SIRIA! ELOGIO DELLE SORELLE TRAPPISTE, di Luigi Longo

ELOGIO DELLE SORELLE TRAPPISTE IN SIRIA

di Luigi Longo

 

Chiedo la pubblicazione della lettera aperta delle sorelle trappiste in Siria apparsa sul blog: www.oraprosiria.com del 4 marzo 2018.

E’ una analisi e una denuncia lucida, materiale e spirituale della pesante e drammatica situazione in Siria.

E’ un pensiero critico femminile che si pone nelle contraddizioni reali della vita ben sapendo che il bene e il male fanno parte della storia umana sessuata.

Soltanto la ricerca del senso della vita può tracciare e progettare la strada del bene: il pensiero critico femminile è fondante per la ricerca di un’altra strada sessuata e sensata della vita.

 

Lettera aperta delle Monache siriane: Chiamare le cose con il loro nome, è questo l’inizio della pace

 

Quando taceranno le armi ? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Goutha, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Goutha che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Goutha dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Goutha: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato).

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria.

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

 

Le sorelle Trappiste in Siria

 

I MAESTRI DEL NULLA GOVERNANO PACE E GUERRA SFRUTTANDO LA NOSTRA IGNORANZA, di Antonio de Martini

I MAESTRI DEL NULLA GOVERNANO PACE E GUERRA SFRUTTANDO LA NOSTRA IGNORANZA. tratto da https://www.facebook.com/antonio.demartini.589/posts/1352550311557423

Su proposta del Kuwait e della Svezia – cioè degli Stati Uniti- è stata presentata – e approvata con voto unanime- una risoluzione, priva di sanzioni per i trasgressori, in cui si chiede una tregua ” per trenta giorni consecutivi” durante i quali sia possibile evacuare – non si dice verso dove- i feriti più gravi e rifornire 1244 tra città e villaggi ” assediati” da non meglio specificate truppe.

Per accontentare il delegato siriano Jaafari, spalleggiato dalla diplomazia russa, il testo aggiunge che la tregua non è valida per alcune fazioni ” The truce does not apply to military operations against Islamic State, al-Qaida and the Nusra Front “and other terrorist groups as designated by the security council”.

Poiché è ormai chiaro che

a) oltre il 45% del territorio siriano era già in mano alle truppe lealiste e comprendeva il 70% degli abitanti del paese.

b) le organizzazioni ribelli escluse dalla tregua: EI, AL KAIDA,AL NUSRA, rappresentano il 90% dei combattenti ribelli e a questi si aggiunge la dizione ” a coloro giudicati tali dal Consiglio di sicurezza”.

c) la tregua non si applica alla enclave di Afrin assediata dalle truppe turche, nei pressi del confine, di cui non si fa menzione alcuna.

d) non si fa parola dei ” combattenti curdi” che hanno recentemente occupato la fascia frontaliera tra Turchia e Siria suscitando la reazione delle truppe turche che già combattono da trenta anni i curdi dalla loro parte della frontiera.

La tregua umanitaria serve a considerare utile il Consiglio di sicurezza, umani i componenti che da sei anni tentano di trovare una formula di compromesso accettabile a tutti e intelligente la signorina Halley che presentando la proposta di tregua per interposta persona da l’idea che la guerra di Siria non sia già perduta.

Nessuna notizia invece dallo Yemen , dove una tregua – e urgenti rifornimenti medici sarebbero utili a stroncare l’epidemia di colera in corso- e dall’Afganistan dove le truppe USA sono sul terreno da sedici anni e continuano a costruire strade strategiche smagnetizzabili in direzione nord, mentre il “pessimo Iran” ospita tre milioni di profughi Afgani sul proprio territorio.

L’Iran non gode di tregue e continua ad essere sottoposto a sanzioni economiche a richiesta di Benjamin Netanyahu inseguito dalla propria polizia per aver unito l’utile al dilettevole nel settore delle forniture militari e non.

Facciamo due conti: se ci sono 1244 borghi sotto assedio, poniamo ciascuno da parte di una sola compagnia di cento uomini ( senza sostituzioni) , abbiamo 124.000 soldati lealisti ai quali andrebbero aggiunti , diciamo trentamila lasciati a presidio delle grandi città ( Damasco, Aleppo, Hama, Homs, Deraa, Deir Ezzor, le frontiere, gli aeroporti ecc). Aggiungiamo un battaglione di mille uomini accorsi in aiuto ai curdi di Siria in funzione antiturca ( che i media USA hanno dato per bombardato) , e abbiamo un totale di 155.000 militari ( più aeronautica e Marina e polizia), ossia, in totale il doppio delle truppe disponibili a inizio ostilità.

Una seconda considerazione territoriale. Se a DAESCH sconfitto restano 1244 borghi in mano ai ribelli ( altrimenti perché risulterebbero assediati?) dovremmo concludere che il totale borghi in mano ai ribelli non può essere stato – guerra durante- inferiore a cinquemila…..

Ultima considerazione di carattere “umanitario”.
Se per evacuare i feriti e gli inabili ( e i combattenti armati…) da Aleppo fu necessaria una settimana, come mai per svuotare villaggetti serve il quadruplo del tempo?
Se per evacuare gli Yazidi dall’area del Monte Sinjiar – stimati in cinquantamila e risultati cinquemila che rifiutarono il trasferimento – fu previsto un ponte aereo lampo, come mai trenta giorni adesso?

Risposta malevola mia: forse con questa tregua di lunga durata vogliono evacuare i consiglieri americani, i “jihadisti” provenienti dall’area occidentale europea e israeliana e preferiscono che avvenga alla spicciolata nel tentativo di evitare che vengano notati da qualche giornalista in cerca di scoop.

ISRAELE ENTRA UFFICIALMENTE IN BALLO SUL FINALE, MA …., di Antonio de Martini

ISRAELE ENTRA UFFICIALMENTE IN BALLO SUL FINALE, MA ….

Nell’allegato in lingua inglese su cui potete clikkare sotto il post, c’è un “tweet”del quotidiano ” TIMES OF ISRAEL” che rivela ( a meno non si tratti di un apocrifo) quel che il mondo sospettava da anni, ossia il coinvolgimento diretto dello stato di Israele con gli assassini jihadisti del DAESCH ( detto anche ISIS, EI ecc).

Il giornale – della sinistra moderata – rivela che è il DAESCH a comunicare all’aeronautica israeliana quali obbiettivi colpire in Siria. È la prova di un affiatamento operativo accurato e non effimero.

Dopo anni di propaganda e spiegazioni improbabili della funzione del signor Abdelrahman ( a Coventry) e della signorina Katz ( negli USA) come liberi addetti stampa dei jihadisti, la verità affiora prepotente.

Dietro agli orrendi misfatti del DAESCH, si celavano gli israeliani che perseguivano il doppio risultato di aggredire la Siria, neutralizzandola, e di creare una pessima stampa agli arabi in generale presentati come una genia di barbari mozzateste che bruciano vivi i loro conterranei.

Difficile adesso non pensare che gli attentati in Europa non siano stati sincronizzati con i coincidenti appelli ( as es. di Netanyahu dopo gli attentati di Parigi e del rabbino capo di Barcellona) agli ebrei francesi e a quelli spagnoli, a emigrare in Israele in cerca di protezione.

In realtà per compensare la bilancia demografica cronicamente deficitaria dello Stato di Israele, che è, da sempre, la priorità N 1 della dirigenza locale e dell’Agenzia sionista, preoccupate per l’ormai quarantennale esodo di israeliani verso Canada, Stati Uniti e Australia, paesi dalle grandi potenzialità economiche e che garantiscono una serenità e progetti di vita impensabili in Palestina.

Sembra quindi rivelarsi vincente la strategia araba di creazione e mantenimento, tra gli israeliani, di uno stato di insicurezza permanente con un minimo, ma costante, di attacchi alla cieca contro gli abitanti (coltello nelle città e missili artigianali nel contado) che negli anni ha prodotto il convincimento generale di invivibilità del territorio controllato dal governo.

A questa notizia da Gerusalemme si aggiunge quella del Presidente Trump, che ha dichiarato venerdì con la sua abituale rudezza, di dubitare ormai della volontà di pace di Israele ( avrebbe forse potuto dire di Netanyahu).

