SOSPENDERE L’USO PUBBLICO DELLA RAGIONE, di Pierluigi Fagan

SOSPENDERE L’USO PUBBLICO DELLA RAGIONE.

La “società aperta” ha deciso di chiudersi. La società liberale va a polarizzarsi nella contraddizione delle sue stesse premesse.

L’ambasciatore italiano a Mosca, lì col chiaro mandato di favorire le relazioni commerciali bilaterali, ha avuto l’ardire di segnalare in una audizione parlamentare, il costo delle sanzioni per le nostre imprese su dati FMI. Un argomento che dovrebbe interessare una democrazia di mercato visto che parla di mercato, no? Dire questo è dire che non si dovevano elevare sanzioni? Credo che un ambasciatore navigato come Starace con un passato in Cina, USA, Giappone sappia qual è il suo limite ovvero dare informazioni, non suggerire decisioni. Ma la società aperta che amava definirsi anche società dell’informazione, ora scopre che le informazioni non piacciono, le informazioni disturbano le decisioni o per lo meno ne ricordano il prezzo. Non c’è nulla di male a sapere il costo delle decisioni, aiuta ad organizzarsi per poterle pagare o si pensa o si vuol far pensare che le decisioni ideali siano libere e gratuite?

Il direttore dell’unico quotidiano di informazioni sulle relazioni internazionali, Sicurezza internazionale, edito dalla LUISS Guido Carli, collegata in vari modi a Confindustria, diretto da un professore ricercatore affiliato al MIT di Boston e che pubblica in USA con la Cornell University, A. Orsini, ha l’ardire di invitare in tv ad inserire ciò che sta avvenendo in Ucraina in una inquadratura più ampia, nello spazio (geografia) e nel tempo (storia). Bassanini domanda nervosamente su twitter se Orsini esprime il pensiero della LUISS o personale di modo che LUISS sia obbligata a ribadire la sua stretta osservanza atlantista facendo una ramanzina al suo professore in pubblico sul fatto che questi si doveva attenere ai fatti e non dare interpretazioni. Già, “i fatti”.

Il giornalista RAI Marc Innaro, una prima volta a Mosca per sette anni, poi di nuovo negli ultimi otto, per aver riferito cosa i russi dicono dei fatti (se sta a Mosca cosa deve fare, riferire cosa dice Zelensky? Quello già lo riferiscono 7/24 sette-reti-sette+stampa e radio) è ora richiesto a gran voce esser spostato ad altro incarico. Magari come mi è capitato di sentire l’altro giorno su RAI News riferisce che i russi affermano di aver convocato l’ambasciatore della Croazia perché i russi avrebbero pizzicato 200 neo-nazi con passaporto croato ed avrebbero affermato che ve ne sono da ogni parte d’Europa e quindi hanno poi affermato che non tratteranno gli stranieri come prigionieri di guerra (il che ha un brutto significato come potrete intuire). O come ieri ha riferito che i russi sostengono che non sono così deficienti da sparare ad una centrale nucleare: 1) perché la vogliono prendere intatta; 2) perché la Russia dista dalla centrale meno che la Moldavia; 3) perché Mosca dista meno di Vienna. Così i russi sostengono che la controllano da giorni e che l’incidente è organizzato dagli ucraini per mandare in mondovisione la fake news. Siamo tutti adulti e dovremmo sapere tutti che la guerra delle informazioni e controinformazioni è norma, ma quando la fa Zelensky è verità, quando la fa Mosca è falsità sempre e comunque. Ma poi, non si capisce cosa altro dovrebbe fare Innaro se non riferire cosa dicono lì, cosa significa “corrispondente”?

Così, nell’uso pubblico della ragione, non puoi avanzare qualche dissonanza se prima non reciti il Credo nella Verità della Chiesa Unitariana del Bene contro il Male e del Vangelo della Marvel Comics, ma pare che ormai non basti più neanche quello. Non vogliamo nessun mondo multipolare, quindi ci polarizziamo, noi Bene, altri Male, tertium non datur e chi lo dà è collaborazionista suo malgrado. Il mondo crede a quel Vangelo, l’ha celebrato anche all’ONU. Peccato che tra astensioni e contrari, abbiamo votato paesi con metà della popolazione terrestre e poiché quel voto non comportava alcuna sanzione, è pure dubitabile che chi ha votato per la risoluzione voglia mai andare oltre alla semplice dichiarazione. Io non sono un paese ONU, ma se fossi stato lì l’avrei votata anche io quella dichiarazione, chi mai può difendere il “diritto” si un paese a varcare armato il confine di un altro? Siamo all’ovvio. Com’è ovvio che a tutt’oggi solo un quarto del mondo, l’Occidente polarizzato su Washington con il senior partner UK, ha elevato sanzioni, sebbene secondo la strana geografia surrealista della von der Leyen, questa sia la “comunità globale”.

Cos’è l’Illuminismo? Pensare con la tua testa. Avere il coraggio, pagarne il prezzo. Non pagare chi pensa per te tenendoti nell’infanzia eterna deresponsabilizzata, assumerti le tue responsabilità davanti al mondo. “Senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: – Non ragionate! – L’ufficiale dice: – Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. – L’impiegato di finanza: – non ragionate, ma pagate! – L’uomo di chiesa: – Non ragionate, ma credete!” diceva Kant in quel del 1784. Comprendere è prender assieme quanti più fatti ci è possibile, giudicare viene solo dopo che hai ben compreso, comprensione e giustificazione sono atti separati e con fini diversi.

Così oggi sembra che la società aperta-chiusa, la Wide-Shut-Society, la società spalancate ad alcune cose ma chiusa ad altre, necessiti di spegnare la luce, non è epoca di illuminismi. La società aperta mi sembrava dovesse esser liberale, ma si sa i liberali annunciano principi universali, ma con applicazioni particolari. Sono come i contratti assicurativi, la fregatura è a corpo 5. Locke annunciava la totale libertà di credenza, ma il totale era dentro il protestantesimo, se eri cattolico o ateo andavi al gabbio e buttavano via la chiave, se non di peggio.

Quando s’impone il buio, vuol dire che si vuol nascondere qualcosa?

Perché Draghi otterrà effetti contrari a quelli annunciati, di Davide Gionco

Come un pessimo governo intende stravolgere l’ottimo provvedimento economico del Bonus 110%.
Perché Draghi otterrà effetti contrari a quelli annunciati.
di Davide Gionco
26.02.2020

Le truffe sui bonus del 110% e le correzioni proposte da Mario Draghi
Siamo ancora assordati dai cori mediatici di beatificazione di “San Mario Draghi”, nonché dalle continue emergenze e paure che incombono sul popolo italiano, per cui quasi nessun commentatore si prende la briga di analizzare in modo critico le recenti prese di posizione del presidente del Consiglio Draghi nei confronti del famoso “Bonus fiscale 110%”, che probabilmente ha rappresentato l’unica misura governativa significativa per la crescita dell’economia italiana degli ultimi 10 anni.
Più ancora degli indicatori statistici ne è prova la rapida saturazione del settore dell’edilizia, con imprese che non riescono a rispettare le scadenze pattuite, nonostante le assunzioni di personale e gli aumenti dei prezzi nel settore. Qualcosa che nessuno ricordava almeno dagli anni 1980.

Nelle ultime settimane Draghi ha denunciato numerose truffe (pari oltre 4 miliardi) da parte di soggetti senza scrupoli, che hanno portato alla concessione di bonus fiscali in cambio di lavori mai realizzati, dopo di che i bonus fiscali, ceduti alle banche, sono stati convertiti in euro ed investiti (o imboscati) nella solita finanza speculativa.
Per evitare il ripetersi di queste truffe, nonostante tutta la burocrazia necessaria per la concessione dei bonus fiscali, Draghi propone di limitare la cedibilità dei crediti ai soli soggetti “finanziari” ovvero alle banche. Secondo Draghi questa misura dovrebbe evitare le truffe e, quindi, rendere i bonus fiscali sostenibili per le casse dello Stato e fare sì che il lavori di ristrutturazione energetica vengano effettivamente realizzati.
Ma siamo sicuri che la risposta di Draghi otterrà questi obiettivi?

Il meccanismo della cessione dei crediti
Per capire come stanno le cose è innanzitutto necessario comprendere i meccanismi di funzionamento dei bonus fiscali (del 110% energetico o altri) cedibili a terzi.
La grande novità introdotta dal governo Conte II e poi mantenuta da Draghi non è stata tanto la concessione di sgravi fiscali, cosa a cui gli italiani erano da tempo abituati, ma la possibilità di ottenere dei bonus fiscali che possono essere ceduti a terzi per il pagamento di prestazioni lavorative.
In passato gli sgravi fiscali venivano coperti da altre entrate fiscali, da nuovi tagli alla spesa pubblica o, al limite, da un aumento del debito pubblico (copertura tramite emissione di nuovi titoli di stato). Ad esempio, se venivano concessi 10 miliardi di sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie, il governo doveva mettere in conto un aumento di altre entrate fiscali per 10 miliardi di euro (o 10 miliardi di tagli in altre spese o 10 miliardi in più di debito o una combinazione fra queste soluzioni).
Gli esperti di macroeconomia mi faranno notare, giustamente, che il conto non è corretto, in quanto esiste il famoso “moltiplicatore keynesiano”.
Infatti dando degli incentivi fiscali, le famiglie o le imprese andranno a commissionare lavori che senza incentivi non avrebbero fatto. Queste commesse aggiuntive portano ad un aumento dei redditi, quindi della capacità imponibile delle imprese del settore dell’edilizia, quindi un aumento dei loro versamenti tributari che, senza incentivi, non ci sarebbe stato. Quindi quando lo stato concedeva sgravi fiscali di 10 miliardi per le ristrutturazioni edilizie, in realtà andava a spendere di meno. 10 miliardi in meno di entrate dai contribuenti “sgravati”, ma anche 4 miliardi in più (ad esempio) incassati da parte delle imprese beneficiarie delle commesse aggiuntive. Quindi, al netto, lo Stato “pagava” solo 6 miliardi.

