carte buone e carte false del Governo Conte, di Giuseppe Germinario

L’avvento del Governo Conte ha provocato una reazione pressoché immediata generalmente diffidente se non negativa, tranne poche eccezioni, negli ambienti intellettuali e nei centri decisionali del paese. Una diffidenza ed una negatività amplificata in modo abnorme dalla partigianeria e dalla faziosità della quasi totalità del sistema mediatico.

Sul conservatorismo, sulla sciatteria, sulla autoreferenzialità di gran parte dei centri intellettuali, tutti ben posizionati nel sistema, tanto sensibili alle sirene d’oltralpe quanto avulse dalla situazione del paese, il blog si è espresso più volte e continuerà ad esprimersi; in particolare sull’inadeguatezza e il carattere reazionario delle chiavi di interpretazione che continuano ad offrire.

L’oggetto dell’articolo non è questo, bensì gli argomenti e il contesto offerti dalle opposizioni esterne e ormai anche interne al Governo nella loro opera costante di denigrazione.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE

L’azione avventurista più eclatante è stata il varo del documento programmatico per il 2019. Una sfida aperta alle regole e soprattutto alle ipocrisie della condotta dell’Unione Europea. Una violazione ostentata degli accordi e dell’itinerario di rientro dal deficit e dal debito che scatenerà contro una nazione fragile ed esposta i Moloch più terribili.

Il Moloch dei mercati, in particolare quello finanziario, sempre pronti a sanzionare con gli interessi i trasgressori del rigore fiscale e a negare il credito ai potenziali insolventi. La spada di Damocle del ’92 e del 2011 è lì che incombe angosciante. Il dio mercato però questa volta appare incerto, anzi diviso; la sentenza appare di conseguenza contraddittoria. Lo spread sale, a volte scende; tarda a decollare. C’è chi vende, chi svende ma anche chi compra in quantità massicce. Il manipolo onnipotente della finanza, attribuito del potere di decisione dei destini del mondo appare percorso da strategie diverse; strategie che sembrano sempre più ricalcare le divisioni e le aggregazioni nel contesto internazionale e le fibrillazioni nell’agone politico americano. La certezza di una mitologia e di una rappresentazione del dominio e delle contrapposizioni globaliste che finalmente si incrina.

Il Moloch della BCE, pronta a inondare o a lesinare di valuta e di acquisti il mercato dei titoli secondo i propri voleri e i dettami del duo franco-tedesco; a premiare o punire quindi i più indisciplinati e riottosi, i reprobi; la Grecia prima e l’Italia dopo in particolare. Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei rimbrotti unidirezionali di Mario Draghi, a chiedere la protrazione del “quantitative easing” siano di fatto non soltanto il reprobo italico additato al pubblico ludibrio, ma la gran parte delle banche centrali degli stati europei in una fase di debiti e deficit galoppanti e di stagnazione se non proprio di recessione incipienti.

Il Moloch della Commissione Europea. Gli antichi splendori della Commissione sono ormai un ricordo sempre più lontano. La condizione di relativo equilibrio tra le potenze europee fondatrici, l’allargamento repentino ai paesi dell’Europa Orientale, concomitante a quello della NATO, la supervisione attenta della leadership americana ne garantivano una relativa autonomia operativa nel ruolo di mediatrice. L’ascesa della Germania, la creazione di una sua sfera diretta di influenza in Europa Orientale parallela e sovrapposta a quella strategica degli Stati Uniti, l’assunzione del ruolo di intermediario e gabelliere tra la potenza egemone e il pulviscolo degli stati almeno per le competenze proprie dell’Unione ne hanno sminuito progressivamente il ruolo sino alla parodia della gestione Junker. La conseguente ascesa del Consiglio Europeo e della diarchia Franco-Tedesca hanno reso sempre meno credibile la funzione di arbitro secondo regole per altro affatto squilibrate.

È una questione di tempo!

La Commissione dovrà essere intransigente verso il capro espiatorio che ha ostentato la trasgressione degli accordi capestro e transigere ancora verso le violazioni surrettizie dei sodali del patto. Non dovesse riuscire più in questa schizofrenia con qualche gioco di prestigio o con il sacrificio del governo italiano perderà definitivamente l’autorevolezza residua o il residuo sostegno del sodalizio politico. Il muro frapposto al documento italiano non è il bastione insormontabile, ma l’ultimo argine di una probabile deriva. Lo hanno affermato i leader stessi dei paesi minori più esposti nella intransigenza: se si cede, la volontà di costruzione europea cadrà nei singoli paesi, compresi i più autorevoli. Una dichiarazione di forza che è una prova di debolezza. Una intransigenza manifestata per conto terzi da quei piccoli paesi, tra questi Olanda, Austria e Irlanda, i quali hanno più praticato il dumping fiscale.

La reazione e la replica al documento del Ministro Savona, pervenuto a fatica e solo dietro sollecitazione dell’estensore negli uffici della Commissione Europea, sono state al riguardo eloquenti: il silenzio. Quel documento evidenziava il carattere nefasto delle politiche di austerità, stigmatizzava la scelta improvvida di fondazione della moneta unica precedente una politica di riequilibrio delle economie nazionali, auspicava una politica comunitaria espansiva con un accentramento conseguente di competenze, specie negli investimenti e nella gestione del bilancio; ne riconosceva però nell’immediato del contesto politico europeo l’irrealizzabilità. Rivendicava quindi, conseguentemente, una omogeneizzazione dei regimi fiscali nazionali e un ritorno delle “politiche di fiscalità nazionali”; nella fattispecie politiche di investimenti pubblici anche in deficit. Un europeista come Savona aveva mostrato finalmente il Re Europa nudo con tutti i suoi difetti e le sue storpiature, così come Salvini ha rapidamente messo a nudo quel re sul tema dell’immigrazione.

Una partita, quindi, dall’esito molto più aperto di quanto sia prospettato e auspicato dalla grande informazione. Non si tratta di un duello tra due contendenti; piuttosto di una zuffa con molti attori, pronti a cambiare schieramento e celare gli obbiettivi reali e con molti altri ingombranti osservatori interessati, alcuni in prima linea altri nella penombra; tutti impegnati ad influenzare l’esito del confronto.

IL FRONTE INTERNO

Il fronte interno si sta muovendo secondo dinamiche analoghe. Le apparenze ci mostrano un governo arroccato nella propria cittadella e assediato, asfissiato da forze soverchianti ben attrezzate, ben radicate nei vari apparati statali e nei centri decisionali e di formazione dell’opinione pubblica.

Sono tutti lì a denunciare la scarsità di investimenti rispetto all’entità delle spese assistenziali; a stigmatizzare l’errore cosciente sulla stima di sviluppo al 1,5% quasi a sottendere la responsabilità governativa della prossima probabile recessione, in realtà dalle dinamiche internazionali che vanno al di là degli ambiti domestici; a confidare parossisticamente nelle divisioni insanabili della maggioranza e nella incompetenza e inesperienza della classe dirigente in via di formazione.

Tutti, però, evitano accuratamente di rispondere alla domanda fondamentale che li qualificherebbe o meno come forze, politiche ed istituzionali, nazionali credibili: sono disponibili e sino a che punto a sostenere un confronto e uno scontro serrato almeno nell’agone europeo e nel Mediterraneo?

Eludere questa risposta connota queste forze come assedianti temibili ma privi del sostegno morale e logistico in loco; costrette, al pari delle forze imperiali, nel migliore dei casi a sostenersi grazie a lunghe e precarie catene di rifornimento. Una condizione da truppe di occupazione piuttosto che da forze liberatorie. Una condizione propedeutica ad ulteriori frammentazioni e divisioni.

È la condizione perfetta che potrebbe consentire ancora per qualche tempo alle forze politiche al governo di gestire le proprie evidenti divisioni in modo da raccogliere contemporaneamente le istanze di governo e di opposizione.

La schizofrenia, caratteristica comune anche ai governi immediatamente precedenti, è una peculiarità di questo governo.  Argomento già trattato ampiamente in altri articoli.

Il campo di applicazione è vasto: si passa dalla politica delle grandi infrastrutture, al ruolo della magistratura, alle questioni ambientali.

Il reddito di cittadinanza probabilmente ne è l’emblema. Il provvedimento poggia su due assunti fasulli: che la disoccupazione sia soprattutto un problema di formazione; che la disoccupazione abbia le stesse caratteristiche e le stesse ragioni nella variegata geografia del paese. Sino a quando si continuerà a parlare di disoccupazione e non di “disoccupazioni” la retorica vincerà sul pragmatismo, favorendo la fuga verso l’assistenzialismo e l’incomprensione, tra i tanti, del fenomeno di quella parte consistente di personale qualificato, compreso quello immigrato, che preferisce migrare all’estero. Una retorica nella quale si sono rifugiate tutte le forze politiche; tutte! Un tema, altrimenti, che sarebbe dirimente; che implicherebbe tutta una serie di politiche e di volontà, compresa la creazione di nuove imprese e formazione di imprenditori. Un tema che, trattato con coerenza, rischierebbe di mandare in fibrillazione irreversibile le politiche comunitarie di stampo liberista e il reticolo di norme europee che regolano le attività e gli investimenti.

Il termine schizofrenia sottende la convivenza di propositi opposti e difficilmente conciliabili; di propositi, quindi, anche accettabili e significativi. A spulciare documenti e provvedimenti quesi ultimi non mancano; e l’opera certosina e discreta di settori della pubblica amministrazione sta cercando di dare loro corpo.

Si legge il proposito di difesa delle imprese impegnate nel complesso militare e nell’industria strategica residua, anche se i tagli successivi sembrano poi contraddire in parte le intenzioni. Si inizia a ricostruire un sistema di agenzie e di centri nazionali in grado di fungere da supporto tecnico e indirizzo nell’attuazione dei programmi di investimento specie delle amministrazioni periferiche e locali. Un tentativo molto più strategico di quanto possa apparire. Un modo per indebolire quel legame diretto tra amministrazioni locali e strutture e agenzie comunitarie che contribuisce a logorare la funzione di indirizzo e controllo dello Stato Centrale. Si sta operando per riprendere almeno il controllo pubblico delle reti, in particolare le telecomunicazioni, dopo le sciagurate privatizzazioni. Si sta cercando di riprendere il controllo dell’esposizione del debito pubblico con l’emissione di titoli collocati direttamente tra i risparmiatori al dettaglio.

Sono indirizzi ancora estemporanei, portati avanti sottotraccia e ancora privi di un disegno organico. Un disegno che implicherebbe la ripresa di temi strategici come la ridefinizione delle competenze tra stato centrale e amministrazioni locali; la gestione del rilevante risparmio nazionale; la riconduzione nei ranghi dell’azione giudiziaria. Tutti temi che stridono ancora con le suggestioni della democrazia dal basso del M5S e le concezioni originarie del federalismo della Lega ancora ben presenti nelle due formazioni e connaturate nel M5S.

Limiti che rivelano la durezza di un confronto più interno alle forze di governo che tra queste e le opposizioni. Una ruvidezza cui non corrisponde una chiarezza sufficiente di obbiettivi e di strategie; un sordo contrasto che potrà risolversi probabilmente solo con il completamento della trasformazione surrettizia della Lega in partito nazionale e con la spaccatura di un M5S logorato dove sta però prendendo piede una componente più realista. Vedremo cosa comporterà il prossimo ritorno del Messia pentastellato, di Di Battista anche se le frecce in faretra si stanno rivelando sempre più spuntate. Qualcuno si deciderà finalmente a chiedergli conto delle sue frequentazioni americane, specie in California e dei suoi stage di apprendimento.

IL PARADOSSO INTERNAZIONALE

Paradossalmente gli impulsi migliori e più promettenti sembrano provenire dal contesto internazionale. Questo Governo viene continuamente tacciato di un avventurismo che lo sta sospingendo nell’isolamento più totale. In realtà l’isolamento e l’inconsistenza del peso geopolitico del paese si è compiuto silenziosamente a partire dalla guerra civile nella ex-Jugoslavia e dalla riunificazione tedesca. L’Italia ha perso quasi ogni influenza in Europa Orientale, compresi i Balcani e ha incrinato la sua credibilità e il suo prestigio nel Mediterraneo in questi ultimi trenta anni. Una chiusura a Nord-Est che la sta sospingendo volente o nolente verso il Mediterraneo e il Nord-Africa. La chiusura del cerchio avrebbe potuto completarsi con la guerra e la defenestrazione di Gheddafi in Libia. Da lì, invece, è iniziato fortunatamente il declino di Obama e l’emersione della vanagloria francese. Oggi l’America di Trump, per relegare almeno momentaneamente il multilateralismo, destrutturare il sistema di relazioni fondato su organismi sovranazionali e rifondare un sistema di alleanze più agile ed efficace e soprattutto più sostenibile, ha bisogno di ripristinare i rapporti tra stati nazionali e ridimensionare le potenze regionali che hanno lucrato all’interno della propria sfera di influenza. In Libia, per altro, si è creato una terra di nessuno dove le malefatte clintoniane hanno offerto le possibilità di accordo tra Trump e Putin a scapito di Francia e Turchia. Il terreno ideale per offrire all’Italia la possibilità di ritorno e di azione. Un invito colto con una certa sapienza dal Governo Conte con la gestione della recente conferenza. Più discreto, ma altrettanto efficace, almeno per il momento, la copertura nel contenzioso europeo. Come pure le boccate di ossigeno offerte dal complesso angloamericano a Finmeccanica e Fincantieri. In politica, più che in altri ambiti però, ogni sostegno e ogni collaborazione non sono disinteressati e nemmeno garantiti e stabili nel tempo. Il confine tra la capacità di cogliere le opportunità offerte e la condanna a cadere sotto nuove forme di servitù e subordinazione, simili alle precedenti, è sempre labile e poco definito. Un dilemma che le classi dirigenti nazionali hanno dovuto affrontare più volte a partire dal conseguimento dell’unità. Qualche volta con esito soddisfacente, altre incorrendo in un destino drammatico o poco lusinghiero. L’armistizio estivo tra l’Amministrazione di Trump e la Commissione Europea deve fungere da campanello di allarme. Il rinvio dell’innalzamento delle barriere doganali ai danni della Germania è costata qualche concessione ai tedeschi e il sacrificio molto più significativo su importazioni di prodotti agricoli a scapito dell’Italia.

