Fight or flight (una parabola psicologica), di Andrea Zhok

Fight or flight (una parabola psicologica)

Pubblicato il 9 novembre 2021 alle 08:32

Capita di incrociare persone, tra quelle fermamente favorevoli al pacchetto governativo Vaccinazione Universale + Green Pass, che manifestano un autentico stupore per la persistenza della protesta. Sembra che non si capacitino. Spesso si affaticano persino ad escogitare esotiche psichiatrizzazioni di quella che a loro appare come un’incomprensibile ‘deviazione’. Perché ai loro occhi nulla di razionale potrebbe giustificare un tale testardo comportamento ostativo.

Quando questi incontri capitano a me l’unica opzione rimasta è un rapido allontanamento. Questo perché comprendo di avere una reazione simmetrica ed opposta: ho l’impressione di essere in qualcosa come la taverna di Star Wars, tra bizzarri alieni polimorfi, o tra Visitors, gente che tra un sorriso e l’altro potrebbe ingollare un ratto vivo pulendosi col tovagliolo e proseguire come nulla fosse. Il senso di completa incomprensione è straniante, il senso di potenziale conflitto è inquietante e alienante.

Ora, però per amore dell’ottimismo della volontà, voglio provar a superare questa reazione epidermica e tentar di fornire un lato da cui, forse, avvicinare alla controparte almeno l’aspetto psicologico di quella resistenza così incomprensibile. (Sull’aspetto concreto, argomentativo, credo non ci sia più niente da aggiungere: chi era disposto a capire ha capito.)

Mi interessa in particolare far capire una cosa, che temo non sia compresa, e che se non compresa condurrà in un vicolo cieco dai risvolti drammatici: Chi fa resistenza ora alla strategia governativa Vaccinazione Indiscriminata + Green Pass non mollerà mai. Non mollerà mai non per simpatia con qualche slogan, ma per ragioni psicologiche fondamentali. Non mollerà neppure se dovesse essere costretto con un fucile spianato ad obbedire. Continuerà con tutte le proprie risorse e in ogni modo a resistere a questa spinta.

Perché? Non per ragioni “psichiatriche”, ma per ragioni psicologiche cruciali.

Provo a spiegarmi con una storiella, una sorta di parabola o similitudine.

Immaginiamo che stiate passeggiando in solitudine per una strada urbana sconosciuta: carcavate la piazza centrale del paese e vi siete persi.

Vi si fa incontro un poliziotto che vi sorride, vi dice di non preoccuparvi e vi chiede di seguirlo.

Il poliziotto vi indica un vicolo laterale e vi dice di entrare. Garantisce che la piazza è vicinissima, proprio lì dietro, e che neanche immaginate quanto sia bella.

Abituati a dare fiducia all’autorità costituita, girate l’angolo.

Però dietro l’angolo c’è un lungo vicolo buio, pieno di pozzanghere, mefitico. Sulla destra compare un cartello arrugginito con una freccia e la scritta: “Alla vecchia discarica”.

Vi girate con aria interrogativa.

Il poliziotto svelle il cartello lanciandolo a terra, sorride e vi rassicura: “Non si faccia scoraggiare. Sono vecchi segnali senza valore. La piazza non è subito visibile, bisogna andare in fondo e girare l’angolo.”

Voi cominciate a sentirvi un po’ a disagio, ma in fondo siete nelle mani della forza pubblica, e a cos’altro di più autorevole vi potreste appellare? E perciò date fiducia e proseguite.

Alla prima svolta il vicolo appare ancora più tetro, la stradina si stringe, compare qualche sorcio e si intravede un tunnel. Sopra il tunnel c’è un cartello che segnala “Zona pericolante.”

Vi girate di nuovo chiedendo se è proprio sicuro che sia questa la strada. Il poliziotto vi guarda con aria rassicurante e bonaria, stacca dal muro il cartello, lo mette sotto i piedi, e vi garantisce che è così, basta entrare nel tunnel e arrivare alla prossima svolta. Mica vorrete credere a queste scritte, che chissà chi le ha messe? E non vorrete mica mettere in dubbio la sua parola?

E così entrate nel tunnel e camminate ancora, inzaccherandovi e turandovi il naso, fino ad arrivare alla successiva svolta.

Ora il tunnel si restringe, e si abbassa fino a costringervi ad abbassare il capo, venite accolti da una zaffata di odore di muffa, buio pesto, fanghiglia, lamiere cigolanti e in primo piano campeggia il cadavere di un gatto.

A questo punto puntate i piedi, dicendo di non essere più sicuri di voler continuare.

Ma ora la mano del poliziotto vi prende per il braccio e comincia a spingervi; non ride più: “Beh? Guardi, mica ho tutto il giorno da perdere! Perché si ferma? Non siamo arrivati. Guardi, sono stato gentile finora, però veda di continuare perché altrimenti mi costringe a smettere con le buone maniere.”

Ecco, a questo punto voi non sapete davvero cosa sta succedendo.

Potete fare congetture, ma non lo sapete.

Però, sicuro come la morte, siete tesi come una corda di violino e non credete più ad una parola del poliziotto. Non sapete che intenzioni abbia, ma non volete aspettare a scoprirlo. Non siete neppure più certi che sia davvero un poliziotto. Quel che sapete è che avete alle spalle un energumeno armato, che ha usato il credito della divisa per portarvi in un luogo dove non volevate andare, che vi ha messo in condizioni di non poter chiedere aiuto, che vi ha raccontato storie prive di riscontro, che ha sminuito qualunque segnale di allarme, e che di fronte alla vostra resistenza è passato a spingervi e a minacciare l’uso della forza.

E a questo punto, in quanto esseri umani eredi di istinti cui si deve l’essere arrivati fino ad oggi, entrate in modalità bellica: “Qualunque cosa questo tomo voglia, ora l’unica cosa che conta è sfuggirgli e trovare il modo di tornare indietro.” Da questo momento in poi ogni cosa che il poliziotto dirà saranno suoni vuoti, in cui risiede un inganno latente; ogni movimento che farà, sarà solo parte di una minaccia incombente, minaccia di qualcosa di tanto più spaventoso in quanto ignoto. E ad una pressione ulteriore non sapete come potreste reagire, perché ora tutto è permesso.

—–

Ecco, la similitudine spero risulti esplicativa.

Il poliziotto è il governo. Dall’inizio della vicenda ha tutti i mezzi e tutta l’autorità per condurvi dove vuole. Vi promette di condurvi in salvo, purché facciate come dice. E voi inizialmente gli date fiducia e lo seguite, perché dopo tutto è lì che risiede l’autorità.

Però svolta dopo svolta, tunnel dopo tunnel, cominciate prima a chiedervi se sappia quello che fa; e poi a temere che sappia quello che fa, e che non sia neanche di striscio nel vostro interesse. Ad ogni menzogna, ad ogni mancata meta, ad ogni inganno “a fin di bene”, la fiducia in quel che viene affermato si assottiglia. E nel momento in cui ai sorrisi e alla persuasione subentra la coazione e la minaccia, a questo punto, il dubbio sulle buone intenzioni è diventato certezza di cattive intenzioni.

Che non si sappia dare un chiaro volto a quelle cattive intenzioni non ha nessuna importanza: in passato i nostri antenati non hanno aspettato di vedere se il leone avesse davvero fame per scappare; e se avessero avuto quello scrupolo non saremmo qui a raccontarlo.

E così, il governo e il CTS hanno raccontato corbellerie o fandonie, ripetutamente.

Hanno sbagliato nel determinare quel che serviva per contenere la pandemia (dalle mascherine all’aperto, al divieto di uscire di casa, alle multe ai runner, al protocollo “tachipirina e vigile attesa”, ecc.).

Ma si era all’inizio. Esistono gli errori in buona fede.

Poi però hanno manipolato le comunicazioni sui decessi a seconda della bisogna, minimizzando quando serviva minimizzare, esacerbando il terrore quando serviva altro.

E qui un po’ la diffidenza cresce, però, chissà, magari erano “distorsioni a fin di bene”.

Ma poi hanno detto il falso sull’immunità di gregge (su cosa serviva per raggiungerla, e se era possibile raggiungerla). Hanno detto il falso sulla sicurezza dei preparati da inoculare, dando garanzie assolute che non erano in grado di dare e che sono state smentite al prezzo di lesioni personali e vite umane. Hanno detto il falso sull’efficacia e durata dei medesimi preparati, cambiando versioni almeno quattro volte. Hanno detto il falso su chi sarebbe stato contagioso e chi no. Hanno detto il falso sull’inesistenza di terapie disponibili, ecc. ecc.

E al tempo stesso hanno bloccato e rimosso tutti i “cartelli di ammonimento”: hanno fatto di radio e tv un’unica voce con una stessa narrazione, hanno bloccato, censurato o negato tutte le fonti di informazione alternative, anche le più autorevoli; quando non è stato possibile bloccarle, le hanno screditate, attaccate, minacciate di radiazione, ecc.

E poi hanno cominciato a premere e ricattare, in un crescendo, estendendo per categorie, e per fasce di età la richiesta di sottoporsi all’inoculazione, ed ampliando la portata dei divieti e dunque l’area del ricatto fino a mettere in discussione le fonti di sostentamento.

L’immagine complessiva che riassume il processo è ora quella di un’autorità monolitica che nel corso di quasi due anni, con un continuo crescendo, ha mentito e manipolato, vietato e censurato, costretto e ricattato, e che è disposta sempre di più ad usare anche la repressione più schietta, pur di fare in modo di inoculare il maggiore numero di persone, e di farlo specificamente con alcuni preparati (gli altri internazionalmente approvati non sono riconosciuti), mentre ha ridotto ai minimi termini le funzioni terapeutiche.

La mancanza di un chiaro quadro delle intenzioni a questo punto non basta a disunire la resistenza, per quanto composita. Qui si va dall’estremo di chi ha una netta propensione a teorie del complotto e crede che si tratti di uno sterminio di massa a finalità di abbattimento demografico, all’estremo opposto di chi pensa si tratti del mero casuale concorso di sciatteria, corruzione, interessi economici e senso di impunità di una classe dirigente allo sbando, senza alcun piano; con molti livelli e ipotesi intermedie.

Però che sia stato per incapacità o per dolo, oramai non importa più nulla – hanno creato una situazione in cui la loro parola non conta più niente, si dà per scontato che qualunque cosa venga detta o dichiarata sarà una menzogna o una manipolazione: ogni credibilità è scomparsa. L’unica cosa chiara è che sono disposti a dire e fare “whatever it takes” per portare tutti, con motivazioni farlocche, ad accettare un intervento sanitario indesiderato e una certificazione di avvenuta subordinazione. E a questo punto non possono più fare niente per convincere delle loro buone intenzioni, anche laddove fossero mai esistite. Ora sono la minaccia, il nemico e l’unico primordiale imperativo è fuggire o combattere.

 

[E infine, tra le varie ipotesi disponibili c’è anche quella, machiavellica ma non troppo, che questa reazione psicologica sia proprio il fine perseguito, per incrementare il livello dello scontro fino a giustificare strette autoritarie.