La proposta originaria dei bonus del 110%, quella a cui si sono ispirati i promotori del Movimento 5 Stelle, era quella dei CCF, certificati di compensazione fiscale, promossa dal Gruppo della Moneta Fiscale (economisti Marco Cattaneo, Giovanni Zibordi, Biagio Bossone ecc.) e rilanciata a marzo 2020 con la proposta del Piano di Salvezza Nazionale (www.pianodisalvezzanazionale.it), trasmesso a tutti i parlamentari e tutti i ministri, con il corredo di oltre 35 mila firme di cittadini, la quale prevedeva la creazione di una piattaforma di scambio dei crediti fiscali fra soggetti privati e la possibilità di usarli come sgravi fiscali solo a partire da 2 anni dopo la data di concessione dei bonus.
Con questo meccanismo il condominio, per fare un esempio, avrebbe ottenuto dallo Stato, una volta eseguiti i lavori, un “bonifico” in bonus fiscali direttamente sul proprio “conto corrente” della piattaforma di scambio. Da lì il condominio avrebbe pagato alle imprese le fatture dei lavori eseguiti usando quei bonus fiscali. Le imprese, a loro volta, avrebbero potuto usare quei crediti fiscali per pagare i loro fornitori, compresi i propri dipendenti. Alla fine, dopo 2 anni, chi si fosse trovare proprietario dei bonus fiscali, li avrebbe potuti usare per pagare le proprie tasse in sostituzione degli euro.
L’esistenza della piattaforma di scambio avrebbe facilitato la cessione dei crediti. E ad ogni cessione sarebbe corrisposta una fatturazione (o una busta paga), che avrebbe generato un aumento dell’imponibile fiscale.
Chiedendo venia agli esperti di macroeconomia, semplifico i numeri per rendere chiaro il concetto ai meno esperti. Se ai tempi dei classici sgravi fiscali l’emissione di 10 miliardi euro di sgravi allo stato costava in realtà 6 miliardi, con la novità del meccanismo dei bonus cedibili a terzi tramite piattaforma pubblica, con una estrema facilitazione di fare pagamenti direttamente in crediti fiscali offerta ad una economia caratterizzata dalla mancanza di credito e di liquidità, nel giro di 2 anni avrebbe trasformato l’emissione di 10 miliardi di bonus fiscali in un incremento dell’imponibile almeno di 25 miliardi, quindi consentendo introiti fiscali aumentati di 12 miliardi. Il che significa per lo Stato una perdita di 10 miliardi compensata da un maggior incasso di 12 miliardi ovvero un utile netto di 2 miliardi per le casse dello Stato.
Queste cifre sono puramente indicative, per aiutare la comprensione del meccanismo.
Chi volesse approfondire la conoscenza dei meccanismi ed i calcoli effettuati dagli economisti citati, è invitato a farlo sulle fonte originali.

Una volta compresa l’importanza del meccanismo della cessione dei crediti fiscali nel bilancio complessivo della manovra, ora possiamo giudicare a ragion veduta l’operato dei governi Conte II e, soprattutto, di Mario Draghi.

I veri costi e le vere coperture
Come abbiamo compreso sopra, il “costo” per lo Stato di una manovra finanziaria in cui si prevedono dei bonus fiscali non si misura al momento della emissione dei crediti fiscali, ma al momento in cui quei bonus fiscali verranno utilizzati per pagare le tasse (quindi pagando meno euro) e tenendo conto degli effetti della crescita economica indotta da quella manovra, i quali portano ad un contemporaneo aumento delle entrate fiscali.
Questo significa che il “costo di emissione” di 10 miliardi di bonus fiscali non è di 10 miliardi, come sostengono erroneamente troppi giornali e troppe trasmissioni televisiva, ma è pari a zero. Lo Stato non spende nulla nel momento in cui concede ad una impresa o ai proprietari di un condominio un bonus fiscale. Quello che conta è la contabilità d’insieme al termine del processo macro-economico che l’emissione di quei bonus fiscali ha innescato.

Quindi la copertura di una manovra fiscale che prevede la concessione di crediti fiscali non dipende da un bilancio “statico”, come siamo abituati a fare nei conti di una famiglia o di una azienda, ma dipende molto, moltissimo, dalla crescita economica che verrà innescata negli anni a seguire da quella manovra.
Se vogliamo giudicare l’efficacia delle modifiche che Draghi intende attuare alle disposizioni previste per i bonus del 110% dobbiamo porre l’attenzione molto poco sulle cifre (comprese quelle delle truffe) e molto di più sui meccanismi economici, i quali sono influenzati dalle norme e dalla burocrazia che disciplinano la manovra.

L’imposizione fiscale futura, quella che consentirà di compensare le future mancate entrate fiscali, dipende dal “fatturato” futuro delle imprese e dal reddito futuro dei lavoratori. Il fatturato ed il reddito aumentano ogni volta che dei soldi, ma anche dei bonus fiscali, vengono spesi in cambio della produzione di beni o servizi.
Il meccanismo previsto nella proposta originaria, quello della piattaforma pubblica per la cessione fra privati, era tale da facilitare al massimo, con burocrazia ridotta al minimo, la cessione dei crediti fiscali in cambio di prestazioni lavorative, non solo nel primo passaggio, ad esempio per il pagamento dei lavori di ristrutturazione, ma in ogni passaggio successivo. Ad esempio l’impresa, una volta incassato il pagamento in crediti fiscali, li userà per pagare i mattoni, il produttori di mattoni li userà per pagare l’energia, il venditore di energia per pagare i propri tecnici e quei tecnici per pagare una parte della spesa del supermercato, il supermercato per pagare i contadini, ecc.
Molti passaggi = molto fatturato = molte entrate fiscali = maggiore copertura al momento di sconto dei bonus fiscali, dopo 2 anni. Perché è necessario lasciare il tempo affinché gli scambi avvengano.
E’ fondamentale sottolineare come in ogni passaggio non sia necessaria la conversione in euro del credito fiscale. I bonus, infatti, consentirebbero di pagare i beni e servizi acquistati, senza bisogno di euro.

Gli errori del governo Conte II
Già nella prima versione, modificata rispetto a quella originaria, il governo Conte II aveva deciso di modificare il meccanismo “originario” mettendoci di mezzo le banche. Fin dall’inizio è esistita la possibilità di convertire subito i bonus fiscali in euro, cedendoli alle banche in cambio di euro. Probabilmente questo processo sta alla base della cifra “110%”, 10% per le commissioni delle banche e 100% per pagare i lavori di ristrutturazione.
Qui mi sento di denunciare un primo grave errore commesso dal governo Conte II.
Se è vero che i bonus fiscali valgono come gli euro, non è vero che sono la stessa cosa.
I bonus fiscali hanno valore di “sconto fiscale” solo per coloro che pagano le tasse. Hanno valore solo in Italia e quindi verrebbero usati soprattutto per pagare fornitori italiani. Un fornitore estero, infatti, dovrebbe successivamente preoccuparsi di trovare un fornitore italiano per ri-spendere quei bonus.
Gli euro, invece, hanno valore sia per i fornitori esteri, sia per coloro che guadagnano usando gli euro per investimenti puramente finanziari.
La possibilità concessa da Conte di convertire subito in euro i bonus fiscali ha fatto sì che fra i beneficiari vi siano state in parte anche delle imprese estere, riducendo le potenziali entrate fiscali future.
La conversione in euro da parte delle banche ha inoltre fatto sì che i “soliti furbi” abbiano trovato il modo di investirli in prodotti finanziari (azioni, criptovalute, fondi esteri, ecc.), anziché spenderli per pagare imprese e lavoratori.
E sappiamo bene che i “prodotti finanziari” generano molta poca crescita del fatturato nazionale e molte poche entrate fiscali.
Il fatto di metterci di mezzo le banche ha trasformato, in parte rilevante, i bonus fiscali nell’ennesimo meccanismo di rendita finanziaria di pochi, anziché in uno strumento di crescita dell’economia del paese, che avrebbe garantito la copertura economica del provvedimento.
Il coinvolgimento attivo delle banche da parte del governo Conte II, ovviamente confermato da Draghi, è stato un “dettaglio” che ha reso meno certa la copertura finanziaria della misura proposta.

Gli errori di Draghi
Nelle ultime settimane Mario Draghi ha denunciato le truffe legate ai bonus fiscali.
In realtà tali truffe hanno riguardato unicamente il processo di emissione dei bonus fiscali ovvero i bonus sono stati emessi a fronte di lavori mai effettuati.
Stendiamo un velo pietoso sul fatto che, oltre a pretendere tanta carta inutile e tanta burocrazia, il Governo avrebbe potuto mandare delle persone con un minimo di competenze tecniche a verificare sul posto l’effettivo svolgimento dei lavori, evitando questo tipo di truffe, ma non lo hanno fatto. Sappiamo che in Italia la carta prevale sulla sostanza.
Da come abbiamo spiegato sopra in realtà lo Stato non spende nulla al momento della emissione del bonus fiscale. Quindi, dal punto di vista del bilancio dello stato, è assolutamente irrilevante che i lavori siano stati fatti o meno.
Per intenderci: nella proposta originaria di Marc o Cattaneo era previsto di “regalare” dei bonus fiscali ai lavoratori a basso reddito. In cambio di nulla, con il solo obiettivo di  accrescere la loro capacità di spesa e, quindi, il fatturato aggiuntivo che quella spesa avrebbe generato per l’intera economia italiana.
Nelle truffe riscontrate, è invece molto rilevante e molto grave che i bonus siano stati ceduti alle banche in cambio di euro (e neppure le banche hanno controllato la loro origine), dopo di che quegli euro sono usciti dall’economia reale italiana e sono finiti nei circuiti della finanza. In questo modo non verranno ceduti ad altre imprese ed altri lavoratori, per cui non genereranno alcuna crescita dell’imponibile futuro e lo Stato si troverà di fronte ad una ridotta (rispetto al potenziale) crescita economica, quindi a mancate entrate fiscali, mentre dovrà accettare che le banche usino i bonus fiscali per pagare meno tasse in futuro. Il gioco rischia di essere in perdita, non per colpa dei bonus fiscali, ma per colpa della loro trasformazione in euro ad opera delle banche.
Di fronte a queste truffe qual è la proposta di Mario Draghi?
Draghi propone sostanzialmente di limitare la cedibilità dei crediti fiscali solo alle banche, mentre non è chiaro se proporrà qualcosa di concreto, tipo ispezioni sui cantieri, per verificare che i bonus vengano emessi a fronte di lavori reali. Ovvero: se fino ad oggi, pur con qualche difficoltà. Il condominio poteva saldare il conto pagando l’impresa direttamente con i crediti fiscali, la quale impresa poteva a sua volta usarli per i propri pagamenti, con la riforma Draghi i crediti fiscali saranno cedibili solo alle banche in cambio di euro, dopo di che le banche li trasformeranno in un prodotto finanziario di propria convenienza.