Il giorno successivo, la Casa Bianca, ha dichiarato falsa l’asserzione del premier israeliano di aver discusso con Trump della legalizzazione degli insediamenti abusivi nei territori occupati.

Il quadro si delinea.

Siamo in presenza di uno stato dominatore, aggressivo e tecnologico che ha vinto tutte le battaglie militari e diplomatiche ed ora constata che rischia di aver perso la guerra o almeno il suo principale alleato.

Reagisce, abbattendo le carte e ammettendo delitti e complicità inconfessabili per tentare di liberarsi dalla stretta mortale di Netanyahu e sodali che preferiscono distruggere tutto pur di non lasciare il potere a chi vuole la pace.

#WhiteHelmets #svpol https://t.co/y1lkrNAZjF
(https://twitter.com/ProfessorsBl…/status/962587850268168192…)

FRONTIERA E SOLITUDINE, di Antonio de Martini

due incisivi post di Antonio de Martini

SOLITUDINE

Chi volesse indicare l’uomo più solo della terra in Trump o Netanyahu, sbaglierebbe.

Si chiama Mohammed ben Salman, Crownprince dell’Arabia Saudita e difensore delle città sante di Mecca e Medina.

Novanta anni fa, conquistando l’Hejaz, suo nonno Abdel Aziz Ibn Saud aveva spodestato la dinastia Hashemita – la più longeva della terra- e su questa conquista aveva fondato la sua dinastia.

Oggi, dopo aver perso la guerra in Yemen e tentato di provocare una catastrofe umanitaria che ha causato un milione di casi di colera in un paese con nove milioni di abitanti; dopo le voci di contatti nemmeno troppo segreti con Israele; dopo non essere riuscito a gestire la crisi siriana e dopo essersi classificato buon ultimo nell’elenco dei difensori della santità di Gerusalemme ( dopo i rivali di area e religione Turchia e Iran e Giordania) , è detestato anche dal re suo padre nei momenti di lucidità.

Lo stuolo di familiari arrestati ” per corruzione” il giorno dopo essersi insediato alla presidenza della commissione anticorruzione da lui stesso istituita, non ha migliorato la sua situazione relazionale.

Potrebbe riallacciarsi agli USA, offesi dal fatto che ha dovuto votare contro Trump alle Nazioni Unite, se solo non avesse tolto i membri della casa reale dai posti di ministro degli esteri e di Ambasciatore a Washington per sostituirli con funzionari privi di relazioni di lunga data e di qualità.

Ora tenta di rimediare liberando i tre figli dell’ex re Abdallah.
Mitaab ben Abdallah, il più influente, ha comunque ormai sborsato un miliardo di dollari di ” ravvedimento operoso” pochi giorni fa e non deve essere di buon umore.

Gli altri due fratelli Mishaal ben Abdallah e un altro che ora non ricordo, sono stati liberati ieri presumo come gesto di buona volontà e forse su pressione USA-UK congiunte.
Troppo poco e troppo tardi e c’è sangue versato da lavare.

Penso che più che aiutarlo ad uscire dall’isolamento, alla prima occasione gli faranno la pelle per aver messo in pericolo la dinastia e il suo ruolo di protettrice delle città sante: Mecca, Medina e Gerusalemme, ridando vita e significato alla dinastia degli Hashemiti che regnano sulla piccola Amman, ma ricordano tutto

FRONTIERA

BEIT JENN nella zona di Jabal El Cheikh è il luogo sconosciuto più sensibile del Vicino Oriente.

Situato nel triangolo tra Libano, Siria e Israele è stato presidiato dai mercenari di Al Nusra fino a due giorni fa quando è stato espugnato dall’esercito siriano.

Con la ripresa del controllo di questa zona strategica che domina le alture del Golan, Assad è tornato a contatto diretto con Israele, vanificando il piano israeloamericano di impiantarvi una zona cuscinetto. Molto di questo fallimento è dovuto al governo giordano che ha fatto orecchie di mercante alle reiterate proposte USA di mandare truppe a rinforzo dei mercenari antigovernativi.

Il rifiuto giordano a combattere in favore di Israele ha rinsaldato rapporti arrugginiti e dato uno strumento negoziale alla monarchia Hashemita che osserva con attenzione gli errori sauditi nella mai sopita speranza di tornare al controllo delle città sante dell’Islam.

Partiti con lo scopo di rovesciare il regime siriano, gli Stati Uniti avevano nell’ultimo anno ridimensionato le proprie ambizioni alla creazione di una zona cuscinetto a protezione dei confini di Israele. Adesso resta loro soltanto di erogare la causa curda limitatamente al confine siriano.

Le grandi speranze accese dalle sette primavere arabe hanno prodotto una montagna di morti anche se i due regimi superstiti ( Siria e Bahrein) si sono salvati al prezzo di affidarsi a eserciti stranieri.
Negli altri cinque paesi il “regime change” non ha prodotto che qualche irrilevante cambio di persone al potere.

Israele, nato come rassicurante testa di ponte dell’occidente a difesa del fianco destro NATO, si è sviluppato al punto da provocare una reazione di rigetto che ha disarticolato l’intero fianco destro dello schieramento e consentito alla Russia una penetrazione politica mai sognata nemmeno nei momenti di massimo splendore imperiale.
Complimenti!

ANDROMACA, OGGI, di Antonio de Martini

ANDROMACA, OGGI.

L’Europa ha appena abborracciato una soluzione per le ondate di profughi giunte dal Vicino Oriente che si profila la nuova ondata dei reduci della guerra di Siria che finisce.

Circa 30.000 uomini, induriti da tre/sei anni di combattimenti, col sistema nervoso danneggiato dal Captagon – la droga del jihadista- e con disponibilità di denaro sufficiente a comprarsi una nuova identità si affacceranno sul resto del mondo. Vediamo dove.k

Tra questi, immaginiamo che il grosso voglia stabilirsi nei Balcani dove la vita è più simile e i documenti meno costosi. Diciamo diecimila soggetti.

Altri diecimila vorranno tornare alle loro case in Tunisia, Marocco o Libia.

Una aliquota tornerà in Europa ( Inghilterra e Francia principalmente) e un’altra fetta si insabbierà in loco o vorrà continuare la lotta in Afganistan, Somalia o altre zone calde.

I piu decisi verranno in Europa.

Vogliamo dire che solo quattrocento ( su trentamila) verranno da noi ?

Ora sì che si confonderanno tra i profughi e nella migliore delle ipotesi contribuiranno a creare una nuova criminalità comune.

Quale sarà la sorte delle spose dei combattenti rimaste vedove e con bambini in tenera età ( da sei mesi a cinque anni).

Possiamo calcolarne ventimila?

Gli USA hanno avuto un problema grave di insufficienza di fondi, inefficienza e trascuratezza coi loro stessi veterani e certamente non si occuperanno dei reduci delle loro truppe mercenarie, figuriamoci se vorranno pensare alle vedove della jihad.

Irretite in giovanissima età ( 16/18) da mullah senza scrupoli che le hanno offerte ai combattenti, promettendo loro il paradiso, si trovano in terra straniera ( la Siria) certamente madri e senza mezzi di sostentamento.

Se tornassero a casa ( Marocco, Tunisia, Libia, U.K) ” disonorate” e con prole verrebbero uccise dagli stessi parenti assieme ai figli.

Nei campi profughi dei paesi limitrofi in cui tentano di sopravvivere coloro che sfuggirono alla loro guerra, verrebbero linciate.

La prostituzione in un paese devastato e impoverito dalla guerra non è un’opzione realistica.

Essere ridotte in schiavitù con un pugno di riso da contendersi col figlio in questo inverno, è la prospettiva più rosea che le attende.

Mi aspetto che i governi “democratici”, i giornali progressisti che hanno appoggiato la guerra, le organizzazioni femministe, l’Unicef dei salotti, la TV, l’organizzazione ONU per i rifugiati, dicano almeno una parola, ma credo che ignoreranno le dirette conseguenze questa parte della loro crociata anti Assad.

Presto avranno una nuova santa causa democratica per cui commuoversi e poi ….è Natale.