Il buio fa paura perché non sai qual è la forma della minaccia e non puoi prepararti.]

https://sfero.me/article/fight-or-fllight-parabola-psicologica?fbclid=IwAR3MlA_o_7E0LwJ2-Z_vDXdDuJWMp1uONwWO_hbTtB_erIt00GZXZfkfSlA

 Zhok II
Ieri sono incocciato in una accesa discussione in rete a livello locale (FVG) in cui si discuteva del dramma dell’apparente saturazione delle terapie intensive in regione. La discussione ha preso subito toni accesissimi (e per inciso straordinariamente violenti e volgari) paventando il blocco delle operazioni programmate, e chiedendo durissime repressioni per i reprobi.
Spaventato sono andato a cercare i dati ufficiali aggiornati (beninteso, manipolabili anch’essi) sull’occupazione delle T.I., nazionali e regionali per casi di Covid:
5% di occupazione media nazionale,
11% in FVG
(link nei commenti).
Dunque:
1) dopo aver dato un lasciapassare esclusivo alla frequentazione di luoghi chiusi ad una maggioranza di popolazione che a 4 mesi dall’inoculazione contagiano esattamente come i non inoculati (e accusando gente che fa un tampone ogni 48 ore di essere untori),
2) dopo aver inventato un virus politicamente selettivo che evita di manifestarsi in 10 giorni di assembramenti per una regata velica, dando il meglio di sé solo sotto gli idranti rivolti ai reprobi,
3) ora l’ultimo passo è l’invenzione di una saturazione ospedaliera con incombente catastrofe (che se si manifesta coll’11% di occupazioni Covid a livello regionale, allora è stata creata ad arte in una singola sede ospedaliera.)
In sostanza siamo in un sistema dominato da un castello di fake news, fake di matrice governativa e pompate dei media, con la specifica funzione di aizzare gli animi.
Spero che quanto prima qualcuno capisca che questa gestione irresponsabile del paese ci porta diritti nei pressi di qualcosa come una guerra civile – e a chi pensa solo col portafoglio, lascio immaginare cosa significherebbe questo per l’economia.
Comincio a temere che proprio questo sia l’intento.
Roberto Buffagni

Penso che lo scopo principale, perseguito in parte per forza d’inerzia e in parte consapevolmente dai powers that be, sia la creazione delle due catene psicologiche: demoralizzazione-rassegnazione/apatia/ribellismo/paranoia (per i dissenzienti, da indurre nell’esilio-ghetto interno o nelle lunatic fringes psichiatriche) + adesione alla versione validata dall’autorità politico-scientifica del conformismo sociale – boost all’autostima nel confronto con i pazzoidi socialmente riprovati, spregevoli, soprattutto vinti e vinti forever – boost alla fiducia nell’autorità politico-scientifica che ti fa sentire forte e dalla parte della Ragione con la maiuscola – partecipazione politica che prende la forma di un assegno in bianco all’ufficialità (per i consenzienti). Siccome i consenzienti sono maggioranza, l’induzione delle due catene psicologiche consente all’autorità politico-scientifica: a) la legittimazione dell’ordine sociale in quanto “scientifico” (“La Scienza” nella sua ermeneutica ufficiale diviene il Libro Sacro, surrogando l’autorità spirituale delle Sacre Scritture canoniche b) la legittimazione dell’ordine politico (anche se l’astensione raggiunge livelli record come è già avvenuto e probabilmente continuerà ad avvenire) c) la disponibilità degli strumenti giuridici emergenziali fino alla possibilità di introdurre un vero e proprio stato d’eccezione senza reazioni significative d) in buona sostanza il game over della “democrazia” per quanto ha di sostanziale, perché non ha senso parlare di “democrazia” se non ci sono cittadini in grado di criticarla e confliggere politicamente in modo organizzato su tutte le questioni rilevanti. Della “democrazia” restano in vita gli aspetti procedurali e la sua caratteristica fondante, ossia il mercato (la democrazia è un mercato e non può non esserlo).

Credere nella scienza, di Andrea Zhok

L’aspetto più significativo della gestione della crisi pandemica in Italia consiste nella rivelazione strisciante, ma sempre meno rimovibile, della sciatteria del nostro ceto politico dirigente. Una superficialità il cui vortice sta risucchiando anche le cosiddette “riserve della Repubblica”, in primo luogo Mario Draghi e lo stesso Presidente della Repubblica. Questa crisi, in quanto situazione di emergenza, avrebbe potuto consentire nel bene e nel male veri e propri atti di rottura, svolte decisive in una qualche direzione, sia essa positiva o negativa, decisionista o inclusiva, autoritaria o partecipativa, elitaria o democratica. Comunque una direzione precisa il cui presupposto avrebbe dovuto poggiare su un ceto politico ed una classe dirigente capace di assumersi la responsabilità politica esplicita delle decisioni, esplicitando apertamente al cospetto della popolazione l’incertezza della situazione, i limiti di adeguatezza delle istituzioni, il rischio delle decisioni, addirittura l’azzardo di alcune scelte rispetto ad una condizione nuova e sconosciuta almeno alle ultime tre generazioni. Hanno invece preferito nascondersi come pecorelle smarrite dietro un presunto verbo scientifico indiscusso e indiscutibile, vero e proprio ossimoro più consono ad un credo religioso e ad una istituzione inquisitoria che ad una attività che si fonda sulla ricerca continua, sulle conferme e sulle falsificazioni (nella sua accezione epistemologica e procedurale). Verbo in realtà talmente volubile, contraddittorio e condizionato da innumerevoli pressioni ed interessi da logorare l’autorevolezza dei detentori del sapere e da trasformare le sedi dedite in baracconi per esibizionisti e giocolieri di parole. Succede quando il decisore cerca di giustificare le proprie scelte politiche, in quanto tali preposte a definire priorità e residualità, vincitori e perdenti, rifugiandosi ed aggrappandosi alla presunta oggettività e indiscutibilità della scienza, in realtà appoggiandosi alle versioni più “opportune” di esperti veri e presunti riconosciuti istituzionalmente al momento. Una prassi che ha trovato un humus sempre più favorevole nella situazione di degrado, soprattutto istituzionale, del nostro paese, ma che si è trovata la via spianata da una critica inizialmente tutta concentrata sulla natura complottistica di queste scelte piuttosto che impegnata nell’esame del merito di queste, in gran parte scellerate, in una condizione comunque di effettiva emergenza. In questa situazione di crisi, i decisori politici avrebbero potuto scegliere due strade dalla chiara direzione: assumersi la responsabilità diretta delle decisioni operative, come hanno fatto ad esempio in Cina, in Corea; delegare ad esperti queste decisioni sulla base però di priorità ben definite e di verifiche periodiche stringenti della loro efficacia, come fatto ad esempio in Svezia, in Nuova Zelanda. I nostri hanno preferito decidere tutto e il suo contrario, ma assumendo le vesti di semplici portavoce. Sono riusciti nel miracolo di provvedimenti allo stesso tempo draconiani, approssimativi ed indiscriminati. Una situazione paradossale ed inquietante che può realmente spingere ad una dinamica autoritaria e totalitaria più simile, nella farsa tragicomica, alla configurazione di una repubblica delle banane in preda a colpi di mano di élites decadenti ed arroccate che all’avvio di un processo di rigenerazione del paese; comunque adatta a prestarsi a banco di prova. Ne sono conferme ultime il gravissimo e meschino provvedimento di ostracismo a Puzzer e le potenzialità di manipolazione e controllo insite nel Green Pass e soprattutto nelle sue modalità di giustificazione. Meccanismo avviato con straordinaria cialtroneria da Giuseppe Conte II e dalla sua coalizione, nella quale il PD ha avuto la principale responsabilità che paradossalmente è riuscito ad eludere grazie alla compiacenza leghista e proseguito con maggior compiutezza e sagacia. A rimettere il treno sui binari, a prescindere dalla direzione, è arrivato Supermario; la parabola però sembra aver già raggiunto l’apice. In via di logoramento la credibilità acquisita nella gestione della pandemia, a Mario Draghi rimane la carta del ruolo da svolgere nel consesso europeo; è però una carta a tempo, legata in gran parte all’esito delle elezioni in Francia e alla formazione del governo tedesco. Su questo il Presidente del Consiglio ha mostrato di subire comunque qualche precoce segno di contagio della sciatteria imperante con qualche concessione di troppo alla demagogia della Gretina e della “casalinga” di turno elevate al ruolo di “influencer”. Più solida rimane, almeno al momento, la carta della gestione del PNRR. Riguardo a questo potrà contare sulle aperture di credito a prescindere della Commissione Europea e sui tempi di esecuzione di circa cinque anni. La condizione è che riesca ad adeguare, almeno in qualche misura, le modalità operative della macchina amministrativa italiana agli stringenti criteri operativi europei e a integrarvisi. Non è detto purtroppo che ci riesca. Per il resto, se gli andrà bene, ci vorranno cinque anni perché le aspettative dichiarate riposte sul PNRR si rivelino infondate ed emergano chiaramente quelle implicite. Di questi tempi, poter procedere per cinque anni, significa disporre di tempi biblici. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Credere nella scienza

Pubblicato il 2 novembre 2021 alle 18:47

Se c’è una cosa che può mettere a repentaglio ogni residua salute mentale è sentire i supporter del Green Pass che rivendicano di parlare a nome della “Scienza”.

Ora, si può comprendere, psicologicamente, che qualcuno abbia l’incontenibile desiderio di credere alle rassicurazioni del governo per immaginare un “ritorno alla normalità” e che perciò sia disposto a credere a qualunque cosa pur di scrollarsi di dosso la vicenda pandemica.

Che questa spinta psicologica conduca a un abbassamento delle difese critiche è umano, dannoso per sé e per gli altri, ma umano.

Ma rivendicare di essere “dalla parte della scienza” contro, si suppone, il “pregiudizio antiscientifico”, questo è semplicemente troppo.

A ben veder chi prende queste posizioni di solito si esprime dicendo di “Credere nella scienza”, e già l’uso delle parole qui è significativo. Ciò che qui viene invocato sotto il nome della “Scienza” ha più l’aspetto di una versione aggiornata del vitello d’oro: un idolo enigmatico cui prosternarsi e tributare onori nella più perfetta passività. La Scienza sembra essere immaginata come dispensatore di verità rivelate, erogate da una sorta di clero remoto, etereo, neutrale e biancovestito. Della natura reale della scienza, della sua tormentata storia, del fatto che essa debba tutte le sue qualità migliori all’adozione di un metodo critico, che include fallibilità, apertura alla libera discussione e consolidamento solo nel lungo periodo, di tutto ciò non sembrano sapere nulla.

Ecco, se già sentire parlare di “fede nella scienza” appare un ossimoro indigeribile, sentirla invocare a sostegno del Green Pass è cosa da uscirne pazzi.

Fede nella scienza 1

Dall’inizio di questa vicenda si sapeva che i percorsi di approvazione dei vaççini erano stati semplificati e accelerati in modo straordinario e che i contratti di fornitura dei medesimi da parte della case farmaceutiche erano stati secretati.

Già questo per chiunque avesse uno straccio di coscienza scientifica avrebbe dovuto far puntare i piedi, visto che i protocolli di approvazione hanno certe caratteristiche per motivi non arbitrari, radicati nella passata esperienza scientifica; e visto che la secretazione dei contratti (come è emerso successivamente) celava la richiesta di uno scudo contro gli indennizzi da parte della case farmaceutiche, che dichiaravano di non poter garantire per eventuali effetti collaterali a lungo termine.

Eravamo dunque di fronte sin dall’inizio ad un’infrazione della metodologia di ricerca consolidata e a un’evidente opacità da parte dei soggetti stessi che avevano svolto la ricerca.

Rispetto a questi dati si è risposto con l’urgenza di provvedere all’emergenza pandemica, urgenza che giustificava queste procedure “eccentriche”. Ora, questo argomento è discutibile, ma può essere comprensibile, tuttavia è troppo capire che si tratta di un argomento squisitamente politico e non scientifico?

Fede nella scienza 2

Pochi mesi dopo le prime somministrazioni sono cominciati a emergere dati scientifici su svariati effetti collaterali, effetti che non erano presi in considerazione nei dati forniti dalla case farmaceutiche: trombosi atipiche,[1]sindrome di Guillain-Barré,[2] miocarditi (specialmente nei giovani) e pericarditi,[3] ADE (antibody-dependent enhancement),[4] attivazioni o riattivazioni di sindromi autoimmuni.[5]

Qui, il minimo sindacale di buonafede e coscienza avrebbe richiesto di ammettere che eravamo di fronte ad un prodotto farmaceutico di cui effettivamente ignoravamo almeno in parte il livello di possibile nocività.[6]

Rispetto a tutto ciò si è proceduto senza un tentennamento né un dubbio, limitandosi a riversare sull’opinione pubblica tonnellate di rassicurazioni televisive a costo zero. In sostanza le rassicurazioni governative si erano dimostrate malriposte, visto che la sperimentazione pregressa non aveva portato alla luce problemi che successivamente erano stati riconosciuti. Ma tutto ciò non ha smosso foglia né sollevato dubbio.

