la strada maestra per una denazionalizzazione della classe dirigente francese. O per meglio dire, il tradimento.

Come anticipi le conseguenze di questo movimento a medio-lungo termine?

Il movimento attuale può portare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto con le elezioni politiche del 2017. L’ortodossia politologica benpensante ci dice: da una parte ci sarebbe una forza fascista xenofoba, il Rassemblement National (RN), e dall’altra una forza democratica, moderata e universalista, l’europeismo. Ma non è la realtà. è ciò che David Adler ha rivelato nel New York Times lo scorso maggio: i centristi sono i più ostili alla democrazia. La realtà del mondo è che le forze europee sono autoritarie e antidemocratiche, i vettori del fascismo 2.0. I referendum sono inutili nell’Unione e il punto di svolta per la Francia in questo campo è stato il 2005. Nel 2018, la personalità di Emmanuel Macron ha svelato una natura autoritaria e violenta dell’europeismo con la pretesa di rappresentare valori democratici e liberali. Il macronismo è un estremismo.

Mi sembra che la polarità che si instaura sia un’opposizione tra la “nazione rivoluzionaria”, con una dimensione xenofoba, evidente nella dottrina del RN “e un” impero autoritario europeo “. Democrazia xenofoba contro sistema imperiale. Nel mio ultimo libro, “Dove siamo? Sono tornato alle origini della democrazia e ho notato che era sempre, in un primo momento, più o meno xenofoba. Un particolare popolo che si organizza liberamente internamente ma contro un altro. Questo era il caso della democrazia ateniese, della democrazia americana, razzista nei confronti dei neri e degli indiani, della proto-democrazia inglese, anticattolica. D’altra parte, l’idea di uomo universale ci viene da Roma, derivata dal principio del dominio imperiale.

La polarità che si sta stabilendo in Europa è quindi un ritorno al punto di partenza. L’impero europeo agita il concetto universale, con la riserva che non tutti gli uomini sono realmente uguali nello spazio europeo. Il voto dei francesi vale meno di uno tedesco, quello di un italiano meno di uno francese, quello greco meno di tutti. Ma l’impero europeo sembra affermare un universalismo senza gradazione nel suo sogno di aprire ai profughi. Ci sentiamo paradossalmente di fronte a un ansia crescente di persone che vogliono un maggiore controllo delle frontiere, contrapposta a un crescente immigrazionismo delle classi istruite. Questa polarizzazione aggiuntiva e totalmente irragionevole è affascinante per lo storico.

Vivremo un incredibile anno 2019. Non sappiamo come cambierà la Brexit, ma è difficile immaginare che gli americani accettino un’Europa dominata dai tedeschi; non sappiamo come andranno le cose anche in Italia. La Francia è paralizzata e la Germania mostra segni di instabilità. La nostra unica certezza è che il tenore di vita continuerà a diminuire per le persone comuni. In tale contesto, si potrebbe davvero imporre l’idea che il vero confronto non sia più tra “fascismo xenofobo” e “democrazia liberale” (l’ortodossia degli ultimi vent’anni), ma tra “democrazia xenofoba” e ” impero autoritario”. E il possibile cambiamento non finisce qui: l’immigrazionismo delle élite, con demografi ufficiali del regime che continuano ad affermare che non vi è alcun problema di immigrazione o integrazione, potrebbe trasformare nelle menti di persone moderate l’originale “xenofobia” del Front National in un legittimo desiderio di un minimo di sicurezza territoriale per la popolazione francese, compresi bambini e nipoti di immigrati nordafricani. Nessuna democrazia rappresentativa è possibile senza un minimo di sicurezza territoriale. Solo l’Impero può far fronte al caos migratorio. E se, inoltre, in un tale contesto, il candidato dell’Impero europeo autoritario ha un’immagine infantile, allora non possiamo escludere la vittoria nel secondo turno delle forze combinate del RN e di Dupont-Aignan.

Quindi escludi l’ipotesi che le élite attuali tengano conto delle aspirazioni delle classi medie e medie?

Considero il peggio, ma ben inteso per evitare il peggio. L’idea che io difendo nel post scriptum al mio ultimo libro è quella di una nuova negoziazione tra la classe superiore e il mondo popolare, conla presa in carico della necessità di nazione da parte delle élite tradizionali. Se cito situazioni di polarizzazione drammatica, è, naturalmente, con la speranza che le persone diventino consapevoli dei rischi e facciano il necessario per evitarli. Sembra, tuttavia, che Emmanuel Macron sia ora un ulteriore ostacolo in questo processo. Ci si chiede se sarà in uno stato intellettuale, psicologico e di legittimità per governare nei prossimi tre anni. Si può sognare un miracolo: lo Spirito Santo che cade su Emmanuel Macron, che capirebbe che dobbiamo uscire dall’euro. Ma non vedo da nessuna parte, né in economia, o nel suo rapporto con Donald Trump, o Vladimir Putin, o il suo approccio alla Brexit, un qualsiasi elemento di flessibilità mentale e originalità. Vedo un elettroencefalogramma piatto. La mia sensazione è che lo shock liberatorio verrà a noi dal di fuori; da un cattiva gestione della Brexit che devasta l’economia europea oppure dalla Germania talmente irrigidita da costringere le classi superiori italiane e francesi alla indipendenza.

Nell’episodio dei Giubbotti Gialli, l’elemento più inquietante è stato l’aumento della violenza da entrambe le parti e la tolleranza della società francese a questa crescente violenza. L’elemento più rassicurante era la simpatia del 70-75% della popolazione per i giubbotti gialli, una simpatia che, a vari livelli, comprendeva ancora l’intera società francese, tutte le categorie sociali, che coinvolgeva persino persone che hanno votato per Emmanuel Macron. Questa solidarietà globale significa che esiste la possibilità di riconciliazione in Francia. La verità della società francese non è l’odio universale. Ma per conseguire una riconciliazione praticabile tra le élite e il popolo, dobbiamo abbandonare gli ormeggi europei, ritrovarci tra francesi, rimboccarci le maniche per riavviare l’economia e la società.

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

ONU e i global compact su migrazioni e rifugiati. Intervista al professor Augusto Sinagra

La firma all’ONU dei recenti compact su migrazioni e rifugiati ha sollevato anche se tardivamente qualche discussione anche in Italia. Un po’ poco rispetto alla rilevanza del problema e all’enfasi e al clamore che ha accompagnato l’impegno di Matteo Salvini in materia di immigrazione sin dalla costituzione del Governo Conte. Il motivo lo si può trovare nell’atteggiamento acritico dell’opposizione e nell’imbarazzo che un tale argomento suscita in un governo composto da forze politiche così diverse. Da qui l’atteggiamento furtivo della diplomazia e  il tentativo di lasciar passare sotto silenzio la posizione italiana. Sarà un tema che comunque non tarderà a conquistare la ribalta. Il professor Sinagra ha offerto le sue autorevoli opinioni sull’argomento. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

QUOTA 500 ovvero la coalizione dei volonterosi, di Giuseppe Germinario

Con il breve ed incisivo post di ieri il sito ha raggiunto quota 500 pubblicazioni tra saggi, articoli, interviste e podcast. A due anni dalla fondazione, mi pare un risultato di tutto rispetto per quantità e soprattutto per qualità considerando soprattutto tre fattori. La redazione è composta da collaboratori in tutt’altre faccende affaccendati e ciononostante disposti a sacrificare gran parte del tempo libero allo studio teorico e all’analisi politica. Non gode di alcuna forma di finanziamento né, tanto meno, dell’accesso a strutture accademiche e di ricerca che possano agevolare un lavoro sistematico. Visti i condizionamenti e lo stato dell’arte di gran parte di quegli ambienti, quest’ultimo aspetto rappresenta certamente un grosso limite operativo ma garantisce nel contempo una libertà di azione che il conformismo vigile perennemente in azione di quelle strutture rischierebbe in qualsiasi momento di soffocare sul nascere.