PALESTINA INFELIX, di Luigi Longo

Si pubblicano due brevi articoli, il mio di un paio di anni fa, sulla distruzione del popolo palestinese per rafforzare e rilanciare la potenza regionale di Israele come contrafforte delle altre due potenze emergenti regionali come l’ Iran e la Turchia. Sullo sfondo l’attacco USA al nascente asse Russia-Cina  probabili  poli di potenze mondiali che hanno la visione di un ordine mondiale multicentrico. Luigi Longo

Una riflessione e una domanda a proposito di << due popoli due stati>>.

di Luigi Longo

La riflessione che pongo necessiterebbe di un lungo racconto sull’uso del territorio ( meglio sarebbe spazio) nel conflitto tra Israele e la Palestina, a partire dal 1948 anno di proclamazione formale dello stato di Israele. Mi limito qui a constatare che si tratta di un conflitto tra un aggressore, Israele, che sta malvagiamente ridimensionando un popolo palestinese che cerca di resistere e di difendere legittimamente i residui territori a propria disposizione che non possono più formare una nazione.

La questione avanti posta va vista nei giochi strategici che le potenze mondiali (soprattutto gli USA) hanno fatto, fanno e continueranno a fare per ottenere l’egemonia dell’area mediorientale, tutto storicamente dato.

La riflessione è: non ci sono più le condizioni territoriali per la creazione di due popoli e due stati. La politica territoriale di Israele, con lo strumento delle colonie e con tutta la sua strumentazione scientifica e tecnica (che non è mai neutrale, è bene ricordarlo), di fatto non permette più di parlare di due stati e di due popoli, ma bensì di uno stato per gli israeliani e di enclave per i palestinesi. Usando un linguaggio lagrassiano direi che storicamente gli agenti sub-dominanti della sfera politica, della sfera religiosa, della sfera militare e della sfera istituzionale-territoriale hanno avuto un ruolo fondamentale nel concentrare il popolo palestinese in enclave e distruggere l’idea stessa di una loro nazione con un territorio, una istituzione, delle risorse, una storia e una cultura propri.

Esiste un popolo israeliano con uno stato, gestito da agenti strategici sub dominanti spietati e insaziabili di potere e di egemonia, che è una pedina fondamentale (fino a poco tempo fa) degli USA e delle loro strategie mediorientali nella scacchiera del conflitto per l’egemonia mondiale.

Esiste un popolo palestinese rinchiuso in enclave le cui condizioni di vita sono sempre più difficili e al limite della sopravvivenza (almeno per la maggioranza della popolazione).

Una domanda ora sorge spontanea: perché si continua a lanciare missili innocui su Israele sapendo delle conseguenze inenarrabili sulla popolazione palestinese (donne, bambini e anziani, i numeri dei morti della guerra in atto lo stanno a dimostrare)?.

Avanzo un dubbio: siamo sicuri che i gruppi dominanti del popolo palestinese ( con le loro articolazioni in forze politiche: OLP, Hamas, eccetera) non utilizzano ideologicamente l’obiettivo dei << due popoli due stati >> per le loro strategie di potere e di egemonia per meglio posizionarsi, sia negli accordi di pace sia nelle strategie complessive delle potenze mondiali, con i gruppi strategici egemonici sub dominanti (israeliani e non solo) e dominanti ( USA e non solo) in questa crisi d’epoca di chiaro avvio della fase multipolare?

Se rimaniamo nella dialettica << due popoli due stati >> non riusciamo a capire i rapporti sociali e le trasformazioni sociali che avvengono in quell’area nevralgica del medioriente. E non riusciremo mai a capire perchè si lanciano missili innocui su Israele, ritorsivi e autodistruttivi per la maggioranza dei palestinesi.

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Italia costruirà gasdotto a Israele (per rubare il greggio palestinese)
www.maurizioblondet.it/italia-costruira-gasdotto-israele-aiutarla-rubare-greggio-palestinese/
“Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda”, esulta il ministro dell’energia sionista Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025, che pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali). Il memorandum in questo senso è stato firmato martedì a Nicosia, fra l’ambasciatore italiano a Cipro, e i ministri dell’energie di Israele, Cipro, Grecia. Benediceva l’operazione il commissario europeo all’energia Miguel Arias Cañete. E’ probabile che sarà la UE a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo). Il tubo, chiamato EastMed che approderà in Italia nel 2025, trasporterà fino a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, pari a circa il 5% del consumo annuale in Europa, secondo quanto riferito da EUObserver. Si è costituita allo scopo una joint venture fra Edison e la consorella greca Depa.
Lasciamo perdere la presunta “polemica” e “presa di distanza” dell’Europa dalla decisione trumpiana di dichiarare Gerusalemme capitale indivisa di Sion, lo “scontro” di Netanyahu con Macron, i “disaccordi” di costui coi ministri degli esteri della UE che sa per incontrare a Bruxelles. Quello è teatro per la scena. La realtà è che gli europei restano legati a filo doppio, anzi sempre più soggetti, agli interessi israeliani.

LA GERUSALEMME LIBERATA_UNA SFIDA CAPITALE_una conversazione con Antonio de Martini

Trump ha dato seguito ad un altro degli impegni elettorali. Con la sua decisione di procedere al trasferimento, entro due anni, dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha sparigliato le carte e strappato il velo di ipocrisia che ammantava il groviglio mediorientale, e gli atteggiamenti delle classi dirigenti arabe; ha privato gli Stati Uniti del ruolo di mediatore; sta sancendo la realtà dell’ingresso di nuovi soggetti politici nel gioco di quella zona cruciale. Qui sotto una interessante conversazione con Antonio de Martini

TRUMP UNIFICA IL MONDO ARABO E RICOMPATTA L’ISLAM CONTRO ISRAELE. POSSIAMO APPROFITTARNE. di antonio de martini

oggi, 6 dicembre, Trump – per rispettare una promessa elettorale- riconoscerà Gerusalemme capitale di Israele e trasferirà l’ambasciata USA costì. È una scelta che mi ricorda l’adozione del proibizionismo che si ritorse contro gli autori e poi dovette essere rimangiata.

Non accadrà nulla di epocale, tanto la impopolarità e l’odio nei confronti degli Stati Uniti erano già al massimo storico e così rimarranno molto a lungo.

Diversa la situazione di Israele che potrebbe essere nuovamente isolata mentre stava per incassare il riconoscimento saudita, che ora non potrà non sfumare.
Si intravede una nuova rottura dei rapporti con la Turchia e forse persino con l’Egitto.

Per riempire il vuoto politico ed economico che viene lasciato dagli USA ( che a loro volta avevano sostituito gli inglesi dal 1948 in poi) ecco apparire la Francia di Macron.

È possibile che al vuoto politico segua quello economico deciso a livello popolare, che potremmo riempire noi, dato che il gettito maggiore gli USA lo registravano negli approvvigionamenti alimentari all’area MENA e noi potremmo intervenire proficuamente in tutta l’area facendo uscire dallo stato di crisi le fabbriche di pollame e carne non suina in scatola,tabacchi,bibite e dolciumi, condizionatori, distribuzione energetica ecc.

Il settore trainante dell’economia USA non è mai stato la tecnologia o gli armamenti, bensì l’agroindustria e il suo maggior cliente è proprio il mondo arabo.

Per noi è una occasione da non perdere.

Politicamente, il mondo intero – il mondo islamico moderato in particolare- vede questa scelta come un grave errore ed uno schiaffo alla credibilità ONU oltre che ai leaders arabi alleati che vedono traballare i loro troni. Difficile che qualcun altro leader si dichiari alleato o amico degli USA di Trump. Nemmeno i curdi.

Oltre ai tradizionali avversari, anche il Vaticano che puntava alla internazionalizzazione di Gerusalemme e i cristiani palestinesi si muoveranno in senso contrario a queste scelte USA.

Credo che nessun paese occidentale seguirà l’esempio americano e la speranza di promuovere una qualche forma di pace tra palestinesi e israeliani andrà in soffitta per un bel pezzo.

Per ogni paese che trasferirà l’ambasciata a Gerusalemme, si apriranno opportunità commerciali per noi se ci allineeremo col Vaticano invece che con Trump e suo genero.

La conseguenza politica di maggior rilievo, sarà l’atteggiamento delle Nazioni Unite che vedono stracciata la loro storica risoluzione costitutiva dello Stato di Israele del 1948 che in contemporanea stabiliva che Gerusalemme sarebbe stata internazionalizzata.
La credibilità ONU è così azzerata definitivamente.

La reazione araba è scontata ed è possibile che assuma anche forme creative alla Ben Laden. La distinzione molto pompata tra sciiti e sunniti perderà significato.

