LA GUERRA RUSSIA-UCRAINA: LO STUPIDO E L’ANALISTA, a cura di Luigi Longo

LA GUERRA RUSSIA-UCRAINA: LO STUPIDO E L’ANALISTA

a cura di Luigi Longo

Ho trovato interessante sia la conferenza stampa di Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, tenuta a Bruxelles il 25/11/2022 e ripresa dall’agenzia Adnkronos e pubblicata, a mò di stralcio, sul suo sito https://www.adnkronos.com/ucraina-stoltenberg-diventera-membro-nato_5EZiSZ99s7FBWwsQbcCHLa/amp.html, sia l’intervista del colonnello statunitense Douglas Macgregor rilasciata al canale polacco Votum TV e pubblicata sul sito www.comedonchisciotte.org del 24/11/2022.

Le riporto per riflettere sia sulla stupidità di Jens Stoltenberg sia sull’analisi concreta e ragionata del colonnello Douglas Macgregor.

Una precisazione e una riflessione. La precisazione riguarda il concetto di stupidità, una sorta di scherzosa (mica tanto) teoria generale della stupidità umana, elaborata dallo storico Carlo Maria Cipolla (Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988, in particolare le pagine 65-77) che così la definisce << Il secondo fattore che determina il potenziale di una persona stupida deriva dalla posizione di potere e di autorità che occupa nella società. Tra burocrati, generali, politici, capi di stato e uomini di Chiesa, si ritrova l’aurea percentuale […] di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (o è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (o occupano). La domanda che spesso si pongono le persone ragionevoli è in che modo e come mai persone stupide riescano a raggiungere posizioni di potere e di autorità >>. Affermare, come fa Jens Stoltenberg, che << […] Se Putin, o altri leader autoritari, vede che l’uso della forza è premiato, la userà ancora per raggiungere i suoi obiettivi. E’ quindi nei nostri interessi di sicurezza sostenere l’Ucraina. Bisogna ricordare che la Russia è l’aggressore, l’Ucraina è vittima di una aggressione e l’Ucraina ha il diritto di difendersi e noi la aiutiamo a farlo >> rientra sia nel potere della stupidità << La persona intelligente sa di essere intelligente. Il bandito è cosciente di essere un bandito. Lo sprovveduto è penosamente pervaso dal senso della propria sprovvedutezza. Al contrario di tutti questi personaggi, lo stupido non sa di essere stupido. Ciò contribuisce potentemente a dare maggiore forza, incidenza ed efficacia alla sua azione devastatrice. Lo stupido non è inibito da quel sentimento che gli anglosassoni chiamano self-consciousness. Col sorriso sulle labbra, come se compisse la cosa più naturale del mondo lo stupido comparirà improvvisamente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita ed il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività – e tutto questo senza malizia, senza rimorso, e senza ragione. Stupidamente. >>; sia nella quarta legge fondamentale della stupidità che afferma << Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore. Nei secoli dei secoli, nella vita pubblica e privata, innumerevoli persone non hanno tenuto conto della Quarta Legge Fondamentale e ciò ha causato incalcolabili perdite all’umanità. (grassetto mio, LL) >>.

La riflessione concerne l’analisi concreta della situazione concreta del colonnello Douglas Macgregor. Ne rimarco alcuni passaggi << Non vedo alcuna prova che Mosca sia interessata ad attaccare la NATO. Di certo non è interessata ad attaccare l’Occidente e penso che l’intero conflitto si sarebbe potuto evitare se avessimo semplicemente riconosciuto i legittimi interessi di Mosca riguardo a ciò che accade in Ucraina […] questo regime di Zelensky sia un governo molto pericoloso, inguaribilmente ostile alla Russia e che risponde esclusivamente alle istruzioni di Washington, che, a sua volta, ha deciso di indebolire la Russia in ogni modo possibile […] Beh, torniamo indietro e rendiamoci conto che la struttura militare che Putin e il suo governo hanno costruito negli ultimi 15-20 anni è stata concepita principalmente per difendere la Russia. Non è stata progettata per una guerra di conquista contro Paesi confinanti e, secondo me, [l’Occidente] non ha capito che la riduzione delle dimensioni e il cambiamento di orientamento [dell’esercito russo] lo rendevano molto diverso da quello che esisteva all’epoca dell’Unione Sovietica […] Sono abbastanza sicuro che i Russi non vorranno rimanere nell’Ucraina occidentale, che è il cuore dell’Ucraina e dove vivono i veri Ucraini. I Russi non sono interessati ad una cosa del genere. I Russi probabilmente si ritireranno nella parte alta del fiume, ma, per quanto riguarda Kherson, Kherson è sempre stata russa. Odessa è stata fondata dai Russi, anche se si potrebbe dare un po’ di merito ai Tedeschi, che erano certamente al servizio di Caterina la Grande, e che avevano partecipato alla costruzione di molte di queste città, insieme a Inglesi, Scozzesi e Olandesi. Siamo sinceri, il punto fondamentale è che questa regione è sempre stata russa, non è mai stata ucraina, il vero “cuore dell’Ucraina” è più a nord, a nord del Mar Nero. I Russi riconquisteranno Kherson e riconquisteranno anche Kharkov. Queste sono città storicamente russe, ma i Russi non sono interessati al resto del Paese. >>.

La guerra Russia-Ucraina si gioca nella soluzione del conflitto interno (in equilibrio dinamico) agli agenti strategici statunitensi. In sintesi, se: a) questo esprimerà un blocco egemone che produrrà un progetto di sintesi nazionale di una nuova idea di sviluppo e riorganizzazione sociale in grado di dialogare, come potenza mondiale, con il progetto del costituendo polo asiatico e, quindi, creare una frattura nella storia statunitense per rimanere nella fase multicentrica che significa condivisione e rispetto tra i costituendi poli: Occidentale (ad egemonia statunitense) e Orientale (ad egemonia cinese e russa) per il dominio mondiale; b) oppure, il conflitto, esprimerà un blocco egemone, sulla scia della storia statunitense, che fa della guerra lo strumento per l’affermazione del dominio mondiale monocentrico che porterà alla fase policentrica, ossia alla terza ed ultima guerra mondiale. Seneca, letto da Concetto Marchesi (Seneca, Casa editrice Giuseppe Principato, Messina-Milano, 1934, pag.274), sosteneva che << La guerra dell’uomo all’uomo è un pericolo quotidiano contro cui bisogna sempre premunirsi e vigilare; è il male più frequente, più tenace e più insidioso. La tempesta minaccia prima di scoppiare, l’edificio scricchiola prima di rovinare, il fumo preannunzia l’incendio: la rovina che ci viene dall’uomo è improvvisa ed è tanto più nascosta quanto più vicina. E’ un errore credere ai volti che ci si presentano: l’immagine è di uomo, l’animo è di belva; ma delle belve è più pericoloso il primo assalto: una volta passate non ci ricercano più, e solo il bisogno le porta a nuocere costrette dalla fame e dalla paura; per l’uomo è un piacere rovinare un altro uomo. >>.

In chiusura, rilevo, di sfuggita, che altra cosa è ragionare sul perché le relazioni sociali devono attraversare il campo del potere e del dominio (ossia il campo della stupidità che coinvolge tutti: stupidi e non stupidi) che sono distruttrici di sensatezza sociale storicamente data. Qui dobbiamo studiare, capire, comprendere la storia umana sessuata se vogliamo trasformare i rapporti sociali fondati sul potere e sul dominio in tutte le sfere della società e nell’insieme della vita pubblica e privata che sono intrecciate e innervate.

LO STRALCIO DELLA CONFERENZA STAMPA

UCRAINA, STOLTENBERG: “DIVENTERÀ MEMBRO NATO”

“Russia non ha veto su ampliamento Alleanza”

a cura di redazione Adnkronos

L’Ucraina diventerà membro della Nato. “Le porte della Nato sono aperte e lo abbiamo dimostrato non solo a parole ma anche con i fatti”, con la recente adesione della Macedonia del Nord e, quest’anno, l’avvio del processo di adesione di Finlandia e Svezia, passi a cui Mosca si opponeva, ha sottolineato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in una conferenza stampa a Bruxelles, precisando che così facendo “dimostriamo che le porte della Nato sono aperte, la Russia non ha un veto sull’ampliamento dell’Alleanza e spetta ai Paesi alleati decidere sulle adesione”.

“E questo è lo stesso messaggio diretto all’Ucraina. Abbiamo ribadito la decisione presa al vertice di Bucarest del 2008 che l’Ucraina diventerà un Paese membro”, ha quindi aggiunto in vista della riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi Nato la prossima settimana, sempre a Bucarest.

“Il modo di aiutare l’Ucraina a raggiungere la membership è quello di lavorare insieme a Kiev, sia a livello politico che di sostegno pratico, che è quello che facciamo”, sia assicurando le necessità più urgenti di Kiev, che una cooperazione più a lungo termine.

“La maggior parte delle guerre terminano con negoziati, ma quello che avviene al tavolo negoziale dipende da quello che è accaduto sul campo di battaglia. Quindi la cosa migliore per aumentare le possibilità di una soluzione pacifica è sostenere l’Ucraina. Non ci tireremo indietro”, ha affermato ancora Stoltenberg.

“I Paesi alleati forniscono (a Kiev, ndr) sostegno militare senza precedenti e mi aspetto che i ministri degli Esteri si impegneranno per aumentare il loro supporto di equipaggiamenti non letali. Alla riunione di Bucarest chiederò più contributi. Sul tempo più lungo, aiuteremo l’Ucraina alla transizione da sistemi d’arma di epoca sovietica a standard Nato e incontreremo Dmytro Kuleba per discutere delle necessità più urgenti e del sostegno a lungo termine”, ha quindi anticipato.

“Putin sta fallendo in Ucraina e risponde con più brutalità. Ondate di attacchi missilistici diretti contro cittadini e infrastrutture civili privano gli ucraini di riscaldamento, luce e acqua. Sono tempi duri anche per il resto dell’Europa e per il resto del mondo, stiamo tutti pagando un prezzo per la guerra della Russia in Ucraina. Ma per noi il prezzo è in denaro, per gli ucraini è con il sangue. Se consentiamo a Putin di vincere, tutti noi pagheremo un prezzo più alto negli anni a venire. Se Putin, o altri leader autoritari, vede che l’uso della forza è premiato, la userà ancora per raggiungere i suo obiettivi. E’ quindi nei nostri interessi di sicurezza sostenere l’Ucraina. Bisogna ricordare che la Russia è l’aggressore, l’Ucraina è vittima di una aggressione e l’Ucraina ha il diritto di difendersi e noi la aiutiamo a farlo”.

L’INTERVISTA

L’UCRAINA STA PER ESSERE ANNICHILITA

L’intervista del colonnello douglas macgregor* al canale polacco votum tv

INTERVISTANATOUCRAINA

Votum TV**. Salve e benvenuti a tutti, spero che stiate passando una buona serata e vorrei darvi il benvenuto al primo episodio di Heretics channel su votum Tv. Stiamo trasmettendo dalla Polonia e questa sera abbiamo un ospite molto speciale, il colonnello Douglas McGregor, che vi è stato presentato con la sua biografia all’inizio dell’episodio. Credo che per molti molti dei nostri telespettatori il colonnello McGregor sia un personaggio molto noto, soprattutto alla luce della situazione che si sta verificando in Ucraina, ma non solo.

Colonnello Doug, è un onore averla nel nostro programma, come sta?

Macgregor. Benissimo.

Votum TV. Perfetto, entriamo subito nel vivo. Alla luce della situazione che si è verificata in Polonia con l’attacco missilistico dall’Ucraina, vorrei iniziare citando due tweet, uno di ieri e uno di oggi. Il primo proviene da un canale ucraino che sostiene di essere associato al movimento Euro Maidan e il secondo è di un giornalista polacco. Il primo afferma: “i sondaggi oggi impongono di scegliere tra la vergogna o la guerra, ma, anche se si sceglie la vergogna, la guerra busserà sicuramente alla porta. La storia ha dimostrato che la Polonia può vincere solo combattendo insieme all’Ucraina contro la Russia, tutte le altre opzioni rappresentano la distruzione della Polonia.” Il secondo tweet è di un giornalista polacco secondo cui, cito testualmente, “sarebbe un male se la tragedia di Przewodow [il villaggio dove è caduto il missile ucraino, N.D.T.] portasse in Polonia ad un indebolimento del sostegno all’Ucraina. Tali tragedie potranno cessare solo se la Russia porrà fine alla sua aggressione non autorizzata e illegale contro l’Ucraina, sosteniamo l’Ucraina.” Doug, come risponde a questi due tweet?

Macgregor. Sono certamente favorevole alla comprensione reciproca e alla cooperazione tra Polacchi e Ucraini, ma non condivido l’idea che la Russia sia attualmente un nemico di tipo sovietico che deve essere combattuto a tutti i costi. Non vedo alcuna prova che Mosca sia interessata ad attaccare la NATO. Di certo non è interessata ad attaccare l’Occidente e penso che l’intero conflitto si sarebbe potuto evitare se avessimo semplicemente riconosciuto i legittimi interessi di Mosca riguardo a ciò che accade in Ucraina. L’Ucraina è un vicino della Russia, ciò che accade in Russia è importante per gli Ucraini e ciò che accade in Ucraina è importante per i Russi, quindi avremmo potuto intervenire tempestivamente e dire: facciamo un cessate il fuoco e parliamo. In realtà, negli ultimi 10-20 anni, avremmo dovuto ascoltare i Russi riguardo alle loro preoccupazioni per ciò che stava accadendo in Ucraina ed ora penso che questo regime di Zelensky sia un governo molto pericoloso, inguaribilmente ostile alla Russia e che risponde esclusivamente alle istruzioni di Washington, che, a sua volta, ha deciso di indebolire la Russia in ogni modo possibile. L’intera faccenda si è ovviamente ritorta contro [l’Occidente]. La Russia è oggi economicamente e finanziariamente più forte di quanto non fosse all’inizio dell’intervento. Direi che sta anche diventando militarmente più forte ogni ora che passa, quindi la soluzione non è unirsi a questa guerra futile e inutilmente distruttiva con Mosca. È quella di mettere un po’ di buon senso nella testa della gente, nel governo di Kiev e l’ultima cosa che Varsavia deve fare è unirsi a questa follia. Varsavia dovrebbe offrire i suoi servizi come mediatore e porre fine a questo conflitto distruttivo, è qui che Varsavia potrebbe svolgere il ruolo di grande potenza.

Votum TV. È molto importante, credo, sottolineare la dimensione militare di questa situazione e penso che lei sia l’uomo perfetto per una cosa del genere, perché, fin dall’inizio di questa guerra, abbiamo avuto militari polacchi, ex ufficiali, che hanno continuato a dire che è solo una questione di tempo prima che la Russia finisca i missili, che i Russi rubano l’equipaggiamento militare degli Ucraini perché non ne hanno abbastanza nel loro esercito post-sovietico. Quindi, Doug, voglio che lei accompagni i nostri telespettatori attraverso una sorta di tour de force riassuntivo della situazione militare in Ucraina, con particolare attenzione a ciò che è appena accaduto a Kherson, perché stiamo vedendo molte e diverse interpretazioni. Secondo l’Occidente, i Russi sono stati scacciati, mentre i Russi dicono: “No, è stata solo una ritirata tattica e ritorneremo presto.”

Macgregor. Beh, torniamo indietro e rendiamoci conto che la struttura militare che Putin e il suo governo hanno costruito negli ultimi 15-20 anni è stata concepita principalmente per difendere la Russia. Non è stata progettata per una guerra di conquista contro Paesi confinanti e, secondo me, [l’Occidente] non ha capito che la riduzione delle dimensioni e il cambiamento di orientamento [dell’esercito russo] lo rendevano molto diverso da quello che esisteva all’epoca dell’Unione Sovietica. Putin, tra l’altro, aveva iniziato l’intervento in Ucraina orientale basandosi su una serie di presupposti che non erano validi, ma che all’epoca riteneva tali. Aveva affermato di non voler uccidere civili, di non voler distruggere le infrastrutture, anzi di avere intenzione di condurre una campagna molto limitata perché l’interesse principale della Russia era distruggere questi elementi radicali nell’est del Paese, ponendo così fine alla forza ostile costruita dagli Stati Uniti e dalla NATO nell’Ucraina orientale e giungere ad un qualche tipo di accordo che avesse consentito una pari rappresentanza di fronte alla legge per la popolazione di lingua russa che vive in Ucraina. Aveva pensato: “Stiamo combattendo contro un Paese slavo fratello e non vogliamo che questo conflitto duri più dello stretto necessario.” Secondo me pensava di avere a Kiev e a Washington dei partner con cui poter negoziare sul serio. Si sbagliava. Ora tutto è cambiato e i cambiamenti sono iniziati questa estate. Parlo delle decisioni prese ad agosto su come affrontare il resto della campagna ed ora [con l’arruolamento di altri 300.000 soldati russi] ci troviamo di fronte ad una forza totale di quasi 700.000 uomini che circondano l’Ucraina, con la forte probabilità che l’offensiva russa inizi nelle prossime settimane, quando il terreno si congelerà completamente e i Russi riterranno di essere pronti si muoveranno e daranno il colpo di grazia a questo Stato ucraino.

Non prendiamoci in giro, il regime di Kiev sarà probabilmente annientato insieme al resto delle sue forze armate, che, col tempo, si sono sempre più radicalizzate, al punto che questi cosiddetti nazisti e i loro sostenitori non solo uccidono i Russi, ma anche la loro stessa gente e, come abbiamo visto di recente, anche truppe polacche che combattevano in Ucraina indossando l’uniforme ucraina. La situazione si è deteriorata. I Russi avrebbero esaurito le munizioni, credo fin dal primo giorno di guerra, secondo la propaganda, e gli Ucraini sono ancora in marcia per la vittoria. Beh, sono tutte sciocchezze. I Russi ora si stanno mobilitando per portare a termine questo conflitto. L’errore più grande che potremmo fare in Occidente è farci coinvolgere. Abbiamo fatto abbastanza danni e credo che quello che vedremo sarà esattamente ciò che ho descritto: la totale distruzione dello Stato ucraino. Cosa succederà dopo non lo so. Sono abbastanza sicuro che i Russi non vorranno rimanere nell’Ucraina occidentale, che è il cuore dell’Ucraina e dove vivono i veri Ucraini. I Russi non sono interessati ad una cosa del genere. I Russi probabilmente si ritireranno nella parte alta del fiume, ma, per quanto riguarda Kherson, Kherson è sempre stata russa. Odessa è stata fondata dai Russi, anche se si potrebbe dare un po’ di merito ai Tedeschi, che erano certamente al servizio di Caterina la Grande, e che avevano partecipato alla costruzione di molte di queste città, insieme a Inglesi, Scozzesi e Olandesi. Siamo sinceri, il punto fondamentale è che questa regione è sempre stata russa, non è mai stata ucraina, il vero “cuore dell’Ucraina” è più a nord, a nord del Mar Nero. I Russi riconquisteranno Kherson e riconquisteranno anche Kharkov. Queste sono città storicamente russe, ma i Russi non sono interessati al resto del Paese.

Spero solo che gli Ucraini permettano la nascita di un nuovo governo con un nuovo atteggiamento, in modo da poter porre fine a questa situazione, perché, francamente, noi Americani abbiamo deluso il mondo. È la prima volta nella nostra storia, sicuramente dalla Seconda Guerra Mondiale, che non siamo intervenuti immediatamente per porre fine ad un conflitto che coinvolgeva la Russia. Abbiamo sempre lavorato instancabilmente per trovare una via d’uscita da un possibile conflitto con la Russia e mai prima d’ora avevamo avuto un governo che aveva cercato il conflitto con la Russia e la tragedia, ovviamente, è che abbiamo sovvenzionato e costruito nell’Ucraina orientale questa tremenda forza che, nonostante sia stata abbondantemente, stiamo continuando a sostenere e le vittime principali sono ovviamente gli Ucraini. Stanno morendo in gran numero. I Polacchi devono capirlo. La strada da seguire non è la guerra con la Russia.

Votum TV. Quindi, secondo lei, sono assurde le dichiarazioni di quelli che dicono: “un po’ di tempo in più e un po’ di armi in più cambieranno la situazione.” Che poi, più tempo e più armi sono le cose che Zelensky continua a chiedere.

Macgregor. Se si guarda agli attacchi, lo schema degli attacchi che sono iniziati da quando il generale Surovikin ha preso il comando, sono molto diversi da quelli visti in precedenza. In Russia, nei primi mesi, ci si chiedeva perché non erano stati distrutti i ponti, perché non era stata attaccata la rete dei trasporti, la rete elettrica, l’infrastruttura energetica, le installazioni militari ucraine, e così via. Ebbene, ora queste cose stanno accadendo. L’Ucraina non può più produrre combustibile per razzi, è stato tutto distrutto. L’Ucraina sta finendo il gasolio, non può illuminare e riscaldare le città perché non ha più energia. Questa situazione continuerà fino a quando il popolo ucraino sarà davvero affamato, congelato e senza speranza e allora inizierà l’offensiva russa, che sarà devastante. Ora stanno trattando l’Ucraina come un vero e proprio nemico, mentre prima non lo facevano e questo fatto non viene compreso in Occidente.

Votum TV… a me sembra che se si guarda, ad esempio, alla guerra strategica, alle campagne aeree strategiche recenti, lei personalmente era andato in Iraq nel ’91. Insomma, sembra che tutto questo faccia parte delle regole della guerra, o sbaglio?

Macgregor. Ha assolutamente ragione e, durante la Seconda Guerra Mondiale, probabilmente il compito più importante portato a termine dall’aviazione americana era stata la distruzione della capacità produttiva di carburante della Germania, che praticamente consentiva alla Wermacht di continuare a combattere. Quando i Sovietici avevano lanciato l’Operazione Bagration, nel giugno 1944, i Tedeschi non avevano quasi più carburante. In altre parole, i loro aerei avevano due ore di autonomia e poi dovevano atterrare. Sul terreno tutto era trainato da cavalli, non perché i Tedeschi non si fossero completamente modernizzati, ma perché non avevano più carburante. Trainavano l’artiglieria con i cavalli e i carri armati avevano forse solo un giorno, un giorno e mezzo di autonomia. Questo è il punto in cui si trova l’Ucraina ora; è una tattica ben precisa. Lo avevamo fatto con i Tedeschi, lo abbiamo rifatto nei Balcani con i Serbi, non è un crimine di guerra, è una misura prudente che chiunque prenderebbe in guerra. Quindi, stiamo osservando i Russi che fanno esattamente quello che abbiamo fatto o che faremmo noi.

