parole chiave del nuovo corso: identità, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “sicurezza”.

Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “integrità”, e in quello sulla “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che è diretta alla formazione di un nuovo corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”.

Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore che è l’Unione Europea.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

  1. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

Sicurezza’ è una parola che deriva dal non avere. In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’, termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’ delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La ‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.

Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa quando il 26 agosto 2003 sul Corriere della Sera, scrive, lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Ecco, bisogna avere preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.

Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.

Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

“Sine cura”, senza preoccupazione.

Intorno a questa parola d’ordine si configura la frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia (e dai suoi agenti interessati).

Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica (attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora, come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla povertà’, come disse Taddei, o sul reddito di cittadinanza) verso la protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’. Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si trova – se si fa sul serio – solo quest’ultima, e su altre accezioni del termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.

Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento, un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.

Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”, le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.

La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi al possibile e più semplice “populismo di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato) della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire questo esito.

A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su linee nazionali e ancora più controllo di polizia.

Offrire, invece, autentica “sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone, affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la necessità di protezione senso della securizzazione.

Da una parte (“onestà”) abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane.

Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della “sicurezza”, declinata come protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine troviamo il desiderio di “integrità”, che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.

Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti negli ultimi anni.

Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale avanzamento.

Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa torcia, prima che si spenga.

parole chiave del nuovo corso: onestà, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “onestà”.

https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-onesta.html

Le attuali forze che reggono il governo stanno articolando un discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che sono diretti alla formazione di un nuovo corpo sociale: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”. Visto con lo sguardo del partecipante, necessariamente parziale, ed in corso di eventi, sembra una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio.

Si dice “populismo” intendendo proprio questa aspirazione alla ricerca di un senso, ed alla ricostruzione (rischiando il pastiche) del paesaggio ormai distrutto al passaggio dell’angelo. In questa direzione, anche se in modo del tutto inconsapevole, e probabilmente profondamente contraddittorio, le due forze al governo pongono a ben vedere sotto accusa lo stesso iper-capitalismo (e non solo la sua forma finanziarizzata), la cui logica, e da sempre, predilige ed esalta le passioni, tra queste proprio le meno sociali come l’egoismo, ed esalta vuoti obiettivi come l’efficienza, prediligendo una razionalità meramente oggettivante e funzionale. Attraverso i suoi necessari effetti de-socializzanti, e la disseminazione di perdenti (ovvero di “inefficienti”), il capitalismo sostenuto acriticamente da troppi e troppo a lungo, nell’illusione della ‘fine della storia’, ha alla fine scavato sotto i propri piedi aprendo la fase propriamente rivoluzionaria che si sta avviando (e che sembra accelerare). Questa fase è interpretata in modo più efficace e naturale dalle culture di destra, o da culture che si formano fuori della tradizione della sinistra trattenuta dal feticismo del progresso e dal suo bias per la modernità.

Le forze che sono al centro di questi eventi sono avvantaggiate in forma decisiva perché si muovono da quel lato rovescio della democrazia, ineliminabile ma insieme per sua struttura esterno, che è la contro-politica, la sfiducia organizzata. Da quella “democrazia della sorveglianza” che in questi ultimi anni ha rappresentato la strategia di maggiore successo per gli outsider (e talvolta anche per insider, o divenuti tali). La sinistra, invece, per lo più si è schiacciata sul lato manageriale e sulla democrazia dei tecnici (e per tale quasi sempre oppone i suoi argomenti completamente fuori tema).

Invece la fase rivoluzionaria, o se si preferisce costituente (nel senso che riforma la costituzione materiale, innovandola), che si apre e i cui esiti sono imprevedibili, sembra riaffermare, a fronte della anomia promossa dalla tecnica, il vincolo sociale e con esso il corpo della nazione e lo Stato che la dovrebbe rappresentare. Siamo su temi e inclinazioni per certi versi anti-liberali, e con buona ragione, essendo il liberalismo fondato su una promessa di arricchimento individuale che resta tradita in questa fase (rinvio al classico di Hirschman del 1975, “Le passioni e gli interessi”).

La “onestà”, è dunque una delle parole di ordine di maggiore polisemicità di questa nuova costellazione. Certamente in Italia ha una tradizione che può essere anche riletta da sinistra (nella fase aperta dal fallimento del ‘compromesso storico’ e nel discorso sulla differenza e sulla austerità proposto da Berlinguer in parte per ragioni tattiche sul finire degli anni settanta), ma nella sua articolazione contemporanea più che altro rinvia alla mobilitazione dell’ “etica della vergogna” (cfr. Ruth Benedict, 1946) ed al biasimo sociale verso chi sfrutta e distrugge il vincolo sociale, chiamandosene fuori. Questa sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, segnala una drastica inversione di fase ed il richiamo a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane. Del resto il capitalismo si dovrebbe reggere su una interiorizzata “cultura della colpa” individuale, che fa pena a se stessa, e che è stata invece inesorabilmente erosa e neutralizzata dalla secolarizzazione. Oggi quindi il capitalismo ha perso i legami che lo potevano ancorare al bene pubblico e che gli erano esterni (cfr. Adam Smith “Teoria dei sentimenti morali”). Dal fallimento della logica dell’incentivo, in assenza di freni interni, l’enfasi sulla “onestà” sembra riportare ad una civiltà basata su consenso e biasimo, premio (Dragonetti, “Delle virtù e dei premi”, 1766, cit in Luigino Bruni, “Il mercato e il dono”), onore.

Una civiltà che prevede quindi anche la pubblica gogna cui è andato soggetto nel funerale delle vittime del ponte a Genova l’attuale segretario del Pd, simbolo del disonore. Una civiltà molto più “calda” del “freddo” liberalesimo, e certamente anche più violenta.

Una fase costituente si può prendere in molti modi, uno dei peggiori è quello che scelse, davanti al meraviglioso e terribile spettacolo, certo anche molto ingiusto, della rivoluzione francese, Edmund Burke in “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia”.

Mi auguro che si abbia la forza di non ripetere il suo errore.

costruttori di ponti, di Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2018/08/17/i-meriti-del-governo-conte_-le-implicazione-della-tragedia-del-crollo-del-ponte-morandi-a-genova/

Ho conosciuto la Treviso dei Benetton negli anni ’80. La famiglia godeva di grande prestigio e rispetto tra la gente. Era uno dei gruppi imprenditoriali che stavano guidando lo sviluppo vorticoso di una regione proprio quando il triangolo industriale del nord-ovest stava avviando un drastico processo di riorganizzazione e riduzione delle concentrazioni industriali, ma anche un allarmante ridimensionamento ed impoverimento dei più grandi gruppi. Quella famiglia riuscì a creare nuovi stabilimenti manifatturieri, ma anche una rete impressionante di lavoro a domicilio e decentrato che coinvolgeva decine di migliaia di veneti. Gli occhi più attenti colsero in quelle dinamiche i primi segni di un declino complessivo della qualità della produzione industriale e del peso delle industrie strategiche nonché le basi di uno sviluppo industriale alternativo fondato sulla precarizzazione e su una catena di valore meno significativa che comunque favoriva lo sviluppo di quella regione rispetto alle altre. Riuscì, assieme ad altre, pertanto a dare un grande impulso alla diffusione di una imprenditoria piccola e polverizzata fondata su elevati redditi famigliari tratti da attività ibride nella piccola agricoltura, da un assistenzialismo fondato su pensioni ed indennità concesse a man bassa, su lavori a domicilio e in fabbrica e su una sapiente politica creditizia delle banche popolari, rafforzate da rimesse e rendite provenienti soprattutto dalle estrazioni dalle cave. Il livello di organizzazione gestionale ed industriale di gran parte di quelle attività era letteralmente penoso ed infatti cominciò a scremare e declinare paurosamente già dalla fine degli anni ’90. Gli stessi Benetton, assieme a tantissimi imprenditori, iniziarono a trasferire massicciamente all’estero l’attività manifatturiera oltre a garantirsi il controllo di buona parte delle materie prime, la lana in particolare, con l’acquisto di centinaia di migliaia di ettari di terreno, soprattutto demaniale, in Argentina. Fu un colpo al prestigio popolare della famiglia. I Benetton riuscirono comunque a salvaguardare una aura potente di illuminati con un sapiente mecenatismo ed una grande capacità di comunicazione fondata su paradossi e su un concetto elementare di fratellanza universale tra diversi complementari alla diversità di colori e modelli delle proprie linee di abbigliamento. Quella comunicazione non era un mero involucro vuoto e artefatto. I pochi esterni che hanno avuto la fortuna di visitare i laboratori nei sotterranei del centro direzionale nei pressi di Preganziol rimanevano colpiti dal fervore e dall’entusiasmo, dalla creatività che sprigionava quell’ambiente e si trasmetteva anche alle istituzioni culturali e accademiche sino ai primi anni del 2000. Fu una delle basi della creazione dell’attuale intellighenzia, oggi così smarrita e autoreferenziale. La svolta definitiva in rentier e percettori di rendite avvenne con la privatizzazione delle concessioni pubbliche, per i Benetton nella fattispecie di quelle autostradali. Le motivazioni potevano avere una loro fondatezza nel tentativo di introdurre criteri privatistici nella gestione dei servizi che innescassero innovazione, organizzazione e controllo dei costi. La fede nelle virtù innate delle attività imprenditoriali e delle dinamiche di mercato condusse invece alla trasformazione della quasi totalità della grande imprenditoria privata superstite in tagliatori di cedole proprie e per conto terzi della peggiore risma. Un connubio tutto politico, sottolineo politico che creò l’attuale classe dirigente responsabile nei vari livelli del progressivo e disastroso declino del paese accelleratosi già a metà degli anni ’90. Quel mecenatismo e quell’illuminismo si rivelò di pari passo sempre più un involucro artefatto e cinico proprio di un ceto decadente e parassita, avulso.

Mi ha subito sorpreso la apatica, grottesca, manifesta indifferenza dei Benetton a ridosso della tragedia.

Con quegli antefatti e a mente più fredda, ad una settimana dalla tragedia del crollo del ponte, riesco a spiegarmi la rozzezza e l’impaccio impressionanti manifestati dai comunicatori della Società Autostrade e dalla famiglia Benetton.

I nostri illuminati purtroppo non sono soli nella loro mediocrità.

Il cardinale Bagnasco, nella scialba e anodina gestione dell’intera liturgia che ha regolato la cerimonia funebre ha raggiunto l’apoteosi del peggio nell’omelia, con la sua involontaria macabra ironia sui “ponti la cui funzione è solcare il vuoto e condurre a nuova vita le anime”. Ci ha pensato, paradossalmente, l’orazione dell’imam, nel suo italiano fortunatamente approssimativo, a ridare qualche goccia di ottimismo e qualche prospettiva di giustizia alla folla presente nella cerimonia. E’ stato, di conseguenza l’unico, tra i religiosi, ha ricevere applausi sinceri dagli astanti.

I Benetton, però e i loro accoliti hanno saputo fare di peggio nella loro freddezza, aridità d’animo, intempestività e mancanza pressoché assoluta della virtù fondamentale dei potenti in debito di autorevolezza: l’ipocrisia! Hanno dato il meglio della loro debolezza e del loro arroccamento sordo: la cieca arroganza!

Con le vittime appena incastrate tra le macerie hanno pontificato sulla necessità di accertare le responsabilità prima di ogni azione. Sollecitate una prima volta da Salvini a collaborare, hanno bontà loro sottolineato di aver concesso il passaggio gratuito delle ambulanze sull’autostrada; sollecitati ancora una volta dallo stesso Ministro a dare un segno di vicinanza ai familiari delle vittime, a qualche giorno di distanza hanno porto le condoglianze secondo lo stile proprio di un telegramma di convenevoli a un caro estinto; ulteriormente spinti a dare un qualche segnale di sostegno alla città, agli sfollati e alle vittime, anziché usare la discrezione e annunciare l’intenzione di contattare gli interessati e le istituzioni per concordare le modalità e l’entità del sostegno hanno strombazzato da parvenu ai quattro venti lo stanziamento di 500 milioni di euri. Badate bene! I due ultimi atti di comprensione umana sono scaturiti dai loro cuori solo dopo aver affidato a consulenti esterni la gestione della comunicazione, probabilmente con qualche sofferenza del cuore stesso posto troppo vicino al portafogli.

