La Turchia non esclude la forza per fermare la perforazione al largo di Cipro

La Turchia non esclude la forza per fermare la perforazione al largo di Cipro

https://www.newsobserver.com/news/business/article238265218.html?fbclid=IwAR292EE4saxnZ9Pk5J11OzFnd3t9UVvDBrfwkYk57S3xYgLydKCv8x5TmB0

The Associated Press
11 dicembre 2019 07:36

ANKARA, Turchia

La Turchia potrebbe usare le sue forze militari per fermare qualsiasi perforazione esplorativa di gas nelle acque al largo di Cipro che sostiene come proprie, ha avvertito il ministro degli Esteri turco.

Il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha dichiarato al canale di informazione pro-governo A Haber che la Turchia “ha il diritto di impedire” qualsiasi perforazione non autorizzata nelle acque che si ritiene rientri nella propria piattaforma continentale.

Alla domanda specifica se la Turchia potesse usare mezzi militari per fermare tali trivellazioni, Cavusoglu ha detto “certo”.

Parte dell’area che la Turchia reclama sono le acque sulle quali Cipro ha diritti economici esclusivi e in cui le società tra cui Total francese e l’Eni italiano sono autorizzate dalla nazione insulare del Mediterraneo orientale a svolgere congiuntamente perforazioni.

Un consorzio composto dalle due società è autorizzato a condurre perforazioni esplorative in sette dei “13” blocchi che compongono la zona economica esclusiva di Cipro. Il consorzio ha annunciato che nel prossimo anno procederà con una nuova tornata di perforazioni esplorative.

Altre società autorizzate alla ricerca di idrocarburi nella zona di Cipro includono ExxonMobil con il partner Qatar Petroleum e un consorzio composto da Noble energy, Dutch Shell e Israeli Delek con sede in Texas.

La Turchia afferma che la sua pretesa di una vasta fascia del Mediterraneo è rafforzata da un accordo che ha firmato con il governo della Libia riconosciuto dalle Nazioni Unite che delinea le frontiere marittime dei due paesi.

La Grecia, l’Egitto e Cipro, che si trovano geograficamente tra i due paesi, hanno denunciato l’accordo come contrario al diritto internazionale e la scorsa settimana la Grecia ha espulso l’ambasciatore libico sulla questione.

Cipro afferma di aver avviato un’azione legale presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia contro le violazioni della Turchia dei suoi diritti sovrani. A luglio, la Turchia ha inviato navi di perforazione scortate da navi da guerra per effettuare perforazioni esplorative all’interno della zona economica cipriota, compresa un’area in cui il consorzio Eni-Total ha diritti di perforazione.

La Turchia non riconosce Cipro divisa etnicamente come uno stato e rivendica il 44% della sua zona economica come propria. Dice che agisce per proteggere i suoi interessi e quelli dei turco-ciprioti nella parte nord di Cipro.

L’anno scorso, le navi da guerra turche hanno bloccato fisicamente una nave da perforazione noleggiata da Eni per perforare un pozzo esplorativo in un’altra area in cui la società italiana è autorizzata a effettuare una ricerca di gas a sud-est di Cipro.

Nel frattempo, il Ministero della Difesa di Cipro ha annunciato che effettuerà manovre navali congiunte con Francia e Italia giovedì al largo della costa meridionale della nazione insulare.

L’inutilità di proteste in Iraq e in Libano, di Hilal Khashan

 

Qui sotto la traduzione di un articolo tratto da https://geopoliticalfutures.com/ riguardante la situazione in Libano. Lo si deve leggere tenendo presente il particolare punto di vista del sito. Il riferimento al ruolo di organizzazioni non governative sostenute da centri statunitensi ed occidentali è di per sé eloquente. Particolarmente interessante il giudizio sulla natura e le dinamiche di esercizio del potere nei due stati citati. Giuseppe Germinario

Le proteste pubbliche sono state una componente centrale in Libano e in Iraq negli ultimi anni, grazie anche ad una proliferazione di organizzazioni non governative sostenute dagli Stati Uniti in entrambi i paesi. Le manifestazioni mirano a supportare i temi familiari di lotta contro la corruzione burocratica, le interruzioni di elettricità e le carenze croniche di acqua, e a limitare l’appropriazione indebita di fondi pubblici galoppante. E non ostante esse non abbiano mai ottenuto la riforma istituzionale significativa, la durata e la gravità di quelli attualmente in corso – in particolare contrassegnati dalla violenza delle proteste sciite irachene – avevano convinto molti osservatori che questa volta sarebbe stato diverso.

Ma questo succede in gran parte perché questi stessi osservatori non riescono a capire come funzionano i sistemi politici iracheni e libanesi. Dopo che il Libano ottenne l’indipendenza nel 1943, i leader settari instaurarono una formula di condivisione del potere in base a congreghe confessionali con un elaborato legislativo, esecutivo e giudiziario di facciata. Tale sistema di governo è relativamente insensibile alle istanze pubbliche e strutturalmente impermeabile alla riforma. Subito dopo il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003, gli amministratori statunitensi in Iraq hanno incoraggiato l’adozione del modello politico libanese. Così ora, come in Libano, i nervi, le tensioni della politica irachena si trovano al di fuori della giurisdizione dei rami formali di governo. La pressione dell’opinione pubblica, sia che prenda la forma di protesta spontanea o dell’azione della società civile, non ha collegamenti con il processo decisionale, che segue il modello di struttura elitaria, piuttosto che quello della partecipazione dei cittadini.

C’è poco da meravigliarsi, quindi, se il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, arriva ad accusare l’ingerenza straniera nel far deragliare sui veri motivi della rivolta del Libano che tanto ha sorpreso gli osservatori, invitando quindi i propri sostenitori a dissociarsi da essa. Il pesante coinvolgimento sciita nelle proteste, diffusesi in tutto il paese, ha minacciato di rendere priva di significato la sua alleanza del 2006 con il Free Patriotic Movement del presidente Michel Aoun (FPM), che ha dato Hezbollah una parvenza di legittimità nazionale. Si sono prontamente rimessi al suo giudizio, così come i seguaci del FPM il giorno dopo.

In Iraq, i veri detentori del potere sono le milizie sciite organizzate nell’ambito delle Forze mobilitazione popolare (PMF). Il paese ha un complesso sistema socio-religioso che è favorevole alla situazione di stallo politico in quanto il PMF è supportato dalla casta clericale, a Najaf, a sua volta venerata da sciiti laici, grazie al suo ruolo come fonte di ispirazione religiosa. In Libano, una società profondamente frammentata, i violatori della fiducia del pubblico trovano rifugio nei confini inattaccabili delle loro sette.

Ci sono sempre validi motivi per le persone in Iraq e in Libano per manifestare la loro rabbia per la strada. Eppure, data la struttura del sistema politico, c’è scarsa possibilità che possano smantellare il cartello settario della classe dirigente. Questo è il motivo per cui la promessa del ministero dell’Interno iracheno, di adottare misure per proteggere i manifestanti e proteggere la proprietà pubblica e privata suonò vacua. Questo è il motivo per cui gli appelli clericali di riforma e di auto-moderazione suonano superficiali al meglio. In entrambi i paesi, i governi hanno promesso di attuare riforme sociali radicali, ricostruire le infrastrutture di utility, fornire sollievo ai poveri, e recuperare beni pubblici rubati. Ma oggi, come in passato, più i funzionari fanno promesse alla loro gente, meno accade in realtà, e la frustrazione pubblica cresce. Inchieste sulla corruzione non portano da nessuna parte, e consentono ai colpevoli di sottrarsi alla giustizia. Organicamente incapace di effettuare una riforma, per non parlare di comprenderne il significato, i funzionari riescono a farla franca per la loro incompetenza e confondono le previsioni degli analisti circa la loro scomparsa.

https://geopoliticalfutures.com/the-futility-of-protests-in-iraq-and-lebanon/

RAPPRESENTAZIONE DEI curdi … Di Richard Labévière

Una riluttante macchina per i media si è nuovamente conclusa con l’ultima offensiva turca nel nord della Siria. Ancora una volta, le emozioni e la moralità (politicamente corrette) soppiantano l’informazione fattuale e l’analisi politica, portando una situazione complessa allo stretto dualismo buono / cattivo, buono / cattivo, curdi / turchi … Le belle anime giuste gli hommist usano e abusano dell’anacronismo storico non esitando a descrivere la reazione non occidentale all’offensiva turca di “Monaco oggi”. Bernard-Henri Levy e i suoi complici moltiplicano le imposture intellettuali e il “bugiardo degli altipiani” – Caroline Fourest – ci presenta una clip alla gloria dei “combattenti” curdi, finanziata dai sostenitori israeliani. Non facile

Molti giornalisti, che stanno semplicemente localizzando la Siria su una mappa, stanno piegando le orecchie con l’autonomia di “Rojava”. Il Rojava? È il nome di un territorio “fabbricato”, le cui basi demografiche e storiche sono in gran parte fantasticate. Il 17 marzo 2016, le fazioni curde hanno proclamato il “Rojava”, un’entità “democratica federale” che comprende i tre cantoni “curdi”: Afrina, Kobane e Djezireh. Ma prima di considerare il “Rojava” come un’entità naturale, geografica se non eterna che sarebbe sempre esistita, dobbiamo fermarci un attimo sulla genealogia storica di questa denominazione per vedere meglio cosa copre.