La più ferrea inamovibilità, sempre nel nome del primato della scienza, ça va sans dire.

 

Fede nella scienza 3

L’introduzione del Green Pass è stata motivata con la clausola che lo si faceva per evitare la diffusione del virus: la motivazione fondamentale dei divieti della certificazione verde stava nell’impedire la trasmissione del contagio. Peccato che già quando il Green Pass era in fase di discussione era perfettamente noto che i soggetti vaççinati potevano trasmettere il virus in maniera o uguale, o almeno comparabile, con i soggetti non vaççinati.[7] Ciononostante si è continuato a propagandare senza pudore un immaginario da untore manzoniano in cui il non vaççinato sarebbe una minaccia per il vaççinato, laddove in effetti il vaççinato è parimenti una possibile minaccia sia per altri vaççinati che, a maggior ragione, per i non vaççinati.

Ma tranquilli, una volta di più era la Scienza a parlare per bocca del governo.

Fede nella scienza 4

Sempre all’insegna della massima trasparenza scientifica si è continuato a negare (e in parte si continua a negare) l’esistenza di cure per il Sars-Cov-2, nonostante l’accumularsi di studi scientifici che dicono il contrario[8] e nonostante molte cure siano entrate nei protocolli sanitari di altre nazioni.

È importante capire qui che c’è un abisso tra l’affermazione che “esistono terapie efficaci” e l’affermazione che “esiste una pillola magica” che fa scomparire il virus. Le cure efficaci esistono, la pillola antivirale magica che fa sparire il virus no (e per i virus in generale è raramente trovata). La trasparenza scientifica avrebbe allora ammesso argomentazioni del tipo: il vaççino è una forma di intervento “cost-effective”, che coinvolge di meno le strutture ospedaliere, e che perciò è preferibile per certi gruppi di persone (ad esempio i soggetti più fragili).

Ma anche qui di trasparenza scientifica non ne abbiamo avuta nemmeno l’ombra: si è fatta una campagna all’insegna del vaççino come sola ed unica salvezza e chi dice altrimenti è un traditore.

Sempre nel sacro nome della Scienza.

Fede nella scienza 5

Successivamente, visto che non volevamo farci mancare nulla, abbiamo cominciato non solo a raccomandare, ma di fatto ad obbligare (con il ricatto del Green Pass) donne incinte a inocularsi dei vaççini che riportavano esplicitamente nelle indicazioni delle case farmaceutiche di non essere stati testati su donne in stato di gravidanza. Anche questo all’insegna del principio di precauzione e delle migliori pratiche scientifiche, senza dubbio. E a coronamento di questa oscenità alcuni hanno avuto il coraggio di replicare ex post che oramai le inoculazioni erano avvenute in gran numero, e che non era successo nessuna apocalisse, dunque avevano ragione.

Chissà quale manuale di deontologia medica raccomanda di testare dei vaççini sulla popolazione generale, senza screening, senza seguire i pazienti testati, e con semplice farmacovigilanza passiva per valutarne gli effetti collaterali.

Ma state sereni, è sempre la Scienza che parla per bocca del governo, e voi dovete tacere e fare penitenza.

Fede nella scienza 6

E infine abbiamo avuto un infinito balletto in cui:

a) ci si è inventati di sana pianta con il GP che la durata dell’immunità da superamento della malattia era inferiore a quella fornita dalla vaççinazione, laddove è dimostrato essere esattamente il contrario;

b) ci si è rifiutati di prendere in considerazione esami del sangue che mostrassero l’ampia presenza di anticorpi anti-covid come ragione per posporre l’inoculazione;

c) si è cambiato in corso d’opera ripetutamente l’obiettivo della cosiddetta immunità di gregge, aumentando costantemente il target (65%, 75%, 80% della popolazione), salvo poi concludere ciò che in ambito scientifico era già stato spiegato da tempo, ovvero che con questi vaçccini un’immunità capace di eradicare un virus con queste caratteristiche semplicemente non era ottenibile;

d) si è estesa d’ufficio di tre mesi la data di scadenza dei vaççini (perché le indicazioni delle case farmaceutiche si venerano quando serve, si interpretano liberamente altrimenti);

e) si sono cambiate le condizioni di refrigerazione dei medesimi vaççini;

f) si è estesa ad hoc la presunta durata ufficiale dell’immunità da 9 a 12 mesi, proprio mentre si aggiornava continuamente la durata effettiva della copertura conferita dai vari vaççini in un caleidoscopio di numeri (9 mesi? 6 mesi? 4? 2? Con rabbocchino o senza?)

g) si prospetta serenamente la somministrazione di una terza dose di vaççino (e poi basta?), senza che vi siano stati studi sistematici su efficacia e sicurezza della somministrazione;

h) si è chiusa la porta al riconoscimento di altri vaççini usati nel mondo, alcuni con funzionamento tradizionale a virus inattivato, senza fornire spiegazioni di sorta.

E si potrebbe continuare in un perdurante sterminio di ogni buona pratica scientifica, di ogni criterio di trasparenza, di ogni precauzione, di ogni dubbio, di ogni libertà di dibattito.

In tutta questa vicenda la “Scienza” ha fatto capolino soltanto nella veste di un cappello retorico per conferire autorità a decisioni politiche arbitrarie.

Ecco, se traete diletto dal ricattare il prossimo con una certificazione per vivere, se godete nel bullizzare ragazzini e adolescenti, nel negare la libertà fondamentale di autodeterminazione sul proprio corpo, benissimo, avete dietro tutta la forza dello stato, dunque potete farlo. La storia vi giudicherà.

Ma la scienza, la scienza per piacere lasciatela stare, perché la confondete continuamente col principio d’autorità, e niente vi è di più estraneo allo spirito scientifico.

 

[1] • Pomara C., et al. Post-mortem findings in vaççine-induced thrombotic thombocytopenia https://haematologica.org/article/view/haematol.2021.279075

• Perry et al., “Cerebral venous thrombosis after vaççination against COVID-19 in the UK: a multicentre cohort study”, in The Lancet

https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(21)01608-1/fulltext

[2] • Jane Woo, et al., “Association of Receipt of the Ad26.COV2.S COVID-19 Vaççine With Presumptive Guillain-Barré Syndrome – February-July 2021”,  JAMA,October 7, 2021, doi:10.1001/jama.2021.16496

https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2785009

• Per un sunto giornalistico: https://quifinanza.it/info-utili/video/vaççino-covid-effetti-collaterali-johnson-astrazeneca/516937/?fbclid=IwAR3FwN0wn0hKUWDGpSw-fZXjCgD7mIdNj-0XTB6-Mr8GnvXkumfl-sfJ-mA

[3]             • Saif Abu Mouch, et al., Myocarditis following COVID-19 mRNA vaççination, in Vaççine  (https://doi.org/10.1016/j.vaççine.2021.05.087);

• Supriya S. Jain et al., COVID-19 Vaççination-Associated Myocarditis in Adolescents, in Pediatrics, 2021 – doi: 10.1542/peds.2021-053427 https://pediatrics.aappublications.org/content/early/2021/08/12/peds.2021-053427

• George A. Diaz et al., Myocarditis and Pericarditis After Vaççination for COVID-19

https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2782900

• Montgomery et al., Myocarditis Following Immunization With mRNA COVID-19 Vaççines in Members of the US Militaryhttps://jamanetwork.com/journals/jamacardiology/fullarticle/2781601

• Rose et al., A Report on Myocarditis Adverse Events in the U.S. Vaççine Adverse Events Reporting System (VAERS) in Association with COVID-19 Injectable Biological Products, in Current Problems in Cardiologyhttps://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0146280621002267?via%3Dihub

• Aye et al., Acute myocardial infarction and myocarditis following COVID-19 vaççination, in International Journal of Medicine, 29 September 2021

https://academic.oup.com/qjmed/advance-article/doi/10.1093/qjmed/hcab252/6377795

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PS_

In tutta questa vicenda la “Scienza” ha fatto capolino soltanto nella veste di un cappello retorico per conferire autorità a decisioni politiche arbitrarie.
Ecco, se traete diletto dal ricattare il prossimo con una certificazione per vivere, se godete nel bullizzare ragazzini e adolescenti, nel negare la libertà fondamentale di autodeterminazione sul proprio corpo, benissimo, avete dietro tutta la forza dello stato, dunque potete farlo. La storia vi giudicherà.
Ma la scienza, la scienza per piacere lasciatela stare, perché la confondete continuamente col principio d’autorità, e non vi è niente di più estraneo allo spirito scientifico.

https://sfero.me/article/credere-scienza?fbclid=IwAR2SqyBfSW6UGSHPUfXaPxhEQSoj-2ecvuRyyWsWn_M42KcaaVG34B8eoek

Mafia, società e uomini dello Stato. Spunti dalle “considerazioni del Generale dei Carabinieri Mario Mori”

Dal 26 al 29 ottobre il quotidiano “Il Riformista” ha pubblicato un memoriale del Generale dei Carabinieri, ex-comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), Mario Mori a seguito della sua assoluzione definitiva dalle gravissime accuse di “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Una macchia indelebile, una nemesi crudele che avrebbe potuto colpire il generale e tutta la squadra che, sotto la guida dei giudici Falcone e Borsellino, era riuscita ad arrestare il capo di “Cosa Nostra” Totò Riina; quell’arresto avrebbe dovuto essere solo una tappa di un filone di indagine che mirava a scoprire e colpire la fitta trama di legami costruite dalle associazioni mafiose con gli ambienti imprenditoriali e delle pubbliche amministrazioni. Con l’assassinio di Falcone e Borsellino, la repentina chiusura delle inchieste nelle principali procure siciliane e i processi a carico dei singoli componenti dell’intera squadra, nel frattempo disciolta, impegnata in indagini così delicate, quell’arresto così clamoroso e promettente si rivelò in realtà l’annuncio dell’epilogo di una vicenda appena agli albori e conclusasi con la beffa, da vedere quanto determinata da coincidenze o da calcolo politico, di una possibile fine ignominiosa dei protagonisti sopravvissuti di quell’azione di indagine giudiziaria. L’assoluzione clamorosa del generale Mori, sia pure ormai attesa, ha goduto dei riflettori del sistema mediatico per non più di un paio di giorni. Meriterebbe ben altra attenzione. Il memoriale sembra cadere nell’ombra del dimenticatoio nel momento stesso della sua uscita. Si fa fatica addirittura a reperire copia fisica del quotidiano che ha ospitato il documento. Una volta terminata la pubblicazione e attesi e rispettati i diritti di esclusiva detenuti dal quotidiano, i blog di “Italia e il mondo” e del “corriere della collera” di Antonio de Martini hanno deciso di pubblicare a loro volta il testo con l’auspicio che siano numerosi i siti editoriali disposti a diffondere il memoriale. Nella loro linearità le considerazioni del generale Mori offrono numerosi spunti di riflessione, di azione politica ed anche di politica giudiziaria riguardo alla natura delle organizzazioni mafiose, alla rappresentazione agiografica del potere mafioso come minaccia ed antitesi al potere dello Stato, alla natura stessa del, per meglio dire dei poteri giudiziari i quali più che indipendenti, si rivelano essere autonomi e partecipi a pieno titolo delle dinamiche politiche e di potere, anche le più profonde ed oscure. Rappresentazione appunto agiografica che nella loro immagine più lineare sono offerti come corpi estranei, in quella più sottile sono evidenziati solo nel loro aspetto di poteri autonomi con la funzione militare ad oscurare il resto. E’ il terreno di pascolo sul quale per decenni si sono nutriti i cosiddetti “professionisti dell’antimafia”, così bene inquadrati da Leonardo Sciascia. Se i classici ambiti di azione legati alla droga e ai traffici illeciti, pur clamorosi nelle loro dimensioni, contribuiscono a rafforzare questa rappresentazione limitativa del potere mafioso, la sua implicazione diretta e fondamentale negli appalti e nelle attività imprenditoriali lascia intuire e intravedere una ben altra natura riguardo ai suoi legami con i centri di potere e alle dinamiche di conflitto, collusione e compenetrazione nella società e negli apparati statali. Prospettive “inedite” che dovrebbero vellicare la curiosità dell’opinione pubblica e di chi ha il potere di intervenire. Sarebbe il modo migliore di cercare di uscire dalla commedia degli inganni e di rendere onore e giustizia a quei funzionari che si sono esposti a mille pericoli e che hanno rischiato invece di finire nell’onta, non solo nell’oblìo. Con i nostri mezzi alquanto irrisori cercheremo di offrire il contributo possibile alla chiarezza. Una chiarezza che dovrebbe ormai essere cristallizzata anche in qualche nome e cognome, per quanto di persone ormai attempate_Giuseppe Germinario