L’ipotesi di puntare rapidamente ad una condizione di neutralità vigile può essere prematura; richiede ben altre condizioni e una classe dirigente in grado di sostenere un confronto così duro. Tentare almeno un patto con il diavolo che consenta di recuperare il controllo almeno del sistema finanziario, con la riacquisizione di Generali e UNICREDIT e magari la gestione della rete commerciale che apra uno sbocco più garantito dei prodotti agricoli nel mercato nazionale, ambiti economici attualmente in mano ai francesi e in parte ai tedeschi, potrebbe essere un obbiettivo già alla portata dell’attuale Governo, così come quello in atto sulla TIM nel settore delle telecomunicazioni. L’importante è riuscire a resistere alle pressioni di una armata probabilmente più sgangherata di quanto possa apparire ma sempre pronta a trovare nuovi corifei e nuovi tromboni. Il Corriere della Sera, ancora una volta, si è offerto diligentemente nella funzione di benpensanti servili. Giornalisti come Federico Fubini, da capostipiti, hanno decisamente scelto la loro missione: quella di ventriloqui del magnate filantropo Soros. (vedere per credere:  https://2018.festivaleconomia.eu/-/di-quale-europa-abbiamo-bisogn-1  ). La loro credibilità, però, sta crollando fortunatamente assieme alle vendite dei loro fogli. Uno spazio in più del quale approfittare

 

 

CONSIGLIO AI ROSICONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONSIGLIO AI ROSICONI

Prima del 4 marzo l’establishment politico e culturale di sinistra stigmatizzava l’ “incultura, l’inesperienza e la rozzezza” dei populisti, in specie dei grillini.

Il tormentone è aumentato a dismisura con la vittoria elettorale e il varo del governo pentaleghista; anche la carriera accademica di un mite premier come Conte è stata passata al setaccio e così sono stati svelati alcuni peccatucci (veniali), ricorrenti in ogni percorso accademico. Allo stesso è stata poi addebitata l’inesperienza, considerato che, praticamente era rimasto sempre fuori dai giri che contano; e probabilmente questa è stata la principale ragione che ha indotto a nominarlo. Una compromissione plurilustre col potere, che è a giudizio dell’establishment capalbino, un titolo comporta, cosa di cui i suddetti non si rendono conto, anche quella con lo sfascio della seconda repubblica: pessima presentazione per l’elettorato pentaleghista. Tant’è. I rosiconi hanno forse rimosso, ma più probabilmente rimpiangono, i bei tempi in cui trovavano comode e confortevoli nicchie nei bilanci pubblici. E per gente che spesso ha fatto dell’interesse individuale (proprio) la regola dell’agire universale, il venir meno di queste, ovviamente addolora.

Così il movimento cinque stelle appare, nell’immaginario di Capalbio – ed in parte lo è – come un’armata Brancaleone: un insieme disordinato di emarginati dal potere e dalla cultura, rozzi, ignoranti (e opportunisti), guidati da un comico.Inadatti a governare, come a discutere e brillare nei salotti.

Come detto qualcosa di vero c’è, ma occorre non trascurare come, in primo luogo, il livello della classe dirigente negli ultimi trent’anni ha avuto uno scadimento geometrico (nel senso della radice quadrata): un Di Maio steward, è stato preceduto da una Fedeli, ministro dell’istruzione, la quale in comune con Benedetto Croce, aveva di non essere laureata. Purtroppo per lei, i connotati comuni col filosofo si riducevano a quello. Quanto poi abbia contribuito al declino di qualità dei parlamentari, il tentativo ricorrente (e “vincente”) delle diverse leggi elettorali, di farli nominare dai vertici dei partiti più che scegliere dalla base elettorale è sicuramente influente e da valutare nel senso che non sempre è il popolo a sbagliare.

Ma quel che più importa è notare come sia in politica che in quel mezzo della politica che è la guerra, è la qualità del nemico a determinare quella del combattente.

Facciamo un esempio.

Pareto ironizzava su Napoleone III°, perché incerto e (addirittura) ingenuo, tuttavia all’immagine dell’Imperatore (per i postumi) ha contribuito d’esser stato sconfitto – ed aver perso il trono – da un genio della politica come Bismarck e da una perfetta macchina da guerra come l’esercito prussiano. Che giudizio avrebbero formulato i posteri se a sconfiggerlo e detronizzarlo fosse stato un politico di mezza tacca alla guida dell’esercito del Lussemburgo? Anche a Francesco Giuseppe che perse quasi tutti i domini italiani dell’Impero in pochi anni, contribuì non poco di aver avuto come avversario un altro genio come Cavour: e morì circondato dall’affetto e dalla considerazione dei sudditi. Lo stesso avviene per la guerra: il nome di Scipione è noto a tutti perché sconfisse Annibale – il più grande condottiero dell’antichità – a Zama; nessun ricorda il nome dei consoli (Salinatore e Nerone) che qualche anno prima avevano vinto Asdrubale (il fratello meno dotato di Annibale) al Metauro, battaglia non meno decisiva di Zama. Sconosciuti come i consoli suddetti sono i nomi di quei generali delle potenze europee che nel XIX secolo conquistarono tutta l’Africa, debellando le orde tribali autoctone.

Pertanto la spocchia della sinistra conferma, non volendo, due circostanze.

La prima che se l’armata Brancaleone dei grillini  (oltretutto poco “aiutata” e dotata di mezzi) ha vinto la “gioiosa macchina da guerra”, ciò significa che gli italiani ne avevano così piene le scatole di questa da preferire un insieme di ….sfigati a tanto brillante accademia. Chi è ridotto male spera nei salvatori meno probabili, che preferisce a coloro in gran parte responsabili di averlo rovinato.

La seconda che se tale armata Brancaleone, povera di mezzi e appoggi, li ha ridotti così a mal partito vuol dire che non erano poi così bravi, intelligenti ed efficienti. Non sono Bismarck né Scipioni, ma dei Dumford o Baratieri (sconfitti il primo dagli Zulu, il secondo dagli abissini). E per la loro immagine sarebbe bene ne tenessero conto.

Teodoro Klitsche de la Grange

Ma dove vanno i marinai?, di Piero Visani

Sulla differenza tra potere e governo, un caso illuminante. Con una precisazione; le quinte colonne del potere nel Governo_Giuseppe Germinario

Ma dove vanno i marinai?

https://derteufel50.blogspot.com/2018/08/ma-dove-vanno-i-marinai.html?spref=fb

       Tra il 1990 e il 1993, la mia attività di supporto alla comunicazione dell’istituzione militare trovò un per me insperato supporto nel generale Goffredo Canino, all’epoca Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, che mi diede prova di condividere sinceramente e fattivamente la mia visione radicalmente ostile alle geremiadi sui “soldati di pace”. La cosa non sfuggì a un ambiente profondamente penetrato dalle culture dominanti (da quella cattolica della Comunità di Sant’Egidio a quella delle Sinistre, più forti di quanto comunemente si pensi all’interno degli ambienti militari) e partì non appena possibile la controffensiva, che si concluse con il famoso caso di “Lady Golpe”, Donatella Di Rosa.
       Chi l’aveva promossa era perfettamente a conoscenza del forte senso dell’onore del generale Canino, che con quel caso non c’entrava in alcun modo, ma che sicuramente avrebbe messo a repentaglio la sua personale carriera per difendere l’onorabilità dell’istituzione militare. E fu esattamente quello che egli fece, dando le dimissioni per difendere la reputazione di alcuni suoi sottoposti ingiustamente accusati dal potere politico e dalla canea mediatica.
       Si trattò di un’operazione da manuale, da parte di chi voleva togliere di mezzo Canino, condotta con spregiudicatezza e lucido senso dell’obiettivo da cogliere. Alla fine, infatti, fu aperta la strada a uomini in uniforme che avevano una visione molto diversa da quella di Canino o erano comunque disposti a legare l’asino dove voleva il padrone…
       Sorrido perciò nel vedere almeno una parte del nuovo governo gialloverde alle prese con un vertice della Guardia Costiera che sta sviluppando una politica del tutto opposta, sulla questione dell’emigrazione, a quella dell’esecutivo, senza che – per ora e credo ancora per molto – una sola testa venga fatta metaforicamente volare. Come ho scritto, ho visto teste – in ambito militare – volare per molto meno, talvolta anche per una sola parola o una dichiarazione di troppo. Qui invece si stanno accumulando atti ostili alla politica del governo in materia di immigrazione e – che la si condivida o meno – lo spoils system è uno strumento assolutamente legittimo in democrazia. Ma una parte consistente della classe politica italiana ancora non ha compreso che “il potere logora chi non ce l’ha” e alcuni di loro, anche se per il ventennio del centrodestra hanno creduto di averlo, non hanno capito niente e oggi, semmai, capiscono ancor meno. Così, se è vero che il PD ha perso qualsiasi credibilità a livello di opinione pubblica, ha saputo piazzare tutti i suoi uomini negli apparati dello Stato e li usa, oh se li usa, mentre altri credono di governare. Che ingenui…!
 
                                                                Piero Visani

costruttori di ponti, di Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2018/08/17/i-meriti-del-governo-conte_-le-implicazione-della-tragedia-del-crollo-del-ponte-morandi-a-genova/

Ho conosciuto la Treviso dei Benetton negli anni ’80. La famiglia godeva di grande prestigio e rispetto tra la gente. Era uno dei gruppi imprenditoriali che stavano guidando lo sviluppo vorticoso di una regione proprio quando il triangolo industriale del nord-ovest stava avviando un drastico processo di riorganizzazione e riduzione delle concentrazioni industriali, ma anche un allarmante ridimensionamento ed impoverimento dei più grandi gruppi. Quella famiglia riuscì a creare nuovi stabilimenti manifatturieri, ma anche una rete impressionante di lavoro a domicilio e decentrato che coinvolgeva decine di migliaia di veneti. Gli occhi più attenti colsero in quelle dinamiche i primi segni di un declino complessivo della qualità della produzione industriale e del peso delle industrie strategiche nonché le basi di uno sviluppo industriale alternativo fondato sulla precarizzazione e su una catena di valore meno significativa che comunque favoriva lo sviluppo di quella regione rispetto alle altre. Riuscì, assieme ad altre, pertanto a dare un grande impulso alla diffusione di una imprenditoria piccola e polverizzata fondata su elevati redditi famigliari tratti da attività ibride nella piccola agricoltura, da un assistenzialismo fondato su pensioni ed indennità concesse a man bassa, su lavori a domicilio e in fabbrica e su una sapiente politica creditizia delle banche popolari, rafforzate da rimesse e rendite provenienti soprattutto dalle estrazioni dalle cave. Il livello di organizzazione gestionale ed industriale di gran parte di quelle attività era letteralmente penoso ed infatti cominciò a scremare e declinare paurosamente già dalla fine degli anni ’90. Gli stessi Benetton, assieme a tantissimi imprenditori, iniziarono a trasferire massicciamente all’estero l’attività manifatturiera oltre a garantirsi il controllo di buona parte delle materie prime, la lana in particolare, con l’acquisto di centinaia di migliaia di ettari di terreno, soprattutto demaniale, in Argentina. Fu un colpo al prestigio popolare della famiglia. I Benetton riuscirono comunque a salvaguardare una aura potente di illuminati con un sapiente mecenatismo ed una grande capacità di comunicazione fondata su paradossi e su un concetto elementare di fratellanza universale tra diversi complementari alla diversità di colori e modelli delle proprie linee di abbigliamento. Quella comunicazione non era un mero involucro vuoto e artefatto. I pochi esterni che hanno avuto la fortuna di visitare i laboratori nei sotterranei del centro direzionale nei pressi di Preganziol rimanevano colpiti dal fervore e dall’entusiasmo, dalla creatività che sprigionava quell’ambiente e si trasmetteva anche alle istituzioni culturali e accademiche sino ai primi anni del 2000. Fu una delle basi della creazione dell’attuale intellighenzia, oggi così smarrita e autoreferenziale. La svolta definitiva in rentier e percettori di rendite avvenne con la privatizzazione delle concessioni pubbliche, per i Benetton nella fattispecie di quelle autostradali. Le motivazioni potevano avere una loro fondatezza nel tentativo di introdurre criteri privatistici nella gestione dei servizi che innescassero innovazione, organizzazione e controllo dei costi. La fede nelle virtù innate delle attività imprenditoriali e delle dinamiche di mercato condusse invece alla trasformazione della quasi totalità della grande imprenditoria privata superstite in tagliatori di cedole proprie e per conto terzi della peggiore risma. Un connubio tutto politico, sottolineo politico che creò l’attuale classe dirigente responsabile nei vari livelli del progressivo e disastroso declino del paese accelleratosi già a metà degli anni ’90. Quel mecenatismo e quell’illuminismo si rivelò di pari passo sempre più un involucro artefatto e cinico proprio di un ceto decadente e parassita, avulso.

Mi ha subito sorpreso la apatica, grottesca, manifesta indifferenza dei Benetton a ridosso della tragedia.

Con quegli antefatti e a mente più fredda, ad una settimana dalla tragedia del crollo del ponte, riesco a spiegarmi la rozzezza e l’impaccio impressionanti manifestati dai comunicatori della Società Autostrade e dalla famiglia Benetton.

I nostri illuminati purtroppo non sono soli nella loro mediocrità.

Il cardinale Bagnasco, nella scialba e anodina gestione dell’intera liturgia che ha regolato la cerimonia funebre ha raggiunto l’apoteosi del peggio nell’omelia, con la sua involontaria macabra ironia sui “ponti la cui funzione è solcare il vuoto e condurre a nuova vita le anime”. Ci ha pensato, paradossalmente, l’orazione dell’imam, nel suo italiano fortunatamente approssimativo, a ridare qualche goccia di ottimismo e qualche prospettiva di giustizia alla folla presente nella cerimonia. E’ stato, di conseguenza l’unico, tra i religiosi, ha ricevere applausi sinceri dagli astanti.

I Benetton, però e i loro accoliti hanno saputo fare di peggio nella loro freddezza, aridità d’animo, intempestività e mancanza pressoché assoluta della virtù fondamentale dei potenti in debito di autorevolezza: l’ipocrisia! Hanno dato il meglio della loro debolezza e del loro arroccamento sordo: la cieca arroganza!

Con le vittime appena incastrate tra le macerie hanno pontificato sulla necessità di accertare le responsabilità prima di ogni azione. Sollecitate una prima volta da Salvini a collaborare, hanno bontà loro sottolineato di aver concesso il passaggio gratuito delle ambulanze sull’autostrada; sollecitati ancora una volta dallo stesso Ministro a dare un segno di vicinanza ai familiari delle vittime, a qualche giorno di distanza hanno porto le condoglianze secondo lo stile proprio di un telegramma di convenevoli a un caro estinto; ulteriormente spinti a dare un qualche segnale di sostegno alla città, agli sfollati e alle vittime, anziché usare la discrezione e annunciare l’intenzione di contattare gli interessati e le istituzioni per concordare le modalità e l’entità del sostegno hanno strombazzato da parvenu ai quattro venti lo stanziamento di 500 milioni di euri. Badate bene! I due ultimi atti di comprensione umana sono scaturiti dai loro cuori solo dopo aver affidato a consulenti esterni la gestione della comunicazione, probabilmente con qualche sofferenza del cuore stesso posto troppo vicino al portafogli.