Lo sparuto gruppo fondatore era appena uscito da una amara e purtroppo poco edificante conclusione del rapporto con il blog di “conflitti e strategie”. L’intento della nuova iniziativa era quello di offrire un luogo aperto di confronto che mettesse a frutto l’intuizione dell’ispiratore di quel blog, Gianfranco la Grassa, cercando di attingere in sovrappiù dalle ceneri delle grandi correnti di pensiero dei due secoli scorsi, in particolare quello marxista, quello liberale e quello del realismo politico. Da qui i contributi interni ed esterni di Longo, Morigi, de la Grange, Buffagni, Visani, Falchi, Visalli, Fagan. Tutti contributi interessanti e originali ma attualmente ancora giustapposti. I limiti oggettivi e soggettivi del coordinatore non consentono di avviare ancora un confronto serrato e di pervenire ad una sintesi comune almeno provvisoria, come deve essere del resto ogni lavoro teorico e di analisi. La complessità crescente della situazione e il ritardo teorico non sono del resto di aiuto. Di sicuro contribuisce una caratteristica prevalente a gran parte dei blog affini presenti nelle piattaforme informatiche: l’assenza, all’interno dello stesso lavoro teorico, di una finalità politica che spinga al confronto rigoroso ma fattivo. L’assoluta prevalenza dell’interesse personale e autoreferenziale nella ricerca condita spesso e volentieri da narcisismo e dominata dal mero interesse professionale. Il tempo e soprattutto la durezza dei tempi che ci attendono aiuteranno probabilmente a superare questi limiti ormai connaturati o quantomeno ad addomesticarli entro cornici più positive.

Diventa fondamentale la ricerca di spazi nelle istituzioni preposte al lavoro teorico e di analisi, l’individuazione e il contatto con quei centri di potere potenziali e consolidati sensibili a queste tematiche e agli approcci sostenuti ancora in maniera larvata e scarsamente convincente nella pletora di iniziative, il conseguimento di risorse finanziarie adeguate.

Tutte condizioni necessarie, anche se non sufficienti, a creare e fornire strumenti a nuove élite e a una nuova classe dirigente. Il cammino è immenso.

Il blog non è stato solo questo.

I contributi di Gianfranco Campa hanno aperto, senza falsa modestia, una vetrina unica in Europa sui contenuti e sui retroscena degli avvenimenti politici nel paese chiave delle dinamiche geopolitiche: gli Stati Uniti.

De Martini, da par suo, ha aperto squarci impressionanti sugli scenari mediorientali. Il suo bagaglio di esperienza e di cultura va ben oltre l’orizzonte offerto dal sito.

Il sottoscritto, con tutti i suoi limiti, Paoloni, Bonelli e Buffagni hanno saputo offrire analisi del contesto nazionale le quali, in diverse occasioni, hanno saputo centrare e innescare, vedi il caso dell’assassinio di Pamela Mastropietro, un dibattito dirompente.

Senza nessuno spirito di recriminazione e al netto della mancata utilizzazione di tecniche adeguate di promozione e diffusione, un impegno che inizia a dare lentamente frutti ma che meriterebbe un riconoscimento più esplicito ed aperto di una parte dei fruitori.

Garanzie certe sulle attività future non ce ne sono, vista la volontarietà dell’impegno e l’esposizione delle iniziative alle vicissitudini personali, anche le più banali, dei collaboratori. L’intenzione di proseguire, di crescere e di allargare la platea di volonterosi c’è. Vedremo se ci saranno le condizioni per costruire una struttura più adeguata e più operativa, quindi più proficua, senza sacrificare la libertà di ricerca e la finalità politica in apparente antitesi. Germinario Giuseppe

Sbagliando s’impara Prima sconfitta, prime riflessioni_di Roberto Buffagni

Sbagliando s’impara

Prima sconfitta, prime riflessioni

 

La trattativa ancora in corso con l’UE segna la prima sconfitta del governo gialloverde. Le sconfitte sono sempre istruttive: usiamola per sbagliare meno e costruire le condizioni della vittoria.

Perché abbiamo perso?

Abbiamo perso perché abbiamo cercato lo scontro sul terreno più favorevole all’avversario, e in condizioni d’inferiorità. Una descrizione dei fatti più che condivisibile è questa di Giorgio La Malfa[1]. Il terreno più favorevole alla UE è il terreno delle regole, dei trattati e della loro “interpretazione autentica”, vulgo la risultante dei rapporti di forza interstatali e interni agli organismi UE, espressa nel linguaggio della razionalità strumentale in un reticolo inestricabile di norme. Il governo è andato a trattare sulla base di due presupposti incompatibili: a) regole, trattati e loro “interpretazione autentica”, sono legittimi benché discutibili e riformabili, come tutto è discutibile e riformabile b)  rivendicando la propria legittimità in quanto espressione della sovranità popolare.

Legittimità A, legittimità B

La legittimità A è la legittimità della UE. Essa si fonda sulla rivendicazione del possesso monopolistico di Tecnica e Scienza, nelle loro varie specificazioni di tecnica e scienza giuridica, economica, politica, etc. In parole povere, l’UE fonda la propria legittimità sulla garanzia scientifica che essa sola sa assicurare “libertà, pace, benessere e progresso per il maggior numero possibile”, in un inedito insediamento al posto di comando politico della razionalità strumentale, weberianamente intesa e ideologicamente declinata in scientismo, utilitarismo, liberalismo (in percentuali variabili). Questa è la legittimità di principio della UE. La sua legittimità di fatto è il fatto nudo e crudo che esiste da un tempo non lungo ma neppur brevissimo, e che la sua esistenza produce effetti più che considerevoli. Che siano buoni o cattivi è materia opinabile: buoni per alcuni, cattivi per altri.

La legittimità B è la legittimità del governo italiano. Essa si fonda sul consenso elettorale della maggioranza degli italiani. Questa è la sua legittimità di principio, ma anche la sua legittimità di fatto, perché è revocabile alle prossime elezioni politiche nazionali.

L’incompatibilità fra legittimità A e legittimità B non è minore dell’incompatibilità fra il principio legittimante l’ancien régime – voto per ordine, conforme la tripartizione indoeuropea tra oratores, bellatores e laboratores –  e il principio democratico e nazionale, voto per testa dei cittadini, che il Terzo Stato rivendicò nella seduta degli Stati Generali di Francia del 6 maggio 1789.