A questo punto lascio ai lettori giudicare se Mario Draghi sia incompetente o in mala fede.
Se la cessione dei crediti fiscali sarà possibile solo alle banche, convertendo i bonus fiscali in euro, una parte maggiore dei benefici andrà ai fornitori esteri (che non pagano le tasse in Italia) o a soggetti del mondo delle rendite finanziarie. E sarà impossibile innescare la catena del “moltiplicatore keynesiano”, la sola capace di assicurare la copertura finanziaria del provvedimento.
Il risultato inevitabile sarà una ridotta crescita attuale dell’economia italiana e, in futuro, minori entrate fiscali per lo Stato, con conseguenti problemi di bilancio.

Altri errori di pianificazione economica
Vorrei concludere evidenziando altri 2 gravi errori commessi già nel corso della prima proposta dei bonus fiscali da parte del governo Conte II e poi, ovviamente, confermati da Mario Draghi.

Un primo errore è stato quello di voler concentrare gli stimoli fiscali principalmente nel settore delle costruzioni. Dopo oltre 10 anni di profonda crisi del settore, di licenziamenti, di pensionamenti di lavoratori anziani esperti senza assunzioni di giovani, di mancata formazione professionale, di mancati investimenti, come si poteva pensare che nel giro di un solo anno il settore fosse in grado di fare fronte a nuove commesse per decine di miliardi di euro?
Il risultato, ovviamente, è stata una rapida saturazione del settore, con aumenti esagerato dei prezzi, mentre altri settori in crisi, come ad esempio il turismo o la piccola distribuzione commerciale, sono rimasti in profonda crisi come e peggio che nei 10 anni precedenti.
Non a caso la proposta originale di Cattaneo & c. prevedeva di assegnare i bonus fiscali in modo graduale e in molti settori dell’economia, portando una crescita economica diffusa, fermo restando il meccanismo di copertura finanziaria sopra illustrato (senza l’intermediazione delle banche).
Molto bene investire sul risparmio energetico degli edifici privati (e quelli pubblici?), ma tutta l’economia italiana ha bisogno di crescere, non solo l’edilizia. Sarebbe stata molto meglio una crescita equamente distribuita nei vari settori.

Il secondo errore è stato quello di non dare un respiro pluriannuale all’iniziativa. Sono anni che ci parlano delle famose “riforme strutturali” richieste dagli economisti “quelli che sanno”. Ma cosa c’è di strutturale in una misura che non si sa se l’anno successivo verrà rinnovata? Come si fa a pretendere che una impresa edile (o di altri settori) assuma dei giovani, investendo sulla loro formazione, che acquisti dei macchinari, che sviluppi competenze, se l’orizzonte delle commesse è al massimo di 1-2 anni?
Solo una iniziativa con una prospettiva certa di almeno 10 anni può dare alle imprese lo stimolo per investire in assunzioni a tempo indeterminato, in formazione professionale, in assunzione di macchinari per migliorare la propria efficienza produttiva.
Anche in prospettiva di un piano nazionale per il risparmio energetico, che certamente è fondamentale per un paese che importa dall’estero una parte molto rilevante del proprio fabbisogno, non ha alcun senso un piano che non abbia come minimo una prospettiva decennale, considerando il pessimo stato energetico del patrimonio edilizio italiano.

Pur essendo chiaro che la misura dei bonus fiscali del 110% è in grado di assicurare da sé la copertura finanziaria, se non ostacolata dall’inserimento di meccanismi che bloccano la cedibilità dei crediti fiscali, chi ci governa ha deciso di renderla ulteriormente inefficace, prima relegandola ad un solo settore dell’economia, poi rendendola una misura “una tantum” e totalmente non strutturale, in modo da non offrire al Paese delle prospettive di crescita.
Con queste argomentazioni mi sento di dare un pessimo giudizio sulle competenze economiche di chi ci governa. E se non si tratta di incompetenza, si tratta di mala fede, che sarebbe ancora peggio.
Questo nonostante il coro unico delle televisioni non perda occasione di osannare “San Mario Draghi”. Che Dio ce ne liberi quanto prima.

LA RICCA EUROPA E’ IL PREMIO DEL CONFRONTO, di Antonio de Martini

LA POSTA IN GIOCO NON E’ L’UCRAINA MA LE FORNITURE DI GAS ALL’ EUROPA E LA PELLE DELLA RUSSIA CHE SPERA NELLA CINA CHE GUARDA AGLI USA…

ANTEFATTO N 1

Nikita khrushev, pur essendo nato in altra parte dell’impero, fece tutta la sua carriera di funzionario del partito comunista russo in Ucraina. Diventato segretario generale del PCUS ( partito comunista della Unione Sovietica), ebbe un occhio di riguardo per i suoi vecchi compagni, assegnando alla loro regione l’amministrazione della Crimea ( il luogo all’epoca più desiderato per le vacanze della nomenclatura e per i cittadini) e incluse ben 17 milioni di russi nei confini della Ucraina , che all’epoca era una regione dell’URSS.

Di qui nascono una serie di guai in cui sono incappati i suoi successori.

Una volta sciolta l’Unione sovietica e smantellato il patto di Varsavia, i governanti statunitensi lasciarono intendere al presidente BORIS YELTSIN di non avere mire sull’est Europa, ma mentre Yeltsin e il suo ministro degli esteri Eduard Shevarnadze si accontentarono di assicurazioni verbali a mezza bocca ( i verbali sono stati desegretati dagli USA un paio di anni fa e accennano a numerosi brindisi), gli americani – vedendo risorgere la potenza sovietica sotto la pelle della nuova Russia- decisero di sfruttare l’ingenuità combinata di Khrushev e di Yeltsin per iniziare a cooptare i paesi dell’est Europa nella loro sfera di influenza e accerchiare la Russia con una catena di basi che lasciassero aperta ogni opzione di possibili attacchi in maniera da creare incertezza strategica sulle intenzioni dello zio Sam. Attratti dalla prospettiva di essere ricoperti d’oro dalla Unione Europea, dal mare del nord al mar nero, prima o poi, abboccarono tutti.

Più difficile l’azione nelle Repubbliche ex sovietiche di cultura turca ( i quattro stan) dove un momentaneo successo della segretaria di Stato Hillary Clinton fece credere di poter disporre di un paio di basi , ma la pronta reazione russa si affermò facilmente.

Al sud, Iran e Afganistan , dove comunque gli USA sono riusciti a costruire un paio di infrastrutture strategiche logistiche che vanno verso la frontiera russa, il problema é ancora indeciso per via dell’ostinazione iraniana e della sua inimicizia con Israele e l’Arabia Saudita che sono le potenze regionali rivali e i più sicuri, per ora, alleati degli USA.

ANTEFATTO 2

La strategia principe degli USA nella seconda guerra mondiale consistette nello strangolamento del Giappone con il controllo delle materie prime e sopratutto del petrolio.

Una volta entrati in guerra, adottarono la stessa strategia nei confronti della Germania e la stessa resa dell’Italia fu considerata positivamente per l’opportunità di utilizzo offerta dagli aeroporti pugliesi per bombardare i pozzi petroliferi di Ploesti in Romania.

Controllando le fonti principali di petrolio del pianeta, senza il quale, navi, aerei e carri armati restano fermi, la vittoria non fu che questione di quando, non di se. La carne da cannone la misero i russi e i dominions.

Nel caso della Russia, ricchissima in petrolio ed ogni sorta di materie prime, il problema non é più consistito nel controllo delle fonti , ma nell’impedirne ai russi lo sfruttamento che é il principale sostegno finanziario dell’economia russa il cui PIL equivale a quello del Benelux. Un vantaggio aggiuntivo é l’opportunità di sostituire la Russia come fornitore della ricca e decadente Europa. Il rifornimento avviene via mare ( con navi e con l’onere di costruire impianti di rigasificazione dato che viene liquefatto per agevolare il trasporto. Ci sono attualmente in Europa sette impianti di rigasificazione in progetto- costruzione)

Il ruolo chiave dell’Ucraina in questa vicenda di scontro di interessi strategici e commerciali tra la potenza marittima per eccellenza e la controparte di terra, é esemplificato dalle due cartine che vedete. L’Ucraina serve agli Stati Uniti per strangolare, come fece col Giappone, ogni velleità espansionistiche – sui mercati o i territori, poco importa – della Russia.

Dalla carta ” di terra” é evidente la parte del Leone che fa l’Ucraina nel veicolare gas e petrolio versa la ricca Europa e nella “carta di mare” il fatto che gli Stati Uniti stanno già acquisendo il cliente Europa cui é già sono fornito il 26% della produzione di gas di scisti, molto più costoso sua per le modalità di estrazione che per quelle di trasporto.