CHE COS’È IL “ROJAVA”?

Il termine è usato da alcuni movimenti nazionalisti curdi per designare un’area geografica, storicamente popolata dai curdi, e inclusa nello stato siriano dalle autorità francesi dopo la prima guerra mondiale e lo smantellamento dell’Impero ottomano. In effetti, con l’accordo franco-turco del 20 ottobre 1921, la Francia si era annessa la Siria e aveva posto sotto il suo mandato le province curde di Djezireh e Kurd-Dagh. Le popolazioni curde lungo il confine turco occupavano tre aree strette separate (senza continuità territoriale): le regioni di Afrine, Kobane e Qamichli, motivo per cui alcuni autori non parlano di un “Kurdistan siriano” ma piuttosto di “Regioni curde della Siria”. Le tre enclavi curde estendono tuttavia i territori curdi di Turchia e Iraq.

Nella sua autoproclamata costituzione del dicembre 2016, il nome ufficiale di “Rojava” è accompagnato dalla seguente espressione: “Sistema democratico federale della Siria settentrionale”. Questo annuncio è stato fatto a Rmeilane dal Partito dell’Unione Democratica (PYD). Dal 2012 il Kurdistan siriano è controllato da varie milizie curde. Nel novembre 2013, i rappresentanti curdi hanno dichiarato di fatto un governo in questa regione, che ospita circa due milioni di persone.

Nel 2012, le autorità siriane sono costrette a inviare truppe principalmente ad Aleppo e nei dintorni di Damasco. Queste emergenze strategiche non consentono di proteggere l’intero territorio siriano, mentre l’insurrezione si sviluppa nelle città di Afrine, Kobane e Hassake. Dal 12 novembre 2013, il Kurdistan siriano ha il suo “autogoverno” autoproclamato. L’annuncio è stato fatto dal PYD, la sussidiaria siriana del Kurdistan Workers ‘Party (PKK) con sede in Turchia. Questa entità afferma di gestire “questioni politiche, militari, economiche e di sicurezza nella regione curda della Turchia e della Siria”.

Fatto unilateralmente dal PYD, questo annuncio non ha ricevuto l’accordo del Consiglio nazionale curdo, che lo rimprovera di “andare nella direzione sbagliata”. Da parte sua, il PYD risponde all’opposizione siriana non islamista di non aver fatto nulla per difendere le località curde attaccate dalla primavera da gruppi jihadisti come l’organizzazione dello “Stato islamico”, il Jabbath Front al-Nusra e Formazioni salafiste come Ahrar al-Cham. Infine, il PYD ha proclamato una “Costituzione del Rojava” il 29 gennaio 2014.

Come “Eretz-Israel” (Grande Israele), il “Rojava” è, quindi, una creazione politica e ideologica che rientra nell’auto-proclamazione delle organizzazioni politiche curde e non una geografia che si imporrebbe dal inizio dei tempi. Pertanto, dovremmo evitare di usare questo nome in modo errato e come se fosse il Polo Nord o Adélie Land!

IL “FDS”, COME IL KOSOVO KLA

Come hanno fatto in Kosovo alla fine degli anni ’90 con l’istituzione dell’UCK (Kosovo Liberation Army) – una banda di criminali e assassini che praticano il traffico di armi, droga e organi – i servizi speciali statunitensi hanno prodotto l’FDS, le “forze democratiche siriane” nell’est dell’Eufrate, principalmente da fazioni curde e filo-curde. Al fine di non prestarsi alle critiche a una tale “milizia confessionale” e di presentare, al contrario, un fronte multiconfessionale, i servizi del Pentagono hanno incluso negli “arabi” FDS, spesso combattenti persi, mercenari inizialmente impegnati in ranghi di Qaeda o Dae’ch.

L’architetto di questo esercito locale era il generale Joseph Votel che era il capo delle forze speciali statunitensi. Il 24 giugno 2014, il presidente Barack Obama ha nominato Votel al posto dell’ammiraglio William H. McRaven alla posizione di 10 °capo del comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti. Questa nomina è stata confermata dal Congresso a luglio e il cambio di comando è avvenuto il 28 agosto. Joseph Votel è diventato il comandante di USCENTCOM il 30 marzo 2016. Il 23 aprile 2018, Votel ha effettuato la sua prima visita ufficiale in Israele come comandante di CENTCOM. Durante la sua visita, ha incontrato il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano – Gadi Eisenkot -, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat e altri alti funzionari della sicurezza in Israele responsabili del monitoraggio della guerra civilo-globale della Siria.

Come comandante della CENTCOM, il generale Votel ha supervisionato la continuazione della “guerra al terrorismo” ufficiale, in particolare con la Joint Task Force Joint Operation Inherent Resolve contro l’ ISIS. in Iraq e Siria. Queste operazioni contro Dae’ch hanno visto la CENTCOM essere maggiormente coinvolta nelle guerre siriane e irachene. Di fatto, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, si trattava principalmente di rovesciare “il regime di Bashar al-Assad”, per usare l’espressione usata dalle agenzie di stampa parigine che designano il governo siriano.

LOTTA “ANTI-TERRORISTA” CONTRO BACHAR

Il 25 settembre 2017, il ministro degli Esteri siriano Walid Mouallem ha dichiarato che i curdi siriani “vogliono una qualche forma di autonomia nel quadro della Repubblica araba siriana. “Questa domanda è negoziabile e può essere oggetto di dialogo”, afferma. Questo tipo di dichiarazione e l’uso del termine “autonomia” è una novità per Damasco, ma allo stesso tempo annuncia la sua opposizione al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno “totalmente inaccettabile per la Repubblica araba siriana”.

Dall’apertura della crisi siriana nel marzo 2011, Washington e i suoi alleati hanno avanzato la lotta contro il terrorismo – guidato in particolare sostenendo varie fazioni curde – per rovesciare il governo siriano. Cercando di fare in Siria ciò che hanno applicato in Iraq, i funzionari statunitensi perseguono una pausa, una “divisione” del paese, modestamente chiamata “soluzione federale”, anche se nessuno crede nella volontà di Washington di trasformare la Siria in Confederazione Svizzera …

I media occidentali accusano abitualmente Damasco di aver deliberatamente rilasciato migliaia di jihadisti incarcerati per giustificare le sue operazioni militari. Ripresa da tutti i donatori di lezioni siriane, questa affermazione è un’assurdità assoluta, nella misura in cui questa richiesta era un requisito dell’Arabia Saudita per consentire ai rappresentanti dell’opposizione siriana – nominati e finanziati da Riayd – continuare a partecipare alle discussioni di Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Con la generalizzazione della guerra civile, gli Stati Uniti e la Francia hanno armato diverse unità dell’Esercito siriano libero (ASL), presentate come un’organizzazione di opposizione “moderata”, “secolare” e “democratica”. Diavolo! Nel corso dei mesi, l’ASL diventerà l’anticamera obbligatoria della maggior parte dei gruppi jihadisti più radicali impegnati contro l’esercito del governo siriano. Da parte sua, i servizi britannici finanzieranno la creazione di una strana ONG – i “White Helmets” – la cui missione ufficiale è di salvare i combattenti jihadisti. Col tempo, questi stessi “caschi bianchi” passeranno all’azione armata anti-siriana e al traffico di organi umani, così come i criminali dell’UCK del criminale di guerra Hassim Thaçi in Kosovo.

In una conversazione telefonica con Recep Tayyip Erdogan domenica 6 ottobre 2019, il Presidente degli Stati Uniti ha dato il via libera alle forze armate turche per entrare in Siria ad est dell’Eufrate e occupare tutto o parte del “Rojava”. Il Pentagono ha affermato che se gli FDS resistessero alle armi in mano, le forze statunitensi (che si sono stabilite su otto basi tra Kobane e Raqqa) si asterrebbero dal sostenerle. La partenza delle truppe americane dal nord della Siria è stata appena confermata. La Francia ha ancora cinque mini-basi militari a Rojava, praticamente accoppiate con basi statunitensi. Sarà sola con l’esercito turco prima di essere costretta a ritirarsi in Iraq?

