IRAQ e SIRIA in fiamme, terreno di scontro tra USA/ISRAELE vs RUSSIA e IRAN Con C Semovigo G Germani

In collaborazione con il canale di Gabriele Germani https://www.youtube.com/@Gabriele.Germani ancora un aggiornamento della situazione in Medio Oriente inserita nelle dinamiche della grande geopolitica_Giuseppe Germinario
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TRUMP PACE IN UCRAINA, FUOCO E FIAMME SU TUTTO IL MEDIO ORIENTE Con Gabriele Germani,Cesare Semovigo

Ucraina, Vicino Oriente, Elezioni in USA tra cronaca e considerazioni Giuseppe Germinario
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Scontro tra i poteri dello Stato: la confusione genera mostri, del dr Yari Lepre Marrani

 

Scontro tra i poteri dello Stato: la confusione genera mostri.

 

Un (presunto) conflitto tra l’attuale maggioranza di governo e il potere giudiziario non sarebbe altro che un punteruolo finale ad uno scontro tra poteri dello stato iniziato il 17 febbraio 1992 e parallelo ad una decadenza colposa delle istituzioni italiane di fronte ai problemi del paese.  L’immigrazione è uno di questi ma il governo Meloni ha agito proditoriamente sfidando non solo le normative europee cioè il sistema legislativo di quell’Europa che la Meloni ha sempre disprezzato ma da quando è presidente del consiglio mira a trasformare in un ulteriore palcoscenico per la propria carriera. La sua sfida è lanciata soprattutto  a quel buon senso di civiltà di diritto internazionale che un politico lungimirante e intelligente dovrebbe tutelare e considerare come teatro per una risoluzione reale del problema migratorio, non uno strumento per creare confusione umanitaria e politica senza risolvere alcunché. È stato pubblicato il 23 ottobre in Gazzetta Ufficiale e trasmesso alle Camere per la conversione in legge il Decreto-Legge 23 ottobre 2024, n. 158: Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Con questo atto avente forza di legge, il governo si è arbitrariamente illuso di decidere quali sono i paesi sicuri per i migranti dimenticando di comprendere che un problema di così ciclopiche dimensioni come quello dell’immigrazione va risolto ab radicem e non con leggi che aggravano il problema perché generano confusione sociale. Il tema dell’immigrazione non è solo un vasto problema che tocca i diritti fondamentali dei più vulnerabili e il diritto internazionale: è un tema squisitamente sociale prima che politico. Perché migliaia di disperati fuggono dalle proprie terre sperando, lottando e rischiando la propria vita per raggiungere luoghi e paesi di sperata salvezza? Perché i loro paesi d’origine sono un fulcro di guerra, disperazione e desolazione, altrimenti non fuggirebbero in tali condizioni pietose. Già da decenni la politica italiana avrebbe compreso che la soluzione al problema dell’immigrazione – legale o illegale – andrebbe risolto in due modi: intervenendo concretamente sui paesi “a rischio” cioè sulle terre martoriate che generano i flussi migratori e creando sistemi di integrazione tali da rendere i migranti non un peso per il paese accogliente ma una risorsa(legale). Il DL 158 appena varato dimostra ictu oculi che le motivazioni politiche del governo Meloni sono fallaci, figlie di quell’opportunismo del momento che adombra l’incompetenza delle idee e la mancanza di una visione lucida sui sistemi per risolvere problemi di tali portata. Se manca una visione politica d’ampio raggio, lungimirante, che organizzi il presente in nome del futuro, il governo finge di governare. I governi si succedono ad ogni tornata elettorale; in Italia, negli ultimi dieci anni, ci sono state quattro maggioranze non elette dal popolo e quella attuale è stata eletta più per grave demerito delle altre forze politiche che per meriti propri. Togliendo il “forse” a quest’ultima affermazione, non è così indecoroso rilevare che nelle ultime elezioni politiche ha vinto la rassegnazione e non il merito: i cittadini votano per rassegnazione una forza politica – di destra o di sinistra – perché tutte le altre presenti sono impresentabili. La manifesta incapacità delle altre forze politiche già votate, collaudate e bocciate, porta all’elezione di chi, ancora, non è stato “provato” come forza di governo. Quale speranza!

Il Tribunale di Roma ha bocciato il Decreto Legge 158, bocciando la soluzione del “modello Albania”: è scontro tra poteri dello Stato? Forse.

Sicuramente una magistratura di parte è nemica dei cittadini che dovrebbe giurisdizionalmente tutelare. Se fosse così, la magistratura sarebbe potenzialmente corrotta. L’etimologia del termine corrotto è latina: corruptus, part. pass. di corrompere cioè corrompere, guastare, alterare.  L’immagine è quella di una crepa, di un tradimento di chi esercita un potere, di un fosso, nel caso de quo, tra chi esercita la funzione giurisdizionale e il cittadino.

Un governo incapace è un fatto grave; una magistratura di parte svincolata dal patto con i cittadini un fatto gravissimo. Se una parte della magistratura italiana usa politicamente il proprio potere per influire e determinare le scelte politiche di una nazione deve essere riformata ma per farlo occorre un governo che abbia una visione sociale, giuridica e politica di rara onestà, intelligenza e lungimiranza. Un governo che non possiede questi requisiti non può riformare la giustizia, neanche riformando ab origine e per dieci volte il CSM o chiedendo ogni giorno l’intervento del Presidente della Repubblica. Se la magistratura mostra segni di corruzione, il governo non ha la capacità di riformarne le basi: ecco da cosa nasce lo scontro tra i poteri dello Stato. Questo è il vero scontro che va al di là della recente polemica sul Decreto Paesi Sicuri. L’ignoranza genera mostri ma la confusione e l’incapacità serpeggiante tra i poteri dello Stato genera e genererà disastri che sono sempre preludio ai mostri.

dr Yari Lepre Marrani, analista politico

 

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IMBOSCATA ALL’ITALIANA Con Gabriele Germani, Cesare Semovigo

Notizie e commenti su Libano, Palestina ed Israele che difficilmente raggiungono il pubblico italiano. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Due fuochi, un incendio? – con Roberto Buffagni, G Germinario, Cesare Semovigo, Gabriele Germani

Prosegue la collaborazione con il canale di Gabriele Germani @Gabriele.Germani
A che punto delle dinamiche geopolitiche siamo arrivati? Qual’è la natura dei due grandi conflitti in corso in Ucraina e Vicino Oriente? Ci sarà scampo per i perdenti? Sono i quesiti che pian piano affiorano in un confronto apparentemente interminabile. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Cinque spunti di riflessione sull’ultimo bombardamento di Damasco da parte di Israele, di Andrew Korybko

La tendenza di Israele a colpire aree civili in Siria nell’ambito della sua serie di omicidi nella regione minaccia di destabilizzare ulteriormente la Repubblica araba.

Martedì Israele ha bombardato un quartiere civile a Damasco nel suo ultimo attacco contro la Repubblica araba. RT ha citato i media sauditi per riferire che l’obiettivo era “un funzionario di Hezbollah responsabile dell’Unità 4400, che presumibilmente fornisce alla milizia sciita libanese armi dall’Iran”. È raro che Israele colpisca aree civili in Siria, eppure ha iniziato a farlo sempre di più dall’inizio dell’ultima guerra israelo-libanese . Ecco cinque spunti da questo sviluppo:

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1. Israele è in preda a una serie di omicidi regionali

Il mese scorso il Mossad ha sfruttato la sua superiorità di intelligence sulla Resistenza per assassinare decine di loro membri, prima con bombe cercapersone e poi con attacchi aerei, nonostante i prevedibili danni collaterali ai civili. L’ultimo bombardamento di Damasco è la naturale evoluzione di questa tendenza e segnala che Israele è disposto a tutto, incluso mettere in pericolo i civili, per eliminare i suoi obiettivi. La capitale siriana potrebbe presto essere colpita con la stessa frequenza di quella libanese se venissero scoperti abbastanza obiettivi.

2. Gli S-300 erano di nuovo silenziosi

L’invio, a lungo ritardato, degli S-300 da parte della Russia in Siria alla fine del 2018 è stato pubblicizzato come un punto di svolta , ma non sono ancora stati utilizzati nemmeno una volta, nonostante centinaia di bombardamenti israeliani da allora. Queste analisi qui , qui e qui gettano più luce sul perché, ma è sufficiente per i lettori occasionali sapere che la Russia non permetterà alla Siria di usarli perché non vuole provocare Israele. I calcoli complessi articolati nelle analisi precedenti rimangono ancora in atto nonostante l’intensificata campagna di bombardamenti di Israele.

3. Israele vuole che la Siria si separi dalla Resistenza

La Siria non è in grado di difendersi da Israele, sia per ragioni oggettive dovute alle sue limitate capacità, sia per ragioni soggettive legate ai calcoli della Russia sopra menzionati, ma potrebbe impedire altri attacchi di questo tipo se si separasse dalla Resistenza chiedendo discretamente ai suoi militari di lasciare il paese . È esattamente ciò che Israele sta facendo pressione sulla Siria intensificando i suoi attacchi contro le aree civili. Assad finora si è rifiutato di farlo, ma potrebbe riconsiderare se i danni collaterali diventassero troppo grandi.

4. La Siria è riluttante a reagire

La Siria non ha mai reagito contro Israele nonostante sia stata bombardata centinaia di volte nell’ultimo decennio perché sa che Israele risponderebbe in modo sproporzionato e probabilmente paralizzerebbe l’SAA. Assad non può permettersi che ciò accada poiché potrebbe creare un’apertura che i terroristi potrebbero sfruttare per far sprofondare di nuovo il suo paese nel caos. Ha quindi preso ogni loro colpo con calma e, dopo aver visto cosa Israele ha fatto a Gaza e cosa sta facendo ora a Beirut, è probabile che sia ancora più riluttante a reagire che mai.

5. I terroristi potrebbero trarre vantaggio da ulteriori attacchi

Se Damasco diventasse la prossima Beirut, una volta che Israele scoprisse lì un numero sufficiente di obiettivi della Resistenza, allora potrebbe ancora verificarsi lo scenario sopra menzionato, in cui i terroristi approfittano di questi attacchi per passare all’offensiva, soprattutto se ciò coincidesse con un’altra provocazione con armi chimiche sotto falsa bandiera . In tal caso, i calcoli di Russia e Siria potrebbero cambiare se concludessero che la loro moderazione è stata controproducente, il che potrebbe portare a un’altra guerra israelo-siriana con conseguenze imprevedibili.

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La tendenza di Israele a colpire aree civili in Siria come parte della sua serie di omicidi regionali minaccia di destabilizzare ulteriormente la Repubblica araba, incoraggiare i terroristi lì presenti a passare all’offensiva e quindi rischiare lo scoppio di un’altra guerra israelo-siriana a seconda della risposta di Damasco a questo scenario peggiore. Ciò potrebbe essere evitato se la Siria si separasse dalla Resistenza chiedendo discretamente ai suoi membri militari di lasciare il paese, ma Assad potrebbe non farlo e potrebbero anche rifiutarsi di obbedire anche se ciò accadesse.

Le dinamiche diplomatico-militari di quella che oggi può essere descritta come la guerra di resistenza regionale israeliana si sono spostate a sfavore di quest’ultima, quindi la Cina rischia di perdere influenza se non ricalibra la sua politica.

La portavoce del Ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha affermato durante una conferenza stampa martedì che “I legittimi diritti nazionali del popolo palestinese devono essere realizzati e le ragionevoli preoccupazioni di sicurezza di Israele devono essere tenute in considerazione”. Ha poi ripetuto questo in risposta a un reporter di Bloomberg che in seguito ha chiesto se avesse sentito correttamente i suoi commenti a riguardo. Il motivo per cui hanno chiesto conferma è perché questo rappresenta un cambiamento nella percezione popolare della retorica cinese .

Sebbene Mao abbia affermato che “È stata la posizione coerente della Cina”, i media e i funzionari del suo paese hanno duramente criticato la campagna militare di Israele a Gaza nell’ultimo anno, nonostante le ragioni legate alla sicurezza alla base di essa, che Pechino ha lasciato intendere essere irragionevoli. Questo approccio tacito ha permesso alla Repubblica Popolare di presentarsi come paladina della causa palestinese e quindi di ottenere più sostegno tra la popolazione a maggioranza musulmana della regione.

I suoi calcoli ora sembrano cambiare dopo i devastanti attacchi di Israele contro Hezbollah nel mese scorso, il vice leader di quel gruppo ha approvato un cessate il fuoco per la prima volta senza precondizionarlo all’interruzione della campagna di Gaza e i resoconti sui colloqui segreti tra Stati Uniti e arabi con l’Iran su un cessate il fuoco regionale. Le dinamiche militari-diplomatiche di quella che ora può essere descritta come la guerra di resistenza regionale israeliana si sono quindi spostate contro quest’ultima, quindi la Cina rischia di perdere influenza se non ricalibra la sua politica.

Gli osservatori dovrebbero ricordare che la sua precedente dura retorica non è mai stata seguita da azioni contro Israele come sanzioni, e tutto è sempre stato formulato in modo tale da lasciare aperta la possibilità di cambiare flessibilmente il suo approccio se le circostanze lo richiedessero, come presumibilmente sta accadendo ora. Lo stesso vale per la Russia, i cui media e funzionari hanno anche duramente criticato Israele, anche se il Cremlino non lo ha mai sanzionato o addirittura simbolicamente designato come un “paese ostile”.

Entrambi hanno parlato in precedenza dell’importanza di garantire la sicurezza di Israele, con un esempio dalla Cina qui e dalla Russia qui , ma tali dichiarazioni sono state oscurate dalle loro dure critiche fino ad ora. Tuttavia, il tavolo militare-diplomatico si è decisamente capovolto il mese scorso, quindi non vogliono più essere associati a quella che è sempre più vista come la parte perdente, poiché ciò potrebbe rendere più difficile per loro essere invitati da Israele a qualsiasi colloquio di pace se si svolgesse in un formato multilaterale.

L’unico modo per contrastare queste percezioni è riaffermare a gran voce la ragionevolezza delle preoccupazioni di sicurezza di Israele. Cina e Russia hanno entrambe dei legami politici con la Resistenza, anche se quelli dell’Iran superano di gran lunga i loro, e questi gruppi potrebbero volerli presenti in qualche modo quando negoziano la pace con Israele, anche se è improbabile che Israele accetti a meno che non sia convinto che rispettino i suoi interessi. Dopotutto, ora è in una posizione migliore per dettare i suoi termini, quindi può essere selettivo su chi partecipa a tali colloqui.