Negli anni ottanta, una manovra analoga fu fatta con l’oro, sacrificando gran parte dell’oro Inglese e canadese , oltre che americano, per far scendere il prezzo sui mercati e privare l’URSS di questo introito importantissimo per la sopravvivenza del regime.

L’ingresso sul mercato dell’India , l’acquirente più grande del prezioso metallo e di altre neo potenze asiatiche , ha consentito la ripresa della Russia di Putin dopo il crollo dell’URSS. L’Afganistan fu un infortunio politico importante ma non decisivo come questo.

Come vedete da questo breve riassunto di una situazione ingarbugliata, l’Ucraina lucra da anni la protezione americana per esigere royalties sempre maggiori per il passaggio delle pipelines sul proprio territorio, la Russia cerca di diversificare le linee di accesso all’Europa attraverso il NORD STREAM uno e due o attraverso la Turchia .

L’Europa, e in particolare l’Italia, galleggiano su un mare di petrolio e di gas dell’est mediterraneo ( Leviathan e Tamar nei mari della Grecia, Libano, Israele e Siria) nel mediterraneo centrale ( le acque profonde dell’Egitto da cui hanno cercato di schiodarci con l’affare Regeni), nelle acque della Sirte e le coste delle Cirenaica ( ormai rese insicure da taglieggiamenti endemici alle fazioni in lotta)e l’Algeria che ha saputo resistere solo a prezzi elevatissimi di sangue. L’Iran e il Venezuela ci sono stati interdetti con il pretesto che non sono democrazie.

Come se il Katar e l’Arabia Saudita e la Guinea Equatoriale, lo fossero….

A tutte queste opportunità, vanno aggiunte le coste pugliesi – alla prospezione delle quali si oppone, non si sa a che titolo, una americana di origine italiana che dice di insegnare in una università della Florida, ma opera in Puglia; al largo di Rimini abbiamo giacimenti trovati da ENI e Gulf italiana negli anni settanta e subito richiusi ” per non danneggiare il turismo”, senza contare i giacimenti in Basilicata e quelli storici della val padana.

In altre parole viviamo su un sottosuolo intriso di gas e petrolio, ma lo compriamo all’estero in cambio di protezione data alla banda di ladruncoli che si accontenta – oltretutto- delle briciole.

La chiamano democrazia, suo marito é il “libero mercato” ( che non é né l’uno né l’altro) e dicono che Al Capone era italiano.

https://corrieredellacollera.com/2022/02/20/la-ricca-europa-e-il-premio-del-confronto/

Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan

Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario

Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati ​​a una tale situazione ea una tale rottura?

Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.

Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.

Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…

Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.

Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.

Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.

Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…

L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.

Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.

Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.

Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…

In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla

In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..

In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:

– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.

– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.

– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.

– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.

C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?

La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:

– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?

Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:

Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.

Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.

In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .

In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .

Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.

Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?

Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.

Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.

Torniamo indietro. :

 Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.

 Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.

– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.

Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.

L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.

I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.

È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.

Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…

[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).

[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.

I beati, i beoti e il loro Presidente_di Giuseppe Germinario

Se si dovesse esprimere un giudizio sintetico sull’epilogo della recente rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica e sul suo discorso di investitura al Parlamento in seduta plenaria, si potrebbe sintetizzare così: per riaffermare la propria trionfale ragione di “riesistere”, ha dovuto glissare sulle ombre del corretto assolvimento alle proprie prerogative per assumersene di altre e ulteriori, proprie di un organo politico esecutivo e deliberativo.

Aspetti, tutti e due presenti e ben rappresentati in quel consesso. Il tutto tra gli applausi scroscianti di beati e beoti, ormai sempre più accomunati e omologati.

Il discorso del Presidente, investito per altro nel suo ruolo di presidenza, tra l’altro, del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio della Difesa, nella sua banalità si focalizza su quattro punti apparentemente anodini: il richiamo potente e retorico al rispetto e alla promozione della dignità in diciotto delle sue applicazioni; il rispetto delle prerogative del Parlamento; la riforma della giustizia; l’adesione incondizionata agli indirizzi della Unione Europea.

  • La retorica della dignità, nelle sue diciotto prerogative, con la quale ha impregnato la parte essenziale del discorso sottende in realtà un netto indirizzo politico, se non un vero e proprio programma di governo. Si può affermare tranquillamente che gli equilibri e la maschera istituzionale propri della prima repubblica siano definitivamente caduti nella sostanza, ma non purtroppo nella forma. Non si sa se gli applausi ostentati di Mario Draghi siano la manifestazione di un senso di liberazione da un fardello governativo anche per lui sempre più opprimente o di una presa d’atto a denti stretti della magra figura fatta nelle trattative in corso e del ridimensionamento delle proprie ambizioni.

  • Il richiamo scontato al rispetto delle prerogative del Parlamento è un motivo ricorrente di tutti i discorsi di insediamento presidenziale. Non di meno il paradosso di una presidenza che ha avallato in quantità industriale ogni decreto e mozione di fiducia riduce il richiamo in uno strepito.

  • Il paradosso si trasforma in sconcerto con il richiamo ad una riforma della istituzione e dell’ordinamento giudiziario in un contesto nel quale avrebbe dovuto usare le proprie prerogative per fissare punti fermi sullo scandalo Palamara piuttosto che glissare elegantemente.

  • Nulla di nuovo nell’ostentato lirismo europeista ed atlantista richiamato nel discorso. Sono il segno e il sollievo da un pericolo scampato, piuttosto che di una realtà politica ormai di nuovo supinamente allineata a quegli indirizzi. Un capo dello stato attento alle proprie prerogative, piuttosto che indugiare in un lirismo ormai fuori contesto, dovrebbe soffermarsi su una definizione dell’interesse nazionale che possa plasmare la coesione e la crescita di una formazione politico-sociale e sulla sua modalità di perseguimento in un agone dove i diversi stati nazionali non si fanno scrupolo di rappresentare e contrattare i propri. Quel lirismo serve sempre più a coprire la passività, l’arroccamento e la subordinazione di una intera classe dirigente.

  • L’aspetto più significativo e rumoroso è però rappresentato da un silenzio: l’abdicazione dal suo ruolo di figura rappresentativa della unione e coesione nazionale e di punto di equilibrio in un momento di emergenza protratta. La gestione catastrofica ed approssimativa della crisi pandemica, la criminalizzazione di ogni rilievo critico e perplessità della gestione, la strumentalizzazione crescente della lunga congiuntura hanno creato una situazione di divisione manichea della società ed una condizione tale da rendere praticamente impossibile una revisione delle politiche che non sconfessi platealmente e “cruentemente” i responsabili, incluso ormai il capo del governo. Su questo ha brillato la sua assenza, se non la connivenza della figura simbolicamente più importante delle istituzioni. A memoria non si ricorda un solo suo atto solenne e significativo teso a ricondurre il dibattito in termini razionali e civili tali da scoraggiare la demonizzazione e gli esorcismi. Una mancanza le cui ripercussioni si protrarranno nel tempo ed appariranno nella loro ampiezza in un prossimo futuro.

L’espressione e le manifestazioni fisiche e comportamentali del personaggio politico valgono più di tante parole.

L’ostentazione del trasloco in corso, la scenografia disegnata e la serafica e beata accettazione del reincarico valgono più delle parole, pur esse importanti.

Giorgio Napolitano, figlio almeno dell’eredità morale e dell’ipocrisia di una classe dirigente sorta dalle ceneri della guerra, ebbe l’ardire di rimbrottare duramente il ceto politico e i rappresentanti di un parlamento che lo avevano appena rieletto. Sergio Mattarella, espressione di un regime incompiuto e decadente già al suo sorgere, ha sorvolato sul problema come una nuvoletta leggera e fugace.

La dinamica che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella è il segno della miseria di un ceto politico; è il prodotto della sua espressione politica più compiuta, il PD, abbarbicato e capace di determinare le scelte a prescindere dagli esiti elettorali. Suo compito principale si concentrerà nel tentativo di essere il garante del procrastinamento di questa convenzione e di circoscrivere in questo quadro l’azione di Mario Draghi. Ha smascherato definitivamente il ruolo spregevole di personaggi come Berlusconi e la pochezza, non vale la pena di utilizzare altri termini, del personale politico ormai a corollario più o meno consapevole di questa trama.

Entro certi limiti, il confronto e lo scontro tra centri politici decisori prevede la complementarietà e la surroga di alcune istituzioni, più coese od efficaci e disponibili, rispetto alle prerogative e alle competenze di altre. Quando però questa dinamica si perpetua per troppo tempo e le fasi di transizione si impantanano, si trasformano in un disordine istituzionale e in un contrasto destabilizzante e dissolutorio.

La gestione della pandemia, colta inizialmente come una occasione e un campo di azione, sta diventando sempre più un mero pretesto per altri disegni tesi a procrastinare l’esistenza di questo ceto politico e la permanenza di una classe dirigente decadente ed arroccata, incapace di organizzazione, ma decisa a sopravvivere al proprio stesso paese. Il tripudio visto in Parlamento sono la manifestazione di questa dissociazione ormai patologica.

Il terreno favorevole ad una dinamica politica di fatti compiuti e colpi di mano a dispregio delle stesse forme e della necessaria autorevolezza è predisposto.

Molti vedono in questo l’inizio della fine e la possibilità di una rinascita radicale.

Non è assolutamente detto.

Potrebbe piuttosto essere la procrastinazione di una fase crepuscolare dove impera e prospera lo scetticismo passivo ed anarcoide, la mancanza di autorevolezza di una qualsiasi autorità in essere e in divenire, l’esistenza di una classe dirigente e dominante arroccata ed auto-eteroreferenziale; dove su una opposizione politica chiara e determinata prevale il tumulto indistinto, una fase tribunizia opportunista ed incapace sul quale poter continuare a galleggiare sia pure precariamente.

La facilità e la disponibilità alla cooptazione rivelata da questa classe dirigente è sorprendente, data la precarietà crescente di risorse ed assetti.