Sul piano ideale, il conflitto tra queste due fonti di legittimità mette in questione le radici stesse della civiltà europea e della modernità occidentale, schierandole in campi avversi sul Kampfplatz filosofico-politico. Sul piano pratico, il conflitto precipita in una domanda molto semplice: “chi ha l’ultima parola?”

A prima vista, la risposta a questa domanda è: “ha l’ultima parola chi dispone della forza maggiore”. Non è una risposta errata, ma è incompleta, perché la forza può presentarsi in molte forme. Nei rapporti tra Unione Europea e governi, il rapporto di forza non viene deciso dalla forza militare. L’Unione Europea non ne dispone, ma i governi che ne fanno parte, che pur ne dispongono, non vogliono né possono farne uso: non possono, perché l’uso della forza militare contro un’entità che ne è affatto priva e alla quale si aderisce formalmente è un atto di barbarie che ha costi politici insostenibili (perdita pressoché totale di consenso e legittimazione morale).

Nei rapporti fra Unione Europea e governi, ha l’ultima parola chi decide la grammatica e la sintassi del linguaggio all’interno del quale non solo l’ultima, ma tutte le parole prendono senso.

“Quando uso una parola, ” disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.”

 “La domanda è, ” rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.”

  “La domanda è, ” replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui.”[2]

 

Chi ha l’ultima parola

Un governo che tratta con l’Unione Europea entra in una camera per il condizionamento operante, o “Skinner box”.[3].

1 Skinner Box

 

 

Una camera per il condizionamento operante consente agli sperimentatori di studiare il comportamento, addestrando la cavia a compiere certe azioni, (es., spingere una leva) in risposta a stimoli specifici, quali una luce o un segnale sonoro. Quando la cavia esegue correttamente il comportamento prescritto, il meccanismo della camera gli consegna del cibo, o un’altra ricompensa. In certi casi, il meccanismo infligge una punizione in caso di risposte scorrette o omesse. Per esempio, per testare il funzionamento del condizionamento operante sugli invertebrati, gli psicologi usano uno strumento denominato heat box, “scatola bollente”. La forma è analoga a quella della Skinner box, ma la scatola è composta di due lati: uno può mutare temperatura, l’altro no. Appena l’invertebrato passa sul lato che può mutare temperatura, la scatola viene riscaldata. Alla fine, l’invertebrato sarà condizionato a restare sul lato che non si può scaldare.

Tra le applicazioni commerciali di maggior successo della Skinner box, le slot machines, o le macchine per videopoker. Il successo commerciale di slot machines e videopoker dipende dal fatto che più a lungo si gioca, più si è destinati a perdere (= successo commerciale per i fabbricanti, insuccesso per i consumatori).

 

Uomini e topi

Un giorno, qualcuno pose a Skinner la domanda: “Che differenze ci sono tra gli uomini e i topi?”. Da scienziato qual era, per rispondere alla domanda Skinner organizzò un esperimento con i suoi studenti. Si costruirono due labirinti identici, uno per i topi e uno per gli umani. La ricompensa, posta al centro del labirinto, era un pezzo di formaggio per i topi e una ricompensa in denaro (5 $) per gli umani.

Risultato: Skinner scopre che  non ci sono differenze nei tempi di apprendimento tra umani e topi. Nel giro di una giornata, entrambi sono in grado di trovare la ricompensa. Ma Skinner non si accontenta, e perfeziona l’esperimento. Elimina le ricompense dai labirinti, e ripete l’esperimento con gli stessi partecipanti: stessi uomini, stessi topi. Tutti gli umani si prestano a ripetere l’esperimento, contro una percentuale del 70% dei topi. Al terzo giorno senza ricompensa, solo il 30% dei topi ripercorre il labirinto, contro il 100% degli uomini. Dopo una settimana senza ricompense, nessun topo entra più nel labirinto, mentre un numero considerevole di uomini ancora va in cerca dei 5 dollari. Dopo un mese, c’è ancora qualche uomo che vaga nel labirinto in cerca della ricompensa.[4]

Differenza tra uomini e topi: gli uomini immaginano, sperano e si illudono; i topi, no. Come diceva Wittgenstein: “Niente è così difficile come non ingannare se stessi.”

 

“Come mi riesce difficile vedere ciò che è davanti ai miei occhi!”[5]

La trattativa tra governo italiano e UE è andata così, proprio come in una Skinner box. Siamo partiti per spezzare le reni a Bruxelles sventolando dai balconi un 2,4% tricolore, e siamo finiti a trattare affannosamente nel cuore della notte su quanti centimetri di fregatura avremmo dovuto alloggiare nelle più intime cavità del nostro corpo. Risultato (ancora indeterminato mentre scrivo): più meno gli stessi centimetri di fregatura che ci saremmo presi se fossimo stati zitti e buoni, e senza promettere nulla, senza sventolare tricolori e percentuali, senza invocare sovranità popolari e nazionali, avessimo fatto un po’ di modesto tira e molla per telefono e ci fossimo accontentati del risultato senza fare tante storie.

A chi mi contesterà che sono ingeneroso e impietoso, che è facile criticare in poltrona e difficile agire sulla linea del fuoco, rispondo che non a caso ho usato la prima persona plurale “noi”. Noi vuole dire anch’io: anch’io ho sbagliato e sottovalutato l’avversario anzi il nemico, e anch’io subisco questa sconfitta, che non è decisiva o addirittura irrimediabile, ma che lo può diventare se non cerchiamo, tutti, di trarne insegnamento per il futuro.

Il primo insegnamento da trarre da questa sconfitta è: non incoraggiare la tendenza a illudersi, nostra personale e del popolo italiano. E’ il lato in ombra della più bella e unica facoltà dell’uomo, quella che lo distingue dai topi: la capacità di immaginare e di sperare, ed è tanto funesta quanto immaginazione e speranza sono provvidenziali. Modestia e serietà, non rodomontate.

Il secondo insegnamento è: il livello principale dello scontro è metapolitico. Questa è una guerra coperta “che non osa dire il suo nome”, tra nemici che si parlano nel linguaggio dell’amicizia, tra padroni e servi che si parlano come pari. Il compito metapolitico principale è trasformarla in guerra aperta, dove sia possibile chiamare pubblicamente, faccia a faccia, nemico il nemico, padrone il padrone. E’ una battaglia difficile e lunga, prima si comincia meglio è. Quindi, se le forze politiche al governo intendono sopravvivere e raggiungere i loro obiettivi, diano vita a centri studi e think tank, facciano del loro meglio per influenzare e ingrandire la piccola parte di accademia che non è pregiudizialmente avversa, attirino intellettuali di valore e prestigio, e non mettano professori di ginnastica al MIUR e opportunisti in posizioni apicali dell’industria culturale.