C’è anche la possibilità che Israele negozi bilateralmente con ciascuno dei gruppi della Resistenza che sta combattendo o si affidi alla mediazione arabo-statunitense invece di replicare il formato ucraino di multilateralizzazione del processo di pace, tagliando così fuori completamente Cina e Russia. Anche in quel caso, tuttavia, il loro cambio di retorica, o meglio, la forte riaffermazione di dichiarazioni oscurate, sarebbe comunque utile, allineandoli più da vicino con la parte vincente per preparare meglio il futuro regionale del dopoguerra

Se la Russia avesse sostenuto la visione della Resistenza per la Palestina, ciò avrebbe minato il suo sostegno ai suoi connazionali nelle ex repubbliche sovietiche e avrebbe significato una pulizia etnica del suo stesso popolo nel Levante.

La questione palestinese è una delle questioni più emotive della storia moderna a causa delle sue dimensioni anticoloniali e religiose, queste ultime uniche per via del significato di Gerusalemme per le tre religioni abramitiche, in particolare l’ebraismo e l’Islam. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno chiesto la creazione di uno Stato palestinese indipendente entro i suoi confini precedenti al 1967. Israele si rifiuta di attuarle a causa dei suoi obiettivi massimalisti, che sono l’esatto opposto dei suoi nemici dell’Asse della Resistenza.

Entrambi vogliono controllare tutto “dal fiume al mare”, motivo per cui Israele rifiuta di riconoscere uno Stato palestinese indipendente mentre la Resistenza rifiuta di riconoscere quella che chiama l’entità sionista. La Russia non è d’accordo con entrambi poiché sostiene una soluzione a due stati, ma il suo disaccordo con la Resistenza è molto più fondamentale che con Israele. Questo perché ciò che la Resistenza chiede nei confronti degli ebrei israeliani è simile a ciò che alcune ex repubbliche sovietiche hanno chiesto nei confronti dei russi etnici.

Gli ebrei di origine europea che dominano la vita politica israeliana sono considerati dalla Resistenza come coloni che devono tornare in Europa affinché ci sia la pace, anche se sono nati in Israele e non hanno la doppia cittadinanza. Coloro che hanno seguito il discorso di quella parte su questo conflitto sui social media si sono probabilmente già imbattuti in richieste affinché Netanyahu e altri “tornino in Polonia “, ad esempio. Questo è presumibilmente un prerequisito affinché la giustizia storica sia servita dal loro punto di vista.

Anche ai russi etnici che vivono in ex repubbliche sovietiche come gli Stati baltici, il Kazakistan e l’Ucraina è stato detto di “tornare in Russia”, anche se sono nati in quegli stati ora indipendenti e non hanno la doppia cittadinanza. A differenza dell’Ucraina , i Paesi baltici e il Kazakistan non sono terre russe storiche, eppure la Russia insiste affinché i diritti umani dei suoi co-etnici siano rispettati e si oppone al loro reinsediamento sotto coercizione. Questa politica è in contrasto con le narrazioni di quei tre sulla “conquista, occupazione e oppressione russa”.

Alcuni radicali nel Caucaso settentrionale, che si trovano nell’attuale territorio russo ma oltre i confini dell’ex Rus’ di Kiev, considerata la sua terra tradizionale, hanno narrazioni simili sui russi che rispecchiano quelle della Resistenza sugli ebrei israeliani di origine europea. Entrambi i gruppi sono considerati coloni la cui permanenza continuata su quelle terre (i russi etnici nei Paesi Baltici, in Kazakistan, in Ucraina e nel Caucaso settentrionale e gli ebrei di origine europea in Palestina) è illegittima.

Al di là dei paragoni tra l’espansione storica della Russia in terre non tradizionali e la fondazione di Israele, che esulano dall’ambito di questa analisi per chiarire, lo stato attuale di ciascun gruppo è simile. Ciò è tanto più vero se si ricorda ciò che Putin ha detto degli ebrei russi in Israele : “I russi e gli israeliani hanno legami di famiglia e amicizia. Questa è una vera famiglia comune; posso dirlo senza esagerare. Quasi 2 milioni di russofoni vivono in Israele. Consideriamo Israele un paese di lingua russa”.

È in parte per questo motivo che ” Lavrov ha ricordato al mondo che la Russia è impegnata a garantire la sicurezza di Israele ” alla fine del mese scorso, la cui precedente analisi con collegamento ipertestuale elenca altri cinque pezzi di contesto che i lettori possono esaminare se desiderano saperne di più sulle relazioni russo-israeliane. Se la Russia sostenesse la visione della Resistenza per la Palestina, allora minerebbe il suo sostegno ai suoi co-etnici nelle ex repubbliche sovietiche e equivarrebbe a fare una pulizia etnica del suo stesso popolo dal Levante.

Riconoscere gli ebrei israeliani di origine europea, in particolare quelli provenienti dalla Russia, come colonizzatori e sostenere le richieste della Resistenza di farli tornare in Europa anche se non ci sono mai nati e non hanno la doppia cittadinanza, alimenterebbe le richieste delle ex repubbliche sovietiche affinché anche i russi etnici se ne vadano. La maggior parte dei russi etnici si trasferì nei Paesi baltici dopo la seconda guerra mondiale, più o meno nello stesso periodo in cui la maggior parte degli ebrei di origine europea si trasferì in Israele, quindi questo paragone potrebbe essere sfruttato per fare pulizia etnica.

Proprio come la Resistenza ritiene che la Palestina sia stata colonizzata da ebrei di origine europea, anche i Baltici si considerano colonizzati dai russi, sia durante il periodo imperiale che, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale, quando furono incorporati nell’URSS dopo due decenni di indipendenza. Lo stesso vale per ciò che alcuni radicali all’interno dell’attuale territorio russo pensano delle relazioni storiche dei loro gruppi etnici con i russi etnici e gli stati associati a questi ultimi nel corso dei secoli.

Gli Stati baltici, Israele e la Russia sono tutti stati riconosciuti dall’ONU con obblighi legali internazionali per proteggere i diritti umani delle loro minoranze, ma Israele ha anche l’obbligo di riconoscere l’indipendenza di uno Stato palestinese. La Russia non ha alcun obbligo di riconoscere nessuna delle entità separatiste sorte entro i suoi confini dopo il 1991, quindi il paragone tra essa e Israele è imperfetto a questo proposito. Tuttavia, Israele propriamente detto non ha alcun obbligo di dissolversi come richiede la Resistenza.

Il loro appello a decolonizzare completamente Israele (vale a dire lo Stato ebraico autoproclamato entro i suoi confini pre-1967) è simile all’appello di alcuni occidentali a ” decolonizzare Russia ” balcanizzandola e poi effettuando una pulizia etnica dei russi dalle terre non tradizionali (ad esempio quelle oltre i confini della Rus’ di Kiev) in cui vivono. Il Cremlino non può sostenere questo scenario in nessuna circostanza a causa della minaccia latente che rappresenta per i diritti umani dei suoi co-etnici nelle ex repubbliche sovietiche, nonché per la sua stessa integrità territoriale.

La Russia sarà quindi sempre fondamentalmente in disaccordo con la Resistenza sul futuro della Palestina, poiché non sosterrà mai il finale “dal fiume al mare” che questo movimento desidera più di ogni altra cosa. Uno Stato palestinese indipendente entro i suoi confini pre-1967 è l’unico risultato che si allinea con il diritto internazionale. Qualsiasi cosa in più è considerata dalla Russia una minaccia latente ai propri interessi, come spiegato, e sarà quindi sempre politicamente osteggiata.

È possibile che questo scenario sia stato elaborato rapidamente nel mese scorso, dopo l’inizio della fase aerea dell’ultima guerra israelo-libanese.

Il Foreign Intelligence Service (SVR) russo ha avvertito martedì che alcuni paesi della NATO e l’Ucraina stanno preparando una provocazione sotto falsa bandiera con armi chimiche in Siria per screditare la Russia nel Sud del mondo. Hanno specificato che “il piano dell’operazione prevede che i militanti lancino un contenitore minato con cloro da un UAV durante gli attacchi delle Forze armate siriane e delle Forze aerospaziali russe sulle posizioni dei gruppi terroristici nella zona di de-escalation di Idlib”, che i Caschi Bianchi filmeranno poi.

La tempistica è sospetta poiché coincide con l’inizio dell’operazione terrestre di Israele in Libano. La Siria non è estranea alle false flag sulle armi chimiche, quindi l’ultima potrebbe essere stata elaborata in un batter d’occhio basandosi sull’esperienza acquisita in tutte quelle precedenti. È quindi possibile che questo scenario sia stato rapidamente ideato nel mese scorso, dopo l’inizio della fase aerea dell’ultima guerra israelo-libanese . L’obiettivo di questa provocazione potrebbe quindi essere quello di ampliare la portata del conflitto regionale.

La dimensione terrestre dell’ultima guerra israelo-libanese è già abbastanza destabilizzante per la regione, ma il Levante potrebbe essere gettato ulteriormente nel caos se la Turchia si sentisse pressata da questa provocazione sotto falsa bandiera per intensificare le sue operazioni militari nella Siria nord-occidentale. Lo scenario peggiore sarebbe se ciò si traducesse in una guerra convenzionale tra di loro, anche solo per un errore di calcolo, il che potrebbe danneggiare notevolmente anche gli interessi della Russia.

Ha lavorato duramente negli ultimi nove anni per sradicare il terrorismo nella Repubblica araba, un altro conflitto su larga scala potrebbe invertire i suoi finora impressionanti guadagni, per non parlare del rischio di peggiorare le sue relazioni con la Turchia. Per evitare malintesi, non si sta facendo alcuna previsione su un’effettiva falsa bandiera di armi chimiche, per non parlare del fatto che una di queste porterebbe automaticamente a una guerra turco-siriana convenzionale. Tutto ciò che si sta facendo è una previsione di scenari alla luce dell’avvertimento di SVR.

Chiarito questo, è possibile che la ragione più importante per cui hanno deciso di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo presunto complotto imminente sia quella di informare l’opinione pubblica turca e quindi ridurre le possibilità che la loro leadership sia in grado di radunarli a sostegno dell’escalation militare in Siria se ciò dovesse accadere. La Russia non vuole vedere una guerra convenzionale turco-siriana, per non parlare di un improvviso deterioramento dei loro legami che saboti i suoi sforzi per riconciliarli , quindi ne consegue naturalmente che farebbe del suo meglio per impedirlo.

A tal fine, l’avvertimento di SVR non solo difende la reputazione della Russia prima di questa potenziale provocazione come hanno esplicitamente cercato di fare, ma promuove anche l’obiettivo non dichiarato di ridurre la probabilità di una guerra convenzionale turco-siriana in seguito, che danneggerebbe anche gli interessi della Russia. Resta incerto se la Turchia abboccherà all’amo se gli orchestratori andranno avanti con il loro piano, ma potrebbe anche essere il caso che la sua leadership o elementi del suo “stato profondo” allineati all’Occidente siano coinvolti.

Si può solo ipotizzare perché il presidente Erdogan o i membri delle burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti del suo paese vorrebbero questo, ma il primo potrebbe voler sfruttare quella che percepisce come ” debolezza russa “, mentre il secondo potrebbe voler provocare una crisi con la Russia. Ancora una volta, il lettore dovrebbe ricordare che niente di tutto questo potrebbe accadere, poiché questo pezzo è solo una previsione di scenario e non una previsione, ma farebbero comunque bene a tenere d’occhio la Siria per ogni evenienza.

È sempre proficuo quando imprenditori provenienti da paesi diversi, in particolare ex rivali come Russia e Pakistan, si incontrano per discutere di come soddisfare il loro desiderio comune di incrementare il commercio e gli investimenti.

La settimana scorsa si è tenuto a Mosca il primo forum russo-pakistano sul commercio e gli investimenti, il cui momento clou è stato un accordo di baratto raggiunto per la Russia per scambiare ceci e lenticchie con il Pakistan in cambio di mandarini e riso. Il ministro per le privatizzazioni Abdul Aleem Khan ha espresso la speranza che le esportazioni del suo paese verso la Russia possano crescere fino a 4 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni dopo che entrambe le parti hanno discusso di visti commerciali, problemi di trasporto e logistica, canali bancari e forme di pagamento alternative durante il forum.

La partecipazione di oltre 100 aziende russe e 70 imprenditori pakistani dimostra quanto seriamente entrambe le parti abbiano trattato questo evento storico. Khan ha anche incontrato il vice primo ministro Alexei Overchuk, che aveva appena visitato il Pakistan il mese scorso durante un viaggio che ha attirato l’attenzione sulla dimensione sempre più strategica delle loro relazioni. Hanno discusso in modo importante del ruolo del Corridoio di trasporto nord-sud (NSTC) attraverso l’Iran per facilitare il commercio bilaterale durante i loro ultimi colloqui a Mosca.

Questi sono sviluppi promettenti, ma permangono seri problemi, prima di tutto i limiti naturali del commercio di baratto tra di loro. C’è solo una certa quantità che possono realisticamente scambiare tra loro, inoltre ognuno deve ancora pagare i costi logistici per attraversare l’NSTC o condurre il commercio via mare. L’unica ragione per cui stanno barattando è perché il Pakistan non ha le riserve necessarie per fare comodamente più acquisti dalla Russia. Ha anche paura delle sanzioni secondarie degli Stati Uniti se viene sorpreso a usare dollari nel loro commercio.

Un altro punto è che la Russia non è interessata ad accumulare rupie pakistane a meno che non le vengano fornite opportunità di investimento preferenziali nei settori energetico, industriale o minerario per trarre profitto da questa valuta altrimenti ampiamente illiquida. Potrebbero aver discusso di tali possibilità durante il forum, ma il fatto che il suo principale risultato sia stato un accordo di baratto agricolo e nient’altro suggerisce che sono ancora lontani dal raggiungere un accordo su investimenti molto più strategici del tipo menzionato.