Rivela il timore del mix esplosivo di una riorganizzazione e di un regresso della condizione socio-economica che si sta realizzando.

Si parla spesso e ricorrentemente della costruzione di un soggetto politico in grado di offrire una alternativa seria e credibile. Qua e là sorgono iniziative improvvise, rivelatesi sempre meteore smarrite, impazzite o in rotta di collisione.

Non è questo, purtroppo, il tema all’ordine del giorno.

Il solipsismo che affligge la società, affligge purtroppo nella stessa misura l’area dalla quale potrebbe sorgere il soggetto politico necessario.

Il tema vero è come arrivare a costruirlo, con quale retroterra culturale e organizzativo, con quali referenti nei centri decisionali ed amministrativi che pur esistono.

Su questo manca ancora una minima, sufficiente consapevolezza e disponibilità al dialogo nell’ambito stesso di una possibile formazione di questa realtà politica.

In mancanza di esso il divario tra aspirazione, necessità e possibilità è destinato ad allargarsi drammaticamente.

Più la situazione si incancrenisce, più la fretta è cattiva consigliera.

‘A gatta pe’ jì ‘e pressa, facette ‘e figlie cecate

FOCHERELLO, di Pierluigi Fagan

FOCHERELLO. È indetta per oggi una manifestazione nazionale degli studenti liceali. Presto per dire se sarà o meno un vero e proprio “movimento” a cui i giornali hanno dato già dato nome: la Lupa. I temi non mancano.
La scintilla è stato il ragazzo morto durante uno stage aziendale previsto dalle politiche di alternanza studio-lavoro inaugurato nel 2015 e proprio l’assetto studio-lavoro è finito sotto accusa come se destinazione strategica di fondo dell’istruzione fosse formare alla società di mercato e non alla società nel suo ben più ampio complesso. Viepiù oggi visto che la società che già di sua natura è un sistema complesso, si trova e sempre più si troverà a doversi adattare ad un inedito mondo complesso.
Producendo tra l’altro una precoce divisione classista tra licei professionali della periferia o dei piccoli centri ed i programmi più di cultura generale per i giovani dei quartieri del centro delle città medio-grandi. Ma l’argomento si amplia allo stato fatiscente di molti edifici scolastici, le politiche del trasporto, i bassi salari dei professori, il sovraffollamento, il modo di organizzare valutazioni ed esami, programmi sempre più orientati in favore di un certo modo di esser nel mondo, la destinazione dei fondi PNRR. Su tutte queste pregresse situazioni, si è abbattuta la pandemia e soprattutto i modi con i quali è stata gestita, tra DAD improvvisata e gestione confusa dei tracciamenti, esclusioni, quarantene e quant’altro. Su tutta questa somma dei fatti si sono infine abbattute le recenti manganellate della polizia.
Al consueto disagio ed incertezza giovanile della fase pre-adulta ed alla condizione sempre meno curata della scuola pubblica, negli ultimi anni si è abbattuta anche la consapevolezza che ormai non si sa più bene a cosa serva tutto ciò. Nel senso che, ne abbiano o meno fondata consapevolezza, i giovani avvertono che lo sbocco della vita non è pensato e debitamente organizzato. La disoccupazione giovanile in Italia, intorno al 30%, è il doppio della media europea sia versione euro, sia versione UE. Dovrebbe essere uno scandalo visto che sono i nostri figli, ma tale non è assunto nel dibattito pubblico.
Per altro, quelli che nelle statistiche compaiono tra gli occupati, hanno a che fare con precarietà endemica, salari letteralmente indecenti, rapporti e condizioni di lavoro obiettivamente insopportabili. E tali condizioni sono ormai endemiche, non si presentano solo di recente e per qualche anno iniziale del percorso di vita professionale, si protraggono a lungo ed in molti casi a lunghissimo. Con parimenti impossibilità di intraprendere percorsi adulti di vita autonoma, data l’endemica mancanza di alloggi a prezzi e condizioni praticabili. Ed è così da vari anni e pare vada sempre peggio mentre il mondo adulto parla di Next Generation, quasi che fare un titolo, magari in inglese, dia l’impressione di una cura ed attenzione che non c’è nel modo più assoluto.
Su tutto ciò, già grave di suo, va registrato il trauma pandemico, un trauma i cui risvolti psicologici e sociali sono ancora da indagare a fondo. Va ricordato a noi adulti, quali dovrebbero essere le condizioni di espressione della vita a quell’età. Espressioni che formano la socialità, la conoscenza, l’affettività, la personalità, il giudizio, la progettualità e la stessa energia vitale, l’identità e relativa intenzionalità.
L’altro giorno ho tenuto un intervento on line nell’ambito dei programmi di orientamento allo studio per classi dell’ultimo anno di liceo per un paio di cittadine delle Marche. La professoressa che organizzava gli incontri con le varie offerte formative universitarie mi dava un quadro piuttosto cupo della salute psichica dei ragazzi. Alcuni (e pare non pochi) vanno addirittura dallo psicologo come se ci fosse una “tecnica” per meglio adattarsi a questo contradditorio e desolante sfacelo, come se ci fosse una mancanza personale a sopportare queste pressioni che in primis uccidono il principio speranza. Gioventù senza speranza dovrebbe ritenersi un ossimoro in una cultura pubblica civile.
Altre generazioni hanno sofferto condizioni difficili, ma a differenza di queste che noi più anziani possiamo far risalire a racconti dei genitori sulla guerra o dopoguerra, quella dei giovani di oggi è una condizione silenziosa, non c’è rappresentazione pubblica, non c’è “mal comune mezzo gaudio”, come molte altre cose del nostro sbilenco modo di vivere anche il disagio è privatizzato. Sembra riguardi solo loro o meglio una parte di loro, coloro che non hanno famiglie ammanicate e capitalizzate e di tutto ciò non c’è visibilità e condivisione sociale. È un dramma silenzioso, una mancanza di speranza senza neanche il lamento. Non c’è neanche la minima attenzione politica e culturale visto che anche le scarse forze di opposizione sembrano magnetizzate da vaccini e permessi, distopie biopolitiche e le solite lagne sul neoliberismo ed il Grande Reset. Come se fossimo bravissimi a fare macro analisi di quadro e contesto sempre più mortificanti e paralizzanti ma si sia persa l’elementare scintilla alla ribellione, alla lotta, al darsi voce per pretendere attenzione e rimedio, a rendere il disagio pubblico e non privato.
Così volevo condividere la piccola luce di questo ancora incerto focherello, dargli almeno un po’ del mio fiato, sperando che altri venti a favore possano magari farlo diventare un piccolo punto di luce e calore in questo opprimente e grigio inverno del nostro scontento.
NB_Tratto da facebook

Presidenze d’Italia! Il tramonto interminabile di un ceto politico_con Antonio de Martini

Sei mesi di battage mediatico a coltivare aspettative di rinascita. Una rielezione di una figura dimessa tutta interna alla peggiore conservazione dell’esistente. La riconferma del Presidente della Repubblica in scadenza ha comunque dei meriti. Ha messo a nudo lo spessore di questa casta. Un vincitore apparente, il Partito Democratico. Ha cominciato la campagna a novembre con una proposta di legge che impedisse la rielezione del Presidente uscente; ha ottenuto la rielezione del suo Presidente opponendo semplicemente dinieghi alle varie rose di nomi proposte dallo schieramento di presunta maggioranza di centrodestra. Non ha dovuto faticare molto con un leader del centrodestra che aveva bisogno in primis di confermare a se stesso l’esistenza, ma che ha dimostrato ancora una volta di essere un pesce adescabile con qualsiasi esca. La figura chiave di questa farsa è stato Berlusconi, atteggiatosi a foglia di fico prima e cavalier servente dopo; disposto a liquidare anche la propria creatura. Sarebbe già sufficiente per chiudere il varco ad ogni speranza. C’è purtroppo di peggio. Ha rivelato non solo lo scarso acume delle nostre maggiori figure istituzionali, ma soprattutto la scarsa comprensione della postura e della funzione dei loro incarichi. Passi per la Casellati, visti i suoi antefatti; da Mario Draghi ci si sarebbe aspettati un aplomb più adatto alla veste. Figure le quali, evidentemente, lasciate sole a decidere, si rivelano pecorelle smarrite o elefanti nella cristalleria. Un bel problema da risolvere per chi è costretto ad allentare le briglie e volgere lo sguardo altrove. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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Molecole della libertà per salvare l’Europa da se stessa, di americanenergyalliance

A cogliere lo spirito informatore dell’articolo in calce, gli Stati Uniti si propongono ancora una volta come i salvatori dell’Europa. Settanta anni fa dalla rivalità tra gli stati europei e dall’onta nazifascista; oggi più prosaicamente dalla penuria e dalla dipendenza energetica, in particolare di gas. In entrambe i casi “da se stessa”, dalle proprie colpe, dai propri errori. In politica, in particolare in geopolitica, anche i gesti più generosi serbano, il più delle volte nascondono sempre un aspetto utilitaristico. Stando alla lettera del titolo, l’articolista ha certamente ragione. Dubito che lo abbia nel merito di queste ragioni, se queste dovessero essere le ragioni dell’interesse dei paesi europei.

La precipitazione della crisi energetica, per altro non nuova negli ultimi cinquanta anni, è il frutto di diverse dinamiche che ormai si stanno accavallando ed intrecciando in un nodo gordiano inestricabile con “le buone maniere”.

