Stati Uniti, strategie di logoramento_Con Gianfranco Campa

Puntata particolarmente importante. I nemici dichiarati dalla attuale leadership statunitense sono la Russia nell’immediato, la Cina dal punto di vista strategico. L’obbiettivo di fondo è scompaginare la prima, trattare da posizione di forza con la seconda. Arrivare a regolare il contenzioso con la Cina, comporta riequilibrare preliminarmente la propria economia attualmente fondata sul debito e sul drenaggio di risorse dall’area del dollaro e su un processo di decentramento industriale che espone gli Stati Uniti alla fragilità di un circuito troppo vulnerabile. I paesi europei, in primo luogo la Germania, sono destinati ad essere la vittima sacrificale di questa dinamica a beneficio esclusivo del loro alleato egemone. Su questo il gruppo dirigente statunitense può far leva sugli utili idioti dei paesi scandinavi e dell’Europa Orientale, nella fattispecie i paesi baltici, la Polonia. Costoro, in nome di brame di rivalsa sopite da troppo tempo nei confronti di Russia e Germania, non esitano a legarsi mani e piedi con chi a tempo debito non esiterà a scaricarli. Un già visto nelle precedenti due guerre mondiali, ma di nessuna lezione per il presente. Gli Stati Uniti, intanto, riescono a lucrare a man bassa sul mercato energetico, grazie alle dinamiche politiche innescate; compresi gli atti di sabotaggio. L’ennesima conferma di come le fortune economiche dipendono soprattutto dalle scelte politiche, piuttosto che da dinamiche economiche intrinseche. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Rolf Peter Sieferle, Finis Germania, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Rolf Peter Sieferle, Finis Germania (a cura di Francesco Coppellotti), Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2022, pp. 174, € 22,00

Come scrive Antonio Caracciolo nella presentazione: “A differenza che per il passato, nel 1945, la guerra – la stessa che ebbe inizio nel 1914 – non si è conclusa con Trattati di pace che restituivano ogni paese a se stesso, magari con diminuzioni territoriali, passate ad altre città statuali. Si è voluto procedere alla devastazione spirituale delle nuove generazioni che non avevano vissuto la moderna guerra dei Trent’anni”. Il tema del saggio (postumo) è proprio questo; la sconfitta nella seconda guerra mondiale ha comportato un “lavaggio del cervello e del carattere permanente”, tendente a cancellare o a modificare radicalmente la cultura del vinto.

Infantilizzazione, colpevolizzazione, relativismo ne sono gli aspetti più evidenti. Anche se spesso neppure aventi il carattere di novità. Vediamo la colpevolizzazione dei tedeschi (con le guerre mondiali e l’olocausto): il tutto non pare tanto voluto ed eseguito (per di più a oltre settant’anni dal compimento dei fatti) per il crimine in se, quanto per colpevolizzare una nazione e la sua cultura. Ma che la colpevolizzazione (di massa) o almeno lo sfruttamento del senso di colpa sia uno strumento di potere l’aveva già scoperto Thomas Hobbes nel “Behemoth” quando scrive che i pastori protestanti predicavano in particolare contro la concupiscenza perché essendo una pulsione naturale tutti ne erano “colpevoli” in quanto peccatori “E, così, divennero confessori di quelli che avevano la coscienza turbata per questo motivo, e che obbedivano loro come a direttori spirituali, in tutti i casi di coscienza”. Per cui il senso di colpa si convertiva in disposizione all’obbedienza a chi aveva il potere.

Altro argomento è il relativismo coniugato al progresso “La relatività di tutte le culture, compresa la propria, viene accettata; al tempo stesso esse vengono però allineate accuratamente su una linea progressiva. La propria cultura diventa allora incompatibile in quanto è la più progressiva di tutte. Il modo del progresso diviene così un assoluto che può di nuovo togliere le penne al relativismo”. Ed è proprio quel che succede: se la Storia finisce è l’ultima cultura quella che, contraddittoriamente, diviene assoluta. E questa cultura è quella dei vincitori. Ma quando il progresso scompare, entrando in una fase di decadenza, il relativismo diventa un virus distruttivo di cultura, posizione ed identità.

Anche qui la memoria va al passato a Maurice Hauriou il quale faceva del “pensiero critico” (qualcosa di assai simile al relativismo almeno sul piano socio-politico) uno dei caratteri della decadenza. Solo che se di una storia “lineare” ordinata lungo l’asse del progresso si passa ad una storia “ciclica”; c’è comunque da sperare che il nuovo ciclo in gestazione riavvii un’epoca di miglioramento culturale, sociale, economico.

Una lunga ed accurata post-fazione di Francesco Coppellotti completa il volume e sintetizza così il saggio di Sieferle “Possiamo dire che finis Germania è la descrizione lucida della cappa ideologica che determina la vita religiosa, politica e culturale della Bundesrepublik che Sieferle ha disegnato e contro la quale, novella Antigone, si è infranto” e ciò perché “Sieferle ha mantenuto viva la fiamma della sua giovinezza ed ha sconfessato alla radice la Bundesrepublik, ma non perché, come hanno cantato tutti i filistei in tutto il mondo, voleva la scomparsa della Germania, ma perché ha voluto tenere aperta quella ferita chiamata Germania”.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA EUROPEA. PROSSIMA FERMATA: SARAJEVO_di Antonio de Martini

Lo stiamo anticipando da oltre un anno. Buona lettura, Giuseppe Germinario

COME SI FA A FAR MONTARE LA TENSIONE SPERANDO IN UNA NUOVA GUERRA: DUE STUPIDI E UN PRETESTO

Certo, serve un mascalzone come innesco, ma é presto trovato nell’ex diplomatico ( alla Di Maio) e ” professore” di Scienze politiche NEDZMA DZANANOVIC che ha dichiarato ” Questa crisi può essere l’occasione per la UE di liberarsi della influenza russa in Bosnia”.

C’é stata tensione in Bosnia il 6 aprile scorso , trentesimo anniversario dell’inizio della guerra e scontri – per ora verbali- tra le opposte fazioni.

La materia del contendere é risibile : il leader nazionalista serbo-croato Milorad Dodic ha però gettato benzina sul braciere minacciando la secessione.

A sinistra Milorad Dodic sopra Valentin Inzko.

Gli accordi di Dayton del 1995 – Clinton consule- hanno infatti diviso il paese in due entità federali , una

Repubblica Srpska e la Federazione Croato-bosniaca collegate da una amministrazione centrale, ma non da una comune memoria degli eventi. Lo scopo sarebbe quello di ” armonizzare” le tre comunità presenti sul territorio: I Croati ( Cattolici), i Bosniaci mussulmani e i Serbi, ortodossi.

Avevano convissuto sotto la guida del Maresciallo Tito ( Josip Broz) per mezzo secolo fino a che la segretaria di Stato USA Madeleine Allbright– nelle sue memorie dice che fu per vendicare il padre, diplomatico- non seminò zizzania fino allo scoppio del conflitto.

Il secondo stupido é, manco a dirlo, l’alto commissario internazionale della UE Valentin Inzko che per dipanare la matassa delle liti tra ex combattenti delle due parti, a luglio scorso, ha emanato un decreto ( in forza dei poteri discrezionali conferitigli dall’”accordo” di Dayton) che proibisce di negare l’olocausto di Szebrenica ( ottomila maschi morti é un crimine orrendo, ma chiamarlo olocausto può essere considerata una forzatura).

Il nuovo Alto rappresentante – Christian Schmidt– sta sottovalutando la possibilità che, in vista delle elezioni di ottobre, la minaccia secessionista serba crei un nuovo focolaio di guerra.

Ricordo , solo per inciso che in loco, a protezione della minoranza serba e dei numerosi monumenti della cristianità ortodossa ( che sono l’area costituente della nazionalità serba affermatasi nei secoli dopo la battaglia di Kosovo celebrata da D’Annunzio) giacciono di sentinella oltre duemila militari italiani e che, fino al 24 febbraio scorso, gli esperti sostenevano che anche in Ucraina non sarebbe successo niente.

Intanto, ammaestrati dall’esperienza ucraina, gli abitanti della Bosnia Erzegovina, quale che sia la loro religione, fanno la fila agli sportelli di cambio per trasformare i loro marchi ( moneta locale) in Euro e , se possono prendono la via dell’esilio preventivo.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/21/guerra-europea-prossima-fermata-sarajevo/

 

La Nuova Vecchia Germania, Di  George Friedman

La Nuova Vecchia Germania

Il 2022 non è il 1914 o il 1939, ma una Germania armata è significativa.

Sembra che la Russia avesse due obiettivi distinti ma sovrapposti nell’invadere l’Ucraina. Il primo è stato quello di prendere il controllo del suo confine occidentale, un’area che gli conferisce profondità strategica e che Mosca ritiene essere nella sua sfera di influenza. Il secondo consisteva nel mettere l’uno contro l’altro i membri della NATO, rompendo le fazioni che si opponevano a qualsiasi forma di intervento. Qualunque cosa si dica sul carattere e sul temperamento del presidente Vladimir Putin è irrilevante. Per la Russia, c’è una logica nella strategia. Difendere il proprio Paese è un compito spietato.