Meno scontata e prevedibile la reazione dell’Europa e dell’Asia nei confronti di Israele che rischia di fare la spese della bella figura di Trump i cui elettori amano molto vederlo “rompere gli schemi.”

Rischiamo una crisi internazionale di lunga durata per consentire al Presidente americano di conquistare gli elettori dell’Alabama.

Possiamo però trasformare questo problema in una grande occasione commerciale e industriale per occupare le aree in cui gli arabi ( e gli islamici) boicotteranno gli Stati Uniti.

THE DAY AFTER

gli ultimi tentativi di pace tra israeliani e palestinesi ci furono nel 2014, John Kerry consule, e finirono in un nulla di fatto.
Oggi tutti gli israeliani festeggeranno il riconoscimento degli Stati Uniti di quel che già avevano, cioè Gerusalemme capitale.

Passata la sbornia, si renderanno conto di aver barattato la pace con una soddisfazione enorme ma psicologica.

Tutta la comunità internazionale mantiene il punto che i negoziati devono farsi tra le parti in causa ( Israele e i palestinesi) con trattative dirette e che la sola soluzione che tutti gli analisti individuano al problema è quella di creare due Stati .

La frattura stessa interna agli USA, tra democratici e parte dei repubblicani da una parte e seguaci di Trump dall’altra, fa sì che gli USA stessi non siano unanimi in questa scelta ed abbiano bruciato la credibilità delle Nazioni Unite che creava un sembiante di consenso internazionale a molte decisioni USA.

Trump dice che andava tolta la polvere dal negoziato che si trascina da mezzo secolo. Vero, ma andava usato il piumino, non l’idrante.

Netanyahu, è certamente felice di aver acquisito questo merito storico che spera allontani lo spettro della indagine della polizia israeliana che è giunta ormai al suo quinto interrogatorio sulla vicenda di corruzione sulle forniture militari tedesche. Per lui, ogni giorno in più è guadagnato, ma ha messo l’intero paese nella stessa situazione di precarietà.

Nessuno intanto tra gli amici di Israele risponde alla domanda posta da Paolo Sax Sassetti:
da domani Israele sarà più o meno sicuro?

IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo (2/2), di Pierluigi Fagan

IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo (2/2).

Questa seconda parte, conclude lo studio iniziato qui.

Tornando all’”inquietante attualità” di Schmitt, e volgendoci allo scenario extra-europeo, la composizione del parterre del gioco mondiale ha subito diversi cambiamenti negli ultimi due secoli. Da un dominio eurocentrico che termina ai primi del secolo scorso,  ad un sistema binario americo-europeo che va a comporre il fantomatico “emisfero occidentale” passando per le due guerre euro-mondiali, al mondo “troppo piccolo per due sistemi tra loro contrapposti” dell’ideologia global-idealista[1] in accompagno alla guerra fredda e successivo breve dominio unipolare americano, ad un oggi in cui s’annuncia un mondo nuovo, tendenzialmente multipolare.

In questa idea dell’One World, del Piccolo pianeta, del Villaggio globale ritroviamo anche il famoso strabismo teoria e prassi, riflesso di quello idea-realtà. Se la lettura economicista dell’immagine di mondo (che sia a base metodologica liberal-individualista o comunista-classista) vede l’ineluttabilità dell’One World tessuto dalla globalizzazione (o dai sincronici movimenti di emancipazione del proletario che supera la nazione), dal Segretario di Stato americano H.L.Stimson e la sua presunta affermazione del 1941 alle sorprendenti letture del problema impero-globalizzazione di Antonio Negri , la verifica del campo di gioco in termini realistici, legge invece un tendenziale pluralismo di potenze.   Come altrimenti definire la Cina, la Russia, l’India ma in diversa misura anche il Giappone e la Corea del Sud ed almeno il mondo arabo-islamico a guida Arabia Saudita-EAU ma animato anche dagli interessi di grande spazio neo-ottomano della Turchia, neo-sciita dell’Iran, dell’Egitto e del Pakistan? E cosa sono gli ormai nove possessori di armi nucleari se non altrettanti poli inattaccabili per paura di ritorsione atomica che con l’offrire il loro “ombrello” di copertura, si formano un loro grande spazio in cui i nemici non possono attaccare nella rinnovata logica Monroe? Ed anche rimanendo nel monoteismo economicista come non accorgersi del cambio radicale di composizione, peso e primato,  confrontando la Top Ten dei Paesi per Pil tra 1980 e le previsioni 2030? Sembrerebbe che la logica teorica, che per sue esigenze di discorso tende ad asciugare molto in concetti nitidi una realtà dai bordi molto più sfumati e sovrapposti, vedendo il mondo troppo piccolo per un pluralismo o forse mossa da una teologia dell’Uno, diverga dalla logica pratica per la quale sistemi più densi[2] diventano più complessi e sistemi complessi si ripartiscono in più nodi o attrattori per darsi un ordine[3]. Nella crescita di massa c’è un aumento di complessità non una tendenza alla semplificazione dell’Uno.

Tutti i sempre più numerosi giocatori del mondo multipolare sembra stiano accrescendo la loro potenza, tutti fanno piani e agiscono di conseguenza per darsi un grande spazio nel loro immediato intorno che sia di terra o di mare. Gli americani con la globalizzazione dollarizzata a trazione banco-finanziaria o la NATO o il nuovo “pivot indo-pacifico”, con la BRI e lo sviluppo africano i cinesi o con l’internazionale wahhabita-fraternità musulmana l’islam che ha iniziato un sua guerra per l’egemonia interna, con l’UEE e la nuova egemonia su Caucaso – Siria dei russi o le mire neo-ottomane di Erdogan, con la rinnovata autonomia di Londra che punta al Commonwealth 2.0, tutti stanno correndo a rinforzarela propria costituzione di potenza dandosi prospettive di grande spazio, tranne lo Stato europeo che non c’è. La stessa Germania che è una potenza economica[4] è un nano geopolitico ed un fantasma sul piano militare. Lo stesso scenario di gioco è in transizione, dall’assetto euro centrato a quello atlantico dominato del sistema occidentale a quello mondiale in cui al talassocratico sistema occidentale si va a contrapporre il terraneo sistema afro-eurasiatico tessuto dai cinesi (e russi)[5]. Disputa titanica che verte essenzialmente sull’Europa la cui oscillazione da una parte o dall’altra, può determinare l’esito della transizione e la sua stessa natura, pacifica o, come da molti temuto, bellica.

La “crisi dello Stato” che anima molte riflessioni occidentali, come la dobbiamo intendere? L’impressione è che a questo topos critico manchi un aggettivo di precisazione: “europeo”. Sembra che anche i più avveduti critici dell’eurocentrismo, alfieri del multiculturalismo e del relativismo applicato a gli altri ma non a se stessi, non s’accorgano che la proclamata “crisi dello Stato” fase suprema di un capitalismo finanziario assoluto (ma il capitalismo è a guida finanziaria sin dalle sue origini nel XV secolo se non prima, secondo F. Braudel[6]),  a sua volta de-geo-storicizzato[7], non è un universale, ma una sindrome -almeno nelle sua forme più virulente- dello Stato europeo. Né le pratiche, né il concetto di Stato, sembrano in crisi negli Stati Uniti o in Gran Bretagna o in Russia o in Cina o in India o altrove. La globalizzazione alcuni la subiscono, ma altri la sfruttano, così come la “tecnica” oggetto di molte analisi sulla modernità. I fenomeni si offrono all’intenzionalità degli agenti e se non si riesce ad essere agenti si diventa agiti, ma è improprio diagnosticare la minorità con la sola potenza ordinativa del fenomeno, del dispositivo e della sua ineluttabili facoltà governamentali. I nuovi poli con tendenza ad ampliarsi e segnare il proprio grande spazio, sono centrati  su Stati che hanno  intenzionalità, potenza e condizioni di possibilità per essere tali[8]. Se altri tipi di Stati, denunciano una difficoltà a governare i fenomeni e ne diventano governati, piuttosto che diagnosticarne la “fine dello Stato”, forse si dovrebbe riflettere su come potenziarli. Forse in Europa sta finendo il tempo degli Stati-nazione ma non per la parte Stato, per la parte “nazione”. Forse, in Europa, è giunto il momento di domandarci se ci possiamo ancora permettere i nostri piccoli Stati, il che non porta necessariamente però a darsi come unica risposta l’Unione di tutti, subito ed a qualsiasi condizione.