  • da oltre dieci anni i paesi europei sono parte attiva di sanzioni sempre più pesanti nei confronti del loro principale fornitore energetico, la Russia, pagandone per altro il prezzo economico e politico più pesante. Non si comprende il motivo del disappunto nel momento in cui la Russia di Putin restituisca, per altro tardivamente, il favore con una parziale restrizione delle forniture energetiche e con la ricerca di nuovi partner economici della caratura di Cina e India;
  • da oltre venti anni tutti i paesi europei hanno alimentato l’estensione della NATO e della sua appendice dell’Unione Europea sino a ridosso della capitale russa fomentando guerre civili, disgregazione di stati (Jugoslavia), colpi di stato (Ucraina), spesso sostenendo personaggi, epigoni di fronde naziste talmente feroci da scandalizzare all’epoca gli stessi nazisti tedeschi. Alcuni paesi, in particolare la Germania, ne hanno tratto un qualche vantaggio economico e scarso vantaggio politico; altri ci hanno rimesso in tutti i sensi (Italia e Francia); altri ancora hanno soddisfatto la propria russofobia in cambio di una disgregazione sociale deprimente (Ucraina, Moldavia, Macedonia) agli antipodi delle aspettative vellicate dal mondo occidentale. Con la ciliegina sulla torta di una aperta discriminazione delle popolazioni russe rimaste intrappolate nell’implosione del blocco sovietico proprio nelle terre cosiddette paladine della difesa dei diritti umani. Il risultato è stato quello di spingere anche politicamente verso nuove sponde la classe dirigente russa attualmente dominante e la quasi totalità della popolazione;
  • da sempre l’Unione Europea, con la difesa dogmatica di un presunto virtuoso libero mercato, ha sempre più esposto la propria economia alla stagnazione, alla stasi tecnologica, alla dipendenza e subordinazione geoeconomica, alle oscillazioni nevrotiche di tipo speculativo. Nella fattispecie, il progressivo accantonamento della politica dei contratti di lunga durata richiesto dalla Russia in favore del mercato “hot spot” ha esposto ulteriormente l’Europa alle crisi speculative e alle incognite delle crisi geopolitiche e delle ritorsioni. Rimane, però, qualche dubbio sulla “oggettività” di quest’ultima dinamica. Un interrogativo, quindi, al quale dovrebbe rispondere il nostro governo, con a capo il campione dell’interesse nazionale di nome Mario Draghi: l’ENI, nostro pressoché monopolista importatore di gas, detiene ancora la maggior parte di contratti a lunga scadenza con prezzi fissati antecedenti all’esplosione di questo autunno. Gli aumenti registrati sono quindi ascrivibili in massima parte alle oscillazioni recenti o ad altri motivi? In mancanza di una risposta chiara ed esauriente saremo noi a cercarla altrove;
  • da circa cinquanta anni tutti i paesi europei hanno rinunciato ad una propria autonoma politica nel Mediterraneo allargato e in Medio Oriente, sacrificando in gran parte i propri successi in materia di individuazione e sfruttamento di giacimenti energetici a logiche geopolitiche ed economiche esterne. Da questo punto di vista l’ENI, pur resistendo, è stata una delle principali vittime di queste trame più impegnate ad alimentare le rivalità tra i polli (vedi Libia) che ad emanciparsi dal pollivendolo;
  • da circa dieci anni tutti i paesi europei raccolti nella UE, con l’Italia antesignana da cinquanta anni, sono stati artefici e vittime del proprio dogmatismo climatico-ambientalistico. Stanno spingendo verso una diffusione massiva e unilaterale tecnologie ancora premature, del quale non detengono nemmeno, in gran parte, le capacità tecnologiche ed industriali e affatto la disponibilità di materie prime; sacrificano così il principio saggio della diversificazione energetica di fonti e tecnologie e dei necessari tempi di transizione alla presunta superiorità morale di un diritto ed una regolamentazione del mercato avulsa dalla detenzione di un reale potere economico e politico; espongono così i paesi, in particolare quelli più accecati dal fervore catastrofista e per altro meno responsabili del degrado ambientale e del presunto degrado climatico, alle conseguenze nefaste del degrado territoriale locale, della speculazione finanziaria ed economica legata alle improvvise oscillazioni e ai tempi ristretti di transizione, della dipendenza geopolitica ed economica da materie prime, non solo più dagli idrocarburi.

Tutte dinamiche in mano a numerosi artefici, ma che in Europa hanno un solo determinante istigatore: i centri decisionali statunitensi, ben presenti ed influenti in tutti i campi di azione politica, economica e culturale dei paesi europei, a cominciare dalla NATO. Siamo proprio sicuri che gli stessi colossali incrementi di prezzo di gas e petrolio siano frutto esclusivo degli attriti più o meno alimentati ad arte con la Russia, quando invece interesse delle compagnie produttrici di gas e petrolio statunitense, sostenibile solo a prezzi particolarmente elevati?

E’ esattamente il non detto che informa l’articolo in calce. Sta di fatto che alle drammatizzazione dei rischi da dipendenza dai russi, corrisponderebbe una ulteriore dipendenza politica ed economica dei paesi europei dagli Stati Uniti e la possibilità da parte di questi ultimi di procrastinare la politica russofoba con minori vincoli economici che la annacquino. 

Il ceto politico e la classe dirigente italica, nella loro quasi totalità, sono i meno pervasi da questi salutari dubbi e i più pervasi da certezze codine. L’unica preoccupazione di tutte le forze politiche è attualmente quella di esprimere un Presidente della Repubblica che assecondi in ogni virgola le tentazioni americane, avventuriste e guerrafondaie, in Ucraina. Ricomporre immanente la diade di prostrazione all’ALLEATO è l’imperativo categorico

Persino la Croazia, paese presente con particolare discrezione in tutte le trame interventiste degli USA nel mondo, ha osato dichiarare esplicitamente il richiamo dei propri soldati dalla NATO in caso di conflitto in Ucraina.

I beoti italici ostentato una sicumera da stolti. Non hanno capito che i singoli paesi del pollaio europeo sono destinati ad essere sacrificati nel grande tavolo geopolitico presieduto da cinque/sei potenze in competizione. Se lo hanno compreso, sperano evidentemente di non essere loro i polli destinati al sacrificio o quantomeno di salvare dalla pentola qualche preziosa pentola. Sono purtroppo i primi ma non i soli in Europa.

Il loro orizzonte culturale non consente altro. Non tanto di uscire da un sistema di alleanze nefasto e controproducente, quanto nemmeno di approfittare di una condizione multipolare per contrattare una posizione più equilibrata e dignitosa nelle alleanze occidentali. Un idea di potenza e di autonomo interesse nazionale agli antipodi di un lirismo europeista sempre più cacofonico e grottesco nella sua impotenza e nel suo servilismo. “Arrivano i nostri”, ma senza nemmeno cioccolato e sigarette. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Molecole della libertà per salvare l’Europa da se stessa

Gli Stati Uniti sono diventati il ​​più grande esportatore di gas naturale liquefatto (GNL) nel dicembre 2021, superando Qatar e Australia, poiché i progetti hanno aumentato la produzione e le consegne sono aumentate in Europa per aiutare ad alleviare la crisi energetica lì. La produzione degli impianti di GNL degli Stati Uniti ha superato il Qatar a dicembre principalmente a causa dell’aumento delle esportazioni dagli impianti Sabine Pass e Freeport. Una rivoluzione del gas di scisto, insieme a decine di miliardi di dollari di investimenti in impianti di liquefazione, ha trasformato gli Stati Uniti da importatore netto di GNL a uno dei principali esportatori in meno di un decennio. La produzione di gas naturale negli Stati Uniti è aumentata di circa il  70% rispetto al 2010  dopo che una combinazione di perforazione orizzontale e fratturazione idraulica ha sbloccato le forniture dalle formazioni di scisto in tutto il paese.

Fonte: Bloomberg

Gli Stati Uniti hanno spedito il loro primo carico di GNL prodotto da gas di scisto nel 2016. Entro la fine del 2022, si prevede che gli Stati Uniti avranno la più grande capacità di esportazione del mondo. A quel punto, la capacità di produzione massima di GNL degli Stati Uniti raggiungerebbe i  13,9 miliardi di piedi cubi al giorno , superando di gran lunga sia l’Australia (11,4 miliardi di piedi cubi al giorno) che il Qatar (10,3 miliardi di piedi cubi al giorno). Ma, poiché ci vorrà del tempo prima che i nuovi progetti raggiungano la piena produzione, le esportazioni di GNL dagli Stati Uniti potrebbero essere inferiori alla capacità disponibile.

Fonte: VIA

Quando  Golden Pass LNG  sarà online nel 2024, che è attualmente in costruzione a Sabine Pass, in Texas, la capacità massima di esportazione di GNL degli Stati Uniti raggiungerà i  16,3 miliardi di piedi cubi al giorno , ovvero quasi il 20% dell’attuale fornitura di gas naturale degli Stati Uniti. Le autorità di regolamentazione federali hanno approvato altri 10 progetti di esportazione di GNL e ampliamenti di capacità nei terminal esistenti, tra cui Cameron, Freeport e Corpus Christi, per un totale di 25 miliardi di piedi cubi di nuova capacità. Il Qatar, tuttavia, sta pianificando un enorme progetto di esportazione di GNL che entrerà in vigore alla fine degli anni 2020, che potrebbe consolidare la nazione mediorientale come primo fornitore di carburante.

Gli Stati Uniti aiutano la crisi energetica dell’Europa

Le esportazioni di GNL degli Stati Uniti in Europa contribuiranno ad alleviare la crisi globale dell’offerta quest’inverno a causa delle scorte stagionali di gas naturale basse e della mancanza di risorse eoliche. Gli acquirenti d’oltremare hanno acquistato  il 13 per cento  della produzione di gas degli Stati Uniti a dicembre, un aumento di sette volte rispetto a cinque anni prima, quando la maggior parte delle infrastrutture necessarie per spedire il carburante non esisteva.

Alla fine di dicembre, il gas naturale nell’Europa nordoccidentale veniva scambiato a circa  $ 57,54 per milione di unità termiche britanniche, quasi un terzo in più rispetto alla settimana prima, ovvero circa $ 24 in più rispetto ai prezzi asiatici e oltre  14 volte in più  rispetto al gas naturale venduto negli Stati Uniti punto di riferimento Henry Hub.