Considerazioni

Nelle interminabili discussioni con critiche, originate dall’attività operativa del ROS dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in quella via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nella proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: “ … Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni 2 espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella ( moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito.” Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: “ … La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio”. A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boos e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva 3 constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questa sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Molti, però, mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai 4 ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singole aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, ad un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perchè sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. 5 Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: “ … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …”; e proseguendo: “Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica … ” Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e sopratutto dove questa poteva portare, perchè alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il ROS. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater),attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “ quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati ed investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. 6 Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Nel periodo compreso tra le due stragi si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente: . 19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza; . 25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal ROS il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta; . 12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale; . 13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti; . 14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al CSM da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti); . 16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo; . 19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta; . 22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti; 7 . 14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano. Sulla base di questa sequenza di fatti ed alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di: .. spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (Giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani; .. commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”; .. chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti; .. smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco. Infine mi piacerebbe conoscere perchè le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della DDA di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento. Si tenga poi conto che queste dichiarazioni, si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi dalla Procura di Palermo, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso ad un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo. Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere 8 ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest‘ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti: . a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei così detti ” quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale; . a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse del Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato; . a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica. In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: . “ … Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione”. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (TAV). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della TAV, con la funzione di 9 eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (ATI) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il t. col. Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre percento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geom. Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del ROS. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi , imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi ed imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine. ***** Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati ad una serie di conclusioni: . il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti; . il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale; . stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura; . l’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la 10 stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici; . le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese; . alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni; . io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente. ***** A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che, per attività così delicate, si possano verificare singoli episodi di contrasto, frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria. I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di ” bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state 11 condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo. Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta.

https://corrieredellacollera.com/2021/10/29/concluso-il-caso-mori-si-riapre-il-caso-mori/#comments

https://leorugens.wordpress.com/2021/10/30/de-martini-non-dice-mai-fesserie-in-politica-estera-vediamo-dove-va-a-parare-con-la-vicenda-di-mori/

REGENI, TONI-DE PALO E ABU OMAR IL MAGISTRATO RECITA A SOGGETTO, di Antonio de Martini

In un paese in cui le persone temono di essere schedate dal vaccino che “non protegge al 100%” e si lancia in fulminee convivenze e matrimoni che al 50% finiscono male, non mi meraviglio se nessuno si ricorda più di una vicenda capitata nel 1980 in Libano, la TONI-DE PALO.

Una foto con Armando Sportelli durante uno dei nostri incontri-intervista durante i quali ha rivangato le fasi delle trattative con OLP , il caso Toni De Palo e altri.

Due “giornalisti” di cui nessuno ha mai letto una riga, che scomparvero ad un tratto – non si sa come ne quando- forse durante un giro in Libano nella pianura della Bekaa.

I loro cadaveri – se esistono- non furono mai ritrovati, ma furono l’occasione per far trionfare la magistratura sulla bieca corporazione degli agenti segreti: il capo centro in Libano, il maggiore dei carabinieri Stefano Giovannone , invano invocato come salvatore da Aldo Moro durante la sua prigionia, venne giubilato e inquisito assieme al suo capo, il colonnello Armando Sportelli, all’epoca a capo degli 007 italiani nel mondo e responsabile dell’accordo OLP-Italia che ha risparmiato, per trenta e passa anni, il nostro territorio da coinvolgimenti armati.

Il teorema del magistrato inquirente fu che se non si trovavano questi due personaggi, ( mai saputo chi ne denunziò la scomparsa…) erano certamente stati rapiti dall’OLP (Adesso però i cattivi in Libano sono gli Hezbollah) e l’intelligence doveva essere al corrente di tutto.

L’inchiesta, condotta da un sostituto procuratore di Venezia a nome Mastelloni, fratello di un attore di teatro, durò la bellezza di sette anni provocando la stroncatura della Carriera di Sportelli che ebbe l’ingenuità di dimettersi al primo giorno dell’inchiesta fidando nella istituzione. Stefano Giovannone , ammalato, non si riprese più, mentre il nome del generale V. dei CC che ne voleva la testa, fu trovato nella lista della P2.

Risultò, a chiunque fosse in buona fede, che i due non si erano mai presentati in ambasciata, non avevano chiesto interviste a nessuno, non avevano comunicato a nessuno intenzioni o itinerario e – posto che abbiano circolato in Libano, nessuno li incrociò o vide mai. Tanto bastò perché il magistrato indagasse per sette anni e la vita di due integerrimi servitori dello stato fosse stroncata. Il magistrato confidò in un momento di debolezza a Sportelli che era ” affascinato da questo mondo dei servizi segreti” e continuava a fare domande anche non pertinenti.

In tutto questo bailamme non una riga fu scritta dal solerte New York Times o dall’intrepido Guardian, nemmeno quando due anni prima fu trovato il cadavere di un cittadino francese alla periferia del Cairo. E non scrissero nemmeno quando un cittadino italiano- anche se il nome di battaglia é Abu Omar- fu rapito, il 17 febbraio 2003 in quel di Milano da un commando di 22 americani e due italiani, guidato dal capo centro CIA di Milano, tale Robert Seldon LADY, condannato dalla magistratura ( Spataro e Pomarici) e poi graziato, assieme ai compari, dal presidente Mattarella che quel giorno era, evidentemente, in buona con tutti, ma non con la donna ( Sabrina De Sousa) nel frattempo licenziata dalla CIA per aver allietato la vigilia del capo. Su tutto, nessuno scoop. Si sono interessati a una sola vicenda che ora riferisco.

Ritrovamento all’alba

Per il caso Regeni, Giulio Regeni, invece, fin dal primo giorno e prima ancora che ne fosse informata la nostra ambasciata, i predetti quotidiani si dimostrarono attentissimi alle vicende del cadavere di un italiano trovato, al Cairo, all’alba, sullo stradone, non lontano dalla trafficatissima via che conduce alle Piramidi e prosegue verso Alessandria d’Egitto. In USA ci sono sei ore di fuso di differenza ma il NYT riuscì a non” bucare” la notizia.

Il cadavere, così platealmente depositato, risultò appartenere a un cittadino italiano, il ventottenne Giulio Regeni, ” ricercatore” ventottenne residente da anni all’estero. Entrambi i quotidiani anglosassoni dimostrarono di essere informati delle indagini della polizia e delle omissioni della stessa, anche se non hanno mai rivelato le fonti ( o la fonte) che li tenne un passo avanti a tutti.

Il Ministro Andrea Orlando – che non si é mai scomodato per andare ai funerali degli operai che muoiono quotidianamente sotto la sua gestione ministero del Lavoro- si presentò a Fiumicino per ricevere le spoglie del compatriota. Anche questo va segnalato come il frutto di un singolare intuito circa gli sviluppi futuri del caso.

Tutte le mamme sono da rispettarsi quando piangono un figlio e, magari, chiedono giustizia se questo risulta deceduto in situazioni drammatiche. Questa madre non ha fatto eccezione ed é un suo diritto rivolgersi alla magistratura. Invece si rivolge al Parlamento e nemmeno al deputato del suo collegio. E d’ora in poi, nulla – in questa vicenda- seguirà più la normale procedura che tutela i diritti dei cittadini italiani.

Non la ricerca dei testimoni inglesi ( la dottoressa Maia Abd el Rahman– che aveva spedito il Regeni in Egitto per fare una ricerca sui “sindacati non riconosciuti” dandogli l’indirizzo di un professore dell’Università americana rivelatosi un confidente di polizia- non i finanziatori committenti americani della ricerca della ricerca – Oxford Analytica di John Negroponte ( ex capo della intelligence community USA)- non un accertamento su elaborati precedenti del Regeni di cui non v’é traccia.

E’ anche diritto dell’on Luigi Manconi, genero di Berlinguer, occuparsi – sia pure a singhiozzo- di diritti umani. Ricordo due episodi in cui si interessò con particolare accanimento, dovuto alla facilità di accesso al mezzo televisivo grazie alla parentela.

La prima volta che ricordo, fu per deplorare l’utilizzo di una prostituta somala (immortalata in foto con una bottiglietta di Coca Cola da L’Europeo o dall’Espresso, non ricordo) da alcuni bersaglieri del nostro contingente che si trovava a svolgere operazioni di peace enforcing per l’ONU.

Non é colpa dell’insistenza dell’onorevole Luigi Manconi se con questa polemica provocò il congelamento della nostra ben avviata candidatura al Consiglio di sicurezza dell’ONU grazie ai buoni uffici dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci che si era conquistato i necessari voti di moltissimi paesi afroasiatici, consentendoci di surclassare la Germania in sede di votazione in assemblea. Una battuta d’arresto dalla quale non ci siamo più ripresi.

Recentemente, resosi disponibile nuovamente il seggio ONU, abbiamo dovuto dividerlo con L’Olanda ( appoggiata da USA e Germania) benché questa sia stata dichiarata ufficialmente responsabile del Massacro di Srebrenica dalla camera Penale Internazionale ( CPI). Ottomila morti cancellati da un Manconi e una mignotta.

La seconda volta che ricordo, é il caso Regeni, dove, in concorrenza col presidente della Camera dei Deputati – Roberto Fico– il Manconi fece a gara per chiedere ” verità per Regeni“, giusto. Ma chiesero anche – interferendo con la nostra politica estera esorbitando dalle rispettive funzioni – il richiamo del nostro ambasciatore al Cairo e poi addirittura la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, nascondendosi dietro una povera madre disperata.

In Egitto – guarda caso- era appena stato trovato dall’ENI ” nelle acque profonde egiziane antistanti il Delta del Nilo” un giacimento di petrolio e di gas che fa impallidire i giacimenti antistanti le acque cipriote ( Tamar e Leviatan) trovate dal servizio geologico degli Stati Uniti. E qui comincia il vero caso Regeni che mischia interessi privati, intelligence, ricatti tra petrolieri, rivalità geopolitiche tra alleati. Su tutto questo mucchio inquinato troneggia il servilismo dei magistrati addetti alla capitale che inscenano un processo farsa senza imputati, senza testimoni e senza movente, grazie a un procuratore la cui nomina é stata annullata dal Tribunale Amministrativo Regionale ( TAR).

L’ENI TROVA IL PETROLIO E GLI USA SFRUTTANO IL MORTO

Pur emarginato dalle acque libiche e ingabbiato con la Total in quelle di Cipro, L’ENI inquinato solo a livello dirigenza ma con ingegneri ancora memori dell’eredita di Mattei, hanno elaborato una tecnologi che ha permesso loro di trovare il petrolio, come dice il comunicato ENI ” nelle acque profonde egiziane” dove gli altri non hanno trovato nulla. L’Egitto, fedele alle sue scelte tradizionali, ha avuto sempre ottimi rapporti commerciali con l’Italia, dai tempi dei Tolomei al periodo coloniale inglese con Faruk, a Nasser durante la fase della influenza russa, un posto per noi c’é sempre stato.

All’epoca Regeni, i Francesi avevano monetizzato la misteriosa morte di uno studente con la vendita di 24 aerei ” Rafale”, mentre noi avevamo piazzato due fregate classe FREMM considerate l’opera di progettazione navale migliore nella sua classe. L’ambasciata di Israele era stata invitata a chiudere ” per ragioni di sicurezza” accentrando i rapporti con l’Egitto all’ambasciata egiziana a Tel Aviv.