L’allucinante sordità di questo brandello emblematico di classe dirigente è stata purtroppo parzialmente offuscata dalla dabbenaggine comunicativa e dall’improvvisazione emotiva delle reazioni di alcuni ministri, in particolare di Di Maio, il quale fatica ad esibire il freddo aplomb istituzionale nelle risposte, nelle reazioni e nei sentimenti. Per il resto ad amplificare la “defaillance” dei manager e padroni ci sta pensando da par suo l’isterica reazione e difesa delle loro prerogative e dei loro comportamenti da parte dei dirigenti più esagitati e gretti del PD.

I baldi difensori dovrebbero meritare una amorevole attenzione a parte in proposito.

In un modo o nell’altro i costruttori di ponti di fratellanza in una umanità unita dall’ottimismo pubblicitario rischiano di cadere sulla cattiva costruzione e manutenzione di un ponte in cemento armato.

NUOVI COSTRUTTORI DI PONTI

In crisi un costruttore di ponti, ne viene fuori un altro. Questa volta si tratta di ponti galleggianti.

In queste ore la nave della Guardia Costiera “Diciotti” ha raccolto aspiranti immigrati da un barcone in Mediterraneo, adducendo una richiesta di soccorso. Il Governo di Malta, le cui motovedette stavano accompagnando il barcone, ha smentito tale richiesta e rincarato la dose affermando che i naviganti avevano rifiutato la loro offerta di soccorso essendo al sicuro sul loro mezzo. L’ammiraglio Pettorino, comandante della guardia costiera di nomina Gentiloni, ha coperto il comportamento della nave; i Ministri della Difesa, Trenta e degli Esteri Moavero hanno coperto senza smentita e con ogni evidenza l’ammiraglio Pettorino. L’obbiettivo è mettere in imbarazzo e ridicolizzare Salvini e le componenti politicamente più autonome del Governo. Attendiamo lumi da Mattarella. La Diciotti è stata artefice di un gesto analogo un paio di mesi fa. I Comandi della Marina Militare, meno di due anni fa, di fronte alle intenzioni di bloccare le partenze degli scafisti e i salvataggi in prossimità delle acque libiche ribadirono la loro intenzione di proseguire comunque con i salvataggi. Una Repubblica nella Repubblica. È tempo di fare pulizia nel Governo e nelle Pubbliche Amministrazioni. In autunno si annunciano tempeste e provocazioni pesanti. Difficilmente si riuscirà a sostenere la barra guardandosi nel contempo da nemici e da “amici”.

Buona fortuna agli italiani!

i meriti del Governo Conte_ In appendice le implicazioni della tragedia del crollo del Ponte Morandi a Genova, di Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2018/08/20/costruttori-di-ponti-di-giuseppe-germinario/

Siamo a poco più di due mesi dal varo inaspettato del Governo Conte. Inaspettato almeno per gran parte dei collaboratori di Italia e il Mondo, compreso chi scrive. Una sorpresa dettata dal diverso punto di vista da cui siamo partiti noi nel tentativo di individuare le tendenze culturali e politiche di fondo che stanno portando ad una destrutturazione e ad una ricomposizione delle forze politiche rispetto a quello adottato dai protagonisti in campo sulla base di esigenze tattiche immediate suggerite dalla contingenza delle scelte e dei comportamenti. Una discrasia ben illustrata da Roberto Buffagni nella sua ultima cristallomanzia. L’epilogo sorprendente è stato certamente assecondato se non proprio indotto da una particolare congiunzione astrale che ha ispirato le mosse partigiane e suicide del Presidente della Repubblica e riesumato il residuo spirito di sopravvivenza di un ceto politico, sconfitto elettoralmente e in drammatico debito di credibilità, fermatosi appena in tempo sul precipizio del peggior trasformismo. Tanto più che un eventuale accordo del PD piuttosto che di Forza Italia con il M5S avrebbe richiesto il sacrificio plateale di Berlusconi e di Renzi, le anime e le colonne portanti dei due partiti.

L’istinto di sopravvivenza e il predominio del punto di vista tattico dei personaggi in campo non sono però sufficienti a giustificare e determinare l’epilogo.

Un orizzonte più definito e più profondo può essere senz’altro offerto partendo dall’alto, puntualizzando il grande e inedito attivismo e l’inusuale impegno mediatico profuso dai promotori delle due internazionali o presunte tali, quella globalista guidata da George Soros già ampiamente consolidata e quella sovranista impersonata da Steve Bannon, entrambi americani. Un punto di osservazione che meriterà una apposita riflessione.

In questo articolo si partirà piuttosto dal punto di vista degli attori nazionali e dalle dinamiche più o meno calcolate innescate dai loro atti.

Il grande gioco geopolitico è certamente al di fuori della portata del nuovo governo, come del resto dei precedenti ormai da parecchi decenni a questa parte.

Non è un caso che il Segretario di Stato americano Pompeo, nel suo viaggio preparatorio del recente incontro con Putin in Finlandia, oltre alla Gran Bretagna abbia toccato solo Roma; nel suo incontro capitolino ha incontrato Conte, Di Maio e Salvini, dedicando a quest’ultimo le maggiori attenzioni e sottolineando con reiterata fermezza che l’intero ambito dei rapporti con la Russia, comprese le sanzioni, deve essere gestito in prima persona dalla presidenza americana.

Ciò non ostante il Governo si avvia a fungere da vera e propria cartina di tornasole in grado di mettere quantomeno a nudo l’ipocrisia, la precarietà e le debolezze del contesto nazionale e di quello euromediterraneo.

Su alcuni temi secondari, rispetto agli interessi ed indirizzi strategici, ma molto importanti rispetto ai processi di formazione dell’opinione pubblica e della coesione sociale, è già possibile verificare l’impronta e l’impatto iniziale dell’azione politica. Appunto perché secondari, sono ambiti nella cui azione si possono acquisire maggiori margini di autonomia.

 

IMMIGRAZIONE

Il primo banco di prova scelto dal Governo si è rivelato un pieno successo. Gli sbarchi sono crollati drasticamente. Si vedrà per quanto tempo. Attualmente le organizzazioni sono impegnate a cercare percorsi alternativi verso paesi più accondiscendenti oppure a riorganizzare le traversate in modo da arrivare direttamente ai punti di sbarco. Ci vorrà tempo per ritessere le fila di una organizzazione ormai abituata da anni ai salvataggi facili se non addirittura commissionati. Una volta ripristinata non farà però che innalzare il livello di scontro sempre che auspicabilmente il Governo riesca a mantenere la giusta determinazione.

Rimane il problema della gestione dei rimpatri e delle grandi sacche di lavoro nero e di malaffare. Ci vorrà tempo, i recenti fatti di Macerata, Moncalieri e Foggia dovrebbero riuscire a dare una ulteriore spinta; non mi pare che ci siano grandi movimenti organizzativi in proposito. Rimangono purtroppo alcuni punti oscuri da risolvere come il comportamento di ampi settori di comando della Marina Militare particolarmente propensi alle politiche di “accoglienza”.

È sul piano europeo che sembrano raggiunti i migliori risultati politici, sia pure ancora interlocutori. La richiesta di condivisione della gestione ha messo a nudo la spaccatura netta latente tra gli stati nazionali; gli accordi su base volontaria hanno rivelato una volta di più che l’Unione Europea consiste fondamentalmente in un accordo solvibile tra stati nazionali e il surrettizio passaggio dai cosiddetti “rapporti di cooperazione rafforzata” a quelli “su base volontaria” non fanno che accentuare questo aspetto e questa divaricazione dai propositi unitari. La solidarietà su base volontaria si sta rivelando in tutta la sua ipocrisia nei tentativi di rifilare le maggiori quote ai paesi dai governi per qualche motivo più accondiscendenti, come quello spagnolo. Una soluzione che si rivelerà presto una mina vagante in grado di destabilizzare ulteriormente quel Governo già fragile. Rimangono la meschineria sempre più sciatta della leader tedesca dei “volonterosi” impegnata più che altro a tentare di rifilare ai paesi europei originari di prima accoglienza gli ultimi arrivi indesiderati e le rodomontate di Macron, imperterrito nelle sue politiche di destabilizzazione nel Mediterraneo pressoché a costo zero per il suo paese. Può rivelarsi, quello della solidarietà europea, nel medio termine un boomerang che arrivi ad alimentare e legittimare i flussi migratori illegali e incontrollati. Un argomento che verrà affrontato nell’articolo che esaminerà il futuro del Governo Italiano dal punto di vista delle dinamiche geopolitiche.

RAI E SISTEMA DI INFORMAZIONE

Le elezioni del 4 marzo e la formazione a giugno del nuovo governo hanno accelerato un processo di stretta normalizzazione del sistema di informazione tradizionale.

Già prima delle elezioni l’ipotesi di un governo costruito sull’asse Renzi-Berlusconi era servita da guida agli indirizzi editoriali del Gruppo Mediaset e dei quotidiani legati al gruppo.

Con la svolta politica di primavera quella ipotesi è rimasta sorprendentemente all’ordine del giorno. La7 ha accentuato scandalosamente e sfacciatamente, specie nelle ore serali, la propria partigianeria filopiddina; Mediaset da par suo ha epurato i propri staff con il benservito a Belpietro, uno dei due esempi di editori autonomi in Italia e Giordana affidando la redazione di un canale in quota renziana.

La nomina di Marcello Foa a consigliere d’amministrazione, in predicato di diventare Presidente della RAI, ha rappresentato il classico significativo intoppo nella realizzazione del progetto. La canea e la sollevazione di scudi del vecchio establishment politico e dell’universo mediatico sono impressionanti. Mettere in discussione così rozzamente l’integrità, la capacità professionale e l’attitudine alla funzione di garante di un tale professionista, senza alcuno scrupolo nella rimozione di condolidati rapporti di lavoro ultradecennali, ha rivelato il legame simbiotico del sistema informativo con i centri di potere sempre meno credibili e sempre più smarriti. Anche su questo il comportamento del “liberale” Berlusconi è emblematico sia dello stato dell’arte che della statura dei personaggi.

La stampa e la televisione non detengono più il monopolio dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica, ma sono ancora uno strumento importante e con una gerarchia precisa che consente una manipolazione controllata. Le reti di informazione e socializzazione telematiche sono canali alternativi sino ad ora efficaci anche se caotici e pletorici, quindi dispersivi e propensi a creare nicchie. I sistemi di manipolazione, legati per lo più al controllo dei server centrali di trasmissione e gestione dei dati, sono indiretti e sofisticati, legati alla manipolazione degli algoritmi che decidono della facilità di accesso. Strumenti al di fuori della portata di azione dei ceti politici periferici i quali devono accontentarsi di attività di disturbo e di segnalazione, il più delle volte pretestuosa. Anche qui la via della censura e dell’oscuramento si sta aprendo con minori vincoli legali e possibilità di contrasto delle decisioni. La recente chiusura di infowars, negli USA, rappresenta un primo grave segnale; le ricadute di credibilità sui gestori delle reti sono però molto pesanti.

Sta di fatto che la vicenda ha contribuito a mettere a nudo il complesso sistema di relazioni e manipolazione del sistema informativo e a far venire allo scoperto le reti coperte di collusione.

IL DECRETO DIGNITA’

È forse il provvedimento dalle implicazioni più significative in grado di mettere in evidenza le debolezze di fondo delle due forze politiche e la loro capacità di superarle.

Se con il “job act” Renzi ha voluto sancire una prova di forza con il sindacato, indebolendone strutturalmente la capacità di contrattazione collettiva e di gestione dei contenziosi individuali, con la limitazione e giustificazione dei contratti determinati e la reintroduzione dei voucher presenti nel “decreto dignità” il sindacato è rimasto paradossalmente ai margini anche in un tentativo di avanzamento dei diritti dei lavoratori dipendenti. È proprio il concetto di autonomia sindacale ed autonomia contrattuale, quindi delle modalità di contrattazione, così come imposto dalla CISL ed acquisito da tempo ormai dalle due altre organizzazioni, che sta venendo meno. I tempi di un intervento legislativo diretto sulla questione della rappresentanza e della titolarità dei diritti di contrattazione, sino ad ora prerogative gelosamente detenute dalle associazioni sindacali, sono ormai maturi. Le ragioni sono oggettive, legate ad una frammentazione del mercato del lavoro difficilmente gestibile con i tradizionali strumenti di azione sindacale; sono anche soggettive, con un gruppo dirigente autoreferenziale, legato sempre a doppio filo con il vecchio ceto politico e sempre meno rappresentativo di una base sindacale dagli orientamenti politici sempre più incompatibili e lontani da essi.