Il terzo insegnamento è: sabotare la Skinner box. Sabotare la Skinner box prima di doverci rientrare (accadrà presto). Sabotare la Skinner box vuol dire: dotarsi degli strumenti legislativi e delle competenze necessarie per disattivare alcuni dei meccanismi punizione/ricompensa della UE, ad esempio abolendo il pareggio di bilancio sciaguratamente inserito in Costituzione. Non è il mio campo di competenza, ma per fortuna i competenti non mancano: per esempio, Luciano Barra Caracciolo[6], che non dubito abbia elaborato una lista delle più urgenti modifiche legislative indispensabili per migliorare i rapporti di forza tra governo italiano e UE. Sta al governo, basta telefonargli o andarlo a trovare in ufficio.

Il quarto insegnamento è un corollario del terzo: i voti sono munizioni, senza armi le munizioni non servono. Le armi decisive per lo scontro con l’UE sono i provvedimenti di legge che ci consentono di sabotare la Skinner box.

Il quinto insegnamento è: senza strategia, la tattica si risolve in opportunismo, a volte fortunato ma più spesso no. Strategia vuol dire: individuare l’obiettivo fondamentale da raggiungere, e commisurarvi i mezzi operativi per conseguirlo. Per i gialli, l’obiettivo fondamentale può essere la piena occupazione. Per i verdi, l’obiettivo fondamentale può essere la tutela delle imprese che operano principalmente sul mercato interno italiano. Sono due obiettivi compatibili, benché soggetti alle inevitabili frizioni tra imprenditoria e forza lavoro e alla divisione Nord-Sud. Costituiscono dunque una solida base per la possibile coesione del governo. Se questi sono i loro obiettivi fondamentali, si chiedano i gialli e i verdi se è possibile conseguirli all’interno della UE e dell’euro, e si diano una risposta. Secondo me no, ma quel che importa è decidere e trarne le conseguenze. In assenza di decisione, la Skinner box predispone l’arrivo del “momento Tsipras”, come cortesemente anticipato dal sen. Monti.

Conclusione

Per concludere, prendo in prestito una citazione a un politico rivoluzionario[7] per il quale non nutro simpatia ideologica, ma che qualcosetta ha pur combinato: “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione”. Che cos’è la frase rivoluzionaria? “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Come commenta l’amico Alessandro Visalli, al quale sto rubando queste ultime righe[8], le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’… “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva…se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”. Ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via” che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.

Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva”.

[1] https://www.quotidiano.net/commento/deficit-pil-1.4344583

[2] LEWIS CARROLL (Charles L. Dodgson), Through the Looking-Glass (1872) , capitolo VI. Trad. mia.

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber#Skinner_box

[4]  Richard Bandler e John Grinder, Frogs into Princes: Neurolinguistic Programming,  Real People Pr, 1981 https://www.amazon.it/Frogs-into-Princes-Linguistic-Programming/dp/0911226184

[5] E’ un’altra citazione di Ludwig Wittgenstein.

[6] Si veda ad esempio questo suo scritto: https://orizzonte48.blogspot.com/2018/01/la-presunta-supremazia-del-diritto.html

[7] Vladimir I. Lenin, Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra, ed. Riuniti, 1974

[8] https://tempofertile.blogspot.com/2018/12/circa-marco-bascetta-una-formula-di.html

PER 30 DENARI NO, PER 4700 DOLLARI Sì, di Gianfranco Campa

PER 30 DENARI NO, MA PER 4700 DOLLARI SI

Mentre scrivo queste due righe sto ascoltando la testimonianza del CEO di Google Sundar Pichai resa al Senato americano su molte delle problematiche, fino ad ora individuate, nel rapporto Google-Utenti-Governo Americano legate alla privacy, alla gestione dati e alla sicurezza. La completa testimonianza di Pichai si concluderà nelle prime ore di domani mattina, ora italiana. Ma fino a questo punto è stata una testimonianza, come posso dire, esilarante. Divertente per molti motivi, ma soprattutto riguardo alla questione del Russiagate. Alla domanda del senatore democratico Jerry Nadler sulla interferenza di entità russe nelle elezioni presidenziali americane del 2016, la risposta data da Pichai è stata a dir poco comica.

Ci si aspettava una risposta compromettente per Trump di fronte alle telecamere: invece Pichai ha affermato che il totale della somma spesa dai “russi” per influenzare le elezioni americane è stata di 4,700 dollari in contributi pubblicitari. In altre parole, tutte le presunte attività di ingerenza russa nelle piattaforme politiche del  2016 hanno comportato un onere di 4,700 dollari in pubblicità.  Con 4,700 dollari hanno “comprato”, influenzato, le elezioni americane. Se non fosse una cosa seria si potrebbe annoverare tra le barzellette più memorabili della politica americana.

Non è la prima volta che questi venditori ambulanti di Russiagate confrontati con i fatti reali, non cascano in piedi, ma col sedere per terra. Probabilmente Nadler avrebbe dovuto premunirsi con Pichai prima della udienza sulla reale consistenza di “influenza” politica dei russi sulle elezioni americane presidenziali. Avrebbe evitato di passare per un pagliaccio. Chissà cosa avrà pensato il procuratore speciale Robert Mueller a proposito della risposta di Pichai. Vedremo se i nostri famosi giornalai nazionali riprenderanno e divulgheranno questa notizia domani sui loro siti. Nel frattempo vi lascio con il video dello scambio Nadler-Pichai e con un’ultima riflessione. Ai russi sono stati sufficienti 4, 700 dollari per azzerare una campagna elettorale in cui Clinton ne ha spesi 1,4 miliardi. Come ha fatto notare qualcuno; hanno speso meno i russi per far perdere Hillary Clinton, di quanto sia costata a Clinton una visita dalla parrucchiera…

 

 

 

 

In memoria di George HW Bush, a cura di Giuseppe Germinario

A modo nostro commemoriamo la scomparsa di George HW Bush, già Presidente degli Stati Uniti d’America, nel momento di massimo fulgore di quella potenza_Giuseppe Germinario

George HW Bush, la CIA e un caso di terrorismo di stato

Di Robert Parry (Originariamente pubblicato il 23 settembre 2000)

All’inizio dell’autunno del 1976, dopo che uno scherano del governo cileno aveva ucciso un dissidente cileno e una donna americana con un’autobomba a Washington, la CIA di George HW Bush redasse un falso rapporto che liberava da ogni responsabilità la dittatura militare del Cile e indirizzava le indagini dell’FBI nella direzione sbagliata.

La falsa valutazione della CIA, diffusa attraverso la rivista Newsweek e altri organi di informazione statunitensi, è stata propinata nonostante la consapevolezza da parte della CIA della partecipazione del Cile all’operazione Condor, una campagna transfrontaliera rivolta contro i dissidenti politici e gli stessi sospetti della CIA sul fatto che la giunta cilena fosse dietro l’attentato terroristico a Washington.

Poi, il vicepresidente George HW Bush in un incontro alla Casa Bianca il 12 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

Poi, il vicepresidente George HW Bush in un incontro alla Casa Bianca il 12 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In un rapporto di 21 pagine presentato al Congresso il 18 settembre 2000, la CIA ha riconosciuto ufficialmente per la prima volta che la mente dell’attentato terroristico, il capo dell’intelligence cileno Manuel Contreras, era una risorsa pagata della CIA.