L’allucinante sordità di questo brandello emblematico di classe dirigente è stata purtroppo parzialmente offuscata dalla dabbenaggine comunicativa e dall’improvvisazione emotiva delle reazioni di alcuni ministri, in particolare di Di Maio, il quale fatica ad esibire il freddo aplomb istituzionale nelle risposte, nelle reazioni e nei sentimenti. Per il resto ad amplificare la “defaillance” dei manager e padroni ci sta pensando da par suo l’isterica reazione e difesa delle loro prerogative e dei loro comportamenti da parte dei dirigenti più esagitati e gretti del PD.

I baldi difensori dovrebbero meritare una amorevole attenzione a parte in proposito.

In un modo o nell’altro i costruttori di ponti di fratellanza in una umanità unita dall’ottimismo pubblicitario rischiano di cadere sulla cattiva costruzione e manutenzione di un ponte in cemento armato.

NUOVI COSTRUTTORI DI PONTI

In crisi un costruttore di ponti, ne viene fuori un altro. Questa volta si tratta di ponti galleggianti.

In queste ore la nave della Guardia Costiera “Diciotti” ha raccolto aspiranti immigrati da un barcone in Mediterraneo, adducendo una richiesta di soccorso. Il Governo di Malta, le cui motovedette stavano accompagnando il barcone, ha smentito tale richiesta e rincarato la dose affermando che i naviganti avevano rifiutato la loro offerta di soccorso essendo al sicuro sul loro mezzo. L’ammiraglio Pettorino, comandante della guardia costiera di nomina Gentiloni, ha coperto il comportamento della nave; i Ministri della Difesa, Trenta e degli Esteri Moavero hanno coperto senza smentita e con ogni evidenza l’ammiraglio Pettorino. L’obbiettivo è mettere in imbarazzo e ridicolizzare Salvini e le componenti politicamente più autonome del Governo. Attendiamo lumi da Mattarella. La Diciotti è stata artefice di un gesto analogo un paio di mesi fa. I Comandi della Marina Militare, meno di due anni fa, di fronte alle intenzioni di bloccare le partenze degli scafisti e i salvataggi in prossimità delle acque libiche ribadirono la loro intenzione di proseguire comunque con i salvataggi. Una Repubblica nella Repubblica. È tempo di fare pulizia nel Governo e nelle Pubbliche Amministrazioni. In autunno si annunciano tempeste e provocazioni pesanti. Difficilmente si riuscirà a sostenere la barra guardandosi nel contempo da nemici e da “amici”.

Buona fortuna agli italiani!

Dalla mia palla di cristallo_Governo gialloverde: com’è andata & come andrà_di Roberto Buffagni

Governo gialloverde: com’è andata & come andrà

Dalla mia palla di cristallo

 

Cari amici vicini e lontani, eccoci al consueto appuntamento con la mia palla di cristallo e i Superiori Sconosciuti che per mezzo suo ci fanno sgocciolare un po’ di info. Anticipo che i Superiori Sconosciuti tendono all’ellissi e hanno anche il gusto un po’ sadico della suspense, quindi non vi aspettate un bel resoconto dettagliato con tutti i puntini sulle i e i trattini sulle t. E via con le rivelazioni dal Regno Sovratemporale.

Com’è andata

La formazione del governo è stato un mezzo miracolo, forse anche un miracolo intero. Lo scorso 24 maggio la mia palla di cristallo indicava che il progetto di formazione del governo gialloverde poteva essere una “abile manovra tattica, grave errore strategico” (70% di possibilità) oppure una “abile manovra tattica seguita e raddoppiata da audacissima manovra operativa” (30% di possibilità)[1].

Grazie a Qualcuno che Lassù ama l’Italia, si è verificata la seconda e meno probabile ipotesi. La cosa buffa e altamente istruttiva è che l’ipotesi “manovra alla von Manstein” non si è verificata grazie a geniale intuizione di alta strategia dello Stato Maggiore leghista, ma grazie alla semplicità e all’assenza di pregiudizi dei medesimi. I quali hanno tratto le conseguenze immediate dalla situazione contingente: il PD aveva rifiutato l’alleanza con i 5*, Mattarella s’era rifiutato di dare l’incarico a Salvini, l’unica possibilità per formare un governo era allearsi con i 5*, la Lega si è detta “perché no?” e ci ha provato. Il feldmaresciallo von Manstein non so, ma io non ci sarei arrivato in un milione di anni, per tutte le ragioni (pur valide) illustrate nell’articolo linkato alla nota 1. Morale: una strategia che funziona è sempre semplice, e la semplicità è difficile. Chapeau!

Però, se la semplicità è una bella cosa, vita e politica sono complicate. L’audace Blitzkrieg non è stato condotto a termine, e gli enormi errori commessi dall’avversario non sono stati sfruttati a fondo come la situazione dettava. L’errore più grave commesso dal comandante in capo dell’avversario, il presidente Mattarella, è stato l’ostinato rifiuto di accettare il nome di Paolo Savona al Ministero dell’Economia. Il popolo italiano, questo naufrago che insiste a non voler annegare, si è reso immediatamente conto che a) Savona non è Lavrentij Beria o il dottor Goebbels b) Mattarella obbediva a pressioni di potenze straniere + organismi sovrannazionali e dunque non adempiva la sua funzione istituzionale di Presidente della Repubblica italiana c) se l’azione di Mattarella poteva essere legale, certo non era legittima (legittimità = chi comanda in nome di che cosa) c) tra legalità e legittimità c’è di mezzo non il mare ma la classe dirigente europeista, che considera le istituzioni dello Stato italiano come la crisalide di future altre, nuove e incompatibili istituzioni, che non rispondono al popolo italiano ma a oligarchie transnazionali d) per farla corta, che i dominanti italiani sono, secondo l’esatta definizione di Giulio Sapelli, una “borghesia compradora” incaricata di mediare il consenso, vulgo far stare buono il popolo italiano mentre viene tosato, diviso, miscelato e servito ammanettato a chi si vuole mangiare i suoi asset.

Tenendo fermo su Savona, il popolo italiano avrebbe assistito alla plastica rappresentazione della realtà effettuale, in forma di compresenza nelle medesime aule di un governo tecnico legale risibilmente minoritario, e di un governo ombra legittimo con larga maggioranza parlamentare, in grado di varare leggi perfettamente valide e di affossare con il voto i decreti del governo: una situazione prerivoluzionaria con tutti i crismi. La realtà effettuale che si sarebbe così plasticamente illustrata agli occhi di tutti gli italiani è che l’Unione Europea è una tigre di carta bollata e un sovrano privo sia della forza, sia del diritto a regnare. E dopo un corso accelerato di scienza politica come questo, si poteva passare al più presto all’incasso elettorale.

Quando l’avversario fa un grave errore, è un errore ancor più grave non approfittarne. Il modo c’era, e a portata di mano[2]. Per insipienza, inesperienza, e forse o senza forse qualche aiutino di esperti con agende divergenti, l’occasione non è stata colta, e la situazione sul campo si è stabilizzata.

L’azione di governo nei primi trenta o quaranta giorni si può riassumere in due righe: la ventata di stupore, freschezza, sollievo e fierezza levata da un vicepremier, Salvini, che fa due cose molto semplici. Anzitutto, dice con la voce di un’ istanza autorevole quel che pensa una larga maggioranza di italiani: “l’immigrazione è un pericolo e un male, basta!”; e per di più, lo dice senza avere paura di quel che penseranno a Berlino, a Bruxelles, al “New York Times” e al “Corriere della Sera”. Difficile sopravvalutare l’importanza e l’effetto salutare di queste emozioni, per un popolo che le sue classi dirigenti demoralizzano scientificamente da decenni per ridurlo all’impotenza e alla rassegnazione. Infatti, i sondaggi d’opinione parlano di un vasto consenso, indicato intorno al 30%, che la Lega si sarebbe conquistata in queste settimane di governo.

Poi, però, le cose finiscono qui.

La situazione, come dicevo, si è stabilizzata. Stabilizzata vuol dire che le classi dirigenti europeiste italiane, che sono il 90% delle classi dirigenti in tutti i settori, hanno ripreso in mano le leve di comando e controllo delle quali dispongono e che sanno usare molto bene e di concerto, com’è naturale si sono riorganizzate, e hanno cominciato a reagire: ostacolando l’azione operativa del governo, insinuando un cuneo tra gli alleati, e dando inizio alla formazione di un nuovo fronte d’opposizione. In ciò sono favorite dalle debolezze del governo e delle due formazioni che lo compongono, che non sono poche.

Nel caso dei 5*, i punti deboli principali sono:

  1. Il carattere impolitico originario di un movimento che non ha mai indicato chiaramente il suo nemico. Questo carattere impolitico ha permesso alla Lega di allearvisi e di egemonizzarlo provvisoriamente, ma costituisce anche un rischio permanente di opportunismo e veri e propri voltafaccia
  2. La cultura politica gravemente insufficiente e abborracciata, tinta di un generico progressismo con sfumature New Age
  • L’inesperienza e a volte la vera e propria insufficienza della sua classe dirigente
  1. La permeabilità a influenze non dichiarate e vere e proprie infiltrazioni, che consegue sia da quanto indicato ai punti precedenti, sia dall’origine non chiarissima (eufemismo) della sua formazione

Nel caso della Lega, i punti deboli principali sono:

  1. Il carattere reattivo della sua cultura politica. La vecchia Lega intendeva rappresentare la reazione della “comunità padana” che vedeva minacciato il suo interesse e la sua identità dallo Stato nazionale; la nuova Lega intende rappresentare la reazione della “comunità italiana” che vede minacciato il suo interesse e la sua identità dalla UE e dal mondialismo. Ma mentre le rivendicazioni della vecchia Lega potevano agevolmente tradursi in richiesta di concessioni, benefici e spazi politici dallo Stato centrale, senza metterne di fatto mai in questione la legittimità nonostante le smargiassate secessioniste e i duecentomila bergamaschi con la pallottola in canna evocati da Bossi quando alzava il gomito a Pontida, la nuova Lega si trova di fronte a un sistema politico sovrannazionale rispetto al quale le sue istanze nazionaliste sono affatto incompatibili, e finisce per essere, volens nolens, una forza antisistemica: come dimostra l’ostilità violentissima che suscita. Una forza antisistemica, se vuole sperare di vincere, non può esimersi dal delineare il nuovo sistema che intende instaurare, perché come disse Danton, che di rivoluzioni se ne intendeva, “si abbatte davvero un regime solo se lo si sostituisce”. E di delineare il nuovo sistema, la Lega (e non solo la Lega) non è ancora capace, neanche con il pensiero.
  2. Il suo rispettoso ossequio per le istituzioni italiane. Non dipende soltanto dal prestigio degli ori e della lunga storia che aleggia nelle sale del Quirinale e delle Camere, che sempre si impongono al neofita provinciale. Dipende da quanto esposto al punto precedente. La vecchia Lega non ha mai seriamente pensato di rivoluzionare lo Stato italiano, né tanto meno di abbatterlo con una secessione. Lo Stato nazionale italiano è sempre stato il suo orizzonte, l’ambito nel quale agire e pensare, certo strappandogli il più possibile, ma senza mai contestare sul serio la sua legittimità. Ora che la nuova Lega guida nei fatti il governo, e lo guida in nome della nazione, il rispetto per le istituzioni dello Stato e per chi le impersona diventa un riflesso condizionato. Purtroppo, chi di fatto dirige lo Stato italiano e ne riveste le più alte cariche, per le istituzioni e lo Stato non ha rispetto alcuno, perché, come dicevo sopra, “considera le istituzioni dello Stato italiano come la crisalide di future altre, nuove e incompatibili istituzioni, che non rispondono al popolo italiano ma a oligarchie transnazionali.” Questa dissimmetria mette la Lega in condizioni di inferiorità rispetto all’avversario, e le impedisce di cogliere preziose opportunità. Finché la nuova Lega non si persuaderà che Mattarella non è il Presidente della Repubblica italiana ma il capo dell’opposizione, non potrà cogliere le opportunità che l’avversario, usando strumentalmente le istituzioni, le ha offerto e le offrirà. In sintesi: il compito della nuova Lega non è strappare il più possibile all’Unione Europea senza contestarne la legittimità, ma quello di contestarne la legittimità e avviarne una trasformazione così profonda e imprevedibile da doversi chiamare, senza eccessi di linguaggio, rivoluzionaria. Perché l’Unione Europea, non essendo uno Stato ma un progetto irrealizzabile di Stato[3], non ha ampi margini di manovra per riassorbire le dissidenze e le rivendicazioni regionali: è un sogno politico, sa di esserlo, ed è disposta a tutto per impedire che le nazioni europee si sveglino.
  3. L’inesperienza di governo nazionale del suo personale, e le lacune in settori chiave del governo. L’inesperienza è inevitabile, e va scontata. Meno inevitabili le lacune in settori chiave del governo: per esempio, non era inevitabile mettere un prof di ginnastica al MIUR. Sono errori seri, che si spera verranno valutati come tali e corretti.

Come andrà

Come al solito, i beffardi Superiori Sconosciuti quando si viene al futuro sono sempre sbrigativi. Qualcosina però me l’hanno bisbigliato, e io fedelmente ve lo riporto.