Il merito dei provvedimenti legati ai lavori occasionali e ai contratti a tempo determinato colgono un problema reale. Da una parte la presenza di lavori occasionali e la necessità di una loro copertura assicurativa e previdenziale cui associare in qualche maniera il riconoscimento di una pensione sociale oggi concessa indiscriminatamente e oggetto di clamorose speculazioni assistenziali specie tra gli immigrati. Dall’altra il fatto della estensione abnorme del contratto a tempo determinato anche in settori ed aziende nei quali l’oggettività di un rapporto continuativo è lapalissiana. La canea organizzata in maniera scontata da Forza Italia e settori di Confindustria e apparentemente paradossale dal PD rivela il carattere ormai opportunistico, retrivo e reazionario di queste forze, tanto più evidente in quanto permangono i pesanti limiti imposti dal job act in materia di giusta causa nei licenziamenti individuali e di regolamentazione delle procedure dei licenziamenti collettivi. Un atteggiamento che dice tutto sulla incapacità di queste forze di proporre una rinascita qualitativa del paese. L’illusione d’altro canto permane ben riposta nella speranza che sia la mera regolamentazione normativa a risolvere il problema della diffusione del lavoro precario e illegale.

Dal versante delle imprese il provvedimento coglie un altro punto debole delle precedenti politiche, quello delle delocalizzazioni e dell’uso opportunistico degli incentivi agli insediamenti. Si tratta però ancora di un atteggiamento passivo utile a contenere gli atteggiamenti predatori. L’aspettativa implicita è che ciò creerebbe spazi all’arrivo di imprenditoria cosiddetta sana. Anche su questo l’opposizione ha rivelato un atteggiamento del tutto supino alle dinamiche di mercato. Rimangono però i limiti della mancanza di una politica economica attiva che punti allo sviluppo di nuova e più grande imprenditorialità radicata nel paese e di nuovi settori da costruire e ricostruire prima che scompaia definitivamente la memoria e il patrimonio di conoscenze. Eppure nel mondo sono ormai numerosi i paesi emersi dal sottosviluppo con queste politiche. Gli stessi Stati Uniti stanno ripensando drasticamente politiche di tutela del patrimonio tecnologico, di compartecipazioni che favoriscano l’imprenditoria locale che per altro sono state liberale in modo selettivo.

QUI PRO QUO

In realtà il ceto politico emergente, presente soprattutto nei due partiti di governo fatica ancora a pensare che non esistono classi, ceti e settori sociali portatori di per sé di innovazione, distruzione creativa e di emancipazione, fossero anche i settori imprenditoriali più dinamici o gli ambienti sociali più precarizzati. Una fatica legata all’infatuazione persistente verso le politiche “dal basso” e verso le virtù innate del popolo sia nella sua versione democraticista che federalista strisciante.

Il sentore di questo limite per fortuna inizia a serpeggiare in settori di questo ceto politico emergente, nella Lega molto più che nel M5S.

L’ipotesi di riorganizzazione della Cassa Depositi e Prestiti (CDP) orientata al finanziamento della media e piccola industria rappresenta un indizio di tale presentimento più che una consapevolezza. Ma è un obbiettivo ancora estemporaneo che prescinde da un piano di rientro dall’estero del debito nazionale, di recupero ad uso interno della raccolta del risparmio, di creazione di un apparato tecnico in grado di progettare e gestire le grandi opere pubbliche e i processi di industrializzazione e formazione di imprenditoria completamente distrutto e disperso negli anni ’90, dopo il pesante degrado subito negli anni ’80. Manca la consapevolezza del ruolo strategico della grande industria nei settori di punta e dell’importanza del controllo e della riorganizzazione degli apparati pubblici e statali con una definizione chiara delle gerarchie.

Una consapevolezza paradossalmente più presente e razionale all’estero visto che mi è capitato di leggere alcuni articoli di riviste specializzate americane che sostenevano la progettazione anglo-italiana dell’aereo multiruolo Tempest, alternativo a quello franco-tedesco, anche per consentire la sopravvivenza del patrimonio tecnologico nell’avionica di Finmeccanica. Si tratta certamente di un sostegno interessato, ma quantomeno rivelatore della ben maggiore consapevolezza altrui dei problemi di casa nostra.

Manca soprattutto, con l’eccezione di una cerchia ristretta di consiglieri di Salvini e della componente più ostracizzata dei tecnici al governo, la contezza del fatto che dovessero essere perseguite in maniera più o meno coerente queste politiche si troveranno a scontrarsi con il nocciolo duro della trama delle politiche e delle normative e prassi comunitarie le quali vanno ben al di là dei limiti di deficit e degli obblighi di rientro del debito.

Non solo! Saranno dinamiche le quali, se messe in atto, faranno emergere allo scoperto all’interno stesso dei due partiti le componenti pronte a rimpolpare quelle forze reazionarie, per il momento disorientate, tese allo statu quo del paese.

Nel M5S sull’immigrazione sono già sorte le prime voci “autorevoli” di dissenso, sulle grandi opere infrastrutturali la fronda si presenta ben più minacciosa e determinata, mentre il grande supervisore alternativo, da mesi in viaggio negli Stati Uniti, illuminato dai suoi incontri con esponenti del Partito Democratico americano e da esponenti della Silicon Valley, gli stessi del Renzi di cinque anni fa, confortato dal lauto contratto con Mondadori non esita a richiamare sulla retta via. Nel federalismo strisciante e surrettizio possono trovare spazio le forze disgregatrici nella Lega nonché sostenitrici della riproposizione classica del centrodestra.

Un processo in divenire durante il quale saranno le aspre condizioni di conflitto a temprare e formare le forze più determinate, ma largamente inesperte secondo ricomposizioni ancora tutte da decifrare. Nel contesto geopolitico, soprattutto l’avvento di Trump, ha aperto nuovi spazi che non permarranno ancora per molto nell’attuale incertezza; in questi ambiti il Governo ha ritrovato un dinamismo quasi sconvolgente rispetto alla palude remissiva cui ci avevano abituati i precedenti. Un dinamismo però ancora ampiamente subordinato alle strategie altrui e soggetto quindi alla mutevolezza capricciosa delle decisioni e degli eventi. Un aspetto che affronteremo nel prossimo articolo.

IL CROLLO DEL PONTE MORANDI A GENOVA

Durante la stesura dell’articolo è piombata la tragedia del crollo del ponte di Genova. Non si può certo definire un evento e un ambito minore. Si tratta probabilmente di un evento di gran lunga più dirompente dei fatti connessi alla morte di Pamela Mastropietro a Macerata e al sottobosco e coperture che faticano ad emergere in quell’ambiente. Le sole conseguenze economiche e sociali sono di per sé drammatiche e rischiano di condannare tragicamente uno dei poli del vecchio triangolo industriale e la logistica del Nord-Italia. Da questo evento, se ben gestito politicamente, potranno emergere visivamente le condizioni e le collusioni che hanno consentito il sopravvento, l’affermazione e l’alimento dagli anni ’90 della classe dirigente che ha ridotto in queste condizioni il paese. Una classe dirigente che ha subordinato come mai in altre momenti della storia dell’Italia unita il paese agli interessi e alle contingenze politiche esterni; una classe dirigente che ha contribuito a trasformare definitivamente la quasi totalità della grande imprenditoria privata in un consorzio parassitario ed assistenziale grazie alle privatizzazioni soprattutto di Telecom e delle reti di comunicazione e dei servizi; ha distrutto e abbandonato gran parte del ridotto ceto manageriale nazionale costruito in oltre quarant’anni e esposto alla speculazioni e agli istinti di una rete commerciale predatoria buona parte dei ceti medi produttivi dell’agricoltura e della piccola industria. Il muro isterico di difesa eretto intorno a Società Autostrade dalla stampa e dai partiti attualmente all’opposizione rivelano il nervo scoperto da una simile tragedia. Le risposte di Conte, Toninelli e Di Maio sembrano dettate dall’istinto e dall’indole tribunizia. Il retaggio antindustrialista e contrario alle grandi opere pesa nella credibilità del M5S. Chiedere la decadenza immediata della concessione ha certamente un effetto mediatico immediato ma rischia di trascinare, alla luce dei testi conosciuti e pubblici dei capitolati di concessione, in un contenzioso e una diatriba esposta ai polveroni e alle manipolazioni. Meglio sarebbe arrivare ad una sorta di commissariamento dei servizi di controllo ispettivo di Ministero dei Trasporti e ANAS, a un rapido censimento delle opere da risanare, ad un risanamento a tempi stretti della rete a carico dei concessionari con la spada di Damocle del ritiro delle autorizzazioni. Porterebbe alla resa dei conti nel gruppo societario e allo sfilacciamento in poco tempo della rete di relazioni e cointeressenze che hanno tenuto in piedi questo sistema grazie alla drammatica riduzione dei margini di rendita prossimi venturi. Solo disarticolando quel sistema si potrà poi infierire e porre nel frattempo le basi politiche e tecnico-organizzative di una rifondazione. Potrebbe essere il momento giusto per recuperare nello Stato e negli apparati quelle leve indisponibili, ma sino ad ora silenti, a protrarre lo stato di fatto e indispensabili a dare corpo ai programmi e alle migliori intenzioni.

Con una avvertenza. I tempi e i contenuti della comunicazione devono essere dettati dagli uomini di governo piuttosto che da organi di informazione in evidente debito di vendite e credibilità. Se non si riesce a gestire dignitosamente questo figurarsi quali difficoltà potranno sopraggiungere a tenere la nave con il profilarsi delle nubi cupe d’autunno tanto più che l’ombrello trumpiano rischia di essere ulteriormente indebolito dalle prossime elezioni d’autunno e dalle vicende giudiziarie prossime venture. Le inchieste giudiziarie in corso, l’attentato alla sede della Lega di Treviso sono solo dei preavvisi di una tempesta che punta alla reinvestitura esterna sotto mentite spoglie di una vecchia classe dirigente capace solo di attendere gli eventi e a maggior ragione ancora più nefasta per il paese che verrà.

 

 

Dalla mia palla di cristallo_Governo gialloverde: com’è andata & come andrà_di Roberto Buffagni

Governo gialloverde: com’è andata & come andrà

Dalla mia palla di cristallo

 

Cari amici vicini e lontani, eccoci al consueto appuntamento con la mia palla di cristallo e i Superiori Sconosciuti che per mezzo suo ci fanno sgocciolare un po’ di info. Anticipo che i Superiori Sconosciuti tendono all’ellissi e hanno anche il gusto un po’ sadico della suspense, quindi non vi aspettate un bel resoconto dettagliato con tutti i puntini sulle i e i trattini sulle t. E via con le rivelazioni dal Regno Sovratemporale.

Com’è andata

La formazione del governo è stato un mezzo miracolo, forse anche un miracolo intero. Lo scorso 24 maggio la mia palla di cristallo indicava che il progetto di formazione del governo gialloverde poteva essere una “abile manovra tattica, grave errore strategico” (70% di possibilità) oppure una “abile manovra tattica seguita e raddoppiata da audacissima manovra operativa” (30% di possibilità)[1].

Grazie a Qualcuno che Lassù ama l’Italia, si è verificata la seconda e meno probabile ipotesi. La cosa buffa e altamente istruttiva è che l’ipotesi “manovra alla von Manstein” non si è verificata grazie a geniale intuizione di alta strategia dello Stato Maggiore leghista, ma grazie alla semplicità e all’assenza di pregiudizi dei medesimi. I quali hanno tratto le conseguenze immediate dalla situazione contingente: il PD aveva rifiutato l’alleanza con i 5*, Mattarella s’era rifiutato di dare l’incarico a Salvini, l’unica possibilità per formare un governo era allearsi con i 5*, la Lega si è detta “perché no?” e ci ha provato. Il feldmaresciallo von Manstein non so, ma io non ci sarei arrivato in un milione di anni, per tutte le ragioni (pur valide) illustrate nell’articolo linkato alla nota 1. Morale: una strategia che funziona è sempre semplice, e la semplicità è difficile. Chapeau!