Dal punto di vista della Russia, l’Ucraina non dovrebbe avere importanza per nessun paese a meno che quel paese non voglia strangolare la Russia, cosa che non accadrebbe se la NATO non esistesse. Se l’Europa non fosse una base operativa per gli Stati Uniti, il principale avversario della Russia, gli Stati Uniti non sarebbero una minaccia.

Al centro di tutti i calcoli sulla potenza europea c’è la Germania. È da tempo una nullità militare e dal 1991 il suo obiettivo principale è la crescita economica. Ha un’economia massiccia e orientata all’esportazione che richiede una tonnellata di energia e gran parte di quell’energia proviene dalla Russia. (Altre ne arriveranno se e quando il gasdotto Nord Stream 2 sarà online.) I russi hanno pianificato questa crisi con questo in mente.

Come praticamente tutti i paesi, la Germania stava soffrendo per le ricadute economiche della pandemia di COVID-19 quando è iniziata la guerra in Ucraina. La perdita di energia russa non farebbe che peggiorare le cose. Poiché la Germania e la Russia tendono a cooperare su questioni economiche e la Germania ha evitato sia il riarmo militare che gli scontri con la Russia, Mosca pensava che qualunque cosa avesse fatto in Ucraina non avesse alcuna conseguenza per Berlino.

I primi giorni dell’invasione sembravano confermare il pensiero della Russia. In un primo momento, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato con enfasi che non avrebbe consentito la fornitura di armi all’Ucraina dalla Germania. In un altro caso, un aereo britannico che consegnava missili anticarro all’Ucraina si è diretto intorno alla Germania piuttosto che chiedere i diritti di sorvolo. Nel frattempo, Putin ha incontrato il primo ministro ungherese Viktor Orban per concordare un accordo sul gas naturale, ma Orban ha detto di non essere disposto a prendere una posizione ostile nei confronti della Germania. Ciò ha sollevato speranze nel Cremlino che l’alleanza potesse essere divisa. Se anche un paese minore come l’Ungheria, un ex satellite sovietico, era pronto ad allontanarsi dalla NATO, allora le fondamenta del potere americano nella penisola europea si stavano dissolvendo, o almeno così si pensava.

Ma Putin non è riuscito a capire le ansie della Germania nei confronti della Russia. Russia e Germania potrebbero lavorare a stretto contatto nel quadro della NATO, ma se tale quadro si sciogliesse e l’Ucraina cadesse, l’unica cosa che si frappone tra Germania e Russia sarebbe la Polonia. Questo può sembrare paranoico, ma il fatto che la Russia abbia sostanzialmente preso il controllo della Bielorussia l’anno scorso con un colpo di stato incruento e stia cercando di conquistare l’Ucraina ora suggerisce che la paranoia avesse dei meriti.

La posizione strategica tedesca stava crollando. Berlino era in contrasto con i suoi colleghi membri dell’UE e della NATO, la Francia stava emergendo come il principale interlocutore europeo e gli Stati Uniti, il fondamento della sicurezza nazionale tedesca, stavano diventando impazienti se non ostili. Il governo sperava che, nonostante tutte le lamentele sull’Ucraina, gli affari con la Russia potessero continuare senza sosta poiché gli Stati Uniti avrebbero gestito qualsiasi serio confronto militare.

Ma non doveva essere. Washington non ha intrapreso un’azione militare, ovviamente, ma ha imposto alla Russia enormi oneri economici che bloccheranno il flusso di energia verso l’Europa. Il sogno di avere forti legami commerciali con la Russia pur facendo parte della NATO era finito. La Russia lo ha reso impossibile. Berlino è stata costretta a fare ciò che non voleva: scegliere. Ma poi non c’era davvero alcuna scelta. Nonostante il gas russo, la Germania ha affermato che armerà l’Ucraina e, cosa più significativa, si riarmarà con un budget per la difesa notevolmente migliorato.

A parte la rivitalizzazione della NATO, questa potrebbe benissimo essere la conseguenza più importante dell’invasione russa. Ricordiamo che una Germania potente e militarizzata è stata storicamente una forza destabilizzante in Europa. Quando la Germania si unì nel 1871, emerse rapidamente come una potenza economica importante ma insicura, preoccupata per gli attacchi simultanei di Russia e Francia. Le cose ora sono diverse, ovviamente. Il 2022 è un mondo diverso dal 1914 e dal 1939. Ma anche così, la grazia salvifica agli occhi di molti paesi europei è l’attuale debolezza militare. In geopolitica, le soluzioni a un problema possono generarne di nuovi.

La Russia si è messa in una brutta posizione. La frammentazione dell’Europa non è più possibile. Anche se dovesse sconfiggere l’Ucraina, sarebbe molto più vicino a un’Europa ostile, guidata da una Germania appena rimilitarizzata.

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Putin ha accidentalmente avviato una rivoluzione in Germania, di Jeff Rathke

L’Europa tra timide velleità di resistenza e precipitosi ripiegamenti sotto l’ombrello atlantico. L’intervento militare russo in Ucraina deve costringere a centrare il focus dell’analisi e del confronto politico sul continente in cui viviamo quando la stretta che si prospetta sta spingendo alla ulteriore normalizzazione di tutta la classe dirigente e dell’intero ceto politico. I costi saranno però sempre più pesanti e drammatici, difficilmente sostenibili. Buona lettura, Giuseppe Germinario

L’invasione dell’Ucraina sta innescando un drammatico capovolgimento della grande strategia di Berlino.

Di  , presidente dell’American Institute for Contemporary German Studies della Johns Hopkins University.

La politica tedesca è normalmente caratterizzata da una cauta continuità, finemente equilibrata e lenta ad adattarsi alle mutevoli circostanze. Ma resta in grado di sorprendere. Nella scorsa settimana, il cancelliere Olaf Scholz e il suo governo hanno compiuto una rivoluzione nella politica estera tedesca, scartando nel giro di pochi giorni le ipotesi superate dei sogni di Berlino del dopo Guerra Fredda e stabilendo una rotta per il confronto con la Russia che porterà un aumento drammaticamente risorse e modernizzare le forze armate del Paese.

Ogni giorno ha portato nuove rotture con la tradizione tedesca. Il 27 febbraio, in una sessione straordinaria del parlamento tedesco (la prima riunione domenicale in assoluto), Scholz ha descritto l’attacco russo all’Ucraina come un “punto di svolta” che ha richiesto uno sforzo nazionale tedesco per preservare l’ordine politico e di sicurezza in Europa . Scholz ha annunciato la creazione di un fondo una tantum di 100 miliardi di euro (113 miliardi di dollari) per l’esercito tedesco quest’anno e ha impegnato la Germania a spendere il 2% del PIL per la difesa d’ora in poi. Ha evidenziato i contributi della Germania alla NATO e ha ampliato gli impegni, inclusa la sua presenza deterrente in Lituania e la messa a disposizione dei sistemi di difesa aerea tedeschi degli Stati membri dell’Europa orientale. Ha sottolineato il ruolo nucleare della Germania nella NATO e ha indicato che il governo avrebbe probabilmente acquisito velivoli F-35 invece dell’acquisto F/A-18 Super Hornet precedentemente pianificato. Il cancelliere ha sottolineato le responsabilità di Berlino all’interno della NATO, ma allontanandosi dallo stile della politica di difesa tedesca ha anche definito queste misure come garantire la sicurezza nazionale della Germania.mezzo milione di manifestanti in tutto il centro di Berlino.

Ed era solo domenica. Il giorno prima, il governo ha abbandonato la sua posizione come una delle ultime resistenze transatlantiche contro l’esclusione delle banche russe dal sistema di messaggistica finanziaria SWIFT e il ministero della Difesa ha annunciato che avrebbe fornito 1.000 sistemi anticarro e 500 armi antiaeree Stinger all’Ucraina, invertendo la politica di lunga data della Germania contro la fornitura di armi alle zone di crisi. (Berlino ha anche revocato le prese chiave ai paesi terzi che forniscono attrezzature di origine tedesca all’Ucraina.) Queste mosse storiche si sono aggiunte alle dure sanzioni economiche imposte dall’Unione Europea a Mosca entro 24 ore dall’inizio dell’invasione russa, misure che ha colpito anche la Germania, dal momento che la Russia è uno dei primi cinque partner di esportazione e importazioneal di fuori dell’UE. Solo cinque giorni fa, il 22 febbraio, Scholz ha deciso di interrompere il processo di certificazione per il gasdotto Nord Stream 2.

In sette giorni, la Germania ha eliminato il suo più grande progetto energetico russo, ha imposto sanzioni che causeranno notevoli dolori in patria e ha istituito un corso che renderà la Germania il più grande investitore europeo della difesa, con i velivoli più avanzati e una crescente presenza in avanti nel centro e Europa orientale. Ci si può chiedere se i detrattori devoti della Germania a Washington se ne accorgeranno. Come è successo così rapidamente, quando i funzionari tedeschi avevano difeso così tenacemente le loro politiche di status quo per così tanto tempo?