  • Come si svilupperà l’offensiva dell’avversario. L’avversario agirà con una manovra a tenaglia, nell’intento di realizzare una replica della battaglia di Canne. La manovra si articolerà in due movimenti principali: a) spaccatura del Movimento 5* b) sterminio delle risorse economiche + isolamento della Lega. Vediamoli nei dettagli.
  • Spaccatura del Movimento 5*. Che cos’è andato a fare Di Battista negli USA? Turismo non credo proprio, anche perché non mi risulta che Dibba sia ricco di famiglia, né appare disporre di reddito personale ottimo e abbondante, e sei-otto mesi di turismo negli States con famigliola al seguito costano un minimo di 50.000 $, se non dormi in tenda. Quindi qualcuno paga, e siccome non esistono pasti gratis e neanche gite annuali premio, il qualcuno che paga vorrà qualcosa in cambio. Ha detto Dibba in TV che Mondadori gli ha versato un anticipo di 400.000 (quattrocentomila) euro per il suo libro di viaggio in USA. Non ho motivo per dubitarne, anche se anticipare quasi mezzo milione a un autore esordiente, per quanto personaggio noto, è una scelta economicamente avventurosa. I conti sono presto fatti: di solito l’autore incassa intorno al 10% del prezzo di vendita. Se il libro verrà messo in commercio a 20 euro, Mondadori dovrà vendere 200.000 (duecentomila) copie per rientrare dell’anticipo a Dibba. A meno che Dibba non si riveli uno scrittore prodigioso, difficilmente il suo libro di viaggio sarà un long seller: o vende subito, o resta in magazzino e poi va al macero. In Italia, non mi risulta sia mai esistito un libro di autore esordiente che abbia venduto 200.000 copie in una stagione[4]: qua si entra in classifica dei libri più venduti con 5.000 (cinquemila) copie vendute. Per sperar di arrivare intorno a quel volume di vendite, un libro italiano deve avere ottimi, anzi fantastici contratti di traduzione su altri mercati, in particolare – to’ ! – sul mercato anglosassone, che ha 400 MLN di lettori. E’ così? Non possiamo saperlo, e in ogni caso facciamo i migliori auguri a Dibba e a Mondadori, queste due preziose risorse culturali italiane. Ma questa digressione economicista è tutta mia, e me ne scuso (sarò invidioso?). I Superiori Sconosciuti, invece, che problemi di soldi non ne hanno, mi hanno fatto notare una certa analogia tra il viaggio in USA di Renzi e il viaggio in USA di Dibba. Analogie tra i due viaggiatori, entrambi giovani politici ambiziosi e promettenti che avrebbero voglia di spiccare il volo; analogie tra le tappe del viaggio; per tacere della destinazione, che è proprio identica (perché poi, con tutti i posti belli e istruttivi che ci sono al mondo, proprio negli USA bisogna andare?). Colgo il suggerimento dei Superiori Sconosciuti, e sottopongo alla vostra attenzione la seguente ipotesi. E se il tour manager di Renzi fosse lo stesso di Dibba? Cioè i democrats USA e i mondialisti che li innervano? Se così fosse, in questi mesi Dibba è stato sottoposto a un corso intensivo con teachers competenti in rivoluzioni colorate e affini, provenienti sia dagli abissi del Deep State USA sia dalla futuristica Scientology, che cura l’addestramento mediatico dell’alunno con la programmazione neurolinguistica, così fa bella figura nei dibattiti e si inventa begli slogan tipo “rottamazione”, “i gufi”, etc., scemenze che però in TV funzionano. In cambio, al suo ritorno Dibba dovrà consegnare una merce pregiata: la spaccatura del M5*, del quale si proporrà come il neo Che Guevara sociale e futuristico, e che dovrà trasformare nella base di un new & improved modello di “partito desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”  al quale si aggregheranno tutti i frustoli e residui dei moribondi partiti desinistra vecchio modello, dai Leucociti + frange PD in giù. Non sarà facilissimo, ma è tutt’altro che impossibile, vista la cultura politica progressista e vagamente fantascientifica/New Age dei 5*. A questo “partito desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”  si affiancherà un partito minore “di centrosinistra moderato” guidato dal vincitore della riffa in corso nel PD, che dovrebbe attirare parte di Forza Italia e forse lo stesso Silvio B., i radicali della Bonino, e insomma tutte “le persone serie” (questo flagello d’Italia) che si prefiggeranno di formare il corpo ufficiali del fronte desinistra/centro antiLega.
  • Sterminio delle risorse economiche + isolamento della Lega. Non so come tecnicamente sarà eseguito, ma sarà eseguito. Se qualcuno spera che non ci si arriverà sul serio, che Mattarella interverrà per evitare il vulnus alla democrazia o analoghi, si sbaglia di grosso. I Superiori Sconosciuti affermano con la massima chiarezza che gli europeisti sanno di correre un rischio esistenziale, e del fair play, di Montesquieu, della democrazia e altre cantafavole domenicali non si curano: si curano invece assai di sopravvivere e tenersi stretto quel che hanno, che non è poco.
  • Quindi per concludere: al ritorno di Dibba, presumibilmente intorno a settembre-ottobre prossimi, scatterà la manovra a tenaglia, con l’obiettivo strategico di arrivare all’appuntamento delle elezioni europee del 2019 con un Movimento 5* diviso e in larga maggioranza “desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”, un “partito di centrosinistra di persone serie” che fa un po’ di polemica con il giovane scapestrato Dibba ma alla fine vi si allea contro i fasciorazzisti della Lega, e una Lega isolata tranne la povera Giorgia Meloni, senza un centesimo in tasca, che non ha consegnato la merce economica promessa (flat tax, rilancio di investimenti e consumi), e che dunque perde un buon dieci per cento del 30% di consensi odierni. Sintesi: i tour manager di Dibba + la borghesia compradora italiana vogliono aggiornare il classico schieramento antifascista ad excludendum il partitaccio antisistema che tante soddisfazioni ha dato in Francia con il Front National; solo che stavolta lo slogan dirimente sarà “contro i razzisti-nazionalisti disumani”, e l’antifascismo, un po’ sdrucito dopo tanti decenni di onorato servizio, servirà solo per gli elettori più anziani e più disagiati.
  • Che può fare la Lega per battere la manovra a tenaglia? Secondo i Superiori Sconosciuti, le mosse sono obbligate, e sono due.
  • Prima contromossa: spaccare il M5*. Trovare un antagonista di Dibba, e portargli via almeno un terzo del M5*
  • Seconda contromossa. Chiudere la Lega usandola come bad bank alla quale addebitare l’esproprio della magistratura, e aprire un nuovo partito conservatore che si prefigga lo scopo di a) nascere nazionale, inserendo in posizioni di rilievo gli eletti più rappresentativi della Lega al Sud b) calamitare il meglio di Forza Italia c) calamitare la parte dei 5* che non si lascerà risucchiare da Dibba d) attirare una parte di astensionisti e) consolidare il consenso guadagnato con l’azione di governo f) prendere tanti voti alle europee.
  • I Superiori Sconosciuti aggiungono che il tempismo dell’operazione è essenziale. Non che ci volessero i Superiori Sconosciuti per arrivare a questo truismo, ma tant’è, così mi hanno detto e così vi riferisco.

Di mio, aggiungo solo che è comodo fare i Superiori Sconosciuti solennemente assisi in poltrona tra le nuvole del Regno Sovratemporale: quaggiù, nella spigolosa realtà effettuale, queste due contromosse non sono mica tanto facili, eh?

Comunque, tanto vi dovevo. In bocca al lupo all’Italia, e stay tuned!

 

 

 

 

 

[1] http://italiaeilmondo.com/2018/05/12/governo-lega-m5stelle-come-andra-a-finire-di-roberto-buffagni/

[2] Per esempio questo: http://italiaeilmondo.com/2018/05/29/dalla-mia-palla-di-cristallo-governo-ombra-di-roberto-buffagni/

[3] V.  http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[4] http://www.lastampa.it/2017/03/04/cultura/i-libri-diventano-un-best-seller-con-mila-copie-PXKsG0krrjpA7BQfOuLfoJ/pagina.html

LA DECADENZA ITALIANA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DECADENZA ITALIANA(*)

  1. La decadenza non è tra i temi più frequentati dalle elites politiche e culturali italiane. In un contesto culturale propenso a credere che l’economia sia il destino e che fatti e processi storici siano da valutare preferibilmente sotto l’aspetto numerico-quantitativo, dovrebbe suscitare stupore che il dato della decrescita del PIL italiano (del sette per cento dal 2008 ad oggi) non abbia suscitato quasi nessuna discussione; questo in un paese che ama parlare diffusamente e pubblicamente anche di fatti minimi e irrilevanti.

L’unica spiegazione che si può dare – oltre a quella che parlarne porterebbe alla ricerca dei responsabili (se ve ne sono), prospettiva pericolosa per chi esercita il potere – è che la decadenza è, per sua natura, opposta all’idea di progresso, e in particolare a quell’idea di progresso nota e assai coltivata negli ultimi due secoli (anche se in modi diversi), per cui il progresso è “legge” della storia, (e ancor più una forma di legittimazione per chi se ne proclama fautore); e l’umanità in ogni epoca si trova progredita rispetto all’epoca antecedente, e questo processo non avrà mai termine. Solo che i fatti cui far riferimento sono diversi e decisivo, per capire l’andamento, è la collocazione temporale di riferimento. Se si paragona la situazione dell’uomo moderno con quella dell’uomo del neolitico, il progresso è chiaro: in 8-10 millenni è enormemente aumentato il benessere, la durata della vita, le chances di vita. Ma se il periodo di riferimento è diverso, ad esempio tra gli ultimi secoli dell’Impero romano  d’occidente e l’epoca carolingia(circa cinque o sei secoli) parlare di progresso tra l’una e l’altra epoca appare bizzarro. Un servo della gleba carolingio avrebbe considerato con invidia l’antenato, colono di un latifondista: malgrado le vessazioni e le fiscalità della burocrazia del dominato, godeva di edifici pubblici e privati meglio costruiti; di ponti e strade mantenuti, poteva viaggiare anche per mare senza temere pirati e saraceni, e aveva una durata della vita di circa quindici anni più lunga (che è l’indice principale di benessere). Parlargli quindi di progresso – nel senso suddetto – sarebbe sembrata una boutade di cattivo gusto.

La diversità tra il punto d’osservazione e l’osservato ha prodotto pertanto una serie di concezioni dell’ “andamento” della storia, che possono così sintetizzarsi.

L’umanità è in progresso: è quella prima sintetizzata. Nello spazio cartesiano se l’ascissa indica il tempo e l’ordinata la “felicità”, è rappresentata da una retta che cresce verso l’alto.

L’umanità regredisce: è la tesi del pensiero più antico per cui l’umanità ha conosciuto all’inizio della storia l’era più felice (l’età dell’oro, il paradiso terrestre, e così via) ed è andata peggiorando: è, una retta che procede verso il basso.

La storia (le vicende umane) si ripete, in cicli più o meno uguali: concezione cara a gran parte del pensiero antico, meno del moderno: nello spazio cartesiano è una sinusoide con andamento medio  – grossolanamente – parallelo all’asse delle ordinate.

  1. Tale ultima ipotesi (in varie versioni) è stata la più frequentata e condivisa: dagli stoici a Nietzsche passando per Vico. Ha dalla sua un argomento forte: quello della costanza (la regolarità) della natura umana, al di là delle varie vicende storiche. Nella sua applicazione “politica”, cioè prendendo in esame le vicende politico-istituzionali, inizia con Polibio di Megalopoli, il quale tuttavia ricorda di non essere il primo: “Forse con maggiore diligenza da Platone e da alcuni altri filosofi fu trattata la teoria della naturale trasformazione delle varie forme di governo”[1]. Secondo lo storico greco ogni forma politica conosce fasi di progresso e di decadenza, al termine della quale si trasforma in altra. E passando all’esposizione della successione delle forme di governo scrive che prima è la monarchia; ma quando al primo re (“intronizzato” da una crisi – à la Girard) succedono altri, con i privilegi dei re, ma senza le sue qualità e la necessità che lo aveva favorito, “a causa dei soprusi si accesero odio ed ostilità: il regno si mutò in tirannide. Cominciò la rovina di quella forma di governo, si tramarono insidie contro i re”. Coloro che guidano la rivolta costituiscono l’elite del nuovo regime; ovvero l’aristocrazia[2]; ma succedendo loro i figli “ fanno sorgere di nuovo nel popolo uno stato d’animo simile a quello di cui abbiamo prima parlato, e perciò tocca anche a loro una caduta finale simile a quella toccata ai tiranni”. Quindi, altro rivolgimento e istituzione di un regime democratico; al quale, una volta degenerato, succede un nuovo regime monarchico. E il cerchio si chiude.

Machiavelli, nei Discorsi (Lib. I, cap. 2) riprende la concezione di Polibio delle tre forme di governo che degenerano e succedono l’una all’altra “Alcuni altri e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delle quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi che vengono ancora essi a essere perniciosi” e data la facilità delle forme “buone” a convertirsi nelle “perniziose” “se uno ordinatore di republica  ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. E succedendo le forme di governo l’una all’altra Machiavelli conferma che “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano né governi medesimi, perché quasi nessuna republica  può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede[3]”.

Tale concezione dell’avvicendamento ciclico delle forme di governo, e della loro decadenza, ritorna, tra gli altri, in Mosca e Pareto. Il primo scrive che questa s’accompagna alla “mancanza di energia nelle classi superiori, che divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi… quando la classe dirigente è degenerata nel modo che abbiamo accennato, perde l’attitudine a provvedere ai casi suoi ed a quelli della società, che ha la disgrazia di essere da essa guidata”[4].

Il secondo vi ritorna più volte, enumerando (come fa anche Mosca) i sintomi della decadenza: attenuazione della mobilità sociale (“cristallizzazione”) soprattutto chiusura della classe dirigente; uso da parte di questa dell’astuzia più che della forza; la classe governante tende a diventare “un ceto d’impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente”[5], aumentano, nella classe dirigente, i residui della classe II e scemano quelli della classe I. Quando, nell’impero romano d’Occidente, i barbari lo fanno cadere, invertono le tendenze ricordate[6]. E comincia un nuovo ciclo (o nuova era).

Per Pareto, com’è noto, la regola dei fenomeni sociali è l’andamento ritmico-ondulatorio, per cui ad un periodo ascendente  segue immancabilmente uno discendente, e inversamente[7]. Le “onde” cambiano secondo la durata del fenomeno, e vi sono “vari generi di queste oscillazioni, secondo il tempo in cui si compiono. Questo tempo può essere brevissimo, breve, lungo, lunghissimo”[8]. Scrive Pareto: “Si può dire che in ogni tempo gli uomini hanno avuto qualche idea della forma ritmica, periodica, oscillatoria, ondulata, dei fenomeni  naturali compresi i fenomeni sociali”[9]; nota peraltro che mentre nel passato  prevaleva la convinzione del carattere ciclico, ora prevale quella favorevole all’idea di progresso della società, di un benessere crescente[10].

Tuttavia, rispetto al pensiero classico, in quello degli “elitisti” italiani a decadere non sono (tanto) le forme politiche, quanto le classi dirigenti. Ad essere più precisi è la decadenza di queste a determinare – per lo più – la sorte delle prime: l’insistenza con cui Mosca e Pareto sottolineano l’importanza delle qualità intellettuali e di carattere (in specie il coraggio) delle elite  sia nella fase ascendente che nella discendente, lo dimostra.