Votum TV. In questo momento, in un contesto storico più ampio, sappiamo che Putin ha detto fin dall’inizio che la ragione principale di tutto questo riguarda l’espansione della NATO, che l’intervento militare ha lo scopo di fermare l’espansione della NATO iniziata alla fine degli anni ’90. So che lei è stato a Bruxelles e ha conosciuto il generale Wesley Clark. Col senno di poi e tenendo conto dell’opinione di molti altri stimati statisti americani, come il compianto George F. Kennan, le chiedo se questo è vero (questo potrebbe sembrare un paradosso a molti dei nostri telespettatori, ma credo che, se la si valuta in termini di conseguenze, questa domanda la si debba porre). Secondo lei, l’espansione della NATO iniziata alla fine degli anni ‘90 era stata una mossa prudente da parte degli Stati Uniti?

Macgregor. No, non credo lo sia stata e quando ero [a Bruxelles] la questione era emersa, c’erano state molte discussioni interessanti e avevo avuto il privilegio di parlare privatamente con ufficiali molto anziani delle forze armate tedesche e avevo chiesto loro a bruciapelo: “Cosa ne pensate?” e tutti credevano fermamente che lo scopo della NATO in Europa fosse quello di prevenire un’altra guerra in Europa, questo è ciò che credevano. Così avevo chiesto: “Ma portare la Polonia nella NATO aiuta o danneggia questa iniziativa?” [I Tedeschi] erano convinti che, visto quello che era successo alla Polonia in passato, far entrare la Polonia nella NATO, in questa Alleanza Occidentale, era qualcosa che [in quanto Tedeschi] erano assolutamente obbligati a fare per aiutare la Polonia. Quando i Polacchi si erano detti interessati ai territori persi durante la Seconda Guerra Mondiale, l’atteggiamento tedesco era stato: “Ci siamo messi il cuore in pace per le nostre perdite territoriali e siamo sicuri che lo faranno anche i Polacchi.” All’epoca avevo sentito dire cose diverse dai Polacchi e, certamente, avevo sentito cose diverse dagli Ungheresi, che continuavano a parlare delle terre della Corona di Santo Stefano, e questo era l’atteggiamento da parte europea.

Da parte americana, non era pensato alla storia, alla cultura, alla religione, alla lingua, a nulla. All’America, alla leadership americana non importava nulla di tutto ciò. In altre parole, indipendentemente dalla storia passata della Lituania polacca, del Regno di Prussia, del Regno d’Ungheria, dell’Impero asburgico, nulla di tutto ciò faceva la benchè minima differenza. Non c’era la volontà di guardare alle radici, alle origini delle varie popolazioni e di capire i loro interessi. Avevano detto che lo stavamo facendo per sostenere una “rivoluzione democratica” che, alla fine, sarebbe arrivata fino a Mosca. Ricordo di aver sentito questi discorsi. Li avevo guardati e avevo detto: “Non so che tipo di allucinogeni stiate prendendo, voi non sapete nulla delle persone che vivono in questi Paesi e quali sono i loro interessi. Oh, non importa, saranno tutti felici in questa democrazia utopica di perfetta diversità.” Era una cosa completamente irrazionale, ma questa era la prospettiva americana.

Votum TV. Quindi, in questo contesto, non credo che nessun presidente del periodo della Guerra Fredda, da Truman a Reagan, avrebbe mai contemplato che gli Stati Uniti sarebbero stati sull’orlo di una guerra potenzialmente nucleare a causa dell’adesione dell’Ucraina alla NATO. Non credo che le sia mai capitata una situazione del genere.

Macgregor. Sembra impossibile ma, lo ripeto, ciò che pensavano gli Europei e ciò che pensavano gli Americani erano due cose molto diverse. Si era trattato di una drammatica divergenza di opinioni e di percezioni. Il suo pubblico deve capirlo e credo che la situazione attuale sia qualcosa che avevo previsto a gennaio, quando avevo avuto una conversazione online con Dmitry Socoff [?] a Washington e avevo detto che, secondo me, questo conflitto sarebbe durato ben più di qualche mese. Questo conflitto distruggerà la NATO e penso che siamo a buon punto, soprattutto perché, come lei sa, ho fonti molto valide in Germania e le cose che sento dai Tedeschi sono spaventose. Penso che distruggendo il collegamento Nordstream con la Russia e poi, in ultima analisi, con questa guerra, [noi Americani] abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per espanderci in Ucraina. I Tedeschi sono pronti ad allontanarsi da noi. Penso che ora assisteremo ad una sorta di restaurazione o ad una fase di riavvicinamento tra Mosca e Berlino, come quelle che abbiamo già visto verificarsi storicamente e che si supponeva fosse quello che tutti dicevano di voler evitare.

Ora sta per accadere, assolutamente, e molti Tedeschi sono infuriati con il governo polacco che continua a battere i tamburi di guerra. I Tedeschi non capiscono il perché e anch’io continuo a chiedermelo. Lo chiedo sempre quando sento qualcuno che dice: “Non è forse un bene che stiamo indebolendo la Russia? La Russia è uno Stato nemico.” E io rispondo: “Davvero? La Russia non è più l’Unione Sovietica. La Russia sta forse ammassando eserciti per invadere l’Europa occidentale? No, ovviamente no. Che cosa sta facendo la Russia per meritare di essere distrutta?” Di solito ottengo questa risposta: “Beh, sono cattivi, sono antidemocratici.” Gran parte del mondo è antidemocratico, lo è sempre stato e probabilmente lo sarà sempre. È una sfortunata serie di circostanze e credo che i Polacchi, in larga misura, siano caduti in questa trappola e devono uscirne. Devono capire una volta per tutte quali sono i loro interessi, quali sono gli interessi della Polonia. L’interesse della Polonia coincide davvero con quello che vuole il governo di Kiev? È questo che vogliono? Sono uniti? Sono dalla stessa parte e si battono per le stesse cose? Non credo.

Votum TV. Credo che molti dei nostri telespettatori siano d’accordo con quanto ha detto l’ex direttore della CIA, il generale Petraeus, qualche settimana fa. Si è parlato di una coalizione dei volenterosi. Come lei ben sa, una piccolo contingente, ufficialmente al di fuori della NATO potrebbe fare il suo ingresso in Ucraina, sto parlando di Rumeni, Polacchi e del 101° Aviotrasportato americano. So che ne ha parlato nelle sue precedenti interviste. Ha sentito qualcosa di nuovo al riguardo, ci sono nuovi sviluppi o è stato fatto un passo indietro dopo la caduta del missile ucraino in Polonia?

Macgregor. Penso che, per il momento, sia tutto fermo e credo che questo sia uno dei motivi per cui il generale Milley, il capo degli Stati Maggiori Riuniti, aveva fatto trapelare i suoi commenti al New York Times, commenti che, tra l’altro, ora ha smentito e ritrattato. La gente non capisce che i generali a quattro stelle che arrivano al vertice degli Stati Maggiori Riuniti non vengono mai scelti per la competenza o l’intelligenza dimostrata, ma per la loro disponibilità a dire o fare tutto ciò che vogliono i politici. È un peccato, ma è la verità e credo che Milley stesse diventando molto preoccupato perché io non conosco nessuno ai vertici delle forze armate statunitensi che pensi che sarebbe una buona idea per le forze polacche, americane e magari rumene entrare nell’Ucraina occidentale. Se lo facessero saremmo in guerra con la Russia e la vera domanda è “perché dovremmo voler entrare in guerra con la Russia?” Credo che la maggior parte delle persone all’interno del Dipartimento della Difesa abbia detto “beh, non possiamo farlo, non siamo preparati per una cosa del genere.” Un mio amico, un generale in pensione dell’esercito francese, mi ha detto: “Doug, l’esercito francese ha munizioni per quattro giorni, l’unica cosa che l’esercito francese potrebbe fare è un safari in Nord Africa.”

Beh, questo descrive la maggior parte degli eserciti NATO, la domanda infatti è quante munizioni abbiamo noi a disposizione. Sappiamo che le nostre scorte belliche sono state gravemente ridotte per rifornire gli Ucraini. Gli Ucraini sparano in media 7.000 proiettili d’artiglieria al giorno, i Russi 20.000. I Russi non stanno finendo le munizioni, no, non le finiranno, la loro industria è completamente attrezzata e ora c’è stata questa mobilitazione. Insomma, abbiamo a che fare con un avversario che è inequivocabilmente mobilitato e preparato a combattere e noi non lo siamo. Naturalmente, la gente ha detto che questa Coalizione dei Volenterosi è una cattiva idea, ma questo lo dicono dietro le quinte e poi perché dovremmo avere una Coalizione dei Volenterosi? La maggior parte dei Paesi NATO non è interessata a questo e non ha nessuna intenzione di aderire. Se si va in Spagna, in Italia, in Portogallo, in Grecia, persino in Francia, dietro le quinte la gente dice che è una cosa ridicola. Allora, perché la appoggiamo pubblicamente? Perché la gente vuole essere amica degli Stati Uniti, ma noi abbiamo spinto la cosa all’estremo e credo che, ad un certo punto, la gente dirà “al diavolo Washington” e questo non è nell’interesse del popolo americano. Penso che ci siamo molto vicini ed è un peccato, perché non era questo che volevamo all’inizio.

Votum TV. È un bene che lei abbia menzionato Milley, perché durante la sua recente conferenza stampa ha dichiarato in modo molto categorico che l’esercito degli Stati Uniti rimarrà il numero uno e che nessuno supererà gli Americani. In Polonia e nella NATO, gran parte dell’atteggiamento nei confronti di Mosca si basa sul presupposto che, avendo gli Stati Uniti alle spalle, nessuno può farci del male e quindi si tende a voler provocare i Russi perché è certo che lo Zio Sam ci difenderà. Penso che lei sia molto ben informato sulle condizioni delle forze armate statunitensi e vorrei che dicesse al pubblico polacco che cosa possiamo aspettarci da parte americana se, Dio non voglia, dovesse iniziare una guerra totale.

Macgregor. La prima cosa da tenere a mente è che probabilmente spenderemo sempre più soldi di tutti gli altri. Purtroppo i soldi spesi non equivalgono alla capacità militare e questo purtroppo non è molto chiaro. Le nostre forze sono, in realtà, piuttosto mal messe, abbiamo una quantità inesauribile di generali e ammiragli, ma relativamente poche persone che combattono davvero e questo è un problema. Abbiamo enormi difficoltà a trovare reclute per un esercito che dovrebbe sostenere il peso di una guerra contro la Russia. Non possiamo mantenere più di 475.000 persone e di queste forse solo 150.000 o 160.000 in unità combattenti. Se cercassimo di mobilitare la Guardia Nazionale o le riserve ci scontreremmo con una forte opposizione. Queste truppe sono state logorate e mal gestite, a mio parere, negli ultimi 22 anni di conflitti in Medio Oriente, questa forza è stanca, logorata ed esausta, ma c’è qualcosa di molto più importante di tutto questo. Innanzitutto né noi né i Russi vogliamo usare le armi nucleari. Ovviamente i Russi non ne hanno bisogno, possono raggiungere i loro obiettivi senza di esse. Spero che non si prenda più in considerazione l’idea di usarle in qualsiasi circostanza. Il nostro presidente ha incautamente firmato un documento che, di fatto, fa marcia indietro rispetto al nostro divieto de facto di usare le armi atomiche in prima battuta.

A mio parere, è stato un errore: se dovessimo ricorrere all’uso di armi nucleari, tutto si aggraverebbe rapidamente e la civiltà come la conosciamo si estinguerebbe. Questo lascia come unica alternativa un conflitto convenzionale ad alta intensità. Cosa possiamo fare? Beh, le cose sono cambiate dal 1945 e il suo pubblico deve capirlo. L’evoluzione della sorveglianza aerea e satellitare, sulla terra e in mare e i precisi e ipertecnologici sistemi d’arma stand-off, fanno sì che quando si lancia, per esempio, un missile da crociera con una testata esplosiva di 1.000 chilogrammi dal territorio russo, esso colpirà un obiettivo, per esempio, a Lisbona, in Portogallo, con grande precisione e se ne possono lanciare centinaia, se non migliaia, in tutta Europa. Se ci spostiamo nell’Atlantico, i sottomarini russi finiranno per ostacolare il movimento di qualsiasi forza statunitense che cerchi di consolidare la nostra posizione sul continente europeo. Non possiamo retrocedere nel tempo a 80 o 85 anni fa, siamo nel presente. Siamo limitati in ciò che possiamo fare ed è per questo che il presidente Trump aveva detto che gli Europei devono essere i loro primi soccorritori. In altre parole, se scommettete sul nostro arrivo tempestivo state commettendo un errore, perché oggi è tecnologicamente troppo facile per qualsiasi grande potenza interferire con il movimento di forze e rifornimenti dagli Stati Uniti all’Europa. Perciò non possiamo fare quello che avevamo fatto negli anni ’40, ovvero passare due anni a sconfiggere la minaccia sottomarina tedesca prima di raggiungere l’Europa.

Non funzionerà, certamente non funzionerà con i Russi, ma, lo ripeto, i Russi questo lo sanno, non sono interessati ad una guerra contro noi, vogliono davvero fare affari con noi, vorrebbero fare affari con la Germania e credo che vorrebbero fare affari con la Polonia. Dobbiamo liberarci di questa atmosfera velenosa, che non fa altro che coltivare odio e ostilità sulla base di atteggiamenti e idee che non si adattano più all’era moderna. Dobbiamo superare queste vecchie ferite, queste vecchie frustrazioni. Non significa che dobbiamo dimenticarle, non significa che dobbiamo smettere di ricordare i sacrifici delle persone che ci hanno preceduto, ma dobbiamo vivere in questo mondo di oggi con un insieme diverso di persone e andare avanti e penso che questo sia qualcosa che questa Amministrazione non è riuscita a fare. Ha cercato di trascinarci tutti in una nuova Guerra Fredda. La maggior parte degli Americani non vuole tornarci. Io, di certo, non lo voglio.

Votum TV. Giusto, è un bene che abbia menzionato Trump. Orban ha recentemente dichiarato che, se Angela Merkel fosse ancora al potere e Donald Trump alla Casa Bianca, questa guerra probabilmente non sarebbe scoppiata. Dal suo punto di vista, come pensa che Trump avrebbe affrontato la situazione nel suo evolversi, almeno a partire dal dicembre dello scorso anno, quando Putin aveva chiesto quelle garanzie di sicurezza per la Russia.

Macgregor. Innanzitutto, credo che il signor Orban stia dando troppo credito ad Angela Merkel. A me non sembra che abbia fatto nulla di veramente positivo per la Germania e sempre più Tedeschi vedono il suo mandato come un periodo di grave decadenza e credo che, alla fine, la considereranno una traditrice degli interessi nazionali tedeschi. Quindi dimentichiamo Angela Merkel. Credo che Donald Trump abbia avuto a che fare con una serie di persone che si sono sempre opposte a lui. Non c’è bisogno che lo spieghi alla maggior parte dei suoi telespettatori, ma siamo sinceri: aveva nominato persone che, fin dal primo giorno, avevano iniziato a sabotare e a sovvertire la sua politica, ma se fosse stato ancora presidente quando era iniziato tutto questo, come lei ha detto, nel dicembre dello scorso anno, penso che sicuramente Donald Trump avrebbe subito chiamato il presidente della Russia, chiedendo un incontro per poter parlare con lui e scoprire quali fossero esattamente le sue richieste. Ad essere sinceri, penso che avrebbe accettato la neutralità dell’Ucraina, immediatamente.

Non era mai stato molto entusiasta della NATO come arma offensiva, ricordate, lui, come gli Europei, pensava che la NATO fosse un’alleanza difensiva. Non era stato molto entusiasta del bombardamento della Serbia o di un intervento nei Balcani, non era molto entusiasta per il coinvolgimento degli Europei in Afghanistan e in Iraq o in Libia. Quindi, penso che avrebbe immediatamente organizzato una sorta di cessate il fuoco e poi avrebbe chiesto un incontro e che avrebbe poi raggiunto una sorta di accordo e, francamente, avrebbe invitato gli Ucraini (o l’attuale regime, odio dire Ucraini, perché non credo che Zelensky rappresenti tutti gli Ucraini) ad essere sinceri. Si sarebbe rivolto a Zelensky e gli avrebbe detto: “Guarda che se hai intenzione di persistere in questa guerra con la Russia lo farai da solo, noi non ti sosterremo.” Quindi, credo che le cose sarebbero state molto diverse.

Votum TV. Considerando che, come abbiamo appreso ieri, i Repubblicani hanno conquistato la maggioranza alla Camera, come crede sarà il sostegno dell’opinione pubblica americana, nelle prossime settimane, riguardo alla guerra in Ucraina e, se il sostegno continuerà, come pensa che evolverà la situazione per quanto riguarda la possibile influenza dell’opinione pubblica americana sul nuovo Congresso e sul Presidente?

Macgregor. Credo che il suo pubblico debba capire che se si guarda alle 10 priorità più importanti per il cittadino americano medio, non sono nemmeno sicuro che l’Ucraina rientri nella lista. Il nostro attuale problema è vecchio di 30 anni, era nato dopo Desert Storm, negli anni ’90, era iniziato sotto Bill Clinton, ma si potrebbe anche dire che era stato Bush a dare il via con l’intervento in Somalia, da cui tutti lo avevano messo in guardia, compreso il generale Powell. Gli Americani non sono interessati a questi interventi, da nessuna parte, e, di conseguenza, se questi interventi continuano è perché esistono degli sponsor che si comprano il sostegno del Congresso e quelli al Congresso pensano di trarne beneficio sia dal punto di vista finanziario (cosa vera), sia dal punto di vista dell’immagine, per poter dire ‘quanto siamo potenti. Purtroppo, gli Americani questo non lo capiscono e, quando bombardiamo qualcuno da qualche parte, pensano che questo li faccia sembrare grandi. Non è così, ma ci sono persone stupide che la pensano così, quindi, secondo me, questo è il problema e ora l’Ucraina è il posto da qualche parte, e il denaro viene speso e questo è altro denaro che si aggiunge ad un debito sovrano nazionale di 31 trilioni di dollari di cui la maggior parte delle persone non conosce neanche l’esistenza.

Guardano i tassi d’interesse salire, guardano l’inflazione aumentare, guardano il crollo dello Stato di diritto nelle nostre città e lungo i nostri confini, guardano l’invasione di questo Paese da parte di milioni di persone provenienti dai Paesi in via di sviluppo, soprattutto dall’America Latina, e si chiedono: “Che cosa stiamo facendo in Ucraina? Perché le truppe non proteggono i nostri confini? Perché non fermiamo la criminalità? Perché non affrontiamo la questione della prosperità economica? Perché non stiamo rimpatriando, come voleva il presidente Trump, il settore manifatturiero negli Stati Uniti [attualmente delocalizzato in Cina]? Questa gente a Washington è molto brava a distrarre le persone. Dicono che la Cina è la nuova minaccia commerciale, che la Russia è la nuova minaccia sovietica, che l’Isis è la nuova minaccia globale. Continuo a chiedere alla gente se sanno cosa potrebbe successo al Califfato Islamico e nessuno ha una risposta, credono sia sparito. Beh, certo, non tutti sanno che ci sono ancora problemi nel mondo islamico, ma l’intera questione era “come possiamo migliorare la situazione se non facendoci coinvolgere?” e la risposta è che non lo facciamo. Quindi, penso che il problema non sia il popolo americano, il problema, in questo momento, è al Congresso, al Senato, alla Camera, dove si fanno gli interessi degli sponsor. Stamattina, un giornalista importante mi ha chiesto perché la gente fa queste cose e io ho risposto che bisogna scoprire chi sono gli sponsor, scoprire quanti soldi arrivano nelle tasche di questi politici per la loro rielezione, per il loro mantenimento in carica, e che questo avrebbe risposto alla sua domanda.

L’Americano medio non manda milioni di dollari a Washington, bisogna quindi vedere da dove vengono questi soldi e credo che poi tutti i nodi verranno al pettine. Guardate il disastro di FTX che coinvolge questa criptovaluta e l’individuo che ne è coinvolto, che è ovviamente un grande sostenitore del signor Zelensky (che novità) e Zelensky che ha investito in FTX il denaro che gli avevamo mandato a Kiev e ora scopriamo che questo fa sembrare l’affare Enron come uno spettacolo secondario. Non sappiamo nemmeno con certezza quante centinaia di miliardi di dollari siano stati persi in questa impresa, ma chi ne ha beneficiato al Congresso? Ci sono tanti Repubblicani coinvolti in questa vicenda quanti Democratici, ed è per questo che si parla di partito unico, quindi la sintesi è questa: l’atteggiamento dell’America cambierà le cose a Washington? Sì, ma non subito, la situazione si trascinerà fino a quando non sarà chiaro che i Russi avranno schiacciato l’avversario e credo che Mosca abbia capito di non avere molta scelta, di non avere un vero partner negoziale e che qualsiasi offerta sarebbe trattata con grande sospetto. Io, se fossi russo, a questo punto sarei molto riluttante a credere a qualsiasi cosa potremmo dire noi Americani.

Votum TV. Un’ultima domanda, perché si parla molto, ovviamente, dei vertici che si sono appena svolti, dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, della nuova struttura dei BRICS. Sappiamo che molti Paesi stanno presentando domanda di adesione, tra cui Turchia e Arabia Saudita. Per concludere, un’ultima opinione su questo tema. Molte persone sono perplesse e dicono che l’Eurasia e le organizzazioni tipo BRICS non saranno mai una sorta di concorrenza per l’Occidente unito. Ma vediamo che sempre più capitali, sempre più persone, sempre più potenziale tecnologico militare si sviluppano a Est, non in Occidente, che è diventata una zona a dir poco deindustrializzata, e vediamo che l’Europa si sta praticamente suicidando dal punto di vista demografico ed economico, quindi, secondo lei, quale sarà la traiettoria dell’Eurasia rispetto all’Occidente collettivo e, tenendo conto anche di ciò che sta accadendo in Ucraina, l’Est sarà un forte concorrente e probabilmente anche un egemone?