A riguardo, anche alcuni teorici ed analisti politici della plurale tradizione detta “sinistra”, tra i tanti punti di autointerrogazione che dovrebbero porsi per verificare la realtà dei loro sistemi di pensiero, realtà che sta sfumando in una appiccicosa ed inservibile scolastica (come ammoniva per altro lo stesso Marx nella seconda Tesi su Feuerbach), dovrebbero contemplare il sistema dei fatti demografici, geografici, storici di lunga durata, nonché quelli altrimenti sottovalutati nel concetto di “sovrastruttura” e la stessa politica internazionale anche perché rimanendo abbarbicati al paradigma economicista, diventano sempre più simmetrico-inversi ai liberali, in fondo “simili”. Far scattare lo sprezzante giudizio di “rossobrunismo” ogni volta che si pone a sinistra la questione geopolitica, aiuterà forse a sedare l’ansia da -non comprensione del mondo- ma l’abuso di questo tipo di ansiolitici, può portare al disordine mentale permanente, invecchiando. E sistemi di pensiero nati centocinquanta anni fa, forse, dei sintomi di senilità disfunzionale, è naturale li mostrino.

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Come inquadrare allora la sindrome europea di una ipertrofica Germania in tandem con la Francia, che si muovono in uno scenario di sovranità azzoppata anche per loro, in un contesto di così complesse trasformazioni mondiali? E noi, come rispondiamo al nostro specifico “che fare?”, stretti tra fuga nell’Unione e ritorno alla Nazione? Riepiloghiamo ed andiamo ad una prima -provvisoria- conclusione.

In Europa è terminata da tempo la fase storica iniziata nel XVI secolo con la nascita dei moderni Stati. Alla fine del XIX secolo, gli europei vanno tendenzialmente a saturare gli spazi esterni all’Europa con la colonizzazione, processo di lunga durata iniziato a fine XV secolo e costitutivo dell’equilibrio europeo e della stessa consistenza dello Stato europeo[9]. Contemporaneamente si siedono al tavolo della spartizione dello spazio mondiale due nuovi attori non europei gli Stati Uniti ed il Giappone. Si rinforza la Russia poi Unione Sovietica e nel XIX secolo si formano due nuovi Stati europei (l’Italia e la Germania), appena compensati dall’implosione e sparizione dell’Impero asburgico.  La risultante di questo linee di pressione, fu la prima e la seconda guerra mondiale, intervallate sia dalla grande depressione[10], sia dal trasferimento della posizione di egemone mondiale dalla Gran Bretagna a gli Stati Uniti, sia dalla crescente esuberante assertività della nuova Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, il pluriverso europeo è ripartito tra l’area occidentale a supervisione americana e l’area orientale a supervisione sovietica. Gli Stati Uniti, se da una parte aiutarono la ricostruzione euro-occidentale, dall’altra cancellarono sistematicamente ogni potere coloniale extra-europeo. Da verso lafine del XX secolo ad oggi, gli europei si trovano sempre più confinati nel loro angusto e molto affollato sub-continente. Dentro si forma un ordine funzionale alle logiche americane che vogliono un mercato unito ma nessuna vera unificazione statale (e militare), poi si permette alla Germania la sua riunificazione che la porta ad una massa fuori standard (la RFT era al livello di massa di Francia-Italia-UK) che si somma alle note caratteristiche geopolitiche di centralità spaziale in uno spazio europeo già di suo saturo. Allora i francesi ed i tedeschi pongono una appendice al loro trattato di pace già base del progetto unionista europeo: l’euro[11].  I tedeschi accettano a condizione di fissarne loro i parametri tecnici che poi diventano politici, i francesi a patto di esserne sostanzialmente esentati fungendo da legittimante e junior partner. I tedeschi controlleranno i paesi nordici e dell’est, i francesi quelli latino-mediterranei. Nel frattempo è collassato lo spazio euro-orientale sovietico ed a seguire quello balcanico,  con gli americani che danno alla Germania un nuovo grande spazio di espansione economica, tenendosi però il controllo delle leve politiche e militari che usano sempre più contro la Russia. Fuori d’Europa, si sviluppa velocemente l’Asia ed al Giappone si affiancano Cina ed India mentre l’ordine del mondo è fissato dalla prima globalizzazione a guida anglosassone che -ideologicamente- compendia il regolamento del buon comportamento economico nei decaloghi neoliberali che impongono lì dove possono, cioè soprattutto nel loro grande spazio. Gli americani, che certo non hanno alcuna intenzione di crearsi un Leviatano concorrente ma solo una eterogenea macedonia condannata al “divide et impera”,  hanno gioco facile a spingere gli europei ad unirsi economicamente, ma non politicamente e militarmente. E’ un gioco facile questo di non pensare dall’inizio all’unione in termini politici, primo perché i singoli popoli nazionali e quindi i singoli Stati non ci pensano minimamente a fondersi davvero, né questo è al fondo il desiderio delle loro stesse élite politiche ognuna delle quali esiste proprio perché appartiene ad un suo specifico spazio nazionale, né la condizione geopolitica ad eventuale ragione dell’unificazione  è “sentita” dalle rispettive opinioni pubbliche[12] che diventano sempre più ignare della complessità di questo enorme e complicatissimo scenario. Ma a ben vedere, l’ idea stessa di unire gli europei in quello che per avere sostanza politica[13] non può che non essere uno Stato, magari federale[14], ha sostanza fantasmatica. Non perché nessuno in fondo la vuole questa unione, ma perché non sta nel novero delle cose che è concretamente possibile fare.

Lo stesso Schmitt ci ricorda che la precondizione ovvia per pensare ad uno Stato più grande di quello che ci ha dato in sorte la nostra storia passata, sta in quella physis-terra composta di immagini, concezioni del mondo, religioni, tradizioni, “ricordi storici, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, abbreviazioni e segnali del sentimento, del pensiero e del linguaggio”, insomma la materia che fa la sostanza assieme alla forma.  Fuori di questo presupposto dell’in comune c’è solo la conquista e subordinazione coattiva per poter formare uno Stato. Ma essendo il progetto UE una fusione e non una incorporazione, incorporazione che se pure qualcuno immagina è del tutto fuori luogo discutere visto cha la storia europea ci ha abbondantemente mostrato l’impossibilità di una conquista di Uno su Tutti,  quanto di quel “essere in comune” ha davvero in comune un presunto “popolo europeo”? Nulla. E’ l’atto giuridico politico che fonda lo Stato a fare il popolo o bisogna prima avere un per quanto mal definito popolo prima di poter pensare possibile uno Stato che lo amalgami e meglio definisca? Dove mai si è condivisa la discussione pubblica e popolare sul cambio di paradigma per cui se i nostri vecchi Stati si son fatti tra “noi” e contro quelli dei vicini, oggi i ragionamenti sul nuovo scenario del mondo del secondo millennio, ci imporrebbero di trovare un nuovo “noi” contro i nuovi attori multipolari?  E gli “europei” definizione che parafrasando Metternich non parte da una entità storico-politica ma da una mera espressione geografica, possono pensarsi come “noi”, possono davvero diventare e sentirsi un “popolo” o debbono rifiutare questa categoria e pensarsi come una società per azioni? Se non sono un popolo e non possono diventarlo in tempi storici ragionevoli, se nessuno realmente pensa e vuole immaginare possibile uno Stato europeo, se non potendo mai divenire uno Stato non potrà quindi neanche mai esser democratico, se non potendo  mai essere un vero Stato mai potrà esser un soggetto geopolitico nel gioco multipolare, su cosa stiamo buttando via tempo continuando ad affidarci con sempre minor entusiasmo al sistema UE – euro?  Queste cose, credo appaiano auto-evidenti al netto di qualsivoglia inclinazione ideologica ad uno storico, il problema è che il processo politico di presunta unificazione è discusso e teorizzato principalmente da economisti. Purtroppo però lo sguardo economico tende ad una metafisica platonica che, con logica geometrico-numerica, non legge la logica concretamente incarnata negli individui, nelle società, nelle istituzioni e nelle culture e nelle storie e nelle geografie che fanno i “popoli”, eterogeneità che fanno del complesso pluriverso europeo un frattale di multipolarità in sé. Da questo punto di vista, con Schmitt si vedono cose che  con Smith non si possono  vedere, pensando teoricamente possibile quella che è una tragica astrazione.