La sfacciata brutalità della guerra del presidente russo Vladimir Putin all’Ucraina è la ragione più importante. Scholz e il suo governo hanno compiuto ogni sforzo diplomatico per evitare la guerra, inclusa la visita di Scholz il 15 febbraio a Mosca, in cui ha cercato di salvare il processo di Minsk. Putin ha avanzato le sue rimostranze percepite e la storia distorta – che Scholz in seguito ha definito “ridicolo” – e attraverso il suo riconoscimento delle regioni separatiste di Donetsk e Luhansk ha effettivamente ucciso gli accordi di Minsk. Scholz e il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock sapevano per esperienza personale che la Russia aveva chiuso le strade della diplomazia.

I nuovi schieramenti politici della Germania hanno aperto la strada a questa rivoluzione. Il Partito socialdemocratico di Scholz (SPD) governa con i Verdi guidati dai valori e i Liberi Democratici liberali, entrambi i quali sostengono una linea più dura verso Mosca. Le ambizioni di trasformazione energetica del governo, che fissavano un obiettivo di neutralità del carbonio per il 2045, hanno ora acquisito una dimensione di sicurezza nazionale. Ciò potrebbe complicare la certezza a breve termine di un’adeguata fornitura di gas naturale, ma il ministro dell’Economia e del clima tedesco Robert Habeck dei Verdi ha colto la crisi russa come ulteriore giustificazione per accelerare la transizione verso le energie rinnovabili e costruire la rete energetica. Scholz ha formulato l’obiettivo per la Germania di costruire due terminali di gas naturale liquefatto “il prima possibile” come parte di uno sforzo nazionale per superare la sua dipendenza dai singoli fornitori.

All’interno del suo stesso partito, il pragmatico Scholz ha sostenuto una rivalutazione dell’approccio obsoleto dell’SPD nei confronti della Russia, basato sulla reciproca dipendenza economica e sull’eredità del controllo degli armamenti. L’invasione di Putin ha offerto a Scholz l’opportunità di cancellare la lavagna e non ha perso tempo. Di fronte a indifendibili azioni russe, l’ala “dialogativa” dell’SPD ha visto sgretolarsi le sue argomentazioni. Il più visibile sostenitore delle posizioni filo-russe , l’ex cancelliere Gerhard Schröder dell’SPD, è stato preso di mira dall’intera dirigenza del partito per le sue posizioni nei consigli di amministrazione di società energetiche russe come Nord Stream AG, Rosneft e, di recente, Gazprom (sebbene sia ancora in sospeso). Schröder è passato in poche settimane dall’essere una delle risorse più preziose della Russia in Germania a una responsabilità politica.

Infine, un po’ di merito va all’amministrazione Biden. Nonostante le pressioni del Congresso degli Stati Uniti e della comunità di politica estera, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha costruito con cura una partnership sulla politica russa, prima con la cancelliera Angela Merkel attraverso la dichiarazione congiunta di luglio 2021 sulla sicurezza energetica e poi difendendo l’approccio della Germania, anche durante il febbraio di Scholz. 7 visitaa Washington. Biden ha dovuto affrontare il contraccolpo dei repubblicani e di alcuni democratici, ma si è reso conto che un cambiamento nella politica tedesca della Russia avrebbe dovuto venire da Berlino, non essere imposto da Washington. Se Biden avesse ceduto alle richieste di sanzioni unilaterali degli Stati Uniti sul Nord Stream 2, avrebbe generato una risposta difensiva da parte del governo tedesco che avrebbe reso inconcepibile il completo ribaltamento della Russia di Scholz.

UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot

“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot

In Le Grand Récit , edito dal PUF, Johann Chapoutot analizza i principali discorsi sulla dotazione e sul dare significato, dal provvidenzialismo alla cospirazione. L’abbiamo incontrata per discutere del suo approccio storico, delle domande che può sollevare e di come il suo libro si collega al resto del suo lavoro.

Johann Chapoutot, La grande storia. Introduzione alla storia del nostro tempo , Parigi, PUF, “Hors collection”, 2021, 384 pagine, ISBN 978-2-13-0825 ,URL  https://www.puf.com/content/Le_Grand_R%C3%A9cit

Lanciandoti in questo libro, ti sei detto che il tuo approccio storico non è più sufficiente per illuminare il nostro tempo?

Anzi, no, è anche il contrario. Molte persone mi hanno chiesto se mi faccio da parte con questo libro. Ma in realtà ho l’impressione di aver approfondito quello che è il cuore della mia professione, che è l’attenzione al significato della storia negli occhi degli stessi attori. Ci sono modi diversi di fare storia: da parte mia, preferisco un approccio culturalista, internalista e comprensivo a un approccio che sarebbe più esternista e con una pretesa esplicativa.

Mi interrogo sul significato dato agli atti dagli attori e quindi sul discorso della donazione e della dotazione di senso, cioè alla storia. Mi interessano queste forme di discorso che sono trame narrative e ho voluto spiegare, nell’introduzione, nella conclusione e nel capitolo 9, un certo modo di fare la storia. Tutto questo nasce da un suggerimento del mio amico e complice Christian Ingrao che mi ha consigliato di scrivere un articolo su come, con gli altri, faccio la storia.

Riflettendo sul discorso, sulla storia del dare significato, mi sono detto che avrei fatto questo punto metodologico ed epistemologico. Quindi sono al centro di quello che faccio di solito. Molte persone si sono stupite che io parli troppo di filosofia o di discipline umanistiche, ma è sufficiente aprire la mia tesi per rendermi conto che l’ho sempre fatto. Questo è ciò che leggo e ciò che pratico. Per dirla semplicemente, non passo il mio tempo a leggere Himmler. Quello che ho letto nella mia vita è filosofia, saggi, letteratura, sociologia e anche i miei colleghi storici, ai quali cerco di rendere omaggio in questo lavoro.

Ho fatto quello che faccio di solito, spiegandolo. Quello che mi sorprende, però, è il modo in cui viene accolto il mio lavoro. Scrivo questi lavori soprattutto per le mie figlie e per me stessa, per spiegare, mettere un po’ d’ordine, definire e capire almeno il nostro stare al mondo. E infatti è stata mediaticamente e socialmente appropriata perché incontra le domande contemporanee.

Tu affermi che i nazisti sono ”  del nostro tempo e del nostro posto”, estendendo qui la riflessione iniziata in Liberi di obbedire . Capisci che questa affermazione può confondere? Inoltre, più che del nostro tempo e del nostro luogo, i nazisti non sono forse il prodotto della civiltà industriale nata nel XIX secolo? Si ha l’impressione che tu ti stia allontanando dal tuo primo lavoro sulla genealogia intellettuale del nazismo e rifletta invece sulla permanenza del nazismo nelle nostre società.

A monte e a valle sono collegati. Il mio oggetto di studio non è il nazismo. È piuttosto il mio campo nel senso di archeologi o antropologi. Il mio obiettivo è piuttosto, andare in fretta, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese. L’industrializzazione e le forme di abbandono sociale di massa indotte dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione e dal disincanto religioso provocarono disincanto nel mondo a cui il nazismo fu una risposta esplicita. Il nazismo ha saputo sedurre, convincere o addirittura entusiasmare perché rispondeva concretamente alle grandi domande sull’essere-nel-mondo di chi si poneva queste domande: cosa sono ? da dove vengo? dove stiamo andando ? È un insieme di domande fondamentali a cui le narrazioni e i discorsi tradizionali non riuscivano più a rispondere.

Ecco perché il nazismo è, di fatto, il nostro tempo e il nostro luogo. Questo è qualcosa su cui insisto perché trattiamo il nazismo, specialmente nei media o pubblicamente, attraverso il prisma dell’aberrazione, dell’eccezione o dell’anomalia. Lo capisco ed è così che ho iniziato a lavorare sull’argomento, come tutti gli altri. Ma quando guardiamo al nazismo, ci rendiamo conto che tutto ciò che viene detto e affermato è molto banale. Ciò che è sognato e pianificato lo è meno. Aggiungiamo che, geograficamente e temporalmente, il nazismo non è la Papua del XIII secolo o l’India del XVII secolo, ma piuttosto l’Europa del XX secolo. Infatti è il nostro tempo e il nostro luogo, e deriva da questa matrice che hai evocato:

Il mio obiettivo è, per andare veloci, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese.

JOHANN CHAPOUTOT

Per il downstream è la stessa cosa. Allo stesso modo in cui non c’è una creazione ex nihilo nel 1933, non c’è volatilizzazione dal 1945. I fondamenti della nostra civiltà occidentale per andare rapidamente – estrattivismo, produttivismo e alienazione – che si sono cristallizzati nella seconda metà del XIX secolo in Europa e gli Stati Uniti, non si dissolsero. I fondamenti ci sono, ci sono anche le domande e, infatti, i fenomeni di cui i nazisti erano “esponenti” (mi riferisco qui al termine tedesco Exponent ), vale a dire illustrazioni particolarmente vivide, non si sono dissipati successivamente.