Macgregor. Innanzitutto, le istituzioni che sostengono il potere finanziario occidentale e, in ultima analisi, il dominio finanziario americano non sono riproducibili in Oriente. In altre parole, per costruire il sistema e le varie istituzioni che sostengono il nostro dominio finanziario ci vorrà un po’ di tempo. Non ho dubbi che ci proveranno, e penso anche che, ad un certo punto, ci riusciranno. [Noi Occidentali] siamo sempre stati considerati affidabili, in altre parole: a chi altri affidereste i vostri soldi? Un tempo la gente era pronta ad affidarci il proprio denaro. Ora siamo visti come inaffidabili e truffatori e in gran parte del mondo c’è la tendenza ad allontanarsi da noi. La gente, per esempio, non capisce che se si guarda alla Banca Mondiale, l’abbiamo usata efficacemente per costringere le Nazioni a coltivare le colture che volevamo noi, invece di quelle che volevano loro. Ora, questa può sembrare una cosa di poco conto, ma non lo è se si vive in quei Paesi.

Credo che le persone di tutto il mondo siano stanche di subire la nostra prepotenza e, naturalmente, a questo si aggiunge il trasferimento [al resto del mondo] del nostro enorme debito attraverso il commercio in dollari. Quando tutto questo si romperà, quando cambierà, non lo sa nessuno. Non rapidamente, non nei prossimi sei mesi, probabilmente non nel prossimo anno, ma, alla fine, assolutamente sì. Penso che il cosiddetto Rubicone sia stato attraversato e che la Russia avrà un ruolo in tutto questo, ma i Russi non si illudono. Sanno che non saranno loro la potenza globale e, contrariamente alle credenze popolari, i Cinesi, che vogliono fare soldi, non sono molto propensi a sostituirci. In questo caso, la situazione è molto più eterogenea, ma non credo che, alla fine, nessuno di loro abbia molta possibilità di scelta. India, Cina, Russia, gran parte del mondo in via di sviluppo, il Medio Oriente e l’Asia, si allontaneranno da noi. Certo, potremmo cambiare, cercare di blandire queste persone, rinunciare a questa sorta di egemonia militare permanente nel mondo che usiamo per intimidire e intimorire le persone, ma, nel breve periodo, non credo che accadrà. Non vedo come possa accadere.

[…]

24.11.2022

*Douglas Macgregor, colonnello in pensione, è senior fellow di The American Conservative, è stato consigliere del Segretario alla Difesa nell’amministrazione Trump, è un veterano decorato e ha pubblicato cinque libri.

** I grassetti dell’intervista sono i miei (LL).

LA STRATEGIA USA, VIA NATO, PIANIFICA LE INFRASTRUTTURE MILITARI E CIVILI DEI TERRITORI EUROPEI IN FUNZIONE DEL CONFLITTO CON LA RUSSIA E CON LA CINA. IL CASO DEL TERRITORIO ITALIANO. a cura di Luigi Longo

LA STRATEGIA USA, VIA NATO, PIANIFICA LE INFRASTRUTTURE MILITARI E CIVILI DEI TERRITORI EUROPEI IN FUNZIONE DEL CONFLITTO CON LA RUSSIA E CON LA CINA. IL CASO DEL TERRITORIO ITALIANO.

a cura di Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Antonio Mazzeo, Basi di guerra da nord a sud. L’unità d’Italia rifatta dalla NATO pubblicato sul sito www.marx21.it, del 15/11/2022, che propongo, è interessante perché fa riflettere sul ruolo della NATO come strumento di gestione della pianificazione strategica dei territori europei da parte degli USA. In particolare si sofferma sull’utilizzo del territorio italiano, disseminato di infrastrutture e basi militari (senza considerare quelle segrete), come avamposto delle strategie statunitensi nel Mediterraneo, nei Balcani, nel Vicino, Medio ed Estremo Oriente. Mi interessa sottolineare quattro questioni: la prima, la fase, che corrisponde a quella pre-multicentrica (che dato nel 2011 con l’emergere in maniera chiara delle due potenze mondiali, Cina e Russia, in grado di contrastare l’egemonia mondiale degli USA), dove lo strumento statunitense dell’Unione Europea (UE) era funzionale alle sue strategie, caratterizzata dall’approntamento delle infrastrutture (i corridoi europei) finalizzate alla costruzione di una rete di mobilità per gli scenari di allargamento della NATO nell’Europa centrale e dell’est per costruire quel cordone militare di isolamento e contrasto della Russia (per approfondimenti rimando ai miei scritti su Tav, Corridoio V , NATO e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico; L’americanizzazione del territorio. Appunti per una riflessione; Le infrastrutture militari nella fase multicentrica; I corridoi europei e la strategia USA pubblicati sui siti www.conflittiestrategie.it e www.italiaeilmondo.com); la seconda, il sabotaggio ai gasdotti Nord Stream rappresenta sia un atto di rottura da parte degli USA-UE delle relazioni con la Russia (di tipo prevalentemente economico), sia l’inizio della fase di passaggio dalla fine del progetto statunitense della UE (con il declino del sistema-euro conseguenza del declino del sistema-dollaro) alle relazioni dirette con le singole nazioni europee (iniziata dall’amministrazione di Donald Trump) e la sua sostituzione, di fatto, con il progetto NATO più funzionale alle strategie della fase multicentrica; la terza, il progetto NATO della fase multicentrica comporterà un nuovo equilibrio dinamico con nuove architetture istituzionali sovranazionali che gestiranno l’attuale spazio europeo; nuove organizzazioni territoriali (ne circolano da tempo diverse configurazioni) si prevedono per il futuro dell’Europa, espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi; la quarta, l’assenza della ricerca (pubblica e privata) sia sulle relazioni tra basi militari Usa-Nato e sviluppo locale, regionale, nazionale e internazionale, sia sulle relazioni politiche, militari, industriali, economiche, sociali e culturali nei territori di localizzazione delle basi e delle loro proiezioni nei sistemi di valori territoriali.

Oggi c’è la necessità per l’Italia e per l’Europa (che è bene ricordarlo non è l’Europa delle nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti soprattutto tedeschi) di uscire dalla NATO per costruire la possibilità di una Europa che cessi di << […] continuare a essere un mito, un sogno staccato dalla realtà di popolazioni molteplici e diverse, un continente fatto di europei senza un’Europa>> (Jacques Le Goff, L’Europa raccontata ai ragazzi, Laterza, Roma-Bari, 1996, pag.25) e sia capace di porsi come un piccolo continente di intersezione e di dialogo tra Occidente e Oriente.

<< Nel 1313 […] i nuovi statuti del comune di Treviso trovarono un’immagine efficace per definire la dialettica fra individuo e la collettività […] la società è come un concerto: gli strumenti e le voci sono tutti diversi fra loro, e così dev’essere perché valga la pena di ascoltare la musica; allo stesso modo sono diversi fra loro gli esseri umani, ma se obbediscono alla ragione […] dalla loro diversità risulterà una società armoniosa >> (Alessandro Barbero, Donne, madonne, mercanti e cavalieri. Sei storie medievali, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013, pag. 130). Provo a immaginare l’Europa come un grande concerto: le nazioni sono tutte diverse fra loro, e così deve essere perché valga la pena ascoltare una musica di costruzione, di cambiamento, di coordinamento finalizzata ad una società più sensata e più attenta alle esigenze della maggioranza delle popolazioni.

Chi mette in musica un progetto alternativo di una nuova idea di organizzazione sociale nella fase multicentrica affinchè l’Europa cessi di essere un mito e diventi un piccolo continente autodeterminato in relazione all’Occidente e all’Oriente?

Occorre un soggetto sessuato in grado di offrire una partitura come fondamento solido e meditato per i suoi obiettivi tenendo conto del grande e attuale insegnamento di Karl Marx quando sostiene che << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli. In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!>> (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

 

 

 

 

BASI DI GUERRA DA NORD A SUD. L’UNITÀ D’ITALIA RIFATTA DALLA NATO*

di Antonio Mazzeo**

 

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico.

L’ultima missione di spionaggio sui cieli dell’Europa dell’Est è stata tracciata dai radar lo scorso 14 ottobre. Un Gulfstream E.550 CAEW del 14° Stormo dell’Aeronautica militare italiana dopo essere decollato dallo scalo romano di Pratica d Mare ha raggiunto prima i confini della Polonia con l’Ucraina e poi quelli con l’enclave russa di Kaliningrad. Un’operazione ormai di routine da quando le forze armate di Mosca hanno invaso l’Ucraina. Il velivolo in dotazione ai reparti di volo italiani aveva fatto il suo debutto nelle aree di conflitto l’8 marzo 2022 con una missione d’intelligence nello spazio aereo della Romania fino ai confini con Moldavia e Ucraina e le sempre più agitate e militarizzate acque del Mar Nero. Da allora i Gulfstream E.550 di Pratica di Mare sono uno degli attori più richiesti dai comandi NATO che coordinano le operazioni aeree di sorveglianza e “contenimento” dei reparti di guerra della Federazione russa in territorio ucraino.

Basati sulla piattaforma del jet sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd. (società del gruppo IAI), i velivoli in dotazione all’Aeronautica italiana non sono semplicemente dei “radar volanti”, ma possiedono anche compiti di “gestione” delle missioni alleate nei campi di battaglia e di disturbo delle emissioni elettroniche “nemiche”. “Gli aerei CAEW hanno funzioni di sorveglianza aerea, comando, controllo e comunicazioni, strumentali alla supremazia aerea e al supporto alle forze di terra”, spiega lo Stato maggiore dell’Aeronautica.

“In altre parole, essi sono un assetto di straordinario valore sia per l’Italia che per la NATO per conseguire quella che è definita come Information Superiority, cioè il vantaggio che deriva dall’abilità di raccogliere, processare e trasferire un flusso ininterrotto di informazioni mentre si impedisce al nemico di poter fare lo stesso”.

Non sono solo i sofisticati e costosissimi aerei di produzione israelo-statunitense a consolidare il ruolo di cobelligerante dello scalo militare di Pratica di Mare nel sanguinoso conflitto russo-ucraino. E’ da qui infatti che decollano con sempre più frequenza i velivoli cisterna KC-767A dell’Aeronautica utilizzati per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri italiani e NATO impiegati nella Air Policing Mission anti-russa nello spazio aereo di Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria e delle Repubbliche baltiche. Velivoli cargo dello stesso tipo vengono impiegati da Pratica di Mare anche per trasportare i sistemi d’arma “donati” dal governo italiano alle forze armate ucraine e gli uomini, i mezzi pesanti e gli armamenti destinati ai battaglioni di pronto intervento che la NATO ha insediato a mò di tenaglia alle frontiere occidentali di Russia e Bielorussia (attualmente i reparti italiani d’élite dell’Esercito sono presenti in Ungheria, Bulgaria e Lettonia).

Ma in Italia non c’è solo Pratica di Mare a fare da trampolino di lancio degli assetti aerei impiegati nella pericolosa escalation bellica in Europa orientale e nel Mar Nero. Dalla stazione aeronavale di Sigonella, in Sicilia, con cadenza ormai quotidiana e fin da prima dell’aggressione russa del 24 febbraio scorso, decollano i droni d’intelligence AGS della NATO e “Global Hawk” di US Air Force e i nuovi pattugliatori marittimi P8A “Poseidon” di US Navy e delle forze aeronavali di Australia e del Regno Unito. Anch’essi ricoprono le stesse rotte fino ai confini con il territorio ucraino, rumeno, bulgaro e moldavo, per operazioni di intelligence e ricognizione. Così come avviene con i CAEW Gulfstream di Pratica di Mare, i dati sensibili raccolti dai “Poseidon” e dai droni USA e NATO di Sigonella vengono messi a disposizione delle forze armate di Kiev per pianificare le operazioni contro l’invasore russo. Sono cioè una specie di occhio e orecchio non poi tanto segreto contro le manovre dell’esercito di Mosca e una sorta di consigliere-guida della controffensiva ucraina che ha già consentito di ottenere sul campo rilevanti “successi” sugli avversari.

Questi velivoli hanno pure moltiplicato gli interventi nel Mediterraneo orientale in prossimità del porto di Tartus, Siria, utilizzato per le soste tecniche della flotta militare russa. In particolare proprio un pattugliatore P-8A di US Navy è stato protagonista di quella che, per il valore politico-simbolico ma soprattutto per le conseguenze in termini di vite umane, ha rappresentato una delle azioni di guerra più significative e drammatiche del conflitto: l’affondamento dell’incrociatore russo Moskva a largo di Odessa, mercoledì 13 aprile, presumibilmente dopo essere stato colpito dai militari ucraini con uno o più missili anti-nave. Sono ancora fittissimi i misteri sulle dinamiche e sulle unità protagoniste dell’attacco, così come è ancora ignoto il numero delle vittime. E’ tuttavia certo che l’operazione militare contro la nave ammiraglia russa nel Mar Nero è stata “monitorata” e registrata a poche miglia di distanza da un “Poseidon” statunitense decollato dalla stazione aeronavale siciliana.

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico. Dalle Alpi al Canale di Sicilia non c’è comando, centro radar e telecomunicazione, aeroporto e scalo portuale che non ospiti o stia per stia per ospitare milionari cantieri infrastrutturali. La NAS – Naval Air Station di Sigonella è forse l’esempio più eclatante: per ospitare i nuovi pattugliatori “Poseidon” sono state realizzate alcune aree di parcheggio e un maxi-hangar con annesso centro di manutenzione del costo di 26,5 milioni di dollari, inaugurato ufficialmente a metà gennaio 2022.

Nella base siciliana è divenuto pienamente operativo l’AGS – Alliance Ground Surveillance, il sistema avanzato di sorveglianza terrestre e intelligence dell’Alleanza Atlantica basato su cinque grandi velivoli senza pilota RQ-4 “Phoenix” realizzati dal colosso aerospaziale Northrop Grumman.

Questi nuovi droni sono lunghi 14,5 metri e possono volare in tutte le condizioni ambientali e ininterrottamente per più di 30 ore, fino a 18.280 metri di altezza e a una velocità di 575 km/h. Il loro raggio d’azione è di oltre 16.000 km. Inoltre, poche settimana fa, il Dipartimento dell’US Air Force ha firmato un contratto del valore di 177 milioni di dollari con una società controllata dal colosso militare industriale Raytheon Technologies, per migliorare l’efficienza dei 14 terminali mondiali (tra cui Sigonella) inseriti nel sistema High Frequency Global Communications (HFGCS). Le stazioni terrestri dell’HFGCS trasmettono i cosiddetti EAM (messaggi di azione di emergenza) e altri tipi di codici di rilevanza strategica, compresi quelli per la conduzione di un attacco nucleare.

A Vicenza, dopo la realizzazione presso l’ex aeroscalo “Dal Molin” di un enorme complesso militare riservato ai paracadutisti della 173^ Brigata aviotrasportata di US Army, ha preso il via un megaprogetto del valore stimato di 373 milioni di dollari per la realizzazione entro cinque anni di 478 alloggi per il personale militare statunitense e famiglie (villette a schiera e diverse nuove palazzine all’interno della caserma Ederle e del cosiddetto Villaggio della Pace). Sono previste inoltre nuove infrastrutture viarie per rendere più rapido e “sicuro” il collegamento delle basi USA di Vicenza con l’aeroporto NATO di Aviano (Pordenone), sede di alcuni reparti aerei dell’US Air Force dotati dei cacciabombardieri di quarta generazione F-16 a capacità nucleare, nonché utilizzato per i grandi aerei cargo che trasportano i parà della 173^ Brigata verso i maggiori scacchieri di guerra internazionali (recentemente in Iraq e Afghanistan, attualmente in Europa orientale e in Africa). E ad Aviano, così come a Ghedi (Brescia), sono in via di completamento i lavori di “rafforzamento” dei bunker che ospitano le bombe nucleari tattiche B-61 delle forze aeree statunitensi, attualmente in fase di aggiornamento per essere impiegate a bordo dei cacciabombardieri di quinta generazione F-35 in dotazione alle forze USA e italiane.

Bibliche colate di cemento a fini bellici sono previste anche per un’altra città dall’incomparabile patrimonio storico, artistico, architettonico e paesaggistico: Pisa. Secondo quanto previsto dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, in un’area di 73 ettari a Coltano, all’interno del parco regionale di Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli, saranno realizzati innumerevoli caserme e alloggi per militari e famiglie, poligoni di tiro e basi addestrative.

Tre i reparti d’assalto dei Carabinieri che saranno insediati a Coltano ci sono il 1° Reggimento Paracadutisti “Tuscania”, il G.I.S.-Gruppo di Intervento Speciale e il Centro Cinofili, da decenni impiegati nei maggiori teatri di guerra internazionale in azioni di combattimento e nell’addestramento “anti-terrorismo” del personale militare di alcuni ingombranti regimi africani e mediorientali. Il progetto di Pisa è funzionale al rafforzamento del ruolo geo-strategico della regione Toscana per la proiezione extra-area delle forze armate nazionali, USA e NATO. La nuova cittadella dei reparti d’assalto dei Carabinieri si aggiungerà infatti alla grande base di stazionamento dei mezzi pesanti di US Army di Camp Darby, agli aeroporti di Pisa-San Giusto e Grosseto, al porto di Livorno, alle tante caserme dei parà della “Folgore”, al centro di ricerca militare avanzato (già nucleare) di San Piero a Grado, al comando fiorentino della Divisione “Vittorio Veneto” prossimo ad operare come Multinational Division South NATO per gli interventi dell’alleanza nel Mediterraneo e in Africa.

Un hub toscano per la guerra globale che si aggiunge a quelli veneto-friulano (con Vicenza e Aviano); siciliano (Sigonella, il MUOS di Niscemi, la baia di Augusta, lo scalo di Trapani-Birgi e le isole minori di Pantelleria e Lampedusa); pugliese (le basi navali NATO di Taranto e Brindisi, gli aeroporti di Amendola, Gioia del Colle e Galatina); campano (il porto di Napoli e Capodichino, il Comando interalleato di Lago Patria); sardo (gli innumerevoli poligoni sparsi per tutta l’isola, Decimomannu, l’arcipelago della Maddalena). L’Italia armata e ipermilitarizzata per gli interessi strategici del Pentagono e dell’Alleanza Atlantica ma anche per i profitti e i dividendi del complesso militare-industriale nazionale e internazionale.

A esclusivo beneficio delle industrie di morte sorgerà a Torino l’ultimo tempio dedicato ad Ares, dio di tutte le guerre, che convertirà parte del territorio dell’Italia nord-occidentale nell’ennesimo hub militare del paese (in quest’area esistono già il centro di Cameri-Novara per la produzione degli F-35, il quartier generale dei NATO Rapid Deployable Corps di Solbiate Olona, i complessi Leonardo- Agusta a Varese, la base nucleare di Ghedi, le fabbriche di pistole, mitra e fucili nel bresciano). Lo scorso 7 aprile i ministri degli Esteri e della Difesa della NATO hanno approvato un documento strategico che pone le basi del “Defence innovation accelerator for the North Atlantic” (DIANA), cioè l’Acceleratore di innovazione nella difesa per l’Atlantico del Nord), dotato di una prima tranche di un miliardo di euro circa grazie al NATO Innovation Fund, il fondo di investimenti finanziari varato dall’Alleanza. Con il DIANA sarà promossa la ricerca scientifico-tecnologica di centri accademici, start up e piccole e medie imprese sulle cosiddette deep technologies, le tecnologie emergenti che la NATO ha identificato come “prioritarie”: sistemi aerospaziali, intelligenza artificiale, biotecnologie e bioingegneria, computer quantistici, cyber security, motori ipersonici, robotica e sistemi terrestri, navali, aerei e subacquei a pilotaggio remoto, industria navale e delle telecomunicazioni, ecc.

“Gli investimenti e la ricerca del progetto DIANA serviranno a dare vita a quelle tecnologie nascenti che hanno il potere di trasformare la nostra sicurezza nei decenni a venire, rafforzando l’ecosistema dell’innovazione dell’Alleanza e sostenendo la sicurezza del nostro miliardo di cittadini”, ha dichiarato il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. E proprio la città di Torino è stata scelta come prima sede europea degli acceleratori DIANA. L’avvio dell’ambizioso programma è previsto per l’inizio del prossimo anno, quando saranno definiti i progetti da finanziare. In una prima fase la sede di DIANA sarà ospitata in un’area di 9.000 mq ricavata all’interno delle storiche Officine Grandi Riparazioni, il complesso industriale sorto a Torino a fine Ottocento. A partire dal 2026 l’incubatore-acceleratore DIANA sarà trasferito nella Città dell’Aerospazio in via di realizzazione in un’area di 184.000 mq alla periferia ovest del capoluogo piemontese, grazie ad un finanziamento di 300 milioni di euro del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR), più altri 800 milioni che dovrebbero giungere da una settantina di aziende del settore aerospaziale interessate al progetto industriale.

Tra queste ultime in pole position c’è ovviamente l’holding Leonardo SpA, leader nella produzione di sistemi d’arma tecnologicamente avanzati. “Leonardo, azienda partecipata al 30% dal Ministero dell’economia coordinerà tre progetti del nuovo sistema di difesa europeo: il sistema di navigazione satellitare Galileo, finanziato dall’Unione europea con 35,5 milioni di euro; quello di tecnologia sicura Essor, che ha ricevuto 34,6 milioni; e il progetto degli anti-droni Jey Cuas (13 milioni)”, ha riportato l’Indipendente in un ampio servizio pubblicato il 17 luglio 2022. “Una parte degli spazi della città sarà destinata al nuovo campus del Politecnico di Torino, mentre l’altra sarà occupata dagli uffici del programma DIANA e da alcune aree per la sperimentazione di nuove tecnologie di terra e di volo”.