Si può lasciare questa idea dell’uni-verso europeo come idea regolativa della ragione, come punto di fuga ideale kantiano a cui tendere. Ma detto per inciso non secondario,  Kant parlò più di confederazione che di federazione ad al solo scopo giuridico-militare in modo da evitare l’eterno riproporsi della coazione hobbessiana del tutti contro tutti, Kant non hamai parlato di uno Stato federale europeo ed è probabile che la sola idea gli facesse ribrezzo[15]. Se questo è un punto di fuga in prospettiva, telos da traguardare nei (molti) decenni a venire,  nel frattempo, occorrerebbe pensare a qualcosa di meno sbilenco ed impossibile e che -tuttavia-  aiuti gli Stati europei a sopravvivere nel difficile e caotico scenario del mondo nuovo. Forse non c’è solo la dicotomia Stato ed Impero ma Stato piccolo ed impotente, Stato grande e potente ed Impero. Forse dobbiamo aprirci un pertugio nelle condizioni di pensabilità e sdoganare l’apparentemente banale e volgare considerazione di buon senso che -in questo discorso- le dimensioni contano. L’eterogeneità europea andrebbe forse pensata per gradi di prossimità, si dovrebbero prima fare federazioni basate su un comune  secondo le grandi ripartizioni dello spazio geo-storico europeo, magari tra loro confederate in una semplice alleanza militare che tra l’altro ci emancipi tutti dalla NATO e solo dopo federazioni di federazioni, ovvero l’ipotetico e molto remoto Stato europeo. Questa idea dell’effettiva unione politica sub-continentale -in prospettiva- sarà anche una necessità , ma pensare sia perseguibile nel delirio dell’impossibile analogia detta “Stati Uniti d’Europa” che ha più ruolo pubblicitario che realmente programmatico, dove la forma (unità) ignora la materia (pluralità storica dei popoli) e quindi non giungerà mai  a sostanza, non è guadagnare tempo, ma perderlo.

Quanto tempo possiamo ancora perdere invece che iniziare un nuovo viabile percorso di adattamento al mondo nuovo e complesso?

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In questo periodo sto studiando le faccende che riguardano questo complesso argomento e questo Autore che oltre a dare suggestioni utili alla riflessione, dà anche tanti problemi in quanto non si può relativizzare la sua piena e convinta adesione al nazismo da cui il problema del provare a separarne il pensiero puro e critico-teorico da quello pratico-pragmatico contingente. Sentire un tedesco, per giunta approssimativamente nazista, che parla di “impero” e di “grande spazio” fa scattare le saracinesche dell’ostracismo prima ancora di poter cogliere qualche idea magari poi da trasformare per altra utilità, non  facile visto che la nostra ragione è anche tanto emotiva, ma lo sforzo forse merita un impegno.  Il nostro “leninista” titolo sul Che fare? di Schmitt, allude al “Che fare di Carl Schmitt?[16]” che è il bel titolo di un altrettanto interessante libricino che si pone la stessa questione: cosa fare di certe riflessioni che sembrano fatte oggi, che sembrano assai lucide e predittive del dominio liberal-anglosassone, dell’universalismo mercatistico imperialista di cui oggi vediamo la piena espansione globalizzante -tra l’altro- in crisi di riformulazione, della pari confusione universalista dell’internazionalismo di sinistra che legge solo classi e non i popoli, dell’ingombrante volontà di potenza teutonica, della crescita di binomi impero-grande spazio tutti non europei, cosa fare della sua acutezza critica e della sua inservibilità normativa, malattia endemica dei pensatori tedeschi in genere? Jean-Francois Kervégan, l’Autore del libro citato, dà la sua diagnosi, così Stefano Pietropaoli  nella monografia dedicatagli[17], così nel suo lungo lavoro di scavo ed approfondimento Carlo Galli[18], così Giovanni Gurisatti curatore dell’edizione italiana della raccolta di scritti schmittiani di politica e diritto internazionali[19] e poiché amalgamati anche con considerazioni su “terra e sul mare”[20] validi anche in termini di geopolitica teorica, così il curatore tedesco originario di Stato, Grande Spazio e Nomos, Gunter Mashke nell’Epilogo post-fazione dello stesso volume. Così le riflessioni stimolate da Schmitt che hanno svolto a vario modo, qui da noi, Cacciari, Duso, Marramao, Tronti, Negri ed Agamben ma anche Julien Freund, Alexander Kojève o il “maoista” tedesco J. Schickel nel Dialogo sul partigiano del 1970. Ma di tutto questo, della “questione Schmitt”, parleremo altrove.

Convegno 16-17 Gennaio 2018, Villa Mirafiori, Facoltà di filosofia La Sapienza Roma – Micromega dal titolo “Lumi sul mediterraneo”.

La questione delle questioni poste da Schmitt ed il suo stesso statuto di pensatore, ha per noi rilievo di attualità sia in termini di geopolitica sulla teoria multipolare[21], sia in termini di concreta geopolitica europea (incluse le aggrovigliate matasse dei sistemi Unione europea ed euro), sia in termini di geocultura e geofilosofia e proprio sul fatto della questione teoria-prassi. Lo facciamo con Hegel come con Marx, con Nietzsche come con Heidegger, con i francofortesi e fino a Sloterdjik ed in parte con Schmitt, si finisce sempre col pascolare nelle radure del pensiero critico tedesco ma poi il mondo, il nostro mondo occidentale, continua imperterrito ad esser ordinato dal nomos anglosassone. Per parafrasare un francese (Deleuze)[22] “i tedeschi progettano mondi, gli anglosassoni li abitano” o li governano, si potrebbe meglio dire[23]. E non è tutto. Questa riflessione sullo Stato e sulla potenza, sulla condizione multipolare ed  il grande spazio che per noi italiani è  il Mediterraneo e la costa dirimpetta in cui tutti i grandi giocatori del gioco di tutti i giochi vengono a disordinare e far danni di cui poi noi paghiamo immancabilmente le conseguenze, cosa ci porta? Dove ci dovremmo dirigere per divincolarci dalla nostra passività subalterna che oscilla tra l’astratto unionismo europeo e l’improbabile ritorno ai confini nazionali di un Paese che sta scivolando nella gerarchia dei soggetti che contano oltre il limite di ciò che ha significato? Come possiamo trasformare questa progressiva insignificanza che ci condanna ad ogni tipo di eteronomia, dalla globalizzazione passiva  all’ineluttabilità neoliberista, dalla NATO ed ai diktat euristi del binomio franco-tedesco alle pressioni russe e cinesi non meno che americane, britanniche ed islamiche, dove volgere un diverso progetto, finalizzarlo a cosa, organizzarlo come? Chi gli amici, chi i nemici? Sovrani come e di che spazio, con quale regolamento ed intenzione? Come districarsi nella selva oscura fatta di imperi, comune, Stati, nazione, popoli, mercato, terra-mare-aria, teorie e fatti, mondo e sua immagine, politico ed economico e ritrovare la diritta via, oggi smarrita? E come rispondere a queste inevitabili domande poste dal primato di realtà, cercando di portare avanti anche le nostre non meno legittime ispirazioni ideali di giustizia sociale ed emancipazione, democrazia reale e buona vita sostanziale?

Riprenderemo  queste urgenti riflessioni in prossimi articoli.

[2/2, la prima parte qui]

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[1] In “Mutamenti di struttura del diritto internazionale” di Schmitt (1943), l’Autore fa un preciso riferimento ad un presunto discorso fatto da Stimson (Segretario di Stato ed alla Guerra americano) a West Point nel 1941 da cui sarebbe stato tratto il virgolettato, riferimento che ripete in altre opere successive ma al curatore dell’edizione tedesca Maschke, questo discorso di Stimson non risulta verificabile. Altresì, lo stesso Maschke, accetta che, esistente il preciso riferimento o meno, questo è stato effettivamente il pensiero “… dell’ideologia dei globalist che circondavano F.D.Roosevelt” (Nota 35 p.255 di Stato, Grande spazio, …. op. cit.).