L’idea di considerare un lavoratore come una risorsa, un’idea tipicamente nazista, questa reificazione dell’altro come agente produttivo, è alla base della definizione di “risorse umane” che oggi “gestiamo”. hui. Ecco perché ho proposto queste idee in Free to Obey , che ha ricevuto un eccesso di onore o un eccesso di indegnità. Un eccesso di onore da parte di coloro che sentivano che avevo finalmente dimostrato che la nostra vita quotidiana era nazista, che non è il mio punto. Un’eccessiva indegnità da parte di chi sentiva che stavo ributtando tutto sul nazismo, che stavo facendo una sorta di reductio a hitlerum , quando non lo ero.

Il momento nazista, il fenomeno nazista ci permettono di leggere la nostra modernità ad occhio nudo, come i cromosomi della mosca Drosophila che prediligiamo negli insegnamenti di biologia perché sono così grandi che possiamo guardarli senza strumenti più sofisticati. microscopio.

Nel ”  nazificare” il nostro presente, non c’è il rischio, da un lato, di perdere di vista ciò che mostri in parte del tuo lavoro, vale a dire che ci sarebbe una banalità del nazismo, che era prima del 1939 un espressione politica tra le altre risposte alla modernità industriale? E d’altra parte, non rischiamo di perdere di vista ciò che tuttavia costituisce la singolarità storica del nazismo, se si considera la lunga storia dell’estrema destra in Europa? 

Ci sono due equivoci. Prima di tutto, non sto “nazificando” il contemporaneo. In Free to Obey , non ho inventato questo generale delle SS vicino a Himmler che divenne papa dirigente e creatore della più grande business school in Germania dopo il 1945. Non ho inventato Reinhard Höhn, esiste, inoltre c’è un buon lavoro su di esso. Da questo caso di studio, ho voluto suggerire un certo numero di linee di pensiero, ad esempio il fatto che mi sono spiegato meglio i conati di vomito che la nozione di “gestione delle risorse umane”. Quando i nazisti parlano di Menschenmaterial, c’è qualcosa come un bagno culturale comune tra l’ufficiale delle SS Reinhard Höhn degli anni ’30 e ’40 che riflette sulla scomparsa dello stato, la proliferazione delle agenzie e l’uso corretto del materiale umano e il Reinhard Höhn del 1956, ex generale delle SS ridiventato professore-dottore e creatore di business school acclamato come “papa del management” per il suo 95esimo compleanno nel 2000. Ancora una volta, non sono io a presentarlo come tale, c’è la Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände (BDA), il sindacato dei datori di lavoro tedesco, il MEDEF tedesco.

Allora dobbiamo vedere cosa intendiamo per nazismo. Dirò una cosa che ho già detto e scritto e che può suscitare una forma di fraintendimento: il nazismo non può essere ridotto alla Shoah, e la Shoah non è solo nazismo.

La Shoah non è solo nazismo perché è un’impresa comune a tutta l’Europa. Tutti ci sono entrati. Dai prefetti francesi ai nazionalisti lituani, passando per gli ustascia croati e gli antisemiti polacchi. Ci sono arrivati ​​su istigazione tedesca, ma i tedeschi stessi – guardate il lavoro di Jan Tomasz Gross – erano inorriditi dai pogrom polacchi che si svolgevano davanti ai loro occhi. È lo stesso nel Baltico o nei Balcani con gli ustascia: i tedeschi presenti sono allarmati dalla violenza antisemita dei locali.

Allora, il nazismo non è solo la Shoah. Il nazismo è stato, prima del 1941, almeno 8 anni – più se torniamo al 1919 o al 1920 – di un’esperienza politica acclamata da tutte le parti: in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. . Non è stato così per tutti ovviamente: i comunisti erano contrari, anche i socialdemocratici, anche alcuni democristiani. Ma l’“Hitler più che Blum” denunciato da Mounier e poi da Marc Bloch non è un mito. È sorprendente vedere come le élite britanniche rimuginassero con il loro sguardo benevolo su un Hitler che sembrava loro la parata ideale contro il bolscevismo, la soluzione per uccidere la sinistra e i sindacati e trasformare la Germania in “una zona di investimento ottimale”. . Dal 1933 infatti la Germania, considerando il programma di riarmo e vedendo che non ne rimane più, è una “zona di investimento ottimale” – un concetto che ho sviluppato dalla zona valutaria ottimale. Puoi avere un ritorno sui tuoi investimenti unico al mondo grazie alle condizioni di produzione offerte dal paese.

Il nazismo prima del 1941 non è né Treblinka né Sobibor. Queste sono realtà che conosco un po’. E mi sorprende quando alcune persone si accigliano: sono l’unico storico francese premiato da Yad Vashem, per La loi du sang . Per questo mi ha lasciato un po’ perplesso. Allo stesso tempo mi dico che studiando a lungo un fenomeno non ci si rende più conto che ciò che appare ovvio dopo un lento assestamento non lo è affatto per il pubblico. Lo iato tra ricercatore e pubblico sta crescendo fatalmente.

La cosa più sorprendente di Free to Obey è il salto da un caso di studio a una lettura molto più generale del management della Germania occidentale e persino dell’Europa occidentale dopo il 1955. Credi che non sia questo a provocare la sorpresa dell’accoglienza?

Prima del 1945, Reinhard Hohn è un tipico individuo del mondo degli intellettuali delle SS, per citare Christian Ingrao1o Michael Wildt. E i suoi amici, quelli con cui lavora sono Werner Best – il numero due della Gestapo – e Wilhelm Stuckart – il redattore delle Leggi di Norimberga. Ed è con loro che lavora a questa rivista chiamata Empire. Ordine razziale. Spazio abitativo ( Reich, Volksordnung und Lebensraum ) per riflettere sull’attrito dello Stato e sulla mutazione delle strutture per amministrare in modo ottimale il Grande Impero.

Il nazismo non può essere ridotto all’Olocausto, e l’Olocausto non è solo nazismo.

JOHANN CHAPOUTOT

Dopo il 1945, fu celebrato durante il suo 95esimo anniversario come il “papa della gestione”. La sua scuola ha formato 700.000 dirigenti assunti in più di 2.000 aziende tedesche. È un fenomeno sociale di massa ed è in questo che possiamo passare da un caso di studio a un fenomeno più generale. Soprattutto perché nella sua scuola non si è corretto, non si è pentito di nulla e non ha mai avuto una parola per il passato. E, inoltre, impiegò, come insegnanti nella sua scuola, alte kameraden,vale a dire, l’ex SS. Franz-Alfred Six condannato a Norimberga per genocidio attivo – sul campo – rilasciato, divenne direttore marketing di Porsche ed era professore di marketing nella sua business school. Il professore di medicina Karl Kötschau che, dopo il 1945, continuava a dire che era necessario eliminare i malati o gli handicappati, divenne professore di “sviluppo personale”. Il dottor Justus Beyer, condannato a Norimberga per genocidio attivo, insegnava lì come professore di diritto commerciale.

Il XXI secolo costituisce una cesura, soprattutto dal punto di vista di cui ti occupi, cioè della creazione del senso, della narrazione?

Forse dipende da dove mettiamo la sillabazione. Le cronologie più argomentate parlano del 1989 e altre del 2001. La cesura non è piuttosto la fine degli anni ’70 con la grande crisi industriale vissuta dalla prima patria della rivoluzione industriale che è la Grande? -Brittany, dall’azienda reazione politica, pienamente assunta quale è quella di Margaret Thatcher che incarna e attua ciò che Grégoire Chamayou ha ben studiato in La società ingovernabile2, cioè soluzioni neoliberiste. Con questo intendo un liberalismo vantaggioso per il capitalismo finanziario, tutto sotto il dominio di uno stato spogliato di quasi tutto tranne la sua capacità di mantenere l’ordine. Perché ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.

La cesura non sarebbe dunque l’arrivo al potere di Margaret Thatcher nel 1979, subito prima di Ronald Reagan, poi Helmut Kohl nel 1982-1983 nella RFT? Siamo, inoltre, poco prima della famosa svolta di austerità del 1983 in Francia e dell’arrivo di Laurent Fabius che segna sia una svolta nel discorso politico sulla questione dell’immigrazione – il famoso “Monsieur Le Pen fa le buone domande ma dai loro risposte sbagliate”3– e un cambiamento anche nella concezione della normativa e della legge con l’inizio della deregolamentazione. Non abbiamo aspettato Chirac nel 1986, è iniziato molto chiaramente nel 1984.

Per continuare sulla cesura rappresentata dal XXI secolo, la cospirazione contemporanea è una risposta alla scomparsa di strutture politiche o religiose capaci di spiegare il mondo?