A fianco dei laboratori e degli spazi per le start-up, si insedierà nella Città dell’Aerospazio pure il Business Incubation Centre dell’Agenzia Spaziale Europea. Secondo quanto dichiarato dal ministero della Difesa italiano, verrà messo a disposizione del progetto pure il neo costituito acceleratore Takeoff – Aerospace & Advanced Hardware (una creatura di Cdp Venture Capital, Fondazione CRT e UniCredit) e “saranno rese disponibili le capacità di sperimentare tecnologie innovative” presso il Centro di Supporto e Sperimentazione Navale della Marina Militare di La Spezia e il Centro Italiano Ricerche Aerospaziali (CIRA) di Capua, società partecipata dell’Agenzia Spaziale Italiana, del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Regione Campania.

Un mixer – letteralmente esplosivo – di organizzazioni militari internazionali, grandi, medie e piccole industrie, istituzioni pubbliche e private, banche e gruppi finanziari, autorità statali, regionali e locali, università e centri di ricerca scientifica che farà di Torino la capitale europea delle guerre globali aerospaziali del XXI secolo. Guerre ancor più automatizzate e disumanizzate di quelle a cui abbiamo assistito, impotenti e inorriditi, in questi ultimi decenni.

*I corsivi e i grassetti presenti nell’articolo sono i mei (LL).

**Giornalista e saggista. Ecopacifista e antimilitarista.

 

Trump, ora più che mai!_di Roger Stone

Qui sotto pubblichiamo l’appello lanciato da Roger Stone a sostegno della ricandidatura di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Roger Stone è stato, assieme al Generale Flynn, una figura chiave della prima elezione di Trump. Non tutti lo hanno compreso nel movimento MAGA; forse nemmeno appieno lo stesso Trump, almeno sino a quando lo ha graziato dalla persecuzione giudiziaria allo scadere del suo mandato presidenziale. Lo hanno capito benissimo al contrario i suoi avversari portandolo con ferocia e spietatezza alla rovina economica e ad una condizione di salute precaria. Non ostante, assieme a qualche altro fondatore, abbia scelto di mettersi saggiamente in disparte al momento dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, è rimasto comunque nel mirino spietato dei suoi avversari. Ricordiamo tutti la vergognosa spettacolarità della vera e propria operazione militare che lo ha condotto agli arresti in piena notte nella sua abitazione. Roger Stone è stato un alto funzionario dello stato federale con incarichi chiave sin dalla lontana amministrazione Nixon. Conosce benissimo i meccanismi di funzionamento delle dinamiche politiche americane ed ha intuito, tra i primi, la via del disastro verso la quale stavano conducendo il paese le varie amministrazioni, a partire da quella di Bush Senior e i centri decisori presenti negli apparati nevralgici. A settanta anni Stone getta sul terreno il peso della sua autorevolezza per sostenere ancora una volta Trump e diradare almeno in parte la cortina fumogena stesa sulle candidature alternative, o presunte tali che stanno emergendo. Non conoscendo bene, nei particolari, le dinamiche interne al movimento, nutriamo qualche dubbio, però, sulla giustezza di questa ricandidatura di un personaggio dai limiti, pari alla sua tenacia, evidenti e sulla maturità di eventuali candidature realmente alternative. Tanto più che, alla sua seconda riproposizione, non sembra disporre del sostegno e del supporto di un gruppo ben organizzato, strutturato ed esperto. La dinamica dello scontro politico negli Stati Uniti vive una fase di stallo, ma solo apparente. Di fatto la polarizzazione geografica del conflitto interno si è ulteriormente accentuata con l’ulteriore fattore dirompente di un movimento che continua ad estendersi nei ceti popolari produttivi delle varie etnie. L’alterazione dei risultati elettorali con brogli ormai su scala industriale sta facendo il resto, insinuando il dubbio sulla effettiva efficacia di un impegno politico fondato e dettato esclusivamente sulle scadenze elettorali in un movimento che ha compreso l’importanza di un radicamento nei centri amministrativi e di potere e di una connessione con quelle élites dissenzienti con l’attuale politica avventurista. Il movimento MAGA vive all’interno profonde contraddizioni tra chi punta ad una azione tendente semplicemente a dividere il fronte geopolitico avversario che si sta compattando, più per la costrizione esterna americana che per affinità dei componenti, attorno al polo russo-sino-indiano e chi, mosso probabilmente da una impostazione economicista e un po’ ingenua, tende a ridurre le dinamiche geopolitiche ad una serie di relazioni bilaterali mutevoli. Una interpretazione, quest’ultima, probabilmente accettabile e praticabile solo in una fase temporanea di transizione verso una ricomposizione multipolare degli schieramenti e non a caso sostenuta, paradossalmente, anche dalla attuale leadership cinese. Un aspetto che avrebbe dovuto far riflettere meglio la dirigenza cinese, riguardo al suo comportamento nei confronti di Trump. Un movimento il cui successo, però, potrebbe condurre ad una dinamica meno tragica le relazioni geopolitiche e spostare più all’interno degli Stati Uniti un conflitto che, altrimenti, coinvolgerà il mondo intero. Una classe dirigente e un ceto politico serio e legato agli interessi fondamentali dei paesi europei più importanti dovrebbe sostenere ed agevolare convintamente la strada di questo movimento proprio per gli spazi che un suo successo definitivo aprirebbe ad una condizione più autonoma ed indipendente dell’Europa. Il carattere miserabile, stupido, insipiente e compradore di questi, già visibile in quei quattro anni, sta emergendo, purtroppo, sempre più alla luce del sole condannando, con poche eccezioni, un intero continente al disastro inconsapevole ed autolesionistico a vantaggio di una élite sempre più arroccata. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 

ROGER STONE: TRUMP, ORA PIÙ CHE MAI

Trump non è accettato o sostenuto dai membri titolari di tessera dell’establishment repubblicano di Washington. Questa è una virtù, non una pecca.

 

Nel suo discorso di annuncio alle sua corsa alle presidenziali 2024, un discorso ordinato e perfettamente disciplinato, Donald Trump si è riformulato come un outsider politico pronto a tornare alle guerre politiche di vecchia stagione e a sfidare gli interessi politici e mediatici radicali che hanno sistematicamente ribaltato e neutralizzato il progressi fatti durante la sua prima presidenza.

Quelli del movimento MAGA riescono a percepire, attraverso la narrativa accuratamente orchestrata, implacabile e completamente falsa, la tesi che cerca di incolpare l’ex presidente per la sottoperformance del partito repubblicano nelle elezioni di medio termine. Com’è conveniente che la vittoria relativamente facile del candidato appoggiato da Trump J.D. Vance in Ohio, così come la dura, ma riuscita rielezione del senatore Ron Johnson (forse il più grande difensore di Trump al Senato degli Stati Uniti) in Wisconsin sono così facilmente trascurate dai media.

Quelli della cabala corporativa/governativa/mediatica ora elevano lo spettro di una candidatura del governatore della Florida Ron DeSantis. La scelta di De Santis come principale nemico di Trump è un riconoscimento del fatto che il collegio elettorale dell’America Prima (MAGA) è ancora dominante alla base del Partito Repubblicano. DeSantis, nonostante il suo pedigree, ha governato in Florida seguendo il manuale del MAGA.

L’establishment, che ora cerca di distruggere Trump, ha già riconosciuto la non fattibilità di presentare come alternativa a Trump l’ex vicepresidente Mike Pence o l’ex direttore della CIA e segretario di Stato Mike Pompeo, tutte e due potenziali candidature assolutamente impopolari tra la base di MAGA. L’ascesa di una potenziale candidatura di De Santis, toglie prezioso ossigeno che una delle loro candidature richiederebbe.

L’unico altro potenziale candidato, dietro cui la cabala repubblicana/mediatica poteva schierarsi, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato sostanzialmente neutralizzato da Trump quando l’ex presidente ha tenuto un comizio caloroso a favore di Rubio, in Florida, nel momento in cui  la rielezione del Senatore Rubio era in bilico. La sfida contro la candidata Democratica si presentava problematica poiché la deputata della sinistra radicale; Val Demings era ben finanziata e organizzata. L’intervento di Trump ha tolto dalla pentola bollente Rubio forzando poi Rubio ad essere in debito con Trump e quindi ora fedele all’ex presidente.

Prima del comizio di Trump a Miami, i sondaggi mostravano che Rubio era in vantaggio su Demings di soli tre punti, ma dopo il comizio di Trump, il senatore Rubio ha ottenuto una vittoria finale di 16 punti rispetto alla Demings.

Con Pence e Pompeo che mancano del necessario appeal nella base repubblicana e con Rubio dipendente ora da Trump,altro non rimane che DeSantis.

Ieri sera ho partecipato allo storico annuncio del presidente Trump a Mar-a-Lago della sua candidatura per le presidenziali del 2024. C’era elettricità nell’aria che non vedevo né sentivo dall’inizio del 2016. I media hanno rapidamente sottolineato che mentre io e Mike Liddell, descritti come “i sostenitori di Trump”, eravamo tra il pubblico, nessun membro del nuovo Congresso era presente . Ancora una volta, i media giudicano male l’umore degli elettori;  il fatto che Trump non sia appoggiato o sostenuto da membri tesserati dell’establishment repubblicano di Washington è un pregio, non un difetto.

L’assalto organizzato dall impero mediatico NewsCorp di Rupert Murdoch, tra cui Fox News, il Wall Street Journal e il New York Post, mette in mostra una chiara impressione errata del ruolo svolto da Fox e dalle altre testate giornalistiche di Murdoch nell’ascesa iniziale di Trump.

Fox News ha cercato sistematicamente di promuovere più sfidanti a Trump nelle primarie del 2016. Tuttavia, ha visto svanire quegli sforzi quando hanno scoperto che trasmettere dall’inizio alla fine i comizi di Trump faceva guadagnare gli indici più alti di ascolto mai registrati prima nella storia di Fox News, consentendo così a Murdoch di addebitare molto di più per la pubblicità sulla sue reti. Fox News ha  beneficiato della nomina e dell’elezione di Donald Trump più che Trump abbia beneficiato delle dirette fatte dalle emittenti di Murdoch.

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump potrebbe affrontare coloro che traggono grandi profitti dall’immigrazione illegale e frontiere aperte?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump smaschererà e correggerà la corruzione nelle nostre agenzie di intelligence e negli uffici delle forze dell’ordine, come la CIA e l’FBI?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump organizzerà una campagna nazionale per porre un limite temporale per  i membri eletti del Congresso?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump imporrebbe il divieto agli ex membri del Congresso, o del ramo esecutivo, di esercitare pressioni dopo aver lasciato le alte cariche del governo?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump sfiderà il duopolio bipartitico che sta cercando di cancellare la nostra eredità, cancellare la nostra Costituzione e distruggere le stesse libertà che garantiscono lo stile di vita americano?

Ecco perché sono con Trump, ora più che mai.

 

Roger Stone

“La guerra necessaria. Logiche della dipendenza, di Alessandro Visalli

La guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari. Anche se lascia senza parole, tutto ciò non accade per caso: appena la posizione dei nostri sistemi economici nella catena del valore, o, per dirlo meglio, nella catena dello sfruttamento e dell’estrazione di valore mondiale è stata sfidata, e ciò si è fatto urgente[1], allora abbiamo immediatamente dismesso l’abito del mercante per prendere dagli antichi armadi quello del guerriero e tutta la sua epica. Non appena i nostri privilegi, la possibilità di avere i nostri agi e i nostri giocattoli con poche ore di lavoro (mentre i fattori con i quali sono prodotti derivano da tantissime ore di altri umani meno umani) è stata messa a rischio allora è uscito lo spirito vero dell’Europa. Il pirata Drake, fatto baronetto e poi divenuto parte della schiatta dominante; i tanti avventurieri senza scrupoli ma con tanto coraggio che hanno piegato il mondo; la corazza di Cortez, … Tutto è tornato, anche la nausea.

Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio[2] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l’allineamento del mondo agli standard dell’occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[3] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[4], storicamente necessaria, dei “progressi”[5] della “Ragione”[6] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[7], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata oggi dalla direzione che stanno prendendo i fatti.

Bombardamento di Belgrado, 1999

 

Ci sono molte chiavi possibili per comprendere questo fenomeno. Una risale allo scontro di potenza (ovvero tra “grandi potenze”[8]) che ha un sapore novecentesco inconfondibile. Per chiamare un testimone non sospettabile di amicizia con il nemico, Chas Freeman[9] ha recentemente dichiarato[10] che la guerra tra Ucraina e Russia assomiglia alle guerre per procura tra i blocchi della guerra fredda, come quella del Vietnam o dell’Afghanistan, dove una parte era impegnata e si logorava e l’altra operava in modo indiretto. La parte che agiva tramite il procuratore, fino al suo ultimo uomo, non aveva alcun interesse a porvi fine. In questo caso Washington ha costantemente soffiato sulla brace fino a che è divampato il fuoco. Come scrive nel suo articolo, ha “trascorso gli ultimi otto anni ad addestrare ed equipaggiare le forze ucraine per combattere la Russia e i separatisti a Donetsk e Lugansk. Ha sostenuto con forza la resistenza ucraina all’aggressione russa, suggerendo al contempo che potrebbe opporsi a un accordo ucraino con Mosca, che considera troppo favorevole alla Russia”. Insomma, “queste politiche non mirano a produrre una pace. Mirano a sostenere la guerra finché ci sono ucraini disposti a morire in combattimento con i russi”. Dunque, in sintesi, “nella guerra in Ucraina, abbiamo appena assistito alla fine del periodo successivo alla Guerra Fredda, alla fine del secondo dopoguerra e all’era di Bretton Woods, alla fine della pace in Europa e alla fine del dominio globale euro-americano. Le sanzioni ora divideranno il mondo in ecosistemi in competizione per finanza, tecnologia e commercio. Difficilmente possiamo immaginare le implicazioni di una tale trasformazione.”

Guardando invece la cosa dal punto di vista russo per il politologo russo Dmitrij Trenin[11] la guerra per procura con gli Stati Uniti è da inserire in un complessivo processo di cambiamento dell’ordine mondiale che vede il baricentro di attività economica spostarsi dall’Euro-Atlantico all’Indo-Pacifico. In questa crisi si sta abbandonando l’eredità di Pietro il Grande, ovvero il desiderio Russo di essere parte integrante della civiltà paneuropea che è andato avanti sino al “primo” Putin (il quale chiese di entrare nella Ue e nella Nato). Il fallimento di questi tentativi deriva però dal semplice fatto che “gli edifici europei sono stati costruiti ed occupati sotto la protezione degli Stati Uniti, e non della Russia”. Questa, come dice, “non è colpa di nessuna delle parti. È impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali; ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica” (questa è la frase chiave, sulla quale torneremo nel seguito).

E’ sempre più evidente che i paesi ‘non bianchi’ (secondo la razzistica tassonomia implicita, e talvolta non solo, occidentale[12]) emergono alla consapevolezza che la pluralità di civiltà esistenti ha pieno diritto di considerarsi alla pari con quella occidentale. Le civiltà cinese, indiana e islamica si stanno quindi alzando e rifiutano la visione gerarchica lungo il maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’[13]. Di fronte a questa contrapposizione, anche culturale, la guerra ibrida[14] in corso nasconde e manifesta ad un tempo grumi concreti di interesse, di classe e di gruppo. Specificamente l’interesse dell’Occidente (anzi, di uno degli occidenti) a conservare la sua capacità di aspirare dal mondo il surplus, tramite il commercio ineguale e tramite l’interconnessione finanziaria, e sostenere in tal modo un tenore di vita che eccede quello del resto dell’umanità. Interessi che sono per questo accuratamente nascosti sotto più strati sovrapposti di ideologia e di sentimenti apparentemente umani.

 

Perché, però, Trenin dice che è impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali in quanto ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica? Uno schema analitico[15] proposto a partire dagli anni cinquanta del novecento (con antesignani negli anni venti e trenta) e poi sommerso negli anni novanta dalla fine della guerra fredda può fornire qualche indizio. Esso individuava nella “metropoli” una tendenza alla concentrazione e sottoinvestimento tenuta a tratti sotto controllo da specifiche ‘controtendenze’ le quali coinvolgono le “periferie”. Le principali nel secondo dopoguerra furono la guerra fredda (con l’espansione del sistema militare-industriale e i corposi investimenti pubblici connessi), l’esportazione di capitale per sfruttare lavoro e materie prime a basso prezzo, e la cetomedizzazione[16], che contribuì a spegnere le tensioni politiche create dalle numerose ‘periferie’ interne. La nozione di ‘periferia’ e di ‘centro’ (o “metropoli”) era una delle chiavi più importanti ed anche una delle più delicate della teoria e viene ripresa spesso nel dibattito contemporaneo.

Uno dei punti chiave era che il dirottamento del surplus su spese improduttive (il cui massimo esempio è in quelle militari), lungi dall’essere uno spreco ed una distorsione, diventa una necessità sistemica che serve nel breve termine ad impedire la stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale. Dunque, sempre nel breve termine, esso rende possibile la prosecuzione dell’accumulazione. Le merci e i servizi prodotti, infatti, nelle condizioni monopolistiche hanno una strutturale difficoltà a trovare collocazione in un mercato interno reso debole dall’eccesso di estrazione di surplus e di concentrazione dei profitti e dei capitali. Ne deriva la tendenza alla successione di fasi di espansione e destabilizzazione, e di conseguente l’insorgere ciclico di fasi di disordine sistemico (anche politico), che caratterizzano la fisiologia del sistema capitalistico esteso.

La tesi, avanzata già alla fine degli anni Quaranta, era che le ‘ragioni di scambio’[17] tra paesi sviluppati e non tendono, nel lungo periodo, a sfavorire i paesi esportatori di prodotti primari in favore di quelli che esportano prodotti manifatturati. È la debolezza relativa del mondo del lavoro nelle periferie a determinare questo effetto, per il quale i prodotti industriali contengono, a parità di prezzo, molto meno lavoro e meno fattori (energia, materia) di quelli con i quali sono scambiati. Di qui la prescrizione classica di procedere ad un’industrializzazione forzata. La prescrizione economica principale di tutte le diramazioni della teoria è la cosiddetta “disconnessione[18]. Ovvero, partendo dal riconoscimento dell’esistenza di una ‘metropoli’ sfruttatrice e di una ‘periferia’ sfruttata, della necessità di sviluppo industriale autonomo e della ‘sostituzione delle importazioni[19]. Una prescrizione per molti versi semplicistica che è fallita ovunque non erano presenti le condizioni di forza (ma non ovunque).

 

La mondializzazione e l’Ordine Mondiale a guida occidentale (dell’Occidente collettivo) emerse proprio dopo la decolonizzazione e gli sforzi falliti di “sostituire le importazioni”; molti paesi ex coloniali a quel punto avevano infrastrutture ed erano disponibili ad avviare cicli di industrializzazione molto più solidi. I capitali (anche quelli riciclati dal saccheggio dell’est) vennero quindi proiettati nelle ex periferie con maggiore impeto ed esplose in pochi anni l’esercito di riserva mondiale. La base produttiva si sparpagliò in tutte le aree di minore resistenza. Nel modello che si affermò la domanda era, peraltro, ormai garantita dalla fluidità ed estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nacque così il sistema della “sostituzione delle esportazioni”, fragile e basato sulla liquidità, che da allora deve correre sempre più forte per restare sostanzialmente fermo. In questo contesto in via di formazione, dalla metà degli anni Ottanta, a Birmingham la “banda dei quattro” (Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, André Gunder Frank e Samir Amin) elaborò la “teoria dei sistemi mondo”. Il focus analitico si spostò dagli stati-nazione al sistema globale. Negli anni Novanta la teoria si consolidò. Venne proposta da Giovanni Arrighi una teoria dei cicli egemonici[20] non economicista, che individua come fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra due tecnologie del potere reciprocamente estranee: una ‘capitalista’ ed una ‘territorialista’. Lo schema analitico postulava l’esistenza di grandi cicli di accumulazione, composti idealtipicamente da una fase di espansione produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando ogni volta un sistema funzionalmente interconnesso. Quando i cicli vanno ad esaurimento la soluzione delle contraddizioni avviene tramite la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte di un nuovo Stato capitalistico egemonico che ha un diverso e più efficace modello. Nel complesso si passa quindi da un modello fondato sulla trasformazione DTD’ ad una TDT’, passando da un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”, nel senso di sfruttabili.

 

Secondo le ‘teorie della dipendenza’, che pure hanno andamento plurimo e notevoli divergenze interne, insomma, il capitalismo è un movimento che genera sempre una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di classe. Crea e vive di squilibri. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi sbocchi alle eccedenze di capitale che generano i “centri” (monopolistici)[21]. Ma questo determina una cronica instabilità e genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi costantemente e necessariamente economie subalterne, e quelle che Harvey chiama “coerenze strutturate incomplete” (appunto perché dipendenti). Contemporaneamente genera e sostiene alleanze di classe nelle quali quelle superiori sono di necessità estese a livello internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo (esterno ed interno) ed imperialismo. Il punto è che questo movimento a spirale, oltre ad essere costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce la concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su quelle di provenienza. Per questa ragione la geopolitica del capitalismo è sempre alla ricerca di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello sfruttamento di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca, parossistica, di ‘soluzioni’ spaziali attiva il circolo vizioso della competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio di precipitare nella violenza (anzi, è in se stesso violenza potenziale, trattenuta e minacciata).

E’ importante sottolineare che la tendenza intrinseca del capitalismo a generare scontri tra aree e dipendenze “coloniali” non è una questione di disposizione morale, ma una necessità. Non è un complotto ma un funzionamento. L’accumulazione del capitale è, infatti, in buona misura una questione geografica. Il problema è che, nel quadro di questa teoria, l’interconnessione delle dinamiche di espansione e contrazione produce oggi l’esaurimento della soluzione (alle crisi degli anni Sessanta e settanta) della finanziarizzazione e poi mondializzazione e quindi l’accelerazione di una transizione in corso da molto tempo. Transizione che è cresciuta all’ombra della fase ‘unipolare’ (quando l’egemone statunitense si è progressivamente mutato in dominatore) fino ad emergere negli ultimi anni con la doppia sfida della Cina e della Russia (e degli altri). Assistiamo perciò all’emergere di nuove potenziali costellazioni di potenza, e di una nuova egemonia possibile, che determina aree di crisi ad elevato rischio di perdita di controllo. Perdita di controllo che oggi abbiamo sotto i nostri occhi, quando la ‘violenza trattenuta e minacciata’ tende ad uscire dalle caserme.