Gli americani si lamentavano delle incomprensioni avute durante la “primavera” e delle ” avance” sessuali subite da alcune giornaliste USA mescolatesi ai manifestanti. I tedeschi aumentavano l’organico d’ambasciata degli addetti alla cooperazione a settanta unità, mentre l’Egitto di Abd el fattah Al Sissi affidava ad altri il raddoppio del canale di Suez e alla Russatom di Mosca la ripresa del suo programma nucleare accantonato anni fa.

Una bomba fasulla esplodeva nei pressi della nostra ambasciata e i magistrati di Roma invadevano gli spai dei magistrati egiziani e la polizia pasticciava le indagini nel tentativo di dare una risposta soddisfacente. Ordinaria amministrazione.

Il disordine, condito di “rumors” alimentati dal New York Times e dal Guardian cui ha fatto eco il TG1 e Il Messaggero ha spinto il Presidente della Camera a rilasciare incaute dichiarazioni di cui l’elettorato farà giustizia e il deputato che si é fatto dare le funzioni tanto dignitosamente tenute dall’on Stefano Rodotà.

Chi ha ceduto senza vergogna alle richieste cui aveva già dato benevolo ascolto il Quirinale nel caso “LADY più 22” ( Abu Omar) é stato il sedicente procuratore della Repubblica di Roma – tale Prestipino, calabrese, – contestato nella nomina dai più meritevoli colleghi cui ha soffiato il posto, destituito dal TAR e difeso della coschetta annidata nel CSM.

In questa posizione di debolezza ha preso per buona la vicenda e accettato di lanciare un processo in cui ai quattro nomi di imputati dirigenti dell’intelligence egiziano non ha nemmeno mandato la notifica; ha sorvolato sull’assenza della “tutor” di Regeni che non ha accettato di venire a testimoniare ( fatto notato persino dal cautissimo ” Corriere della sera“) e col processo di beatificazione in corso del Regeni – un ricercatore che a ventotto anni non aveva pubblicato nulla e non era “di Cambridge”: stava in un collegio secondario dell’area – difficile capire quale fosse la motivazione dell’omicidio e delle torture pregresse. Io al solito, in una intervista su You tube che potete vedere qui ( https://youtu.be/0PACeET31Ig ) avevo detto, prima che succedesse il caso Regeni e chiaramente, che avremmo subito pressioni per farci mollare l’osso. Il povero giovane é stato il pretesto per l’attacco. Impuniti finora i fiancheggiatori di questa pugnalata all’economia italiana.

Nel caso di Abu Omar, il tribunale di Milano ha condannato i 22 agenti CIA al pagamento di un milione e mezzo di danni alla famiglia del rapito. Scommettiamo che in questo caso condanneranno il governo egiziano?

https://corrieredellacollera.com/2021/10/18/regeni-toni-de-palo-e-abu-omar-il-magistrato-recita-a-soggetto/

AH L’ITALIA …, di Pierluigi Fagan

AH L’ITALIA … Una volta, quando lavoravo nell’advertising e tra i miei clienti avevo la compagnia di bandiera, un collega copywriter (quelli che maneggiano le parole) propose una idea che iniziava con questo sospiro rimembrante, quello che fanno molti stranieri quando si accingono a parlare del nostro Paese attingendo a bei ricordi delle loro emozioni turistiche. L’idea era quella di annettere tutto il valore d’immagine del Paese alla compagnia, come del resto hanno lungamente fatto altre compagnie di bandiera, un classico.
Ma un Paese non è fatto solo di belle emozioni e percezioni, è fatto anche di problemi e contraddizioni. Così, il sospirante “ah … l’Italia” starebbe bene anche su una faccia più problematica. Alitalia ha per molti versi davvero rappresentato un riflesso in piccolo di alcuni pregi e difetti nazionali. Alla fine, hanno prevalso i difetti ed è morta, solo la compagnia di bandiera intendo, almeno al momento.
Non voglio dar l’impressione di esser une esperto profondo dell’argomento, ma visto che molti ne parlano senza saperne niente (si capisce da cosa dicono e da come lo dicono), anche il mio poco mi autorizza a dire un paio di cose anche perché in termini paradigmatici, la storia ha un suo senso più ampio.
Alitalia era, tra le altre cose, assieme forse alla RAI, l’oggetto più “sexy” posseduto dallo stato italiano. C’erano e ci sono ovviamente ottime e fondate ragioni per avere una compagnia di bandiera, le interconnessioni estere dovrebbero seguire l’interesse nazionale e non sempre questo può esser coniugato con le logiche di mercato. Puoi dover tenere una tratta apposta solo per garantirne l’uso a pochi, anche se è anti-economica. Ma è bene dire anche che sia la scelta del management, sia l’abitudine a rimpinzare la compagnia di amici e spesso amiche dei potenti o meno potenti politici, hanno sistematicamente sabotato anche la più buona volontà di tenere i conti, non dico a posto, ma insomma almeno un po’ meno fuori i parametri che poi chiamavano soldi pubblici di ripiano. Abbiamo indirettamente mantenuto generazioni e generazioni di imbecilli azzimati e signorine attraenti solo per il piacere dei decisori politici, questo va detto. Ovviamente ci riferiamo solo ad una parte, forse anche una parte limitata, ma poiché la natura di quel business non prevede comunque grandi margini, anche quel relativamente poco, era troppo e troppo a lungo.
Inoltre, cambiare management ad ogni cambio di governo, ed i governi in passato cadevano con medie fuori da ogni statistica occidentale, ha precluso il varo di ogni possibile strategia e compagnie senza strategie (come del resto i Paesi), diventano ingestibili.
Una volta entrati nel regolamento europeo, si sarebbe dovuto per forza risolvere il problema. Non dico fosse giusto, potevamo tenercela anche così costosa ed inefficiente se ad uno piace il “pubblico” a prescindere o gli piace mantenere gli amici dei parlamentari e non solo, ma una volta entrati in un diverso sistema di regolamento che vieta il ripianamento pubblico, ne dovresti prender atto. Oppure uscire da quel nuovo regolamento.
In effetti qualcuno ne prese atto. Per prima venne proposta la soluzione forse tecnicamente migliore ovvero la fusione in una holding (non ricordo bene, penso paritaria) con un altro network complementare: KLM. La soluzione KLM era ottimale sotto tutti i punti di vista. Poi però cambiò ancora il governo e poi cambiò ancora, così si giunse ad una seconda ipotesi meno ottimale visto che KLM s’era sviluppata una coerente e diversa strategia per conto suo, con Air France. Ripeto, non sono un espertone del campo ma da quel poco (non pochissimo) che so la soluzione precedente era ben migliore, ma ormai le possibilità erano ristrette.
Si tenga anche conto che dal puro punto di vista del business, in Italia non avendo multinazionali nostre, originiamo poco traffico internazionale e poca business class che sono le due variabili che portano un po’ di profitto per pagare i servizi interni non sempre profittevoli visto che ovviamente si deve garantire almeno una buona interconnessione interna per far funzionare il Paese, Paese stretto e lungo lo ricordo per i digiuni di geografia (il che dà le durate di volo quindi i costi).
Ci sono poi una altra mezza tonnellata di particolari tecnici legati a quel business a livello internazionale, un mercato molto cambiato negli ultimi anni, ma a chi interessano i particolari? Molti hanno “idee chiare e distinte” anche senza i particolari. Diremo “al volo” se la cosa non suonasse ironica.
Così tra un populismo e l’altro del tipo “Alitalia agli italiani!”, seguendo i sovranismi aeronautici che facevano finta di scordare che, ahinoi, stavamo nel sistema UE-euro, nella totale ignoranza del caso interno e della natura di quel business le cui regole non dettiamo noi, andando così avanti senza ragione alcuna, di disastro in disastro fino al disastro ultimo, previsto, conosciuto, ignorato in piena nevrosi da negazione fino all’ultimo. Così si è arrivati a ieri, al triste annuncio della povera hostess che saluta gli ultimi passeggeri imbarcati a Cagliari, settantacinque anni ed un mese dalla fondazione di una azienda molto elegante ma come certi ex-nobili decaduti, molto fuori dal mondo. Visto che ormai si ragiona così, un “valore” di marchio costruito per decenni, buttato nel cesso.
Così il sospirato “Ah l’Italia …” sta bene sotto il romantico ricordo di tutte le nostre qualità, ma altrettanto bene come sconsolata constatazione di quanto irresponsabili siamo, noi e i politici che noi stessi deleghiamo a governare l’interesse generale. Non aver voluto cambiarla per tempo, decidendo noi cosa perdere e cosa tenere, ha reso Alitalia inadatta perdendo tutto. Così il Paese che è un sistema, un sistema fatto di parti ognuna delle quali ha ottime ragioni per non cambiare, salvo poi che così non cambia il sistema, il sistema è disadattato e crepa, con noi dentro.
Il che non preclude a molti il piacere tutto social di dire la loro partendo da idee a priori che poco e nulla c’entrano con la meno divertente complessità delle cose su cui esprimiamo pareri un tanto al chilo.
Nella foto, un omaggio ad una delle più belle livree dell’aeronautica civile, giudizio riconosciuto a livello mondiale che io ricordi.

Tre paradossi di un assalto_di Giuseppe Germinario

Un mondo a rovescio! Almeno per chi ha vissuto e conosciuto il mondo di quaranta anni fa e più.

  • La sorpresa sardonica è tutta per Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, nelle vesti di apostolo e paladino delle libertà dal Green Pass e dalla “dittatura sanitaria”.

  • L’inquietudine serpeggia nelle parole di Giorgia Meloni che adombra il lezzo sulfureo della provocazione organizzata che sia quella autonoma di un gruppo di facinorosi o quella perpetrata e programmata, come più probabile, grazie a probabili complicità e direttive.

  • Il sarcasmo aleggia quando la quasi totalità dei gruppi dirigenti, specie quelli progressisti, ostentano la loro indignazione su un atto così proditorio e “tempestivo”, ma dimentichi dell’essenziale del loro passato.

LA SORPRESA SARDONICA

Tutti i movimenti a carattere rivoluzionario ed eversivo giustificano i propri atti, anche i più brutali, sotto il vessillo della libertà. In suo nome si compiono le azioni più coraggiose, gli atti più efferati, le conquiste più ambiziose e le nuove e peggiori forme di sopraffazione. L’enfasi dell’azione diretta individuale, il carattere di per sé purificatore ed emancipatore di essa, lo spiritualismo orientato al richiamo alla tradizione e a valori immobili come programma politico sono gli ingredienti necessari a tarare un movimento e a segnare la sua deriva progressiva verso un anarchismo individualistico reso politicamente praticabile paradossalmente attraverso una visione rigidamente gerarchica e militare del proprio impegno sino ad assumere un carattere terroristico. Un vicolo cieco che prima o poi, per sopravvivere e non soccombere, porta ad essere strumento e complice, volente e nolente, delle trame di potere più oscure dei centri decisionali. È quanto è successo a Roberto Fiore, a Terza Posizione e ai NAR negli anni ‘70 e ‘80. Uscito indenne con un salvacondotto che gli ha permesso di fuggire ed arricchirsi in Gran Bretagna. Difficile che la sua salvezza non abbia richiesto il pagamento di un qualche pegno pesante qui in Italia e nel luogo di esilio. Ritorna ormai attempato in Italia, ma assieme ad altri commilitoni pronto ad innescare pesanti provocazioni come l’assalto recente alla CGIL. La contingenza suggerisce la volontà di influire sul ballottaggio elettorale; uno sguardo più lontano suggerisce qualcosa di molto più profondo legato alla gestione della pandemia e della profonda ristrutturazione degli assetti sociali e politici.