Il che non comporta – anche se spesso accade – che una classe dirigente coincida con una determinata organizzazione del potere, né che le due vicende siano sempre sovrapponibili[11].

Peraltro a decadere può essere anche la società civile, e a determinare così quella dell’istituzione politica, almeno a co-determinarla. Tra le cause della decadenza (e poi del crollo) dell’Impero romano d’occidente gli storici hanno indicato più fattori che con le degenerazioni istituzionali e con quelli “politici” avevano poco a che fare: a partire da mutamenti del sentire religioso-spirituale, ovvero il trionfo del cristianesimo sul paganesimo, la caduta del “senso civico” e dei valori tradizionali;  per arrivare a fattori di carattere “materiale” come il calo demografico e la decadenza economica.

  1. Il carattere ciclico non è limitato, ovviamente, ai regimi o alle “forme” politiche. Accanto a questo c’è altro. Quello del chi decade è un altro problema. Essendo ogni comunità umana un aggregato di esseri viventi, e quindi mortali, le sintesi sociali da questi costruite sono soggette allo stesso ciclo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

Spengler e Toynbec considerano specificamente  l’aspetto della decadenza delle civiltà anche in funzione (di filosofia della storia) anti-eurocentrica. Per cui è la civiltà occidentale (o faustiana o anche del cristianesimo occidentale) oggi a decadere. Della quale è parte, e non poca, l’Italia.

Altri, tra cui occorre ricordare Ernst Nolte, (ma l’elenco di quanti sostengono tale constatazione è assai esteso), ritengono che ad essere nella fase discendente  è l’Europa, detronizzata dalle due guerre mondiali – e successive guerre coloniali – dalla funzione di “guida” del mondo[12].

Anche al processo di decadenza europeo non è estranea – per motivi sia storici che geografici – l’Italia.

Però a decadere può essere anche – e principalmente –  a seguire i pensatori sopra citati – tra i tanti – anche una comunità e, più precisamente, la sua forma politica e classe dirigente.

E qua, di converso, l’Italia si trova da sola – almeno nel contesto sia geografico che di civiltà. É a tale specifica “classe” di decadenza che occorre dedicarsi.

  1. In Italia non piace parlare di decadenza sia perché falsifica – o almeno relativizza – l’idea di progresso, sia perché sminuisce il consenso alle elites al governo.

Queste, come tutte le classi dirigenti, necessitano di “miti” (derivazioni, idee – forza, tavole di valori e così via), atte a legittimarle. Le quali come tutte le cose ed opere umane (comprese le istituzioni) hanno una nascita ed una morte. Al contrario ciò che si vuole di durata eterna – o almeno lunghissima, con termine in saecula saeculorum, – non ha nascita né morte (o, quanto meno, sono ignote ambedue o una delle due)[13].

Parlare di decadenza, di idee e realizzazioni obsolete o anche solo rapportate ad una determinata situazione storica e non aventi validità al di fuori di quella, ormai esaurita – e ancor più se la si pretende eterne ed universali – ha lo stesso senso (e gradimento) di un coro che faccia le prove del requiem per il proprio direttore.

Ciò non toglie che la decadenza vi sia; ed alcuni dati ce la confermano, e servono a chiarirne – per somme linee – la natura. Occorre ricordare che nel 1945 si apriva un nuovo ciclo, dopo una guerra persa e l’occupazione militare, con l’intronizzazione, da parte dei vincitori, di una nuova classe politica, che provvedeva, come da dichiarazione di Yalta, a dare all’Italia una nuova costituzione (peraltro la volontà costituente era anche nella volontà del popolo italiano – v. nota 15, a1); per circa trent’anni durava la fase ascendente; seguita – dopo qualche anno – da quella discendente.

Questa – anche se non esclusivamente – è prevalentemente  decadimento di istituzioni e attività pubbliche (e del relativo personale dirigente). Un dato tra i tanti disponibili, lo sintetizza il PIL italiano è, secondo i dati – il 6° nel mondo – il reddito pro-capite il 14°; mentre il Primo presidente della Corte di Cassazione (quindi non Berlusconi o Dell’Utri) anni fa disse che il funzionamento della giustizia civile italiana la collocava al 156° posto tra gli Stati (che sono, sul pianeta, 181)[14].

Ciò stante è evidente che la decadenza – o meglio questo fattore principale della decadenza italiana ossia del “pubblico” – s’iscrive precisamente nel modello “classico” del ciclo delle istituzioni e dei regimi politici pensato più in relazione a questo che alla comunità cui davano forma. Comunità che continuavano ad esistere (in suo esse perseverare), anche cambiando regime, istituzioni ed elites dirigente, il ciclo delle quali non coincide con quello dell’esistenza comunitaria.

La decadenza delle istituzioni è quindi il fattore principale – anche se non esclusivo – della decadenza italiana, che appare chiaro dal precedente peggioramento delle attività e funzioni pubbliche rispetto a quello delle private (in primis i sette punti di PIL persi negli ultimi cinque anni): gli indici di decadenza pubblica erano già preoccupanti quando quelli non pubblici andavano discretamente: la fase discendente degli apparati istituzionali ha preceduto – di almeno vent’anni – quella delle attività private. Il che non vuol dire che quella è necessariamente ed esclusivamente causa di questa; ma che lo è  in misura rilevante.

E che da almeno trent’anni s’intravedessero dei robusti indici “politologici” di decadenza, a partire da quello della divaricazione tra governati e governanti e di calo del consenso di questi è un dato evidente[15]. Dall’inizio poi degli anni ’90 ancora di più, perché il crollo del comunismo e la “fine” dell’ordine di Yalta hanno concluso il periodo storico in cui le élites attualmente dirigenti hanno conseguito e mantenuto il potere.

Il tutto con evidenti e vistosi effetti sulla legittimazione e sulla reale capacità d’integrazione dell’ordinamento (v. nota precedente). Nella dottrina politica più antica la crisi (cioè il passaggio da un regime ad un altro e da una fase discendente  ad una ascendente)[16], era denotata dalla circostanza eccezionale (nel senso schmittiano o anche à la Girard) e dalla consunzione della vecchia classe dirigente (v. per tutti Polibio e Machiavelli). A partire dalla rivoluzione francese l’accento è stato posto sulla legittimità (e sul venir meno di questa). In realtà i due criteri non si elidono, né sono in opposizione; anzi la categoria (moderna) della legittimità può includere la consunzione, attribuita prevalentemente dai più antichi all’aumento del “divario” tra merito e consenso (ambedue decrescenti) della classe dirigente, col conseguente venir meno della “riverenzia” (scrive Machiavelli) dei governati.

D’ altra parte anche il diritto mostra i segni di decadenza. L’applicazione del quale è lenta, spesso occasionale e ormai assoggettata a crescenti difficoltà ed impedimenti  dissuasivi. A leggere le pagine di Jhering nel  “Kampf’ un’s recht” su come fosse frustrata l’attuazione del diritto sia nel tardo diritto romano e in quello – a lui contemporaneo – dell’età bismarckiana, si ricava l’impressione di quanto la situazione odierna sia ulteriormente peggiorata (e per scopi ancor meno encomiabili)[17] .

Non risulta esservi una trattazione esauriente su come si manifesti la decadenza di un ordinamento giuridico. La difficoltà principale è nel delimitarla da quella politica, da cui manifesta una larga dipendenza. Tuttavia presupposto fondamentale del “giuridico” è la distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato (diritto-torto)[18]; distinzione che, per essere tale, dev’essere, almeno in (larga) misura, osservata. Ma se, di converso, sviluppando quanto scriveva Tocqueville sulla legislazione dell’ancien régime (decadente, proprio perché pre-rivoluzionaria) la distinzione è tale in astratto e nei testi giuridici, ma non è osservata concretamente (e cioè come scriveva il pensatore normanno, connotata da norme rigide e da pratiche fiacche) o lo è poco, quel sistema giuridico appare decadente, (come, appunto, l’ancien régime). Che questo sia il caso dell’Italia lo dimostrano tanti indici[19]. Non è il numero delle regole o l’asprezza delle sanzioni a connotare un diritto concretamente vigente, ma che il comando del legislatore (la legge) sia tendenzialmente confortato dall’obbedienza dei cittadini (e dei collaboratori del potere) e quindi applicato realmente. Ove ciò non avvenga – o capiti poco –  significa che si è aperto uno iato tra chi ha il diritto di comandare e chi ha il dovere di obbedire. Fatto essenzialmente politico, ma che si riflette sull’ordinamento giuridico, caratterizzandone la decadenza. Come scriveva Max Weber la potenza è la possibilità di far valere con successo i comandi; il calare – o il venir meno – di questa è il (principale) sintomo della decadenza (e poi del crollo) di un regime e del suo sistema giuridico.

5.Una particolare – anche se succinta- attenzione è da dedicare a quelle teorie italiane apparentemente vicine all’idea di progresso, specificamente rivolte a considerare l’assetto costituzionale del 1948 come il migliore possibile.

Scriviamo apparentemente vicine perché, intrinseca alle varie concezioni del progresso umano è che la società è sempre perfettibile e migliorabile, e non c’è quindi un compimento, un punto finale dello stesso (progresso). In altre parole è loro connaturale l’idea del cambiamento; e in questo, nella concezione dinamica dell’ordine sociale, non si differenziano da altre, anche opposte, teorie.. Mentre a quelle italiane è connaturale una staticità socio-politica per cui l’ordine è quello e non dev’essere cambiato (il che presuppone che sia possibile non cambiarlo). Più che a teorie del progresso somigliano a quelle sulla “fine della storia”, connotate da un evidente utopismo (più manifesto lì, meno in queste).

Ma chi sostiene ciò non si accorge che c’è altrettanta possibilità di  fermare il cambiamento (talvolta lo si può rallentare) che di violare qualsiasi altra legge o  “regolarità” (anche solo) dell’agire sociale (v. su questo ciò che ne pensava Pareto, in nota 10). A proposito di Pareto, probabilmente avrebbe ricondotto tali concezioni a derivazioni (prevalentemente) della classe III, in particolare a quelle argomentate su entità giuridiche o metafisiche.

Altra cosa che lascia stupiti è come manchi a queste teorie alcun confronto con i dati storici e con le concezioni contrarie, condivise dalla melior pars del pensiero occidentale.

Non è dato che si ricordi una società in ordine statico, cioè rimasta, almeno per qualche secolo sostanzialmente immutata: e in effetti lo stesso Impero romano d’occidente, che ebbe la (ragguardevole) durata di circa cinque secoli, passò attraverso tanti cambiamenti politici; in particolare è distinzione universale quella (considerata principale) tra “principato” e “dominato”[20].

Del pari non è affatto considerato che una simile concezione è in contrasto con quelle di pensatori citati (da Platone a Pareto) e sarebbe il caso di confrontarvisi e di capire perché quanto ritenuto da quelli irreale, diventa possibile, oltre che preferibile. E se non vi siano, nell’ordine comunitario, parti tendenzialmente più stabili ed altre più soggette alle inondazioni, scriverebbe Machiavelli, della fortuna[21].  Le quali fanno in genere parte dell’ordinamento  del potere ossia della forma di governo.

 

  1. Diversamente dalle crisi di civiltà descritte da Spengler e Toynbee, l’alternarsi di fasi ascendenti e discendenti dei cicli politici non comporta distruzioni (o rinnovamenti) epocali: non è la caduta dell’impero romano d’occidente o delle civiltà precolombiane, ma solo il rinnovarsi dell’ordine politico. Indubbiamente una crisi, ma in un certo senso “normale” (perché rientrante nell’ordine naturale delle opere e vicende umane). Il pensiero “orientato all’eccezione” moderno, quello giuridico in particolare (da Schmitt ad Hauriou, da Jhering a Santi Romano)[22] non vi vede alcuna “novità”: è la normalità del movimento della storia che comporta il cambiamento (anche) delle istituzioni. Nel pensiero politico realista, soprattutto in Mosca e Pareto, la sostituzione di èlite e regimi consunti, fiacchi e decadenti con elite nuove e vigorose, per lo più produce benefici, anche sociali, rilevanti.

Il cambiamento quindi non è demonizzato; da un canto è considerato come un dato, dall’altro per lo più positivo, almeno nel lungo periodo. E sicuramente appare frutto di visione miope pensare che una situazione, un equilibrio o un regime politico possa essere “cristallizzato” non solo in eterno, ma anche nel breve-medio periodo. Le istituzioni (e le comunità) umane, scriveva Hauriou, sono sempre in movimento e l’ordine che presentano è quello di “un esercito che marcia”; e non, si può aggiungere, quello di un organigramma o di un trattato di geometria. Dietro e dopo la decadenza di un’istituzione si vede un nuovo ordine che è generato; e siccome l’accadere dell’una e dell’altro è regolarità storica, occorre tenerne debito conto.

E per farlo e per non sprecare le occasioni che un rinnovamento dell’ordine politico – in primis quale nuova fase ascendente – offre, vi sono cose da  evitare.

In primo luogo negare che esista la decadenza o sottovalutarla o anche – come capita – attivare la disinformazione nella forma preferita di non discuterne. È proprio quello che si pratica oggi in Italia dove si tenta di esorcizzare la decadenza con formule magiche tratte dall’armamentario verbale del progresso “senza se e senza ma”. Delle quali la storia non si preoccupa, come i terremoti degli autodafè.

La seconda cosa da non praticare è tentare di tirare la storia – sempre lei – per la giacchetta. Come? Paretianamente facendo leva sulle derivazioni e sul  tentativo di ri-legittimazione di classi dirigenti e di regimi esausti.

L’argomento all’uopo più impiegato è esaltare la bontà/bellezza/santità delle (asserite) idee delle elite discendenti. Occorrendo contrapponendole alla cattiveria/bruttezza/peccaminosità di quelle dei loro avversari. Ma il limite dell’ (adusata) operazione è che, specie in tempi di crisi e ancor più se le fasi discendenti si prolungano, i governati sono più attenti ai risultati che alle intenzioni dei governanti, alle (di essi) opere più che alle idee. Per cui, certi discorsi si svelano in breve per quel che sono: espedienti per occultare pratiche (e risultati) di segno contrario. Qualche volta (ma è cosa assai rara) prediche di profeti disarmati[23].

Il presupposto su cui si basa quest’armamentario di giustificazioni è che sia possibile cristallizzare una comunità umana, fermare o anche rallentare per lungo tempo il movimento della storia e delle istituzioni. Come prima cennato, all’inverso, Hauriou vede l’ordine sociale come movimento lento e uniforme, che richiede necessariamente adattamenti e innovazioni[24].