Se consideriamo l’importanza dell’abbandono del religioso, che è evidente in Occidente, potremmo ipotizzare che il religioso rimarrebbe importante nel vuoto, in modo spettrale o spettrale, nel senso che parleremmo di un membro fantasma . Se facciamo questa ipotesi, è chiaro che in questa lettura, per riprendere una visione aroniana delle religioni laiche, il complotto è un modo di fare a meno della religione senza aver pianto una trascendenza. Questa diventa una trascendenza negativa in cui il male – l’ebreo, il rettile o altro – finisce per avere una virtù perché spiega tutto. I problemi individuali e sociali hanno una causa ovvia e comprensibile.

Per questo inserisco le teorie e le storie della cospirazione in una prospettiva più ampia e in una cronologia più ampia, facendo riferimento ad esempio all’opera di Franck Collard sulla congiura dei lebbrosi nel Medioevo.4.

Ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.

JOHANN CHAPOUTOT

C’è una permanenza: dietro il caos impenetrabile che mi colpisce, c’è una “causalità diabolica”. Uso questa espressione di Leon Poliakov e Norman Cohn in  The Fanatics of the Apocalypse5. Questa causalità mi rassicura perché è identificata e fornisce significato. Ciò risponde a un’esigenza terapeutica: trovare un senso alla propria infelicità è fondamentale. Io stesso sono stato sorpreso di apprendere che una psicoanalista, Nathalie Zajde, che tratta pazienti nati da sopravvissuti all’Olocausto, ha prescritto La Legge del Sangue.6ai suoi pazienti Perché è importante che i pazienti che soffrono abbiano un discorso significativo che smascheri e decostruisca il progetto di sterminio dei nazisti iscrivendolo in un’epoca e nella propria razionalità. La cospirazione è una forma di terapia selvaggia su larga scala in un modo del tutto paragonabile a un fenomeno che non ho menzionato nel mio libro, le epidemie di stregoneria negli anni ’60 e ’70 studiate da Jeanne Favret-Saada in Le parole morte gli incantesimi7. È una risposta a un enorme trauma sociale: la legge Pisani-Ferry, l’americanizzazione dell’agricoltura, gli input chimici, l’estirpazione del boschetto per fare grandi campi aperti. Il modo per rispondere a questi traumi di massa è immaginare che ci sia stato lanciato un incantesimo che si traduce nella morte di una mucca, nel guasto del trattore o in difficoltà finanziarie. Io sono uno storico, sto solo osservando, ma gli antropologi o gli psicologi hanno qualcosa da dire sulle sorgenti di tutto questo. È ovvio che il bisogno di ermeneutica c’è e la cospirazione risponde meravigliosamente bene perché è un modo di fare religione senza Dio, ma pur conservando il Diavolo, perché si mantiene una figura detestabile, odiata, un “Chi”? Ornato con piccole corna.

Tracci paralleli tra la Francia contemporanea e l’antica Roma, in particolare confrontando il loro fascino con il mito dell’età dell’oro. Non è problematico questo miscuglio di tempi? Non dà l’impressione che la storia sia un’eterna ripartenza o un ciclo? Possiamo davvero mettere sullo stesso piano Salluste ed Éric Zemmour?

Vista così, in effetti non è una buona cosa ed è meglio fare come Gérard Noiriel che mette Zemmour allo stesso livello di Edouard Drumont!

Il riavvicinamento all’Impero Romano è opportuno in quanto la Repubblica francese e la città politica francese furono costruite in riferimento al romanismo. La rivoluzione è avvenuta ”   in abiti romani  ” – qui torno a Marx. Possiamo citare Camille Desmoulins che afferma: ”   Avevamo la testa piena di greco e latino, eravamo repubblicani universitari. “. Tutto contribuisce a ciò che noi pensiamo come romano, in particolare la virtù stoica del cittadino che deve pensare l’interesse generale contro il suo interesse privato. Pertanto, la storia antica ha un’importanza, un significato in Francia a partire dalla Rivoluzione francese, che rafforza l’eredità del Rinascimento e poi dei Gesuiti conferendole una dimensione civica. Quindi è importante vedere che siamo stati nutriti dall’innutrizione.

Ma quando leggiamo testi del I secolo aC e della nostra epoca, l’apice dell’Impero, gli autori romani non smettono mai di lamentarsi. Ed è ancora possibile che noi siamo gli eredi di questa insoddisfazione per il presente. Del resto, da decenni, le generazioni politiche e accademiche si sono formate alla versione latina su questi testi, traducendo la congiura di Catilina di Sallustio, traducendo Livio, Tacito e tutti si lamentano dicendo che “era meglio prima”, che il mos maiorum era perduto, che la virtus patrum doveva essere ritrovata. Potrebbe aver lasciato il segno.

Come i romani, abbiamo un’idea alta di noi stessi: l’ urbs è civiltà, cultura e non siamo mai all’altezza del nostro ideale, ma l’ideale romano era immenso. In Francia è la stessa cosa, dalla Rivoluzione francese abbiamo l’ambizione di parlare per il genere umano. C’è un rovescio della medaglia in questo messianismo, che è questo tipo di cupa delizia, quella che consiste nel dire che non siamo all’altezza di ciò che affermiamo di essere. Messianismo e Declineismo sono due facce della stessa medaglia.

Precisamente, non si comprende appieno cosa distingua “  i grandi istmi” del contemporaneo dai grandi racconti che descrivi nella prima parte del libro. Vedendoli come le rovine dei grandi ”  -ismi” che sono crollati, non è correre il rischio di non prendere così sul serio queste nuove storie, questi discorsi che hanno un significato? Prendi ad esempio messianismo e decadenza come ”  istmi” e ammetto di non vedere appieno come questi discorsi siano meno potenti o meno validi come spiegazione del mondo del provvidenzialismo, se non che non sono sostenuti da mille anni di -vecchie strutture? 

Hai perfettamente ragione in termini di ermeneutica. La loro valenza ermeneutica è analoga, comparabile, se non identica. Ma è nella loro facoltà di mobilitazione che è più problematico. Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.

Ma il declino, o l’ondata che provoca, spinge l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea, e probabilmente partecipa all’elezione di Trump. 

Sì, ma è un ballottaggio, non è la campagna di Russia. Andare a votare è importante, ma non è l’epopea escatologica della costruzione del nuovo “impero romano” da parte dei fascisti nel 1936, dell’invasione della Russia o delle rivoluzioni francese e bolscevica.

Il mito che potrebbe essere più mobilitante è “l’illimitato”, rappresentato da Jeff Bezos o Elon Musk. È l’ultimo avatar di un progressismo tecnicista che cerca di salvarsi cercando di fuggire da un pianeta che abbiamo reso inabitabile per investire, in una grande epopea spaziale, un pianeta inabitabile. Vediamo che non morde e che provoca persino reazioni ostili.

Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.

JOHANN CHAPOUTOT

In termini ermeneutici ci sono forti valenze, ma in termini di mobilitazione della performatività, non credo. Ma questa rimane una discussione aperta.

Questa performatività mobilitante non è però un fenomeno costante nelle grandi storie che citi. Se prendiamo ad esempio la storia del cattolicesimo, per lunghi periodi non vi furono conseguenze della sua capacità ermeneutica se non quella di riunire ogni domenica i singoli. Dove siamo oggi? 

In primo luogo, è vero che questo potere di mobilitazione non è sempre stato al suo apice. Ma c’era ugualmente una struttura capace di operare una riconquista evangelizzatrice, cosa che oggi non avviene più, anzitutto perché non ci sono più sacerdoti a sufficienza. Alla fine del XVI secolo, con il Concilio di Trento, il potere della Chiesa era tale da poter controriformare e iniziare una riconquista cattolica. È lo stesso nel XIX secolo. C’è stato un grande livellamento, già prima della Rivoluzione francese – che Michel Vovelle mostra molto bene – ma c’è la rete di conventi, parrocchie, seminari che permette questa seconda controriforma dell’Ottocento.

Attualmente è molto più discutibile: la tecnostruttura, i mezzi non ci sono più. Potremmo finalmente elaborare un trittico basato su tre opere di storici: Le Goff nella Nascita del Purgatorio8, Michel Vovelle che mostra l’apogeo e l’inizio del dubbio e Guillaume Cuchet, che mostra la morte del dogma9. Questi tre storici ci offrono, con le loro opere, tutta la vita del dogma, e Guillaume Cuchet si pone questa domanda, nella sua ultima opera, della scomparsa o meno del cattolicesimo in un luogo che doveva esserne se non la culla a almeno un vettore importante.

Tu difendi un altro approccio storico che può sembrare, a prima vista, sorprendente, un pensiero controfattuale. Quanto è fruttuoso questo approccio per lo storico e più in generale per la comprensione del nostro tempo?

Venivo dal mio stesso cortile, in questo caso il suolo tedesco. Dagli anni Cinquanta c’era una scuola storica – chiamata bundesrepublikanisch – perché gli storici che l’hanno inventata provenivano dalla Germania occidentale e avevano abbracciato la causa del diritto fondamentale e della democrazia parlamentare. Nati negli anni ’30, hanno cercato di fare la genealogia del nazismo.