L’INQUIETUDINE CHE SERPEGGIA

Ha ragione quindi Giorgia Meloni ad alludere sia pure timidamente alla “eccessiva” facilità di movimento di personaggi ormai attempati e conosciuti per il loro particolare impegno politico e a ricondurre la responsabilità di quanto accaduto per lo meno al Ministro dell’Interno. Dovrebbe essere molto più chiara ed esplicita visto che la sua formazione politica, FdI, è la lontana erede del partito che spesso e volentieri ha offerto qualche copertura alle formazioni stragiste di quegli anni. In mancanza, un ulteriore pesante tassello sarà posto al disegno di isolamento e ghettizzazione del suo partito, funzionale alla creazione di una opposizione di comodo. Una morsa che sembra ormai accompagnarla, con tempi e modalità diverse, alla parabola discendente intrapresa da Salvini.

IL SARCASMO CHE ALEGGIA

La prontezza e la decisione con la quale tutto il campo progressista ha reagito alla pesante provocazione nasconde un lato oscuro. La generazione detentrice delle principali redini del potere politico di matrice progressista ha vissuto in prima persona o si è formata nella fase immediatamente successiva agli attentati terroristici e stragisti condannando quegli atti e denunciando le connivenze, le infiltrazioni e le strategie di centri e settori istituzionali nazionali ed esteri. “La strage di Stato” era all’incirca il motivo conduttore di quegli anni. Sarebbe stato quasi scontato almeno ipotizzare qualcosa di analogo senza nemmeno lo sforzo di dover individuare nuovi protagonisti, visto l’evidente problema di ricambio generazionale. Non lo fanno e il motivo è facilmente intuibile.

CONCLUSIONI

I pretesti, le provocazioni, le trappole sono parti integranti dell’armamentario della lotta politica, a maggior ragione nelle fasi più concitate di scontro e nei momenti di scarsa credibilità di un ceto politico. Solitamente favoriscono maggiormente le forze che più controllano le leve e i centri di potere e di influenza.

Trovano condizioni più favorevoli di esercizio quando le questioni sono mal poste e gli obbiettivi individuati dai movimenti di opposizione scarsamente definiti se non fuorvianti.

Nella fattispecie con l’introduzione delle mascherine, il green pass, le chiusure il problema posto dalla contestazione è quello della limitazione delle libertà e dell’incostituzionalità dei provvedimenti, quando il tema reale ed imposto è quello della necessità dello stato di emergenza, delle modalità di applicazione e delle dinamiche di accentramento e di efficacia dell’esercizio del potere con tutte le manipolazioni connaturate o che fungono da corollario.

Può apparire una sottigliezza insignificante; in realtà è dirimente in quanto riconosce la possibilità teorica dell’introduzione di uno stato d’emergenza e costringe ad entrare nel merito della gravità dell’epidemia, del disordine istituzionale, delle misure necessarie in funzione degli obbiettivi da raggiungere e delle manipolazioni politiche ormai sempre più evidenti di questa condizione. Dal punto di vista delle dinamiche politiche può contribuire a superare la fossilizzazione del confronto antitetico-polare tra la visione complottista del grande disegno totalitario perpetrato da una cupola onnipotente e onniveggente e quella tecnocratica-positivista fondata sul verbo a prescindere degli esperti riconosciuti istituzionalmente; una fossilizzazione del dibattito su binari inesorabilmente tracciati di fatto dai secondi.

A corollario induce a porre realisticamente un altro aspetto dalle implicazioni analoghe: quello dell’esorcizzazione e demonizzazione del problema dell’acquisizione dei dati e del controllo di questi e dei comportamenti. Nella realtà qualsiasi progresso scientifico e tecnologico mira a, parte da una crescente capacità di controllo di dati e procedure. Il problema da affrontare è quello dell’utilizzo possibile e del riconoscimento istituzionale di questi da parte dei detentori piuttosto che la limitazione dei flussi.

Sembrano questioni avulse; sono invece dirimenti per liberare la dinamica politica e soprattutto i movimenti contestatori dalla gabbia inesorabile che hanno costruito i centri decisori dominanti, più fragili nella realtà rispetto alle apparenze, ma resi forti anche grazie alla complicità delle stesse vittime.

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE

La ventilata riforma del catasto ha ridestato il dibattito sulle imposte patrimoniali, cioè quelle le quali, secondo una definizione diffusa, prescindono dalla percezione di un reddito (come, al contrario, l’IRPEF ed altre) e si applicano a chi è proprietario (o possessore) di un bene. Onde se il bene non produce alcunché, il possessore o proprietario è comunque obbligato a pagare l’imposta.

C’è chi esalta la patrimoniale perché “giusta”, in quanto colpirebbe i proprietari e lascerebbe indenni i non proprietari. Se il criterio della giustizia corrispondesse all’appartenenza proprietaria (secondo un’ingenua opinione del socialismo ottocentesco) tale concezione avrebbe un qualche fondamento. Ma dato che è evidente che non è così, essendoci redditi (e ricchezze) enormi generate con nulla o modesta relazione con la proprietà del bene (come i redditi dei manager, i corrispettivi del commercio, le retribuzioni dei vertici burocratici, ecc. ecc.) e, di converso, proprietà con redditi nulli o modestissimi); onde è la sproporzione di ricchezza, non l’appartenenza a determinarne la “giustizia”. E neppure notano che ad ottenere l’effetto redistributivo non è la patrimonialità o meno dell’imposta, ma l’essere progressiva o no.

Gli è che a sostenere tesi così inconsistenti è che se si esentano i patrimoni “piccoli”, si riduce gran parte della base imponibile e così l’utilità della patrimoniale viene ridotta: ciò quando, invece, il fine della stessa è “mettere le mani nelle tasche” degli italiani come dice Salvini, o “spennare l’oca senza farla troppo gridare” come scriveva Pareto, e cioè aumentare l’assetto predatorio, compensandolo (a beneficio delle oche) con nobili e commoventi discorsi di giustizia, eguaglianza ecc. ecc. che con l’imposta patrimoniale (secondo i di essa sponsor) avrebbero a che vedere più che con altri tipi di prelievo pubblico.

Si potrebbe rispondere a ciò con altri argomenti di natura economica: che la patrimoniale stimola a produrre reddito. Vero, ma del tutto marginale, perché ricavare reddito da un bene, direbbe la Palice è, comunque meglio che non percepirlo affatto e così via.

È interessante, invece, rilevare che la preferenza per la patrimoniale risponde non tanto a criteri economici, quanto a evidenze e regolarità politiche e politologiche.

La prima – tipica dell’Italia repubblicana – perché è la più gestibile da un’amministrazione sgangherata come quella nazionale.

Assai più se l’oggetto del prelievo sono immobili censiti e soggetti a pubblicità. Per cui l’affetto verso tale forma d’imposizione occulta la realtà di non volere e non credere che sia possibile recuperare l’evasione fiscale, generata per lo più da redditi di tutt’altra natura. Cioè non credere alle “riforme” sbandierate da tanti anni. Più che di volontà di cambiare il tutto rivela rassegnazione e compiacimento.

La seconda: scriveva Miglio che ogni sintesi politica dà luogo a rendite politiche distribuite dal vertice ai propri collaboratori e seguaci. La differenza principale delle rendite politiche da quelle di mercato è che le prime sono ottenute con la coercizione e che perciò sono garantite (e per questo assai appetite) dal monopolio della forza. Come sostiene Miglio la garanzia della rendita del seguace è a vita e per ogni situazione (almeno finché dura la sintesi politica). Scrive: “comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta”. Mentre le rendite di mercato sono caratterizzate in negativo dall’aleatorietà (ossia dalla dipendenza dalla situazione economica) e in positivo della (tendenziale) assenza di limiti; un imprenditore può morire di fame o divenire Jeff Bezos. L’unico limite, sempre esistente, ma in misura assai differente, è quello dell’imposizione pubblica e soprattutto fiscale.

È da notare l’analogia tra imposta patrimoniale e i caratteri delle rendite politiche: il gettito non dipende dall’andamento di mercato e dai flussi di reddito. Così i quattrini per seguaci ed aiutanti devono essere trovati anche se non “prodotti” (quindi inesistenti).

Il gettito, per la stessa ragione, è garantito (come la rendita) perché la base imponibile è costante e sicura. Ancorare l’imposta al valore di beni non (o poco) deperibili come gli immobili significa, dal lato della spesa, assicurare i redditi erogati dalla classe politica. Non che lo stesso non possa farsi con altri “tipi” d’imposta (che non presentano le suddette analogie): ma è sintomatica la corrispondenza d’amorosi sensi  tra sostenitori della patrimoniale e fruitori delle rendite politiche (per lo più gli stessi).

Dov’è il limite della patrimoniale? È la realtà. Nel senso che, a meno di ritenere i contribuenti affetti da volontà di miseria, per un bene che non da reddito non può, alla lunga, pagare imposte; con la conseguenza che per farlo, il proprietario deve alienare il bene, ossia tollerare la propria spoliazione. Il regime/assetto parassitario (secondo la tripartizione di Pantaleoni) si converte così in assetto predatorio. Con i proprietari espropriati (o, nel migliore dei casi, immiseriti) per alimentare – prevalentemente – i tax-consommers.

Analogamente pensare che un sistema fiscale possa  sostenersi senza che i beni diano un corrispettivo (a meno di alienarli) è concepibile solo ove l’incidenza dell’imposta patrimoniale sia modesta, di guisa che l’adempimento dell’obbligo relativo possa essere assolto con altri redditi del contribuente.

Certo a tali obiezioni si può replicare che questi inconvenienti possono essere causati anche da altri tipi d’imposta: è vero, ma solo nella patrimoniale la corrispondenza tra modalità del prelievo e realtà della politica, delle sue regolarità e del dominio è così evidente. Onde si pensa di mistificarla od occultarla con un’overdose di derivazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Le rane bollite, di Giuseppe Germinario

Quatto quatto, sornione il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato paradossalmente chi non vi ha partecipato e ha agito per vie indirette. Pur con qualche ombra, Mario Draghi.

Non il Presidente del Consiglio bensì il funzionario, l’emissario incaricato di mettere ordine nello stallo e nelle fibrillazioni sterili di un ceto politico allo sbando, di gestire il PNRR rispettando principi e direttive comunitarie, di ridefinire i criteri europei di compatibilità delle finanze pubbliche, soprattutto di fungere da terzo in grado di ricondurre le eventuali pulsioni autonomiste europee nei tradizionali canali filoatlantisti.

Proprio le novità su quest’ultimo aspetto rischiano però di ridimensionare e circoscrivere localmente la sua missione; l’esito delle elezioni tedesche porterà probabilmente al varo di un governo ancora più filoatlantista. Se a questo dovesse aggiungersi una vittoria troppo netta di Macron, il cerchio si stringerebbe ulteriormente e l’azione dell’emissario non più indispensabile. Resta comunque la qualità del personaggio, superiore di molte spanne al livello del ceto politico che infesta lo scenario italiano; qualità, però che rischiano di essere offuscate da una eccessiva e troppo prolungata esposizione, del tutto inusuale e controproducente in tempi ordinari per uomini di potere abituati a muovere leve e tessere trame in modo riservato. Una dinamica destabilizzante, già all’opera da alcuni anni negli Stati Uniti, che potrebbe innescarsi e sfuggire al controllo anche in Italia.

La tifoseria mediatica si è invece concentrata tutta sul palcoscenico. Ha levato sugli scudi la clamorosa vittoria del PD, ha deposto nelle ceneri la débâcle della Lega; con qualche circospezione ha sottolineato il tracollo del M5S e la crescita di Fratelli d’Italia. Una sicumera che, tra le varie cose, tiene in scarsa considerazione il carattere locale delle elezioni, l’importanza della differente qualità dei candidati e soprattutto la debolezza del radicamento militante e la ridotta capacità di influenza e di richiamo alla fedeltà dei partiti nazionali.

La realtà offre quindi tinte meno nette almeno nel primo caso.

Più che una vittoria e una travolgente avanzata, l’esito elettorale del PD sembra annunciare la fine, si vedrà se definitiva o temporanea, di una tendenza verso il tracollo, interrotta più per dabbenaggine e limiti evidenti degli avversari che per merito proprio; una interruzione o una pausa per altro molto più appariscente nei grandi centri urbani e nelle città che nella provincia e nelle periferie del paese.