Fonte: Bloomberg

Su 76 carichi di GNL statunitensi in transito,  10 navi cisterna  che trasportano un totale di 1,6 milioni di metri cubi di GNL hanno dichiarato destinazioni in Europa. Altre 20 petroliere che trasportano circa 3,3 milioni di metri cubi stanno attraversando l’Oceano Atlantico e sono in rotta verso il continente. Quasi un terzo dei carichi proviene dal terminal di esportazione Sabine Pass LNG di Cheniere Energy Inc. in Louisiana. La notizia della flottiglia ha fatto scendere il gas di riferimento olandese del mese anteriore del mese di Amsterdam del 18 per cento a  141 euro  (159 dollari) ad Amsterdam. I contratti di elettricità francesi sono diminuiti del 24% a 775 euro ($ 875) per megawattora e l’elettricità tedesca è scesa del 15% a 277 euro ($ 313) per megawattora. Mentre lo spread è diminuito, il gas naturale europeo è equivalente a un  prezzo di $ 273 per un barile di petrolio.

Fonte: ZeroHedge

Conclusione

I terminali di esportazione di GNL degli Stati Uniti stanno operando a capacità o superiore dopo aver raggiunto flussi record e hanno conquistato il primo posto nella classifica delle esportazioni di GNL il mese scorso, superando Qatar e Australia. Mentre l’Asia è in genere la destinazione principale per i carichi di GNL degli Stati Uniti, la crisi energetica dell’Europa quest’inverno causata da forniture insufficienti di gas naturale e scarse risorse eoliche e il suo premio significativo per il gas naturale ha portato a una flottiglia di navi cisterna con GNL statunitense diretti agli impianti europei. Mentre gli Stati Uniti hanno in linea una capacità aggiuntiva di GNL, si prevede che anche il Qatar aggiungerà nuova capacità entro la fine del decennio e potrebbe riprendersi la sua posizione di numero uno. Il successo dello shale gas nei mercati mondiali è una testimonianza dell’enorme ricchezza e competenza energetica delle persone dell’industria petrolifera e del gas statunitense che operano in un mercato libero.

https://www.americanenergyalliance.org/2022/01/freedom-molecules-to-save-europe-from-itself/

Draghi sarà il Presidente della Repubblica? a cura di Luigi Longo

Draghi sarà il Presidente della Repubblica?

a cura di Luigi Longo

1.E’ opportuno, in occasione della elezione del Presidente della Repubblica, rileggere l’intervento di Mario Draghi fatto sullo yacht Britannia il 2 giugno 1992 sul progetto di privatizzazione iperliberista in Italia (l’intervento è ripreso dal sito www.ilfattoquotidiano.it del 22/1/2020 e la divisione in paragrafi è mia). Per inciso, fa ridere la boutade apparsa sui mass media che narra di Mario Draghi allievo del grande keinesiano Federico Caffè (della serie “la situazione è drammatica ma non è seria”!).

L’opportunità è data dal fatto che Mario Draghi rappresenterebbe per i pre-dominanti USA e i sub-dominanti europei il Presidente della Repubblica ideale per garantire non solo la totale servitù italiana verso le strategie statunitensi in Italia, in Europa, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente (così come è stato per tutti i precedenti presidenti), ma anche la garanzia del controllo dei Fondi Europei del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e del debito pubblico, che, per essere chiari, nulla hanno a che fare con lo sviluppo del Paese e per il benessere della maggioranza della popolazione [ si veda la proposta del duo Draghi-Macron di creare una Agenzia del debito dell’Eurozona cedendo i debiti al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) che imporrebbe una forte riduzione del debito pubblico con tagli drastici sulle spese sociali, per approfondimenti si rimanda a Fabio Bonciani, Il piano Draghi-Macron per cedere i debiti al MES: come trasformare dei numeri in debiti in www.comedonchisciotte.org del 17/1/2022].

Per una riflessione sul ruolo del Presidente della Repubblica ripropongo un mio scritto, apparso su www.Italiaeilmondo.com il 4/9/2018, con il titolo Le istituzioni e il conflitto che introduce una stimolante lettura di Marco Della Luna sulla costituzione del Quirinale.

2.Sono scettico sul fatto che Mario Draghi possa diventare il Presidente della Repubblica per le seguenti ragioni:

la prima: la sua elezione a Presidente comporterebbe, visto il ruolo di garante che dovrà svolgere e considerata la fase storica multicentrica, la formale transizione da una Repubblica democratica ad una Repubblica presidenziale, cioè, l’adeguamento, in pratica, della forma alla sostanza. Trovo arduo, se non impossibile, tale passaggio istituzionale, sia osservando il panorama politico, economico e sociale, sia considerando ed evidenziando che Mario Draghi è un agente strategico esecutore incapace di pensare, né tantomeno di gestire, strategie di sviluppo del Paese;

la seconda: il suo potere esecutivo (mostrato con la faccia gaberiana scolpita nella pietra che con grande autorevolezza spara cazzate) da Presidente del Consiglio, gli permette di eseguire meglio, attraverso lo strumento della pseudo pandemia da Covid-19 (sulla pseudo pandemia si veda Massimo Cascone, intervista a Stefano Dumontet, Morti, vaccini e speculazioni economiche, parte 1 e 2, www.comedonchisciotte.org, del 20/1/2022 e 21/1/2022), le strategie dei pre-dominanti USA (il dominio sull’Europa attraverso la Nato essendo il progetto statunitense dell’Unione Europea esaurito) e dei sub-dominanti europei che occupano spazi istituzionali di potere usando gli strumenti finanziari, monetari, economici, culturali, mediatici e giudiziari per gestire e appropriarsi della ricchezza prodotta dai popoli europei (gestione dei fondi europei, pagamento del debito pubblico, erosione del risparmio privato e delle riserve auree).

E’ sempre utile ricordare che l’Europa non è un soggetto politico e quindi non può esprimere un’idea di sviluppo autonomo in relazione all’Occidente e all’Oriente, avendo da tempo perso ogni identità e peculiarità travolta da un processo di americanizzazione dei territori giunto a saturazione come conseguenza di una grave crisi di civiltà occidentale.

3. Un uomo di potere come Francesco Cossiga, che si divertiva a fottere il potere sempre sotto l’ordine statunitense (Francesco Cossiga con Andrea Cangini, Fotti il potere. Gli arcana della politica e dell’umana natura, Aliberti editore, Roma, 2010), aveva avvisato che “Non si può nominare primo ministro [Mario Draghi, mia precisazione LL] chi è stato socio o lavora per la Goldman Sachs, grande banca di affari americana […] Un vile affarista. E’ il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, della svendita dell’industria pubblica italiana, quando era direttore generale del Tesoro. E immagina cosa farebbe se fosse eletto presidente del consiglio dei ministri. Svenderebbe tutto ciò che rimane ai suoi comparuzzi della Goldman Sachs”.

Il ruolo di Mario Draghi è quello di eseguire le strategie pre-dominanti statunitensi e sub-dominanti europee; per la sua storia, per le funzioni svolte a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, è illuminante, per questo è un pericolo per gli interessi nazionali e le sue articolazioni sociali

Nella corruzione di questo mondo, la mano dorata del delitto può scansare la giustizia, e si vede spesso la legge farsi accaparrare dalla sua preda […] La consuetudine, quel mostro che ogni sensibilità consuma, il demonio delle abitudini, è però anche angelo, quando con lo stesso viso veste di livrea le azioni buone e le malvage, vestito che s’indossa con facilità estrema […] L’abitudine può cambiare lo stampo della natura e domare il diavolo o cacciarlo del tutto, con forza meravigliosa (Shakespeare, Amleto, Mondadori, Milano, 1988, pp.177 e 193).

IL DISCORSO DI MARIO DRAGHI

Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia

Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992: l’ex presidente della Bce parlò della vendita delle azioni pubbliche. Un processo con cui, 28 anni dopo, l’Italia fa i conti. Nelle sue parole i mercati come strada per la crescita, la fine del controllo politico, l’idea di public company, ma anche i tanti rischi: “Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c’è una Thatcher – disse – servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza”. E ancora: “Questo processo lo richiede Maastricht, facciamolo prima noi. Ma va deciso da un esecutivo forte e stabile. Ridurremo il debito”.

La servitù del debito pubblico

Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.

Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.
Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi. Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi. Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.

I debiti da pagare

Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento). Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.

La centralizzazione della ricchezza finanziaria

Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati. L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.

La crescita selvaggia del mercato

Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.

La mancanza di una strategia di sviluppo nazionale

Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali. Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

La svendita totale del Paese

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare? Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze. Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility). Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.

La strategia del Trattato di Maastricht

In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Il disegno complessivo del disastro

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.

La logica dei mercati

Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.

 

LE ISTITUZIONI E IL CONFLITTO

a cura di Luigi Longo

Suggerisco la lettura dell’articolo di Marco Della Luna, “Come prevenire un nuovo Euro-golpe” apparso sul sito www.marcodellaluna.info il 29 agosto 2018.

La sua lettura è stimolante perché evidenzia come le istituzioni sono luoghi di conflitto e di gestione del potere (degli agenti strategici sub-dominanti europei) e del dominio (degli agenti strategici pre-dominanti statunitensi).

Bisogna uscire dal campo delle istituzioni come luoghi di interesse generale, come luoghi neutrali dove si curano l’interesse della popolazione e di una nazione; occorre, invece, mettersi nel campo delle istituzioni come parti integranti del conflitto che attraversa la vita sociale di una nazione (con le sue forme di organizzazioni storicamente date) che è inserita nelle relazioni internazionali e nelle dinamiche di conflitto tra le nazioni-potenze che si configurano nelle diverse fasi storiche per il dominio mondiale.