Il rapporto della CIA è stato rilasciato quasi 24 anni dopo l’omicidio dell’ex diplomatico cileno Orlando Letelier e del collaboratore americano Ronni Moffitt, che è morto il 21 settembre 1976, quando una bomba telecomandata ha squarciato l’auto di Letelier mentre guidavano lungo la Massachusetts Avenue, una arteria maestosa di Washington nota come Embassy Row.

Nel rapporto, la CIA ha anche riconosciuto pubblicamente per la prima volta che consultò Contreras nell’ottobre del 1976 sull’omicidio di Letelier. Il rapporto ha aggiunto che la CIA era a conoscenza del presunto ruolo del governo cileno negli omicidi e ha incluso quel sospetto in un canale informativo interno lo stesso mese.

“Il primo rapporto dell’intelligence contenente questa accusa era datato 6 ottobre 1976,” poco più di due settimane dopo l’attentato” secondo le rivelazioni della CIA.

Ciononostante, la CIA – allora sotto la guida del direttore George HW Bush – fece filtrare ad uso pubblico una valutazione che cancellava la responsabilità del temuto servizio di intelligence del governo cileno, DINA, allora gestito da Contreras.

Basandosi sulla parola della CIA di Bush, Newsweek ha riferito che “la polizia segreta cilena non era coinvolta” nell’assassinio di Letelier. “L’agenzia [dell’intelligence centrale] ha motivato la sua decisione con il fatto che la bomba era troppo rudimentale per essere opera di esperti e perché l’omicidio, mentre i governanti del Cile corteggiavano il sostegno degli Stati Uniti, poteva solo danneggiare il regime di Santiago.” [ Newsweek , 11 ottobre , 1976]

Bush, che in seguito divenne il 41 ° presidente degli Stati Uniti (ed è il padre del 43 ° presidente), non ha mai spiegato il suo ruolo nel depistaggio della storia della falsa copertura servita a deviare l’attenzione dai veri terroristi. Né Bush ha spiegato quello che sapeva sull’operazione di intelligence cilena nelle settimane precedenti alla morte di Letelier e Moffitt.

Schivare la divulgazione

Come corrispondente di Newsweek nel 1988, una dozzina di anni dopo l’attentato di Letelier, quando l’anziano Bush era candidato alla presidenza, preparai una storia dettagliata sulla gestione del caso Letelier da parte di Bush.

La bozza di storia includeva il primo resoconto da fonti di intelligence statunitensi che qualificava   Contreras come una risorsa della CIA a metà degli anni ’70. Ho anche appreso che la CIA aveva consultato Contreras sull’assassinio del Letelier, informazioni che la CIA non avrebbe poi confermato.

Le fonti mi hanno rivelato che la CIA ha inviato il suo capo della stazione di Santiago, Wiley Gilstrap, per parlare con Contreras dopo l’attentato. Gilstrap quindi tornò al quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, assicurando a Contreras che il governo cileno non era coinvolto. Contreras disse a Gilstrap che i killer più probabili erano i comunisti che volevano fare di Letelier un martire.

Il diplomatico cileno Orlando Letelier, che è stato assassinato insieme al collega Ronni Moffitt, quando i terroristi di destra hanno fatto esplodere la sua auto a Washington, DC

Il diplomatico cileno Orlando Letelier, assassinato insieme al collega Ronni Moffitt, quando i terroristi di destra hanno fatto esplodere la sua auto a Washington, DC, il 21 settembre 1976.

La mia narrazione descriveva anche come la CIA di Bush fosse stata preavvisata nel 1976 sui piani segreti di DINA di inviare agenti, incluso l’assassino Michael Townley, negli Stati Uniti con passaporti falsi.

Dopo aver appreso di questa strana missione, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Paraguay, George Landau, telegrafava a Bush asserendo dal Cile che Townley e un altro agente stavano viaggiando verso la sede della CIA per un incontro con il deputato di Bush, Vernon Walters. Landau inoltrò anche copie dei passaporti falsi alla CIA.

Walters rispose che non era a conoscenza di un appuntamento programmato con questi agenti cileni. Landau annullò immediatamente i visti, ma Townley cambiò semplicemente i suoi piani e proseguì per andare negli Stati Uniti. Dopo essere arrivato, ha arruolato alcuni cubani-americani di destra nella trama di Letelier e si è recato a Washington per piazzare la bomba sotto la macchina di Letelier.

La CIA non ha mai spiegato quale azione aveva intrapreso, se del caso, dopo aver ricevuto l’avvertimento di Landau. Un seguito naturale sarebbe stato contattare DINA e chiedere cosa fosse in corso o se un messaggio sul viaggio fosse stato indirizzato male. Il rapporto della CIA nel 2000 non menzionava questi aspetti del caso.

Dopo l’assassinio, Bush promise la piena collaborazione della CIA nel rintracciare gli assassini di Letelier-Moffitt. La CIA invece intraprese azioni contrarie, come piazzare il falso esonero e nascondere le prove che avrebbero compromesso la giunta cilena.

“Nulla di ciò che l’agenzia ci ha dato ci ha aiutato a risolvere questo caso”, ha detto il procuratore federale Eugene Propper in un’intervista del 1988 per la storia che stavo preparando per Newsweek . La CIA non offrì mai il cablo dell’ambasciatore Landau sulla sospetta missione di DINA né copie dei passaporti falsi che includevano una foto di Townley, l’assassino principale. Né la CIA di Bush ha divulgato la sua conoscenza dell’esistenza dell’operazione Condor.

Gli agenti dell’FBI a Washington e in America Latina hanno risolto il caso due anni dopo. Scoprirono l’Operazione Condor da soli e rintracciarono l’assassino Townley e i suoi complici negli Stati Uniti.

Nel 1988, quando l’allora vicepresidente Bush stava citando il suo lavoro della CIA come una parte importante della sua esperienza governativa, gli sottoposi alcune domande sulle sue azioni nei giorni precedenti e successivi al bombardamento di Letelier. Il capo dello staff di Bush, Craig Fuller, ha risposto, dicendo che Bush “non fornirà commenti sulle questioni specifiche sollevate nella sua lettera”.

Come si è scoperto, la campagna di Bush aveva poco da temere dalle mie scoperte. Quando ho presentato il mio progetto di ricostruzione – con il suo account esclusivo del ruolo di Contreras come risorsa della CIA – gli editori di Newsweek si sono rifiutati di pubblicare la storia. Il capo dell’ufficio di Washington, Evan Thomas, mi ha detto che l’editore Maynard Parker mi aveva persino accusato di essere “in procinto di cacciare Bush”.

L’ammissione della CIA

Ventiquattro anni dopo l’assassinio di Letelier e dodici anni dopo che Newsweek aveva stroncato il primo resoconto del rapporto Contreras-CIA, la CIA ha ammesso di aver pagato Contreras come risorsa di intelligence e di aver consultato l’assassino di Letelier.