Più concretamente, l’esaurimento, da vedere come perdita di equilibrio, del ciclo del debito sembra imminente. Le istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali da tempo è caduto il peso di salvare il sistema dal quale dipendono per intero le élite e buona parte dei sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno crescente fatica a garantire la liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe sul tappeto e sempre meno tempo è in tal modo “comprato”[22]. Tutto ciò è stato enormemente accelerato dalla crisi pandemica[23]. Dall’altra parte sono in corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[24]. Si tratta di un livello sotterraneo, ma decisivo, di tensione che spinge per mutamenti radicali a causa della difficoltà alla riproduzione del capitale, dei crescenti rischi di controllo, della dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste forze convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[25] e quindi delle strutture della vita quotidiana di molti. Queste tendenze di crisi, che possono essere lette con le lenti della “teoria della dipendenza”, si legano agli effetti depositati dalla lunga fase neoliberale. Precisamente alla ridislocazione in occidente del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli ed a più elevato tasso di sfruttamento ed alla concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione, avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’ che li organizzano.

 

La guerra tra la Russia e l’Ucraina aggiunge un’ulteriore dimensione a questa consapevolezza e sta spingendo tutte le parti del mondo a richiedere improvvisamente “indipendenza”, piuttosto che efficienza e rapidità.

Ciò che accade ha portata storica. Alcuni mesi fa il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, il filoccidentale ma fedelissimo di Putin ex Presidente ed ex Primo ministro fino al 2020 Dmitrij Anatol’evič Medvedev, ha dichiarato sulla stampa russa che le sanzioni (congelamento delle riserve, misure sui capitali privati all’estero, esclusione dallo Swift) violano la sacralità della proprietà privata e lo stato di diritto, apparentemente cari all’occidente, e dunque manifestano una ‘guerra senza regole’ che ‘distruggerà tutto l’ordine economico mondiale’. Lo distruggerà (anzi, lo ha già distrutto) perché queste misure colpiscono principalmente la credibilità stessa di chi le promuove, stracciando leggi e regolamenti, con ciò mostrando la natura del potere. Determinano l’arrivo di un nuovo “Ordine finanziario mondiale” nel quale chi non è credibile non avrà più voce in capitolo. Chi farebbe patti con un baro? La risposta russa a questa mossa è stata di tentare di capovolgere il principio di base denaro-per-merci. L’idea è di connettere merci di base, petrolio, gas naturale, materie prime minerarie e oro, al rublo. La guerra valutaria lanciata contro la Russia, fondata sull’inibizione della liquidità in modo che sia inibita sia la funzione di riserva di valore, sia quella di mezzo di scambio della moneta internazionale detenuta dal sistema economico russo, viene tradotta da questa mossa (alla quale lavora la Banca centrale Russa e la diplomazia economica altamente attiva verso i paesi ‘non allineati’, che crescono ogni giorno) in guerra di merci e monete. Ovvero in un confronto a tutto campo tra ‘merci’ cruciali e monete sovrane ad esse ancorate. Se l’Occidente ha la sua valuta finanziaria, il ‘non-occidente’ (che si genera per negazione direttamente dalla logica della ‘crociata’ politico culturale altamente autolesionista avviata dai neocon americani negli anni Novanta ed ora fatta propria dai democrat al potere[26]) ha le merci di base e anche la capacità di trasformazione. Da tempo, infatti, le basi industriali di tutte le filiere mondiali non sono più in Occidente e questo fa tutta la differenza. Allora, chi ha paura di chi? Chi punisce chi? Chi ha ucciso il cervo? Si chiede Zhang Weiwei (docente di economia al Fudan e presidente del China Research Institute) su Guancha[27].

Chiaramente, la rivoluzione contro l’Ordine valutario americano[28], lanciata in questo modo, deve vedere necessariamente la partecipazione della Cina stessa, che è ormai la più grande economia mondiale (a parità di potere di acquisto, ovvero in termini di beni reali), il più grande commerciante di beni e il più grande mercato di consumo e investimento. E’ del tutto chiaro che avendo perso tutti questi primati gli Stati Uniti sono in una posizione di fragilità.

Questa considerazione mostra con precisione la posta della guerra e anche la ragione della disperata determinazione americana (e dei suoi clienti e subalterni).

Si tratta, niente di meno che di tradire il principio cardine dell’Ordine finanziario esistente per il quale la liquidità va sempre protetta. Ovvero il principio per il quale va sempre garantito, costi quel che costi, che sia sempre possibile la convertibilità incondizionata tra moneta e credito (per cui qualsiasi credito sia sempre rilevabile a richiesta in moneta). Questo è quel che rendeva il dollaro la moneta centrale e i suoi titoli la riserva di valore più affidabile per privati e stati. Se il credito è essenzialmente una relazione rischiosa, allora ciò che è stato fatto è di distruggerlo. Ma non si può distruggere una relazione senza esserne colpiti.

Ed il colpo cade in una situazione di enorme fragilità. Infatti la potenza americana, in prima fase fondata sulla maggiore produttività e sull’enorme dotazione di infrastrutture, industrie, capacità in un mercato continentale interconnesso, dalla crisi degli anni sessanta-settanta (nella quale quella supremazia si erode) e dalla rottura del 1971 non vive più del suo commercio e della sua produzione, ma dei suoi debiti. Paradossalmente vive di rendita sui propri debiti, grazie alla tesaurizzazione come moneta del debito della sua Banca Centrale, che è accettata in tutto il mondo come moneta di riserva. Il sistema del dollaro svolge questa funzione in modo rischioso ed incerto, a causa dell’assenza di una sottostante economia effettivamente dominante, sostenuta da un attivo commerciale che renda logico detenere riserve (per acquistare beni). La funzione di riserva, questo si vede benissimo in questa crisi, ha il suo limite fuori di sé (si regge sull’indispensabile capacità di minaccia, e quindi di ordine, svolta dalle forze armate americane). Del resto, a ben vedere, c’è in pratica un solo ‘bene’ nel quale la superiorità Occidentale è ancora netta: le armi. Di qui l’assoluta necessità di spezzare la resistenza russa, prima che la Cina diventi troppo forte anche su questo terreno.

 

Dall’altra parte l’idea che emerge dalla reazione del sistema russo alla crisi, alla quale si era lungamente preparato[29], è di riposizionarsi nella catena del valore da paese ‘periferico’, che essenzialmente vende materie prime con sfavorevoli ragioni di scambio, affidandosi per il resto alle importazioni di prodotti finiti o semilavorati, a paese ‘semicentrale’ in un ecosistema dominato da centri di potenza ed industriali meno ostili (la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, i Brics, ai quali aggiungere almeno il Venezuela, alcuni paesi africani, alcuni paesi del golfo, probabilmente il Pakistan e forse l’Arabia Saudita) e, soprattutto, più complementari.

Detto in altre parole, c’è una sorta di ironia: l’occidente si aspetta che l’ambiente economico russo sia costretto dalla crisi dei capitali ad accettare una situazione di maggiore dipendenza e quindi maggior sfruttamento (banalmente di dover accettare di vendere i propri prodotti e materie prime ad un prezzo inferiore, o serbando minore quota del profitto[30]), ricollocandosi in posizione ancor più periferica. Ma la Russia sembra voler accettare la sfida e punta a ricollocarsi in un diverso ecosistema nel quale la propria industria e i propri prodotti energetici siano più necessari. Il progetto di Putin, e dei gruppi decisionali che lo circondano, è quindi di invertire la sconfitta degli anni Ottanta, ma non nel modo che pensiamo: non si tratta affatto, almeno a medio termine, di recuperare le aree di influenza territoriale perdute che, nel frattempo, si sono interconnesse con l’ecosistema economico occidentale in modo troppo intenso (tanto meno di farlo per via militare). Si tratta di qualcosa di molto più significativo: di risolvere l’incorporazione subalterna del sistema-mondo che allora fu determinata. Esiste solo un modo a tal fine, ed è quello che viene indicato come “ristrutturazione strutturale dell’economia”. Si tratta di riportare le proprie élite industriali e finanziarie, con le buone o le cattive (ed una guerra è a tal fine perfetta) sotto il dominio della propria logica ‘territorialista’; rialzare a tal fine barriere di sistema (e questo lo stanno facendo gli Usa); trovare un’altra area di proiezione per i propri capitali, nella quale la concorrenza sia più contenuta e l’ambiente normativo più controllabile. Passare da un modello trainato dalle esportazioni (quello della “Grande Moderazione” degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a stabilizzare il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il quale saranno necessari anni e potrebbe fallire, si dovrà: ristrutturare il mercato del lavoro; modificare i settori trainanti; attuare quella che in Cina è stata chiamata una “doppia circolazione”. Ciò dovrà comportare una netta ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree economiche geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali estere perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci sarà più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare, per far crescere la domanda interna. Il modello neoliberale funziona all’esatto opposto. Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i profitti industriali, e ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire il realizzo delle merci in capitale all’estero in una lotta spietata a somma zero. In questo consiste la sua “libertà”. La scommessa russa è di poter ritransitare nel modello opposto, ovviamente insieme alla Cina ed a numerosi partner. Un modello che stabilizza il proprio ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale facendo essenzialmente leva sul mercato interno, salari alti e stabili, una classe media in ascesa. Ovviamente ne fanno parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità a farsi controllare dall’esterno.

L’idea è che dentro questo sistema, che fraziona il complessivo sistema-mondo occidentale, ritagliandovi un grande enclave, la Russia possa trovare una posizione di minore debolezza. In altre parole che possa essere più necessaria, sia come fornitore di materie prime e di tecnologie avanzate (in alcuni specifici settori, aerospaziale, chimica, nucleare, militare), sia come fornitore di protezione (sfidando, ovviamente, il monopolio Usa su questo cruciale ‘servizio’). Due generi di interlocutori sono da individuare per questo progetto: in primo luogo, i grandi paesi altamente differenziati e fortemente finanziarizzati, ma che nell’ecosistema “Occidentale” sono costantemente schiacciati al ruolo di junior partner o di ospite inaffidabile[31]. In secondo luogo, i paesi intermedi, con una specializzazione più pronunciata e minori risorse umane, materiali e finanziarie. Questi si sentono spesso umiliati e vittimizzati dall’arroganza occidentale e possono essere tentati di ridurre la dipendenza.

Chiaramente, e simmetricamente, i paesi che nell’attuale sistema-mondo sono ‘centrali’ o ‘semi-centrali’ (o ‘semi-periferici’ in un centro rilevante come quello europeo), da questa riframmentazione in sistemi-mondo interconnessi, ma anche parzialmente separati, hanno da perdere. Da una parte si riducono gli sbocchi alle eccedenze di capitale, ovvero le aree nelle quali proiettare i capitali garantendone per via politica o di influenza militare la redditività. Quindi diventa più difficile il gioco di rompere gli ‘spazi regionali’, costringendoli a rilasciare i propri valori e destabilizzandoli (gioco nel quale gli Usa sono maestri, ma noi siamo i vecchi maestri ed attuali volenterosi allievi). Infine, si ridefinisce l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione del surplus; in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità ‘capitalismo’ (ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di soggettività che si definiscono per la centralità del principio organizzativo e di ordine del ‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna delle quali trova la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione nell’insieme. Posizione che è sempre gerarchica. La ragione è che tutti i fenomeni economici e sociali, ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità di essere compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione.

 

Il processo di fratturazione dell’ambiente finanziario e commerciale mondiale, e la revoca della centralità in esso del dollaro (processo che richiederà qualche anno), riprodurrà quindi quella priorità all’indipendenza che rese possibile il percorso di crescita di tanti paesi nel trentennio ’50-’80 e ne motivò la tensione ideale. Anche alla luce di questi fenomeni si può verificare come tutte le teorie trovino sempre la loro urgenza e plausibilità dal contesto del tempo. Sono, cioè, illuminate dal tempo nel quale si manifestano, più che il contrario. Prevedo che, insieme al confronto tra sistemi, intorno a questo tempo difficile tornerà perciò in campo la “teoria della dipendenza” e quella “dell’imperialismo”.

 

 

 

[1] – Fenomeno che, lo dovremo guardare con attenzione, si è incrudito quando la crisi del Covid ha spezzato le supply chain mondiali e la ripartenza ha evidenziato l’incremento senza controllo delle materie prime, con conseguenze sistemiche e cumulative a carico della competitività e dell’inflazione.

[2] – Il termine è messo in giro nel XVIII secolo e rappresenta la condensazione di un’idea contemporaneamente semplicissima e straordinariamente sottile: quella che il fatto di far passare le relazioni umane attraverso il vincolo morbido dello scambio per puro interesse (il “dolce commercio”) le trasformerà e civilizzerà. L’uomo stesso diventerà meno ferino, meno orientato a perseguire motivazioni irrazionali (come “l’onore”), e la società diventerà meno separata in enclave, in clan in lotta reciproca; sarà meno attraversata da inimicizie radicali (ad esempio religiose). Ma questa non è l’idea di una condizione ‘naturale’ dell’uomo che si tratta solo di far emergere, contiene il progetto di una antropologia minimalista. Il progetto di un “uomo nuovo” che viene prodotto dall’estensione del commercio e dalla struttura legale e governativa che lo impone. Cfr., ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero del male”, Libri Scheiwiller, 2008 (ed. or. 2007).

[3] – Altro termine chiave della costellazione liberale: si tratta del superamento del mondo tradizionale, con tutte le sue strutture relazionali ed antropologiche, i sistemi di potere, i vincoli costitutivi, i valori (ad esempio l’onore, la responsabilità concreta, la reciprocità nel sistema del dono, l’ordine presunto naturale, …).

[4] – L’idea di un procedere per “tappe” della “storia” è un’altra tipica idea illuminista, fattasi strada tra il XVII ed il XVIII secolo, viene articolata sia nell’ambiente napoletano (Gianbattista Vico, 1668-1744) sia in quello scozzese (Adam Ferguson, 1723-1816), ovviamente ciò porta a ritenere che l’uomo proceda, generazione dopo generazione, ad apprendere sempre meglio il proprio modo di essere nel mondo e quindi progredisca.

[5] – “Progresso” è probabilmente il termine più inevitabile della costellazione liberale-moderna. Il concetto è legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura cinque-seicentesca e nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto negativo”, si può leggere Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi, 2020.

[6] – “Ragione”, rigorosamente al singolare, è quindi il coronamento di questo giro di concetti e del progetto ad essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve imporre una unica via, perché aderente all’autentica natura umana (o, per meglio dire, alla natura umana che deve diventare unica).

[7] – La “Storia” è quindi orientata, ha carattere unitario, conoscibile nel suo senso, normativamente connotata.

[8] – Il riferimento obbligato è al lavoro di Mearshmeier.

[9] – Vicesegretario alla Difesa per gli affari di sicurezza internazionale dal 1993 al 1994 ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Arabia Saudita durante le operazioni Desert Shield e Desert Storm. Freeman è noto in ambito diplomatico per essere stato vice segretario di Stato per gli affari africani durante la storica mediazione statunitense per l’indipendenza della Namibia dal Sud Africa e del ritiro delle truppe cubane dall’Angola. Ha inoltre lavorato come Vice Capo Missione e Incaricato d’Affari nelle ambasciate americane sia a Bangkok (1984-1986) che a Pechino (1981-1984). Dal 1979 al 1981 è stato Direttore per gli Affari Cinesi presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ed è stato il principale interprete americano durante la storica visita del presidente Richard Nixon in Cina nel 1972.

[10] – Si veda https://it-insideover-com.cdn.ampproject.org/c/s/it.insideover.com/guerra/ucraina-ex-ambasciatore-freeman-usa-non-vogliono-pace-ucraina.html/amp/

[11] – Dmitrij Trenin, “Riflettendo sul percorso internazionale della Russia: chi siamo, dove siamo, per cosa e perché”, Guancha, 15 aprile 2022

[12] – Si può vedere il post “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022.

[13] – E’ quello che, in una diversa prospettiva, mostra Christopher Coker in “Lo scontro degli stati-civiltà”, Fazi Editore, 2020 (ed- or. 2019).

[14] – Si veda Qiao Liang, Wang Xiangsui, “Guerra senza limiti”, LEG, 2001 (ed. or. 1999).

[15] – Si veda per un inquadramento concettuale, Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020, oppure Giacomo Gabellini, “Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”, Mimesis, 2021.

[16] – Una spiegazione interna della tendenza alla crescita della classe media che caratterizzò gli anni del ‘trentennio socialdemocratico’ e con essa l’insorgenza della ‘società del benessere’ (poi revocata nel quarantennio neoliberale).

[17] – Si definiscono “ragioni di scambio” il rapporto tra l’indice dei prezzi all’esportazione di un paese e quello dei prezzi all’importazione. Dal punto di vista dell’intero paese, rappresenta l’ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici.

[18] – Dai flussi di capitale governati dal ‘centro’ e dalle altre forme di dipendenza commerciale e/o politica.

[19] – Si veda R. Prebisch, Crecimiento, desequilibrio y disparidades: interpretación del proceso de desarrollo económico, 1950, in italiano. La crisi dello sviluppo argentino. Prebisch è, con Hans Singer, il creatore della tesi della “sostituzione delle importazioni”, per la ragione che il deterioramento continuo delle ragioni di scambio delle economie primarie, normalmente periferiche, è conseguenza del fatto che la domanda di prodotti manufatti cresce molto più rapidamente di quella delle materie prime.

[20] – Qui la coppia interpretativa è quella dominio/egemonia per la quale si è soliti rinviare ad Antonio Gramsci. Il concetto di ‘egemonia’, per essere compreso, va connesso con la sua assenza, ossia con il puro e semplice “dominio”. Dove il potere è nudo, privo della necessaria componente del consenso. Ma il vero potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti e ai cuori, si fa seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo e la meccanica dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base” degli interessi e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il vero potere è dunque egemonia.

[21] – Data la loro difficoltà a trovare occasioni di investimento al livello adeguato per effetto dei rendimenti decrescenti.

[22] – Vedi Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013

[23] – Interviene in questa situazione, da tempo compromessa, lo shock determinato dall’attesa pandemia figlia dei molti squilibri del mondo e della sua vorticosa e irresponsabile integrazione orizzontale senza protezione. Quella in corso è solo l’ultima delle recenti zoonosi che si sono diffuse nel mondo, uccidendo negli ultimi quarant’anni oltre trenta milioni di persone. C’è una relazione piuttosto riconoscibile tra l’estensione degli insediamenti umani, a ridosso di tutte le rimanenti aree di naturalità, e lo sfruttamento intensivo della vita stessa (ad esempio, degli allevamenti) e la frequenza e rapidità con la quale batteri, virus e funghi, protisti, prioni e vermi, riescono a fare un salto di specie ed a replicarsi tra uomo e uomo. Ed inoltre, una volta che il patogeno si è insediato nell’ospite umano la velocità con la quale questo entra in contatto con altri ospiti e questi si muovono nel mondo. La pandemia amplifica e accelera le molte linee di crisi antecedenti e tendenze già in movimento. Lo fa in quanto figlia dell’interconnessione del mondo e dell’estensione in esso del modo di produzione capitalista, per sua natura incapace di limitarsi nello sfruttamento di qualsiasi cosa sia utilizzabile come merce.

[24] – Una recente ricostruzione, se pur di parte liberale, si può leggere in Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Il Mulino 2019.

[25] – Intendo per “piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi, coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (e in ultima analisi possibile).

[26] – Si veda, “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022. E anche “Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”, Tempofertile, 5 aprile 2022.

[27] – Zhang Weiwei, “Russia vs Stati Uniti: la guerra del denaro e della valuta”, Guancha, 25 aprile 2022

[28] – Si nomina in questo modo la capacità della moneta americana, fino al 1971 nel suo ancoraggio nominale all’oro e in base al Trattato di Bretton Woods e dopo senza di esso, di essere quella riserva di valore ed unità di conto che rende stabile il sistema finanziario mondiale.

[29] – Nella crisi Ucraina del 2014 la Russia ebbe chiarissimo che ad uno scontro con l’occidente si sarebbe ad un certo punto giunti, e che la stessa Ucraina lo voleva. La preparazione al momento è stata condotta allargando le riserve, riducendo l’esposizione in dollari, rinforzando le relazioni internazionali con i paesi non occidentali. Per un chiarimento si può vedere questo video del 2014.

[30] – Ad esempio, cedendo alle multinazionali britanniche o Usa le concessioni delle proprie risorse minerarie a fronte di royalties limitate.

[31] – Questi, che vanno dalla Cina all’India con l’aggiunta del Brasile (ma guarderei anche al Messico), sono in qualche modo ed a vario modo riluttanti a fare lo stesso passo. Lo faranno solo se costretti, quindi fino a che il network al quale tutti stanno lavorando non sarà consolidato cercheranno di stare su tutti i tavoli. In ogni caso sono troppo grandi per chiudere completamente le porte. In prospettiva cercheranno di ascendere al ruolo di egemone di un nuovo sistema-mondo guidato in modo federato.

https://tempofertile.blogspot.com/2022/11/la-guerra-necessaria-logiche-della.html?fbclid=IwAR1DXEnxj9Yd2H3wZ57lwUK7Tv2otY6A3JK0dyoOhmrb6LwO6i_km_l9GBg

È guerra, Josep, ma non come la conosciamo_di Aurelien

Cercando di capire cos’è l’Ucraina.

Ho in gran parte evitato di scrivere qualcosa di troppo attuale sul conflitto in Ucraina e dintorni, perché non mi piace la polemica, e comunque non ho abbastanza conoscenze tecniche per scrivere di questioni militari quotidiane. Nondimeno, non posso fare a meno di essere colpito dal senso di disorientamento e confusione intellettuale che mostra molta della scrittura occidentale sulle operazioni militari. A sua volta, questo deriva, suggerisco, da una fondamentale riluttanza occidentale a fare il duro lavoro di apprendere la strategia e gli usi politici della forza militare, e ad alzare gli occhi dagli eccitanti scoppi e boom, avanzate e ritirate sul campo di battaglia, e guardare il quadro generale.