Ciò non significa che il forum sia stato un fallimento. È sempre utile quando imprenditori di paesi diversi, in particolare ex rivali come Russia e Pakistan, si incontrano per discutere di come soddisfare il loro desiderio reciproco di incrementare il commercio e gli investimenti. Le loro culture aziendali, economie e sistemi legali sono così diversi che solo un evento su larga scala di questo tipo a cui partecipano importanti aziende russe e imprenditori pakistani insieme ai funzionari di ciascuna parte potrebbe contribuire a far sì che ciò accada.

Lo scopo non era quello di raggiungere accordi in quel momento, ma di esplorare opportunità commerciali e poi affidarsi alle competenze disponibili all’evento per saperne di più su come avrebbero funzionato eventuali accordi potenziali se fossero stati raggiunti. C’è così tanto che ciascuna parte deve ancora imparare dall’altra che ci sono voluti più di 15 mesi dalla decisione del Pakistan nel giugno 2023 di consentire il commercio di baratto con la Russia per raggiungere l’accordo di prova di concetto ampiamente simbolico della scorsa settimana.

Pertanto, ci vorrà del tempo per raccogliere i frutti del primo forum russo-pakistano di commercio e investimenti, ed è altamente improbabile che il Pakistan realizzi l’obiettivo di Khan di esportare prodotti per un valore di 4 miliardi di dollari in Russia entro il 2030, quando la maggior parte del loro commercio bilaterale da 1 miliardo di dollari è costituito da esportazioni di grano russo verso il suo paese. Tuttavia, qualsiasi progresso tangibile in questo senso sarebbe comunque reciprocamente vantaggioso, e la Russia apprezzerà sicuramente il gesto del Pakistan che fa del suo meglio per aumentare il suo commercio nonostante le pressioni americane.

Per essere assolutamente chiari, non c’è alcun collegamento tra la protesta pacifica del PTI e gli attacchi del nesso terroristico TTP-BLA, anche se non sarebbe sorprendente se le autorità affermassero falsamente il contrario.

Il prossimo Summit SCO si terrà nella capitale pakistana di Islamabad dal 15 al 16 ottobre, ma è già stato rovinato da tumulti politici e attacchi terroristici. La protesta dell’opposizione del PTI a sostegno dell’ex Primo Ministro imprigionato Imran Khan (IK) è diventata violenta nel fine settimana dopo che i servizi di sicurezza hanno fatto ricorso alla forza per reprimere questa manifestazione non autorizzata. Le autorità hanno quindi inventato la teoria della cospirazione secondo cui il vero motivo dietro la protesta del PTI era sabotare l’evento della prossima settimana.

Non appena la situazione a Islamabad si era parzialmente stabilizzata, un attentatore suicida del terrorista designato “Baloch Liberation Army” (BLA) si è fatto esplodere mentre attaccava un convoglio di VIP cinesi in partenza dall’aeroporto di Karachi. Ciò è avvenuto in seguito a un’imboscata dei loro alleati Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) a Khyber Pakhtunkhwa che ha ucciso almeno 16 soldati, il che ha dimostrato che la nuova operazione antiterrorismo a livello nazionale non è finora riuscita a fermare l’ondata di tali attacchi di quest’anno .

Per essere assolutamente chiari, non c’è alcun collegamento tra la protesta pacifica del PTI e gli attacchi del nesso terroristico TTP-BLA, anche se non sarebbe sorprendente se le autorità affermassero falsamente che c’è per diffamare al massimo i loro oppositori politici come era stato previsto che avrebbero fatto un mese fa qui . Tuttavia, è ovvio che entrambi hanno interesse ad attirare l’attenzione globale sulle loro rispettive cause, da qui la tempistica delle loro azioni prima del prossimo vertice SCO.

Il PTI spera che i partner eurasiatici del Pakistan possano spingerlo delicatamente dietro le quinte a considerare un compromesso con l’opposizione, che potrebbe iniziare liberando IK dalla prigione e poi tenendo nuove elezioni veramente libere ed eque, al fine di ripristinare la stabilità politica. Ciò potrebbe aiutare il paese a riacquistare la sua attenzione antiterrorismo dopo che i servizi militari e di intelligence hanno dato priorità alla persecuzione del PTI per quasi gli ultimi due anni e mezzo, il che ha creato un enorme punto cieco che i terroristi hanno sfruttato.

Per quanto promettente possa sembrare, è improbabile che accada poiché i partner del Pakistan non interferiscono nei suoi affari interni, indipendentemente da quali possano essere le loro reali opinioni su di loro, poiché non vogliono creare il precedente dell’interferenza del Pakistan nei loro. Alcuni dei loro rappresentanti potrebbero tenere discussioni non ufficiali e molto sincere con le loro controparti pakistane, ma nessuna minaccia implicita di conseguenze accompagnerebbe le loro raccomandazioni informali sul modo migliore per procedere se non venissero rispettate.

Per quanto riguarda il nesso terroristico TTP-BLA, il loro unico obiettivo è distruggere lo stato pakistano, ognuno perseguendo obiettivi diversi. Il TTP vuole imporre un regime islamico ultra-fondamentalista mentre il BLA vuole l’indipendenza per la regione più grande del paese. Entrambi sono stati riconosciuti come gruppi terroristici nella dichiarazione congiunta del mese scorso dei ministri degli esteri cinese, iraniano, pakistano e russo, che ha anche lasciato intendere che i talebani afghani stanno quantomeno chiudendo un occhio sulle loro attività, come spiegato qui .

Questi due rappresentano collettivamente la più grande minaccia terroristica nella regione più ampia, persino più dell’ISIS-K, dato il loro numero molto più elevato di attacchi terroristici contro il Pakistan negli ultimi anni, quindi è possibile che la SCO nel suo complesso possa chiedere ai talebani di reprimerli. Non ci si aspetta nulla di più, però, poiché nessuno dei loro membri, a parte il Pakistan e in una certa misura il Tagikistan, vuole rischiare di rovinare i propri rapporti con i talebani essendo troppo duri con loro.

Supponendo che il summit vada a buon fine come previsto, e che finora non ci siano state indicazioni credibili che potrebbe essere spostato in un formato online per motivi di sicurezza, i partecipanti avranno sicuramente in mente l’opposizione del PTI e il nesso terroristico TTP-BLA, anche se il primo non verrà discusso ufficialmente. Il Pakistan è un paese con molte promesse, dato il suo quarto di miliardo di persone e la sua posizione geostrategica, ma i suoi tumulti politici e le minacce terroristiche gli impediscono di avvicinarsi a qualcosa di vicino al suo pieno potenziale.

La maggioranza mondiale prevede riforme graduali e responsabili che elevino il loro ruolo nella governance globale, con l’obiettivo di rendere le relazioni internazionali più eque.

Il Valdai Club, uno dei think tank più prestigiosi della Russia e la sua piattaforma di networking d’élite, ha pubblicato un rapporto dettagliato di alcune delle menti più brillanti del paese su ” La maggioranza mondiale e i suoi interessi “. Le sue 31 pagine meritano di essere lette per intero, ma per chi ha poco tempo, il presente articolo riassumerà le intuizioni più importanti condivise al suo interno. Si vedrà che si tratta di una raccolta di osservazioni piuttosto comuni la cui importanza risiede nell’essere confermate da tali esperti di alto livello.

Il rapporto inizia con la ricerca di una definizione di “Maggioranza mondiale”, sebbene con tutto il rispetto per gli sforzi degli stimati autori, essa sembri indistinguibile dal Sud globale. Entrambi si riferiscono alla maggioranza globale che ha rifiutato di sottomettersi alle pressioni occidentali per sanzionare la Russia e/o armare l’Ucraina. Sono rimasti fermi non per ragioni filo-russe, ma in difesa della loro sovranità duramente guadagnata . Di conseguenza, non ci si aspetta che seguano sempre le politiche della Russia, sebbene Mosca non dovrebbe offendersi per questo.

Il loro approccio all’ordine internazionale in evoluzione seguirà probabilmente quello dell’India, che ha aperto la strada alla politica di multi – allineamento che ha visto il paese più popoloso del mondo partecipare al Quad , ai BRICS e allo SCO. La priorità degli interessi nazionali, come la leadership di ogni paese li comprende sinceramente, caratterizzerà quindi la politica estera della maggioranza mondiale. Tuttavia, probabilmente non faranno rivivere il Movimento dei non allineati, poiché le attuali divisioni sono molto più complesse rispetto alla vecchia Guerra fredda.

Invece, si bilanceranno o si allineeranno tra coppie di rivali in competizione per ottenere il massimo beneficio da entrambi, stando molto attenti a non schierarsi dalla parte di nessuno, se non in circostanze straordinarie, poiché ciò rischierebbe di indebolire la loro autonomia strategica. Questo approccio consente a paesi come l’India di fungere da ponti tra l’Occidente e i suoi principali rivali come la Russia. Anche Vietnam, Turchia e gli Stati del Golfo stanno svolgendo un ruolo simile, secondo gli autori del rapporto.

Hanno anche osservato in modo importante che “i paesi della maggioranza mondiale non sono pronti a proporre o discutere seriamente un astratto ‘nuovo ordine internazionale’. Cercano una maggiore equità per quanto riguarda i loro interessi, ma non sono disposti a intraprendere un percorso rivoluzionario per ottenerla”. Ciò contraddice le aspettative illusorie di molti nella comunità Alt-Media (AMC) che sono stati ingannati dallo zelo ideologico dei loro principali influencer nell’immaginare che la maggioranza mondiale sia “rivoluzionaria” quanto loro.

La maggioranza mondiale prevede riforme graduali e responsabili che elevino i loro ruoli nella governance globale con l’obiettivo di rendere le relazioni internazionali più eque. Con poche eccezioni, tutti partecipano all’economia di mercato globale e sono quindi molto timorosi di shock improvvisi, il che spiega perché si sono opposti così fermamente alla pressione dell’Occidente di interrompere il loro commercio agricolo ed energetico con la Russia. Se avessero obbedito, le loro economie avrebbero potuto crollare.

Il rapporto è poi passato ad alcune discussioni su esempi di paesi specifici come l’India, gli Stati del Golfo, i paesi africani, i paesi del sud-est asiatico e i paesi latinoamericani e caraibici. I lettori possono rivedere ogni parte se sono interessati, ma non è stato condiviso nulla di troppo unico in nessuno di essi. Aderiscono tutti al modello di definizione delle politiche finora descritto, sebbene con alcune specificità nazionali come la diversa vulnerabilità alla pressione occidentale, specialmente nei settori finanziario e dello sviluppo.

Per queste ragioni, gli autori consigliano alla Russia di non reagire in modo eccessivo ogni volta che i partner implementano politiche che non si allineano perfettamente alle proprie, per non parlare di quando cercano di allinearsi in modo multiplo tra Russia e Occidente. Un consiglio supplementare è che “i tentativi di adattarli ai propri schemi geopolitici speculativi sarebbero un errore”, il che è rilevante anche per l’AMC. La Russia dovrebbe anche imparare di più su ogni paese a maggioranza mondiale, poiché accennano verso la fine che potrebbe mancare di competenza nei confronti di alcuni.

Tutto sommato, lo scopo più importante del rapporto è che ha conferito autorevolezza alle osservazioni che alcuni hanno già notato sulla maggioranza mondiale/Sud globale e applicato al proprio lavoro, come in questa analisi qui della primavera del 2023. Non c’è molto altro di nuovo in esso, a parte il fatto che è la prima raccolta completa di tali osservazioni ad essere pubblicata in Russia da uno dei suoi principali think tank. Anche così, i lettori medi trarranno comunque beneficio almeno dalla sua revisione, cosa che sono incoraggiati a fare.

È importante che l’opinione pubblica ne sia maggiormente consapevole, poiché ciò aiuta a spiegare le politiche reciproche di Russia e Israele nel contesto del conflitto ucraino e della guerra di resistenza israeliana nella regione.

C’è stata una pressione popolare sulla Turchia per interrompere le esportazioni di petrolio dell’Azerbaijan verso Israele tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan da quando è scoppiata quella che ora può essere descritta come la guerra di resistenza israeliana regionale, un anno fa. Gli attivisti credono che questo commercio alimenti letteralmente la macchina da guerra di Israele e renda quindi tutte le parti coinvolte indirettamente complici dei suoi presunti crimini di guerra. Indipendentemente da ciò che si pensa di questa affermazione, ciò che è interessante è che non c’è alcuna pressione del genere sulla Russia.

Il Guardian ha citato un rapporto del Data Desk, una società di consulenza tecnologica con sede nel Regno Unito che indaga sul settore dei combustibili fossili, per affermare le seguenti affermazioni a marzo:

“* I dati suggeriscono inoltre che almeno 600 kt di petrolio greggio kazako/russo sono stati inviati in Israele tramite l’oleodotto Caspian Pipeline Consortium (CPC) dall’ottobre 2023. Il petrolio CPC è una miscela proveniente dai principali giacimenti petroliferi offshore nel Mar Caspio, nonché da giacimenti onshore più piccoli nella Russia meridionale.

* Chevron ha la quota maggiore tra le major petrolifere internazionali nel CPC, seguita da ExxonMobil e Shell. Queste società di combustibili fossili possiedono anche in parte i giacimenti petroliferi che alimentano l’oleodotto. La maggior parte della fornitura del CPC è prodotta in Kazakistan e non è stata sanzionata, a differenza del greggio russo.

* La Russia sembra aver continuato anche le spedizioni regolari di gasolio sotto vuoto (VGO), un olio combustibile di bassa qualità per lo più trasformato in carburante per aerei e diesel tramite idrocracking. Il VGO russo viene spedito dai porti del Mar Nero.

* I dati suggeriscono anche che quattro spedizioni contenenti più di 120kt di VGO sono partite dalla Russia per Israele dopo che la Corte internazionale di giustizia ha ordinato a Israele di adottare tutte le misure possibili per prevenire il genocidio. Il flusso di VGO russo è stato gravemente influenzato da un divieto dell’Unione europea entrato in vigore nel febbraio 2023.”

Hanno poi ripreso l’argomento ad agosto, citando un rapporto dell’organizzazione no-profit Oil Change International, condiviso in esclusiva con The Guardian , per condividere i due grafici seguenti:

Come si può vedere chiaramente, la Russia vende prodotti petroliferi lavorati a Israele e facilita le esportazioni di petrolio kazako verso di esso attraverso il Caspian Pipeline Consortium , eppure pochi hanno prestato molta attenzione ai report del Guardian. Il motivo è che i Mainstream Media (MSM) considerano Israele il bene supremo e la Russia il male supremo mentre la Alt-Media Community (AMC) inverte i loro ruoli. Nessuno dei due quindi vuole parlare troppo dei loro continui legami energetici poiché va contro le rispettive narrazioni.