COME PREVENIRE UN NUOVO EURO-GOLPE

di Marco Della Luna

Perché il Quirinale non può contenere il Presidente degli Italiani

Nell’estate del 2018 parecchi editorialisti stanno a congetturare sui possibili modi in cui, probabilmente, per abbattere il governo sovranista e rimetterne su uno europeista e immigrazionista, nel prossimo autunno, in tempo di legge di bilancio, verrà orchestrato un colpo di Stato dai soliti “mercati”, dal duo franco-tedesco, assieme alla BCE, ai “sorosiani”, ai magistrati “progressisti”.

Già i mass media pre-legittimano tale colpo di stato, come lo pre-legittimavano nel 2011, ripetendo a josa il concetto che il pericolo è il sovranismo e l’euroscetticismo, che lo scopo è come vincerli salvando l’integrazione europea, e tacendo completamente sui meccanismi e gli squilibri europei che danneggiano l’Italia a vantaggio di Germania e Francia soprattutto. Si comportano come sicuri che il golpe si farà.

Anche grazie a tali, ricorrenti campagne propagandistiche, l’idea del colpo di Stato degli interessi stranieri col tradimento del Quirinale in loro favore è oramai sentita come qualcosa di rientrante nell’ordine delle cose, di non sorprendente né, in fondo, scandaloso.

In particolare, è chiaro che il Quirinale (la cui cooperazione è indispensabile a un golpe politico, avendo esso la funzione di delegittimare il governo legittimo e legittimare quello illegittimo) è una sorta di rappresentante degli interessi e della volontà delle potenze straniere dominanti sull’Italia; e che la sua forza politica, la sua temibilità e la sua inattaccabilità derivano dal rappresentare esse, non certo dalle caratteristiche personali dei suoi inquilini. Il Quirinale è stato concepito e costruito, nella Costituzione italiana del 1948, al fine di far passare come alto giudizio e indirizzo della più alta Autorità nazionale quelle che invece sono imposizioni di interessi stranieri.

Dico “il Quirinale” e non “il Presidente della Repubblica” perché intendo proprio il Palazzo, come istituzione e ruolo nei rapporti gerarchici tra gli Stati, e non la persona fisica che lo occupa volta dopo volta. L’Italia è uscita dalla 2a Guerra Mondiale non solo sconfitta, ma con una resa incondizionata agli Alleati, e ha così accettato un ruolo subordinato agli interessi dei vincenti, incominciando dalla politica estera, per continuare con quella monetaria e bancaria. Il Quirinale è, costituzionalmente e storicamente, l’organo che ha assicurato la sua obbedienza e il suo allineamento nei molti cambiamenti di governi e maggioranze (corsivo mio, LL)

Certo, rispetto al golpe del 2011, la situazione oggi è diversa, per diverse ragioni:

-perché allora la maggioranza degli italiani voleva cacciare Berlusconi e credeva che cacciarlo avrebbe apportato legalità e progresso, mentre l’attuale governo gode del gradimento di un’ampia maggioranza della popolazione, sicché per rovesciarlo servirebbe molta più violenza di quella bastata nel 2011, oppure bisognerebbe dividere la maggioranza;

-perché da allora la gente ha capito qualcosa dall’esperienza dei governi napolitanici;

-perché Berlusconi non aveva gli appoggi di Washington e Mosca, né un piano B per il caso di rottura con l’UE;

-perché rispetto al 2011 l’eurocrazia ha perso credibilità e forza; perché essa teme le vicine elezioni europee e non può permettersi nuovi soprusi.

Come agire per prevenire un nuovo golpe, dopo tali premesse?

Suggerisco di spiegare alla popolazione il suddescritto ruolo storico e costituzionale del Quirinale, il suo ruolo di garante obbligato di interessi di potenze straniere vincitrici e sopraordinate, spesso in danno agli Italiani. Un ruolo non colpevole proprio perché obbligato, ma che in ogni caso priva il Quirinale della qualità di rappresentante degli Italiani e della autorevolezza, della quasi-sacralità che questa qualità gli conferirebbe. Il Quirinale è piuttosto una controparte dell’Italia.

Già il far entrare questa consapevolezza e questi concetti nella mente e nel dialogo dell’opinione pubblica può indebolire quel potere improprio e nocivo del Quirinale che gli consente di delegittimare i legittimi rappresentanti del popolo, sebbene esso non sia eletto dal popolo ma dalla partitocrazia, e di legittimare la loro illegittima sostituzione; quindi può aiutare la prevenzione di nuovi colpi di palazzo.

Nel tempo, si potrà pensare anche a una riforma nel senso del cancellierato, che dia più potere sul governo al premier, contenendo i poteri politici del Capo dello Stato e il fondo annuo di oltre un miliardo l’anno che egli gestisce – più della Regina Elisabetta; nonché a convertire il palazzo del Quirinale in un museo, trasferendo la sede della presidenza della Repubblica in un luogo dall’aria meno dominante e adatta alle nuove e ridotte competenze.

 

POMBALINA-E-GIOCO-DELLE-PERLE-DI-VETRO-1, di Massimo Morigi

Massimo Morigi
ANCORA IN AVVICINAMENTO AL NUOVO GIOCO DELLE
PERLE DI VETRO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO:
POMBALINA ET INACTUALIA ARCHEOLOGICA

PARTE PRIMA
Dopo la pubblicazione sull’ “Italia e il Mondo” del saggio sulla dialettica prassistica
dell’epigenetica e della sintesi evoluzionistica estesa intitolato Epigenetica, Teoria
endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa
efantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical
Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis, su Donna Haraway e
materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della prassi olisticodialetticaespressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico e dopo la
recentissima pubblicazione sempre sull’ “Italia e il Mondo” sotto la Leitbild di
Federico II il Grande re di Prussia dell’inattuale La Loggia Dante Alighieri nella storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-2003) (la
prima parte all’URL http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dantealighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione1863-2003-_________-i-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220110075018/http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/; la seconda all’URL
http://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storiadella-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220111161456/http://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/ ho ritenuto presentare ai
lettori del blog alcune riflessioni se si vuole ancora più inattuali ed attinenti il
Repubblicanesimo Geopolitico solo in Statu nascenti ed inseribili in questo contesto
interpretativo ma solo in prospettiva archeologica, quattro scritti ed interventi
pubblicati o presentati in sede seminariale in Portogallo che hanno precorso,
attraverso una prima riflessione sul repubblicanesimo, sull’estetizzazione della politica
e sulla conflittualità sociale, le attuali conclusioni, anch’esse inattuali ça va sans dire,
cui è giunto il Repubblicanesimo Geopolitico, informate al paradigma olisticodialettico-espressivo-strategico-conflittuale e appunto giunte a piena maturità – o
involuzione, chi può dirlo? – nel summenzionato saggio sulla dialettica storica e
biologica. Come suggerisce il titolo, queste fonti a stampa sono state per la maggior
parte edite dalla casa editrice Pombalina dell’Università di Coimbra oppure hanno
avuto comunque un editore portoghese (anche se sul Web, oltre a questa immissione
dei documenti in questione da parte dei “portoghesi”, esiste, di queste precursioni
inattuali del Repubblicanesimo Geopolitico, pure un’edizione dello scrivente immessa
direttamente dallo stesso sul Web: si tratta di Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via, all’URL di Internet Archive
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMassimo, un’antologia di interventi sul Repubblicanesimo Geopolitico,
comprendente anche parte dei documenti presenti in questa antologia e con contenuti
anche multimediali) e riguardano o una prima ricognizione sul concetto di
‘Repubblicanesimo’ e come questo possa venire machiavellianamente in contatto con
la conflittualità sociale e l’estetizzazione della politica e come quest’ultima venga
utilizzata dai regimi totalitari di massa del Novecento. Come Leitbild si è pensato di
ricorrere ai Due amanti di Giulio Romano. Scelta apparentemente avulsa dal discorso
delle precursioni e delle inattualità. A ben vedere non troppo se si consideri il profondo
legame dialettico fra queste quattro riflessioni e la filosofia della prassi espressa dal
saggio Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi
evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste (ed anche visto l’attuale degrado
politico-filosofico, civile e culturale che in questi tempi di pandemie virali ma anche
psichiche, con ciò intendendo non solo l’irrazionale paura della morte causa morbo ma
l’altrettanto irrazionale terrore antivaccinista – entrambe le angosce frutto della
superstizione, del fideismo e dell’anomia caratteristici delle c.d. moderne democrazie
rappresentative, un degrado la cui succitata Leitbild costituisce il più dialetttico ed
ironico controveleno). E oltre non vado perché una corretta dialettica ha sempre
implicato una creativa e penetrante attività da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Perché, si spera e si pensa, Gentile e Gramsci non hanno certo predicato (e sofferto e
pagato) invano, e soprattutto, inattualmente. Il nuovo gioco delle perle di vetro, lo
sappiamo, disdegna la cronaca e si compiace di accostamenti (apparentemente)
inusitati per le superstiziose, anomiche, fideistiche e degradate masse dei sopraddetti
regimi “democratici”.
Massimo Morigi – Ravenna, inizio anno 2022
Massimo Morigi, Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l’ombra del
fascio (comunicazione inviata al convegno “IV Colloquio Tradição e modernidade no mundo
Iberoamericano – Coimbra 1, 2, 3 de outubro de 2007”), in “Estudo do Século XX”, N° 8,
Coimbra, Centro de Estudos Interdisplinares do Século XX de Coimbra – CEIS20, 2008, pp.
119-133. URL dal quale si può scaricare la rivista dal quale proviene l’estratto:
https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20201114222139/https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8. Inoltre in regime di autopubblicazione sulla piattaforma Internet
Archive e col titolo di GESAMTKVNSTWERK RES PVBLICA la comunicazione è visionabile e
scaricabile agli URL https://archive.org/details/GesamtkvnstwerkResPvblica e
https://ia801704.us.archive.org/2/items/GesamtkvnstwerkResPvblica/GesamtkvnstwerkResPvblica.pdf

Qui sotto il link con il testo della I parte:

POMBALINA E GIOCO DELLE PERLE DI VETRO 1

 

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