Quindi qui, proverò a fare un passo se non tre indietro; parlerò del più grande dei grandi quadri e cercherò di mostrare come vari fattori politici ed economici debbano essere presi in considerazione per capire cosa pensano i russi e cosa stanno cercando di fare. Qualunque sia la tua opinione sul conflitto, è molto difficile dire qualcosa di utile al riguardo (sto guardando te, Josep Borrell, per esempio) a meno che tu non faccia uno sforzo per capire l’importanza di questi fattori.

Fortunatamente, altri si sono comportati così prima di scrivere di strategia, e nessuno più fruttuosamente del grande soldato prussiano e teorico militare, Carl von Clausewitz. Ora uno dei motivi per cui Clausewitz è importante è che fa parte di un gruppo molto ristretto di teorici e storici, tra cui Machiavelli e Tucidide, che erano praticamente coinvolti nelle cose di cui scrivevano. Come loro, si fa riferimento a lui molto più di quanto lo si legga, e si fraintende anche quando lo si legge. Ma Clausewitz è stato il primo teorico importante ad abbandonare gli scritti dettagliati sulla tattica e a porre (e in effetti a rispondere) alla domanda: a cosa serve effettivamente la guerra?  Perché gli stati ricorrono alla forza militare? La sua risposta è stata semplice: la guerra è “un atto di forza per costringere il nostro nemico ad accettare la nostra volontà”. Vogliamo che il nostro nemico faccia qualcosa, o smetta di farlo, e quindi, dice Clausewitz, dobbiamo mettere il nostro nemico in una “situazione che è ancora più spiacevole del sacrificio che gli chiedi di fare”. Inoltre, aggiunge, questa situazione non può essere transitoria, tale che il nemico può semplicemente aspettare che le cose migliorino, ma in cui il nemico è effettivamente indifeso o è probabile che lo diventi.

Ma Clausewitz insiste sulla necessità di situare la guerra nel contesto della politica statale in generale (non “politica” come spesso qui si traduce erroneamente politik ). Le guerre iniziano, dice, a causa di qualche “situazione politica, e l’occasione è sempre dovuta a qualche oggetto politico”. Così, “la guerra non è semplicemente un atto di politica, ma un vero strumento politico, una continuazione del rapporto politico, portato avanti con altri mezzi… L’oggetto politico è l’obiettivo, la guerra è il mezzo per raggiungerlo, e il mezzo non può mai essere considerato isolatamente dal loro scopo ” (corsivo mio). Sebbene On War sia un testo proibitivo, queste citazioni (nella traduzione standard di Howard e Paret) sono tutti presi dal Libro I, e puoi scaricare una vecchia traduzione di pubblico dominio di quel Libro e leggerla in un’ora. (Forse l’ufficio del signor Borrell dovrebbe considerare di farlo.)

Dopo averlo fatto, le cose diventano immediatamente molto più chiare, e una serie di domande non poste dai media e dai politici occidentali diventano ovvie. Quali sono, ad esempio, i più grandi obiettivi politici russi? Quanto sono significativi gli attuali combattimenti in Ucraina, e in effetti quanto sono significative le singole battaglie? Quali attività parallele stanno accadendo, politicamente ed economicamente, tutte nella stessa direzione? E quale visione hanno i russi della situazione che vogliono realizzare, quello che Clausewitz chiama lo “stato finale”?

Ma perché queste domande non vengono poste in modo sistematico dall’Occidente? Dopotutto, se si vuole frustrare i piani russi, potrebbe avere senso provare a dedurre quali sono quei piani e come i russi si aspettano di realizzare il loro stato finale.

La risposta, credo, viene da una combinazione di due fattori. In primo luogo, gran parte dell’impulso politico sull’Ucraina viene dai paesi anglosassoni, la cui storia di guerra, e il cui pensiero sulla guerra, è essenzialmente di corpi di spedizione e circoscritto. A parte brevissimi periodi nel 1916-18 e nel 1944-45, gli inglesi e gli americani non dovettero mai considerare l’uso di grandi forze terrestri e aeree e sviluppare una dottrina per il loro impiego. Storicamente le spedizioni militari erano piccole, con obiettivi limitati, lontane dalla madrepatria. La guerra delle Falkland del 1982, nonostante sia stata una notevole conquista militare, si inserisce perfettamente in questa tradizione, di tattiche di piccole unità, leadership individuale e improvvisazione sul campo di battaglia.

Il tipo di operazioni militari che gli europei hanno effettivamente condotto dal 1945, e soprattutto dal 1989, tende a seguire questo modello. Sebbene generazioni di ufficiali della NATO abbiano pianificato ed esercitato scontri apocalittici con il Patto di Varsavia, quei paesi che hanno effettivamente effettuato operazioni nella vita reale sono stati coinvolti in missioni di controinsurrezione o di mantenimento della pace di livello molto inferiore. E quando gli europei, ancora un po’ storditi dalla caduta del muro di Berlino, iniziarono a pensare a quali compiti avrebbero potuto svolgere i loro militari in futuro, la loro ipotesi migliore fu più o meno la stessa: missioni di pace, evacuazioni con assistenza militare, gestione delle crisi e relativo dispiegamento e così via. E così il servizio nazionale e i grandi eserciti furono abbandonati, la guerra su larga scala ad alta intensità smise di essere studiata se non come storia e le carriere venivano costruite guidando piccoli gruppi di soldati in missioni lontane.

Il secondo fattore è semplicemente che in generale le guerre dell’Occidente sono state guerre a responsabilità limitata, dove ci sono state poche vittime in patria. È vero, le guerre in Algeria, Angola e, probabilmente, Vietnam, hanno prodotto convulsioni politiche e fatto cadere i governi, ma la morte e la distruzione vere e proprie sono avvenute quasi tutte altrove.

Per i russi, la geografia imponeva un diverso insieme di criteri. Da sempre un paese enorme con una popolazione relativamente numerosa e lunghi confini, la nazione ha subito ripetutamente invasioni militari straniere nella sua storia. È abituato a combattere sul proprio territorio e nella sola seconda guerra mondiale ha subito quasi trenta milioni di morti, in gran parte civili. Pertanto, la difesa nazionale è letteralmente una questione di vita o di morte; pensare e pianificare la guerra avviene a un livello strategico enormemente più alto e più complesso. Vale anche la pena sottolineare che il formidabile edificio della scienza militare marxista-leninista non ha perso la sua influenza, e il marxismo era soprattutto una dottrina basata sul predominio delle forze materiali tangibili.

Questa esperienza russa produce inevitabilmente un modo di guardare al conflitto radicalmente diverso da quello occidentale, fermo restando che lo stesso Occidente ha dovuto dolorosamente imparare simili lezioni durante due Guerre Mondiali, per poi dimenticarsele ogni volta puntualmente. La guerra è vista in senso totale: come lotta politica, economica e militare combinata. Numeri puri, disciplina politica, enormi riserve di uomini e attrezzature, capacità di mobilitazione totale e pianificazione strategica a lungo raggio e ambiziosa sono caratteristiche inevitabili di un tale approccio, quindi se vogliamo vedere cosa cercano i russi, sarebbe bene includere questi fattori. Lo stato finale non è, per definizione, militare, e quindi i militari possono contribuire a tale stato finale in un’ampia varietà di modi. La vittoria sul campo di battaglia potrebbe non essere la priorità assoluta, se altri fattori stanno operando a tuo favore, e l’impiego di grandi forze su una vasta area imporrà esso stesso un modo di pensare di livello superiore. Ad esempio, dare battaglia, anche se pensi di vincere, potrebbe essere una cattiva idea se consuma unità ed equipaggiamento che saranno assolutamente necessari altrove. Meglio ritirarsi. Al contrario, invitare un nemico ad attaccare le tue posizioni, anche se tatticamente svantaggioso, può essere una buona idea se infliggi pesanti perdite che il tuo nemico non può sostituire.

Le forze armate sovietiche e russe hanno una lunga tradizione nello studio delle terribili guerre passate dal loro paese; ci sono una serie di conclusioni ovvie traibili da qualsiasi analisi del genere. Uno è l’importanza dei numeri, del personale, delle attrezzature e delle munizioni. In una lunga guerra, che i russi, a differenza dell’occidente, si sono sempre aspettati di combattere, queste cose contano moltissimo. Nella Guerra Fredda, l’Armata Rossa pianificò di vincere con una tattica nota come echeloning. In sostanza, invii prima le tue forze migliori, che vengono per lo più distrutte, ma distruggi anche le migliori forze nemiche. Quindi invii il tuo secondo scaglione e rastrelli le forze rimanenti del nemico, anche se perdi la maggior parte delle tue. Il tuo terzo scaglione non ha effettivamente opposizione e vinci. (Questo non avrebbe sorpreso Clausewitz, il quale sosteneva che era importante essere “forti ovunque, soprattutto nel punto decisivo.”) Allo stesso modo con le scorte di munizioni. Se hai due milioni di colpi di munizioni e il tuo nemico ne ha mezzo milione, il tuo nemico si esaurirà prima di te, dopodiché avrai il dominio. L’Occidente ha optato, dalla fine degli anni ’40, per avere meno armi e meno manodopera, sperando che la qualità prevalga sulla quantità. Durante la Guerra Fredda, prevedeva anche di utilizzare presto armi nucleari tattiche, poiché non poteva accettare l’onere economico di mantenere massicce forze convenzionali come fece l’Unione Sovietica. Per fortuna, non lo sapremo mai se tutto ciò avrebbe funzionato durante la Guerra Fredda, ma chiaramente è esattamente l’opposto della politica che i russi hanno perseguito di recente.

Se questo suona come una guerra su scala industriale, è esattamente quello che è. E’ letteralmente così, in quanto l’importanza della produzione bellica fu un’altra lezione tratta dal 1941-45, quando l’Unione Sovietica superò i tedeschi in attrezzature militari anche dopo aver spostato le sue fabbriche ad est degli Urali. Inoltre, l’equipaggiamento sovietico e successivamente russo era progettato per essere utilizzato dai coscritti, e quindi era mantenuto relativamente semplice, in modo da poter essere impiegato in numero molto elevato. Stiamo vedendo i risultati ora in Ucraina, dove i carri armati T-62, tenuti in riserva per molti anni, vengono inviati nel Donbass per essere gestiti dalle milizie locali e dai richiamati riservisti con standard di addestramento inferiori. L’Occidente ha optato per piattaforme che individualmente potrebbero funzionare meglio in combattimento (finora nessuno lo sa) ma sono molto più complesse e difficili da gestire e mantenere.

L’Occidente ha una difficoltà intrinseca con questo tipo di approccio. In particolare, la sua tradizione di storia e teoria militare si concentra molto più sulle battaglie che sulle campagne, molto più sui leader che sulle forze, molto più sulle storie dei singoli sistemi d’arma che sulla produzione bellica. Anche gli storici che scrivono sul fronte orientale nella seconda guerra mondiale tendono ancora a scrivere di singole battaglie (in particolare Kursk), mentre i migliori resoconti (di Chris Bellamyad esempio) solgono concentrarsi correttamente sul livello della campagna. In effetti, è stato argomentato in modo persuasivo che le singole battaglie in quel terribile conflitto influenzarono in gran parte solo il calendario preciso e che i fattori sottostanti determinarono il risultato fin dall’inizio. In particolare, la catastrofica sottovalutazione tedesca delle dimensioni e del potere di combattimento dell’Armata Rossa e l’incapacità della Wehrmacht di terminare la campagna entro l’inizio dell’autunno, sono state ritenute limitazioni molto più importanti della vittoria o della sconfitta in ogni singola battaglia. È come può essere, ma è chiaro che anche quel tipo di approccio è del tutto estraneo alla cornice intellettuale di quei commentatori occidentali che seguono ogni video, ogni voce, ogni svolta della sanguinosa partita che si sta giocando in Ucraina. Difficile trovare una metafora appropriata: forse critici musicali che discutono sul costume della primadonna in un’opera, senza menzionare se la produzione sia stata finalmente salutata da fiori e standing ovation, o dal cast bersagliato di uova marce.

Infine, i russi stanno operando, per ribadire l’osservazione che, secondo una tradizione Clausewitziana, vede la forza militare utile solo quando è chiaramente legata a uno scopo politico. (E uno scopo non è solo un’aspirazione.) L’invasione sovietica dell’Afghanistan, ad esempio, includeva una chiara strategia politica per creare sostegno al nuovo regime tra la classe media professionale, riformare lo stato e il sistema politico e creare forze di sicurezza efficaci . Alla fine non funzionò, almeno non dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma almeno fu una strategia. Al contrario, il tipo di piani per la ricostruzione afghana che ricordo di aver visto circolare in Occidente negli anni 2000, erano solo una serie di aspirazioni vagamente collegate, in cui si presumeva che le frecce sulle diapositive di Powerpoint rappresentassero in realtà una sorta di relazione causale . Più o meno lo stesso era vero al tempo della guerra in Iraq (sebbene il Dipartimento di Stato americano avesse fatto del suo meglio). A Washington, il futuro dell’Iraq era visto in termini di una serie di fantasie concordanti e sequenziali, senza alcuna idea di come si sarebbero realizzate. Principalmente, questo è dovuto al fatto che il liberalismo presuppone sempre che certi elementi politici esistano universalmente e che una volta che i Cattivi saranno rimossi dal potere, le nazioni si svilupperanno automaticamente e ineluttabilmente verso un modello democratico liberale. Questo è ancora il punto di vista prevalente odierno. Se hai a che fare con qualcosa di simile ad idee scambiate come ricostruzione post-conflitto o costruzione della pace, in particolare come commercializzazioni da organizzazioni come le Nazioni Unite e l’UE, ti verrà presentata una serie di passaggi sequenziali verso un’ipotetica utopia, ma con niente che li tenga insieme. Così, ad esempio, viene mostrato che un cessate il fuoco porta alla smobilitazione, quindi al riavvio del processo politico, quindi alle elezioni, quindi alla stabilità. Ma se chiedi con precisione come un cessate il fuoco porterà a riavviare il processo politico (o addirittura perché dovrebbe farlo) verrai accolto con un imbarazzato silenzio. E naturalmente nella vita reale generalmente non è così; è strano che sia il liberalismo, piuttosto che il marxismo, a credere nell’inevitabilità storica.

Quindi, se questa è la tradizione da cui provengono i russi, e se è per questo che l’Occidente ha difficoltà a capire cosa sta avvenendo in Ucraina, allora cosa ci dice sul tipo di piano più ampio e a lungo termine che i russi potrebbero avere, e come lo perseguiranno? Tuttavia, prima di iniziare è necessario aggiungere due chiose.

In primo luogo dovremmo evitare la tentazione di assumere ovunque “masterplan”. È facile cadere nelle teorie del complotto sugli Illuminati, il gruppo Bilderberg, la “cabala anglo-sionista” o qualche complotto per distruggere l’economia europea ideato da Washington. Ma questa è roba da bestseller aeroportuali, non da vita reale. In secondo luogo, e in parte di conseguenza, non stiamo parlando di un piano complesso e dettagliato nel corso delle generazioni, ma piuttosto di una serie di obiettivi relativamente semplici a diversi livelli, coerenti con le affermazioni russe fino ad ora, e con uno sguardo imparziale ragionevole su ciò che possono essere ovviamente i loro obiettivi di sicurezza. Da bravi studenti di Clausewitz, ci aspetteremmo che i russi considerino la guerra a tutti i suoi livelli, quindi affidiamoci di nuovo a lui come nostra guida.

Si consideri anzitutto quanto disse Clausewitz circa la necessità che la vittoria sia completa, e definitiva, per evitare che il nemico possa ricominciare la guerra. E qui ricordiamo che, nel 1945, l’Armata Rossa non si fermò al confine russo, ma arrivò fino a Berlino, dove occupò metà del paese e installò un regime fantoccio. Questo tipo di conclusione di una guerra in realtà non è insolito: nel 1814, le truppe russe occuparono effettivamente Parigi dopo la sconfitta finale di Napoleone. È solo negli ultimi decenni che accordi di pace pienamente inclusivi che affrontano le cause alla base dei conflitti, con la partecipazione di gruppi vulnerabili e complessi regimi di costruzione della pace dopo negoziati dettagliati e trattati di pace onnicomprensivi, sono diventati la norma. Quest’ultimo certamente non accadrà questa volta, motivo per cui dobbiamo stare molto attenti a come utilizziamo la parola “negoziazione”, ma non è nemmeno probabile che i russi vogliano occupare fisicamente l’Ucraina più del necessario. Quindi cosa significherebbe vittoria completa, in questo senso?

Dopo Clausewitz, la prima variabile sarebbe quella del tempo. Per i russi, l’Ucraina deve essere lasciata in una situazione in cui non sia in grado di costituire una minaccia in tempi ragionevoli. È difficile essere precisi, ma venticinque anni suonano bene. Ora, anche se i russi non facessero altro, l’ipotesi migliore è che ci vorranno dieci anni buoni per ricostituire le forze ucraine a qualcosa di simile al livello di efficacia del febbraio 2022. Ma si noti che ciò implica la disponibilità di massicci fondi (di cui l’Ucraina non dispone) o massicci, organizzati e sostenuti aiuti dall’estero, inclusi sostanziali dirottamenti di nuovi armamenti dalle già esaurite forze armate statunitensi ed europee, o sostanziali investimenti in nuova produzione di strutture soprattutto per l’Ucraina. Nessuno dei due sembra molto probabile. Inoltre, una nuova generazione di ufficiali dovrebbe essere reclutata e addestrata, l’infrastruttura militare riparata o ricostruita, e dovrebbe essere sviluppato un processo globale di conversione dall’equipaggiamento militare ex-sovietico a quello occidentale, insieme alla dottrina operativa associata. E naturalmente l’infrastruttura di base del paese dovrebbe essere riparata affinché l’esercito possa funzionare. Le possibilità di raggiungere questo obiettivo, figuriamoci nel breve periodo di un decennio, non sono grandi.

Quindi il problema potrebbe risolversi da solo. Tuttavia, probabilmente non è nell’interesse della Russia che l’Ucraina sia completamente disarmata, perché ciò porterebbe a una potenziale instabilità, che potrebbe estendersi alla Russia stessa. Qualunque governo succederà all’attuale regime di Kiev dovrà essere in grado di controllare il proprio territorio. Quindi i russi potrebbero imporre un trattato di pace all’Ucraina che, ad esempio, includa la creazione di una gendarmeria professionale, autorizzata a guidare veicoli corazzati leggeri ed elicotteri, ma non di più. I tentativi di sviluppare o acquisire sistemi più potenti sarebbero impossibili da nascondere e facili da schiacciare. Questa è una soluzione molto più elegante e molto più economica rispetto ai tentativi di costruire massicce fortificazioni o occupare territori non di lingua russa.

Tuttavia, è ovvio da tempo che l’Ucraina è solo la parte visibile dell’iceberg strategico, per entrambe le parti. L’Occidente vuole, grosso modo, un ritorno agli anni ’90 e la fine di un concorrente ideologico e strategico. Gli obiettivi russi ovviamente includono la frustrazione, ma quasi certamente vanno molto oltre. A differenza di molte persone, non ho idea di cosa ci sia nei capi collettivi del governo russo, ma è possibile fare alcune ampie deduzioni dalle bozze di trattati che i russi hanno fatto circolare nel dicembre dello scorso anno. Questi sono testi di trattati, e per di più bozze, quindi è improbabile che costituiscano qualcosa di più di una lista di obiettivi che in realtà dovrebbero probabilmente essere aggiustati verso il basso. Ma possiamo fare alcune deduzioni ragionevoli.

Il principale obiettivo russo in Europa è quello di essere la superpotenza militare locale, in un’Europa che è militarmente debole, in parte dipendente economicamente dalla Russia, e non rappresenta una minaccia militare. Per quanto riguarda la stessa Europa occidentale, ora non siamo lontani da questo: si poteva dire che solo l’Ucraina rappresentava una minaccia militare, e non è più così. L’idea sarebbe allora quella di convertire l’anello di Paesi attorno ai confini di Russia, Ucraina e Bielorussia (in pratica, Baltici, Romania e Polonia) in effettivi stati neutrali, senza truppe straniere di stanza lì. Ciò non significherebbe necessariamente che questi paesi lascino la NATO, perché le truppe statunitensi, ad esempio, sono comunque di stanza in paesi non NATO. Piuttosto, ci sarebbe un tacito accordo (come con la Finlandia durante la Guerra Fredda) che questi stati si sarebbero comportati bene nei confronti della Russia. Una componente di questa soluzione sarebbe il ritiro del numero relativamente piccolo di truppe statunitensi ancora in Europa. È probabile che ciò faccia parte dell’obiettivo parallelo di distruggere efficacemente la NATO come alleanza, dimostrando che, in pratica, non ha alcuna utilità militare e, per estensione, che quella che viene generalmente chiamata la “garanzia di sicurezza” americana è priva di valore. Si noti che questo non significa che la NATO non possa sopravvivere in qualche forma dormiente e rudimentale; è improbabile che i russi si oppongano a questo.

In tutto questo, bisogna tenere presente un altro concetto di Clausewitz: il Centro di Gravità. Clausewitz ha scritto molto su questo in diverse parti di On War, ma il modo più semplice per concepirlo consiste nel definire l’obiettivo più importante della guerra, da cui dipende tutto il resto. È “la sostanza ultima della forza nemica” sulla quale dovrebbe essere concentrato il massimo sforzo possibile. Clausewitz osserva che queste possono essere, ma non devono necessariamente essere, le forze militari del nemico. Alla fine del libro, monta una forte difesa della decisione di Napoleone di entrare a Mosca nel 1812, piuttosto che inseguire l’esercito russo sconfitto. Nessuna vittoria militare concepibile, sostiene, avrebbe potuto buttare fuori dalla guerra un paese delle dimensioni della Russia, mentre prendere e detenere la capitale nemica avrebbe potuto farlo. Alla fine, accetta che il piano sia fallito, ma in realtà valeva la pena tentare la sola cattura di Mosca. Se lo zar e l’aristocrazia fossero stati scossi dalla perdita della città come sperava Napoleone, la guerra sarebbe finita.