Dal 2013, Mosca convoca Washington per trasmettervi l’elenco delle cosiddette fazioni ribelli “moderate”, “secolari” e “democratiche”, al fine di stabilire un migliore coordinamento antiterroristico. In effetti, i servizi americani non hanno mai voluto o potuto trasmettere questo famoso elenco perché le organizzazioni terroristiche sostenute dai paesi occidentali, quelle del Golfo e persino Israele, risultano essere le più radicali in termini di fondamentalismo religioso.

Il 26 settembre ad Ankara, in occasione del vertice tripartito dei presidenti turco, iraniano e russo, è stato deciso di istituire corridoi umanitari al fine di risparmiare la popolazione civile dalla tasca di Idlib (a ovest di Aleppo). Dopo il vertice, Mosca informò le autorità di Damasco dell’imminente attacco di Ankara, dicendo che era il modo migliore per riportare il PYD nei ranghi e riprendere il controllo – alla fine – di questo lungo tratto di territorio lungo il confine turco da Aleppo a Deir ez-Zor (nell’estremo oriente del paese). Per diversi anni, il Cremlino non ha disperato di una stretta di mano tra Recep Tayyip Erdogan e Bashar al-Assad. Siamo ancora lontani da ciò, ma questo rimane uno degli obiettivi della diplomazia russa.

Da parte sua, Teheran si oppone risolutamente all’operazione turca, pur avendo cura di non aggiungere ulteriori atti ad essa per non compromettere l’ottimo livello delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il grande perdente in questa vicenda è Donald Trump, che dopo aver dato il via libera a questa nuova operazione militare, ora offre … la sua mediazione. Per quanto riguarda la Corea del Nord e l’Afghanistan, non è vinto! Tuttavia, i massimi esperti del Pentagono e del Partito Repubblicano hanno condannato la decisione della Casa Bianca e riconoscono che in Siria gli Stati Uniti hanno perso la partita, poiché perderanno anche in Yemen grazie o piuttosto a causa della disattenzione dell’alleato saudita.

La debolezza e l’isteria americane mettono in luce la forza silenziosa dell’orso russo, che sta emergendo come il vincitore di questa nuova resa dei conti. In Medio Oriente, come altrove, l’impero sta gradualmente svanendo e lasciando il posto al suo grande avversario strategico, anche se la strada sarà tutt’altro che una passeggiata per Mosca …

I KURDES NON HANNO PARIGI GRATUITI!

In breve, non si tratta di decolorare Ankara e cadere, a nostra volta, in un contro-dualismo altrettanto assurdo di quello che abbiamo sottolineato nel preambolo. No, vale anche la pena ricordare che i servizi segreti turchi hanno partecipato alla nascita dell’organizzazione “Stato islamico” ( Dae’ch ) in Siria dal 2014 al 2016, colpevole di numerosi attacchi mortali. Fedele ai comandamenti dell’ideologia della Fratellanza Musulmana, lo stesso Recep Tayyip Erdogan ha ripetutamente parlato a favore del rovesciamento del “regime di Bashar al-Assad”, incredulo agli occhi della via turca sunnita. Ankara ha continuato a giocare la carta dell’apertura delle porte dei migranti contro i paesi europei e continua a farlo.

Nonostante una sessione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – organizzata su richiesta della Francia – ma che non ha dato nulla, perché l’Unione europea (UE) non infastidisce – puramente e semplicemente: qualsiasi tipo di discussione sull’adesione della Turchia all’UE è sempre più improbabile? Perché la NATO non sta prendendo provvedimenti per condannare chiaramente l’attacco unilaterale di uno dei suoi principali stati membri? Perché non sono previste sanzioni economiche per rispondere al colpo di stato di Ankara?

Storicamente molto mal consigliato – come notato da Alain Chouet (vedi ORIENT-ATIONS) – Donald Trump non avrebbe dovuto essere sorpreso dal fatto che i curdi non combatterono sulle spiagge dello sbarco alleato il 6 giugno 1944 – il Papuani, pigmei e yanomami, i bastardi! – d’altra parte, avrebbe potuto ricordare che diverse fazioni e popolazioni curde hanno partecipato al genocidio armeno dall’aprile 1915 al luglio 1916, nonché alle recidive nel 1923! Pertanto, non ci lasceremo confinare al pianto dei curdi che sarebbero le vittime eterne della storia. Certamente, legati a difficili battute d’arresto militari, i loro successivi fallimenti sono anche e soprattutto il frutto dei loro leader politici in primo piano quali quelli delle unità di protezione del popolo (YPG),

Infine, come prendere sul serio lo scrittore francese Patrice Franceschi e la sua isterica difesa dei curdi quando vediamo che indossa con orgoglio – sopra la tasca sinistra della sua uniforme da ufficiale di riserva – le insegne del Paracadutisti israeliani !!! Non è solo una colpa del gusto, ma anche un grave ostacolo al codice militare che vieta tale uso delle insegne di un esercito straniero. Inoltre, e prima di unirsi agli interessi del regime di Tel Aviv, questo scrittore-ufficiale dovrebbe invece concentrarsi sugli interessi vitali del suo paese. Comprenderebbe che nel Vicino e Medio Oriente gli interessi di Israele non corrispondono necessariamente a quelli dell’eterna Francia …

Richard Labévière

https://www.les-crises.fr/quadra-kurdes-par-richard-labeviere/

C’EST L’ORIENT ! …….C’EST LA guerre, di Antonio de Martini

C’EST L’ORIENT !

Sono un lettore di “L’Orient-Le jour”, il giornale francofono di Beirut e di “ The Times of Israël” anglofono di Tel Aviv.

Oggi su l’Orient c’è un articolo dedicato al ministro degli Esteri israeliano che definisce « burattino dell’Iran » il segretario di Hezbollah, Nasrallah.

Strano che la mia copia, sono abbonato, proprio oggi non mi sia arrivata e che il tono del pezzo sia in contrasto con l’abituale felpata cautela. Provocatorio.

Sono giorni ormai che Israele ha lanciato, in perfetta coordinazione con l’ambasciatore USA a Beirut , una offensiva giornalistico-diplomatica mirante a disarmare e far mettere fuori legge l’Hezbollah inserito dagli USA nell’elenco delle “organizzazioni terroristiche”.

Si tratta di un “aiutino” offerto da Trump alla campagna elettorale di Netanyahu del quale il Libano dovrebbe fare le spese.

Hezbollah è un partito politico che raccoglie stabilmente il 50% dei suffragi elettorali , dispone di un esercito più forte, esperto e motivato di quello del governo libanese. ( 25.000 effettivi e 30.000 riservisti, reduci dalla vittoria in Siria ).

I quindici anni di conflitto civile, cessato nel 91, sofferto dal piccolo paese (103.000 morti su 3 milioni di abitanti) hanno vaccinato per almeno un secolo l’intera popolazione dall’idea di ricorrere alla violenza interna o esterna che sia.

Non faranno la guerra per gli USA né Israele. Né altri.

La guerra civile fu istigata e finanziata dagli stessi attori del presente conflitto siriano e che sono dietro all’improvviso impellente bisogno di sbarazzarsi di Hezbollah diventato ormai un attore permanente dello scenario Levantino.

Israele ha attaccato militarmente il Libano ripetutamente: voleva acqua ( il fiume Litani) e mirava al territorio compreso tra Tiro e Sidone.

Già nel 1982 invase tutto il sud Libano fino alla periferia di Beirut ( operazione “ pace in Galilea”) scacciandone gli abitanti – in prevalenza sciiti- che si spostarono di 50 km, in trecentomila, verso Beirut.
Il catasto di Saida ( Sidone) fu distrutto intenzionalmente per facilitare la rapina.

I Cristiani si spostarono, a loro volta, versoJunie, di una ventina di km.

Da questa mal meditata occupazione israeliana nacque un movimento di resistenza ( l’Hezbollah ) che – assieme alla opinione pubblica internazionale- indusse gli israeliani a rientrare nei confini, appropriandosi solo di una fascia di dieci km che dovettero poi ugualmente abbandonare a causa degli attacchi partigiani diuturni e delle troppo onerose misure di sicurezza.

Un secondo tentativo – un blitz punitivo vero e proprio contro Hezbollah – tentato dagli israeliani, si risolse in una sconfitta militare netta che provocò la rimozione del comandante israeliano accusato di incapacità.