Però, se la semplicità è una bella cosa, vita e politica sono complicate. L’audace Blitzkrieg non è stato condotto a termine, e gli enormi errori commessi dall’avversario non sono stati sfruttati a fondo come la situazione dettava. L’errore più grave commesso dal comandante in capo dell’avversario, il presidente Mattarella, è stato l’ostinato rifiuto di accettare il nome di Paolo Savona al Ministero dell’Economia. Il popolo italiano, questo naufrago che insiste a non voler annegare, si è reso immediatamente conto che a) Savona non è Lavrentij Beria o il dottor Goebbels b) Mattarella obbediva a pressioni di potenze straniere + organismi sovrannazionali e dunque non adempiva la sua funzione istituzionale di Presidente della Repubblica italiana c) se l’azione di Mattarella poteva essere legale, certo non era legittima (legittimità = chi comanda in nome di che cosa) c) tra legalità e legittimità c’è di mezzo non il mare ma la classe dirigente europeista, che considera le istituzioni dello Stato italiano come la crisalide di future altre, nuove e incompatibili istituzioni, che non rispondono al popolo italiano ma a oligarchie transnazionali d) per farla corta, che i dominanti italiani sono, secondo l’esatta definizione di Giulio Sapelli, una “borghesia compradora” incaricata di mediare il consenso, vulgo far stare buono il popolo italiano mentre viene tosato, diviso, miscelato e servito ammanettato a chi si vuole mangiare i suoi asset.

Tenendo fermo su Savona, il popolo italiano avrebbe assistito alla plastica rappresentazione della realtà effettuale, in forma di compresenza nelle medesime aule di un governo tecnico legale risibilmente minoritario, e di un governo ombra legittimo con larga maggioranza parlamentare, in grado di varare leggi perfettamente valide e di affossare con il voto i decreti del governo: una situazione prerivoluzionaria con tutti i crismi. La realtà effettuale che si sarebbe così plasticamente illustrata agli occhi di tutti gli italiani è che l’Unione Europea è una tigre di carta bollata e un sovrano privo sia della forza, sia del diritto a regnare. E dopo un corso accelerato di scienza politica come questo, si poteva passare al più presto all’incasso elettorale.

Quando l’avversario fa un grave errore, è un errore ancor più grave non approfittarne. Il modo c’era, e a portata di mano[2]. Per insipienza, inesperienza, e forse o senza forse qualche aiutino di esperti con agende divergenti, l’occasione non è stata colta, e la situazione sul campo si è stabilizzata.

L’azione di governo nei primi trenta o quaranta giorni si può riassumere in due righe: la ventata di stupore, freschezza, sollievo e fierezza levata da un vicepremier, Salvini, che fa due cose molto semplici. Anzitutto, dice con la voce di un’ istanza autorevole quel che pensa una larga maggioranza di italiani: “l’immigrazione è un pericolo e un male, basta!”; e per di più, lo dice senza avere paura di quel che penseranno a Berlino, a Bruxelles, al “New York Times” e al “Corriere della Sera”. Difficile sopravvalutare l’importanza e l’effetto salutare di queste emozioni, per un popolo che le sue classi dirigenti demoralizzano scientificamente da decenni per ridurlo all’impotenza e alla rassegnazione. Infatti, i sondaggi d’opinione parlano di un vasto consenso, indicato intorno al 30%, che la Lega si sarebbe conquistata in queste settimane di governo.

Poi, però, le cose finiscono qui.

La situazione, come dicevo, si è stabilizzata. Stabilizzata vuol dire che le classi dirigenti europeiste italiane, che sono il 90% delle classi dirigenti in tutti i settori, hanno ripreso in mano le leve di comando e controllo delle quali dispongono e che sanno usare molto bene e di concerto, com’è naturale si sono riorganizzate, e hanno cominciato a reagire: ostacolando l’azione operativa del governo, insinuando un cuneo tra gli alleati, e dando inizio alla formazione di un nuovo fronte d’opposizione. In ciò sono favorite dalle debolezze del governo e delle due formazioni che lo compongono, che non sono poche.

Nel caso dei 5*, i punti deboli principali sono:

  1. Il carattere impolitico originario di un movimento che non ha mai indicato chiaramente il suo nemico. Questo carattere impolitico ha permesso alla Lega di allearvisi e di egemonizzarlo provvisoriamente, ma costituisce anche un rischio permanente di opportunismo e veri e propri voltafaccia
  2. La cultura politica gravemente insufficiente e abborracciata, tinta di un generico progressismo con sfumature New Age
  • L’inesperienza e a volte la vera e propria insufficienza della sua classe dirigente
  1. La permeabilità a influenze non dichiarate e vere e proprie infiltrazioni, che consegue sia da quanto indicato ai punti precedenti, sia dall’origine non chiarissima (eufemismo) della sua formazione

Nel caso della Lega, i punti deboli principali sono:

  1. Il carattere reattivo della sua cultura politica. La vecchia Lega intendeva rappresentare la reazione della “comunità padana” che vedeva minacciato il suo interesse e la sua identità dallo Stato nazionale; la nuova Lega intende rappresentare la reazione della “comunità italiana” che vede minacciato il suo interesse e la sua identità dalla UE e dal mondialismo. Ma mentre le rivendicazioni della vecchia Lega potevano agevolmente tradursi in richiesta di concessioni, benefici e spazi politici dallo Stato centrale, senza metterne di fatto mai in questione la legittimità nonostante le smargiassate secessioniste e i duecentomila bergamaschi con la pallottola in canna evocati da Bossi quando alzava il gomito a Pontida, la nuova Lega si trova di fronte a un sistema politico sovrannazionale rispetto al quale le sue istanze nazionaliste sono affatto incompatibili, e finisce per essere, volens nolens, una forza antisistemica: come dimostra l’ostilità violentissima che suscita. Una forza antisistemica, se vuole sperare di vincere, non può esimersi dal delineare il nuovo sistema che intende instaurare, perché come disse Danton, che di rivoluzioni se ne intendeva, “si abbatte davvero un regime solo se lo si sostituisce”. E di delineare il nuovo sistema, la Lega (e non solo la Lega) non è ancora capace, neanche con il pensiero.
  2. Il suo rispettoso ossequio per le istituzioni italiane. Non dipende soltanto dal prestigio degli ori e della lunga storia che aleggia nelle sale del Quirinale e delle Camere, che sempre si impongono al neofita provinciale. Dipende da quanto esposto al punto precedente. La vecchia Lega non ha mai seriamente pensato di rivoluzionare lo Stato italiano, né tanto meno di abbatterlo con una secessione. Lo Stato nazionale italiano è sempre stato il suo orizzonte, l’ambito nel quale agire e pensare, certo strappandogli il più possibile, ma senza mai contestare sul serio la sua legittimità. Ora che la nuova Lega guida nei fatti il governo, e lo guida in nome della nazione, il rispetto per le istituzioni dello Stato e per chi le impersona diventa un riflesso condizionato. Purtroppo, chi di fatto dirige lo Stato italiano e ne riveste le più alte cariche, per le istituzioni e lo Stato non ha rispetto alcuno, perché, come dicevo sopra, “considera le istituzioni dello Stato italiano come la crisalide di future altre, nuove e incompatibili istituzioni, che non rispondono al popolo italiano ma a oligarchie transnazionali.” Questa dissimmetria mette la Lega in condizioni di inferiorità rispetto all’avversario, e le impedisce di cogliere preziose opportunità. Finché la nuova Lega non si persuaderà che Mattarella non è il Presidente della Repubblica italiana ma il capo dell’opposizione, non potrà cogliere le opportunità che l’avversario, usando strumentalmente le istituzioni, le ha offerto e le offrirà. In sintesi: il compito della nuova Lega non è strappare il più possibile all’Unione Europea senza contestarne la legittimità, ma quello di contestarne la legittimità e avviarne una trasformazione così profonda e imprevedibile da doversi chiamare, senza eccessi di linguaggio, rivoluzionaria. Perché l’Unione Europea, non essendo uno Stato ma un progetto irrealizzabile di Stato[3], non ha ampi margini di manovra per riassorbire le dissidenze e le rivendicazioni regionali: è un sogno politico, sa di esserlo, ed è disposta a tutto per impedire che le nazioni europee si sveglino.
  3. L’inesperienza di governo nazionale del suo personale, e le lacune in settori chiave del governo. L’inesperienza è inevitabile, e va scontata. Meno inevitabili le lacune in settori chiave del governo: per esempio, non era inevitabile mettere un prof di ginnastica al MIUR. Sono errori seri, che si spera verranno valutati come tali e corretti.

Come andrà

Come al solito, i beffardi Superiori Sconosciuti quando si viene al futuro sono sempre sbrigativi. Qualcosina però me l’hanno bisbigliato, e io fedelmente ve lo riporto.

  • Come si svilupperà l’offensiva dell’avversario. L’avversario agirà con una manovra a tenaglia, nell’intento di realizzare una replica della battaglia di Canne. La manovra si articolerà in due movimenti principali: a) spaccatura del Movimento 5* b) sterminio delle risorse economiche + isolamento della Lega. Vediamoli nei dettagli.
  • Spaccatura del Movimento 5*. Che cos’è andato a fare Di Battista negli USA? Turismo non credo proprio, anche perché non mi risulta che Dibba sia ricco di famiglia, né appare disporre di reddito personale ottimo e abbondante, e sei-otto mesi di turismo negli States con famigliola al seguito costano un minimo di 50.000 $, se non dormi in tenda. Quindi qualcuno paga, e siccome non esistono pasti gratis e neanche gite annuali premio, il qualcuno che paga vorrà qualcosa in cambio. Ha detto Dibba in TV che Mondadori gli ha versato un anticipo di 400.000 (quattrocentomila) euro per il suo libro di viaggio in USA. Non ho motivo per dubitarne, anche se anticipare quasi mezzo milione a un autore esordiente, per quanto personaggio noto, è una scelta economicamente avventurosa. I conti sono presto fatti: di solito l’autore incassa intorno al 10% del prezzo di vendita. Se il libro verrà messo in commercio a 20 euro, Mondadori dovrà vendere 200.000 (duecentomila) copie per rientrare dell’anticipo a Dibba. A meno che Dibba non si riveli uno scrittore prodigioso, difficilmente il suo libro di viaggio sarà un long seller: o vende subito, o resta in magazzino e poi va al macero. In Italia, non mi risulta sia mai esistito un libro di autore esordiente che abbia venduto 200.000 copie in una stagione[4]: qua si entra in classifica dei libri più venduti con 5.000 (cinquemila) copie vendute. Per sperar di arrivare intorno a quel volume di vendite, un libro italiano deve avere ottimi, anzi fantastici contratti di traduzione su altri mercati, in particolare – to’ ! – sul mercato anglosassone, che ha 400 MLN di lettori. E’ così? Non possiamo saperlo, e in ogni caso facciamo i migliori auguri a Dibba e a Mondadori, queste due preziose risorse culturali italiane. Ma questa digressione economicista è tutta mia, e me ne scuso (sarò invidioso?). I Superiori Sconosciuti, invece, che problemi di soldi non ne hanno, mi hanno fatto notare una certa analogia tra il viaggio in USA di Renzi e il viaggio in USA di Dibba. Analogie tra i due viaggiatori, entrambi giovani politici ambiziosi e promettenti che avrebbero voglia di spiccare il volo; analogie tra le tappe del viaggio; per tacere della destinazione, che è proprio identica (perché poi, con tutti i posti belli e istruttivi che ci sono al mondo, proprio negli USA bisogna andare?). Colgo il suggerimento dei Superiori Sconosciuti, e sottopongo alla vostra attenzione la seguente ipotesi. E se il tour manager di Renzi fosse lo stesso di Dibba? Cioè i democrats USA e i mondialisti che li innervano? Se così fosse, in questi mesi Dibba è stato sottoposto a un corso intensivo con teachers competenti in rivoluzioni colorate e affini, provenienti sia dagli abissi del Deep State USA sia dalla futuristica Scientology, che cura l’addestramento mediatico dell’alunno con la programmazione neurolinguistica, così fa bella figura nei dibattiti e si inventa begli slogan tipo “rottamazione”, “i gufi”, etc., scemenze che però in TV funzionano. In cambio, al suo ritorno Dibba dovrà consegnare una merce pregiata: la spaccatura del M5*, del quale si proporrà come il neo Che Guevara sociale e futuristico, e che dovrà trasformare nella base di un new & improved modello di “partito desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”  al quale si aggregheranno tutti i frustoli e residui dei moribondi partiti desinistra vecchio modello, dai Leucociti + frange PD in giù. Non sarà facilissimo, ma è tutt’altro che impossibile, vista la cultura politica progressista e vagamente fantascientifica/New Age dei 5*. A questo “partito desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”  si affiancherà un partito minore “di centrosinistra moderato” guidato dal vincitore della riffa in corso nel PD, che dovrebbe attirare parte di Forza Italia e forse lo stesso Silvio B., i radicali della Bonino, e insomma tutte “le persone serie” (questo flagello d’Italia) che si prefiggeranno di formare il corpo ufficiali del fronte desinistra/centro antiLega.
  • Sterminio delle risorse economiche + isolamento della Lega. Non so come tecnicamente sarà eseguito, ma sarà eseguito. Se qualcuno spera che non ci si arriverà sul serio, che Mattarella interverrà per evitare il vulnus alla democrazia o analoghi, si sbaglia di grosso. I Superiori Sconosciuti affermano con la massima chiarezza che gli europeisti sanno di correre un rischio esistenziale, e del fair play, di Montesquieu, della democrazia e altre cantafavole domenicali non si curano: si curano invece assai di sopravvivere e tenersi stretto quel che hanno, che non è poco.
  • Quindi per concludere: al ritorno di Dibba, presumibilmente intorno a settembre-ottobre prossimi, scatterà la manovra a tenaglia, con l’obiettivo strategico di arrivare all’appuntamento delle elezioni europee del 2019 con un Movimento 5* diviso e in larga maggioranza “desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”, un “partito di centrosinistra di persone serie” che fa un po’ di polemica con il giovane scapestrato Dibba ma alla fine vi si allea contro i fasciorazzisti della Lega, e una Lega isolata tranne la povera Giorgia Meloni, senza un centesimo in tasca, che non ha consegnato la merce economica promessa (flat tax, rilancio di investimenti e consumi), e che dunque perde un buon dieci per cento del 30% di consensi odierni. Sintesi: i tour manager di Dibba + la borghesia compradora italiana vogliono aggiornare il classico schieramento antifascista ad excludendum il partitaccio antisistema che tante soddisfazioni ha dato in Francia con il Front National; solo che stavolta lo slogan dirimente sarà “contro i razzisti-nazionalisti disumani”, e l’antifascismo, un po’ sdrucito dopo tanti decenni di onorato servizio, servirà solo per gli elettori più anziani e più disagiati.
  • Che può fare la Lega per battere la manovra a tenaglia? Secondo i Superiori Sconosciuti, le mosse sono obbligate, e sono due.
  • Prima contromossa: spaccare il M5*. Trovare un antagonista di Dibba, e portargli via almeno un terzo del M5*
  • Seconda contromossa. Chiudere la Lega usandola come bad bank alla quale addebitare l’esproprio della magistratura, e aprire un nuovo partito conservatore che si prefigga lo scopo di a) nascere nazionale, inserendo in posizioni di rilievo gli eletti più rappresentativi della Lega al Sud b) calamitare il meglio di Forza Italia c) calamitare la parte dei 5* che non si lascerà risucchiare da Dibba d) attirare una parte di astensionisti e) consolidare il consenso guadagnato con l’azione di governo f) prendere tanti voti alle europee.
  • I Superiori Sconosciuti aggiungono che il tempismo dell’operazione è essenziale. Non che ci volessero i Superiori Sconosciuti per arrivare a questo truismo, ma tant’è, così mi hanno detto e così vi riferisco.