E questa consapevolezza appartiene al giurista francese come a tanti altri, tra cui quelli sopra citati, ai quali c’è da aggiungere (tra i molti) Smend e la sua teoria dell’integrazione che Schmitt riteneva uno dei significati del concetto (assoluto) di costituzione e cioè “il principio del divenire dinamico dell’unità politica”.

Che un ordine sociale possa “cristallizzarsi” è contrario non solo a quella dottrina del diritto ma a gran parte del pensiero filosofico, a cominciare dal panta rei di Eraclito.[25] Oltre che, ciò che più conta, ad un’osservazione, anche non particolarmente profonda, dei mutamenti storici.

In definitiva la concezione criticata trascura che nei fatti sociali vi sono – come in tutti i fatti – sia regolarità (che non si possono cambiare) che variabili (che è nella possibilità della comunità umana innovare): cosa ben nota anche nel pensiero teologico-politico[26]; e ancor più in quello filosofico, politico e giuridico.

  1. Prima di concludere occorre fare due postille. La prima: è da rifiutare la concezione economicista – e quindi, anche marxiana – che le “cause” delle decadenze (e anche delle ascendenze) siano economiche. Indubbiamente l’economia ha la sua parte, ma concorrente, non determinante o almeno (quasi mai) determinante.

Piuttosto è preferibile la tesi weberiana (e non solo) che sia la cultura e in particolare la religione a muovere le file: sia delle fasi di decadenza che di ascendenza.

In tal senso, ancora una volta in questa giornata, è il caso di ricordare cosa ne pensava Hauriou.

Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e dell’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal pensiero antico che è stata rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi anni).

Lo spirito critico (oggi si direbbe relativismo): anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che lo spirito critico possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità.

Come fattori di rigenerazione indicava la migrazione dei popoli e il rinnovamento dello spirito religioso.

Argomento su cui ritornò più volte[27]: considerava la teologia il fond di ogni assetto politico che nei governements de fait (quelli generati dalle crisi) tiene unita le comunità anche nel dissolversi delle istituzioni e da modo di ricostruirne delle nuove.

La crisi attuale è connotata proprio dal “disordine” economico-finanziario, che ha, come scriveva il giurista francese un secolo fa, inceppato la stessa macchina capitalista (cioè, in un certo senso, se stesso)[28]; e dallo spirito critico (prevalentemente chiamato “relativismo”)[29], che corrode i “fattori di coesione”, cioè quelli – principale quello religioso – unificanti. Anche in questo non è difficile notare la stretta affinità tra il giudizio del giurista francese e la situazione concreta, anche se spesso – incoerentemente – contorta nelle contraddizioni del di chi vorrebbe giustificarla. Basti ricordare la bizzarria di una “Costituzione” europea (che non è costituzione), ma era spacciata come tale, che è stata privata del riferimento alle “radici giudaico-cristiane” rifiutandone così esplicitamente i caratteri unificanti (oltre che dimenticando più di un millennio di storia): in vista di un qualcosa (un “melting pot” tra culture) e che non si sa come e se avverrà e soprattutto se potrà unificare veramente popoli diversi.

Teodoro Klitsche de la Grange

(relazione tenuta il 21/02/2014 al convegno del Movimento “Per una Nuova

oggettività” su la “Decadenza”, all’ “Universale” in Roma)

(*) Questo lavoro è la rielaborazione di una relazione ad un Convegno già pubblicata su “Politicamente”, “Civium Libertas” e, in forma ridotta, sul “Borghese”.

[1] E, in effetti, Platone scrive “E’ difficile scuotere uno stato così conformato; ma poiché ogni cosa che nasce è soggetta  a corruzione, nemmeno una simile conformazione resisterà per sempre e finirà col dissolversi. E la dissoluzione consiste in questo: non solamente per le piante radicate al terreno, ma anche negli animali che vivono sulla terra si producono fertilità e sterilità, d’anima e di corpi, quando per i singoli esseri periodiche rivoluzioni congiungono e concludono i rispettivi moti ciclici” La Repubblica, lib. VIII 545.

[2] “A quelli che lo hanno liberato dai monarchi, infatti, quasi a dimostrare la sua gratitudine, esso concede il potere e affida se stesso. Costoro da principio, soddisfatti dell’incarico avuto, nulla stimano più importante dell’utilità pubblica e curano con grande zelo e attenzione gli interessi privati e quelli dello Stato” v. Polibio Le storie, libro VI, cap. VIII.

[3] E di seguito scrive “Ma bene interviene che per travagliare una  republica, mancandole sempre consiglio e forze diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei; ma posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per malignità che è ne’ tre rei” (i corsivi sono nostri) op. loc. cit.

[4] v. La classe politica, Bari 1965, p.  120. V. anche Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 68 ss., 86 ss.

[5] v. Pareto, Trattato di sociologia generale, § 2549, Milano1981, vol. V.

[6] “Allora i Barbari rompono la cristallizzazione della società, ed è questo il principale beneficio che ad essa fanno… in grazia della loro ignoranza, spezzano la macchina dell’ordinamento dell’Impero, che pure avrebbero voluto conservare, ma che sono incapaci di maneggiare. Così depongono il seme che fruttificherà una nuova civiltà”. Col tempo “appaiono qua e là dei punti, ove, in stato di interdipendenza, crescono i residui della classe I e l’attività commerciale” op. cit., § 2551.

[7] Op. cit., § 2330.

[8] Op. cit., § 2338.

[9] E prosegue “Negli individui si nota una successione ininterrotta, col subentrare di nuove persone al posto di quelle fatte sparire dalla morte, col succedersi indefinito dell’età, infanzia, virilità, vecchiaia. Il concetto di una successione simile per le famiglie, le città, i popoli, le nazioni, l’umanità intera, nasce spontaneo” anche se rifiuta considerazioni metafisiche e pseudo-sperimentali cui ritiene preferibile “Uno studio un po’ diffuso di queste teorie non sarebbe di alcuna utilità pratica per la conoscenza dei fenomeni che dovrebbero essere rappresentati dalle teorie. Il tempo necessario per questo lavoro può essere più utilmente consacrato allo studio obiettivo dei fenomeni o, se si ama meglio, delle testimonianze dirette che vi si riferiscono, come pure alla ricerca degli indici misurabili dei fenomeni e alla classificazione delle oscillazioni per ordine d’intensità”  op. cit., § 2330.

[10] “Le oscillazioni che non si possono negare, sono supposte anormali, accessorie, accidentali; ciascuna ha una causa che si potrebbe e si dovrebbe togliere, col che sparirebbe anche l’oscillazione” e la qualifica come “derivazioni” (§2334); nel successivo nota che “Si possono disgiungere le oscillazioni, mantenere le favorevoli, levar via le sfavorevoli, rimuovendone la causa. Quasi tutti gli storici ammettono, almeno implicitamente, questo teorema, e si danno un gran da fare per insegnarci come avrebbero dovuto operare i popoli per rimanere sempre nei periodi favorevoli e non trapassar mai negli sfavorevoli. Anche non pochi economisti sanno e benignamente  insegnano come si potrebbero scansare le crisi; col qual nome indicano esclusivamente il periodo discendente delle oscillazioni”; ma sono considerazioni a fondamento non scientifico; “I profeti israeliti trovavano la causa dei periodi discendenti della prosperità di Israele nell’ira di Dio; i Romani erano persuasi che ogni male sofferto dalla città loro aveva per causa una qualche trasgressione al culto degli dei” (§2337) ma “se si vuole proprio fare uso del termine ingannevole di causa, si può dire che il periodo discendente è causa del periodo ascendente che ad esso fa seguito, e viceversa; ma ciò deve intendersi solo nel senso che il periodo ascendente è indissolubilmente congiunto al periodo  discendente che lo precede, e viceversa; dunque in generale: che i diversi periodi sono solo manifestazioni di un unico stato di cose e che l’osservazione ce li mostra succedentisi l’uno all’altro, per modo che il seguire tale successione è un’uniformità sperimentale” (§ 2338).

[11] Anche guerre civili – come quelle che tormentarono in varie epoche l’Impero romano e le monarchie feudali europee – e che, servendosi dei concetti e del lessico degli elitisti, sono per lo più, riconducibile a lotte tra fazioni della stessa “classe politica” –  non vertevano su come si dovesse organizzare il potere ma su chi doveva esercitarlo. Onde la vittoria di una frazione significava solo una radicale modificazione dell’organigramma e non dell’organizzazione (né della “formula politica”). Viceversa a Filippi si posero le basi di una durevole “trasformazione costituzionale”: quella di Roma da repubblica ad Impero, nell’aria già da decenni.

Anche se più raramente, capita che una classe dirigente abbia la capacità di cambiare l’ordinamento, pur senza mutare – o senza cambiare in toto – il personale politico. Il caso recente del crollo del comunismo lo conferma: gran parte delle classi dirigenti post-comuniste sono formate da personale – di primo e più spesso di secondo piano – delle vecchie. La dissoluzione in circa venti nuovi Stati dell’URSS e della Iugoslavia  – cioè il cambiamento costituzionale più radicale,  la nascita di nuovi Stati dai due dissolti  – è stato voluto, e gestito, prevalentemente da componenti della rispettiva “nomenklatura”.

 

[12] Una sintesi breve ma intensa di tale tesi può leggersi in Ernst Nolte I diversi volti dell’Europa, conferenza tenuta in Salerno il 17 ottobre 2005.

[13] In fondo vale per il “tipo ideale” del mito quanto sosteneva Antigone nel famoso dialogo con Creonte, per la legge voluta dagli Dei “Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte dagli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando”.

[14] Ancor peggiore la situazione è a leggere i dati diffusi dalla stampa (un po’ meno dalla televisione) sui records negativi di quasi tutte le amministrazioni italiane, dal livello di corruzione (anche se è dubbio come lo si possa quantificare) ai ritardi dei pagamenti delle PP.AA. – sui quali è in corso una pluriennale polemica.

 

[15] Qualcuno – tra cui chi scrive – ne ha indicati alcuni che ricordiamo:

  1. a) in primo luogo quelli “quantitativi”;

a1) Il 18/04/1948 il complesso dei partiti che aveva votato la costituzione conseguì oltre l’80% dei suffragi del corpo elettorale italiano; alle ultime elezioni – dopo che gran parte di quei partiti erano scomparsi e spezzoni delle vecchie classi dirigenti di quelli sopravvivono in altre formazioni – i partiti che si dichiarano favorevoli al mantenimento della costituzione rappresentano poco più del 20% del corpo elettorale;

a2) i votanti alle elezioni politiche, che fino agli anni ’80 erano circa il 90% del corpo elettorale, sono poco più del 70%; ancor più significativo è il calo dei votanti alle elezioni amministrative;

a3) mentre fino a metà degli anni ’80 nei referendum abrogativi il “SI” vinceva (cioè vinceva l’assenso popolare al Parlamento che aveva elaborato o mantenuto le leggi sottoposte alla consultazione), dopo ha vinto quasi sempre il “NO” (il cui senso politico è l’inverso). In alcuni referendum (quelli sul finanziamento pubblico ai partiti) nei due periodi considerati il risultato si è invertito.

  1. b) Quelli “qualitativi”:

b1) L’ordine di Yalta è venuto meno col crollo del comunismo;

b2) una campagna giudiziario-mediatica (“mani pulite”) è riuscita a demolire gran parte del sistema partitico della Repubblica “nata dalla Resistenza”. Questo dopo il decisivo evento sub b1);

b3) lo spazio politico dei partiti variamente “antagonisti” è cresciuto dal 10/15% fino agli anni ’80 al 35% delle ultime elezioni;

b4) altra circostanza significativa: è cresciuto il ruolo pubblico del personale non-politico (burocratico e tecnocratico). Nel 2000 il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei Ministtri (cioè i vertici dell’ordinamento costituzionale) avevano fatto “carriera” prevalentemente od esclusivamente fuori dalle assemblee elettive. Nel 2011 era varato un governo composto tutto da personale non politico. Ciò ha portato a parlare diffusamente di “antipolitica”, ma dato che alla politica non c’è alternativa (e si sa da quando Aristotele definì l’uomo zoon politikon), meglio sarebbe inquadrare il fenomeno quale segno, profondo anche se confuso, della transizione tra diverse elites e regimi, nel solco della tradizione “ciclica” e “ritmica”.

[16] Crisi è sempre il cambio di regime: le fasi ascendente e discendente non caratterizzano tutti i cambiamenti di regime.

[17] Scrive Jhering distinguendo tra il diritto romano e quello a lui contemporaneo che questo non teneva conto della riparazione del torto, quanto dell’interesse materiale da tutelare Non rimane che il puro e nudo interesse materiale, come oggetto unico del processo. Che la bilancia di Temi nel diritto privato stesso come nel  punitivo debba pesare non il solo interesse pecuniario, ma anche il torto, è pensiero così lontano dalle nostre odierne rappresentazioni giuristiche, che, mentre oso esprimerlo, devo aspettare a sentirmi opporre che in ciò appunto consiste la differenza tra il diritto punitivo ed il privato…..Bisognerebbe prima potermi dimostrare che v’è una sfera del Diritto, nella quale l’idea della giustizia  non debba attuarsi in tutta la pienezza e realtà sua. Il fatto è invece che l’idea di giustizia  è inseparabile dalla esplicazione del concetto della colpabilità  “Kampf un’s recht, trad. it. 1935 Bari,  pp. 115-116. La conclusione che se ne trae è che i sudditi del Reich godevano di una tutela giuridica comunque attenta all’interesse materiale; mentre i cittadini della Repubblica italiana trovano crescenti (e volute) difficoltà a far tutelare anche questo.

[18] Ed è un presupposto indefettibile: una società dove tutto fosse permesso, non vi sarebbe perciò un diritto; e dove tutto fosse vietato, s’estinguerebbe la vita sociale.

[19] A cominciare dal fatto che quasi il 90% delle notitiae criminis sono archiviate su richiesta dei P.M..

[20] Ovviamente i cambiamenti costituzionali non sono limitati a quello, ma riguardarono tanti  altri elementi importanti della forma di governo, dalla regola di successione (adozione? proclamazione da parte delle Legioni? elezione del Senato?) e dell’unità del potere supremo (tetrarchia, associazione di parenti al potere imperiale), fino alla “reggenza” e al governo “occulto”, ma tollerato.

[21] Principe XXV.

[22] Spesso la crisi non comporta (neanche) il cambiamento di regime, come nella dittatura commissaria di Schmitt.

[23] Cosa non frequente, perché non appare in generale che le classi dirigenti decadenti esprimano dei Savonarola o dei S. Giovanni (Battista); tanto meno le elites italiane con le loro carriere, pensioni d’oro, e così via. Acutamente Pareto notava che, in fase discendente queste si servono dell’astuzia più che della forza. E dell’astuzia fanno parte i “paternostri”.