Tuttavia, nella relazione abbozzata del 2000, l’agenzia di spionaggio ha cercato di raffigurarsi come vittima piuttosto che complice. Secondo il rapporto, la CIA era critica rispetto all’accusa degli abusi di violazione dei diritti umani di Contreras e scettica sulla sua credibilità. La CIA ha detto che il suo scetticismo precede il contatto dell’agenzia di spionaggio con lui sugli omicidi di Letelier-Moffitt.

Poi - Vice Presidente George HW Bush con il direttore della CIA William Casey alla Casa Bianca l'11 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

Poi – Vice Presidente George HW Bush con il direttore della CIA William Casey alla Casa Bianca l’11 febbraio 1981. (Photo credit: Reagan Library)

“La relazione, anche se corretta, non è stata cordiale e serena, soprattutto perché è emersa l’evidenza del ruolo di Contreras negli abusi dei diritti umani”, ha riferito la CIA. “Nel dicembre 1974, la CIA concluse che Contreras non avrebbe migliorato le sue prestazioni in materia di diritti umani. …

“Nell’aprile del 1975, i rapporti di intelligence mostravano che era il principale ostacolo a una ragionevole politica sui diritti umani all’interno della Junta, ma un comitato di agenzie [all’interno dell’amministrazione Ford] aveva ordinato alla CIA di proseguire la sua relazione con Contreras”.

Il rapporto della CIA ha aggiunto che “un pagamento una tantum è stato dato a Contreras” nel 1975, un periodo in cui la CIA aveva sentito parlare dell’operazione Condor, un programma transfrontaliero gestito dalle dittature militari del Sud America per dare la caccia ai dissidenti rifugiati in altri paesi.

“La CIA cercò da Contreras informazioni sulle prove emerse nel 1975 da uno sforzo dell’intelligence cooperativa Southern Cone -” Operazione Condor “- basato sulla cooperazione informale nel tracciare e, almeno in alcuni casi, uccidere gli oppositori politici. Nell’ottobre 1976, vi erano sufficienti informazioni che la CIA aveva deciso di rivolgersi a Contreras in merito. Contreras ha confermato l’esistenza di Condor come rete di condivisione dell’intelligence, ma ha negato di avere un ruolo nelle uccisioni extra-giudiziarie “.

Inoltre, nell’ottobre del 1976, la CIA disse che “elaborò” come avrebbe aiutato l’FBI nelle sue indagini sull’assassinio di Letelier, avvenuto il mese precedente. La relazione dell’agenzia di spionaggio non ha tuttavia fornito dettagli su ciò che ha fatto. Il rapporto aggiunse solo che Contreras era già tra i sospettati di omicidio nell’autunno del 1976.

“A quel tempo, il possibile ruolo di Contreras nell’assassinio di Letelier è diventato un problema”, ha affermato il rapporto della CIA. “Alla fine del 1976, i contatti con Contreras erano molto rari.”

Anche se la CIA ha riconosciuto la probabilità che DINA fosse dietro l’assassinio di Letelier, non c’è mai stato alcun indizio che la CIA di Bush abbia cercato di correggere la falsa impressione creata dalle sue fughe sui media attraverso le quali confermava l’innocenza di DINA.

Dopo che Bush lasciò la CIA con l’insediamento di Jimmy Carter nel 1977, l’agenzia di spionaggio prese le distanze da Contreras, secondo il nuovo rapporto. “Durante il 1977, la CIA incontrò Contreras circa una mezza dozzina di volte; tre di questi contatti hanno richiesto informazioni sull’assassinio di Letelier “, ha dichiarato il rapporto della CIA.

“Il 3 novembre 1977, Contreras è stata trasferito a una funzione estranea all’intelligence, quindi la CIA ha interrotto tutti i contatti con lui”, ha aggiunto il rapporto. “Dopo una breve resistenza per mantenere il potere, Contreras si è dimesso dall’esercito nel 1978. Nel frattempo, la CIA ha raccolto informazioni dettagliate e dettagliate sul coinvolgimento di Contreras nell’ordinare l’assassinio di Letelier”.

Misteri rimanenti

Sebbene il rapporto della CIA nel 2000 contenesse la prima ammissione ufficiale di una relazione con Contreras, non fece luce sulle azioni di Bush e del suo vice, Walters, nei giorni precedenti e successivi all’assassinio del Letelier. Inoltre, non ha offerto alcuna spiegazione sul perché la CIA di Bush avesse diffuso false informazioni sulla stampa americana cancellando le responsabilità della dittatura militare del Cile.

Mentre forniva il riassunto di 21 pagine sul suo rapporto con la dittatura militare del Cile, la CIA rifiutò di rilasciare documenti di un quarto di secolo prima con la motivazione che le rivelazioni avrebbero potuto mettere a repentaglio le “fonti e metodi” della CIA in contrasto con l’ordine specifico di Bill Clinton di rilasciare quante più informazioni possibili.

Forse la CIA stava giocando sul tempo. Con il quartier generale della CIA ufficialmente chiamato George Bush Center for Intelligence e con i veterani degli anni Reagan-Bush che ancora dominavano la gerarchia della CIA, l’agenzia di spionaggio avrebbe potuto sperare che l’elezione del governatore del Texas George W. Bush lo avrebbe liberato dalle richieste di apertura dei report al popolo americano.

Da parte sua, l’ex presidente George HW Bush dichiarò la sua intenzione di assumere un ruolo più attivo nella campagna elettorale per l’elezione di suo figlio. In Florida, il 22 settembre 2000, Bush ha detto di essere “assolutamente convinto” che se suo figlio sarà eletto presidente, “ristabiliremo il rispetto, l’onore e la decenza che la Casa Bianca merita”.

Il giornalista investigativo Robert Parry ha indagato molte delle storie Iran-Contra per l’Associated Press e Newsweek negli anni ’80. Puoi comprare il suo ultimo libro, America’s Stolen Narrative, o in  stampa qui  o come e-book (da  Amazon  e  barnesandnoble.com ).

Verità per Regeni? Verità su Regeni!_di Roberto Buffagni

Verità per Regeni?

“Verità per Regeni”? Vediamo un po’. Di verità sull’argomento ce n’è solo una briciola. Cominciamo da quella, poi passiamo alle ipotesi.

Briciola di verità

Regeni lavorava per una azienda privata di intelligence, la Oxford Analytica.[1] All’epoca dei fatti, il responsabile di Oxford Analytica è David Young, capo dell’équipe che per conto del presidente Nixon scassinò gli uffici del Partito Democratico al Watergate, facendosi beccare e innescando il processo che condusse all’impeachment e alle dimissioni dello statista repubblicano. Nel board, a fare da testimonials, ci sono John Negroponte[2], responsabile diretto dell’organizzazione degli squadroni della morte nell’America Latina anni Ottanta, e Sir Colin McColl[3], Control dell’MI6 (ora SIS) dal 1988 al 1994.

Regeni agente segreto?