Tuttavia, è importante che il pubblico ne sia più consapevole, poiché aiuta a spiegare le politiche russe e israeliane l’una nei confronti dell’altra, che sono spesso travisate da quei due campi mediatici. Israele non ha sanzionato la Russia per la sua speciale operazione né ha armato l’Ucraina, mentre la Russia non ha sanzionato Israele per le sue campagne a Gaza e ora in Libano né lo ha nemmeno simbolicamente designato come un “paese ostile”. Queste politiche hanno rispettivamente sconvolto i MSM e l’AMC.

Quello di Israele può essere spiegato dalla sua riluttanza a far arrabbiare la Russia e quindi rischiare di creare difficoltà alla sua aeronautica militare in Siria, a cui è stato permesso di bombardare obiettivi della Resistenza lì senza interferenze dirette o indirette dalla Russia (come jamming elettronico o lasciando che la Siria usi gli S-300) già da anni. Allo stesso modo, quello della Russia può essere spiegato dalla sua riluttanza a far arrabbiare Israele e quindi rischiare che passi equipaggiamento militare ad alta tecnologia (compresi sistemi difensivi) all’Ucraina, cosa che Israele non ha ancora fatto.

Chiarito questo, non si può più negare che i loro interessi energetici reciproci giochino un ruolo anche nei loro calcoli, soprattutto data l’importanza attuale di questa cooperazione per entrambi. Israele richiede importazioni affidabili di prodotti petroliferi lavorati e greggio, dato il blocco del Mar Rosso da parte degli Houthi, mentre la Russia richiede entrate di bilancio affidabili dalle vendite di risorse, date le sanzioni occidentali. Né il partner statunitense di Israele né quello della Resistenza russa potrebbero impedirgli di cooperare in questo modo.

Inoltre, anche nel caso in cui Israele decidesse di sanzionare la Russia e armare l’Ucraina, è molto improbabile che la Russia taglierebbe fuori Israele dai suoi prodotti petroliferi lavorati e dal greggio del Kazakistan. A tutt’oggi, la Russia continua a fornire energia all’UE nonostante quel blocco la sanzioni e armi l’Ucraina, tutto perché vuole presentarsi come un partner affidabile agli occhi del mondo e anche perché ha bisogno delle entrate di bilancio. Esiste quindi un precedente per continuare questo commercio con Israele in uno scenario simile.

La Russia ritiene che il commercio energetico non debba mai essere politicizzato e si è espressa contro la pressione occidentale su Cina e India per il loro acquisto su larga scala del suo petrolio dal 2022. L’Occidente sostiene che questi due stanno alimentando finanziariamente la macchina da guerra della Russia e sono quindi indirettamente complici dei suoi presunti crimini di guerra, il che è simile a ciò che gli attivisti affermano di Azerbaigian, Georgia e Turchia, che accusano di alimentare letteralmente la macchina da guerra di Israele e quindi di essere indirettamente complici anche dei suoi presunti crimini di guerra.

Di conseguenza, visto che la Russia respinge le affermazioni occidentali secondo cui Cina e India sarebbero indirettamente complici dei suoi presunti crimini di guerra (che ha sempre negato siano avvenuti) solo per aver acquistato il suo petrolio, respingerebbe anche le affermazioni simili degli attivisti contro se stessa per aver letteralmente alimentato la macchina da guerra di Israele. La conclusione è che la Russia rimarrà impermeabile a qualsiasi pressione del genere su di essa per tagliare fuori Israele dai suoi prodotti petroliferi lavorati e dal greggio del Kazakistan, che provenga dagli attivisti, dall’Occidente o dalla Resistenza.

Il loro incontro sarà importante, ma non nel senso in cui alcuni si sono convinti che sarà, immaginando che la Russia prometterà di sostenere l’Iran se entrerà in una guerra calda su vasta scala con Israele.

Putin ha in programma di incontrare il nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian in occasione di un evento in Turkmenistan venerdì per celebrare il poeta più famoso del paese ospitante. La presenza del leader russo non era stata annunciata in precedenza, quindi è ovvio che gli eventi recenti lo hanno spinto a ritagliarsi del tempo dal suo fitto programma per incontrare la sua controparte iraniana per la prima volta da quando quest’ultima ha assunto l’incarico quest’estate. Ecco di cosa probabilmente discuteranno:

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1. La risposta dell’Iran alla prevista rappresaglia di Israele

Israele ha ritardato quella che molti si aspettavano sarebbe stata la sua risposta immediata all’ultimo attacco missilistico dell’Iran , il che crea un precedente per l’Iran che potrebbe anche ritardare la sua risposta alla rappresaglia apparentemente inevitabile di Israele, soprattutto se dovesse verificarsi prima di venerdì. Putin non vuole che questi attacchi avanti e indietro portino a una guerra più grande, quindi probabilmente si appoggerà a Pezeshkian per esercitare moderazione. Da parte sua, l’Iran vuole scoprire quale supporto la Russia potrebbe fornirgli nello scenario peggiore, anche se probabilmente rimarrà deluso.

2. Sistemi di difesa per la deterrenza e la de-escalation

Sulla base di quanto sopra, è anche possibile che Putin offra a Pezeshkian sistemi di difesa aerea russi all’avanguardia come parte della politica del suo paese per scoraggiare una risposta israeliana su larga scala a fini di de-escalation, anche se l’equipaggiamento potrebbe non arrivare in tempo (se non è già arrivato secondo le voci precedenti ). Dal punto di vista della Russia, abbattere i missili israeliani in arrivo (se è così che Israele risponde) come Israele ha abbattuto quelli iraniani in arrivo in primavera potrebbe portare a una tregua reciprocamente “salva-faccia” nelle ostilità.

3. Il loro documento di partenariato strategico aggiornato

L’ambasciatore iraniano in Russia ha confermato all’inizio di questo mese che il documento aggiornato sulla partnership strategica russo-iraniana è pronto per la firma e potrebbe avvenire a margine del prossimo vertice BRICS o in un altro momento come parte di una visita bilaterale. Queste opzioni saranno probabilmente discusse tra Putin e Pezeshkian, che potrebbero anche negoziare clausole segrete come quelle che riguardano i trasferimenti clandestini di armi secondo i punti precedenti e successivi.

4. Esportazioni militari speculative iraniane verso la Russia

Entrambe le parti lo hanno negato, ma da un po’ di tempo circolano voci sulle esportazioni iraniane di droni e missili alla Russia, di cui i loro leader potrebbero discutere anche durante il loro prossimo incontro. Se tali trasferimenti clandestini stanno effettivamente avvenendo, allora la Russia vorrà sapere se continueranno alla luce delle nuove ostilità dirette dell’Iran con Israele. Garantire che il loro conflitto non vada fuori controllo potrebbe quindi anche essere inteso a garantire che la Russia possa acquistare più armi iraniane.

5. Il loro disaccordo sul corridoio Zangezur

Il disaccordo russo-iraniano sul corridoio Zangezur è stato elaborato qui il mese scorso, ma rimane ancora e quindi sarà probabilmente discusso anche da Putin e Pezeshkian. Dopo tutto, è abbastanza grave che l’Iran abbia convocato l’ambasciatore russo per lamentarsi, eppure nessuna delle due parti ha cambiato pubblicamente la propria posizione su questa questione delicata. Se continua a essere un elemento irritante nei loro legami, allora la firma del loro documento di partenariato strategico potrebbe essere ritardata e il commercio russo-indiano tramite l’Iran potrebbe essere ostacolato.

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L’incontro Putin-Pezeshkian sarà importante, ma non nel modo in cui alcuni si sono convinti che sarà, per quanto riguarda l’immaginare che la Russia prometterà di sostenere l’Iran se entrerà in una guerra calda su vasta scala con Israele. I loro leader discuteranno delle tensioni regionali, ma il massimo che ci si aspetta dalla Russia è forse vendere sistemi di difesa aerea all’avanguardia all’Iran per scopi di deterrenza e de-escalation. Il loro incontro non cambierà le carte in tavola e non rimodellerà le dinamiche regionali.

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Dalle primavere arabe all’inferno di Gaza e Libano! Con G Germani, C Semovigo, Roberto Iannuzzi

Prosegue la collaborazione con il canale di Gabriele Germani @Gabriele.GermaniOspite della puntata:Roberto Iannuzzi Argomento: il risveglio tumultuoso del mondo arabo, la condizione sociale, le ambizioni dei protagonisti regionali, le interferenze dei grandi attori geopolitici, la parabola statunitense a partire dal discorso di Obama a il Cairo nel 2008 https://www.peacelink.it/gdp/a/29630.html Buon ascolto, Germinario Giuseppe

NB_ Sotto l’icona del filmato il testo del discorso di Obama del 2008 a il Cairo

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Discorso integrale di Obama al Cairo

Ecco la traduzione integrale del discorso del presidente americano Barack Obama all’Università del Cairo.

6 giugno 2009

Barack Obama (Presidente degli Stati Uniti d’America)

SONO onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l’Università del Cairo è la culla del progresso dell’Egitto. Insieme, queste due istituzioni rappresentano il connubio di tradizione e progresso. 

Sono grato di questa ospitalità e dell’accoglienza che il popolo egiziano mi ha riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità musulmane del mio Paese: assalaamu alaykum.

Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l’Occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell’Islam.

Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di musulmani. Gli attentati dell’11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l’Islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell’America e dei Paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze. 

Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l’odio invece della pace, coloro che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il benessere. Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia.

Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l’inizio di un rapporto che si basi sull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell’uomo.

Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell’arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l’uno dall’altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: “Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità”. Questo è quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l’importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.

In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell’azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana.

Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell’Islam. Fu l’Islam infatti – in istituzioni come l’Università Al-Azhar – a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all’Illuminismo. Fu l’innovazione presso le comunità musulmane a sviluppare scienze come l’algebra, a inventare la bussola magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato maestosi archi e cuspidi elevate; poesia immortale e musica eccelsa; calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della sua Storia, l’Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l’eguaglianza tra le razze.

So anche che l’Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams, scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia nei confronti delle leggi, della religione o dell’ordine dei musulmani”. Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno eccelso in molteplici sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – custodiva nella sua biblioteca personale.

Ho pertanto conosciuto l’Islam in tre continenti, prima di venire in questa regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America e Islam debba basarsi su ciò che l’Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell’Islam, ovunque esso possa affiorare.

Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell’America da parte dei musulmani. Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo e grossolano stereotipo, così l’America non corrisponde a quell’approssimativo e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono stati fondati sull’ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli, fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum. “Da molti, uno solo”. 

Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente, ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di musulmani americani che oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.

E ancora: la libertà in America è tutt’uno con la libertà di professare la propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c’è almeno una moschea, e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all’interno dei nostri confini. Ecco perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l’hijab e a punire coloro che vorrebbero impedirglielo. 

Non c’è dubbio alcuno, pertanto: l’Islam è parte integrante dell’America. E io credo che l’America custodisca al proprio interno la verità che, indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita, tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il genere umano.

Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è soltanto l’inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le conseguenze.

Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione vuole dotarsi di un’arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto essere umano. 

Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si assoggettavano l’una all’altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo. Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all’insuccesso.

Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando, diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso. 

Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare insieme. 

Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l’America non è – e non sarà mai – in guerra con l’Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose disapprovano: l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il popolo americano.

La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell’America, e la nostra necessità di lavorare insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale. Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono in dubbio o giustificano gli eventi dell’11 settembre. Cerchiamo però di essere chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare: sono dati di fatto da affrontare concretamente.

Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È lacerante per l’America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne. Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo. Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l’ultimo dei nostri soldati se solo potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani possibile. Ma non è ancora così.

Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado le spese e gli oneri che ciò comporta, l’impegno dell’America non è mai venuto e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle nazioni, l’Islam stesso.

Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento: è anzi una parte importante nella promozione della pace.

Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire fino a 1,5 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la popolazione.

Permettetemi ora di affrontare la questione dell’Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all’America per comprendere meglio l’uso delle risorse diplomatiche e l’utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso alla potenza tanto più saggi saremo”.

Oggi l’America ha una duplice responsabilità: aiutare l’Iraq a plasmare un miglior futuro per se stesso e lasciare l’Iraq agli iracheni. Ho già detto chiaramente al popolo iracheno che l’America non intende avere alcuna base sul territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell’Iraq è esclusivamente sua. Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l’accordo preso con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall’Iraq entro il 2012. Aiuteremo l’Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unito da partner, non da dominatori.

E infine, proprio come l’America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L’11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d’azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati Uniti, e ho dato l’ordine che il carcere di Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell’anno venturo.

L’America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità musulmane, anch’esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più al sicuro. 

La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile.

Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l’antisemitismo in Europa è culminato nell’Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore all’intera popolazione odierna di Israele.

Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l’odio. Minacciare Israele di distruzione – o ripetere vili stereotipi sugli ebrei – è profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che il popolo di quella regione merita. 

D’altra parte è innegabile che il popolo palestinese – formato da cristiani e musulmani – ha sofferto anch’esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all’essere sfollati. Molti vivono nell’attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all’occupazione di un territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.

Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all’interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall’altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l’unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza.

Questa soluzione è nell’interesse di Israele, nell’interesse della Palestina, nell’interesse dell’America e nell’interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l’impegno che questo importante obiettivo richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro – e noi tutti con loro – facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità.

I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l’umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell’America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all’Asia meridionale, dall’Europa dell’Est all’Indonesia. Questa storia ha un’unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l’autorità morale: questo è il modo col quale l’autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente.

È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L’Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere.

Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino.

Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l’incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso.

Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l’Arab Peace Initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l’attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l’incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.

L’America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.

Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera.

Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l’Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l’Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l’Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire.

Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente nell’interesse dell’America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.

Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l’impegno americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi nucleari. Tutte le nazioni – Iran incluso – dovrebbero avere accesso all’energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno sottoscritto. Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione possano condividere questo obiettivo. 

Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un’altra.

Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L’America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali. Ma io sono profondamente e irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere governati; la fiducia nella legalità e in un’equa amministrazione della giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.