Clausewitz osserva inoltre che il centro di gravità potrebbe essere lo sferrare un colpo contro un alleato più potente. Quindi, nel caso delle operazioni nella stessa Ucraina, ciò significa la volontà dell’Occidente di continuare a sostenere militarmente, politicamente ed economicamente il regime di Kiev, perché se questo si ferma, finirà anche un’effettiva resistenza ucraina e questo aprirà la strada ad altri obbiettivi strategici. In una guerra in cui sia la Russia che l’Occidente stanno attenti a non colpirsi direttamente, questa volontà dovrà essere attaccata indirettamente, convincendo di fatto l’Occidente ad arrendersi, perché il successo è impossibile. Ci sono precedenti per questo, anche se possono sembrare sorprendenti. Le forze NVA/VietCong che combattevano contro gli Stati Uniti e le forze del Vietnam del Sud erano ben consapevoli di non poter ottenere una vittoria militare convenzionale. Quello che potevano fare era portare gli americani al punto in cui si rendevano conto che la lotta era senza speranza, semplicemente continuando la guerra e infliggendo danni politici ed economici agli stessi Stati Uniti. Questo lo fecero debitamente. La situazione era abbastanza simile con i francesi in Algeria e i portoghesi in Angola; entrambi erano militarmente dominanti, ma ogni guerra si concludeva con l’esaurimento politico ed economico e un cambio di governo. L’Afghanistan è un esempio più recente di un simile approccio. Quindi qui, l’obiettivo russo è probabilmente l’esaurimento politico ed economico dell’Occidente al punto in cui un ulteriore sostegno all’Ucraina sembra inutile, o addirittura impossibile. E anche se potrebbe non essere stato parte dei piani originali, è difficile credere che i russi si sarebbero pentiti che l’Occidente continuasse, almeno per un po’, a indebolirsi militarmente ed economicamente per una causa senza speranza.

Quindi, a quel livello, i russi stanno presumibilmente cercando di far rinunciare all’Occidente ad ogni speranza di una soluzione a loro favorevole. Ciò significa che non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi o ad accettare colloqui di pace. In effetti, cercano solo di dettare i termini della pace, forse lungo le linee delineate sopra. Se l’Occidente non si arrende, le operazioni in Ucraina continueranno finché sarà necessario. A un livello strategico più alto, i russi probabilmente intendono anche che la guerra duri abbastanza a lungo da rendere trasparente la debolezza della NATO e l’impotenza degli Stati Uniti, in modo tale da poter raggiungere più facilmente il tipo di obiettivi più ampi che ho appena delineato , oltre a indebolire le economie occidentali.

Ora, non ho idea se questo sia effettivamente ciò che i russi intendono fare: posso solo dire che mi sembra del tutto possibile. Questa è, dopotutto, una società che prende Clausewitz più seriamente di Harry Potter e Tolstoy come una guida alla guerra migliore di Twitter. E non ho idea se avrà successo. Ma ancora più importante, se l’analisi di cui sopra è corretta anche lontanamente, allora il fatto che l’Occidente è intellettualmente e politicamente mal equipaggiato per capire cosa stanno facendo i russi, figuriamoci circa la capacità di reagire efficacemente.

https://aurelien2022.substack.com/p/its-war-josep-but-not-as-we-know

Ucraina, il conflitto 21a puntata_azioni coordinate Con Stefano Orsi e Max Bonelli

La mano del generale Surovikin comincia a farsi notare anche sul campo di battaglia oltre che sul più esteso teatro di guerra. Dopo il grande ripiegamento, pressoché indolore, da Kherson, compresa la protezione della popolazione filorussa, questa volta l’impronta è impressa sulla capacità di sostenere, in maniera dinamica, il confronto con l’esercito ucraino su di un fronte ormai ben definito e disegnato. Ormai l’esito del confronto sarà determinato dall’esaurimento di una delle forze in campo piuttosto che dall’avvio di una azione diplomatica, sempre sul punto di emergere, ma senza riuscire ad imporsi. In Ucraina hanno preso piede ormai un vero e proprio regime di guerra ed una economia altrettanto di guerra che ormai procedono per inerzia, per quanto spaventosa. Dal canto loro, gli Stati Uniti, l’attuale leadership, si sono troppo compromessi finanziariamente e politicamente per poter fare un passo indietro. In venti anni hanno creato in Ucraina una vera e propria zona franca nella quale il riciclaggio di denaro, il commercio illegale, le spericolate sperimentazioni di laboratorio fanno da supporto ed incentivo prosaico al disegno di neutralizzazione ed annichilimento della Russia. Una zona franca diventata terreno di pascolo di buona parte del ceto politico responsabile di queste scelte. Nell’altro versante quello che è iniziato come una ipotesi di collaborazione sempre più stretta tra la Russia, la Cina, l’Iran e, un po’ più a latere, l’India si sta tramutando in prime forme di integrazione del complesso militare industriale, nella fattispecie tra Russia ed Iran. Da un mondo unipolare e tendenzialmente bipolare si sta passando ad una fase multipolare sempre più definita. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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COSA È CAMBIATO?_di Pierluigi Fagan

COSA È CAMBIATO? (Spoiler: non lo so). Due post fa ricordavo le dichiarazioni di Biden ad inizio ottobre che segnavano un deciso cambio di atteggiamento verso Russi, Putin e guerra in Ucraina. “Deciso” non sarà sembrato a chi non si interessa di questioni internazionali dove vige un codice simbolico per il quale anche piccoli accenni di qua e non di là fanno segnale, differenza, quindi informazione. Da allora, continuo il flusso di segnali, alcuni in una direzione, altri a mantenere calda l’atmosfera, ma seguendo chi diceva cosa e che potere ha, sempre più di un tipo e sempre meno dell’altro. Il generale Milley ha alla fine messo giù carte decise dicendo che era giunto il tempo di trattare, che gli ucraini avevano dato il massimo e di più non si poteva pretendere, ieri ha apertamente detto che la situazione sul campo non è credibilmente migliorabile. Attenzione, trattare non è pace, si può trattare per anni ed anni e così rendere di fatto una situazione che non si può accettare ufficialmente. Russia e Giappone non hanno ancora firmato la pace dopo 77 anni dalla IIWW.

Nel frattempo, i russi si ritiravano da Kherson, sia segnale di accettazione del presunto stato del campo ovvero darsi il Dnepr come confine, sia ovvia mossa di logistica militare. La questione del missile polacco ha mostrato come il dibattito pubblico non capisce quasi nulla di ciò che succede. Ho letto la notizia a tutta pagina prima di andare a letto ed ho pensato “ma perché mettere a tutta pagina una stupidaggine del genere?”. Un singolo missile a pochi chilometri dal confine di un paese in guerra è evidentemente un errore, non importa fatto di chi, certo non si attiva l’art. 5 della NATO per una cosa del genere. Viepiù in un clima generale che stava andando verso il sedersi al tavolo, anzi proprio questo generale andare verso il tavolo (USA-Russia), poteva ben spiegare chi aveva intenzione di sparare un missile dove non doveva.
Che Zelensky (nome collettivo dell’élite ucraina al potere) non abbia alcuna voglia di andare al tavolo e sostanzialmente accettare lo stato del campo o giù di lì (trattando qualcosa potrebbe ottenere se gli americani su un altro tavolo dessero qualcosa ai russi in termini di architettura di sicurezza generale), si comprende. Tuttavia, si spera siano abbastanza intelligenti da capire che affidarsi alle volontà strategiche di una iper-potenza dominante, comporta accettare questi cambi repentini di postura. Probabilmente, più si scende lungo la scala di rilevanza politica di questa scala, meno intelligenza si trova. Questo era noto e ne scrivemmo mesi fa, difficile per i vertici del potere ucraino richiamare ora le frange eccitate dal conflitto, armate, eroizzate, rese protagoniste, eccitate dal traffico d’armi e relativi introiti ed ora destinate a tornare nell’ombra. In questi casi capita anche che ti lancino un razzo a tua insaputa rendendo così palese che tu certe cose non le controlli.
Il che vale anche per il corteo di quelli che una volta si chiamavano “servi sciocchi” dell’establishment europeo e mediatico. Hanno preso tutti a vibrare all’unisono al segnale che forse, sì, era giunta “l’ora più buia” l’altra sera. Poi si sono resi conto che gli americani avrebbero sostenuto la tesi dell’incidente di tiro degli ucraini anche se il razzo fosse stato avvolto nel tricolore blu-bianco-rosso. Si capisce le opinioni pubbliche non siano veloci a cogliere i mutamenti di quadro, ma quelli che hanno responsabilità politiche e di interpretazione mostrano semmai più stupidità il che è sconfortante una volta di più.
Gente che in questi mesi è andata a dire che ii russi volevano andare a Berlino, poi che volevano prendere tutta l’Ucraina, che Putin aveva evidenti segnali di malessere psichico e fisico, poi che sarebbero crollati sotto le sanzioni, poi che ci sarebbe stato un colpo di stato contro Putin, poi che i russi avevano finito i missili, i soldati, i carrarmati, che ci si sarebbe fermati solo riconquistando la Crimea, che forse si poteva nuclearizzare Mosca preventivamente o forse anche solo con le armi convenzionali. Tonnellate e tonnellate di sciocchezze emesse 7/24 con sciami di replicatori su i social a creare nuvole di falsa percezione, altro che fake news. Anche loro, come gli eroi ucraini al fronte, ora presi in contropiede.
L’altro giorno a Bali, riunione dei G20, Biden ha dato altri segnali con Xi Jinping. E vabbe’ ci sarà competizione accesa ma forse conviene rimanere dentro quadrati predefiniti di ciò che si può e non si può dire o fare. Se ne riparlerà in un prossimo incontro sino-americano tra addetti ai lavori tecnici. La Dichiarazione di Bali, che si disperava si potesse avere in comune e che invece gli americani volevano fortemente, ammette che non tutti erano d’accordo, specie sulle unilaterali attribuzioni di colpe e sulle sanzioni ma che sì, la guerra perturba l’economia mondiale (che è l’oggetto per cui esiste il formato G20). Già, ne parlammo tempo fa a proposito della “pace multipolare”, la grande parte del mondo questa guerra non la voleva, non la vuole, la rifiuta come perno per operare in logica geopolitica contro la logica geoeconomica che dà speranze di sviluppo a tutti loro. Atteggiamento che vale verso gli americani, gli europei, i russi. Molti non hanno capito cosa significa “multipolare”, ovvero che gli attori sono tanti diversi, ognuno col proprio interesse e punto di vista. È da questa pluralità che può emergere un mondo sì dinamico (il mondo statico-ordinato tocca scordarcelo per sempre) ma più equilibrato come si conviene ad ogni sistema iper-complesso.
Biden se l’è sentito dire e ripetere a soggetto specifico Asia ed atteggiamento verso la Cina, nell’incontro precedente a Bali con gli ASEAN, gli 11 paesi asiatico orientali senza i quali la strategia di contenimento dei cinesi pensata a Washington non va da nessuna parte. Ma per la verità quella strategia era noto non andasse da nessuna parte. Da tempo penso che i circoli geopolitici di Washington sappiano qualcosa di Europa, Russia, Medio Oriente ma quanto all’Asia, mostrano di non saperne quasi nulla. Una cosa come quella della “Pelosi goes to Taiwan” la fai solo se non conosci i minimi termini di base della mentalità asiatica, asiatico confuciana diciamo. Tutta la storia dell’Indo-Pacifico ed i corteggiamenti multipli ai vicini del gigante di Beijing, mostra inquietanti segnali di wishful thinking. Ma si sono mai presi i dati di import-export di questi Paesi prima di pianificare strategie? Taiwan, per dirne una, a parte distare poche miglia dalla costa cinese, ha il 40% tanto dell’import che dell’export con RPC-Hong Kong. Alle brutte, basta un blocco navale totale e la sospensione totale di ogni scambio con l’isola che dopo due-tre settimane il capitalismo taiwanese farebbe un colpo di stato in favore di “una nazione, due sistemi” altro che Terza guerra mondiale. Se sottrai di colpo il 40% di un sistema, il sistema crolla per implosione.
Rimane la domanda: cosa ha cambiato la postura americana? Attenzione, di nuovo, in politica internazionale non puoi mai esser certo e definitivo, potrebbe esser un “buying time” in favore di cosa non so dire, ma un cambio moderato e però significativo c’è.
In questi due mesi pendeva la spada di Damocle delle elezioni in USA. Ora sappiamo che: 1) i democratici hanno salvato il Senato; 2) i repubblicani hanno preso la Camera; 3) l’area Trump ha problemi interni allo schieramento repubblicano. Tante altre cose del complesso ambiente economico e finanziario stelle e strisce non le sappiamo anche se possiamo intuire che siano, a parte ovviamente il complesso militar-industriale, più o meno sulle stesse posizioni di chi questo innalzamento della temperatura del conflitto non lo vuole per niente. Si fa presto a dire “friendshoring”, farlo è tutt’altro conto. Di questi tempi la nostra attenzione è strapazzata di qui e di là, forse pochi hanno registrato che Facebook ha operato 11.000 licenziamenti, più quelli di Musk a Twitter ed i prossimi di Amazon verso cui comincia qui in Europa a montare un certo fastidio allargato visto che chiudono negozi, gente va per strada, quei camioncini con lo sbaffo del sorriso inquinano e complicano il traffico, rubano dati, le vendite mondiali di smartphone sono in decisa contrazione etc.. Ma come? L’Era dei Dati, il mondo digitale e metaversico, il “Futuro”? Il Grande Reset è durato lo spazio di un mattino? Non ci sono più le distopie di una volta. Ma poi, questo comparto, non era poi il principale sponsor anche finanziario del partito democratico?
Andranno fatte ricerche ed analisi più a grana fine. I dem, forse, vedono la possibilità di spaccare i repubblicani tra l’area old style conservatrice ma sennata e l’area populista arruffona dissennata e quindi vedono luce per le elezioni fra due anni che prima erano buie. Gli alleati o i potenziali tali, stanno facendo sapere che qui ognuno ha i suoi problemi, tanti, economici, sociali, climatico-ambientali, politici. Forse è il caso di rallentare l’impeto della strategia “democrazie vs autocrazie” ovvero Cold War 2.0 che poi da Cold ad Hot ci mette un attimo. Russia va bene, ma con la Cina aspetta un attimo, come ha mostrato Scholz andando in Cina coi vertici delle sue multinazionali, i tedeschi sono lì per primi, erano tutte tedesche le aziende che aprirono le prime industrie a capitale misto (51% cinese) quando andai lì nel 1990. Magari meglio buttarla sulla diplomazia. Ne scrivemmo, ci pareva una strategia eccessivamente semplificante ed ambiziosa, difetti tipici di certi strateghi americani, lo si dice dal punto di vista “tecnico” che in questo periodo di grandi passioni ideali è un punto di vista poco frequentato ma che è sempre quello che, realisticamente, detta le partiture di gioco che è e rimane razionale.
Ai dem che ragionano ad elezioni, conviene ora metterla giù morbida, tanto internamente che esternamente. I mesi più difficili, dal punto di vista economico, finanziario, energetico, debbono ancora arrivare. Le olimpiadi greche sospendevano i conflitti, facciamo i mondiali, aspettiamo primavera, poi vediamo. Forse…

 

Ucraina, il conflitto_20a puntata. Punti deboli e punti forti_con Max Bonelli e Stefano Orsi

L’arretramento dell’esercito russo da Kherson ha lasciato perplessi alcuni. I più hanno manifestato entusiasmo per la vittoria decisiva degli ucraini e in particolare del loro regime, giacchè sono pure ucraini la parte consistente di popolazione sulla quale infieriscono i sodali di Zelensky; altri, con fare sornione, intravedono una trappola geniale in un arretramento, in perfetto ordine e con nessuna perdita, comunque difensivo e seguito al precedente arretramento sulla parte settentrionale del fronte. Il protrarsi del conflitto, come ogni evento bellico, sta mettendo a nudo i punti dolenti e i punti di forza di ogni schieramento. Nella sostanza strategica gli uni hanno capovolto al momento le sorti al prezzo della progressiva distruzione del proprio paese, per meglio dire del paese del quali detengono le redini, in condizioni di spossatezza. Gli altri, con ampie risorse ancora da gestire, contengono la pressione sul campo giocando un conflitto su più piani e con interlocutori, di fatto i reali decisori della sorte del regime. Inizia ad intravedersi una prima lacerazione tra i beneficiari di una economia di guerra e gli strateghi del gioco geopolitico che devono conciliare le esigenze di un confronto multipolare con i più prosaici interessi di bottega a corollario. Vedremo se l’inverno porterà consiglio. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1vizk0-ucraina-20a-puntata-debolezze-e-punti-forti-con-max-bonelli-e-stefano-orsi.html

Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici, di Gianandrea Gaiani

Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici

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Dopo nove mesi di sanguinose battaglie in cui i russi puntavano a sfondare verso Mikolayv e gli ucraini a raggiungere la riva destra del Dnepr la battaglia per la città di Kherson e i territori dell’omonima regione posti oltre il grande fiume sembra potersi risolvere con il ritiro delle forze di Mosca.

L’annuncio russo del ritiro dai territori sulla riva destra del Dnepr potrebbe segnare una svolta, forse più politica che militare, nel conflitto in Ucraina.

Il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha ordinato il 9 novembre il ritiro delle truppe da Kherson, inclusa la città omonima, e il loro rischieramento sulla sponda sinistra del fiume dove da settimane erano in corso lavori di costruzione di fortificazioni e linee difensive.

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I vertici ucraini, incluso il presidente Volodymyr Zelensky, hanno mostrato per ora molta cautela nei confronti dell’annuncio. Le forze di Mosca sul lato destro del Dnepr sono stimate in oltre 20 mila uomini (addirittura 40 mila secondo alcune stime) appartenenti ai migliori reparti di fanteria leggera (fanteria di Marina e truppe aviotrasportate) che finora hanno difeso con successo la testa di ponte oltre il Dnepr che avrebbe dovuto aprire ai russi la strada per prendere Odessa attaccandola da nord invece che dal mare.

Dall’estate scorsa invece le forze di Mosca sono sulla difensiva, attaccate da oltre 100 mila soldati ucraini che secondo diverse fonti hanno subito perdite spaventose pur conquistando alcune porzioni di quel territorio.

Dal primo ottobre le forze ucraine hanno liberato 41 insediamenti in questa regione, ha detto ieri su Telegram il comandante delle forze armate di Kiev, Valery Zaluzhnyi. “L’avanzata delle nostre truppe nella profondità della difesa nemica è arrivata a 36,5 chilometri”, specifica Zaluzhnyi, “la superficie totale del territorio riconquistato raggiunge i 1.381 chilometri quadrati ed è stato ripristinato il controllo su 41 insediamenti” (nel video e nella foto sotto truppe ucraine dotate di mezzi blindati occidentali e australiani nella regione di Kherson).

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Solo nell’ultimo giorno “in direzione di Pervomaiske-Kherson siamo avanzati di 7 chilometri, abbiamo preso il controllo di 6 insediamenti e l’area del territorio liberato è di 157 chilometri quadrati”, ha aggiunto il comandante in capo delle forze armate ucraine.

Completata ieri anche la liberazione della regione di Mykolaiv, di cui in realtà i russi avevano occupato solo una piccolissima parte (annessa alla regione di Kherson) intorno alla cittadina di Snihurivka, snodo delle diverse strade della sponda destra del fiume Dniepr, caduta in mano russa in marzo e a quanto sembra riconquistata in queste ore dagli ucraini.

Il ritiro dalla città di Kherson costituisce una sconfitta sul piano militare e simbolico per i russi poiché la città è l’unico capoluogo regionale conquistato dall’inizio del conflitto e la regione di Kherson è una delle quattro annesse alla Federazione Russa in seguito ai referendum di fine settembre.

Una sconfitta, o più probabilmente un ridimensionamento delle ambizioni dell’operazione speciale varata da Mosca il 24 febbraio, ma non una disfatta.

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I russi sembrano essersi ritirati in buon ordine lasciando agli ucraini una città e numerosi villaggi quasi disabitati, ampiamente devastati dai bombardamenti ucraini e dalle demolizioni dei russi e con ogni provabilità massicciamente minati dalle truppe di Mosca per complicare le operazioni al nemico.

Nonostante l’annunciato ritiro, il Cremlino ha escluso qualsiasi modifica dello status della regione di Kherson conseguentemente al ritiro delle truppe russe sulla riva sinistra del Dnepr poiché il territorio fa parte “della Federazione Russa, questo status è legalmente definito e fissato.

MOSCOW, RUSSIA - DECEMBER 19, 2019: Russia's Presidential Spokesman Dmitry Peskov looks on during the 15th annual end-of-year news conference by Russia's President Vladimir Putin at the World Trade Centre. Mikhail Metzel/TASS Ðîññèÿ. Ìîñêâà. Ïðåññ-ñåêðåòàðü ïðåçèäåíòà ÐÔ Äìèòðèé Ïåñêîâ íà áîëüøîé åæåãîäíîé ïðåññ-êîíôåðåíöèè ïðåçèäåíòà ÐÔ Âëàäèìèðà Ïóòèíà â Öåíòðå ìåæäóíàðîäíîé òîðãîâëè íà Êðàñíîé Ïðåñíå. Ìèõàèë Ìåòöåëü/ÒÀÑÑ

Non ci sono e non possono esserci cambiamenti”, ha affermato il portavoce presidenziale Dmitry Peskov, in un riferimento all’annessione della regione il 30 settembre scorso.

Quanto al ritiro russo e se questo possa apparire come un colpo al prestigio della dirigenza russa, Peskov ha detto che “esistono valutazioni opposte in proposito.

E in ogni caso la situazione non è umiliante. Ma non vorremmo commentare né in un modo e né in un altro. Il conflitto in Ucraina potrà finire dopo il raggiungimento degli obiettivi o terminare con il raggiungimento degli obiettivi attraverso negoziati pacifici. Kiev non vuole negoziati, quindi l’operazione militare speciale continua”. L’impressione è quindi che il Cremlino tenda a non commentare il ritiro da Kherson tenere Vladimir Putin al riparo da critiche e valutazioni negative circa l’andamento del conflitto.

“La giustizia sarà ristabilita, tutte le terre della regione di Kherson saranno riprese sotto il controllo delle forze alleate di Mosca” ha affermato il governatore ad interim della regione, Vladimir Saldo.

“La nostra terra nella regione di Kherson, tutto il suo territorio, tutti i suoi residenti faranno di certo parte della Federazione Russa”, ha concluso il governatore.