Regeni non, ripeto non era un agente segreto. Per Oxford Analytica, Regeni lavorava da precario, in subappalto, stesso tipo di rapporto che intercorre fra un fattorino che consegna la pizza a domicilio e la catena di fast food che lo assume. Conforme a una plurisecolare tradizione di rapporti organici d’interscambio tra Oxbridge e servizi segreti britannici, il rapporto diretto con Oxford Analytica ce l’avevano i suoi professori di Cambridge, che utilizzavano i graduate students e i ricercatori come manovalanza a basso prezzo. Queste agenzie private di intelligence non sono la SPECTRE. Si fanno pagare a caro prezzo informazioni di secondo e terz’ordine, abbagliando gli acquirenti con i nomi di prestigiosi pensionati dell’intelligence. Siccome lavorano esclusivamente per il profitto economico, certo non si danno la pena di addestrare gli agenti sul campo, e tantomeno i fattorini come Regeni. Regeni infatti, a quanto risulta dalla semplice lettura dei giornali, non era stato neanche minimamente addestrato. Nei giorni precedenti il suo sequestro, ad esempio, agenti della sicurezza egiziana erano passati a casa sua per informarsi su di lui. Probabile che Regeni neanche lo sapesse, perché  non s’era creato una rete di sicurezza intorno alla sua abitazione (basta pagare qualcuno dei vicini e il portinaio, non ci vuole James Bond); oppure l’ha saputo e l’ha sottovalutato. Ignoranza e sottovalutazione in un contesto come l’egiziano, dove il governo è sottoposto a tensioni politiche interne e internazionali enormi, e mentre sono in ballo poste economiche e politiche immense (era stato scoperto un enorme giacimento di petrolio nelle vicinanze e andavano firmati i contratti per l’estrazione, e in Egitto c’è il canale di Suez) sono l’equivalente di un tentato suicidio, come sedersi a prendere l’aperitivo in corsia di sorpasso in autostrada.

Escludo poi ogni rapporto diretto tra Regeni e il SIS. Il SIS non aveva nessun bisogno di reclutare Regeni; più pratico e sicuro usarlo a sua insaputa, tanto c’erano i suoi prof. di Cambridge e dell’American University del Cairo a fargli fare quel ch’era utile facesse. I servizi d’informazione usano abitualmente il metodo della leva lunga: stare il più lontani possibile dal personale che usano, utilizzando intermediari, in modo da garantirsi la plausible deniability.[4] Regeni presentava anche il pregio di non essere cittadino britannico, e di essere quindi per antonomasia expendable: i servizi inglesi sono celebri, oltre che per la loro abilità, per la loro cattiveria abissale e il loro cinismo terrificante in un mondo dove i chierichetti non allignano. Si acquisti al modico prezzo di 9 euro The Secret Servant: The Life of Sir Stewart Menzies, Churchill’s Spymaster di Anthony Cave Brown[5] e si vedrà quel che intendo.

A maggior ragione escludo ogni rapporto diretto tra Regeni e AISE.  E’ vero che i servizi d’informazione italiani, dopo la sciagurata riforma e sostituzione del vecchio personale con il nuovo, sono molto peggiorati da tutti i punti di vista, anzitutto professionale: opera di Massimo D’Alema, il Signore si ricordi di lui al momento buono .

(Digressione: uno degli errori più gravi della riforma è stato smettere di pescare i quadri dalle FFAA, mentre l’addestramento e la selezione militari sono indispensabili se si vogliono quadri adeguati al servizio di spionaggio e controspionaggio. Esempio, Calipari. Io non credo a complotti o rappresaglie degli americani. Calipari, ottimo funzionario di polizia, è morto coraggiosamente proteggendo la Vispa Teresa Sgrena perché, non avendo formazione militare, ha fatto un errore blu in zona di operazioni. Al momento di esfiltrare la Sgrena ha privilegiato la velocità del mezzo, perché dove non si combatte, è effettivamente più sicuro fare così: la cosa importante è arrivare a destinazione sicura prima che l’opposizione riesca a organizzare una risposta e a intercettarti. In zona di operazioni, invece, e specialmente in quella zona di operazioni, salire in automobile civile e andare sparati = disegnarsi un bersaglio sul cofano, e infatti l’hanno centrato. E’ un errore che io, pur non essendo né  James Bond né von Clausewitz, non avrei fatto mai. Bastava prendere un autoblindo, andare a 40 kmh, e oggi Calipari sarebbe vivo e vegeto e potrebbe illustrare alla Sgrena alcune realtà fondamentali del mondo e della politica internazionale).

In sintesi: escludo un rapporto organico tra Regeni e l’Aise perché se fosse vero, l’Aise andrebbe subito gettato nelle fiamme dell’inferno in toto, in quanto composto esclusivamente da traditori o da minus habentes con QI inferiore a 80, essendo il risultato più che prevedibile dell’operazione in cui sarebbe stato coinvolto Regeni un colossale autogol per l’interesse nazionale italiano.

Pure ipotesi

Regeni studia sociologia a Cambridge. Viene mandato al Cairo, alla American University, celeberrimo centro di reclutamento dell’anglosfera per la classe dirigente egiziana e non solo. Lì fa ricerche di sociologia “embedded”, dice la professoressa Maha Abdel Rahman, la sua tutor[6]. Cosa vuole dire “embedded”? Vuole dire che non va in archivio e basta, ma frequenta ambienti sociali i più vari, registra posizioni politiche e progetti, prende indirizzi e telefoni, nomi di leader, etc. I professori di Cambridge vendono queste e altre informazioni a Oxford Analytica, che le ridistribuisce tra i suoi clienti. Non so se Regeni ci abbia guadagnato qualche soldo, magari sì magari no, ma non è questo il punto. Il punto è che le informazioni raccolte da Regeni sono anche la materia prima per chi organizza “rivoluzioni colorate” et similia. Le rivoluzioni colorate funzionano così: prima si fa leva sulle opposizioni liberali e occidentaliste buone, democratiche e non violente, poi si gioca la carta vera, perché la linea di faglia vera sta lì: la carta etnico-religiosa, che tanto liberale e non violenta non è (“democratica” forse, nel senso che trova largo appoggio tra le masse). L’impero britannico la carta etnico-religiosa contro i nazionalismi arabi e non solo la sta giocando da un duecento anni, non è una cosa nuova. Tra Fratelli musulmani e Gran Bretagna, per esempio, c’è un rapporto organico da sempre[7]. Il presidente democraticamente eletto dell’Egitto, prima di Al Sissi, era Muḥammad Mursī[8], del Partito Libertà e Giustizia, espressione politica dei Fratelli musulmani.

Non so se Regeni provasse simpatia ideologica per le “opposizioni democratiche”; probabilmente sì, visto che voleva pubblicare sul “il Manifesto”, che si è illustrato per l’appoggio ideologico alle “rivoluzioni colorate” in quanto le fa el pueblo che quando scende in piazza ha sempre ragione. Secondo me è una ideologia disastrosa, ma in questo caso l’ideologia è il meno. Il più è questo: che né Regeni aveva capito da solo, né i suoi mandanti gli avevano spiegato, che stava partecipando in prima linea a un’azione di guerra coperta (destabilizzazione) contro il governo egiziano. In guerra ci si fa male, molto male. E’ poi quasi certo che ci lasci la pelle se ci vai senza una minima preparazione, se passeggi lungo la linea del fuoco con il gelato in mano. Ora, perché Regeni non ci sia arrivato da solo non lo so. Perché  da giovani ci si sente invulnerabili? Perché uno studioso non è un uomo d’azione? Non lo so.  Ma i suoi mandanti, invece, lo sapevano eccome.