La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri. Soffocare gli ideali non è mai servito a farli sparire per sempre. L’America rispetta il diritto di tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo, anche qualora fosse in disaccordo con esse. E noi accetteremo tutti i governi pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.

Quest’ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui. Non importa chi è al potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l’unico parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera democrazia.

Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà religiosa. L’Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella storia dell’Andalusia e di Cordoba durante l’Inquisizione. Con i miei stessi occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore. Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.

Tra alcuni musulmani predomina un’inquietante tendenza a misurare la propria fede in misura proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie confessioni devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare violenza, specialmente in Iraq. 

La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere. Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio, negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.

Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l’ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo. 

È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell’Arabia Saudita e la leadership turca nell’Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i popoli portino all’azione e a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale.

Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle donne. So che si discute molto di questo e respingo l’opinione di chi in Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in qualche modo “meno uguale”. So però che negare l’istruzione alle donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite hanno maggiori probabilità di essere prosperi.

Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell’eguaglianza delle donne non riguarda in alcun modo l’Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto il mondo.

Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio consentendo a tutti gli esseri umani – uomini e donne – di realizzare a pieno il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere il diritto delle bambine ad accedere all’istruzione, e voglia aiutare le giovani donne a cercare un’occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni.

Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le comunità località. In tutte le nazioni – compresa la mia – questo cambiamento implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la nostra religione.

So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del Sud l’economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane sono sempre state all’avanguardia nell’innovazione e nell’istruzione.

Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto un’enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che l’istruzione e l’innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese. Mentre l’America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa regione del mondo, adesso intende perseguire qualcosa di completamente diverso.

Dal punto di vista dell’istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre di andare a studiare in America, incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti programmi di internship in America; investiremo sull’insegnamento a distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente informazioni con un adolescente al Cairo.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana. Organizzerò quest’anno un summit sull’imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo. 

Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro “verdi”, monitorare i successi, l’acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l’Organizzazione della Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute infantile e delle puerpere.

Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.

I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l’energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.

So che molte persone – musulmane e non musulmane – mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d’accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: “Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo”.

Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo – un lungo e impegnativo sforzo – per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.

È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C’è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi. 

Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è stato scritto. Il Sacro Corano dice: “Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste conoscervi meglio gli uni gli altri”. Nel Talmud si legge: “La Torah nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace”. E la Sacra Bibbia dice: “Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio sia con voi.

(Traduzione di Anna Bissanti)

(4 giugno 2009)

ASSIRIA MODERNA – ܒܝܬ ܢܗܪ̈ܝܢ, di Daniele Lanza

LINGUA SIRIACA / ܠܫܢܐ ܣܘܪܝܝܐ
[nota lampo a margine*]
Parlando delle chiese cristiano orientali di ceppo SIRIACO (come quella maronita del Libano) ho menzionato il loro alfabeto e lingua: si tratta di una lingua morta naturalmente, utilizzata a scopo liturgico nel contesto ecclesiastico (come il latino in Europa).
Il siriaco è essenzialmente una derivazione dell’aramaico (lingua della Giudea e Galilea da tempo immemorabile) e fiorì nei secoli della tarda antichità romana, divenendo una delle principali 3 lingue della cristianità (assieme a greco e latino).
Col tempo il modello classico si preservò nello scritto ecclesiastico, mentre la parlata vernacolare si evolveva per conto suo: quest’ultima sarà tuttavia gradualmente rimpiazzata dall’ARABO dopo la conquista del califfato (nel corso dei secoli), mentre lo scritto eccelesiastico rimane (la letteratura siriaca classica comprende il 90% di quella aramaica esistente).
La sopravvivenza del parlato è prossima allo zero arrivati all’era contemporanea….tuttavia una riscoperta del suo valore porta ad una sua resurrezione politica nei primi decenni del XX secolo.
Oggigiorno è parlato ed insegnato solo in ristrettissimi ambiti ed ha status di minoranza linguistica soltanto in Iraq (contesto nel quale è stato utilizzato tra l’altro come elemento culturale del “nazionalismo assiro”, una forma di identità locale – nord Iraq – che idealizza il passato pre-arabico della Mesopotamia, in maniera analoga ai maroniti libanesi).
Il concetto di fondo è il medesimo dal Libano alla Siria fino all’Iraq: cristianesimo orientale come veicolo del passato remoto di stampo fenicio oppure assiro babilonese (una certa fascia di intellettuali ho puntato su quello, in opposizione all’Islam o a volte, in alleanza con esso).
Non a caso è anche definita Nahrāyā (“Lingua mesopotamica”).
ASSIRIA MODERNA – ܒܝܬ ܢܗܪ̈ܝܢ
I manuali di storia scolastici ci rendono familiare il termine in alto, associato da sempre all’antichità remota dell’area mesopotamica: molti meno sono al corrente che tuttora esistono gli “ASSIRI” come gruppo etnico contemporaneo (in questo complice la semplificazione dei media occidentali che tendono a definirli semplicemente come minoranza cristiana, senza far riferimento alla storia che vi sta dietro).
Nella settimana passata si è speso un po di tempo a diffondere nozioni di storia e antropologia del vicino oriente: partendo dal LIBANO abbiamo spiegato la presenza cristiana nel paese e in quelli circostanti, purtroppo condensando molto (occorre capire tuttavia, che quello del cristianesimo arabo è un tema molto complicato).
Nel parlare della comunità cristiana libanese ed in primissimo luogo della Chiesa maronita del Libano, abbiamo precisato che quest’ultima fa parte di una mezza dozzina di chiese cristiane orientali – in comunione tra loro – sparpagliate per l’area della mezzaluna fertile, e collettivamente definite come facenti parte della “tradizione SIRIACA”.
La tradizione siriaca prende il nome – come spiegato – dall’utilizzo liturgico della lingua siriaca classica (uno dei tre idiomi del cristianesimo antico assieme a greco e latino) che a sua volta era una derivazione della lingua ARAMAICA (quella in cui probabilmente si esprimevano tutti gli abitanti della Galilea al tempo di Cristo…), ma che oggi non è quasi più usata se non in ambito ecclesiastico.
Fin qui ci siamo. (…).
Dunque, ora occorre sapere che questa tradizione siriaca si suddivide in occidentale ed orientale: quest’ultima è intesa essere la frangia più ad oriente (e a nord) dello spettro geografico semitico, che coincide quindi con l’ecosistema montuoso tra Iran, Turchia e Iraq. L’esponente principe di questa tradizione che vira ad est…..è la cosiddetta CHIESA ASSIRA, il cui epicentro si trova presso il margine superiore dell’attuale Iraq (lungo il confine turco) , la quale trae il nome dalla propria comunità originaria che coincide con un gruppo etnico omonimo.
Signori e signore, abbiamo a che fare con gli ASSIRI: la variante moderna di tale popolo, oggi una piccola minoranza (non protetta) nel cuore del medio oriente.
Come va formandosi ? Possiamo dire – in sintesi estrema – che l’etnogenesi assira, inteso come gruppo etnico che arriva sino ai nostri giorni, è un processo che si attiva nei primi secolo dopo Cristo e vede il fattore religioso come elemento chiave. La cristianità – dall’area siro/libanese – arriva nella regione nei primi secolo dopo Cristo e riesce ad attecchire in modo solido pur con uno scisma minore, rispetto ai cugini d’occidente (nestorianesimo, attorno al 430 dopo Cristo: con questo la Chiesa assira – che è una scheggia nell’allora impero sasanide persiano – diventa l’incarnazione più orientale di tutta la cristianità, portando comunità fino all’Asia centrale).
Il momento di rigoglio tuttavia dura pochissimo: l’ascesa dell’Islam nei secoli immediatamente seguenti, investe tutto, uniformandolo a sè. Tutta la popolazione nel vicino oriente che ancora non era stata convertita al monoteismo cristiano (ed era ancora numerosa) viene islamizzata e conseguentemente arabizzata progressivamente: le uniche comunità relativamente immuni a questo processo sono quelle che erano già state cristianizzate anteriormente, come per l’appunto la comunità assira.
E’ necessario sottolineare un fatto a questo punto: malgrado nell’antichità remota l’impero assiro fosse collassato (613 A.C.) un’area geografica denominata “Assiria” non smise mai di esistere, per i 1200 anni a seguire (semplicemente non era più un impero, ma continuava ad esiste assieme ai suoi abitanti come provincia di imperi creati da altri….persiani, romani, bizantini, parti, etc.): è solo con la conquista araba che anche la denominazione “Assiria” inizia a scomparire.
Da questo punto in avanti non vi saranno più assiri in quanto abitanti di una determinata regione che porta questo nome, ma più specificamente come aderenti alla fede cristiana locale (cioè quello strato di popolazione che non ha ceduto all’islamizzazione circostante): gli “assiri” si definiscono quindi come substrato cristiano dell’area geografica in questione (…). Essi rimasero in realtà componente maggioritaria della popolazione sino ai massacri seguiti alle conquiste di Tamerlano, mezzo millennio più tardi (XIII secolo), che li resero definitivamente una minoranza nel “mare” musulmano circostante: qualche secolo ancora dopo (e siamo nel 1500 ormai) entrano nell’orbita ottomana, con le conquiste di Solimano il magnifico e da questo momento il loro status rimane cristallizzato sino all’età moderna in sostanza.
Come minoranza ottomana subiscono gli eventi del primo conflitto mondiale: si ha un massacro ad opera delle forze ottomane per una presunta scarsa fedeltà verso il sistema centrale (che non era riuscito tra l’altro a inquadrare gli assiri).
Al pari del genocidio armeno è un punto troppo delicato anche solo per sintetizzarlo (consiglio il Prof. Fabio L. Grassi per note più precise sul punto).
Sta di fatto che la comunità assira risulta decimata del 50% dopo il conflitto (così dichiara negli anni 20) e per di più suddiviso territorialmente tra i due mandati – quella francese sul blocco Siria/Libano e quello britannico su Iraq/Palestina – cui è assegnato il medio oriente dopo la pace di versailles.
Questo è quanto
In definitiva è complicato sciogliere il nodo delle questione assira, nella misura in cui è complicato definire la natura di tale comunità: in pratica non si capisce se gli “ASSIRI” siano un gruppo semplicemente religioso (la fede cristiana orientale del luogo) o qualcosa di più, un gruppo ETNICO cioè. In questo senso le comunità assire subiscono pressioni costanti da parte delle nazionalità delle quali sono cittadini affinchè si identifichino semplicemente con esse (ovvero definirsi arabi o turchi o curdi semplicemente), mentre i media occidentali non vanno per il sottile e li definiscono collettivamente “cristiani”.
La verità è come una scatola cinese….e probabilmente – come anche in altri casi – contiene traccia di entrambe le cose: tecnicamente SI’, si tratta di una fede (una chiesa), che tuttavia agisce inconsapevolmente, anche da veicolo, da “capsula culturale” che cela una parte del passato ANTERIORE all’Islam arabo o turco e che quindi si rifà ad un’identità propria, autoctona e molto anteriore (…). Insomma, come per i maroniti, il concetto chiave è che dietro la cristianità si sia protetta l’identità etnica antichissima della MESOPOTAMIA: questa è la base ideologica di una forma di nazionalismo assiro che aspira alla creazione di un territorio autonomo proprio, collocato tra Iraq, Turchia e Siria (quest’ultima sin dai tempi della Grecia antica era definita alternativamente come “Siria” o “Assiria”, tanto per intendersi: etnonimi equivalenti per riferirsi ai popoli locali, noti anche come “aramei”, da qui, l’aramaico). Altre interpretazioni sono arrivate a teorizzare una forma di pan-mesopotamismo (!), in opposizione all’elemento arabo considerato straniero ed invasore (la questione è delicatissima e ideologizzata, prendere tutto con le pinze, prego).
Oggi gli Assiri sarebbero circa 2 milioni, ma gli eventi in Iraq degli ultimi 20 anni hanno determinato un esodo di massa che li ha portati in tutti gli stati confinanti a partire dalla Siria.
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MARONITI – ܡܫܝܚܝ̈ܐ ܡܪ̈ܘܢܝܐ ܕܠܒܢܢ / المسيحية المارونية في لبنان, di Daniele Lanza