[24] “Senza dubbio, il movimento lento ed uniforme di questa organizzazione (ordonnen cement) di quadri non procede neanche essa senza modificazioni nei quadri” (è il corrispondente della “mobilità” interna dell’elites di governo in Pareto – n.d.r.) … “nell’insieme, l’ordine sociale, nel suo movimento ordinato, con il suo sistema di istituzioni e il suo governo, procede nelle regioni ignote del tempo nelle stese condizioni di un esercito in marcia in un territorio nemico. Gli Stati sono delle armate civili in movimento che, come l’agmen, sono tenute a conservare con cura  il proprio ordine … Non abbiamo da tempo l’illusione (che stabilità sia immobilità – n.d.r.) … siamo più realisti, sappiamo che nulla è immobile, che tutto si trasforma. V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 74-76.

[25] Interpretando il quale Spengler scriveva sul Panta Rei “L’idea fondamentale su cui Eraclito basò la sua intuizione del mondo è già interamente contenuta nel famoso panta rei. Il mero concetto dello scorrere (del mutamento) è però troppo indeterminato per far riconoscere le più fini e profonde sfumature di tale idea, il cui valore non sta nell’affermare – cosa di cui nessuno dubita – la semplice diversità degli stati successivi del mondo visibile e tangibile” piuttosto il cosmo è in continuo movimento e “il fondo dell’apparire è piuttosto da pensare come puro agire; se si vuole, come somma di tensioni” (v. Oswald Spengler, Eraclito, ed. Settimo Sigillo, Roma s.d.). In definitiva il cambiamento è la normalità (almeno) della vita e dei processi vitali.

[26] In sintesi, essendo un tema che chi scrive ha affrontato più volte, la nota espressione di S. Paolo “Non est enim potestas…nisi a Deo”, è stata interpretata da una parte dei teologi cristiani nel senso che se l’ordine politico è necessario per volontà divina, le forme di esso e dei regimi politici sono “per populum” ossia rimessi alla volontà e (decisione) della comunità.

[27] Dalla Science sociale traditionnel al Précis del droit constitutionnel..

[28] Scriveva Hauriou: “Cosa ancora più sconcertante è che il denaro sta provocando la dissoluzione anche dell’organizzazione capitalista, ovvero dopo aver distrutto il feudalesimo e fondato un mondo nuovo il  denaro, continuando nell’azione distruttiva  manda in rovina perino la propria opera. Ciò è causato dal fatto che la moneta che era soltanto un segno di ricchezza diventa fine a se stessa. Si è creata dunque un classe importante di speculatori e di aggiotatori la cui sola occupazione è quella di fare alzare e abbassare il valore del denaro. Speculando sugli alti e bassi producono pesanti alterazioni sul commercio e l’industria volatilizzandone le riserve” ne La Science sociale traditionnelle, trad. it. di Federica Katte Klitsche de la Grange in Rinascita 22/11/2012.

[29] E Hauriou sosteneva che: “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente[29]. Dal momento in cui l’epoca rinascimentale si organizza su base razionale, in virtù dell’amministrazione e della legislazione dello Stato, esso stesso diviene principio di conservazione e di salvezza, a maggior ragione perché convive pacificamente con la società religiosa. Nondimeno verso la fine del rinascimento si inorgoglisce sempre di più fino a promuovere guerra nei confronti della religione; infine neutralizza completamente la propria influenza volgendo verso se stesso l’arma dell’analisi filosofica degradata a livelli di scetticismo pratico e dilettantismo. Contemporaneamente critica i fondamenti dello Stato di cui lo stesso è fondatore, li perturba a piacimento dei sistemi stessi, sia individualisti , sia collettivisti e infine lo fa traviare.” op. loc. cit.

TRE CONSIGLI GRATUITI, di Antonio de Martini ma … PER ANDARE DOVE?, di Pierluigi Fagan

TRE CONSIGLI GRATUITI

( e leggete le tre frasi che scrisse Bovio ai piemontesi che calavano a Roma)

Con la fine del fascismo, nel 1943, si bruciò la classe dirigente monarco-piemontese di origini nobiliari e alto borghesi, che, per durare, si era alleata sul finale con una classe pseudo-militar-borghese sorta dallo scontento provocato dai risultati non ottenuti con i sacrifici della prima guerra mondiale.

Nel secondo dopoguerra, è subentrata la classe dirigente cattolica, allevata dalle organizzazioni ecclesiali nei residui spazi di libertà lasciati dal regime precedente.

La sua indulgenza verso la corruzione – forse stimolata dal sacramento della confessione che ha inculcato il principio che tutto può essere perdonato – l’ha spinta con gli anni a emarginare il fondatore don Sturzo e ogni elemento motivato da afflato etico ed infine a cooptare nell’area del potere – sempre per durare- la classe dirigente alternativa sorta in seno al proletariato, emasculandola. ( nell’ordine: prima i socialisti, poi il sindacato, comunisti e infine persino i fascisti residuali).

Con l’arrivo delle crisi petrolifere che richiedevano competenze estranee alla cultura cattolica, siamo anche andati alla ricerca di una qualche forma di commissariamento affidandoci alla scuola economica sorta dagli uffici studi di Bankitalia. ( Ciampi, Dini, Draghi ).

Poi l’imprenditoria grande e piccola con Berlusconi, De Benedetti e imitatori minori.

Il passaggio dell’affidarsi alla magistratura e ai cosiddetti ” professori” è stato il più recente tentativo e di gran lunga il peggiore.( da Di Pietro a Monti a Grasso).

Con questo ultimo tentativo di ieri, abbiamo fatto ricorso ai borghesi piccoli piccoli di Monicelliana memoria.
Lo scontento per i risultati non ottenuti coi sacrifici del decennio scorso è stato il motore della nuova ondata.

Permeata di buon senso pratico, questa nuova ondata di governanti si è presentata con un fritto misto in cui sono rappresentate schegge di tutte le precedenti esperienze.

Questo fenomeno inusitato, ha provocato un moto di sorpresa che ha, in qualche senso, placato la pubblica opinione che ha visto con favore il cadere di alcuni steccati ideologici, sociali e di età che avevano condizionato le precedenti esperienze di selezione.

C’è una sola certezza: porteranno al vertice istanze e i malumori popolari dato che provengono dagli strati più bassi della popolazione.

Che riescano a dominare la situazione, identificare e risolvere i problemi, è tutto un altro argomento e dipenderà in larga parte dalla insensibilità al fascino dell’arricchimento personale.

Ai nuovi arrivati, tre consigli: evitate di farvi cooptare dalle vecchie classi dirigenti. Se fossero stati bravi, non sareste dove siete.
Guardatevi dalla arroganza e circondatevi di individui competenti, sostituendoli senza pietà al minimo sospetto di mala fede.

Se comincerete con udienze papali e cene nelle terrazze romane, finirete molto peggio di coloro che state sostituendo perché sarete giudicati usurpatori.

Abbiamo tutti una sola speranza. Fare peggio dei predecessori è praticamente impossibile.
Dimostratecelo.

PER ANDARE DOVE DOBBIAMO ANDARE, PER DOVE DOBBIAMO ANDARE?

Negli spostamenti progressivi della inquadratura del “problema”, stiamo piano-piano scoprendo che nel mondo grande e terribile (Gramsci), ci sono almeno due variabili di cui tenere conto. Lo si vede nelle oscillazioni tra economisti e geopolitici, entrambi -diciamo così- “critici”.

I primi giustamente intenzionati ad alzare il livello di frizione con la Germania, a costo di far finta di non vedere l’interessata amicizia americana (e britannica) sempre pronta col divide et impera a rompere la sfera di potenza tedesca che è l’euro-UE ed usarci così per giochi geopolitici. I secondi giustamente allarmati dal fatto che scappar da Berlino per mettersi nella mani di Washington, fa un po’ trama di film di Romero tipo “La notte dei morti viventi”, lì dove scappi da uno zombie per finire in braccio a quello che pensi un amico e che poi si rivela un mostro ben peggiore del primo.

Il punto è la sovranità. Non quella elementare e spezzettata nei vetri triangolari del caleidoscopio della nostra immagine di mondo che o parla di economia o parla di geopolitica, ma quella che riunisce in sé l’economia, la geopolitica, la cultura, la demografia ed ogni altro aspetto del tutt’uno di cui è fatta una società: la sovranità politica. Abbiamo scoperto che non abbiamo sovranità economica ma se è per questo non l’abbiamo neanche militare e tasse ed esercito sono i presupposti per fare Stato, quindi non abbiamo sovranità politica o quantomeno ne abbiamo una molto debole.

La cosa non solo dovrebbe preoccuparci per il senso di minorità oggettiva che ciò comporta, cosa di per sé grave, ma anche per il fatto che se invece che dal presente andare al passato (ah, non dovevamo firmare Maastricht, ah non dovevamo diventare una colonia americana dal dopoguerra in poi) andiamo al futuro, il nuovo mondo denso, complesso e multipolare con 10 miliardi di individui, darà carte da gioco viepiù peggiori tanto meno “potenza” (in senso completo, quindi politico come somma di tutti gli altri aspetti) si avrà. Lo studio PWC The Long View prevede che, nel 2050, noi italiani saremo la 21° economia la mondo. Va un po’ meglio ai francesi (12°) ma non tanto da potersi ancora definire una potenza e difendere il seggio al Consiglio di Sicurezza ONU, ma va anche peggio a gli spagnoli (26°), per non parlare di greci e portoghesi.

Servirebbe allora un piano, non solo un Piano B tattico per districarci nei rapporti di forza all’interno della gabbia del sistema euro-UE, ma un piano forte per districarci all’interno dell’affollato cortile-mondo di cui diventeremo una frazione trascurabile che sulla sovranità potrà al massimo scrivere libricini lamentosi su quanto era bello quando c’era Giulio Cesare o il Rinascimento, lira più o lira meno.

Trattandosi di un problema non semplice, mi dispiace non potervi offrire soluzioni a slogan facili, immediati, intuitivi e confortanti. Così è quando si deve passare dalla tattica alla strategia, dall’oggi alla prospettiva, dalla mono-variabile al gomitolo di variabili intrecciate tipi fili delle cuffiette dell’I-pod che sembrano studiate apposta per intrecciarsi tra loro (intrecciate-plexus, assieme-cum = cum-plexus).

In breve, sembrerebbe consigliabile cominciare a prendere in serio esame il fatto che c’è un unico modo di scavallare il problema del nanismo delle tanti parti, cominciare a pensare di metterci assieme per fare un totale maggiore della somma delle parti.

Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia, siamo 200 milioni e saremmo la terza economia del mondo, il bilanciere perno tra USA e Cina, l’arbitro giocatore del mondo multipolare. Avremmo atout non disprezzabili in molti campi produttivi e finalmente potremmo fare investimenti di ricerca significativi per darci un futuro. Avremmo l’atomica ma anche tanto soft power ed anche il papa di una credenza che scalda i cuori di 2 miliardi di con-terranei. Potremmo lanciare una Dottrina Monroe su Mediterraneo ed Africa e fare affari con i parlanti ispano-portoghesi del Sud e Centro America. Anche a quelli del Vicino Oriente potremmo dare qualche bacchettata per farli smettere di incasinarci la vita ogni tre per due. Amici di tutti ma servi di nessuno. Sovrani sì ed anche eccitati del poter decidere in autonomia finalmente un bel mucchio di cose. Con quel sistema politico anticamente fondato dagli amici greci che i cugini anglosassoni hanno trasformato in un nobile paravento dietro a cui si fanno i più sporchi affari (loro hanno fatto “società” secoli fa e con molta fatica, solo per quello, per fare affari, è la loro antropologia).

Utopia è il non luogo [οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”)], chissà mai se potrà esistere, quando, a quali condizioni questa idea. Sta di fatto che se non hai una meta nel cammino, come fai a capire verso cosa stai camminando? A meno non preferiate rimanere nel flipper dell’indecidibile a rimbalzare tra “ma in fondo la Merkel è meglio di Trump” o mettere like nella pagina degli “amici di Putin” o rivalutare la simpatica sbruffoneria stelle e strisce o la massoneria britannica (lei sì che sa “costruire il mondo”) o iscrivervi ad un corso di mandarino. Fate voi

PRESIDENTE ZERO TITULI, di Massimo Morigi ovvero: introduzione alla guerra civile, di Antonio de Martini

PRESIDENTE ZERO TITULI

Di Massimo Morigi

Come scriveva Karl Marx nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, la storia si ripete sempre due volte: “la prima come tragedia, la seconda volta come farsa”. Nell’attuale crisi di sistema ed istituzionale iniziata il 27 maggio 2018 dall’avventurismo politico del Presidente della Repubblica italiana, la vicenda in questione, del tutto inedita nella storia passata dell’umanità per la tragica insipienza del suo altissimo scatenatore (se non andando alla tragica e goffa vicenda della fuga a Varenne di Luigi XVI che decretò la sua uscita violenta dalla scena della storia e del demente comportamento di Nicola II che fece da innesco alla rivoluzione russa e alla sua e della sua famiglia tragica fine e andando, volendo essere un attimo più leggeri, al falso storico dell’incendio di Roma da parte di Nerone, immortalato in un registro alto della memoria collettiva da un Petrolini che sulle ceneri della Città Eterna arringa un popolo tumultuoso ed avverso che lo ritiene responsabile di tanta rovina esprimendo di voler ricostruire Roma “più bella e più superba che pria” e con una vocina surreale e stridente di un astante davanti a tanta ridicola enfasi che risponde “bravo”, alla quale Nerone replica con “grazie”, in un esilarantissimo botta e risposta nel quale al “grazie” si risponde ogni volta con un “bravo”: ci permettiamo questa nota surreal-teatrale per dire che auguriamo al nostro beneamato presidente della Repubblica di essere ricordato ai posteri non come un protagonista tragico della storia ma come un’immagine in fondo affettuosa e appartenente alla cultura popolare simile al Nerone petroliniano, che proprio come personaggio si fa amare per la sua buffonesca, istrionica, e quanto divertente, abissale incompetenza), non ha, questa vicenda, contraddicendo quello che diceva Marx, alcuna analogia con le passate catastrofi storiche perché essa è contemporaneamente tragica ma anche farsesca ( non v’è mai stato nulla di simile se non ricorrendo all’esempio del Nerone petroliniano, il quale però fu tratto  da una letteraria finzione storica). Il fatto farsesco alla sera del 29 maggio 2018 è il seguente: Cottarelli è sul punto di rinunciare all’incarico perché c’è la verosimile possibilità che il nuovo Governo al Senato non ottenga nemmeno un voto di fiducia. Riferendosi ad un suo avversario allenatore calcio, un allenatore portoghese non molti anni fa ebbe modo di dire: “Zero tituli”. Pensiamo che anche a   noi, in veste di modesti commentatori politici, visto il grande successo che la sua iniziativa rischia di correre al Senato, riferendoci al Presidente della Repubblica, ci sia consentito di esprimerci riguardo alla massima carica della Stato come “Presidente zero tituli”. Ma visto che la storia del nostro paese ci consente anche citazioni ben più illustri che non il calcio, si ricorda per ultimo la storiella di Caligola che nominò senatore il suo cavallo. Con tutti gli absit iniuria verbis del caso –  sia verso il “Presidente zero tituli” che verso Caligola: in ogni caso non si mai… –  e con ancora ripetuto rispetto parlando del  “Presidente zero tituli”, abbiamo così trovato alla fine un altro caso in cui la tragedia è abbinato alla farsa, e contribuito, alla fine, a non smentire Marx. Con il tetro e poco tranquillizzante sospetto, però, che dopotutto il cavallo abbia fatto meno danni dell’attuale impazzimento istituzionale e con la certezza, anche, che per non cadere nelle lugubri immagini evocate dalla fuga a Varenne e dall’orrida fine della famiglia imperiale russa ad Ekaterimburg, l’unica rimedio sia ricorrere alle surreali ed anche allegre immagini evocate dal Nerone petroliniano.