Di mio, aggiungo solo che è comodo fare i Superiori Sconosciuti solennemente assisi in poltrona tra le nuvole del Regno Sovratemporale: quaggiù, nella spigolosa realtà effettuale, queste due contromosse non sono mica tanto facili, eh?

Comunque, tanto vi dovevo. In bocca al lupo all’Italia, e stay tuned!

 

 

 

 

 

[1] http://italiaeilmondo.com/2018/05/12/governo-lega-m5stelle-come-andra-a-finire-di-roberto-buffagni/

[2] Per esempio questo: http://italiaeilmondo.com/2018/05/29/dalla-mia-palla-di-cristallo-governo-ombra-di-roberto-buffagni/

[3] V.  http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[4] http://www.lastampa.it/2017/03/04/cultura/i-libri-diventano-un-best-seller-con-mila-copie-PXKsG0krrjpA7BQfOuLfoJ/pagina.html

FINANZA E GEOPOLITICA, 1a parte_ a cura di Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

PRIMA PARTE

 

 

ITALIANI SCROCCONI E FANNULLONI? TEDESCHI TRUFFATORI E FALSARI!

di Domenico de Simone

 

La battaglia durissima e senza precedenti che si sta consumando intorno alla nomina di Paolo Savona a Ministro dell’economia, sta assumendo toni intollerabili, con attacchi violenti da parte della stampa italiana, come al solito ricca di falsità, allarmi, valanghe di fango e menzogne, e recentemente con la discesa sul campo di battaglia delle “sturmtruppen”, anch’esse armate di falsità e menzogne, oltre che di insulti e pregiudizi. Facciamo un po’ di chiarezza.

Paolo Savona è un economista di valore e di grande prestigio che ha il solo torto di aver detto  chiaramente, PRIMA dell’entrata in vigore dell’euro, che la moneta unica, così come era stata concepita, avrebbe fallito e che i vantaggi tanto sbandierati dai politici di allora e dalla stampa, si sarebbero rivelati un’illusione pericolosa. In Italia è stato uno dei pochissimi a dirlo, una voce fuori da coro che ha dato molto fastidio e che è stata messa a tacere con i soliti sistemi mafiosi dei signori del potere. Semplicemente negandogli l’accesso ai media. Che cosa diceva il buon professore sull’Euro? Niente di diverso da quello che sostenevano molti noti economisti d’oltre oceano, ovvero che una moneta unica in un’area con economie tanto diverse e senza meccanismi di compensazione avrebbe provocato molti danni alle economie più deboli. Si tratta della teoria delle Aree Valutarie Ottimali (AVO) in inglese nota come teoria dell’OCA (optimum currency area) elaborata negli anni sessanta del premio Nobel Robert Mundell e ben nota agli economisti. Se volete capire quanto sono bravi i tedeschi al gioco dell’OCA cliccate su questo articolo. 

Ora, che un personaggio del genere, che ha fatto dell’indipendenza del pensiero la propria bandiera, vada a fare il Ministro dell’Economia in un momento in cui tutto l’edificio comunitario sta vacillando paurosamente, proprio a causa delle debolezze e delle contraddizioni dell’euro e della politica europea, è per un fatto inammissibile per i poteri forti. Di qui la reazione violenta e senza precedenti, con il Presidente della Repubblica che mette il proprio veto, violando palesemente la Costituzione che non gli consente ingerenze sulle scelte politiche della maggioranza nominata dagli elettori. Tuttavia, poiché la questione può essere di vitale importanza, la resistenza del Presidente è fortissima, anche a rischio di un’accusa di violazione dell’art. 90 della Costituzione, ovvero di alto tradimento, per comportamenti diretti a sovvertire le Istituzioni Costituzionali e per le collusioni con una potenza straniera, nel caso di specie, con la Germania.

Fatta questa doverosa premessa che rende l’idea del clima e degli interessi in gioco, veniamo al merito di questo articolo, che sin dal titolo vuole rispondere ai durissimi attacchi sferrati dal settimanale “Der Spiegel” qualche giorno fa e persino dalla Frankurter Allgemeine Zeitung nel suo inserto settimanale, contro l’Italia, gli italiani e il loro desiderio di cambiare la politica economica del paese. Insomma, i due giornali più diffusi in Germania che agitano con forza i soliti pregiudizi diffusi in quel paese sulle abitudini degli italiani, definiti “scrocconi e fannulloni”.

L’accusa è legata sia al programma di reddito di cittadinanza avanzato dal M5S (che poi non è un vero RdC ma una misura assistenziale, come ho già scritto numerose volte in altri articoli) che ci fa meritare l’accusa di fannulloni, sia al fatto che le politiche economiche contenute nel contratto sottoscritto da Lega e M5S comporterebbero violazioni di spesa che si riverserebbero sui conti della EU con un danno per l’economia tedesca. In altre parole, questi preclari esempi di giornalismo di disinformazione, dicono ai propri concittadini che a breve, se Lega e M5S vanno al governo, sarebbero costretti a mantenere il nostro tenore di vita che è evidentemente a di sopra delle nostre possibilità.

L’unica reazione adeguata a questo nugolo di nefandezze, di menzogne e di fango è giunta dall’ambasciata italiana a Berlino che ha protestato vivacemente contro queste ignobili accuse. Dall’Italia, invece, i silenzio o quasi.

E vediamo perché a questa accusa, possiamo replicare sostenendo a ragione che gli accusatori tedeschi sono truffatori e falsari.

  1. I) Il debito pubblico italiano è insostenibile e porterà l’Europa comunitaria al fallimento.

Questa accusa è falsa. Uno studio pubblicato in Germania quattro anni fa dalla Fondazione Stiftung Marktwirtschaft, un prestigioso istituto di studi economici diretto dall’economista Bernd Raffelhüschen, molto stimato in Germania e all’estero, ha rilevato che il debito complessivo dell’Italia è di molto inferiore a quello della Germania e degli altri paesi fondatori della Comunità Europea. Per debito complessivo si intende il debito corrente più il  debito implicito, ovvero quel debito che nascerà nei prossimi decenni dalle previsioni di spesa dovute alle scelte correnti di politica economica e previdenziale. Su questa ricerca ho scritto un articolo al quale vi rimando. Per questa ricerca, il debito implicito dell’Italia è il più basso di tutti gli altri paese europei, primo posto che è confermato anche considerando il debito complessivo. La Germania sta al secondo posto con un debito complessivo che supera del 20% circa quello italiano. Quindi è FALSO che i problemi economici della Germania verranno dalle scelte di politica economica italiane, com’è assolutamente falso che gli italiani vivano al di sopra delle proprie possibilità. Sono semmai le scelte della Germania e degli altri paesi europei che porteranno la Comunità europea al fallimento, come si capisce chiaramente guardando la tabella redatta dal prestigioso Istituto economico tedesco. Il problema è quindi il debito a breve, sul quale “i mercati” fanno il prezzo dei titoli di Stato e che costituisce la base dello “spread”, ovvero della differenza di tassi di interesse tra i titoli italiani e quelli tedeschi, che sono presi a pietra di paragone di tutti gli altri stante la sbandierata virtuosità della finanza pubblica tedesca. Se “i mercati” considerassero il debito complessivo, la situazione dovrebbe essere invertita e dovrebbero essere i titoli italiani a fare da base per i tassi di tutti gli altri. E se questo non avviene è perché qui c’è un trucco.