Dopo aver spiegato cosa è e come nasce Hezbollah, ora aggiungiamo un altro tassello di rilievo nell’identità del nostro travagliato vicino oriente: la comunità cristiana MARONITA del Libano… (scritto in alto: prima in arabico e dopo le barre in siriaco)
(PARTE 1°)
Elemento cardine nella storia e tratto distintivo nell’identità del Libano è la sua vibrante componente non musulmana, bensì cristiana, che ad oggi costituisce il 40% della popolazione complessiva: una particolarità vistosa in un contesto generale dominato dalla matrice culturale arabo-islamica, e che gioca in ruolo fondamentale nelle dinamiche politico/militari che si sviluppano nei secoli dell’età moderna sino ai nostri giorni (cerchiamo, con grande sintesi, di comprenderne anche solo la superficie).
Innanzitutto quel 40% di cristiani di cui si parla non è un blocco monolitico, ma un aggregato di più chiese (perlopiù antiche e nella maggior parte dei casi facenti parte della galassia delle denominazioni cristiane d’oriente). Tra tutte……..spicca di diritto la Chiesa Maronita che per radicamento sul territorio gode di un prestigio del tutto particolare: parliamo di una denominazione assai antica la cui storia si snoda lungo le due migliaia di anni che l’areale geografico in questione ha vissuto (…).
Nell’impossibilità oggettiva di una disamina accurata, teniamo presente allora solo alcuni elementi fondamentali (in ordine alfabetico di seguito) =
A – la chiesa Maronita rientra tra le “varianti” della cosiddetta chiesa SIRIACA (الكنيسة السريانية الأرثوذكسية), la quale a sua volta è parte delle 6 chiese cristiane d’oriente (chiesa copta d’Egitto, d’Etiopia, d’Armenia, etc.), tutte in comunione tra di loro, ricordiamolo. In sostanza potremmo dire che quella dei maroniti è una emanazione “locale” (adattata al contesto libanese cioè) della più ampia chiesa siriaca, malgrado se ne distingua per quanto segue al punto successivo. .
B – la fede attecchisce sul territorio grossomodo corrispondente all’attuale stato, sin dai primi secoli dopo Cristo, ancora in era romana (quando si chiamava ancora “FENICIA”), per azione del monaco Maron, proveniente da Antiochia il quale deciderà di stabilirsi definitivamente sul monte Libano. Al tempo la popolazione locale era ancora in buona parte pagana: mentre la romanità aveva costruito i suoi templi, e quindi chiese, lungo la striscia costiera, l’entroterra era rimasto ancorato alle proprie tradizioni pre-cristiane….ed è lì che Moron e i suoi successori andranno a convertire: quella popolazione originaria che non si era fatta romanizzare (ma era già stata comunque ellenizzata, in particolare l’elite) e che quindi vantava il retaggio culturale più antico il più originale. Il passaggio è di rilievo nella costruzione dell’identità cristiana maronita e del suo ruolo nell’identità nazionale libanese: per le ragioni riportate i maroniti si considerano discendenti del più antico e vero nucleo etnico locale (sono discendenti dei FENICI, insomma).
C – La conversione, anche se lentamente, avviene e nel 5° secolo dopo Cristo (rilevante) a differenza di altre chiese cristiane d’oriente mantiene una piena comunione con la chiesa di ROMA (al Concilio di Calcedonia respinge monofisismo ed altro). Detto questo…….le vicende dei secoli successivi, l’alto medioevo e l’imporsi in rapidissima sequenza dell’ISLAM in tutto il sub-continente mediorientale, non altera di molto gli equilibri locali, dove l’elite cristiana riesce a salvaguardare una relativa maggioranza nel proprio territorio d’elezione (malgrado la graduale conquista linguistica dell’arabo). Al tempo delle crociate questa componente cristiana in una zona del vicino oriente prossima alla costa mediterranea sarà utile ai crociati e alle flotte delle città marinare che li portavano (in breve, per la terminologia politica di oggi, francesi e italiani…) e con i quali si stabiliranno rapporti di lungo termine. L’equilibrio locale risulta quindi non particolarmente modificato per oltre un migliaio di anni, nel corso dei quali i cristiani maroniti sopravvivono a califfati arabi e quindi alla parentesi ottomana a partire dalla prima età moderna. Solo nel corso del XIX secolo inizieranno a sorgere i primi attriti quando il potere centrale facilita lo stanziamento dei DRUSI (minoranza islamica) nel medesimo territorio al fine di bilanciare l’influenza cristiana, ma la coesistenza, almeno inizialmente, rimarrà ancora pacifica.
MARONITI – ܡܫܝܚܝ̈ܐ ܡܪ̈ܘܢܝܐ ܕܠܒܢܢ // المسيحية المارونية في لبنان
aggiungiamo un altro tassello di rilievo nell’identità del nostro travagliato vicino oriente: la comunità cristiana MARONITA del Libano. (scritto in alto: prima in arabico e dopo la barra in siriaco)
(PARTE 2°)
I tre punti A – B – C , sono l’essenziale, il condensato “bruto”. L’indispensabile per avere una comprensione logica di quanto seguirà.
In parole poverissime (seguire*): questa particolare, ed orgogliosa, minoranza cristiana, arrivata alla modernità tra il XIX e il XX secolo, tra due grandi fuochi: il sorgere del nazionalismo arabo (inestricabilmente intriso di Islam) e un occidente europeo coloniale deciso a mantenere la propria influenza sull’area. Una situazione decisamente scomoda: da un lato, l’arabismo – che per forza di numeri elegge l’Islam a elemento fondativo dell’identità araba – non può che rilevare con sospetto la presenza di una battagliera minoranza cristiana in seno all’area mediorientale (a questo proposito ricordiamoci tutti bene che PRIMA che il nazionalismo arabo attecchisse in età contemporanea, tutte le regioni del vicino oriente – corrispondenti agli attuali stati cioè – ospitavano numerosissime comunità cristiane che equivalevano a una frazione importante delle rispettiva popolazioni. Stati come IRAQ o Giordania erano ancora al 20% cristiani sino agli albori del 900).
Un conflitto “naturale” quindi che degenera anzi in una disputa sull’identità stessa del Libano e del suo popolo: la cristianità maronita (o almeno una sua parte) sposa una filosofia di pensiero secondo la quale essi rappresenterebbero un’entità DIFFERENTE rispetto al mare dell’arabità islamica circostante. In parole altre sotto l’ombrello millenario della chiesa maronita si celerebbe la vera identità nazionale che coinciderebbe con quella pre-araba, ossia FENICIA (…). I più oltranzisti arrivano a dichiarare di NON essere arabi pertanto, malgrado sia la lingua che parlano (criticati a sangue dagli ideologi arabi che vorrebbero invece un’identità libanese saldamente allineata con l’universo dell’Islam).
Come se tutto questo già non bastasse………………si aggiungono anche gli occidentali (francesi in primis), i quali, per il proprio interesse di parte, hanno approfittato della situazione, hanno SFRUTTATO la divisione esistente per controllare meglio il territorio (a partire da dopo la prima guerra mondiale, quando Siria e Libano diventano mandato francese nel 1920): l’amministrazione francese tende a supportare la minoranza cristiana, considera più affine all’occidente culturalmente, al fine di farne un alleato e presentandosi come grande protettore contro la marea islamica.
Un neocolonialismo dall’estero che si serve dell’identità cristiano-libanese per scopi propri, penso si sia capito (…).
Per qualche nozione in più rimando ai miei due capitoli sulla nascita dello stato libanese contemporaneo dopo il 1920 nei giorni scorsi.
Per l’insieme di ragioni storiche riportate (remote e vicine)…..la componente maronita ha un peso notevolissimo a livello sociale e politico (massima parte dei presidenti dello stato, sono maroniti): malgrado numericamente rappresenti di per sè solo poco più della metà di tutti i cristiani libanesi (e nemmeno 1/4 dell’intera popolazione nazionale), interpreta in primis il ruolo di alfiere della cristianità nell’area libanese (e circostante) attorno alla quale tutte le altre denominazioni si aggregano alla fine, ma soprattutto si presenta come nucleo fondante della stessa identità libanese, in veste di custode di quell’identità FENICIA anteriore all’arabicità (il cui idioma è stata preservato in forma sacra, come lingua liturgica): un’anomalia di grande spessore far convivere tale ideologia, in uno stato dove bene o male il 60% rimanente degli abitanti sono musulmani (divisi poi equamente tra sunniti e sciiti).
Un’aporia logica, un equivoco esistenziale quello dell’identità libanese, divenuto poi dramma con gli eventi a cavallo tra gli anni 60 e 70 del 900 che vedranno contrapposte le falangi cristiane contro i fuorusciti palestinesi musulmani, fino a dare vita alla guerra civile di cui si è parlato ieri e che tra le macerie e una prima invasione israeliana, lascerà sul campo Hezbollah (…).
Non ultimo ISRAELE stesso – alla stregua degli stati occidentali – tenta di sfruttare la faglia di divisione esistente: ossia riconosce l’esistenza di un’identità maronita distinta per la comunità che vive all’interno del proprio territorio, classificandola nei censimenti non come araba….ma come “Aramaica” (norma di legge a partire dal 2014) (ci si ricollega ad un’identità antichissima, anteriore all’arabità ed anche affascinante se vogliamo….ma per ragioni politiche e strategiche di fondo che nulla hanno a che fare con tale identità, quanto con l’interesse israeliano a dividere la popolazione araba sotto il proprio controllo diretto e non soltanto (…).
In CONCLUSIONE sottolineiamo un fatto per dovere di cronaca: malgrado gli attriti cristiano-musulmani in Libano, le invasioni estere hanno ottenuto il risultato di compattare l’intero asse attorno ad Hezbollah, al punto che alle ultime elezioni la maggioranza dei cristiani ha votato per tale partito. Occorre ricordare che Hezbollah malgrado sia un’emanazione dello sciismo iraniano ha optato per un approccio inclusivo nei suoi rapporti con la società libanese e la cosa è stata ricambiata da maroniti ed altri cristiani, i quali tutto sommato vedono positivamente il movimento come difensore del Libano al momento attuale.
Violenza provenienti dall’esterno…..non dividono, ma uniscono contro un nemico comune (persino cristianità ed Islam)
Troppo da dire, occorreva sintetizzare.
FINE.
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Il WaPo ha spiegato nel dettaglio le nuove tattiche responsabili degli ultimi successi della Russia nel Donbass, di Andrew Korybko

Parafrasando il famoso detto, “I russi vanno piano in sella ma vanno veloci”, è possibile che tutto possa presto accelerare come risultato dell’adozione di queste tattiche da parte della Russia.

Il Washington Post (WaPo) ha pubblicato mercoledì un articolo su come ” l’est dell’Ucraina si piega sotto le tattiche russe migliorate, la potenza di fuoco superiore ” in concomitanza con la cattura da parte della Russia della città-fortezza strategica ucraina di Ugledar all’incrocio dei fronti del Donbass e di Zaporozhye. Secondo loro, la Russia ora si affida a squadre d’assalto piccole come quattro soldati ciascuna per eludere la sorveglianza dei droni. Ha anche molto più equipaggiamento dell’Ucraina ed è in grado di coordinare meglio i suoi attacchi.

Un ufficiale anonimo della 72a Brigata meccanizzata che ha combattuto a Ugledar “per circa due anni senza alcun sollievo” ha detto loro che “le raffiche di artiglieria nella zona a volte raggiungono 10 proiettili a 1 a favore della Russia e le bombe plananti lanciate senza opposizione dai jet possono distruggere intere sezioni di una linea di trincea e chiunque le gestisca”. Il WaPo ha aggiunto che l’Ucraina sta ancora lottando per ricostituire le sue perdite ed è stata distratta dalla sua invasione della regione russa di Kursk , il cui ultimo esito era prevedibile.

Un altro interessante dettaglio del loro rapporto è che “La distruzione di ferrovie e ponti (intorno a Pokrovsk) significa che è effettivamente persa”. I lettori possono scoprire di più su come la cattura di quella città possa essere un punto di svolta per il fronte del Donbass da questa analisi qui , ma è anche significativo che la Russia stia finalmente prendendo di mira la logistica militare dell’Ucraina. Non toccherà ancora i ponti sul Dnepr né nessuna delle ferrovie che collegano l’Ucraina alla Polonia, ma almeno sta finalmente distruggendo quelli vicino al fronte.

Sebbene nessuna di queste tattiche sia nuova, è la prima volta che vengono impiegate dalla Russia, per non parlare del tutto. Abbandonare gli “assalti di carne” in favore di piccole squadre d’assalto era atteso da tempo, così come bombardare le trincee ucraine e colpire la sua logistica militare vicino alla linea del fronte. La Russia è sempre stata molto più avanti nella ” corsa della logistica “/” guerra di logoramento “, ma solo ora sta facendo qualcosa di diverso dal fare affidamento sulla forza bruta, escogitando finalmente modi più efficaci per sfruttare questo vantaggio.

Per parafrasare il famoso detto, “I russi vanno piano in sella ma vanno veloci”, quindi è possibile che tutto possa presto accelerare come risultato dell’adozione di queste tattiche da parte della Russia. Tuttavia, rimane ancora la domanda sul perché ci sia voluto così tanto tempo per fare queste improvvisazioni. Questo ritardo ha comportato costi enormi. La spiegazione più probabile è che le sue forze armate non avevano cicli di feedback praticabili fino a poco tempo fa. Anche le descrizioni imprecise della situazione in prima linea potrebbero aver confuso le percezioni del comando.

La combinazione di queste due spiega perché la Russia ha impiegato così tanto tempo per implementare ciò che i suoi sostenitori volevano da tempo. Questi problemi non sono però esclusivi delle sue forze armate, poiché affliggono la Russia in generale. Non è raro che qualcuno dica ai propri superiori ciò che pensa di voler sentire invece di condividere con loro brutali verità. Allo stesso modo, i superiori raramente si sentono a loro agio nel riconoscere che i loro piani non stanno funzionando, motivo per cui non cercano spesso feedback.

Condividere consigli non richiesti è considerato profondamente offensivo perché è visto come mettere in discussione il giudizio di un superiore e quindi viene quasi sempre scartato. Le critiche costruttive sono rare e rare, il che crea una camera di risonanza che contribuisce al pensiero di gruppo e alla creazione di una realtà alternativa. Ciò ritarda riforme tanto necessarie poiché coloro che sono responsabili di ordinarle non sanno nemmeno che sono necessarie finché i problemi non diventano troppo seri per essere negati o ignorati da coloro che sono sotto di loro.

Di solito, la responsabilità non segue le riforme, poiché coloro che hanno negato o ignorato i problemi che ne hanno causato l’origine vengono raramente puniti, per non parlare del licenziamento dalle loro posizioni. Semplicemente si dichiarano ignoranti o trovano capri espiatori, entrambe le cose di solito soddisfano i loro superiori. Questi stessi superiori non decidono spesso di creare cicli di feedback o di migliorare quelli esistenti dopo aver ordinato le riforme, poiché il pensiero di gruppo li ha illusi nel pensare che non esistano problemi sistemici.

I paragrafi precedenti sono certamente duri, ma spiegano perché “i russi vanno a cavallo lenti”, sia in termini di burocrazia, affari, diplomazia, affari militari o altro. Cominciano a “andare veloci” solo quando i superiori si rendono conto che esistono problemi sistemici e che richiedono riforme per essere risolti, dopodiché le “verticali di potere” per cui la Russia è nota si mettono in moto a causa della disciplina e della paura di turbare ulteriormente il superiore arrabbiato. Qualcosa del genere potrebbe finalmente accadere con lo speciale operazione .

I paesi asiatici probabilmente sostituirebbero la Russia nei suoi clienti occidentali persi, mentre l’India potrebbe agevolare l’acquisto di queste risorse, proprio come sta già facendo con il petrolio da essa sanzionato.

RT ha citato i commenti del vice primo ministro Aleksandr Novak dall’evento della settimana scorsa della Russian Energy Week per segnalare che “la Russia potrebbe vietare l’esportazione di risorse vitali verso l’Occidente” come uranio, nichel e titanio. Ha confermato che questo è considerato come una contromisura alle loro sanzioni e si basa sulla proposta di Putin di metà settembre. Ciò che trattiene la Russia dal farlo in questo momento, tuttavia, è che i decisori politici vogliono garantire che l’industria nazionale non soffra di minori esportazioni.