Vediamo che tutti questi storici intorno alla Scuola di Bielefeld hanno fatto tesi sull’Ottocento, ogni volta per individuare i segni della catastrofe. Era un approccio teleologico che generalmente collegava il bismarckiano e il guglielmino del XIX secolo al nazismo. Sulla loro scia si stabilì una doxa, quella del Sonderweg, del percorso particolare di una Germania le cui modernizzazioni sarebbero state divergenti. Ci sarebbe stata da una parte una modernizzazione economica e tecnica molto reale e dall’altra una modernizzazione politica che non sarebbe mai avvenuta. In altre parole, il binomio capitalismo/liberalismo politico non si sarebbe verificato. Tutto ha portato al 1933 nel loro approccio.

Ciò può essere dovuto alla difficoltà di leggere la storia tedesca in quanto per molto tempo non c’è stata la Germania – praticamente fino al 1990 – e per renderla storicamente visibile, creiamo un’autostrada che va da Lutero a Hitler, addirittura da Hermann il Chérusque a Hitler. È una sorta di determinismo culturalista e teleologico che finirebbe sistematicamente nel 1933.

Ma, ed è quello che ho difeso nel mio libro sulla storia contemporanea della Germania10, si potrebbe immaginare un altro percorso che va dal 1848-1849 fino al 1949-1990 passando per il 1919 e la Repubblica di Weimar. Quest’ultimo non è stato un successo, ma dobbiamo ancora vedere cosa ha pesato su questo regime. L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non si tratta solo del 1933 nella storia tedesca.

L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non tutto si riduce al 1933 nella storia tedesca.

JOHANN CHAPOUTOT

Ero quindi molto interessato all’approccio di Quentin Deluermoz e Pierre Singaravélou quando hanno lanciato un seminario di esame epistemologico dell’approccio controfattuale per dimostrare che non era limitato all’ucronia, come “è praticato dai romanzieri di fantascienza”. Al contrario, hanno voluto dimostrare che è stato un passo fruttuoso per la storia. Tutti facciamo il controfattuale senza saperlo quando privilegiamo un’ipotesi rispetto a un’altra e mettiamo da parte i futuri non realizzati. Il lavoro sul futuro che non è accaduto, sugli orizzonti inesplorati che erano possibili, permette di rivisitare un’epoca in modo molto più fruttuoso.

Sono molto interessato agli anni ’30 francesi e i miei nonni erano giovani durante questo periodo. Presumo che non avessero pensieri suicidi ogni mattina pensando all’affare Stavisky o alla crisi, ma che stessero sognando qualcosa che non era né il giugno 1940 né il maresciallo Pétain. Riaprire le possibilità è un imperativo epistemologico perché i contemporanei, come te e me ora, non sanno cosa accadrà in futuro, anche quello vicino. Ma abbiamo supposizioni, desideri e ansie. Le tombe non dovrebbero essere sigillate, ed è per questo che ho iniziato le mie 100 parole di storia11con la parola “Futuro” perché la storia non è pia recitazione di fatalità ma, al contrario, scuola del futuro. Quelle che studiamo sono persone che hanno avuto il loro desiderio, la loro apertura, la loro indeterminatezza e la loro libertà. Sta a noi restituirli.

L’ucronia nazista è affascinante. Molti autori, come Robert Harris o Philippe K. Dick, si sono divertiti a immaginare mondi in cui il Terzo Reich non fosse caduto. E c’è una domanda reale per questo tipo di storia. Rischierebbe un’ipotesi per spiegare questo successo?

Penso che sia principalmente legato alla popolarità della storia reale e documentaria della Seconda Guerra Mondiale. Che ci piaccia o no, questa rappresenta senza dubbio l’ultima grande epopea disponibile, con un male ben identificato, e davvero atroce, un bene che è altrettanto, e una vittoria del bene sul male. Tutto questo è anche molto cinematografico perché la propaganda dell’epoca, da entrambe le parti, sapeva benissimo come mettere in scena. Questo ha una prima conseguenza, televisiva: la Seconda Guerra Mondiale è onnipresente sugli schermi. E anche quando le catene dicono di non voler più affrontare questo periodo, continuano perché i successi di pubblico sono enormi.

Allo stesso modo in cui siamo effettivamente interessati a questo periodo, l’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo. Il nazismo è la chiusura di fronte all’universo delle possibilità e l’apertura di cui parlavamo. Tutto è determinato e necessario. Il nazismo è un lungo discorso apodittico. Hitler lo dice: il nazismo è biologia applicata, scienza applicata, antropologia razziale applicata. Pertanto, non c’è discussione possibile. È così, e se non è così, moriremo. Potremmo benissimo essere pacifisti, disse Hitler, ma moriremo se lo siamo. Questo spiega la pesante macabra ironia dei nazisti. Ho sempre avuto una profonda diffidenza verso chi dice che è così e non altrimenti. Non c’è alternativa  ”di Thatcher.

L’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo.

JOHANN CHAPOUTOT

Se il nazismo è la chiusura, l’ucronia permette di riscrivere la storia e sfidare questa cronologia imposta dai nazisti, e questo in modo paradossale perché in genere li fa sopravvivere, li fa vincere la guerra ma per sconfiggerli meglio in fine . Perché in quasi tutte le ucraine finiscono per perdere. E ciò che rende ancora più piacevole la loro sconfitta è il fatto di prolungare il piacere, dando loro una lezione di storia e alla fine conquistandoli .

Leggendo queste storie, cerchiamo di rassicurarci. Come, inoltre, cerchiamo di rassicurarci leggendo divulgazioni ultrafattuale sulla storia del nazismo che ci permettono di dirci che non abbiamo più niente a che fare con esso e che il nazismo è scomparso nel 1945, sostituito dalla democrazia e dalla crescita economica. Ma questa crescita è in parte organizzata da uomini come Reinhard Höhn.

Si parlava del futuro, della mancanza di alternative. Ciò si ricollega alla crisi ecologica che stiamo attraversando e che sta provocando una perdita di significato, uno sconvolgimento all’interno del nostro contemporaneo “  regime di storicità”. Con la concezione del futuro che diventa nuvoloso, che posto può prendere il discorso ecologico? È questo un nuovo “  messianismo  ”  ?

Mi sono posto questa domanda quando stavo scrivendo questo libro e, ad essere completamente onesto, ero incazzato. Non ho davvero trovato una risposta soddisfacente. La domanda che mi sono posto è: dovremmo parlare di narrativa ecologica, soprattutto nelle sue varianti collassologiche, collassologiche, a rischio di banalizzare la cosa e perdere di vista il fatto che le figure e le curve ne parlano – stesso, che i fenomeni catastrofici ci sono già e non bisogna quindi scherzarci sopra. Stiamo rendendo il pianeta inabitabile, stiamo contribuendo alla sesta grande estinzione, che potrebbe essere anche la nostra se rimaniamo sulle tendenze attuali.

In altre parole, e forse sto tornando a una forma di ingenuità epistemologica, da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso. Ma posso cadere vittima di critiche e molti giornalisti mi hanno fatto questa domanda. Mi sembra che trattando questo come mero discorso si cada in una forma di negazionismo climatico, che nega l’ovvietà di questo cambiamento.

Tracci un attraente ritratto di un aspetto importante della storia delle idee in epoca contemporanea. Ma resta una storia molto libresca: sono le pubblicazioni dei libri e le controversie tra autori che scandiscono la tua cronologia. Studiando un’epoca segnata dall’alfabetizzazione e poi dalla politicizzazione di massa, non fai affatto la storia “  dal basso” e ti interessi poco all’uso e all’appropriazione delle storie che presenti. Non hai paura di scrivere una storia di idee in ”  provette”?

Questa è una domanda che si pone sempre quando si fa storia culturale. La storia culturale, o meglio culturalista (nell’idea che il significato degli attori ha un interesse) è davvero fedele a quanto ha detto benissimo Pascal Ory, che è una “storia sociale delle rappresentazioni?”» Con questa dimensione sociale di appropriazione, di formulazione, di esperienza sociale, o si ricade nel solco di una tradizione accademica della storia delle idee totalmente disincarnata dove, come dici, vediamo Leon?Brunschvicg rispondere a Henri Bergson che discuteva di Kant senza questa società pungente. Risponderei comunque che Kant morde la società, e oh quanto!

Da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso.

JOHANN CHAPOUTOT

A proposito, sto ancora parlando di proprietà. Nel capitolo sulla cospirazione parlo molto di social media. Ci sono infatti due capitoli sulla letteratura perché parlo di “Crisi della narrativa”. Nel capitolo sul provvidenzialismo ho cercato di vedere cosa pensavano gli stessi credenti da parte protestante, cattolica ed ebraica, quindi mi sono rivolto ai teologi. E questo ha vere implicazioni ogni domenica nella pastorale, nella vita concreta di chi vi aderisce e segue il messaggio del magistero. Non è quindi decorrelato dalla società e dalle pratiche sociali. Allo stesso modo, per il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, non mi sono perso nelle controversie tra Rosenberg e Hans Günther o tra Bukharin e Trotsky. ho provato a vedere affidandosi in particolare all’opera di Nicolas Werth, quali erano, socialmente, le pratiche di appropriazione di questi discorsi. Per il fascismo parlo di cinema e per il mio lavoro sul nazismo le mie fonti non sono letterarie.