Nel 2006 ci furono bombardamenti israeliani nella piana della Bekaa ad alcune infrastrutture ( e a una fabbrica di bottiglie per birra a capitale indiano!) che gli USA rifinanziarono ristabilendo la tregua.

Adesso, dopo aver fallito coi carri armati prima e con gli aerei dopo, provano con la propaganda e le pressioni diplomatiche.

L’obbiettivo di minima è ottenere un attacco Hezbollah che ridarebbe il carisma del capo militare a Netanyahu offuscato da accuse di tangenti su forniture militari tedesche e pressato dal rivale generale Ganz.

L’obbiettivo medio è quello di far ritirare dalla Siria i volontari Hezbollah che danno manforte al governo e agli iraniani e limitarne la libertà di movimento.

L’obbiettivo strategico é far continuare “l’unrest” nel Levante ritagliando un ruolo per l’emarginata diplomazia USA, a rimorchio e incapace di aver un ruolo guida in tutta l’area.

Ora ha inviato la signora Hole a Cipro per mediare a nome dell’ONU una riconciliazione greco-turca….

Hezbollah ha fatto sapere di essere per ora soddisfatto anche solo dell’innervosimento israeliano che teme un attacco sul suo territorio e ha pubblicato alcune foto di camionette israeliane di presidio al confine con dentro dei manichini.

Un trucco, già utilizzato, per supplire alla carenza di personale esausto dai turni impossibili, al punto che nel sud – a Gaza- il governo israeliano ha offerto cospicua assistenza finanziaria a Hamas in cambio di una “ tregua durevole”.

L’arma demografica comincia a fare effetto. Gli ebrei americani comprano volentieri una casa in Israele, ma non intendono lasciarci le ossa.

Anche il governo siriano, dopo otto anni di guerra, ha scarsità di effettivi.

A Deraa ( zona del giabal druso) , dopo la riconquista, ha concluso un accordo con gli sconfitti: ha lasciato l’armamento leggero di dotazione a un battaglione di ex nemici, incaricandolo di mantenere l’ordine pubblico in città.

Cerca la riconciliazione e
le truppe fedeli le risparmia per presidiare il troppo vicino confine israeliano.

DEL CAMBIAMENTO POLITICO NEL SUD EUROPA, di Pierluigi Fagan

DEL CAMBIAMENTO POLITICO NEL SUD EUROPA. Torna al governo in Grecia il partito cardine del sistema che la fece precipitare nel dramma del 2015. Scontato il momentaneo purgatorio, NeoDemokratia torna con le sembianze del più tipico rappresentante delle élites greche, un banchiere di Harvard con alle spalle una famiglia politica di lungo corso. Le Borse festeggiano in anticipo da giorni con l’acquolina in bocca dato l’annuncio di massicce e corpose privatizzazioni, riduzione dell’impiego statale, meno tasse per le classi commerciali qui molto forti. Forse una Bruxelles PPE-Liberale, allenterà un po’ il cappio al collo dei Greci donando qualche ulteriore possibilità in più. Il sistema elettorale greco, regalerà all’effettivo 40% di ND, la maggioranza assoluta.

Ma il grande ritorno della Grecia media, non è tutto. Dopo quattro anni di governo terribile, un governo che poteva governare solo austerità e contrazione, Syriza segna un inaspettato 32% ma la sua area può anche contare il 3.4% di Varoufakis. Poco più del 35% quindi, cioè esattamente il risultato trionfante ed inaspettato del 2015. Sebbene il governo sarà monocolore ND, la sua area potrebbe contare anche sull’8% dell’ex PASOK un 48% circa quindi per una opposizione che oltre al blocco Syriza-Varoufakis potrebbe contare il 5% degli inossidabili comunisti per un circa 41%. Più altre sigle sparse tra cui un nuovo movimento nazionalista di destra che subentra a gli allarmanti nazisti di Alba Dorata. Insomma, il pendolo della transizione greca oscilla oggi chiaramente a centro-destra / destra ma non poi così tanto e soprattutto dentro una dinamica, appunto, a “pendolo”.

Ne vengono tre considerazioni:

1) Le nazioni europee sono più o meno tutte, storicamente, per lo più centrate su i grandi numeri di un centro che tende a destra. I numeri son questi, piccola e media borghesia alleata della grande borghesia dalla quale riceve possibilità per sviluppare i suoi piccoli affari. Quando non stravincono o vincono è perché parte del loro elettorato non va a votare, non perché ha cambiato idea. Ricordo feroci polemiche con coloro che dimenticando questo piccolo particolare di fisica sociale, vaneggiavano di un tradimento di Tsipras che non aveva voluto uscire dall’euro a suo tempo, come se questo fosse effettivamente possibile e soprattutto come se questo fosse veramente volontà del “popolo”. “Popolo” è un aggregato statistico-culturale, ma le sue partizioni interne sono assai eterogenee e come sempre, contraddittorie. Una politica che non tiene conto di questo baricentro conservatore del sistema, può animare la produzione intellettuale di disegnatori del mondo alla tastiera, ma non produrre cambiamento effettivo.

2) La condizione greca, sappiamo avere non pochi punti in comune con la condizione di altri Paesi del Sud Europa, è un fatto strutturale. Fintanto che qualcuno non inventerà la bacchetta magica per dissolvere l’UE alla mezzanotte del “giorno che cambierà tutte le cose”, le forze politiche dei Paesi del Sud Europa, dovrebbero cercare una loro fronte comune per pesare qualcosa in ambito europeo. Grandi eterogeneità di posizioni politiche vengono magicamente sintetizzate da coloro che concordano su pochi e chiari punti dell’agenda di governo europeo, il potere unisce. L’opposizione invece, non ha mai questa tendenza a sintetizzarsi, odia l’arte del compromesso, ama le distinzioni ideali nitide, identitarie, minoritarie ma pure. In politica, la purezza, è un vizio intellettuale.

3) Qualche ulteriore punto percentuale Tsipras l’ha perso sulla questione del riconoscimento della Macedonia, ovvero sulla questione “nazionale”. Ma Tsipras ha dovuto ingoiare quel punto (Tsipras e Syriza hanno dovuto ingoiare parecchie cose in questi anni, loro ed i loro elettori), per ragioni strettamente geopolitiche. C’è qui tutta una questione che coinvolge la Turchia ed un complesso gioco di controllo dei fondali dell’Egeo ricco di gas nel più ampio gioco Mediterraneo (giacimenti al largo della costa siriana, libanese, cipriota, israeliana). Non è stata l’UE ad imporre il contrastato riconoscimento della Macedonia che qui è atavica questione nazionale che risale ad Alessandro il Grande, ma gli USA e quell’imposizione per una serie di complicate ragioni che qui non possiamo dettagliare, non aveva alternative politiche realisticamente possibili.

Quindi, a proposito dei progetti di cambiamento politico nel Sud Europa, si tenga ben fisso in agenda questo breve elenco: a) i progetti di egemonia su una massa decisiva di popolo debbono avere ben chiaro in mente chi è questo popolo, cosa vuole, cosa sa, cosa è disposto a fare e subire per raggiungere un supposto obiettivo di cambiamento; b) in attesa di migliori condizioni di contesto, l’UE esiste e tocca farci i conti. Le sue forze maggioritarie tra l’altro alleate di quelle del capitale finanziario occidentale globale, sono formidabili. Andare al confronto senza una chiara alleanza intra-europea, non ha speranze; c) il contesto geopolitico non è la quarta pagina del giornale da frequentare per coloro che hanno aspirazioni estere, il contesto geopolitico è politico, l’esterno è solo la parte fuori dell’interno ed assieme fanno l’Uno oggetto di contesa politica.

Se queste tre cose non vengono pensate “tutte assieme”, scriviamo articoli e post su facebook, ma non illudiamoci di star facendo politica. E soprattutto, scordiamoci di poter governare un cambiamento.

MEDINSAHARA e la guerra ibrida, a cura di Giuseppe Germinario e Roberto Buffagni

 

Negli ultimi articoli[1] dedicati all’ operazione Carola,  http://italiaeilmondo.com ha analizzato le azioni delle ONG che trasbordano immigrati irregolari nel nostro paese come veri e propri atti di guerra ibrida concepiti, diretti e organizzati da centri decisionali legati a potenze straniere. A queste operazioni prestano la loro indispensabile collaborazione, con gradi diversi di consapevolezza e organicità, settori tutt’altro che trascurabili delle istituzioni e dei media italiani[2].