OCTOBER 16, 2022. Engagement of an Uragan multiple rocket launcher system of the Russian Central Military District under cover of electromagnetic complexes. Artillery units are protected by electromagnetic systems that monitor the sky and destroy detected enemy drones with an electromagnetic pulse. Best quality available. Video screen grab. A STILL IMAGE TAKEN FROM A VIDEO PROVIDED BY A THIRD PARTY ON 16 OCTOBER 2022. EDITORIAL USE ONLY. Russian Defence Ministry/TASS Áîåâàÿ ðàáîòà ðàñ÷åòîâ ðåàêòèâíûõ ñèñòåì çàëïîâîãî îãíÿ (ÐÑÇÎ) "Óðàãàí" Öåíòðàëüíîãî âîåííîãî îêðóãà (ÖÂÎ), äåéñòâóþùèõ ïîä ïðèêðûòèåì ðàñ÷åòîâ ýëåêòðîìàãíèòíûõ êîìïëåêñîâ.  ðàéîíàõ äèñëîêàöèè è áîåâûõ ïîçèöèé ïîäðàçäåëåíèÿ àðòèëëåðèè íàõîäÿòñÿ ïîä çàùèòîé ýëåêòðîìàãíèòíûõ êîìïëåêñîâ, ðàñ÷åòû êîòîðûõ âåäóò íàáëþäåíèå çà âîçäóøíûì ïðîñòðàíñòâîì è óíè÷òîæàþò ýëåêòðîìàãíèòíûì èìïóëüñîì îáíàðóæåííûå äðîíû ïðîòèâíèêà. Ñíèìîê ñ âèäåî. Ìàêñèìàëüíî âîçìîæíîå êà÷åñòâî. Ïðåññ-ñëóæáà Ìèíîáîðîíû ÐÔ/ÒÀÑÑ ÏÐÅÄÎÑÒÀÂËÅÍÎ ÒÐÅÒÜÅÉ ÑÒÎÐÎÍÎÉ 16 ÎÊÒßÁÐß 2022. ÒÎËÜÊÎ ÄËß ÐÅÄÀÊÖÈÎÍÍÎÃÎ ÈÑÏÎËÜÇÎÂÀÍÈß

Per il governo ucraino le forze armate russe vogliono “ridurre in macerie” Kherson, da cui si sono appena ritirate, e stanno “minando tutto” ha detto ieri il consigliere presidenziale ucraino Mykaylo Podolyak al quotidiano Ukrainska Pravda precisando che a Kherson ci sarebbero ancora militari russi e non si vedrebbero segni di ritirata e aggiungendo le forze armate ucraine non possono “né confutare né confermare le informazioni sul cosiddetto ritiro delle truppe russe da Kherson”.

Un ripiegamento che fa seguito al repentino ritiro in settembre dalla regione di Kharkiv di fronte all’offensiva ucraina che sfondò facilmente linee difensive quasi del tutto sguarnite di armi e truppe co sente do agli ucraini di mettere le mani su almeno un centinaio di mezzi corazzati e d’artiglieria russi.

 

Evacuati i civili

Il comandante delle truppe russe in Ucraina, il generale Sergey Surovikin (nella foto sotto), ha ricevuto dal ministro Shoigu l’ordine di avviare il ritiro secondo un piano messo a punto dallo stesso Surovikin subito dopo aver assunto il comando, quando diede il via all’evacuazione di tutti i civili che volevano lasciare le loro case a Kherson e negli altri centri sulla riva sinistra del Dnepr.

Un esodo che ha visto muoversi verso la Crimea e il territorio russo 88 mila abitanti della città (che prima della guerra ne contava 300 mila) e 115 mila dell’intera regione.

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Di fatto i russi hanno evacuato la popolazione, fedele a Mosca, per sottrarla ai bombardamenti ucraini e soprattutto alle feroci rappresaglie che le milizie nazionaliste inserite nei servizi di sicurezza di Kiev hanno perpetrato (nel silenzio dei media occidentali) nei territori riconquistati dall’esercito ucraino.

Per Kiev si tratterebbe in realtà di deportazione della popolazione ucraina ma questa valutazione, comprensibile in termini di propaganda, non sembra credibile. Oltre 3 milioni di cittadini ucraini hanno infatti trovato rifugio in Russia e almeno altrettanti vivono nei territori controllati da Mosca e dalle forze secessioniste mentre in diverse aree lungo la prima linea vi sono varchi (come nell’oblast di Zaporizhzhia) in cui i cittadini ucraini possono muoversi tra i territori controllati da Kiev e quelli in mano a russi e separatisti.

Ovviamente il governo ucraino tendeva negare che quella in corso sia anche una guerra civile come dimostrano gli oltre 50 mila combattenti ucraini degli eserciti secessionisti di Donetsk e Luhansk e i il fatto che a Kiev sono stati messi fuori legge 12 partiti, incluso quello arrivato secondo alle ultime elezioni, con l’accisa di essere “filorussi”.

Sotto l’incalzare di forze ucraini numericamente preponderanti (Kiev ha pochi giorni fa avviato il reclutamento di altri 100 mila uomini) Surovikin ha suggerito la “decisione difficile” di arretrare la linea di difesa lungo la sponda sinistra del Dnepr.

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“Capisco che questa sia una decisione molto difficile”, ha detto Surovikin, spiegando che è legata anche all’eventualità di un attacco di Kiev alla diga di Novaya Kakhovka, più volte colpita dai razzi ucraini nei giorni scorsi.

“In questo caso ci sarebbe un’ulteriore minaccia per la popolazione civile e il completo isolamento del nostro gruppo di truppe sulla riva destra del Dniepr. In queste condizioni, l’opzione più appropriata è organizzare la linea difensiva lungo la riva sinistra”, ha detto Surovikin senza indicare una data precisa per il ritiro precisando che l’operazione avverrà “nel prossimo futuro”.

In realtà già la mattina dell’11 novembre diversi elementi sembrano indicare che il ritiro è stato quasi completato. Soprattutto il danneggiamento del ponte Antonovsky (nella foto a sinistra) sul fiume Dniepr, a Kherson.

L’infrastruttura per mesi è stata utilizzata per rifornire le truppe russe al di là del fiume e per questo a lungo bersagliata dai razzi dei sistemi HIMARS impiegati dagli ucraini.

Il giornalista russo della Komsomolskaya Pravda, Oleksandr Kots, ha pubblicato su Telegram un video della distruzione del ponte, al quale mancano due campate: una demolizione attuata quindi con ogni probabilità dai russi in ritirata che inibisce al nemico l’uso del ponte ma non ne impedisce domani la ristrutturazione.

 

Conseguenze militari

Il ritiro russo consentirà di ridurre l’impegno in prima linea di molti reparti in quel settore, di rafforzare le difese a Luhansk e di condurre offensive in altri settori come quello di Donetsk dove i russi hanno ripreso ad avanzare anche se con progressi lenti sul terreno.

Certo Mosca confermerebbe così di aver assunto un assetto prettamente difensivo come nell’oblast di Luhansk con la costituzione della cosiddetta “Linea Wagner”, propedeutico in questa fase al tentativo di sviluppare una trattativa per concludere il conflitto.

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Meglio però non dimenticare che circa un terzo dei 300 mila riservisti mobilitarti sono già stati assegnati ai reparti e in futuro amplieranno le opzioni in mano al comando russo per sostenere la difesa dei territori occupati o per alimentare nuove offensive.

A sostenere le buone ragioni del piano di ritirata sono scesi in campo anche i due maggior esponenti del fronte nazionalista-patriottico e fautori della guerra in Ucraina: il leader della milizia privata Wagner, Yevgeny Prigozhin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov, vicino al Cremlino.

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Segno che questa volta non ci saranno faide contro i comandanti militari come è accaduto nei mesi scorsi e che tutti a Mosca concordano nel ridurre il rischio di lunghe battaglie d’attrito che comporterebbero gravi perdite.

Oltre ad azzerare per il momento le possibilità russe di prendere Mykolayv e Odessa, il ritiro oltre il Dnepr comporta anche una maggiore esposizione della Crimea e soprattutto dell’istmo che collega la penisola ai territori ucraini sotto il controllo russo all’artiglieria lungo raggio ucraina che dalla riva sinistra del fiume avrà a tiro gli obiettivi nell’istmo situati a poco più di 70 chilometri in linea d’aria.

 

Aspetti politici

A Kiev non mancano le reazioni perplesse all’annuncio russo. Podolyak ha fatto sapere di “non vedere segnali che la Russia lascerà Kherson senza combattere”. Anzi ha affermato che parte del contingente “rimane all’interno della città”, mentre si prevede l’arrivo di nuovi rinforzi russi nella regione. “Noi liberiamo territori sulla base di informazioni di intelligence, e non di dichiarazioni alla tv” che appaiono come una “messa in scena”.

In realtà già il 9 novembre fonti militari ucraine confermavano il ritiro russo da alcuni settori. “Oggi, i russi hanno effettivamente iniziato a far crollare l’intera linea del fronte di Kherson e hanno iniziato una ritirata di massa. Nel settore di Berislav, gli occupanti sono scomparsi in un certo numero di insediamenti. Cioè, non ci sono occupanti lì per ora. I russi se ne vanno in massa, ma quando se ne vanno fanno saltare in aria i ponti” ha detto Serhii Khlan, consigliere dell’amministrazione militare regionale di Kherson.

Khlan ha aggiunto che i russi stanno rafforzando le difese sulla sponda sinistra per lasciare in modo più sicuro la sponda destra della regione di Kherson: “Oggi stanno cercando di rafforzare alcune delle loro posizioni al fine di frenare l’offensiva delle forze armate e ritirarsi in sicurezza dalla riva destra del Dnipro”.

La stessa fonte ha confermato che “gli occupanti hanno fatto saltare in aria non solo i ponti Daryiv e Tyagin ma anche il ponte all’uscita da Snigurivka verso Kherson, il ponte Mylovi a il Novokairy”.

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I piani di ritiro russi sembrerebbero quindi confermati dal fatto che sono stati fatti esplodere almeno 5 ponti, per rallentare l’avanzata nemica, ma in guerra non si può mai escludere che venga utilizzata l’arma dell’inganno così come pare scontato che i russi in ritirata abbiano lasciato molte aree minate per mettere in difficoltà gli ucraini.

“Gli invasori russi continuano a depredare gli insediamenti dai quali si stanno ritirando e il nemico sta anche cercando di danneggiare il più possibile le linee elettriche e altri elementi dei trasporti e delle infrastrutture critiche dell’oblast di Kherson” ha reso noto lo Stato maggiore delle forze armate ucraine.

Atteggiamenti consueti per ogni esercito che si ritiri senza voler lasciare nulla di utile al nemico: in questo caso si tratta della strategia della “terra bruciata” lasciata al nemico attuata su scala ben più ampia dai russi in ritirata contro le truppe napoleoniche e dell’Asse.

“Gli Stati Uniti hanno rilevato alcuni segnali che fanno pensare ad un possibile ritiro russo dalla città di Kherson”, ha dichiarato il Consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan.

Altri segnali sembrerebbero indicare la volontà russa di ritirarsi oltre il Dnepr, come il reiterato invito e Kiev a negoziare sulla base della “attuale situazione”, come ha fatto sapere per ultima la portavoce del ministero di esteri Maria Zakharova.

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Il che significherebbe trattare accettando che i russi mantengano il controllo dei territori a oggi sotto il loro controllo. Scontata la risposta negativa degli ucraini che confermano di voler trattare solo dopo il ritiro totale dei russi dal territorio ucraino.

Il ritiro russo da Kherson rappresenta un importante segnale politico inviato da Mosca ma rivolto all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti, non agli ucraini. Non deve sfuggire che l’annuncio del ritiro è stato effettuato il giorno dopo le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: circostanza definita “curiosa” dal presidente Joe Biden che considera il ritiro annunciato un “ulteriore segnale dei problemi che i russi stanno affrontando”. Difficile però non trovare nella coincidenza temporale la conferma che Washington e Mosca stanno trattando segretamente una via d’uscita dal conflitto.

Certo Biden ha aggiunto che “rimane da vedere se le autorità ucraine saranno pronte a scendere a compromessi con la Russia” ma è altrettanto chiaro che tali opzioni non sono nelle mani di Kiev.

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L’Ucraina è in ginocchio tra danni di guerra, morti militari re civili, black-out elettrico che minaccia di costringere milioni di cittadini a cercare un rifugio in Europa per l’inverno. Solo il sostegno militare ed economico dei paesi della NATO consente a Kiev di continuare a combattere, a dare da mangiare alla popolazione, a pagare gli stipendi con un PIL quasi dimezzatosi dall’inizio della guerra e che il blackout elettrico divenuto ormai una costante quotidiana potrebbe ridurre di un ulteriore 40 per cento.

E’ evidente quindi che l’Occidente ha a disposizione la leva degli aiuti militari ed economici per indurre Zelensky a trattare. Forse non a caso ieri, mentre il Pentagono annunciava nuovi aiuti militari caratterizzati da forniture di missili antiaerei, il Wall Street Journal ha reso noto che il Pentagono ha deciso di non fornire a Kiev i grandi droni armati americani Grey Eagle nel timore che questo potesse portare a un’escalation del conflitto.

Anche tenendo conto che molti ambienti politici statunitensi (in maggioranza repubblicani ma anche democratici) sono stanchi di questa guerra, per le conseguenze economiche e perché ne temono i rischi di potenziale escalation non si può escludere che il Congresso uscito dalle elezioni di mid-term possa imprimere una svolta nella gestione del conflitto impostata finora dagli Stati Uniti sulla volontà di prolungarlo per logorare la Russia.

Il ritiro russo da Kherson offre quindi a Washington una ulteriore opportunità per indurre gli ucraini a sedersi al tavolo delle trattative potendo vantare successi militari e ridotte ambizioni territoriali da parte di Mosca.

Con un tempismo non casuale l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, ha detto in un’intervista apparsa oggi sul quotidiano russo Izvestija che gli Stati Uniti potrebbero porre fine al conflitto in Ucraina con “uno schiocco di dita”.

@GianandreaGaian

Foto: Ministero della Difesa Russo, Ministero della Difesa Ucraino, Telegram

Mappe: Institute for the Study of the War

 

Biforcazione, di Pierluigi Fagan

BIFORCAZIONE. Con due post del 7 e 9 ottobre scorso, aggiornammo le analisi sul conflitto ucraino dicendo che si era arrivati ad un punto critico. Il “punto critico” è quel punto di una traiettoria in cui si propone una biforcazione tra catastrofe prolungata o repentina e risalita a forme di nuovo ordine ed equilibrio dinamico.
Seguivamo certo gli eventi ma, consapevoli che noi siamo esposti ad informazione manipolata e manipolante nelle notizie date nonché a molte notizie non date proprio, seguendo quindi con maggior confidenza nostre letture di logica del conflitto più generali. Tant’è che, nonostante nel frattempo si sia oscillati tra speranze di pace e timori dell’Armageddon atomico, siamo in effetti arrivati più di un mese dopo ad una situazione sul campo ed a bordocampo che sembra accettare quantomeno lo stallo operativo, presupposto per congelare il conflitto armato ed iniziare il confitto di trattativa.
La trattativa riguarda almeno cinque soggetti interessati.
Naturalmente i due confliggenti diretti, la Russia e l’Ucraina con, un po’ sul campo stesso ed un po’ intorno al campo, l’Europa, gli USA-NATO (con dentro europei più bellicisti ed altri meno), i terzi del sistema multipolare che non sono alleati dei russi ma pensano che i russi non debbano perdere del tutto o anche gli americani non debbano vincere. Questi ultimi, soprattutto, vorrebbero che il conflitto armato terminasse -anche momentaneamente- per non turbare ulteriormente il precario equilibrio internazionale. C’è forse una sponda indiretta e silente a questa posizione all’interno del cluster europeo soprattutto tedesco-occidentale. Ma attenzione, quando si tratta di democrazie liberali e di mercato, è sempre un’impresa sintetizzare la posizione con chiarezza in quanto ci sono sempre, nei gorghi di politica interna, quinte colonne.
Arriviamo al punto critico, più o meno messi così. Il generale americano Milley ha stimato in 100.000 le perdite russe, ma ha anche aggiunto -e per la prima volta- un dato silenziato ovvero che si stimano in altrettante le perdite ucraine. Non è importante l’effettiva quantificazione oggetto anch’essa di intenti propagandistici, è importante la segnalata parità o giù di lì. Al di là delle fantasiose stime di alcuni analisti televisivi, è ovvio che i “centomila” ucraini pesino sul totale potenziale più dei centomila russi. Se non altro perché l’Ucraina conta da meno di un terzo a poco più di un quarto della popolazione russa. Le armi occidentali, in quantità e qualità, fanno talvolta sentire meno questa sproporzione (su terra, non su aria), ma la guerra alla fine rimane conquista di terra con stivali su campo. Inoltre, gli USA si son messi a comprare proiettili dai coreani ed anche le forniture europee sono al limite.
Altresì, si va verso dicembre e sul campo, da dicembre a marzo, tra fango, ghiaccio, freddo, neve e pioggia fredda, la logistica bellica sarebbe fortemente alterata e complicata. Così, i russi sanno che conquistare il rimanente del Donetsk è quasi impossibile o molto e molto gravoso, così ucraini ed alleati sanno che penetrare ulteriormente dalla riva orientale del Dnepr, lo è altrettanto o quasi. I russi hanno anche il problema della rotazione truppe tra gli operativi stanchi e provati e le riserve appena preparate e non ancora affidabili appieno. Ma gli ucraini potrebbero non aver proprio truppe da far ruotare.
Gli europei NATO si dividono tra quelli nord orientali disposti ad andare avanti quanto più e possibile e quelli sud occidentali che forse preferirebbero assecondare il congelamento del conflitto.
Gli USA hanno un nuovo Congresso con i repubblicani in capo alla Camera ed una probabile maggioranza democratica grazie al voto della vice-presidente, al Senato. Almeno questo sembra profilarsi con i tre stati che mancano ancora al conteggio con uno, la Georgia, che avrà un ballottaggio suppletivo. Ma gli americani finita una elezione ne hanno anche un’altra in prospettiva e quindi la loro postura è sensibile anche ai giochi di conflitto o cooperazione tra repubblicani e democratici in vista delle presidenziali fra due anni. Con, da segnalare, anche la possibile competizione interna al GOP tra Trump e De Santis e nel campo democratico tra Biden e chi gli sta dietro e un/a nuovo/a cavallo/a. A dire che i repubblicani possono minacciare ostracismo alla Camera o ottenere concessioni da Biden nei giochi di potere da spendere poi fra due anni davanti le opinioni pubbliche. In politica estera, le due parti potrebbero avere cooperazione se si parla di Cina, molto meno se si parla di Ucraina-Russia. Ma tutto poi si mischia con mille altre questioni di equilibrio interno. Sappiamo anche che dal punto di vista americano quanto a Biden, si è ottenuto un obiettivo importantissimo ovvero la perfetta cattura egemonica dell’Europa, un obiettivo di centralità strategica inestimabile. Che fosse reale o solo vantato per esigenze narrative l’obiettivo di forte corrosione del potere russo risulta assai poco a portata di mano sebbene colpi strutturali siano stati comunque inferti (difficile oggi dire di quale entità).
Il consenso internazionale alla causa unipolare americana ovviamente non ha fatto alcun passo in avanti ed anzi, forse ha mostrato qualche smagliatura ad esempio in Medio Oriente La nuova presidenza brasiliana, il solido non allineamento indiano ed i nuovi interessi strategici energetici che legheranno sempre più asiatici ai russi oltre la perdurare delle varie penetrazioni (russe, cinesi, indiane) in Africa, dicono che in questo campo largo le posizioni sono quelle raggiunte e non si avrà nulla di più. Anzi forse di meno se gli europei occidentali dovessero destabilizzarsi nel lungo inverno dei nostri vari scontenti.
L’ipotesi di mettersi intorno ad un tavolo porta a dover scrutare varie questioni. Due principali.
La prima è che occorre tenere conto della complessità del conflitto che solo i limitati mentali hanno pensato di poter ridurre alla faccenda russi vs ucraini. In realtà lì c’è un triangolo con tendenze quadrilatere. Ad esempio, l’altro giorno è stata fatta uscire su certa stampa, l’ipotesi possano iniziare dialoghi sul problema del Trattato START (i missili a medio raggio) tra USA e Russia, una faccenda che non ha nulla di diretto a che fare col conflitto ucraino, apparentemente. Invece, ed assieme ad una vasta matassa di altre questioni tutte interne ai rapporti tra i due poteri nucleari, sono forse più alla base della decisione di Putin di fine febbraio che non le questioni dei russofili e russofoni ucraini. Questo eventuale secondo tavolo dirà molto di ciò che si potrà ottenere al primo.
La seconda questione decisiva saranno i soldi ovvero cosa, da chi ed a che condizioni, gli ucraini otterranno dai partners. L’Ucraina, più che “ricostruita” va costruita visto che era praticamente uno stato fallito prima della guerra. Quindi, gli ucraini, avranno interesse a metter il broncio la tavolo ma più che perché contro questa o quella proposta russa, per ricevere il corrispettivo da parte dei partners. E non è escluso che almeno gli americani non vogliano a quel punto richiamare anche i non allineati a far la loro parte per pagare il prezzo della pace o quantomeno un certo assetto di strano equilibrio. Forse una pace con un trattato scritto potrebbe esser rimandata di molto nel tempo, ma un conflitto sedato a congelato vi corrisponderebbe in pratica. Anche se investimenti provenienti vedremo da dove necessitano di una certa stabilizzazione abbastanza affidabile. Così i russi potrebbero fra qualche tempo picchiare duro da qualche parte se insoddisfatti di come le cose potrebbero andare al tavolo delle chiacchiere. Così gli ucraini potrebbero colpire i russi per poi riceverne la reazione e dire ai partners che trattare coi russi è impossibile e quindi “alzare il prezzo” del loro consenso sempre comunque poco convinto.
Insomma, sarà una partita tutta da seguire, lenta, contradditoria e come sempre incomprensibile ai più manipolati dal concerto dis-informativo.
Questo il menù previsto per i prossimi mesi. Al profilarsi della primavera, se dai vari tavoli non è uscito nulla di rilevante, si tornerà sul campo d’armi, ma è presto per far previsioni del genere.
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