Sono molto attento a questo perché non dobbiamo farci ingannare da quella che Bourdieu ha giustamente chiamato “l’illusione scolastica” in cui ci si lascia andare. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare l’efficacia delle idee.

Una preoccupazione antimoderna attraversa il tuo libro al punto che ci si chiede se tu veda qualche motivo di speranza nel presente e nel futuro. Che cos’è?

Antimoderno, non certo perché sono molto felice di vivere nel nostro tempo. Sono molto felice di avere uno stato di diritto che mi protegga e di non temere che Alexandre Benalla possa beneficiare della totale impunità. Sono molto felice di essere trattato come sono e sto molto meglio in Francia che in Afghanistan, non è nemmeno una domanda. Non ha molto senso essere antimoderni.

Ma chi si vanta dell’intelligenza è preoccupato, non appena dichiariamo di pensare di essere preoccupato. In questa modernità che vivo con gratitudine, vedo anche molte cose sbagliate e molte cose anche strutturalmente legate alla modernità che non mi si addicono: estrattivismo, produttivismo, reificazione, alienazione, disprezzo dell’umano, distruzione del nostro biotopo, tutto ciò non mi si addice. Ma non è antimoderno preoccuparsi di tutto questo. Altermoderno, forse?

Inoltre, non ritengo la mia conclusione negativa o senza speranza. Al contrario, c’è scetticismo nei confronti delle grandi storie perché, come te immagino, diffido di tutto ciò che è “grande” o pretende di essere “grande”, sono molto pascaliano in questo senso, e Pascal è anche molto presente nel mio libro perché era molto presente anche nel XX secolo. Le “dimensioni degli stabilimenti” mi fanno ridere. Quindi sono davvero scettico su ciò che afferma di essere grande e ho anche un’immensa speranza, forse legata all’avere figli. C’è una grande apprensione di avere figli, ma ci accorgiamo che con un po’ di umorismo, un po’ di scambio, dialogo e un po’ di amore, l’essere umano cresce molto bene, e la dialettica tra gli individui sta andando molto bene.

Direi quindi che il mio libro è attraversato da due tensioni: scetticismo e distacco nei confronti del macro ma un immenso ottimismo sul micro , sull’organizzazione concreta delle vite, sui cambiamenti, sulla riflessione, sull’intelligenza delle persone. I sistemi sono bloccati e avvelenati fino all’osso, come dimostra la Quinta Repubblica. Che una persona proclami seriamente una guerra contro un virus e incoraggi gli scherzi dei suoi collaboratori, non è possibile, e il sistema che lo consente è un male.

Ma a livello di terra, vedo sviluppi molto benefici, ulteriormente accentuati dalle sfide covidiane. I nostri contemporanei si sono uniti a noi durante questi confinamenti: hanno sperimentato quello che stiamo vivendo noi, i ricercatori, cioè stare soli nella vostra stanza, pensare, porsi domande fondamentali, e in questo vedo una speranza immensa.

In questo contesto, le lettere, l’umanità, la bella fuga, l’ otium , sì, l’abbracciano, che ci nutre.

FONTI
  1.  Christian Ingrao, Believe and Destroy: Intellectuals in the SS War Machine , Fayard, 704 pagine.
  2. Grégoire Chamayou, La società ingovernabile , La Fabrique, 336 pagine.
  3. Laurent Fabius in L’ora della verità, 5 settembre 1984: “Penso che l’estrema destra sia risposte false a domande reali. Le domande sono vere, è il tema dell’insicurezza di cui parlavamo prima […]”.
  4. Franck Collard, “Una voce medievale. La congiura degli ebrei e dei lebbrosi. ”, L’Histoire (n° 231), aprile 1999
  5. Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse: correnti rivoluzionarie millenarie dall’XI al XVI secolo , Aden Belgio, 482 pagine
  6. Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire come un nazista ., Gallimard, 576 pagine
  7. Jeanne Favret-Saada, Parole, morte, incantesimi , Gallimard, 432 pagine
  8. Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio , Gallimard, 516 pagine
  9. Guillaume Cuchet, Il cattolicesimo ha ancora un futuro in Francia? , Soglia, 256 pagine
  10. Johann Chapoutot, Storia della Germania dal 1806 ai giorni nostri , Que sais-je ?, 128 pagine
  11. Johann Chapoutot, Le 100 parole della storia , Que sais-je, 128 pagine

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/11/24/etre-antimoderne-na-pas-grand-sens-une-conversation-avec-johann-chapoutot/?mc_cid=4d2958b35d&mc_eid=4c8205a2e9

Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa

Qui sotto un articolo tratto dal sito https://www.analisidifesa.it/  Il Governo Draghi deve seguire il solco del PNRR, una delle sue ragioni essenziali di esistenza. Di Draghi, della sua caratteristica di funzionario, piuttosto che di leader politico e capo del governo, abbiamo discettato frequentemente su questo sito. L’azione politica è però fatta di singoli eventi chiarificatori. Il trattato internazionale prossimo venturo con la Francia e il possibile accordo industriale OTO/WASS  di cui all’articolo in calce faranno più luce sulla missione e sull’investitura dell’attuale Presidente del Consiglio. Del primo, a pochi giorni dalla firma, non si conoscono termini e linee generali; sul secondo non mancano le riserve, tanto più che la cessione della tecnologia hardware legata all’artiglieria navale, pur secondaria in ordine di importanza rispetto all’elettronica e al software, ambito nel quale le aziende italiane primeggiano, comporta delle implicazioni sul settore siderurgico già traballante e sulla sicurezza nelle forniture in mancanza di strategie comuni, non confliggenti, tra i paesi implicati. Un problema per altro già sorto, anche se non evidenziato dalla stampa, nei rapporti di cooperazione militare e tecnologica tra Germania e Francia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa

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E’ bufera sulla cessione da parte di Leonardo della ex Oto Melara, storico produttore di cannoni navali e mezzi blindati e corazzati, e la ex WASS, società di punta nella realizzazione di siluri, equipaggiamenti e droni subacquei, dopo che è stata ufficializzata un’offerta di acquisto da parte del consorzio franco-tedesco KNDS.

Il colosso europeo nel settore degli armamenti terrestri che unisce KMW e Nexter, ha presentato a Leonardo un’offerta che si inserisce nei negoziati che da qualche settimana si susseguono tra Leonardo e Fincantieri, evidenziando il bivio strategico e industriale davanti a cui si trova l’Italia.

La notizia dell’offerta franco-tedesca, da tempo a conoscenza degli addetti ai lavori, pone il Governo Draghi davanti a una scelta che avrà ripercussioni rilevanti sull’industria della Difesa nazionale e al tempo stesso definirà le reali linee guide dell’esecutivo in termini di sovranità nazionale e di tutela del ruolo dell’Italia in Europa.

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Legittima la volontà di Leonardo, azienda pubblica, di cedere le attività e gli stabilimenti ex Oto Melara di La Spezia e Brescia ed ex Whitehead Sistemi Subacquei (WASS) di Livorno, dal 2016 confluite nella Divisione Sistemi di Difesa di Leonardo.

Il gruppo di Piazza Montegrappa vorrebbe cedere le attività per rafforzarsi in Europa nel settore dell’elettronica puntando a incassare dalla vendita i 600 milioni necessari all’acquisto del 25 per cento delle azioni dell’azienda tedesca Hensoldt.

Fincantieri, azienda anch’essa a controllo pubblico e leader mondiale nella produzione di navi da crociera e militari (ma attiva anche in numerosi altri settori militari e civili), si è offerta di rilevare le attività che Leonardo intende cedere anche se per alcune settimane sono circolate voci di una difficile intesa tra le due società italiane proprio sul prezzo. Nei giorni scorsi sono circolate sui quotidiani indiscrezioni che valutano l’’offerta di KNDS addirittura tripla di quella di Fincantieri: ipotesi che fonti ben informate sentite da Analisi Difesa hanno smentito.

La differenza sembra confermata tra le due offerte ma sarebbe di circa 100 milioni o poco più per un affare dal valore compreso tra 500 e 650 milioni di euro.

La vera anomalia, tutta italiana, è che un’operazione di cessione di attività e stabilimenti che coinvolge due aziende di Stato operanti in un settore così delicato non venga gestita direttamente, preventivamente e senza troppi clamori fino alla conclusione dell’accordo dal governo che di fatto è l’azionista di maggioranza di entrambi i gruppi.

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Si presume che la volontà di Leonardo di dismettere alcuni rami di attività (anche DRS negli Stati Uniti) per rafforzarsi in altri sia nota e condivisa dall’esecutivo così come l’opportunità di potenziare Fincantieri che con Oto Melara e WASS si rafforzerebbe sensibilmente nel settore navale entrando in quello degli armamenti terrestri e munizionamento avanzato.