 

  1. II) Lo “Spread” e i trucchi truffaldini di BUBA

Ma come fanno i tedeschi a tenere così bassi gli interessi sui loro titoli di Stato? Con un trucco truffaldino che praticano sin dalla sottoscrizione degli accordi di Maastricht, nonostante l’esplicito divieto contenuto in questo trattato. L’art. 101 comma 1 del trattato vieta espressamente alle Banche centrali nazionali di acquistare titoli di debito del proprio stato all’atto del collocamento, ovviamente per evitare distorsioni nella formazione dei prezzi, con la candida illusione che, in tal modo, il prezzo di collocamento sarebbe stato fatto dal mercato. Questo divieto ha causato, a suo tempo, la crisi di liquidità della Grecia, e vale per tutti i paesi europei tranne che per la Germania. Infatti, quando l’Agenzia per il Debito tedesca mette all’asta sul “primo mercato” i titoli dello Stato tedesco, succede spesso che i tasso di interesse proposto sia di gradimento solo di alcuni acquirenti e che pertanto alcuni stock di titoli restino invenduti. Stando alle regole, a questo punto l’Agenzia dovrebbe alzare il tasso di interesse finché l’intera emissione non fosse assorbita dal “mercato” (e poi vedremo chi sono questi signori del primo mercato), ma in realtà non fa così affatto. Prende i titoli invenduti e li “deposita” presso la BuBa, ovvero la Bundesbank, la banca centrale tedesca che, formalmente, funge solo da depositaria dei titoli invenduti che andrà poi a vendere sul “mercato secondario” in un momento più favorevole. Dato che la BuBa può effettuare acquisti sul mercato secondario, se non trova acquirenti al tasso deciso dalla Agenzia del debito, essa stessa comprerà quei titoli, quel punto, ma solo formalmente, senza violare il trattato di Maastricht, che vieta gli acquisti di titoli sul mercato primario ma non su quello secondario. Con la conseguenza che, in forza di questo trucco truffaldino, la BuBa funge da acquirente di ultima istanza per i titoli tedeschi in palese violazione del trattato di Maastricht. Se volete approfondire l‘argomento leggetevi questo articolo che tratta l’argomento in maniera approfondita. Grazie a questo truffaldino trucco da baraccone, sul quale nessuno governo ha mai detto nulla né Bankitalia e tanto meno la BCE hanno mai sollevato eccezioni, i titoli tedeschi scontano un interesse bassissimo, il più basso possibile deciso politicamente dal governo tedesco, e gli altri paesi europei pagano la differenza tra quello che il “mercato” chiede e il prezzo pagato dai tedeschi. Questa vergogna che va avanti così da circa vent’anni, è la fonte dello “spread”, che viene periodicamente agitato come lo spauracchio per tenere in riga i conti pubblici italiani e mettere paura agli italiani stessi, dicendo falsamente che il mercato è spaventato dal debito pubblico e dai conti del nostro paese. ma vediamo chi sono questi signori del mercato “Primario” che decidono il prezzo che noi dobbiamo pagare sul nostro debito pubblico.

 

III) I signori del mercato primario e quelli del mercato secondario

Se pensate che il mercato dei titoli del debito pubblico sia costituito da milioni di investitori alla ricerca delle migliori opportunità per i loro risparmi, ebbene scordatevelo. Il mercato primario dei titoli pubblici è costituito esclusivamente da alcuni soggetti che sono i soli autorizzati all’acquisto di titoli di stato all’atto del collocamento. Non è ovviamente il mercato finanziario così come ci viene dipinto dagli articoli di giornali corrotti e falsari, insomma non è affatto un mercato, ma un congrega di venti Banche commerciali che sono le uniche ammesse a fare tali acquisti. Le transazioni avvengono per via telematica per ogni Stato un paio di volte al mese. Questi soggetti acquistano i titoli che poi, dopo opportuna maggiorazione di prezzo (giusto qualche decimale di punto) vanno poi a rivendere sul mercato secondario, a quelle altre banche che hanno prenotato o hanno mostrato interesse per l’acquisto dei titoli. Già, perché anche il mercato secondario non è ancora il mercato finanziario, quello al quale possono accedere tutti gli operatori cittadini compresi, ma è anch’esso costituito da una platea più allargata di banche commerciali (circa 120) sufficientemente solide per essere ammesse a questo mercato, oltre che dalle banche centrali dei paesi. Dopo aver esaurito questa corsa, previa opportuna maggiorazione del prezzo, i titoli di stato finiscono finalmente sul mercato finanziario, dove vengono trattati come gli altri strumenti finanziari. Lo “Spread”, quindi, non nasce dal “sentiment” di milioni di investitori (come ci fanno bellamente credere), sui rischi economici e finanziari di un paese, ma dalle decisioni, evidentemente politiche più che economiche, di un pugno di banchieri speculatori. I tedeschi hanno neutralizzato queste decisioni politiche per quello che li riguarda, adottando il trucco che abbiamo visto sopra, ma ovviamente le banche non ci rimettono niente, poiché lo “Spread” comprende anche il minore guadagno che i banchieri hanno sui titoli tedeschi. In altri termini, siamo noi che paghiamo con un incremento dei tassi, le differenze che le banche devono scontare sui titoli tedeschi e che subiamo le decisioni politiche di un pugno di banchieri che a loro volta sono evidentemente e necessariamente influenzati dalle decisioni dei tedeschi, sia sul piano finanziario che su quello politico. Chiaro, o no?

IV I programmi di assistenza pubblica in Germania

I tedeschi ci accusano di essere fannulloni per via della proposta avanzata dal M5S di un programma di assistenza per i disoccupati e di introduzione di un salario minimo vitale. Ebbene, la cosa sconcertante di questa accusa, è che in Germania esiste da tempo un programma del genere, anzi praticamente identico a quello proposto dal 5 Stelle, ovvero il sussidio sociale Hartz IV. Questo sussidio, che attualmente viene erogato a circa sei milioni di persone, supporta in vari modi le persone disoccupate che non riescono a trovare un lavoro. L’agenzia propone alle persone un lavoro e queste devono accettarlo a pena di perdere il sussidio in caso di rifiuto. Si tratta di una misura assistenziale in vigore, da molto tempo, in tutti i paesi europei tranne che in Italia e che i 5 Stelle vogliono introdurre chiamandola inopportunamente reddito di cittadinanza che è in realtà una cosa completamente diversa. Ma a parte questa questione, di cui ho abbondantemente parlato nei miei libri e articoli, e che è la scriminante tra la libertà e la schiavitù, sta di fatto che se il programma è fatto dai tedeschi è una misura doverosa di supporto alle persone meno fortunate, mentre se lo fanno gli italiani si tratta di mantenere fannulloni arroganti e spocchiosi.

Ora che un governo possa mettere alla luce questi trucchi vergognosi e queste truffe, che sono costate finora agli italiani centinaia di miliardi e una crisi senza fine, è evidentemente intollerabile per i padroni del vapore. Non ho molta fiducia nel governo Lega 5 Stelle che, da un punto di vista politico sembra un guazzabuglio indecifrabile, ma dal punto di vista economico il fatto di poter alzare la voce e magari riuscire a tagliare alcuni dei legacci che ci tengono prigionieri è certamente una buona opportunità e Savona mi sembra la persona più indicata, per prestigio, competenza e idee manifestate per farlo.

 

TRE CONSIGLI GRATUITI, di Antonio de Martini ma … PER ANDARE DOVE?, di Pierluigi Fagan

TRE CONSIGLI GRATUITI

( e leggete le tre frasi che scrisse Bovio ai piemontesi che calavano a Roma)

Con la fine del fascismo, nel 1943, si bruciò la classe dirigente monarco-piemontese di origini nobiliari e alto borghesi, che, per durare, si era alleata sul finale con una classe pseudo-militar-borghese sorta dallo scontento provocato dai risultati non ottenuti con i sacrifici della prima guerra mondiale.

Nel secondo dopoguerra, è subentrata la classe dirigente cattolica, allevata dalle organizzazioni ecclesiali nei residui spazi di libertà lasciati dal regime precedente.

La sua indulgenza verso la corruzione – forse stimolata dal sacramento della confessione che ha inculcato il principio che tutto può essere perdonato – l’ha spinta con gli anni a emarginare il fondatore don Sturzo e ogni elemento motivato da afflato etico ed infine a cooptare nell’area del potere – sempre per durare- la classe dirigente alternativa sorta in seno al proletariato, emasculandola. ( nell’ordine: prima i socialisti, poi il sindacato, comunisti e infine persino i fascisti residuali).

Con l’arrivo delle crisi petrolifere che richiedevano competenze estranee alla cultura cattolica, siamo anche andati alla ricerca di una qualche forma di commissariamento affidandoci alla scuola economica sorta dagli uffici studi di Bankitalia. ( Ciampi, Dini, Draghi ).

Poi l’imprenditoria grande e piccola con Berlusconi, De Benedetti e imitatori minori.

Il passaggio dell’affidarsi alla magistratura e ai cosiddetti ” professori” è stato il più recente tentativo e di gran lunga il peggiore.( da Di Pietro a Monti a Grasso).

Con questo ultimo tentativo di ieri, abbiamo fatto ricorso ai borghesi piccoli piccoli di Monicelliana memoria.
Lo scontento per i risultati non ottenuti coi sacrifici del decennio scorso è stato il motore della nuova ondata.

Permeata di buon senso pratico, questa nuova ondata di governanti si è presentata con un fritto misto in cui sono rappresentate schegge di tutte le precedenti esperienze.

Questo fenomeno inusitato, ha provocato un moto di sorpresa che ha, in qualche senso, placato la pubblica opinione che ha visto con favore il cadere di alcuni steccati ideologici, sociali e di età che avevano condizionato le precedenti esperienze di selezione.

C’è una sola certezza: porteranno al vertice istanze e i malumori popolari dato che provengono dagli strati più bassi della popolazione.

Che riescano a dominare la situazione, identificare e risolvere i problemi, è tutto un altro argomento e dipenderà in larga parte dalla insensibilità al fascino dell’arricchimento personale.

Ai nuovi arrivati, tre consigli: evitate di farvi cooptare dalle vecchie classi dirigenti. Se fossero stati bravi, non sareste dove siete.
Guardatevi dalla arroganza e circondatevi di individui competenti, sostituendoli senza pietà al minimo sospetto di mala fede.

Se comincerete con udienze papali e cene nelle terrazze romane, finirete molto peggio di coloro che state sostituendo perché sarete giudicati usurpatori.

Abbiamo tutti una sola speranza. Fare peggio dei predecessori è praticamente impossibile.
Dimostratecelo.

PER ANDARE DOVE DOBBIAMO ANDARE, PER DOVE DOBBIAMO ANDARE?

Negli spostamenti progressivi della inquadratura del “problema”, stiamo piano-piano scoprendo che nel mondo grande e terribile (Gramsci), ci sono almeno due variabili di cui tenere conto. Lo si vede nelle oscillazioni tra economisti e geopolitici, entrambi -diciamo così- “critici”.

I primi giustamente intenzionati ad alzare il livello di frizione con la Germania, a costo di far finta di non vedere l’interessata amicizia americana (e britannica) sempre pronta col divide et impera a rompere la sfera di potenza tedesca che è l’euro-UE ed usarci così per giochi geopolitici. I secondi giustamente allarmati dal fatto che scappar da Berlino per mettersi nella mani di Washington, fa un po’ trama di film di Romero tipo “La notte dei morti viventi”, lì dove scappi da uno zombie per finire in braccio a quello che pensi un amico e che poi si rivela un mostro ben peggiore del primo.

Il punto è la sovranità. Non quella elementare e spezzettata nei vetri triangolari del caleidoscopio della nostra immagine di mondo che o parla di economia o parla di geopolitica, ma quella che riunisce in sé l’economia, la geopolitica, la cultura, la demografia ed ogni altro aspetto del tutt’uno di cui è fatta una società: la sovranità politica. Abbiamo scoperto che non abbiamo sovranità economica ma se è per questo non l’abbiamo neanche militare e tasse ed esercito sono i presupposti per fare Stato, quindi non abbiamo sovranità politica o quantomeno ne abbiamo una molto debole.

La cosa non solo dovrebbe preoccuparci per il senso di minorità oggettiva che ciò comporta, cosa di per sé grave, ma anche per il fatto che se invece che dal presente andare al passato (ah, non dovevamo firmare Maastricht, ah non dovevamo diventare una colonia americana dal dopoguerra in poi) andiamo al futuro, il nuovo mondo denso, complesso e multipolare con 10 miliardi di individui, darà carte da gioco viepiù peggiori tanto meno “potenza” (in senso completo, quindi politico come somma di tutti gli altri aspetti) si avrà. Lo studio PWC The Long View prevede che, nel 2050, noi italiani saremo la 21° economia la mondo. Va un po’ meglio ai francesi (12°) ma non tanto da potersi ancora definire una potenza e difendere il seggio al Consiglio di Sicurezza ONU, ma va anche peggio a gli spagnoli (26°), per non parlare di greci e portoghesi.

Servirebbe allora un piano, non solo un Piano B tattico per districarci nei rapporti di forza all’interno della gabbia del sistema euro-UE, ma un piano forte per districarci all’interno dell’affollato cortile-mondo di cui diventeremo una frazione trascurabile che sulla sovranità potrà al massimo scrivere libricini lamentosi su quanto era bello quando c’era Giulio Cesare o il Rinascimento, lira più o lira meno.

Trattandosi di un problema non semplice, mi dispiace non potervi offrire soluzioni a slogan facili, immediati, intuitivi e confortanti. Così è quando si deve passare dalla tattica alla strategia, dall’oggi alla prospettiva, dalla mono-variabile al gomitolo di variabili intrecciate tipi fili delle cuffiette dell’I-pod che sembrano studiate apposta per intrecciarsi tra loro (intrecciate-plexus, assieme-cum = cum-plexus).