I suoi professori di Cambridge avevano sicuramente un rapporto diretto con l’agenzia privata di intelligence per cui lavoravano. Avevano sicuramente un rapporto o diretto, o indiretto attraverso l’agenzia privata, con il SIS[9]. Poi magari anche i suoi professori non si rendevano pienamente, emotivamente conto di quel che stavano facendo fare a Regeni, perché  un conto è andare sul campo, un conto fare analisi seduti nel proprio studio con il termosifone che ronfa: anche l’analista militare più spregiudicato, se non ha visto mai un morto ammazzato, se non si è mai sentito fischiare nelle orecchie una pallottola, stenta a mettersi nei panni del soldato in zona di combattimento. In questo campo, tra la teoria e la pratica c’è la stessa differenza che passa tra un manuale di educazione sessuale e un rapporto sessuale vero e proprio.

Il fatto è che a Regeni, i don e i fellows di Cambridge non gliel’hanno raccontata chiara. Non gli hanno detto, versione A: “Giulio, ti mandiamo sul campo a raccogliere dati in vista di una destabilizzazione del governo egiziano, siamo certi che ci andrai volentieri perché  gioverà alla tua carriera e perché così combatterai per la democrazia, il progresso e il bene del popolo egiziano.” Se gliel’avessero detto, magari Regeni, che non era stupido, ci pensava un attimo, si domandava a quali rischi andava incontro, quali coperture gli assicuravano sul campo, chiedeva perlomeno di essere addestrato a un mestiere che – lo avrà visto, qualche film di spionaggio! – sapeva non essere di tutto riposo, etc.

Gli avranno invece detto, versione B: “Giulio, sei proprio bravo, perché non approfondisci la tua ricerca entrando nel vivo della dialettica sociale egiziana? Gioverà alla tua carriera e darai un contributo al progresso sociale in Egitto.” Regeni non ha tradotto la versione B nella versione A, ha pensato che tutto sommato faceva solo della ricerca sociologica, anche più interessante e coinvolgente; che essendo straniero e occidentale, coperto da importanti istituzioni quali le università di Cambridge e American del Cairo, dalle diplomazie italiana, americana e inglese era al sicuro, ed è andato sulla linea del fuoco senza aver mai sparato un colpo neanche al poligono, senza aver visto una pistola tranne che in TV, e senza sapere sul serio che quella era la linea del fuoco: perché in una guerra coperta, la linea del fuoco è la strada sotto casa, l’edicola dove compri il giornale, il bar dove fai colazione la mattina, la tua camera da letto.

Così ha fatto una fine atroce, lasciando nella mente dei suoi genitori un’immagine di orrore senza nome che non si spegnerà mai finché resteranno vivi, e gli angoscerà la veglia e il sonno per sempre.

A occhio e croce, sono stati i servizi egiziani a torturare e uccidere Regeni. L’interrogatorio serviva a ottenere i nomi dei suoi contatti, e forse anche le intenzioni dei suoi mandanti, che probabilmente Regeni non conosceva: motivo più che sufficiente per spiegare la ferocia delle torture. Se ti chiedono una cosa che non sai, come fai a confessare? E come fa l’interrogante a esser certo che davvero non sai? Deve spingersi al punto da potersi dire, “se lo sapeva me l’avrebbe detto di sicuro”.

Il fatto che siano stati gli egiziani a ucciderlo non vuol dire che l’ordine sia partito dal governo egiziano. Intanto, di polizie più o meno segrete ce ne sono tante. Poi, un’eventuale operazione inglese ha potuto svolgersi così (pura ipotesi): gli inglesi fanno arrivare informazioni mezze vere mezze false su Regeni: lavora per gli inglesi (vero) è un personaggio importante che sa cose decisive (falso). Magari fanno filtrare l’informazione a una polizia egiziana che ha bisogno di fare bella figura o di fregare un corpo concorrente. Questi lo rapiscono, lo interrogano, ci vanno giù pesante perché sono sicuri che ne valga la pena, e quando capiscono che li hanno fregati e Regeni non sa un gran che, sono arrivati troppo in là e devono ucciderlo comunque. Poi danno incarico a qualcuno di farlo sparire – magari proprio a quelli che gli hanno passato l’informazione farlocca, perché “chi rompe paga e i cocci sono suoi”-  ma quel qualcuno è l’infiltrato degli inglesi che invece di far sparire il cadavere lo butta a lato strada e lo fa ritrovare.

Conclusione

La verità giuridica sul caso Regeni non si raggiungerà mai, perché contro l’accertamento delle prove c’è l’ostacolo insormontabile di interessi politici ed economici colossali. La verità storica va cercata anzitutto in Gran Bretagna, e solo in subordine in Egitto. La verità umana è che un giovane e intelligente italiano è stato ingannato, a fini di interesse economico personale e politico nazionale,  dai docenti britannici che avevano l’obbligo etico di proteggerlo – la parola tutor viene dal latino tueri, proteggere, custodire, difendere – e mandato a morire di una morte atroce[10]. Ai suoi genitori e a tutti i suoi cari, è stato inflitto un dolore incancellabile; e per di più, a loro insaputa essi sono stati coinvolti e strumentalizzati in una operazione d’intossicazione e d’ influenza, ordita dai principali responsabili della morte di Giulio Regeni,  volta a confondere le acque e a sviare l’attenzione del pubblico dalla realtà dei fatti, cioè da loro.

 

 

[1] http://www.lastampa.it/2016/02/16/esteri/regeni-a-londra-lavor-per-unazienda-dintelligence-Ue3kZmmArej9wuMH279t5J/pagina.html

 

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/John_Negroponte

[3] https://wikispooks.com/wiki/Colin_McColl

[4] http://italiaeilmondo.com/2018/01/17/disinformazione-un-breve-vademecum_1a-parte-di-roberto-buffagni/

[5] https://www.amazon.it/Secret-Servant-Stewart-Churchills-Spymaster/dp/0718127455/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1543654420&sr=8-1&keywords=The+secret+servant%3A+the+life+of+Sir+Stewart+Menzies%2C+Churchill%27s+spymaster

[6] https://www.lastampa.it/2018/01/24/italia/la-tutor-di-cambridge-impose-a-regeni-di-affidarsi-a-unattivista-GNaS3l5g4Z0hroND31xCKP/pagina.html

[7] Tra mille, si legga questo articolo: https://www.counterpunch.org/2017/03/10/the-secret-to-our-nations-security/

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Mohamed_Morsi

[9] https://www.sis.gov.uk/

[10] http://www.lastampa.it/2016/02/19/esteri/giulio-regeni-mandato-allo-sbaraglio-dai-suoi-docenti-inglesi-sv1TscnNnGt3oBUwjPoz2H/pagina.html

 

http://italiaeilmondo.com/2018/11/27/chi-si-rivede-regeni-secondo-di-antonio-de-martini/

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