Il governo ha reagito agli attacchi, seppur in modo non del tutto collegiale e adeguato. Il Ministro Salvini, principale bersaglio politico degli attacchi, sta tentando di rispondervi con l’ inasprimento delle sanzioni e un assiduo impegno nella comunicazione e nel sostegno a FFOO e FFAA. In termini di dissuasione, qualche risultato si comincia a vedere: ma si tratta pur sempre di un’azione di rimessa, indispensabile ma insufficiente. E’ invece di importanza capitale prendere l’iniziativa e contrattaccare, dettando l’agenda politica e costringendo l’avversario – anzi gli avversari, esterni e interni – a combattere sul nostro terreno e alle nostre condizioni.

Tra le prerogative e i doveri fondamentali di qualsiasi Stato c’è, naturalmente, la difesa delle frontiere e il controllo del territorio. E’ dunque benemerita e indispensabile la politica dei “porti chiusi” proposta e accanitamente difesa da Salvini, perché ha segnato una svolta netta, anche simbolica, rispetto alle politiche migratorie irresponsabili dei governi precedenti.

E’ chiaro a tutti che è responsabilità storica di qualsiasi governo puntare ad una netta diminuzione, regolamentazione e regolarizzazione di flussi migratori, in modo da renderli compatibili con la struttura socioeconomica e la coesione culturale d’Italia.

E’ così chiaro a tutti, che persino i diretti responsabili politici della grave crisi migratoria italiana  hanno la faccia tosta di sventolare  – a parole e a favor di telecamere – lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”.

Sinora, l’unico “aiuto a casa loro” che la classe dirigente europeista italiana ha dato agli immigrati è stata la sciagurata collaborazione all’aggressione anglo-francese alla Libia: li hanno aiutati ad ammazzare il  dittatore antidemocratico, precipitandoli nell’anarchia e nella guerra civile per poi piangere lacrime di coccodrillo sulle sofferenze dei migranti e l’insicurezza dei porti libici, e cianciare di “corridoi umanitari” che come l’araba Fenice, che vi sian ciascun lo dice, dove sian nessun lo sa.

Non c’è dubbio: anarchia e guerra civile sono “democratiche”, nel senso che coinvolgono tutto un popolo nessuno escluso, ma sarebbe questo, “aiutarli a casa loro”? Semmai, è mitragliare qualcuno, regalargli una scatola di cerotti e poi pretendere la medaglia al valore civile.

Un’altra cantafavola con allegate lacrime di coccodrillo e boccuccia ipocrita a culo di gallina che ogni tanto fa capolino nei media è quella del “piano Marshall europeo per l’Africa”, svergognata sciocchezza alla quale nemmeno il fratello più scemo della scemo può prestare una briciola di fede.

Da trent’anni l’Unione Europea applica, in Europa, una dura politica deflattiva iscritta nei trattati fondativi. Nell’Unione Europea, da trent’anni gli investimenti diminuiscono e la disoccupazione cresce, toccando vette abissali in Grecia e nel Meridione d’Italia. Con queste premesse, per “restare umani” (ammesso e non concesso che mai lo siano diventati) i diretti responsabili della catastrofe sociale europea sarebbero in procinto di inaugurare un “piano Marshall per l’Africa”?!

Ma insomma: è possibile aiutarli a casa loro, sì o no?

Sì che è possibile. E’ possibile “aiutarli a casa loro” se un governo italiano si ricorda della vocazione mediterranea del nostro paese, e degli antichi scambi culturali, politici ed economici che ci legano al Levante; è possibile aiutarli a casa loro se governo italiano e governi del Levante riconoscono i reciproci, comuni interessi e avviano una fattiva collaborazione economica e politica.

Basta ciarle a vuoto, basta ipocrite mozioni degli affetti,  basta eroismi umanitari a costo zero, basta carità pelosa con capital gain garantito sul C/C del caritatevole: avviare invece trattative su un piede di cordiale parità, e sulla base del reciproco rispetto e interesse.

Gli immigrati non sono i bambolotti di pezza, le coperte di Linus dei professionisti della bontà, non sono i personaggi di un brutto melodramma TV , e non sono il Buon Selvaggio Sventurato oppresso dal Cattivo Uomo Bianco Colonialista.

Gli immigrati sono uomini come noi, con la nostra stessa capacità di bene e male, con interessi e ambizioni e bisogni, con i quali dobbiamo trattare da pari a pari, sulla base del reciproco interesse, come con gli uomini dei paesi europei.

Leggiamo che proprio in questi giorni, il governo italiano tratta con il governo tunisino per ridurre l’afflusso dei barchini pilotati dagli scafisti, i trafficanti di schiavi che trasportano gli immigrati nel nostro paese.

E’ un’iniziativa opportuna, ma è anche un’occasione preziosa per riprendere in esame un progetto italiano che sul serio può “aiutarli a casa loro”.

italiaeilmondo.com ha già presentato https://www.medinsahara.org/   il progetto di collaborazione tra governo italiano e tunisino per l’escavazione di un mare artificiale nel deserto del Sahara, del quale è promotore e referente italiano il nostro collaboratore e amico Antonio de Martini.

Il progetto “ Mare nel Sahara” è stato presentato nell’ottobre scorso a Biserta, nel corso del « Forum de la Mer / rencontres euro-méditerranéennes de l’économie bleue durable », organizzato dall’ Institut tunisien des études stratégiques (ITES), con l’appoggio dell’ Unione Europea e dell’ Unione per il Mediterraneo, e la partecipazione dell’ambasciata di Francia in Tunisia. Vi collaborano le Università di Ferrara, Bologna e “La Sapienza” di Roma, l’ Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino (Roma), l’UNESCO.

E’ un progetto che sarebbe di interesse nazionale per il nostro paese anche se il problema migratorio non esistesse: per il vantaggio economico immediato (4-5 MLD di lavori per imprese italiane, circa 2.000 posti di lavoro per tecnici italiani), e per il vantaggio politico a breve e lungo termine di una ripresa in grande stile della cooperazione italiana con le nazioni del Nordafrica (il progetto è replicabile anche in Algeria).

Ma oggi che il problema migratorio è al primo posto dell’agenda del governo, il progetto “Mare nel Sahara” moltiplica la sua importanza e il suo valore, tanto economico quanto politico, internazionale e interno.

Il progetto “Mare nel Sahara”  è importante, anzi decisivo per la politica interna italiana, perché è questo il modo di “aiutare a casa loro” gli immigrati: creando nelle nazioni nordafricane opportunità di lavoro, sviluppo e speranza che tengano conto insieme dell’interesse loro e nostro.

Solo dando agli immigrati concreta speranza di lavoro e di vita dignitosa nel continente africano possiamo costruire le condizioni per  la nostra e la loro sicurezza, come per la reciproca intesa nella diversità.

Solo così svergognamo e tappiamo la bocca agli ipocriti fautori di un’immigrazione incontrollata e incontrollabile, ai bugiardi che cianciano di umanità mentre trattano noi e loro come animali “da meticciare”. Politica realistica ci vuole, non zootecnia ideologica.

Qui sotto il lettore troverà una intervista ad Antonio de Martini, principale promotore dell’iniziativa, e il link a un sintetico dossier sull’argomento.

Speriamo che finalmente, la vox clamantis in deserto Sahara trovi un ascolto attento nel governo. Per avviare il progetto,  basta finanziarne lo studio di fattibilità con 300.000 euro, da destinare alle tre Università italiane che lo sponsorizzano.