[2] Nella vasta letteratura che indaga questi fenomeni di mondializzazione ed egemonia, si sottovaluta sistematicamente il dato demografico. Se non si considera la diversa massa e distribuzione di densità della popolazione mondiale che passa dal 1,5 mild dei primi del secolo, ai 7,5 mld più recenti (in poco più di un secolo) è facile cadere in narrazioni che hanno più del letterario che del concreto. Purtroppo, come la geopolitica ha lo stigma del suo utilizzo teorico-pratico da parte dei nazisti, la demografica lo ha con Malthus, ma così come non si può negare l’esistenza di una logica geo-storica a base della politica internazionale, sarebbe il caso anche di far pace con l’evidenza che spesso (non sempre e non da sola), motore attivo della Storia, è proprio la crescita o decrescita delle popolazioni.

[3] Oggi c’è anche una nuova linea dell’universale dell’Uno ma versione  pluralista, non quindi nel distopico addensamento nell’impossibile Un Mondo – Uno Stato (una idea, Schmitt direbbe, di teologia politica, monoteista nella fattispecie) ma nella riduzione degli Stati a regioni o città-Stato, connesse in un  network di scambi di materie, energie, individui, culture ed informazione. Un Uno non piramidale e monolitico ma a “rete” secondo la metafora del tempo (ogni tempo ha la sua). P. Khanna ne è il principale, ma non unico, cantore.

[4] Ma il mercantilismo tedesco (e cinese) quanto verrà ulteriormente permesso in un mondo che s’avvia ad una condizione stabilmente multipolare?

[5] Si segnala questa analisi di G. Doctorow, il quale vede un riproporsi di bipolarismo più che un avvio di multipolarismo https://consortiumnews.com/2017/10/23/russia-china-tandem-changes-the-world/

[6] F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, 1981

[7] Tanto la tradizione liberale che quella comunista, parlano spesso di mercato o capitale come se questo non fosse ripartito in aree territoriali governate da intenzionalità statali. Eppure i geoeconomisti (ad esempio il R. Gilpin di Economia politica globale, EGEA-Bocconi 2008) sanno bene che il “capitalismo” tedesco non è quello americano che non è quello giapponese che non è quello britannico ed oggi quello cinese. Forse molti non considerano che la Washington del “Washington consensus” non è solo l’addensamento ideologico delle élite transnazionali neo-liberali ma il nome della capitale degli Stati Uniti d’America.

[8] Chi in Europa potrebbe mandare in giro il proprio presidente a richiedere più che con le buone con le cattive il riequilibrio delle bilance commerciali, nel frattempo piazzando missili ed ottenendo nuove sottoscrizioni del debito pubblico “monstre”? Chi potrebbe fare la sua “exit” dall’UE senza rimanere polverizzato dal bombardamento finanziario dei “mercati” da cui Londra è immune? Chi potrebbe subire l’attacco al proprio grande spazio ucraino e siriano e reagire come ha reagito Putin? Chi potrebbe gestire e non esser gestito dalla globalizzazione investendo miliardi in strade, porti, linee e logistica per innervare la propria espansione mondiale come la Cina? I teorici della fine dello Stato vadano a spiegare ad americani, britannici, russi e cinesi che loro sono fatti fuori teoria e non teoria che sotto non ha alcun fatto della dimensione raccontata in  analisi che hanno costruito un falso luogo comune, come sempre “universale”. Intendiamoci, problemi ce ne sono parecchi nel conflitto strutturale tra Stato e mercato e sono certo cresciuti ad ogni ondata di mondializzazione, ma sono drammatici solo dove non c’è uno Stato in grado di esser tale.

[9] Nel caso francese ad esempio, dove ancora oggi questo Stato-economia vanta una privilegiata posizione di egemonia sull’Africa occidentale, come dovremmo valutare le sue performance capitalistiche? La Francia è ancora la 6a – 7economia mondo perché ha sostanzialmente ancora benefici coloniali? E il Regno Unito? E manterranno questo privilegio nei prossimi dieci anni? E cosa succederà se la risposta, com’è probabile, sarà “no”? La Francafrique concetto noto ai geopolitici, è noto anche a gli economisti?

[10] Questo crocevia è tutto da riesplorare. Messi in sequenza prima guerra – depressione e seconda guerra abbiamo trenta anni di stato d’eccezione del normale funzionamento delle società e quindi del capitalismo. Ma poi abbiamo altri trenta anni di eccezione (’45 – ’75) perché la ricostruzione post bellica (europea – asiatica – sovietica) è stata una condizione eccezionale. Poi abbiamo trenta anni (’75 – 2007/8) di espansione globalista soprattutto finanziaria a guida dollaro fiat money. Poi abbiamo il crollo dell’esagerazione finanziaria con crisi dei debiti privati e sovrani ipertrofici. Ma allora sono 100 anni che il “capitalismo” funziona in condizioni di contesto eccezionali. Come allora dovremmo considerare questo modo economico se volessimo immaginare un futuro normale ovvero un diverso ruolo sociale e politico del fatto economico?

[11] La moneta unica è solo una ovvia conseguenza del mercato unico altrimenti ciò che avrebbe dovuto unire (lo scambio commerciale) avrebbe riproposto le dinamiche concorrenziali tra Stati europei, generando nuova energia di frizione ed attrito. Qui si deve riconoscere l’apporto degli economisti critici che hanno ben analizzato e spiegato l’effetto che l’euro produce in termini di sottrazione di inter-competitività tra le economia nazionali del sistema euro.

[12] Sin dagli anni ’60, a partire dagli Stati Uniti, inizia un lento processo di degradazione culturale delle opinioni pubbliche. Chi ha una certa età e prova a mettere anche solo “a sensazione”, l’uno accanto all’altro il frame anni ’60-’70, col frame del ventennio del nuovo millennio, non potrà che rendersi immediatamente conto di quanto la “cultura” media sia regredita, in sostanza ed in valore stesso del concetto di “cultura”. Il fatto è viepiù preoccupante poiché incrocia con dinamica inversa la crescente complessificazione del mondo. Dovremmo sviluppare adattamento ad un mondo sempre più complesso con una dotazione culturale sempre più scarsa e mal distribuita? Le élite che si lamentano della vampata populista ed alla post verità a cui ricorrono come i tossicodipendenti che “domani smetto”, dovrebbero piangere se stesse poiché son loro ad aver boicottato la formazione culturale popolare che oggi, non trova altro sbocco di reazione che quella “istintiva ed intestinale”.

[13] Ovvero piena autonomia e sovranità in tutti gli aspetti, oltreché essere l’unico presupposto per l’esercizio della sovranità democratica.

[14] Dove “federale” non è una complicata e confusa struttura di relazioni plurilivello a diversa intensità ma una ben precisa forma di organizzazione politico-amministrativa che si applica in tanti Paesi che complessivamente sommano più o meno la metà della popolazione mondiale, tra cui India, USA, Brasile, Russia, Germania, Pakistan, Messico, Canada ed Argentina.

[15] Il Settimo articolo del progetto filosofico di I. Kant Per la pace perpetua (1795, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto a cura di F. Gonnelli, Laterza, 2009), cita espressamente lo statuto giuridico di una confederazione (altrove Kant parla di una lega, sul modello dell’anfizionia dell’Antica Grecia) pacifica (foedus pacificum), che renda permanente quello che un normale trattato di pace rende episodico e precario. Tale permanenza, per quanto reversibile, sarebbe altresì assicurata dal Terzo articolo preliminare dove si indica la progressiva sparizione di eserciti permanenti. Perché per evitare la coazione alla guerra europea non sia scelta originariamente la strada di darsi un esercito comune in Europa che sottraesse materialmente la stessa possibilità del conflitto (difficile farsi una guerra senza avere un proprio esercito) ma si sia scelto il mercato comune (che tra l’altro contravviene il Quarto articolo che vieterebbe di contrarre debiti pubblici reciproci tra i contraenti confederati o il Quinto che vieta ad uno Stato di intromettersi nel governo e costituzione di un altro Stato) e ciononostante si citi Kant come padre spirituale dell’Unione europea è un mistero. Mistero viepiù fitto se si considera che Kant dava espressamente come opposto modello a ciò che voleva intendere con l’espressione Volkerbund, il Volkerstaat degli Stati Uniti d’America, la federazione dei popoli non portava affatto ad uno stato federale. Non quindi un super-Stato federale unico quale vagheggiano i sostenitori degli Stati Uniti d’Europa (analogia falsa ed improponibile), ma una confederazione a mo’ di alleanza di Stati sovrani. E che i singoli Stati dovessero rimanere pienamente sovrani, lo esplicita altrove e più volte negando a priori l’idea di una Universalmonarchie, ribadendo così la necessaria autonomia (darsi la legge da sé) su cui è basato l’intero impianto della sua filosofia della ragion pratica. (Sulla controversa questione si veda anche M. Mori, Studi kantiani, il Mulino, 2017 capitoli IV e V).