In breve, sembrerebbe consigliabile cominciare a prendere in serio esame il fatto che c’è un unico modo di scavallare il problema del nanismo delle tanti parti, cominciare a pensare di metterci assieme per fare un totale maggiore della somma delle parti.

Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia, siamo 200 milioni e saremmo la terza economia del mondo, il bilanciere perno tra USA e Cina, l’arbitro giocatore del mondo multipolare. Avremmo atout non disprezzabili in molti campi produttivi e finalmente potremmo fare investimenti di ricerca significativi per darci un futuro. Avremmo l’atomica ma anche tanto soft power ed anche il papa di una credenza che scalda i cuori di 2 miliardi di con-terranei. Potremmo lanciare una Dottrina Monroe su Mediterraneo ed Africa e fare affari con i parlanti ispano-portoghesi del Sud e Centro America. Anche a quelli del Vicino Oriente potremmo dare qualche bacchettata per farli smettere di incasinarci la vita ogni tre per due. Amici di tutti ma servi di nessuno. Sovrani sì ed anche eccitati del poter decidere in autonomia finalmente un bel mucchio di cose. Con quel sistema politico anticamente fondato dagli amici greci che i cugini anglosassoni hanno trasformato in un nobile paravento dietro a cui si fanno i più sporchi affari (loro hanno fatto “società” secoli fa e con molta fatica, solo per quello, per fare affari, è la loro antropologia).

Utopia è il non luogo [οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”)], chissà mai se potrà esistere, quando, a quali condizioni questa idea. Sta di fatto che se non hai una meta nel cammino, come fai a capire verso cosa stai camminando? A meno non preferiate rimanere nel flipper dell’indecidibile a rimbalzare tra “ma in fondo la Merkel è meglio di Trump” o mettere like nella pagina degli “amici di Putin” o rivalutare la simpatica sbruffoneria stelle e strisce o la massoneria britannica (lei sì che sa “costruire il mondo”) o iscrivervi ad un corso di mandarino. Fate voi

Post-democrazia e crisi italiana: Mattarella e il “governo del cambiamento”, di Alessandro Visalli

Tratto dal blog https://tempofertile.blogspot.com/

Post-democrazia e crisi italiana: Mattarella e il “governo del cambiamento”.

Il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha oggi chiuso una lunga crisi istituzionale con una decisione drastica che fa fare alla crisi politica italiana un salto di qualità di enormi proporzioni.

È davvero difficile immaginare come la crisi istituzionale evolverà: probabilmente avremo un presidente del consiglio incaricato del tutto privo di legittimazione elettorale, direttamente designato dal Presidente della Repubblica con la quasi certezza che non potrà avere i necessari voti di fiducia; quindi questi, dopo rituali consultazioni e il probabile appoggio del PD e FI (magari di LeU), formerà la sua lista dei ministri e probabilmente giurerà. A questo punto un governo senza appoggio politico adeguato in Parlamento (un “governo di minoranza”, si dice, ma senza l’astensione delle altre forze) andrà a chiedere la fiducia e non la otterrà. Il Presidente potrebbe o dovrebbe nominare un altro presidente per verificare se c’è un’altra maggioranza, ma lui sa già che c’è. Dunque lo farà entrare in esercizio e si riserverà di sciogliere le camere, io credo.

Di qui il terreno si farà ancora più scivoloso, perché un governo senza alcuna legittimazione elettorale, di minoranza, ma contro una maggioranza politica alla quale è stato impedito di esprimere un suo governo, si troverà a prendere decisioni di grandissimo momento in Europa e in Italia. Proverà, magari, ad arrivare alla legge finanziaria di fine anno, quindi non sciogliendo un Parlamento ostile che gli boccerà aspramente tutte le leggi che passano. Questo governo si esprimerà solo attraverso decretazioni di urgenza.

Ma la crisi politica è più grave della crisi istituzionale.

Già da tempo, in tutto l’occidente, è in corso un riorientamento degli assi politici dal tradizione asse sinistra/destra, che appare ai più sempre più obsoleto, ad un asse élite/popolo la cui definizione è oggetto dei più aspri scontri. Questo riorientamento ha visto nelle elezioni di marzo italiane un enorme acceleratore e contemporaneamente una plastica rappresentazione. Per la prima volta da decenni la maggioranza dei votanti (sia pure di misura) ha garantito consenso a Partiti contrari all’establishment percepito (ovvero ai duellanti della seconda Repubblica: PD e FI).

Spinge questa crisi un insieme di fattori economici, tecnologici e sociali che rendono instabili e altamente confusi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni. Come avevamo già scritto, probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.

Ma certamente in questa crisi viene rimesso in questione, e sempre più profondamente, anche se incoerentemente l’assetto soffocante per troppi che aveva trovato forma dalle ‘riforme’ avviate negli anni ottanta e poi rinforzate con una piega imperiale (e neocoloniale) negli anni novanta. Questa è la dimensione di crisi della politica, ovvero di una democrazia politica incapace da tempo di svolgere la propria funzione di ottenere giustizia per i più deboli (i forti se la ottengono da sé). Precisamente per coloro che sono deboli a causa della posizione strutturale in cui si ritrovano nel sistema globale dei rapporti produttivi e quindi nell’accesso alle risorse che questi consentono (risorse economiche, sociali, culturali e quindi anche politiche).

Nel corso degli anni ottanta, e poi novanta, c’è stata una inavvertita rotazione dell’asse istituzionale: da orientato ad un compromesso, premessa di pace sociale e lealtà, si è trovato ad essere indirizzato a proteggere i profitti e le rendite. Tutto il sistema istituzionale contro il quale si è espresso il voto di marzo, anche quando non se ne accorge, vede il mondo dal punto di vista di chi ottiene i profitti e di chi detiene i risparmi (ovvero i capitali) e ne vuole trarre rendite. Ovvero di chi dispone del denaro nella forma del capitale (poco o tanto) e ‘compra’ lavoro. Il lavoro, peraltro, è inquadrato essenzialmente come una merce come ogni altra, della quale fare economia, da ridurre al suo minor prezzo. Dimenticando, tra le altre cose, che è il lavoro che consente di comprare le altre merci, di dare il loro valore. Lo sguardo miope del capitale scava sotto le proprie fondamenta.

Nel 2003 tutto questo viene messo sotto accusa da un fortunato libro del politologo Colin Crouch: “Postdemocrazia”. La crescente influenza di sempre più piccole lobbies economiche e di élite politiche sempre più autoreferenti ed il riferimento costante alla capacità di azione libera degli agenti, ma anche il sistematico depotenziamento del sistema di regole volto ad impedire che il mero potere economico si traduca in politico produce una forma politica nella quale si comincia ad andare oltre l’idea del governo del popolo. Ovvero oltre la sovranità popolare.

Ascoltiamo ora il discorso di Mattarella.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=3&v=tx4TEKC6ni4

Ne riprendo alcuni stralci:

Come del resto è mio dovere” … “avevo fatto presente che per alcuni ministeri avrei esercitato un’attenzione particolarmente ampia sulle scelte da compiere”. Infatti, “il Presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia”.

Fin qui si può dire poco, ma subito continua:

la designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto per quel ministero un autorevole esponente politico di maggioranza, coerente con l’accordo di programma, un esponente che, al di là della stima e della considerazione della persona non sia visto come portatore di una linea più volte manifestata che possa portare probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’Euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso nell’ambio della UE dal punto di vista italiano”.

Il Presidente della Repubblica, nella non rituale ma essenziale presentazione alla sfera pubblica delle ragioni per le quali ha inteso respingere la lista dei Ministri che ai sensi della costituzione il Presidente del Consiglio incaricato, nell’esercizio delle sue prerogative, gli aveva sottoposto per la ratifica, porta un solo argomento: può allarmare gli operatori economici e finanziari.

Di per sé potrebbe anche non essere trovato gravissimo se il Presidente della Repubblica, che, come dice la Costituzione “nomina i ministri” su “proposta” del Presidente del Consiglio, come in altri casi è successo, avesse solo consigliato di cambiare un nome. Ma di fronte all’irrigidimento del Presidente incaricato, pienamente appoggiato dalle forze politiche che hanno la maggioranza in Parlamento, avendo vinto le elezioni su chiaro mandato, e considerando le conseguenze su cui ci siamo soffermati in avvio, è grave e pericoloso decida di procedere alla rottura. Bocciano quindi un “Governo del cambiamento” che aveva il certificato consenso della maggioranza del paese.

Scrive Habermas nel 1990 in “La rivoluzione recuperante” (in ‘La rivoluzione in corso’, p.197): il problema lasciato dal crollo del sistema del socialismo reale, e delle sue speranze di governo amministrativo, può essere affrontato attraverso un “contenimento protettivo” ed una “guida indiretta” della crescita capitalistica. Un problema che può trovare soluzione “solo in un nuovo rapporto tra sfere pubbliche autonome da un lato e campi di azione mediati dal denaro e dal potere amministrativo dall’altro”. Il potere sovrano, “connotato in senso comunicativo”, si deve a questo punto (almeno) far sentire attraverso la capacità di influire senza intenti egemonici sulle premesse dei processi di valutazione e di decisione dell’amministrazione. Insomma, il potere comunicativo “gestisce il pool di motivazioni con cui il potere amministrativo può operare in modo strumentale ma che non può ignorare nella misura in cui si richiama allo stato di diritto”.

L’unica ragione di non allarmare gli operatori economici, quando a fronte di questa considerazione, pur dotata di una sua qualche forza, c’è l’enormità di mandare inespressa la volontà sovrana appena manifestata dagli elettori, non credo proprio passi il test di Habermas.

Continua il Presidente:

l’incertezza sulla nostra posizione sull’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatosi, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di stato, italiani e stranieri. L’impennata dello spred, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi ha investito, e configurano rischi concreti per i risparmi le nostre famiglie e per i cittadini italiani, con pericoli per gli interessi per i mutui e per le aziende. In tanti ricordiamo come prima dell’unione europea gli interessi bancari sfioravano il 20%”.

In questa compatta spiegazione, che funge da esplicazione dell’allarme degli operatori, si trovano diverse affermazioni di fatto e l’esplicazione di diversi meccanismi tecnici causali di cui si chiede implicitamente la correttezza:

  1. l’allarme è ricondotto, tra i molti possibili fattori (non ultimo la vittoria di forze inattese e mai provate), alla sola posizione sull’euro;
  2. l’impennata dello spread (peraltro già molte volte verificatasi e sempre ricondotta) è accusata di “aumentare il debito pubblico” e di “ridurre la capacità di spesa dello Stato”, questa relazione causale sarebbe possibile se lo spread restasse alto a lungo, trascinandosi sui tassi e quindi impattando nel tempo sul servizio del debito che va alimentato da risorse fiscali. Ma sarebbe possibile che nel caso temuto di uscita dall’Euro questi effetti possano essere neutralizzati, ma non senza costi, da una nuova Banca d’Italia sotto controllo del Tesoro (ovvero revocando la più strutturale delle riforme degli anni ottanta, che ha generato il debito);
  3. allargando il discorso si passa alle oscillazioni delle quotazioni della borsa, qualificate come “perdite” (quando sono solo valori nominali che si determinano in perdite per qualcuno e guadagno per qualcun altro solo se sono vendute) e che addirittura, con linguaggio giornalistico fuorviante in bocca ad un Presidente che sta svolgendo l’alto ufficio di fornire motivazioni alla sfera pubblica politica su una decisione così grave, vengono descritte attraverso la metafora del “bruciare”;
  4. Allargando ancora queste perdite potenziali si potrebbero riverberare, in un successivo anello, addirittura in “rischi concreti” per i risparmi delle famiglie e in innalzamenti dei tassi di mutui ed aziende (evidentemente in caso di crisi generalizzata);
  5. Da ultimo viene ricordato che gli interessi bancari senza euro erano al 20% (ma questo accadeva quando l’inflazione era alta quasi altrettanto e dunque gli interessi reali erano bassi come ora, o comunque vicini).

Insomma, il Presidente ha esercitato un crescendo retorico il cui vero obiettivo era illustrare i rischi che immagina per l’uscita dall’Euro.