La Lega offre un quadro molto più complesso da decifrare. La rappresentazione mediatica del disastro appare verosimile solo rispetto alla proiezione irrealistica tracciata sulla base dell’esito delle elezioni europee del 2018; in un contesto più equilibrato si può considerare ancora più una situazione di stallo tendente verso il ribasso che di vero e proprio collasso con punte di crisi più accentuate nelle grandi realtà urbane e di confermata scarsa significanza nel Sud e parte del Centro Italia. Una condizione di crisi latente accentuata dalla fallimentare gestione leghista dell’emergenza pandemica in alcune aree della Lombardia; fattore però destinato a restare meno determinante in un contesto di elezioni politiche generali nel quale la contestuale disastrosa gestione nazionale della crisi pandemica, specie del secondo Governo Conte, spingerà ad un generale comportamento omertoso di tutte le parti politiche. Crisi resa endemica e sempre meno gestibile dal dualismo, appena tollerabile in una fase ascendente di consenso e di opposizione al governo, tra l’aspirazione conclamata a costruire un partito nazionale, dedito all’interesse nazionale e la realtà di un radicamento e di una formazione politico-culturale di una classe dirigente localistica e particolaristica, sensibile tuttalpiù in maniera opportunistica alle sirene universaliste dell’europeismo.

Un dualismo appunto irrisolvibile nell’attuale contesto politico se non con la riproposizione di un altro dualismo, ancora più precario e problematico nel tempo, con una componente conservatrice egemone preferibilmente esterna alla Lega, già proposto a suo tempo durante l’apogeo della leadership di Berlusconi, ma irrealizzabile date le caratteristiche ed i limiti evidenti di Fratelli d’Italia, il partito al momento emergente del centro-destra.

Da questo punto di vista appare evidente e ormai sancita dal responso elettorale l’incapacità del gruppo dirigente della Lega di inserirsi nei centri decisionali e nei settori, presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane, le quali dovranno trainare nel bene e nel male i processi di ristrutturazione economica e riconfigurazione della formazione sociale, nonché determinare la collocazione geopolitica del paese; gli rimane una capacità residua di contrattazione legata al suo radicamento particolaristico.

Non è purtroppo una caratteristica esclusiva della Lega; riguarda piuttosto l’intero arco della rappresentanza politica, compresa quella del PD.

Nella loro pochezza, ne hanno offerto una rappresentazione plastica i discorsi di commento dei due partecipanti all’accesso al ballottaggio alle comunali di Roma: Gualtieri per il PD, Michetti per il centrodestra.

Il primo tutto teso alla missione universalistica, europeista di Roma nella veste di capitale d’Europa, con qualche concessione compassionevole alla condizione materiale della città e di gran parte dei suoi cittadini; il secondo con la sua enfasi esclusiva ai problemi particolari di degrado dei quartieri con qualche riferimento demagogico ai fasti imperiali passati e con nessun riferimento al ruolo e all’immagine di una capitale di una nazione e di uno stato nazionale.

L’uno espressione di una élite universalista in realtà arroccata e del tutto dipendente da scelte esterne, l’altro proteso in una difesa confusa e demagogica di interessi popolari talmente indefiniti da essere rinchiusi in prospettive particolaristiche ed immobilistiche. Entrambi incapaci culturalmente, non solo politicamente, di coniugare il ruolo politico e geopolitico di una capitale e di una nazione con la costruzione di una formazione sociale più equa, dinamica e coesa.

Lo specchio esatto di quello che è in grado di offrire il quadro politico e dirigenziale nazionale.

Per i media nazionali, detentori sedicenti dell’orientamento della pubblica opinione, l’aspetto dirimente di questa elezione è invece la sconfitta del populismo e del sovranismo.

Il sollievo evidente quanto infantile sotteso a questo giudizio è esattamente proporzionale alla compiacenza indegna con la quale hanno gestito la vergognosa vicenda degli “affaires” Morisi e Fidanza-Lavarini; indegna molto più per la gestione giornalistica che per il merito dei fatti e delle trappole probabilmente orchestrate all’uopo.

Il giudizio sul populismo, a parere dello scrivente, ha un qualche fondamento; ma solo nel merito, non nel carattere definitivo della sua sconfitta. Se per populismo si intende l’attitudine a “servire il popolo”, a scambiare per strategia, tattica e programma politico slogan, proclami ed aspirazioni generiche di un ceto politico emergente il quale tende a nascondere i propri limiti e il più delle volte le proprie reali ambizioni e finalità dietro le pulsioni ed aspirazioni popolari da questi ovviamente e univocamente interpretati, la crescita dell’astensionismo, lo stallo legato alle improbabili e improvvise giravolte, alla volubilità rappresentano certamente l’indizio di una crisi di credibilità tanto di questi che del ceto politico elitario e progressista che intende contrapporsi e sostituirlo, ma che in realtà finisce per rimanere arroccato nelle sue enclaves.

Quella tra populismo e sovranismo è però una associazione possibile, ma non inestricabile, la cui scissione potrebbe creare teoricamente condizioni più favorevoli all’affermazione più matura di quest’ultimo.

Se per sovranismo si intende il fatto che lo stato nazionale e la formazione di una classe dirigente nazionale sono condizioni necessarie ed indispensabili ad affrontare le dinamiche multipolari e i processi di globalizzazione; se con esso si esprime di conseguenza la necessità di modificare, ampliare e potenziare le prerogative statuali in grado di consolidare l’identità e la coesione di una formazione sociale e sostenere il confronto geopolitico, il discorso, con buona pace degli universalisti e dei lirici europeisti, è tutt’altro che chiuso. Può essere tutt’al più rimosso, pratica dei quali gli universalisti, specie progressisti, sono maestri, ma con conseguenze tragiche nel tempo delle quali si cominciano a intravedere diversi aspetti nel nostro paese. È la chiave che consente di individuare i giusti strumenti per cambiare e ridefinire il sistema di relazioni e di rapporti nel continente europeo in modo tale da affrancare i paesi e le nazioni dalla condizione di asservimento , di paralisi e di incapacità cui ci ha condotti l’Unione Europea e la NATO.

La crisi pandemica, la profonda riorganizzazione delle catene produttive, l’invenzione di nuovi prodotti e l’annunciata scomparsa di alcuni tradizionali, lo spostamento del centro di confronto nel Pacifico sono tutte condizioni oggettive che potrebbero facilitare il sorgere di forze “sovraniste”, meglio definire nazionali più mature nel perseguire propositi di contestuale coesione e dinamismo sociale ed indipendenza e autonomia politica nelle decisioni.

Nella fattispecie la riorganizzazione della componentistica nella industria dell’auto e della meccanica, l’attuale conformazione dell’industria agroalimentare, le scelte energetiche e in materia di difesa, lo stesso comparto finanziario, settori alcuni dei quali forniscono le basi di una stretta ed asfissiante dipendenza economica dalla Germania in primo luogo, base della propensione culturale al particolarismo della Lega ed alla sua soggezione politica ai centri bavaresi potrebbero essere la molla per la trasformazione positiva di queste forze politiche o per la creazione, dalle loro ceneri, di una formazione politica più matura in grado di comprendere la complessità delle dinamiche, di adottare le migliori strategie e tattiche, di conquistare la testa non solo le pulsioni dei ceti più dinamici.

Non è escluso, tra l’altro, che la potenza di queste dinamiche inducano soprattutto parti della Lega a risolvere il dualismo che la costituisce e con esso scindano alla fine il partito stesso prima che arrivi a consumarsi.

Nella componente progressista, quella purtroppo meglio predisposta al “buon governo”, un processo del genere attualmente non appare neppure ipotizzabile. Nello schieramento opposto il particolare radicamento sociale è oggettivamente più favorevole a questa trasformazione; rimangono l’enorme ritardo culturale e la volubilità e volatilità estrema del suo ceto politico, retaggio del populismo d’anteguerra e del particolarismo autocelebrativo ad impedire la nascita di una espressione politica matura.

Per governare processi complessi di questa portata occorre infatti un ceto politico solido ed autorevole capace di orientare pulsioni ed interessi, piuttosto che rimanere strumento ed ostaggio di questi. Le attuali condizioni di esercizio della democrazia, assieme al dissesto istituzionale, non fanno altro che alimentare queste dinamiche sino a portarle presumibilmente a condizioni di rottura, con i suoi esponenti destinati a finire come rane bollite, grazie alla loro sostanziale inconsapevolezza della posta in palio.

La velocità sempre più repentina con la quale ascendono e tramontano i leader politici da oltre venti anni a questa parte sono il sintomo di tale condizione.

Una dinamica che rischia di trasformare l’esperimento temporaneo della gestione della scena politica da parte di un tecnocrate-decisore, quale è Draghi, in qualcosa di più duraturo. Una tempistica che rischia di logorare e compromettere ulteriormente non solo il ceto politico, ma anche la stessa classe dirigente di solito preposta a gestire le cose con modalità solitamente più riservate, ma già di per sé impedita da evidenti limiti di capacità e comprensione, anche essa circoscritta sempre più al ristretto “particulare” perfettamente compatibili e propedeutici a subordinazione ed asservimento scevri da ogni ambizione.

IL CATASTO DELLA DISCORDIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL CATASTO DELLA DISCORDIA

Questa settimana sul “teatrino” della politica è andata in scena la pièce del catasto, con i soliti ruoli: il centrodestra in quello dei Gracchi, a difendere il popolo dei tartassati, il PD nell’usuale personaggio del moralgiustizialista (che produce giustizia con il portafoglio degli altri) un Arpagone in cipria e merletti; e il resto della compagnia in personaggi di contorno.

Data la reazione tutt’altro che entusiasta dell’opinione pubblica, il PD ha dovuto ridimensionare rapidamente l’iniziale consenso anche perché, a parte la solita “estrema” sinistra, si è trovato a corto di alleati.

Tuttavia è il caso di comprendere perché gli argomenti del PD (e compagni) sono usati e perché funzionano sempre meno.

La giustizia. Ch’è argomento sia di carattere offensivo, nel senso di promuovere l’avanzata sia difensivo, per proteggere la ritirata. Nel caso, fugacemente utilizzata nel primo, assai più nel secondo.

Dato infatti che i contribuenti sanno benissimo che si parte facendo appello a commoventi discorsi di giustizia, solidarietà, ecc. ecc., ma si finisce per mungere chi le tasse già le paga, i piddini si sono serviti della “giustizia” con la correzione della parità di prelievo, ossia volta a riequilibrare il prelievo tra i contribuenti e non per aumentarlo.

Tuttavia i contribuenti – a parte le reiterate esperienze dei risultati contrari alle esternazioni simili – forse si sono ricordati che la manovra fu già fatta (in tono minore) una dozzina di anni fa con le c.d. micro-zone; ma che io sappia a tutti i professionisti che se ne sono occupati (da me contattati), me compreso, non risulta che ci fosse un sono contribuente cui la “riformina” non avesse regalato un aumento d’imposta; oltretutto nello stesso periodo in cui il governo Monti con la sagacia economica che lo caratterizzava, istituiva l’IMU con enormi aumenti dell’imposizione. Il danno così risultava aggravato ad onta dell’intento giustizialista esternato: l’unica redistribuzione prodotta era quella dalle tasche dei governati a quelle dei governanti.

La credibilità. Dato ciò, perché una classe dirigente richieda (con successo) un sacrificio ai governati occorre che abbia autorità e legittimità. Churchill poteva farlo, promettendo lacrime e sangue agli inglesi, sia perché lo era, sia perché c’era da affrontare un nemico formidabile come la Germania nazista. Ma alla sinistra (o sedicente tale) italiana contemporanea, autorità e legittimità mancano del tutto. A provarlo sono due fatti: l’uno, decisivo, che non sono mai andati al governo (dal 2008 in poi) per aver vinto le elezioni, cioè per volontà del corpo elettorale (quindi popolare) ma solo per decisione di altri e/o per manovre di palazzo. L’altro, secondario ma rivelatore, che non fanno, di conseguenza, nelle loro argomentazioni, alcun riferimento ai desiderata del popolo, ma ad altro: “ce lo chiede l’Europa”, “lo ha detto Greta”, “faremo cose magnifiche” (ma le esperienze insegnano il contrario), “lo sostengono i tecnici” e così via.