Questa è una preoccupazione nobile, ma potrebbe essere fuori luogo, dal momento che le entrate petrolifere russe sono già rimbalzate nonostante le sanzioni occidentali. Cina e India potrebbero acquistare minerali più critici se ci fosse una fornitura aggiuntiva disponibile e i prezzi scendessero un po’, proprio come hanno fatto con il loro petrolio. L’India potrebbe anche fungere da intermediario per facilitare gli acquisti occidentali di queste risorse russe, proprio come li sta già aiutando ad acquistare lo stesso petrolio che hanno sanzionato. Ecco alcuni briefing di base per coloro che non hanno familiarità:

* 16 gennaio 2023: “ Gli Stati Uniti hanno screditato le proprie sanzioni acquistando prodotti petroliferi russi raffinati tramite l’India ”

* 8 febbraio 2023: “ Le sanzioni anti-russe dell’Occidente hanno reso l’India indispensabile per il mercato energetico globale ”

* 28 dicembre 2023: “ Le importazioni di petrolio russo dall’India hanno contribuito a prevenire una policrisi globale ”

L’aumento degli acquisti asiatici, unito all’aiuto dell’India all’Occidente per mantenere la propria fornitura, che avevano tagliato per ragioni politiche semi-simboliche, ha contribuito a stabilizzare il prezzo di questa merce. L’Occidente ha pagato un costo maggiore poiché l’India ha comprensibilmente addebitato un sovrapprezzo per i suoi servizi, mentre la Russia ha guardato dall’altra parte poiché è stata in grado di sostituire le sue entrate perse. L’India ha beneficiato di prezzi scontati, che hanno alimentato la sua rapida ascesa economica , mentre il suo ruolo di intermediario ha consolidato la sua neutralità nella Nuova Guerra Fredda .

Questo precedente suggerisce che qualcosa di simile accadrà se la Russia proibirà l’esportazione di minerali essenziali verso l’Occidente. L’accordo sul petrolio funziona così bene per tutte le parti che non c’è motivo per cui non dovrebbe essere replicato in quello scenario. Di conseguenza, non ci si aspetta che cambi molto se questa politica entra in vigore, a parte costi più elevati per l’Occidente, rendendola quindi per lo più simbolica, proprio come le sanzioni dell’Occidente sul petrolio russo. Ogni parte probabilmente la girerà come un grosso problema, ma la realtà sarà probabilmente l’opposto.

L’India teme sinceramente che la Cina voglia dominare l’Asia per poi raggiungere un accordo con gli Stati Uniti per spartirsi il mondo.

Il Ministro degli Affari Esteri indiano (EAM) Dr. Subrahmanyam Jaishankar ha elaborato l’atto di bilanciamento del suo paese nei confronti della Cina durante la sua apparizione la scorsa settimana all’Asia Society Policy Institute. Ha iniziato con un discorso su ” India, Asia e il mondo ” in cui ha identificato le tre principali tendenze che modellano il mondo oggi: riequilibrio, multipolarità e plurilateralismo. Queste si riferiscono all’ascesa del non-Occidente, alla creazione di nuovi attori indipendenti e all’assemblaggio di gruppi limitati.

Tutti questi sono rilevanti per l’atto di bilanciamento dell’India nei confronti della Cina. Per quanto riguarda il riequilibrio, l’aspirazione dell’India a ottenere un seggio permanente all’UNSC, proprio come la Repubblica Popolare, serve come prova dell’ascesa del non-Occidente negli affari globali. La sua autoimmagine di Voce del Sud globale e la sua magistrale Il multi-allineamento tra paesi concorrenti nella Nuova Guerra Fredda conferma il suo ruolo di attore indipendente, mentre il Quad incarna il concetto di gruppi limitati, come menzionato dallo stesso Jaishankar.

Ha anche osservato durante la sessione di domande e risposte che ha seguito il suo discorso che il suo paese ” può masticare chewing gum e camminare allo stesso tempo ” quando gli è stato chiesto come può partecipare al suddetto gruppo plurilaterale pur essendo ancora membro dei BRICS e della SCO. La Cina è il co-fondatore di questi due gruppi ed entrambi lavorano esplicitamente per accelerare la multipolarità, eppure Jaishankar ha fortemente accennato che la Cina aspira segretamente all’unipolarità almeno in tutta l’Asia. Ecco le sue esatte parole :

“Penso che la relazione India-Cina sia fondamentale per il futuro dell’Asia. In un certo senso, si può dire che se il mondo deve essere multipolare, l’Asia deve essere multipolare. E, quindi, questa relazione influenzerà non solo il futuro dell’Asia ma, in questo modo, forse anche il futuro del mondo”.

Ciò riecheggia quanto detto all’inizio del 2023 durante la visita all’UE, vale a dire la sua insinuazione che la Cina vuole imporre l’unipolarità in Asia, il che impedirebbe l’emergere della multipolarità ripristinando una forma di bipolarità nel mondo. Non è importante se gli osservatori siano d’accordo con la sua valutazione implicita, poiché la salienza sta nel fatto che l’India formula la politica tenendo presente questo sospetto. Ora si può quindi comprendere meglio il modo in cui i tre precedentemente menzionati promuovono questo obiettivo.

La disputa irrisolta sul confine tra Cina e India continua a intossicare i loro legami, così come l’obiezione dell’India al corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), fiore all’occhiello della Belt & Road Initiative (BRI) di Pechino, che attraversa il territorio controllato dal Pakistan che Delhi rivendica come proprio, per non parlare dei legami militari tra Cina e Pakistan. Le risposte dell’India a ciascuna di queste tre non avranno mai il peso politico che hanno quelle della Cina, finché non avrà un seggio permanente presso l’UNSC, ergo perché la Repubblica Popolare continua a negarglielo.

Ciò diventerà più difficile per la Cina senza danneggiare la propria reputazione se l’India sfrutta il riconoscimento del resto del mondo del suo status di attore indipendente nella transizione sistemica globale per convincerlo a sostenere una risoluzione dell’UNGA per darle un seggio permanente all’UNSC come è stato proposto qui . Anche se la Cina rimane recalcitrante, l’India esercita già un’influenza pratica sui processi di multipolarità in virtù delle sue dimensioni demografiche ed economiche, quindi l’obiettivo sopra menzionato potrebbe in ultima analisi essere controverso.

E infine, l’appartenenza dell’India a più configurazioni plurilaterali può facilitare il raggiungimento di obiettivi sufficientemente limitati da farle finire per avere più influenza di alcuni membri permanenti dell’UNSC come il Regno Unito e la Francia, soprattutto se la Russia è inclusa in tali quadri. Nel complesso, la conclusione del discorso di Jaishankar della scorsa settimana è che tutto ciò che l’India fa riguarda il bilanciamento della Cina, che teme voglia dominare l’Asia per poi raggiungere un accordo con gli Stati Uniti per dividere il mondo tra loro.

Tutto ciò che si può valutare finora, in assenza di ritorsioni israeliane al momento in cui scriviamo, è che entrambe le parti sono molto preoccupate per la propria reputazione.

L’Iran ha lanciato diverse centinaia di missili balistici contro Israele la sera del 1° ottobre come rappresaglia per l’assassinio da parte dell’autoproclamato Stato ebraico di importanti figure dell’Asse della Resistenza e per la sua ultima guerra in Libano. Entrambe le parti stanno sfruttando la situazione a proprio vantaggio: l’Iran sostiene che “True Promise II” ha distrutto diverse basi militari del nemico, mentre Israele insiste sul fatto che si è trattato di una dimostrazione per lo più innocua. Nonostante ciò, Israele ha comunque promesso di reagire nel momento e nel luogo che preferirà, tenendo il mondo in bilico.

La tempistica della rappresaglia dell’Iran coincide con l’inizio dell’ultima fase terrestre della guerra israelo-libanese e potrebbe quindi essere stata in parte intesa a scoraggiare un’operazione su larga scala che potrebbe portare a livelli di distruzione simili a quelli di Gaza. È anche seguita ad alcuni dei suoi sostenitori che hanno ipotizzato con rabbia che l’assassinio del capo di Hezbollah Sayyed Hassan Nasrallah la scorsa settimana potrebbe non essere avvenuto se l’Iran avesse risposto in modo deciso all’assassinio del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran durante l’estate.

Questi fattori suggeriscono che l’Iran mirava a promuovere obiettivi militari, reputazionali e strategici: impedire una guerra simile a quella di Gaza in Libano; “salvare la faccia” di fronte ai suoi sostenitori; e idealmente ripristinare la deterrenza. La Resistenza ha applaudito a gran voce la rappresaglia ritardata dell’Iran, quindi il suo obiettivo reputazionale è stato indiscutibilmente raggiunto, ma è prematuro concludere che i suoi corrispondenti obiettivi militari e strategici siano stati raggiunti. Dopo tutto, Israele ha promesso di vendicarsi, quindi tutti dovranno aspettare che ciò accada per giudicare se gli attacchi dell’Iran hanno avuto successo o meno.

Se Israele non lo fa presto, allora si diffonderà la speculazione che potrebbe aver subito danni militari devastanti esattamente come ha affermato l’Iran, inoltre sembrerebbe che Israele potrebbe essere troppo spaventato dalla promessa dell’Iran per reagire ancora più ferocemente che mai se Israele lo attaccasse dopo. Una spiegazione alternativa per questo scenario potrebbe essere che Israele non è riuscito a ottenere il supporto degli Stati Uniti per la propria rappresaglia, dopo di che l’ha annullata o ritardata per rivedere i suoi piani originali. In ogni caso, la deterrenza verrebbe ripristinata.

Sarebbe anche ripristinato se la rappresaglia di Israele fosse limitata e potesse quindi essere presentata dalla Resistenza come una dimostrazione per lo più innocua, esattamente come Israele sta presentando gli ultimi attacchi dell’Iran. La maggior parte degli osservatori probabilmente percepirebbe qualsiasi rappresaglia in questo modo se non comportasse che Israele colpisca obiettivi all’interno dell’Iran. La suddetta intuizione sulle differenze tra israeliani e americani, di cui i lettori possono saperne di più qui , potrebbe essere un fattore alla base di qualsiasi rappresaglia contenuta che alla fine si traduca nel ripristino della deterrenza.

E infine, il terzo scenario è che Israele reagisca all’Iran colpendo le sue difese aeree e/o infrastrutture energetiche come Axios ha riportato martedì potrebbe essere nelle carte per la fine di questa settimana, nel qual caso potrebbe seguire un pericoloso ciclo di attacchi poiché l’Iran si sentirebbe quindi pressato a reagire per “salvare la faccia”. Ciò potrebbe facilmente sfuggire al controllo poiché ciascuna parte potrebbe cercare di superare l’altra, mettendo così rapidamente alla prova l’ipotesi di “Distruzione Mutua Assicurata” (MAD) tra di loro.

Tutto ciò che si può valutare finora, in assenza di qualsiasi ritorsione israeliana al momento in cui scrivo, è che entrambe le parti sono molto preoccupate per la propria reputazione. Nessuna delle due vuole apparire debole agli occhi dell’altra, poiché teme che ciò potrebbe incoraggiare altri attacchi, anche contro i propri partner, ma finora sono state anche attente a non rischiare una guerra più ampia. Questo calcolo è il più importante, ma i falchi di entrambe le parti credono già che la loro sia più forte dell’altra, da qui la loro impazienza di passare alla MAD.

Queste lezioni sono: 1) dare priorità agli obiettivi militari rispetto a quelli politici; 2) l’importanza di un’intelligence superiore; 3) l’insensibilità all’opinione pubblica; 4) la necessità che il proprio “stato profondo” sia pienamente convinto della natura esistenziale del conflitto in corso; e 5) praticare una “decisione radicale”.

L’ ultima guerra israelo-libanese e quella ucraina I conflitti sono così diversi tra loro da essere praticamente incomparabili, ma la Russia può ancora imparare alcune lezioni generali da Israele se ne ha la volontà. La prima è che dare priorità agli obiettivi militari aumenta le possibilità di raggiungere quelli politici. L’operazione speciale della Russia continua a essere caratterizzata dall’autocontrollo, che è influenzato dal capolavoro di Putin ” Sull’unità storica di russi e ucraini “, a differenza della condotta di Israele nella sua guerra con il Libano.

Ci si aspettava che i rapidissimi progressi sul campo durante la fase iniziale del conflitto avrebbero costretto Zelensky ad accettare le richieste militari che gli erano state rivolte. L’unico minuscolo danno collaterale che si sarebbe verificato avrebbe potuto quindi facilitare il processo di riconciliazione russo-ucraina. Questo piano si basava sulla capitolazione di Zelensky, che non è avvenuta. Invece, è stato convinto dall’ex Primo Ministro britannico Boris Johnson a continuare a combattere.

Israele non ha mai pensato che fosse possibile un accordo duraturo con Hezbollah, a differenza di quanto la Russia pensava e probabilmente pensa ancora sia possibile con le autorità ucraine post-“Maidan”, motivo per cui Tel Aviv non prenderebbe mai spunto dal manuale di Mosca eseguendo “gesti di buona volontà” per raggiungere tale obiettivo. Dal punto di vista di Israele, gli obiettivi politici possono essere raggiunti solo dopo una vittoria militare, non il contrario come crede la Russia riguardo alla nozione che una vittoria politica possa portare al raggiungimento di obiettivi militari.

La seconda lezione è l’importanza di un’intelligence superiore. Si dice che la Russia fosse sotto l’impressione, coltivata dai suoi assetti ucraini nel periodo precedente all’operazione speciale, che la gente del posto avrebbe accolto le sue truppe con dei fiori e poi il governo di Zelensky sarebbe crollato. La raccolta di informazioni si è concentrata principalmente sulla situazione socio-politica in Ucraina, che si è rivelata incredibilmente imprecisa, e non sui dettagli militari. Ecco perché le truppe russe sono state sorprese dagli arsenali Javelin e Stinger dell’Ucraina.

Sembra anche che, a posteriori, i beni ucraini della Russia abbiano detto ai loro gestori ciò che pensavano di voler sentire, sia per ingannarli, sia perché pensavano che dire verità dure avrebbe potuto fargli rischiare di essere rimossi dal libro paga. La Russia o non ha verificato l’intelligence socio-politica che ha ricevuto, oppure le altre fonti su cui si è basata erano spinte dagli stessi motivi. In ogni caso, è stata creata una realtà alternativa, che ha rafforzato la priorità degli obiettivi politici rispetto a quelli militari.