[16] J-F Kervégan, Che fare di C. Schnitt? Laterza, 2016

[17] S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci editore, 2012

[18] C. Galli, Lo sguardo di Giano, il Mulino, 2008 ma anche Genealogia della politica, 2010

[19] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio e Nomos, op. cit.

[20] C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002

[21] Per “teoria multipolare” s’intende una riflessione che non c’è, se non resuscitando qualche paragone con il Concerto europeo o l’equilibrio post-Westfalia (passione dellucido Kissinger che fra un po’ ci lascerà, lui “nemico” intelligente, con tutti “nemici” stupidi), quindi in un ambito parziale più ristretto ovvero quello europeo. Il soggetto politico mondo inteso non più solo nel limitato senso geografico, c’è da poco più di un secolo. Dopo la fase unipolare britannica e le due guerre, c’è stata la fase bipolare (debolmente tripolare) e poi quella breve unipolare americana, quindi non c’è riflessione multipolare contemporanea perché il fatto multipolare è assai recente e per altro in iniziale divenire. In più, c’è un monopolio americano di riflessione in politica internazionale e certo che a Washington non fanno il tifo per la multipolarità. Ne abbiamo parlato nel nostro “Verso un mondo multipolare”, Fazi editore, 2017.

[22] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? Einaudi, 2002, all’interno di nota 15, p.99.

[23] Questione già nota al Marx del “Per la critica alla filosofia del diritto di Hegel”, in cui nota che “I tedeschi nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto” che anticipa (visto che è di due anni prima) la celebre XIa Tesi su Feuerbach sulla questione  teoria e prassi, relativa forse proprio alla mania tedesca di rimanere troppo astratti ed alla fine, inconcludenti o pragmaticamente inservibili.

MARE NOSTRUM_UNA CHIOSA A “UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA”_ GIUSEPPE GERMINARIO

Qui sotto il link di un articolo decisamente interessante, apparso sulla rivista Eurasia, riguardante una possibile ricollocazione geopolitica dell’Italia che consentirebbe una maggiore autonomia di azione senza necessariamente rimettere radicalmente in discussione l’attuale sistema di alleanze incentrate sulla Unione Europea e sulla NATO. Il fulcro dell’azione politica, in sostanza, dovrebbe volgersi verso il Mediterraneo e verso l’Africa nel vicinato prossimo e verso l’Asia, la Russia e la Cina in quello lontano. E’ indubbio che, pur all’interno dei pesanti vincoli di subordinazione ed alleanza, ci siano margini di agibilità che la nostra classe dirigente nemmeno sogna di utilizzare. L’esempio positivo della Turchia, per altro, mi pare fuorviante; come pure quello della Polonia, giacché l’Italia gode, a dispetto della presunta perifericità del paese, della stessa attenzione strategica da parte delle potenza dominante. La condizione di frammentarietà e debolezza politica ed istituzionale difficilmente consentirebbe di sostenere  una pressione analoga a quella subita dalla Turchia. E infatti appare propedeutico e decisivo l’orientamento politico strategico della classe dirigente dominante per intraprendere una qualsiasi strada di maggiore autonomia. La vicenda delle sanzioni alla Russia, tra i tanti, assume la veste di un vero e proprio paradigma. Non sono solo uno strumento offensivo contro la Federazione Russa, sono anche uno strumento di compattamento dell’alleanza atlantica; si stanno rivelando, sorprendentemente, nella loro opacità ed arbitrarietà di applicazione un modo particolarmente subdolo di ridefinire i rapporti interni all’alleanza stessa e di danneggiare i paesi diretti dalla classe dirigente più prona. La volontà di una classe dirigente è, però, solo una condizione, sia pure determinante. Il problema è innanzitutto come si forma e costruisce una classe dirigente alternativa, visto che quella attuale non pare offrire nessuna capacità di analisi e possibilità di redenzione. E tuttavia occorre prestare un occhio più attento alla condizione oggettiva del paese. Su questo l’articolo assume, a mio avviso, una postura un po’ troppo ottimistica sia pur nella cautela in esso suggerita rispetto a soluzioni-panacea quali quella dell’uscita dall’euro. Intanto, ancora una volta, l’estensore sembra fondare sulle capacità economiche e sulle potenzialità produttive la possibilità di redenzione dalla condizione di asservimento. Purtroppo numerosi eventi ed episodi attestano ormai quanto queste potenzialità siano piegate e conformate dalle esigenze politiche e rese praticabili da una credibilità e autorevolezza politica della classe dirigente purtroppo in via di esaurimento. Il paese, inoltre, sta erodendo drammaticamente piuttosto che acquisendo le capacità tecnologiche e produttive necessarie a dar corpo a queste politiche. Ma non solo quelle; anche dilapidando le stesse capacità e qualità professionali che non ostante tutto riesce ancora a formare. La classe dirigente sta perdendo progressivamente e consapevolmente il controllo e la capacità di indirizzo dei residui atout disponibili. Non è un caso che gli americani si siano concentrati nell’acquisizione dei settori strategici, anche quelli in apparenza meno significativi come la ceramica; non è un caso che francesi e tedeschi si siano concentrati sulla logistica, sul drenaggio del risparmio e sull’acquisizione di marchi, in particolare di quelli che potessero qualificarli con miglior lustro, sotto mentite spoglie, in Medio Oriente. Due esempi tra tutti, l’Edison e l’Italcementi, concesse anch’esse allegramente rispettivamente in mano francese e tedesca. Una gran parte dell’apparato produttivo, per altro, è costituito da componentistica legata ormai mani e piedi al prodotto finito della grande industria tedesca. La storia dello sviluppo industriale del paese è lì a rammentarci, per altro, che i momenti di maggior espansione e di sviluppo qualitativo dell’economia, in particolare dell’industria, a partire da metà ‘800, si sono ottenuti guardando a nord e ad ovest, il più delle volte obtorto collo. Emblematico ed illuminante a proposito il contenuto dell’acceso dibattito degli anni ’50, propedeutico al “miracolo economico”. La stessa impresa straordinaria di Mattei all’ENI, pur con tutti i margini di audacia ed autonomia che costui si è concesso e per i quali ha pagato drammaticamente dazio, consistevano sì in una apertura verso i paesi mediterranei, africani e mediorientali, che consentisse soprattutto l’approvvigionamento necessario alla compartecipazione, però, del paese al miracolo economico euroccidentale. Non a caso Mattei contrastò l’ostracismo dei settori più retrivi dell’industria italiana, anch’essi favorevoli ad una espansione verso il Mediterraneo, sostenne lo sviluppo dell’industria di base, specie energetica, siderurgica e chimica, antagonista a quelli e si alleò con la nascente industria meccanica, notoriamente direttamente legata ai centri americani. Nell’attuale condizione, uno spostamento del baricentro rischierebbe di asservire ulteriormente il paese al vero dominus dal secondo dopoguerra ad oggi, gli Stati Uniti. La condizione preliminare di una svolta è, diversamente, l’assunzione del controllo delle principali leve di governo e di indirizzo del paese; il patto europeo, negli attuali termini, inibisce questi sforzi secondo modalità ben più complesse della mera introduzione della moneta unica, l’euro e della imposizione delle norme di stabilità finanziaria, sui quali si incentra purtroppo la quasi esclusiva attenzione dei critici. Una rinegoziazione piuttosto che una rottura presupporrebbe l’esistenza di una classe dirigente ancora più determinata e capace e di un contesto ben diverso, quanto meno di una Unione Europea molto più ristretta e gestibile degli attuali ventisette aderenti. Una rideterminazione del “pivot” non può prescindere quindi da un lavorio sagace in grado di favorire il cambiamento degli equilibri politici in Francia e Germania, senza il quale rischiamo di trovarceli come avversari sempre più dichiarati, in una Europa sempre più frammentata e rissosa, ma sempre a supporto della potenza dominante. A maggior ragione le implicazioni sarebbero determinanti se il paese, motu proprio, dovesse allargare il raggio di azione a Cina e Russia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA

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