Sì, avete letto bene: non abbiamo scritto “trecento milioni” di euro. Abbiamo scritto “trecentomila”. Troppo? Non ci sembra._Roberto Buffagni, Giuseppe Germinario

[1] http://italiaeilmondo.com/2019/07/07/guerra-ibrida-navi-corsare-a-sud-e-pokeristi-a-bruxelles-con-piero-visani/

http://italiaeilmondo.com/2019/07/09/dopo-l-operazione-carola-la-fine-dellinizio-di-roberto-buffagni/

[2] http://italiaeilmondo.com/2019/07/06/navi-corsare-a-lampedusa-con-augusto-sinagra/

http://italiaeilmondo.com/2019/07/09/una-traversata-nella-teratologia-giuridica-su-alcuni-profili-dellordinanza-del-g-i-p-di-agrigento-in-merito-alla-vicenda-della-nave-sea-watch-3-di-emilio-ricciardi/

https://www.medinsahara.org/

 

GUERRA IBRIDA: NAVI CORSARE A SUD E POKERISTI A BRUXELLES, con Piero Visani

Detto fatto! Il colpo di cannone è partito dal Tribunale di Agrigento. Il segnale è stato raccolto immediatamente e con esso l’assalto ai porti. La meta però è Roma. Ad una forma di guerra ibrida riesumata dalle guerre corsare si son aggiunte le scaramucce a Bruxelles. I passi felpati non hanno però impedito di entrare ai soliti noti con i piedi nel piatto. Le nomine a Bruxelles lasciano presagire poco di buono. Eppure in quella sede le contraddizioni non mancano; come pure la complessità dello scacchiere geopolitico, con attori sempre più numerosi a tenere il banco, offrirebbe margini di iniziativa. Ci mancano una squadra sufficientemente coesa e qualche giocatore audace e di classe. Due partite apparentemente distanti tra loro. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

LA GUERRA COME POLITICA DEGLI USA a cura di Luigi Longo

LA GUERRA COME POLITICA DEGLI USA

a cura di Luigi Longo

La distruzione dei territori siriani, in particolare della provincia di Idlib, da parte degli USA, tramite le diverse sigle dei Jihadisti, non si ferma. Si va dall’attacco chimico ad Idlib da parte del gruppo Tahrir as-Sham (il nuovo nome di Al Nusrah) per addossare la colpa al governo di Damasco con pronta dichiarazione del Dipartimento di Stato statunitense che vede i“ […] segnali che il regime di Assad potrebbe ripetere il suo uso di armi chimiche, incluso un presunto attacco di cloro nella Siria nord-occidentale la mattina del 19 maggio 2019 […] Stiamo ancora raccogliendo informazioni su questo incidente, ma ripetiamo il nostro avvertimento: se il regime di Assad usa armi chimiche, gli Stati Uniti e i nostri alleati risponderanno rapidamente e in modo appropriato […] la colpevolezza del regime di Assad negli orribili attacchi di armi chimiche è innegabile”. Alla distruzione di migliaia di ettari di grano per affamare la popolazione (la risorsa grano come arma di guerra) ad opera dell’Isis con l’intervento dell’ONU (a servizio degli Stati Uniti d’America) che insinua la mano del governo di Assad dietro i campi di grano bruciati.

L’obiettivo statunitense è l’asse Iran-Siria come configurazione di una potenza regionale egemone nel Medio Oriente (a danno dei loro sicari israeliani) da sottrarre all’area di influenza russa e cinese sempre più in coordinamento tra di loro. Sullo sfondo il conflitto tra le potenze mondiali per l’egemonia: gli USA per un dominio monocentrico, la Russia e la Cina per un dominio multicentrico.

Per quanto sopra riporto l’articolo di Leone Grotti, Siria. L’Isis brucia i campi di grano e affama la popolazione di Idlib apparso su www.tempi.it del 11/6/2019 e una sintesi dell’intervista rilasciata da Noam Chomsky curata da Salvo Ardizzone con il titolo Chomsky spiega l’ostilità degli USA verso l’Iran uscita su www.ilfarodelmondo.it del 12/6/2019.

 

 

 

SIRIA. L’ISIS BRUCIA I CAMPI DI GRANO E AFFAMA LA POPOLAZIONE DI IDLIB

Leone Grotti

 

La Stampa spiega come i jihadisti utilizzano il cibo come «arma di guerra». Ma l’Onu porta avanti la sua guerra dell’informazione e accusa in modo surrettizio l’esercito di Bashar Assad

 

 

La provincia siriana di Idlib è controllata da decine di migliaia di ribelli e jihadisti. Eppure, quando le Nazioni Unite hanno dato settimana scorsa la notizia che «migliaia di ettari di campi» di grano sono stati bruciati, ha accusato dei generici «combattenti». L’Onu ha aggiunto poi che la zona interessata è quella dove il governo di Bashar Assad appoggiato dalle truppe russe sta attaccando. L’insinuazione su chi stesse utilizzando il cibo come «arma di guerra» era evidente.

 

È L’ISIS A BRUCIARE I CAMPI

 

Oggi, a una settimana di distanza, l’inviato a Beirut della Stampa, Giordano Stabile, racconta però un’altra storia. Non è il regime di Assad che affama volontariamente la popolazione, ma l’Isis. Scrive Stabile:

«All’inizio gli incendi sono stati collegati all’offensiva governativa lanciata alla fine di aprile nella provincia di Idlib. Un giornale critico con il regime come «Asharq al-Wasat» ha scoperto però che il grosso degli incendi è stato applicato da gruppi jihadisti che volevano impedire ai contadini di vendere il raccolto al governo. Damasco offre 185 lire siriane per ogni chilo di frumento, un prezzo allettante. La reazione è stata spietata. Secondo «Asharq al-Wasat» nel mese di maggio fra i 15 mila e i 20 mila ettari di campi coltivati a cereali sono andati in fiamme nelle zone controllate dai ribelli e dai curdi»

 

GUERRA DELL’INFORMAZIONE

 

Il conflitto siriano è entrato nel suo nono anno e la provincia di Idlib è l’ultima roccaforte jihadista in Siria. Ma l’Onu e la comunità internazionale non sembrano stanchi di pubblicare notizie false o tendenziose per orientare l’opinione pubblica a riguardo. I jihadisti non si fanno scrupoli ad affamare la popolazione di Idlib su cui esercitano ancora il controllo pur di protrarre la guerra. I civili usati come scudi umani sono una triste realtà a Idlib.

Eppure un’importante fetta della stampa mondiale e degli organi internazionali continuano a difendere in modo inspiegabile ribelli e terroristi islamici. Persino il Washington Post, che non è mai stato tenero con Assad, ha riportato le testimonianze di contadini che si sono visti i campi bruciati dall’Isis solo perché hanno osato vendere il proprio grano al governo per guadagnarsi da vivere. In Siria è cominciato l’ultimo capitolo di una guerra estenuante, ma la guerra dell’informazione non accenna a finire.

 

 

 

CHOMSKY SPIEGA L’OSTILITÀ DEGLI USA VERSO L’IRAN

a cura di Salvo Ardizzone

 

Noam Chomsky, il noto storico e filosofo americano, spiega che gli Usa sono ostili verso l’Iran perché non possono accettare uno stato indipendente in Medio Oriente. In un’intervista, Chomsky ha dichiarato che l’establishment e i media Usa considerano la Repubblica Islamica il Paese più pericoloso del pianeta perché sostiene i movimenti della Resistenza come Hezbollah e Hamas.

Secondo la narrazione bugiarda di Washington, l’Iran è una doppia minaccia, perché sarebbe il principale sostenitore del terrorismo e i suoi programmi nucleari costituirebbero una minaccia esiziale per Israele, una minaccia talmente grave da aver costretto gli Usa a posizionare un sistema antimissile sui confini russi per proteggere l’Europa dalle (inesistenti) testate nucleari iraniane, malgrado non si comprenda come e perché la leadership della Repubblica Islamica avrebbe dovuto lanciare un simile attacco, dando agli Usa l’opportunità d’incenerirla un attimo dopo.

Chomsky ha denunciato la mistificazione statunitense, affermando che nella realtà il cosiddetto sostegno iraniano al terrorismo si traduce nel supporto dato a Hezbollah, il cui crimine principale è di essere il solo deterrente contro un’altra rovinosa invasione israeliana del Libano, e ad Hamas, colpevole di aver vinto una libera elezione nella Striscia di Gaza, un crimine che ha suscitato immediate e severe sanzioni, oltre ad aver portato gli Usa a tramare per scalzarla dal governo della Striscia.

Lo storico ha continuato affermando che le colpe principali per cui Hezbollah e Hamas sono considerate organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti, risiedono nella loro ferma opposizione all’espansionismo aggressivo del regime israeliano; i sionisti hanno sempre aspirato al Grande Israele, o Terra Promessa, che secondo Theodor Herzl si sarebbe dovuto estendere dal Nilo all’Eufrate, da buona parte della Turchia alla Penisola Arabica. Se non ci fossero stati i movimenti di Resistenza come Hezbollah o Hamas, i sionisti si sarebbero impadroniti di gran parte del Medio Oriente.

Riagganciandosi a questo, Chomsky ha spiegato che l’inconciliabile ostilità di Usa e Israele nei confronti dell’Iran sta nel fatto che essi non possono tollerare una potenza indipendente in una regione che essi pretendono di dominare. Per questo la Repubblica Islamica non può essere perdonata per aver rovesciato il regime dittatoriale insediato da Washington nel 1953.