Israele è senza dubbio interessato alla situazione socio-politica del Libano, ma gli interessa molto di più l’intelligence militare tangibile che può essere verificata con le immagini piuttosto che le impressioni intangibili dell’opinione pubblica che potrebbero essere offuscate dai pregiudizi della loro fonte e non sono così facili da verificare. Queste diverse priorità di raccolta di informazioni sono il risultato naturale dei diversi conflitti che hanno pianificato di combattere come spiegato nella lezione precedente che la Russia può imparare da Israele.

Il terzo è che la Russia rimane sensibile all’opinione pubblica globale, che è un altro risultato della priorità data agli obiettivi politici rispetto a quelli militari, mentre Israele è impermeabile all’opinione pubblica in patria, in Libano e in tutto il mondo. La Russia metterà quindi le sue truppe in pericolo catturando posizioni isolato per isolato anziché praticare “shock and awe” come sta facendo Israele in Libano. Anche se l’approccio della Russia ha portato a molte meno vittime civili, è comunque criticato tanto quanto Israele, se non di più.

Israele ritiene che la paura ispiri rispetto, mentre la Russia non vuole essere temuta perché pensa che questa impressione aiuterebbe gli sforzi dell’Occidente di isolarla nel Sud del mondo. Il rispetto, ritiene la Russia, deriva dal trattenersi per proteggere i civili anche a costo delle proprie truppe. La Russia ha anche criticato gli Stati Uniti per il modo in cui hanno condotto le guerre in Afghanistan, Iraq e Libia, et al., e quindi non vuole apparire ipocrita dando priorità agli obiettivi militari anche a spese delle vite dei civili.

Israele non ha le risorse naturali che ha la Russia, quindi i suoi oppositori avrebbero dovuto avere vita più facile nell’isolarlo, almeno facendo in modo che altri imponessero sanzioni simboliche, eppure nessuno ha sanzionato Israele, nonostante sia responsabile di molte più morti civili della Russia. Persino la Russia stessa non sanzionerà Israele, nonostante lo critichi. Per essere onesti, il Sud del mondo non ha sanzionato nemmeno la Russia, ma ha bisogno delle risorse russe, quindi probabilmente non la sanzionerebbe, anche se diventasse responsabile di molte più morti civili.

Inoltre, la partnership del Sud del mondo con la Russia accelera i processi multipolari a loro vantaggio collettivo, mentre le sanzioni anti-russe dell’UE erano destinate a rallentarli . Pertanto, avrebbe dovuto essere prevedibile che il primo non si sarebbe sottomesso alle pressioni americane mentre il secondo sì. I calcoli di nessuno dei due hanno nulla a che fare con la responsabilità della Russia per le morti di civili e tutto a che fare con la loro grande strategia. La sensibilità della Russia all’opinione pubblica globale potrebbe quindi essere fuori luogo.

La quarta lezione è che le burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti di Israele (“stato profondo”) sono più convinte della natura esistenziale del loro conflitto di quanto non sembrino esserlo quelle della Russia. Ciò non significa che il conflitto ucraino non sia esistenziale per la Russia, come è stato spiegato qui e qui , ma solo che la Russia avrebbe ormai dato priorità agli obiettivi militari rispetto a quelli politici se il suo “stato profondo” condividesse pienamente questa valutazione. Quello di Israele lo fa sicuramente, indipendentemente dal fatto che si condivida o meno la loro conclusione.

La Russia si sta ancora trattenendo continuando a combattere una “guerra di logoramento” improvvisata con l’Occidente in Ucraina dopo che non è riuscita a costringere con successo Zelensky ad accettare le richieste militari che gli sono state fatte durante la fase iniziale dell’operazione speciale invece di passare allo “shock and awe”. Non distruggerà ancora alcun ponte sul Dnepr a causa della sua priorità degli obiettivi politici rispetto a quelli militari e della sensibilità all’opinione pubblica globale e ha persino lasciato che diverse linee rosse fossero già state oltrepassate .

Di sicuro, l’Occidente non oltrepasserà le ultime linee rosse della Russia attaccandola direttamente o attaccando la Bielorussia o affidandosi all’Ucraina per lanciare attacchi su larga scala contro di loro per procura, poiché non vuole la Terza Guerra Mondiale, ma alcuni falchi stanno ora parlando di quest’ultimo scenario, motivo per cui la Russia ha appena aggiornato la sua dottrina nucleare . Al contrario, l’attacco furtivo di Hamas del 7 ottobre 2023 ha oltrepassato una delle linee rosse di Israele, ma non ha rappresentato ipso facto una minaccia esistenziale poiché è stato respinto, eppure lo “stato profondo” di Israele la vedeva comunque in modo diverso.

Sebbene esistano alcune differenze di visione tra i vari membri, questo gruppo nel suo insieme è ancora convinto della natura esistenziale del conflitto che ne è seguito, ergo la priorità degli obiettivi militari rispetto a quelli politici, che è l’opposto dell’approccio della Russia. A tutt’oggi, nonostante le convincenti argomentazioni dei funzionari russi sulla natura esistenziale del conflitto del loro paese, il suo “stato profondo” nel suo insieme non sembra ancora esserne convinto quanto lo sono le loro controparti israeliane del loro stesso conflitto.

Un cambiamento nelle percezioni porterebbe a un cambiamento nel modo in cui questo conflitto viene combattuto, ma ciò non è ancora avvenuto nonostante gli attacchi dei droni contro il Cremlino , le basi aeree strategiche e persino i sistemi di allerta precoce , tra le tante altre provocazioni, tra cui l’invasione della regione di Kursk da parte dell’Ucraina . Di volta in volta, nonostante ricordi a tutti quanto sia esistenziale questo conflitto, la Russia continua a esercitare autocontrollo. Gli obiettivi politici sono ancora prioritari rispetto a quelli militari e la Russia è ancora sensibile all’opinione pubblica globale.

Ciò potrebbe cambiare se imparasse l’ultima lezione da Israele sulla ” decisione radicale “. Il filosofo Alexander Dugin ha scritto che “Coloro che agiscono con decisione e audacia vincono. Noi, d’altra parte, siamo cauti e costantemente esitiamo. A proposito, anche l’Iran sta seguendo questa strada, che non porta da nessuna parte. Gaza è andata. La leadership di Hamas è andata. Ora la leadership di Hezbollah è andata. E il presidente iraniano Raisi è andato. Anche il suo cercapersone è andato. Eppure Zelensky è ancora qui. E Kiev è lì come se nulla fosse successo.

Ha concluso con la nota minacciosa che “Dobbiamo o unirci al gioco per davvero o… La seconda opzione è qualcosa che non voglio nemmeno considerare. Ma nella guerra moderna, tempismo, velocità e ‘dromocrazia’ decidono tutto. I sionisti agiscono rapidamente, in modo proattivo. Coraggiosamente. E vincono. Dovremmo seguire il loro esempio”. Dugin è stato il primo a prevedere la minaccia esistenziale latente per la Russia posta dall'”EuroMaidan” del 2014 e quindi ha insistito sin dall’inizio dell’operazione speciale affinché smettesse di esercitare autocontrollo.

I “gesti di buona volontà” e l’autocontrollo non sono apprezzati dall’Ucraina, che li percepisce come una prova di debolezza che ha solo contribuito a incoraggiarla a oltrepassare altre linee rosse della Russia. Per quanto queste politiche abbiano ridotto le morti tra i civili, non hanno ancora fatto progredire i loro obiettivi politici previsti a oltre due anni e mezzo dall’inizio dell’ultima fase di questo conflitto che dura ormai da un decennio . Potrebbe quindi essere giunto il momento di cambiarli finalmente alla luce di quanto sia cambiato il conflitto da allora.

Il nobile piano di Putin di una grande riconciliazione russo-ucraina dopo la fine dell’operazione speciale sembra essere più lontano che mai, eppure lui crede ancora che sia presumibilmente abbastanza fattibile da giustificare il mantenimento della rotta continuando a dare priorità agli obiettivi politici rispetto a quelli militari. È il comandante supremo in capo con più informazioni a sua disposizione di chiunque altro, quindi ha solide ragioni per questo, ma forse l’esempio di Israele in Libano lo ispirerà a vedere le cose in modo diverso e ad agire di conseguenza.

La superiorità dell’intelligence israeliana e la riluttanza dell’Asse della Resistenza a intensificare le tensioni sono le ragioni per cui l’autoproclamato Stato ebraico sta indiscutibilmente vincendo l’ultima guerra con il Libano.

L’ultima guerra israelo-libanese ha infranto le aspettative di tutti. L’enorme arsenale missilistico di Hezbollah ha fatto credere a tutti che la ” Distruzione Mutua Assicurata ” (MAD) fosse stata raggiunta con Israele, limitando così le azioni di entrambi i combattenti in qualsiasi conflitto futuro, ma la superiorità dell’intelligence di Israele e la riluttanza dell’Asse della Resistenza a intensificare alla fine hanno dato all’autoproclamato Stato ebraico un vantaggio importante. L’attuale stato delle cose è tale che Israele sta indiscutibilmente vincendo l’ultima guerra con il Libano.

Il suo audace attacco con cercapersone ha interrotto la catena di comando e le operazioni di Hezbollah, che Israele ha poi sfruttato per colpire i propri arsenali missilistici mentre il gruppo si stava riprendendo da questo colpo. Il loro capo Sayyed Hassan Nasrallah, che l’IDF afferma di aver ucciso venerdì, sebbene Hezbollah debba ancora confermarlo al momento in cui scrivo, o ha ancora evitato l’escalation a causa della sua convinzione razionale nella MAD o non è stato letteralmente in grado di farlo dopo quanto accaduto. In ogni caso, l’Iran avrebbe potuto intensificare l’escalation, ma ha rifiutato.

È tempo di riflettere su cosa tutti hanno sbagliato. Per cominciare, nessuno aveva idea di quanto profondamente l’intelligence israeliana si fosse infiltrata in Hezbollah. Conoscevano la posizione della maggior parte delle riserve di missili, la posizione delle figure di spicco del gruppo, ed erano persino in grado di piazzare letteralmente bombe camuffate su molte di esse. Ciò non avrebbe potuto essere ottenuto solo con mezzi tecnici. L’intelligence umana di alto livello è quindi ovviamente responsabile. Queste risorse hanno paralizzato Hezbollah dall’interno prima ancora che iniziasse l’ultima guerra.

In secondo luogo, amici e nemici si sono convinti che l’Asse della Resistenza sarebbe uscito a colpi di pistola se fosse mai stato sull’orlo della sconfitta, cosa che non è accaduta. Mentre non è chiaro se Hezbollah volesse intensificare ma non ne fosse letteralmente in grado o se non lo abbia mai preso seriamente in considerazione a causa della MAD, non c’è dubbio che l’Iran abbia deliberatamente fatto la scelta di non farlo. Mentre alcuni potrebbero attribuire questo al suo nuovo presidente “moderato”/”riformista”, ciò ignora il ruolo del Leader Supremo e dell’IRGC.

Sono loro i responsabili delle relazioni dell’Iran con l’Asse della Resistenza, non il leader eletto, e non sono nemmeno sottomessi a lui. Non c’è alcuna indicazione credibile che volessero intensificare ma siano stati fermati dal presidente. Piuttosto, tutte le prove suggeriscono che la leadership del paese nel suo complesso ha deciso di non rischiare la MAD con Israele scatenando una guerra convenzionale contro di esso in difesa di Hezbollah, suggerendo così che la precedente retorica in tal senso fosse solo un bluff.

Sulla base di questa osservazione, il terzo punto è che il bombardamento da parte di Israele del consolato iraniano a Damasco all’inizio di quest’anno e la rappresaglia della Repubblica islamica possono essere visti a posteriori come un punto di svolta in termini di valutazione delle rispettive capacità militari. Sebbene la risposta dell’Iran sia stata moderata, Israele si è sentito abbastanza sicuro che lui e i suoi alleati avrebbero potuto intercettare una salva più grande, incoraggiandolo così ad assassinare il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran durante l’estate.

L’Iran ha scelto di non replicare la rappresaglia di primavera, il che è stato interpretato da alcuni come un saggio tentativo di evitare una spirale di escalation potenzialmente incontrollabile che avrebbe potuto portare all’intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto, ma potrebbe essere dovuto, a posteriori, al fatto che l’Iran è stato recentemente umiliato dalle difese aeree di Israele. In quarto luogo, questa versione degli eventi è un tabù da discutere nella comunità Alt-Media, poiché la maggior parte degli influencer principali simpatizza per l’Asse della Resistenza e “cancellerà” chiunque dubiti delle loro capacità o volontà.

Chiunque osi farlo viene diffamato come “sionista”, “agente della CIA/Mossad”, ecc., il che ha creato una realtà alternativa che ha rafforzato le percezioni errate che vengono discusse apertamente in questa analisi. Ogni innegabile battuta d’arresto viene da loro presentata come parte di un “piano generale degli scacchi 5D”, a volte persino per “fingere debolezza per mettere a tacere Israele”, ma ora si sa che non è vero. La fredda realtà è che Israele è molto più forte di quanto affermassero e anche l’Asse della Resistenza molto meno incline all’escalation.

E infine, forse il punto più importante è che Israele era disposto a rischiare la MAD per ragioni ideologiche derivanti dalla visione del mondo della sua attuale leadership, mentre l’Asse della Resistenza è sempre stato molto più razionale, motivo per cui è rimasto fedele alla MAD e non ha mai oltrepassato le linee rosse di Israele. Hezbollah potrebbe letteralmente non essere in grado di farlo ora, anche se lo volesse, ma la leadership iraniana, che include la Guida Suprema e l’IRGC, è ancora fermamente convinta di non rischiare la Terza Guerra Mondiale.

Non c’è niente di male nel non aver saputo nulla di tutto questo prima dell’ultima guerra israelo-libanese, ma coloro che aspirano sinceramente a comprendere le relazioni internazionali come esistono oggettivamente e non come vorrebbero che fossero devono riflettere sobriamente sui cinque punti condivisi in questa analisi. Chiunque si rifiuti ancora di imparare dai propri errori di giudizio è o un delirante o un propagandista. È possibile riconoscere queste dure verità e continuare a sostenere l’Asse della Resistenza nonostante ciò che i guardiani degli Alt-Media possano affermare.

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