 

Massimo Morigi – 29 maggio 2018

 

P.S. Ultimissime delle ore 22.30 di martedì 28 maggio. Il “Presidente zero tituli” sta pensando seriamente di fare marcia indietro e di richiamare Conte accettando anche Paolo Savona come ministro dell’economia. Siamo all’ “indietro tutta”. Ma come la presente farsa non lo rende, ahilui, né un Caligola né un Nerone (anche se glielo auguriamo in prospettiva di diventarlo, perché questi, se non altro, sono caldi ricordi scolastici di una lontana gioventù), questa ultima “indietro tutta” non riesce a renderlo popolare ed amato come quel simpatico ed anche geniale (e molto serio nel suo mestiere) comico che vestiva buffoneschi panni d’ammiraglio.

 

INTRODUZIONE ALLA GUERRA CIVILE, di Antonio de Martini

Tutti presi dagli aspetti formali della Batracomiomachia in corso stiamo trascurando quelli essenziali.

a) preservare la libertà
b) preservare il benessere
c) preservare l’Unità Nazionale

Fino a pochi anni fa e per troppi anni, abbiamo tollerato il regime democristiano e la sua corruttela perché , in fondo, era come Maradona coi napoletani.

“Con Maradona s’azzuppa ” dicevano i compaesani cui il campione permetteva di violare la legge sul “trademark” delle magliette che consentiva loro di cenare a latte e profumato con la fantasia.

Questo regime di preti in borghese ha gradatamente corrotto tutti cooptandoli al potere – impedendo quindi la nascita di alternative politiche democraticamente elette – prima i socialisti, poi i comunisti , infine i fascisti.

Nel frattempo, un numero crescente di italiani più consapevoli, si allontanava dalla politica e dal voto, dai risultati sempre più taroccati, mentre le distrazioni di massa fioccavano leggère.

Adesso che, per ragioni che andranno indagate dal controspionaggio, è nata una alternativa nuova che ha coagulato i fermenti ribellistici del Nord e del sud in una inedita “coalizione dei velleitari”, i padroni del vapore hanno perso il controllo dei nervi.

Gridano che non vogliamo l’Europa.
È falso, noi non vogliamo loro e in Europa vogliamo contare per quello che siamo veramente.

Preparano un altra “fake election” su un altro tema da guerra civile.

Intendiamoci, in questa crisi ministeriale Mattarella ha rispettato la forma, ma la sostanza del discorso ė che il sistema dei ladri che munge le mammelle dell’Italia da decenni, non vuole più spartire con nessuno.

La crisi economica e il controllo sociale hanno ridotto le disponibilità, le liti interne al PD, moltiplicato il numero di parti da fare, hanno sottovalutato Masaniello e sopravvalutato il cardinal Bassetti e i suoi belati tardivi.

Il sistema dei preti in borghese e in uniforme non vuole correre il rischio di un mutamento costituzionale che metta in forse anche il blindaggio del concordato con il Vaticano e vede il pericolo concretizzarsi a ogni giorno che passa.

Al rischio di perdere il potere e il denaro, preferiscono quello del conflitto civile.

Berlusconi che era sceso in politica ansioso di cambiare il mondo, adesso ha paura che cambi davvero e si offre insistentemente per difendere il palazzo che aveva aggredito – mi tornano a mente le parole del comunicato della vittoria- con orgogliosa sicurezza.

Hanno perso tutti la testa.

Il Presidente della Repubblica che scende nella polemica politica e si meraviglia che ” due partiti che si sono presentati divisi alle elezioni” ora provino a collaborare. Salvini che vuole imporsi pubblicamente al Presidente della Repubblica. de Maio che improvvisa “impeachement” in palcoscenico.

Il connubio tra avversari elettorali lo hanno fatto anche i suoi amici Merkel e Schultz in cinque mesi di trattative senza suscitare scandali ne critiche.
Il loro governo regge. Il suo cemento è l’interesse nazionale.

Mattarella si è anche presentato come un campione di tolleranza per aver accettato un candidato non eletto ( Conte) per poi presentare lui stesso un quidam de populo, tale Cottarelli da Velletri.
Finge di voler varare la finanziaria, ma punta a gestire le elezioni in proprio con un ” governo neutrale”. La scorsa settimana aveva detto pubblicamente che la neutralità non esiste….

Per impedire manifestazioni ” a caldo” dei 5 stelle, il PD ne ha già indetto una per il 1 giugno.
De Maio, ha risposto convocandola per il 2 giugno.

La conta delle presenze sarà da ridere, ma c’è da piangere: è già una prova generale di guerra civile.

Il tradimento della Costituzione italiana da parte di Sergio Mattarella c’è e coinvolge anche il suo predecessore Giorgio Napolitano e quel povero cretino di Ciampi. Ma vediamoli uno alla volta prima che muoiano e vengano santificati.

L’articolo 11 della Costituzione è stato violentato più volte e in entrambi i comma.
L’Italia nel ventennio scorso ha fatto più guerre che nel ventennio fascista ( Balcani, Afganistan Libia), tutte in posizione subordinata rispetto alle potenze straniere interessate e – nel caso balcanico e in quello libico- in stridente contrasto con gli interessi nazionali. I responsabili devono risponderne e Mattarella tra loro.

Napolitano ha obbedito al diktat straniero di cacciare Berlusconi nel 2011 e Mattarella oggi di rifiutare il nuovo governo giallo verde che personalmente considero velleitario e inadatto, ma che ha diritto di governare quanto la signorina Madia o Ignazio Larussa. Di certo, faranno meno danni.

Fingono di voler fare le elezioni, ma tra legge finanziaria, manovra di aggiustamento, nuova legge elettorale e, prassi – non si fanno contemporaneamente le elezioni europee e quelle italiane – se va bene se ne parlerà nell’autunno del 2019 previa “stabilizzazione” della situazione.

Le elezioni nazionali le vogliono fare all’insegna di EUROPA SI, EUROPA NO per deviare ancora una volta l’attenzione dai loro loschi affari.

UNA ALTRA RAGIONE DI MESSA IN STATO DI ACCUSA è il fatto di aver consentito che la RISERVA AUREA NAZIONALE, depositata presso la Banca d’Italia e da questa affidata fiduciariamente alle allora Banche d’interesse nazionale, sia stata ” dimenticata” lì quando le banche furono privatizzate e le si autorizzò – con protesta della BCE- ad iscriverle a patrimonio di queste ultime.
Una ennesima truffa anche ai danni della “caraeuropa”.
Cacciamo Mattarella e saremo rispettati dal mondo intero. Teniamocelo e finiremo come la Grecia.

 

 

Domenica 27 maggio 2018, di Massimo Morigi

Domenica 27 maggio 2018

Di Massimo Morigi

 

Il Presidente della Repubblica ha appena terminato il suo discorso cercando di giustificare con puerili argomentazioni ed infinita arroganza la sua azione avventuristica per non far nascere un governo che avrebbe visto nel grande economista Paolo Savona la punta di lancia della ridiscussione a favore dell’Italia della sua permanenza nell’UE. A questo punto all’ordine del giorno del dibattito politico, il problema che si pone senza alcuna possibilità di elusione è la terribile crisi istituzionale scatenata dal Presidente della Repubblica, crisi istituzionale che drammaticamente ruota non attorno all’articolo 92 della Costituzione, che ambiguamente (non) disciplina le prerogative del Presidente della Repubblica in merito alle sue responsabilità sulla formazione del governo, ma sull’articolo 90 della costituzione, quello che riguarda, tanto per essere chiari, l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione, le uniche fattispecie per le quali può essere messo sotto accusa  il Presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni. Domenica 27 febbraio: il giorno del palese tentativo di golpe e l’inizio di una azione politica legalitaria e rivoluzionaria per riprenderci i destini della nostra Italia.

Massimo Morigi – 27 maggio 208

LA DECADENZA DI UN PAESE E DELLE SUE ISTITUZIONI, di Antonio de Martini

Le asciutte considerazioni di Antonio de Martini lasciano l’amaro in bocca. I diversi collaboratori di Italia e il Mondo si sono soffermati spesso sulla qualità delle nostre classi dirigenti e sulle modalità nefaste con le quali si sta svolgendo il confronto politico. Più volte si sono soffermati sul ruolo dei vari centri di potere e sulla particolare funzione svolta da settori sempre più ampi della magistratura e degli ordini giudiziari nel regolare e condizionare le scelte politiche. Negli ultimi trenta anni tale funzione è stata addirittura determinante, con tutte le distorsioni e le forzature conseguenti che hanno contribuito pesantemente ad inibire la formazione di élites appena più autonome ed autorevoli. La sentenza riguardante la trattativa Stato-Mafia, non ostante le suggestioni e le rievocazioni, rientra purtroppo pienamente in questo canone; è lontana anni luce dagli squarci aperti da Falcone e Borsellino e per i quali hanno pagato drammaticamente. Ancora una volta la peggiore restaurazione ha bisogno di coprirsi dell’aura della moralità. Per arrivare a mettere ordine in questi ambiti particolarmente delicati e cruciali occorrerebbe una forza politica determinata, coesa e radicata, ben lungi da essere in via di costruzione. Una situazione paludosa che sta esponendo il paese alle peggiori intemperie geopolitiche senza pensare e disporre di un equipaggio adeguato. Ne vedremo purtroppo ancora delle belle_Giuseppe Germinario

Quando una istituzione avvia la propria discesa agli inferi, inizia con lotte interne e col perseguitare i propri servitori.

Accadde a Cicerone che dopo aver salvato la Repubblica dalla congiura di Catilina e sconfitto i ribelli, fu accusato di non aver rispettato le procedure nel mettere fuori combattimento i senatori Lentulo e Cetego che miravano a sovvertire lo Stato.

Anche la Repubblica di Venezia cadde nella fatiscenza quando si affidò ai magistrati, alle delazioni anonime e ai processi ipocriti in difesa della morale in cui nessuno credeva, tanto che per anni, “veneziana” fu sinonimo di donna di liberi costumi.

Non dissimile il caso degli allora colonnelli Mori e Subranni e del capitano De Donno, cui un tribunale ha comminato due condanne da dodici anni e una da otto per aver trattato “a nome dello Stato” coi vertici della mafia identificati nel sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

La ” trattativa” sarebbe consistita nel comunicare col sindaco di Palermo ( verissimo).
Il risultato dei colloqui fu la consegna alla giustizia del capo mafioso Totò Riina, fatto puntualmente avvenuto il 5 gennaio 1993.

Il Ciancimino, quindi, era stato trasformato in un “confidente di polizia” e non in un diplomatico di carriera.

Il ministro dell’interno, Nicola Mancino, “mandante logico” di una eventuale trattativa tra lo Stato e l’organizzazione malavitosa, è stato invece accusato e assolto per un reato minore ( falsa testimonianza). In TV , il Mancino si è autoattribuito il merito della cattura di Riina che spetta evidentemente al ROS del colonnello Mori.

Se vero, era al corrente del lavoro dei carabinieri. Se falso, l’assoluzione dall’accusa di falsa testimonianza, è stata , a dir poco, precipitosa.

Consapevoli della mancanza di una controparte credibile, i giudici l’hanno identificata in Berlusconi che divenne Presidente del Consiglio nel 1994 ( dopo la stagione delle stragi) .

Hanno taciuto – ignorandoli?- sugli atti parlamentari che hanno registrato la dichiarazione dell’allora neo presidente della commissione antimafia, Luciano Violante, che annunziava alla commissione iniziative il tal senso e della “coincidenza” che per ben due volte costui si sia trovato sullo stesso aereo Roma-Palermo in cui viaggiava il signor Brusca, anch’esso assolto perché ” pentito”.

Hanno trascurato , i giudici, anche le interviste di Giovanni Maria Flick ( all’epoca ministro di Grazia e Giustizia) che ha ripetutamente ammesso di essere all’origine dei provvedimenti di alleggerimento delle regole del 41bis, più volte sanzionate dalle istanze internazionali come evidenti violazioni dei diritti umani.
Ha anche detto – e scritto- di essersi consultato in proposito col Presidente della Repubblica.

In poche parole, se mai sia esistita una trattativa Stato- Mafia questa l’ha fatta il governo di cui guardasigilli era Flick e il governo Berlusconi non c’è entrato.

La ” gratitudine” ( immotivata?) all’Arma dei Carabinieri l’hanno espressa i governi di sinistra che hanno promosso una forza di Polizia a Forza Armata autonoma. Unico precedente al mondo è il KGB di buona memoria comunista.

Gli interlocutori primi di una eventuale trattativa non potevano che essere uomini di governo e parlamentari dotati di autorità e certamente non un colonnello e due suoi collaboratori.

La verità è che nei periodi di vuoto di potere spuntano magistrati che cercano di arrivare al potere politico sciabolando a dritta e manca trascurando i danni inferti alla credibilità dei magistrati e all’idea stessa di giustizia.

Vogliamo un altro Di Pietro? Vogliamo che i carabinieri si trasformino in pecore?
Attenzione che se proprio si vogliono pecore, potrebbero diventare pecore nere.

Che ne dice il nuovo Parlamento di una commissione parlamentare di inchiesta che svisceri questa materia ?

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