Lo studioso americano ricorda che allora un colpo di Stato ordinato dagli Usa e messo in atto dalla Cia ha rovesciato Mohammad Mossadeq, il Primo Ministro iraniano colpevole agli occhi dell’Occidente di voler nazionalizzare le risorse petrolifere dell’Iran e usarle per far progredire il Paese. Una colpa grave che ha spinto l’Inghilterra (allora padrona di quel petrolio) a chiedere l’aiuto degli Stati Uniti che diedero il via all’Operazione Ajax, ufficialmente ammessa dalla Cia 60 anni dopo; fu la fine della prima esperienza democratica in Iran e l’inizio del risentimento del Popolo iraniano verso le ingerenze americane.

Ma gli Usa non si limitarono a questo, Chomsky ricorda che per 26 anni Washington ha sostenuto Reza Pahlavi, un brutale dittatore che regnava torturando e uccidendo ogni oppositore grazie alla Savak, la sua polizia segreta. Tuttavia, malgrado il costante appoggio degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente al regime sanguinario, nel 1979 il Popolo iraniano, sotto la guida dell’Ayatollah Khomeini, è riuscito a far crollare il potere dei Pahlavi.

Nel descrivere la costante ostilità statunitense verso l’Iran, lo storico americano ha affermato che negli ultimi 60 anni non è passato un giorno senza gli Usa non si accanissero contro gli iraniani: a parte il colpo di stato ed il sostegno a un dittatore descritto nel peggiore dei modi da Amnesty International, dopo il rovesciamento di Pahlavi ci fu l’aggressione che Washington condusse attraverso Saddam Hussein; a causa di essa, nel corso di una guerra durata 8 anni, centinaia di migliaia di iraniani sono stati uccisi, molti di essi con armi chimiche, senza che nessuno protestasse.

Chomsky ha ricordato che gli Usa intervennero apertamente al fianco di Saddam Hussein, allora considerato uno strettissimo amico da Reagan, tanto che l’attacco iracheno all’Uss Stark, che causò la morte di 37 marinai Usa, fu seguito solo da un blando richiamo. Saddam era un dittatore utile per gli Usa ed essi tentarono anche d’incolpare l’Iran per le stragi di curdi che egli commise con i gas. Più tardi, George Bush padre invitò negli Stati Uniti ingegneri nucleari iracheni per formarli alla produzione di ordigni nucleari che minacciassero l’Iran senza “sporcare” Washington. E naturalmente, ha continuato lo studioso, Washington è stata la causa prima e determinante delle sanzioni contro l’Iran, che nei fatti gli Usa mantengono ancora oggi.

Nella sua analisi Chomsky ha denunciato la retorica anti iraniana di Trump, che critica l’Iran ma si accosta ai peggiori regimi repressivi; mentre egli compiva il suo viaggio in Medio Oriente, la Repubblica Islamica ha tenuto le sue elezioni, evento impensabile nell’Arabia Saudita che l’ospitava, il Paese che è la fonte del wahabismo che avvelena la regione e il mondo islamico. Ma non è solo il Presidente ad essere ostile all’Iran, lo è tutta l’Amministrazione in quanto espressione dell’establishment.

Nel descrivere l’Arabia Saudita, il maggior alleato mediorientale degli Usa e nemica giurata dell’Iran, Chomsky l’ha descritta come una dittatura brutale e repressiva, dove i diritti umani vengono calpestati, ma un luogo dove Trump si sente a proprio agio. A Riyadh, il Presidente americano ha stipulato accordi per 320 Mld di dollari, essenzialmente enormi forniture di armi per la felicità dell’industria degli armamenti, ma le conseguenze immediate sono state il via libera agli “amici” sauditi a continuare le loro atrocità in Yemen, e ad isolare il Qatar, colpevole di voler essere troppo indipendente.

Ancora una volta è principalmente l’Iran il motivo: il Qatar condivide con la Repubblica Islamica un enorme giacimento di gas naturale ed intrattiene con essa rapporti commerciali e culturali, cosa intollerabile per i sauditi (e per gli Usa).

Nella sua analisi Chomsky ha tratteggiato le ragioni profonde dell’irriducibile ostilità che gli Usa hanno verso l’Iran, e i tanti crimini che nel corso di sessant’anni hanno perpetrato nei confronti del Popolo iraniano per tentare di dominarlo; un atteggiamento che permea l’establishment statunitense e che è praticamente impossibile sradicare. Un atteggiamento a cui si somma la dichiarata inimicizia di Israele, che vede nella Repubblica Islamica e nella Resistenza che essa sostiene i suoi peggiori nemici, coloro che gli sbarrano la strada al dominio della regione, e che minacciano l’esistenza stessa dell’entità sionista e il permanere della sua occupazione della Palestina.

 

 

gli eventi algerini: il visibile e l’invisibile, di Bernard Lugan

Come sottolineato nei post precedenti l’Algeria è uno snodo cruciale delle dinamiche politiche africane e mediterranee dove si incrociano gli interessi della Francia, occupante sino ai primi anni ’60, dell’Italia sostenitrice della guerra di liberazione e soprattutto di Stati Uniti,Cina e Russia. L’Algeria dispone di notevoli risorse energetiche, delle quali è praticamente schiava la sua economia; gode ancora di un notevole prestigio tra gli stati africani. Negli anni ’90 i militari sono riusciti con grande difficoltà a domare una sanguinosa rivolta civile organizzata dai settori più integralisti_Giuseppe Germinario
Bernard Lugan_ analista geopolitico, africanista, direttore del periodico “Afrique Réelle”
La lettura degli eventi algerini deve avvenire a due livelli, il visibile e l’invisibile.
apparenze
Dopo settimane di manifestazioni, il Ramadan non ha svuotato la strada; il movimento di protesta è sostenuto.
Di fronte a questa realtà, la strategia del “Sistema” [1] attualmente incarnata dal generale Ahmed Gaid Salah non è riuscita. E’ stata progettata per guadagnare tempo e dividere i manifestanti attraverso la manipolazione della giustizia spettacolo messa in scena grazie ad un’ondata di arresti di “corrotti”. Ma gli algerini non si sono fatti ingannare perché sanno che è tutto il “sistema” ad essere compromesso. A partire dal Generale Gaid Salah, il cui affarismo familiale ad Annaba è stato denunciato dall’avversaria Louisa Hanoune … per questo gettata in prigione …
Tra la strada e il “Sistema” le posizioni sono inconciliabili:
-I manifestanti continuano a chiedere un periodo di “transizione” gestito da persone indipendenti
-Il Generale Gaid Salah vuole, attraverso le elezioni presidenziali in programma il 4 luglio 2019, eleggere un candidato da lui stesso designato. Tuttavia, queste elezioni sembrano essere impossibili da organizzare; dopo la presidenza ad interim di 90 giorni in virtù della Costituzione, il generale si troverà quindi ad affrontare un vuoto istituzionale.
… e dietro le apparenze
La lettura di El Djeich, il giornale dell’esercito permette di andare oltre le apparenze. Per diverse settimane, v’è infatti denunciato l’esistenza di una “cospirazione”, che conferma che la guerra è aperta all’interno della casta militare.
Ma dal 1962, l’esercito era riuscito sempre a regolare i conti a porte chiuse, nascondendosi dietro un potere civile di facciata delegato al FLN. Inoltre, fino ad ora, nonostante le loro contrapposizioni, i vari clan militari in nessun momento avevano trasgredito il tabù estremo di non mettere mai a repentaglio la sostenibilità del “Sistema”. L’incarcerazione di alcuni generali tra i quali cui Mediene “Toufik” e Tartag dimostra che i clan e gli odi personali hanno preso il sopravvento rispetto alla considerazione della sopravvivenza comune.
La crisi all’interno dell’istituzione militare è profonda e la proliferazione di slogan diretti contro la sua persona dimostra che il generale Gaid Salah è ora da solo contro la popolazione.
Sempre più numerosi, pertanto, sono quelli che si chiedono se l’impopolarità del loro leader non finirà per causare un divorzio tra l’esercito e il popolo. Il rischio sarebbe quello di vedere a questo punto l’ondata di protesta coinvolgere l’esercito nel “Sistema”.
Secondo voci ormai insistenti, molti dei suoi pari avrebbero indicato il Generale Gaid Salah come responsabile dell’attuale impasse politica. L’unico ostacolo alla sua estromissione sarebbe il mancato accordo sul nome del successore. Dato il clima attuale, la difficoltà è in realtà quella di trovare un generale estraneo e al di sopra degli intrighi del Serraglio e quindi in grado di recuperare il consenso interno all’esercito, conseguente alla ridefinizione della collocazione di ogni clan.
Lontano dal trambusto della strada, ma con gli occhi continuamente rivolti ad essa, i giannizzeri si affannano per trovare chi può salvare il “Sistema”. Il prossimo futuro ci dirà se sono stati in grado di trovare l’ “uccello esotico”. Ma ne hanno ancora la possibilità?
Bernard Lugan

Salvini, Di Maio e il Terzo_di Giuseppe Germinario

La conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con oggetto il caso Armando Siri è stata un piccolo capolavoro di sottili argomentazioni tese a giustificare la decisione di dimissionamento del sottosegretario. http://www.governo.it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-conte/11474La prevedibile accalorata reazione dei due esponenti politici maggiormente interessati alle implicazioni dell’affare, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non ha colto e centrato il punto focale di quella prolusione. Nella costruzione logica del discorso l’effetto scatenante sono state ovviamente le indagini giudiziarie, ma il motivo della defenestrazione riguarda il comportamento politico di un esponente di governo impegnato a difendere retroattivamente, consapevolmente o meno che fosse, interessi particolari piuttosto che l’interesse generale, non tanto il suo coinvolgimento giudiziario.