Ma il ministro in pectore non minacciava affatto l’uscita, intendeva solo assumere una posizione forte di tipo negoziale (impossibile se ci si preclude in via definitiva il piano “B”).

La chiusa è interessante:

È mio dovere nello svolgere il compito di nomina dei ministri che mi affida la costituzione essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani. In questo modo si riafferma concretamente la sovranità italiana, mentre vanno respinte al mittente inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia.” … “Quella dell’adesione all’euro è una scelta di importanza fondamentale per le prospettive del nostro paese e dei nostri giovani, se si vuole discutere va fatto apertamente e con il necessario approfondimento, anche perché non è stato al centro della recente campagna elettorale”.

È dovere del Presidente essere attento alla tutela dei capitali (ovvero dei “risparmi”), in questo poggia la sovranità italiana.

Facciamo un passo indietro: scrive Guido Carli nel 1993 che quello che chiama “il significato sociale e politico del debito pubblico”, a causa della sua ‘capillare diffusione nel pubblico’ (ovvero, vale la pena ricordarlo subito, nella media e alta borghesia), ipocritamente attribuito anche agli strati sociali meno abbienti (come se avere, eventualmente, uno o due bot sia la stessa cosa di averne migliaia), è che questo viene trasformato nella democrazia stessa. Dice, infatti, Carli: “la sintesi politica di tutto ciò è evidente: il permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (in ‘Cinquant’anni di vita italiana’, p.387). Ne segue, incredibilmente, che per Carli “chi mira ad intaccare quella fiducia, quella libera scelta, mira in ultima analisi ad interrompere la continuità democratica”. Infatti il debito pubblico è niente di meno che la connessione delle “famiglie”, ed “intima”, con il “grande” ed “efficiente” (due parole che non possono certo essere sottovalutate nella loro potenza simbolica) “mercato”. Il debito pubblico, continua Carli, è il tramite della scelta culturale dell’apertura delle frontiere.

A chi propone (all’epoca Visentini) forme di ristrutturazione forzosa (che oggi sarebbe implicita in una fuoriuscita dalla gabbia europea, ma anche in una sua forte messa in discussione, attraverso operazioni di “monetizzazione”), Carli risponde che “oggi le strade della coercizione finanziaria sono precluse a qualsiasi classe dirigente che non voglia far correre al Paese antistoriche avventure autoritarie”. Insomma, risponde che al debito non si può sfuggire, e nemmeno si deve.

In conseguenza di ciò, e dell’apertura dei mercati, “non è più possibile tornare indietro”. Come dice espressamente: “il Trattato di Maastricht è incompatibile con l’idea stessa della ‘programmazione economica’. Ad essa si vengono a sostituire la politica dei redditi, la stabilità della moneta e il principio del pareggio di bilancio” (p.389).

Il Banchiere che altrove dice apertamente “io stavo dalla parte dei capitalisti” nei conflitti distributivi, (p.269) e che ha rappresentato l’Italia nel negoziato di Maastricht, mostra, cioè, in modo del tutto chiaro chi è il sovrano.

Il sovrano è chi decide, e sono i risparmiatori, ovvero i detentori dei capitali e quindi dei debiti.

Oggi ne abbiamo avuta un’altra prova: a fronte di due forze politiche che non apprezzo, ma che hanno la maggioranza sia in Parlamento sia nei voti degli italiani, e che proponevano attraverso la corretta procedura un ministro sgradito perché foriero di mettere in questione il debito, il Presidente ha argomentato il suo rifiuto proprio in questi termini. Ha sostenuto che la scelta avrebbe danneggiato i risparmi e spaventato i mercati.

Dunque non sono sovrani i cittadini attraverso la procedura del voto (ovvero attraverso l’esercizio di quel suffragio universale, sostituitosi nel corso del novecento al voto limitato a chi dispone di capitale), ma i risparmiatori e il loro oracolo: i “mercati”.

In effetti “post-democrazia”, da oggi, è termine modesto. Bisognerà riflettere bene su questo passaggio epocale: di nuovo l’Italia apre la strada.

POT POURRI PRESIDENZIALI, di Antonio de Martini e Roberto Buffagni

ROBERTO BUFFAGNI

Mattarella e chi lo consiglia non hanno capito la cosa essenziale: che il ferro di legno Ue funziona solo se nessuno lo sottopone mai a esame chimico (“E’ ferro? E’ legno? Che caspita è?”). E invece di stendere il mantello di Noè sulle vergogne del Padre Euro, questa moneta senza Stato di uno Stato che fa finta di esistere e per trent’anni aveva dignitosamente retto l’onerosa impostura, il Presidente della Repubblica (quale? italiana? europea? francofortese?dell’Isola Che Non C’è?) ha illuminato con un riflettore da tremila il Re, e, sorpresa! Il Re non è neanche nudo (per essere nudi bisogna esistere), il Re proprio non esiste! Non ha lo scettro del comando, perchè può dire solo di no; non ha la corona, perchè nessuno l’ha incoronato; non ha la giustizia, perchè dove sono i suoi magistrati, dove la sua polizia, dove le sue prigioni, dove il suo codice europeo; non ha la forza, perchè dov’è il suo esercito? Il Re UE è il Re del Regno di Domani, il Domani In Cui Si Fa Credito (ma oggi solo Debito), il Domani in cui Alle Menschen Werden Bruder (ma intanto vengono trattati come cosi superflui, pagati da schifo, sbeffeggiati da signorini che gli fanno anche la morale).
Nei primi tempi beati della rivoluzione sansa larmes, in servizio d’ordine alle Tuileries, il tenente Bonaparte guardava il povero Luigi XVI, che sul balcone, salutato dalla folla osannante, sorrideva e calzava il berretto frigio. Il tenente Bonaparte commentò, in italiano: “Che coglione!”

 

ANTONIO de MARTINI

SEGRETI E SEGRETARI, UCCELLI RARI.

“Assegnare alla BCE le funzioni svolte dalle principali banche centrali del mondo per perseguire il duplice obiettivo della stabilità”

Paolo Savona oggi alle 13.32 ( vedi post precedente)

Attualmente la Banca Centrale Europea ha come unica missione quella di mantenere stabili i prezzi.
Dire ” assegnare le funzioni che hanno le principali banche centrali del mondo” significa attribuire alla BCE il potere di manovrare la moneta ( leggi svalutare) oltre che di sorvegliare i prezzi, funzione unica a cui è ingabbiata oggi.

Ovvio che la dichiarazione, incautamente fatta dai nuovi capi, di 250 miliardi di sconto significava chiedere una svalutazione del 10% dell’Euro che avrebbe alleggerito e riequilibrato il debito e svalutati i crediti di Francia e Germania verso Italia, Grecia e tutti gli altri paesi della UE. Il dollaro si sarebbe rafforzato…

Sarebbe bastato cambiare un solo articolo dello Statuto della BCE senza stravolgere i trattati.
Probabilmente Draghi sarebbe stato dalla sua parte.

Ovvio che tedeschi e francesi si siano infuriati. Macron ha telefonato a Conte per conferma, magari indiretta, e il coglione ha fatto chicchiricchì.

L’arte del governo richiede negoziati silenti e non fornire preziose anteprime agli interessati.

La fica in mano ai ragazzini dicono a Napoli.
Di Maio, quasi napoletano, avrebbe dovuto ricordarsene, se non fosse un ragazzino.

Bertoldo-Salvini ha invece indicato l’albero cui essere impiccato. Altra bambinata.
Conte si accontenterà di mettere nel curriculum ” ex primo ministro”.

A F…. ‘N MANO ‘E CRIATURE

Ma se nominassero ministro dell’Economia Teresina dei Baracconi, questa prenderebbe Savona come vice capo di gabinetto e realizzerebbe i lavori mentre Teresina resta ai Baracconi per godersi le ferie.

Quindi il problema non sono le idee di Savona.

Hanno fatto giocare i ragazzini per evitare le elezioni a breve termine e far decantare la situazione. Hanno fatto i capricci, come previsto, e faranno saltare tutto.

La scusa ufficiale di stasera è surreale.

Il Presidente della Repubblica teme che i partiti realizzino quel che avevano promesso di fare in campagna elettorale.

Intanto rinnovano i vertici RAI – blindano il controllo- e le elezioni nazionali si faranno dopo le elezioni europee del 2019. Forse.

IL SOLO MARGINE CHE RESTA È CHIEDERE L’INCARICO PER SAVONA.

Valmy 2.0: Hybris & Nemesis, di Roberto Buffagni

 

Valmy 2.0: Hybris & Nemesis

 

Brutte cose e pericolose, l’arroganza e la supponenza. Ponendo il suo veto prima su Sapelli, poi su Savona, Mattarella ha spostato il centro del dibattito sulla legittimità. I ricami giuridici sulle prerogative del Presidente della Repubblica contano molto poco. Conta invece moltissimo la fonte della legittimazione di chi decide in quello che è divenuto uno “stato d’eccezione crepuscolare”. Se decide il Presidente della Repubblica, che in sostanza ha motivato i sui veti con la fedeltà alla UE, la fonte della legittimazione è la UE; se decidono i due partiti di maggioranza, la fonte della legittimazione è il popolo italiano, che esprime la sua sovranità con il voto a suffragio universale.

Ora, chi decide nello stato d’eccezione è il sovrano; e il difetto fondamentale della UE è proprio la mancanza di legittimazione in ordine all’unico principio legittimante valido nell’odierna  modernità: la sovranità popolare. Inevitabile quindi lo scontro istituzionale di principio, perché se Salvini cede, riconosce come fonte della legittimazione l’entità sovrannazionale non legittimata per via democratica della UE, e si suicida politicamente; se cede Mattarella, riconosce che la sovranità popolare espressa dal voto è sovraordinata alla UE, della quale si è sbadatamente autoeletto a rappresentante: e si suicida politicamente.

Se, come pare mentre scrivo, Salvini tien fermo sulle sue posizioni, forse Mattarella troverà una scappatoia dal vicolo cieco in cui si è infilato, e perderà soltanto mezza faccia. Per esempio, in una dichiarazione pubblica di Savona che ribadisca quanto è già perfettamente noto, e cioè che egli non vuole appiccare il fuoco a palazzo Berlaymont, ma semplicemente trattare con le istituzioni UE senza escludere in linea di principio la possibilità di rompere la trattativa, presupposto indispensabile in qualsiasi controversia, se non ci si vuole autosconfiggere ancor prima di aprire i negoziati.

Ma il danno, ormai, è fatto. Sono emerse in piena luce le tre questioni essenziali:

1) che la linea principale del conflitto politico oggi in corso verte sulla UE, e che tutti gli altri conflitti politici, sociali, economici, si subordinano ad esso

2) che la UE è un ferro di legno politico, perché rende l’omaggio ipocrita del vizio alla virtù alla legittimazione popolare, ma pretende di esservi sovraordinata senza possederla; che implementa questa pretesa con l’inganno e con il ricatto, ma non può implementarla con la forza: per riprendere un celebre detto cinese, che “la UE è una tigre di carta”

3) che le classi dirigenti proUE italiane si autocomprendono come accomandatari della UE e non del popolo italiano, e avendola passata liscia per più di vent’anni, la loro reazione irriflessa di fronte a una  sfida sul punto essenziale della legittimità è la hybris, l’arroganza supponente di chi neppure è sfiorato dal pensiero che gli si possa resistere.

Come ci insegnavano al ginnasio le nostre temibili, benemerite professoresse di greco, la hybris richiama su di sé la Nemesis. Avvenne anche, duecentotrent’anni fa, a Valmy. Un esercito di coscritti a cui la dirigenza rivoluzionaria plebea aveva appena messo in mano un fucile fronteggiò le armate di professionisti della guerra delle potenze europee dell’Ancien Régime. La battaglia, di fatto, non si combatté sul serio. Qualche scambio di artiglieria, qualche scaramuccia: niente di che, sul piano strettamente militare. Ma sul piano politico e simbolico, uno spartiacque epocale: i coscritti plebei, i falegnami, operai, avvocati, domestici che reggevano in mano un fucile senza saperlo maneggiare non erano scappati davanti agli splendidi reparti di guerrieri guidati ai principi. E chi non ha più paura, smette di essere un servo.

nb. articolo collegato http://italiaeilmondo.com/2018/05/26/mane-tekel-fares-di-antonio-de-martini/

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