Tra commoventi appelli alla solidarietà, mozioni degli affetti, futuro paradisiaco, c’è tutto l’armamentario della propaganda (neanche granché raffinata).

E qua casca l’asino; perché se il governo Draghi ha di per sé il pregio di essere il più credibile tra i governi italiani degli ultimi quindici anni, il premier non ha la vocazione a perderla, in particolare per manovre mediocri. Onde ben fa Draghi a ripetere che questo è il momento di dare quattrini ai cittadini e non di toglierli. Finché è coerente, la sua credibilità non ne risente.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE, di Pierluigi Fagan

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE. Nella logica dei sistemi, le transizioni di fase sono cambiamenti strutturali dello stato, logica o ordine interno del sistema. Considerando l’Europa politica (l’UE) un sistema, vediamo di fare una fotografia aggiornata di quella che sembra proprio una transizione di fase.
La notizia, ed è una vera e propria notizia, è che Italia e Francia starebbero per firmare un trattato bilaterale, sul tipo di quello a suo tempo firmato da De Gaulle ed Adenauer agli albori della Comunità europea (1963), poi rilanciato nel famoso trattato di Aquisgrana (2019) tra Francia e Germania. Di questo hanno discusso nel recente incontro di Marsiglia Macron e Draghi, per cui pare che ora la bozza approvata a Parigi sia in ultimo esame a Roma per poi arrivare alla firma. I temi dell’accordo sono vari ma alcuni sono più rilevanti di altri.
Il tema fondamentale però, non è un contenuto dell’accordo ma l’accordo stesso. Gli accordi bilaterali Francia e Germania erano di corredo alla ragione prima sottostante la stessa idea di Comunità e poi Unione europea ovvero incatenare tra loro le due potenze continentali che hanno dato vita a una lunga sequenza di guerre lungo gli ultimi tre secoli. Erano quindi accordi diciamo “difensivi”, a difesa dal pericolo del riproporsi di una sregolata competizione diretta. Ma i singoli stati europei oggi, non vivono più una fase in cui il primo pericolo è interno, ma esterno. Russia, Cina, Medio Oriente, Africa, pandemie, nuove tecnologie, corsa allo spazio, precario sviluppo economico, migranti, difesa, demografia, ecologia, sono la sempre più problematica agenda del mondo a cui ci si deve politicamente adattare.
In più, l’atteggiamento americano verso l’Europa inaugurato da Trump, pur con stile diverso, viene conformato nei fatti da Biden. Gli USA hanno problemi loro, strategie loro, nuovi egoismi quali nascono dall’essere sottopressione e vivere una fase di contrazione di potenza. Tra cui l’ossessione cinese che invece per gli europei, tale non è affatto, anzi. Tanto per dirne una, il prossimo 24 settembre, Biden farà un vertice QUAD con Australia, India e Giappone ovvero l’asse Indo-Pacifico, il vero contesto primo delle preoccupazioni americane ovvero il contenimento della Cina. A tale proposito, spero siano fake news quelle che spifferano di una eventuale intenzione americana di aprire una propria base a Taiwan. Lo spero proprio, la reazione cinese potrebbe esser imprevedibile.
Passando dalla fase “difensiva” a quella “progettuale”, i francesi hanno dovuto prender atto che ciò che gli unisce alla Germania è davvero poco, se si esce da una logica di relazione di convenienza limitata, senz’altro meno di quello che li unisce all’Italia e più in generale ai paesi latino-mediterranei. Potenza della geo-storia, questa logica a lungo trascurata per dominio della logica puramente economicista. Da un paio di anni, la Francia capeggia per molti versi le richieste verso l’Europa del gruppo latino-mediterraneo di cui, in tutti i sensi, fa parte anche se da sempre coltiva una sua schizofrenia interna che vagheggia un asse franco-carlomagnesco.
In più, i tedeschi sono anche loro in transizione di fase. Lo sono perché lo è l’Europa ed il mondo (vedi “globalizzazione”), ma anche perché dopo sedici anni, perderà la sua capofamiglia, la signora Merkel. Tra undici giorni si vota per il nuovo Bundestag e nuovo Cancelliere. Al momento, si prevede un successo SPD ma soprattutto un crollo verticale di CDU/CSU, tanto da presentare l’ipotesi di un governo SPD-Verdi-Liberali con i democristiani fuori, una vera novità tellurica. Ma è prematuro fare congetture sull’esito del voto, però si possono fare tre considerazioni. La prima è che la Germania termina la sua lunga stabilità in accordo ad una relativa stabilità del quadro mondiale. La seconda è che l’eventuale coalizione “semaforo” è più numerica che politica. La terza è che sarà molto importante capire come e se si sposteranno gli equilibri interni alla Germania in rapporto ai problemi europei cosa che in sostanza si capirà quando verrà stabilito il ministro delle finanze, pare non prima di dicembre. I tedeschi impiegano molto tempo a fare un governo di coalizione dopo le elezioni, poi dura tutta la legislatura. Noi facciamo governi di coalizione in una settimana, poi durano qualche mese.
Due questioni, più di ogni altra, si presentano in chiave europea. La prima è la riforma del Patto di Stabilità. Qui si stanno già da tempo muovendo i pezzi sulla scacchiera con Francia-Italia e paesi latino-mediterranei da una parte e Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca, Lettonia, Slovacchia, Svezia e Repubblica Ceca, dall’altra. In gioco, ovviamente, le questioni di bilancio, il debito comune e tutta la cascata di dettagli architettonici dell’economia e finanza dell’Unione per i prossimi anni che i latino-mediterranei vorrebbero più simili agli ultimi due che non ai precedenti intercorsi tra il 1997 e l’inizio della pandemia. Ma è forse la seconda questione la più importante. All’interno della Commissione, gli italo-francesi vorrebbero portare il principio di maggioranza semplice rompendo il paralizzante dogma dell’unanimità. Ad occhio, infatti, gli otto paesi detti “frugali” contano -tutti assieme- un terzo di popolazione dei cinque latino-mediterranei e gli interessi delle nazioni si pesano, non si contano solo come diceva il buon vecchio Cuccia a proposito delle azioni nei consigli di amministrazione. E’ ovvio che questo nuovo principio sovvertirebbe le logiche unioniste ed è quindi ovvio si aspetti di vedere cosa succede in Germania per capire i margini di manovra di tale possibile innovazione che procurerebbe qualche strappo politico di una certa rilevanza.
A latere, ci sono anche le questioni sulla nuova forza armata di pronto intervento europea con seimila effettivi tra esercito-marina-aeronautica. Piccola forza, ma di una certa rilevanza politica e geopolitica. La forza, infatti, presuppone un comando politico e questo, di nuovo, deve prodursi per maggioranza semplice stante che tale forza sarebbe in pratica fatta da francesi, italiani, spagnoli e tedeschi ed agli interessi geopolitici di questi risponderebbe. Interessi geopolitici che per Spagna, Francia ed Italia, non possono che esser mediterranei (Africa, Medio Oriente, Turchia) come geo-storia indica con precisione.
Ci sarebbe molto altro da dire ed approfondire su tutte queste ed altre questioni, ma qui siamo su un formato che ci limita. Aggiungerei solo due cose.
La prima è che dell’eventuale nuovo trattato italo-francese abbiamo anticipazioni, ma ovviamente nessun contenuto preciso. Il tono però sembra complesso e non solo formale. Si prevedono, almeno nelle intenzioni, forti intendimenti comuni certo economici, ma anche politici, culturali, geopolitici, insomma qualcosa di più che non una amicizia occasionale. Il che, lo diciamo chiaramente, ci piace assai. Chi segue questa pagina da più tempo, saprà che per quanto alle mie analisi, il futuro auspicato è quello di una vera Unione politica dei paesi latino-mediterranei, costituzionalizzata e parlamentare, quindi democratica e politica. Lo richiede l’adattamento al mondo dei prossimi trenta anni. La sovranità non è un principio astratto, si deve difendere con la potenza ed oggi, nessun singolo stato europeo ha la potenza adeguata. E quanto a “potenza” non ci sono solo questioni militari, si tratta anche di nuove tecnologie, investimenti e ricerca, politiche energetiche, questioni demografiche, peso geopolitico, peso economico-finanziario-monetario, peso culturale. Naturalmente questo prescinde da simpatie ed antipatie, anche da Macron e Draghi, non sottostima il pericolo che la Francia pensi di dominare la relazione a proprio egoistico vantaggio. Non so se mai si farà, come e quando, però dai contenuti che emergono del trattato una certa propensione a davvero unirsi ad altri per aver maggior massa che è presupposto della potenza necessaria a far qualsiasi cosa, sembra emergere. Ma siamo alla prima riga di un lungo romanzo ipotetico. Vedremo.
La seconda è che Italia e Francia sono i due soli paesi europei in cui si applica il Green Pass con una certa decisione. I due paesi hanno una quota vaccinati (completi) simile intorno al 67%, più bassa di Spagna e molto più bassa di Portogallo. I greci, invece, stanno più indietro. L’obiettivo mai esplicitato ufficialmente, ma quello che si ritiene a grana grossa tale, è arrivare il prima possibile almeno ad una copertura del 75%. Questo darebbe ragionevole garanzia (“ragionevole” per quanto lo permetta lo stato attuale delle conoscenze su questo virus che, come tutti notano, è quantomeno incerta) di un più limitata circolazione del virus, limitata cioè “gestibile” senza ricorrere di nuovo alle zone colorate, alle chiusure o limitazioni segmentate o addirittura a nuovi lockdown. E’ la capienza ospedaliera che fa da termine ultimo, fatto questo noto da due anni ma su cu i governi tacciono per pudore e cattiva coscienza e gli anti-governisti tacciono perché vanno appresso ad una loro nuvola di diversi presupposti per sostenere la loro narrazione sulla dittatura biopolitica ordita a Davos che ha come obiettivo ultimo la sola Italia perché “chi doma l’Italia doma il mondo”. Potenza degli immaginari. Problemi di gestibilità invece, attiverebbero di necessità nuove norme limitanti che limiterebbero la ripresa economica che limiterebbero lo spazio di agibilità politica per andare in Europa a richiedere di estendere in permanenza forme di debito comune e minor ossessione sulle politiche di bilancio. Quindi i due governi italiano e francese sono quelli che vanno più per le spicce, hanno fretta e non possono sbagliare, questo è per altro noto a tutte, ripeto “tutte” le fazioni politiche di governo e non in Italia che infatti stanno zitte, assecondano o giocano a fare la forza di lotta -su twitter- e di governo -nei fatti-. Fallire la ripresa economica e fallire l’utilizzo dei miliardi -per quanto condizionati- dati dall’UE, sarebbe la morte per il progetto di parziale modifica della logica UE italo-francese. E si tenga pure conto che Macron, ad aprile, va ad elezioni e sulla carta, pure non proprio per lui promettenti.
Bene, il post è ricco, lo saranno immagino anche i commenti. Tutti benvenuti eccetto quelli che invece di trattare l’argomento nel suo insieme ovvero nel suo complesso, estrapoleranno singoli fatti per esprimere qualche inutile, più o meno biliosa, convinzione personale non poggiata su analisi razionali. Del tutto da evitare, invece, polemiche sulle faccende Covid, il post non è su quello. Per vostra conoscenza non sono favorevole al Green Pass, lo sono personalmente verso i vaccini, preferirei lo sviluppo di forme di cura a casa per evitare le temute invasioni ospedaliere, trovo l’intera gestione di comunicazione del problema Covid delirante con distribuite responsabilità tra Governo, circo mediatico ed una certa parte di area critica egemonizzata da vari tipi di deliri anche psichici, ma non è di questo che il post invita a discutere.

 

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