Il merito degli argomenti è però tanto efficace nella rappresentazione mediatica, quanto debole nella consistenza.

La gestione degli incentivi e delle agevolazioni ai consumi, atori e soprattutto alle imprese impegnate nel settore delle energie alternative, in particolare eolica e solare, è il frutto avvelenato del fondamentalismo ambientalista delle politiche energetiche perpetuate negli ultimi due decenni soprattutto dai governi di centrosinistra, parallelamente alla liberalizzazione del settore e bruscamente interrotte da un paio di anni.

Una mole spropositata di incentivi, introdotti repentinamente che hanno indotto enormi investimenti su tecnologie ancora poco efficienti, suscettibili solo nel tempo di migliorie significative; un ambito nel quale era del tutto assente sia l’industria di produzione degli utensili che l’artigianato competente nell’installazione e manutenzione. Il risultato ottenuto fu un notevole incremento della quota di energia verde prodotta al prezzo però di massicce importazioni di pannelli e tecnologie dalla Cina e installatori dalla Spagna. In poco tempo si assistette alla fioritura di numerose aziende di produzione e distribuzione nonché di intermediari nell’acquisizione di terreni per i parchi di produzione; attività rese profittevoli esclusivamente dall’entità degli incentivi, ma entrate immediatamente in crisi con l’altrettanto repentino scemare degli stessi. Attività di tipo speculativo nelle quali sono implicate, oltre alle scontate cosche mafiose, figure imprenditoriali ben più importanti dei tal Arata, ben ammanicate con il vecchio establishment.

Deve essere stato evidentemente uno dei servizi resi al paese e all’umanità, tra i tanti, del verde Pecoraro Scanio; servizi che gli hanno garantito un posto in prima fila alle europee in quota M5S; ma anche una scelta che ha creato l’humus adatto alla proliferazione di corruzione, parassitismo ed assistenzialismo da una parte e a interventi riparatori dall’altro.

Con questa puntualizzazione l’intervento di Conte assume ben altra caratteristica e ben altra durezza, se non proditorietà, stando almeno allo stato attuale delle indagini e della posizione giudiziaria di Siri.

Giuseppe Conte è diventato Presidente del Consiglio in quota 5Stelle, ma in virtù del contratto di governo e del protagonismo dei due vice ha potuto assumere, almeno in apparenza, la figura di terzo.

Come Schmitt, Freund e pochi altri hanno insegnato, quella del terzo è una posizione fondamentale ed indispensabile nel gioco politico. Può assumere di volta in volta la veste di mediatore, di arbitro e giudice pur essendo il più delle volte parte in causa.

Nella fattispecie Giuseppe Conte ha assunto, nell’ordinaria amministrazione, la funzione di mediatore. Nella ripartizione dei beni disponibili, quindi, l’onore della prima fila spetta ai beneficiari Salvini e Di Maio. In almeno un paio di occasioni, in questi dieci mesi, la figura di Conte si è però elevata al rango di arbitro: la gestione delle trattative con la Commissione Europea sulla Finanziaria e la gestione della conferenza internazionale sulla Libia. Si tratta però ancora di una funzione il cui esercizio è possibile grazie al riconoscimento delle parti in causa. Quando esso manca, lo vediamo nelle partite di calcio, all’arbitro non resta che la fuga e il riparo in luogo sicuro.

Con il caso Siri si è verificato il salto di qualità. Non ostante le esortazioni salomoniche alla calma rivolta ai due contendenti l’avvocato Giuseppe Conte ha assunto la veste di giudice. Di fatto un intervento a gamba tesa col fine di ripristinare e mantenere un equilibrio, un rapporto di forze in via di alterazione.

Il Presidente rischia di cadere nella tentazione ricorrente al quale cede il terzo. Quella di diventare esplicitamente parte in causa del conflitto e di trarne il massimo vantaggio specie nel momento di debolezza di entrambe i contendenti. Per il momento il bersaglio designato è Salvini. Il varco che si è cercato invano di aprire con il caso Diciotti, potrà determinarsi sfruttando la crepa del caso Siri entro la quale ancora una volta potrà agire la magistratura, parti di essa, per delimitare l’agone politico. Il moltiplicarsi delle azioni giudiziarie lasciano intravedere che sarà ancora una volta questa la modalità per tentare di ridisegnare e ripristinare lo scenario politico. Per il resto, ad alimentare i dissidi e il senso di impotenza, ci penserà la risicatezza del bottino disponibile grazie ai vincoli-capestro sottoscritti da tutti in sede comunitaria.

A Giuseppe Conte, però, manca una referenza fondamentale per esercitare compiutamente questa ultima funzione di terzo: la disponibilità delle leve di potere e di una forza propria, giacché la forza è un atout imprescindibile in politica. Lo ha dimostrato nel prosieguo delle due occasioni nelle quali ha potuto emergere: in Libia con il chiaro ridimensionamento della funzione mediatrice del Governo Italiano, in Europa con l’intangibilità dei parametri che regolano le politiche economiche degli stati europei.

L’ambiguità e la opacità di questo suo ruolo deriva dalla discrepanza netta tra la rappresentazione del conflitto e delle divisioni sullo scenario pubblico e le divisioni e i contrasti effettivi che agiscono nell’ombra e dietro le quinte. Lo scenario ci offre la contrapposizione tra Salvini e Dimaio, la Lega e i Cinque stelle.

Il Governo in realtà è composto da tre attori, una delle quali, la componente “tecnica”, rappresenta il vero giudice. Una componente composta in parte da figure autonome, in parte da figure cooptate nel seno dei due partiti, specie dai 5Stelle, per mancanza di una propria classe dirigente. È pervaso, altresì, da due anime, queste sì in fondamentale conflitto tra di esse. Una apertamente europeista, pedissequamente atlantista, ben disposta verso l’umanitarismo e il politicamente corretto; ben salda nel controllo delle leve di potere, ma incapace di offrire una prospettiva accettabile per quanto ingannevole. L’altra con aspirazioni di indipendenza politica, incapace però di tradurle in strategie e tattiche politiche adeguate con il risultato di ricadere continuamente nel trasformismo più becero. Due anime che attraversano entrambe i partiti al governo anche se sotto mentite spoglie di diversa foggia. Quella restauratrice in uno si manifesta con il progressismo dei diritti, nell’altro con quello della persistenza di una classe dirigente più preparata e navigata, addestrata da venti anni di esperienza amministrativa, ma legata ad una visione localistica e regionalista sostanzialmente compatibile con le attuali opzioni europeiste e con la attuale insignificanza nell’agone geopolitico. Una mistura particolarmente deleteria e mistificante per il paese. Il resto, comprese le migrazioni incontrollate di adepti nei partiti, di fatto nel partito, è un corollario per quanto rischioso

In questo contesto e con queste dinamiche la funzione di Giuseppe Conte rischia di apparire inesorabilmente più che di Terzo per “conto terzi”. Una funzione che potrà portare al drastico ridimensionamento, se non al dissolvimento di uno, dell’ultimo arrivato quindi tra i partiti e al pieno rientro nei ranghi dell’altro. Gli osanna mediatici a Mario Draghi e la posizione di attesa del PD lasciano intendere questi propositi. Tra il dire e il fare, fortunatamente, c’è di mezzo un vecchio ceto politico troppo screditato ed incapace e un contesto geopolitico, compreso il presunto asse franco-tedesco, sempre più mutevole e meno stabile nella stessa Europa. Per ora può essere ancora una opportunità; tra non molto potrà rivelarsi, se procrastinata, una vera e propria iattura e catastrofe per l’intera Europa e soprattutto per l’Italia; senza nemmeno il palliativo del declino languido conosciuto dall’Italia postrinascimentale.

 

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