Inoltre dovremmo considerare quanto meno auspicabile la volontà del governo di mantenere la proprietà italiana e pubblica degli stabilimenti e delle capacità delle due aziende. Mantenere all’interno del perimetro industriale nazionale aziende leader come OTO e WASS significa infatti salvaguardare nel tempo capacità produttive, posti di lavoro e competitività sui mercati.

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Per queste ragioni il dibattito sull’offerta straniera e sul “chi offre di più” risulta anomalo e poteva tranquillamente venire evitato gestendo nei ministeri appropriati l’intera vicenda, garantendo gli interessi di entrambi i gruppi industriali nazionali e quindi dello Stato.

A meno che non si voglia politicamente cogliere la palla al balzo per avviare, sull’onda del dibattito sull’offerta straniera finanziariamente più ricca, la svendita dell’industria italiana ad alta tecnologia di valore strategico.

E’ infatti di tutta evidenza che cedere le ex Oto Melara e WASS ai franco-tedeschi significa consentire ai nostri rivali europei di acquisire il know-how e le eccellenze nazionali in settori strategici col rischio che entro qualche anno gli stabilimenti italiani vengano chiusi per concentrare la produzione in Francia e Germania.

Per qualche centinaio di milioni vale forse la pena cedere a stranieri l’azienda leader nel mondo nei cannoni navali soprattutto ora che è stato validato il rivoluzionario munizionamento intelligente a lungo raggio Vulcano per cannoni navali da 127 mm e terrestri da 155mm?

Ha forse un senso cedere ai nostri competitor un’azienda che con i suoi siluri hi-tech compete nel mondo proprio con aziende francesi e tedesche in questo mercato ad alto valore strategico?

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E’ vero che sul fronte dei mezzi corazzati Oto Melara non è più da tempo competitiva ma rivitalizzarla, come intende fare Fincantieri per inserirla all’interno di progetti di cooperazione europea come il carro armato franco-tedesco MGCS o il nuovo cingolato da combattimento è cosa ben diversa dal cederla alla concorrenza.

Nei grandi programmi europei l’Italia può entrare da protagonista, più ad alto profilo nel settore navale, certamente con meno pretese in quello terrestre, ma mentendo sovranità, impianti produttivi e maestranze qualificate.

Oppure, in alternativa, l’Italia può entrarci con la cessione di interi rami industriali determinando così la nascita dell’Europa della Difesa non su una base di cooperazione ma rafforzando l’egemonia franco-tedesca e favorendo l’assimilazione della nostra industria a quelle delle due maggiori potenze continentali.

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Probabile che dell’affare Oto Melara/WASS abbiano parlato ieri Draghi e Macron e non c’è dubbio che l’esecutivo italiano sia oggi chiamato a mostrare un preciso indirizzo in termini di tutela degli interessi strategici nazionali.

Specie in un contesto in cui ben poca chiarezza è stata fatta finora circa l’accordo strategico bilaterale in fase di definizione con la Francia il cui dossier è gestito dal Quirinale.

Il ritornello della cessione di sovranità necessaria nel nome dell’Europa risulta infatti oggi quanto meno fuori luogo: basti ricordare dopo anni di trattative Parigi si è rifiutata di cedere il controllo dei Chantiers de l’Atlantique (STX) all’italiana Fincantieri mentre non aveva avuto difficoltà a cederne per anni il controllo a un partner sudcoreano.

Per comprendere poi con quale spirito di amicizia, cooperazione e “fratellanza europea” i francesi considerino le aziende italiane e il loro peso sul mercato è sufficiente leggere cosa ha scritto recentemente il quotidiano economico La Tribune, vicino all’industria della difesa d’OItralpe, che lamenta l’aggressività e i successi commerciali di Fincantieri nel settore delle navi militari come un grosso ostacolo e un temibile rivale per la cantieristica francese.

Difficile immaginare oggi che Parigi e Berlino siano disposti a cedere a gruppi italiani il controllo di aziende hi-tech, del settore della Difesa o meno.

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Nell’intera operazione Oto/WASS inoltre, risulterebbe arduo giustificare come conveniente per gli interessi nazionali la cessione degli stabilimenti italiani a un consorzio straniero per consentire in cambio all’azienda italiana che li pone in vendita di acquisire un quarto delle azioni di un’industria elettronica tedesca.

Sulla necessità di fare chiarezza e di mantenere le ex Oto Melara e WASS “italiane e pubbliche” si sono espressi in questi ultimi giorni tutti i sindacati e quasi tutti i partiti: per prima la Lega seguita poi da Partito Democratico, Forza Italia, Italia Viva, Coraggio Italia e Fratelli d’Italia.

Sulla stessa linea il governatore della Liguria, Giovanni Toti, mentre nel governo sono emerse finora solo le voci dei due sottosegretari alla Difesa. Stefania Pucciarelli (Lega) ha affrontato per prima la questione, l’11 novembre, sottolineando la necessità che “dall’ipotesi di vendita non debba derivare la consegna della proprietà nelle mani di imprese straniere”.

Giorgio Mulè, parlando oggi a Sky Tg24, si è espresso a favore della vendita a Fincantieri per “dare quella spinta che eviti ad un’azienda nazionale e strategica di finire in mano franco-tedesche”.

Foto: Leonardo, Fincantieri e Il Secolo XIX

https://www.analisidifesa.it/2021/11/il-caso-otowass-e-lanomalia-italiana-nellindustria-della-difesa/

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…, di Hajnalka Vincze

Non si tratta comunque di determinare chi sia il più europeista, quanto di precisare una realtà il più delle volte rimossa: l’esistenza stessa di questa classe dirigente tedesca dominante dipende dai suoi legami e dalla sua subordinazione agli Stati Uniti e la ricerca del proprio interesse non può e non intende prescindere oltre un certo limite da questo dato; essa è parte integrante di una componente ben definita di classe dirigente americana. Tutto è apparso alla luce del sole durante la presidenza Trump. L’attuale Unione Europea è un ingranaggio di questa dinamica. Le ambiguità e i cedimenti della Francia in quest’ultimo ventennio sono cresciuti parallelamente ai suoi proclami di autonomia europea anche se si deve riconoscere quantomeno l’esistenza in essa di un confronto ed un conflitto tra centri decisionali contrapposti. Giuseppe Germinario

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…

Portfolio – 25 settembre 2021
News Note

… stanno solo usando l’UE per rafforzare il proprio potere nazionale?

Sul tema delle elezioni tedesche, è dilagante la speculazione su cosa significherebbe questo e quest’altro nuovo governo tedesco per la costruzione dell’Europa. Sarebbe senz’altro utile tornare prima a cosa significa Europa, in generale, per la Germania e viceversa. Perché ci sono poche possibilità che le linee principali, le stesse da molti decenni, cambino. Nel 1963 il presidente francese Charles de Gaulle tagliò corto: “I tedeschi si comportano come maiali. Tradiscono l’Europa”. Questa visione, certamente accuratamente celata dietro formule diplomatiche, è comunque largamente condivisa in tutto il Reno, anche oggi. Allo stesso tempo, in altri luoghi è comune considerare Berlino come il buon studente dell’UE: La Germania pagherebbe come una vera vacca da mungere; darebbe sempre più potere alle istituzioni comunitarie; non ci sarebbe stato più verde di lei; e sui temi della difesa è modesto (al massimo si spende qua e là qualche parola sul disarmo globale e la pace universale). Potrebbe essere che tutto questo sia solo una tattica intelligente?

Attivista per la pace, con le bombe atomiche

L’osservazione che paragonava i tedeschi ai “maiali” è stata fatta in relazione al trattato di amicizia franco-tedesco, detto dell’Eliseo. Questo accordo aveva originariamente una forte dimensione di sicurezza e difesa e deliberatamente non faceva menzione né degli Stati Uniti né della NATO. Ma il Bundestag lo ratificò alla sola condizione di allegare un preambolo collocandolo immediatamente nel quadro dell’alleanza con l’America. Il generale de Gaulle notò, furioso, che non ci si poteva fidare dei tedeschi: “sono appiattiti davanti agli americani”. Sessant’anni dopo, niente di nuovo sotto il sole. L’ex presidente del Parlamento europeo Pat Cox ha recentemente osservato: “L’autonomia strategica è fonte di tensione tra Francia e Germania: non sono d’accordo su quanto l’Europa possa e debba fare affidamento sugli Stati Uniti”. Qua e là, i politici tedeschi si sono lasciati sfuggire che l’UE avrebbe guadagnato acquisendo “un certo grado di sovranità”. Ma quando la Francia insiste che è tempo che gli europei diventino indipendenti, la Germania ribatte che “le illusioni di autonomia strategica devono finire”. Berlino continua a ripetere: “L’Europa dipende dall’alleanza transatlantica, non può difendersi”.

Quando il presidente Macron evoca il fatto che la forza d’attacco francese difende, senza dirlo, l’intero continente europeo e chiede cooperazione ai suoi partner, la Germania si fa notare per la sua riluttanza. A volte sostiene che esiste già un ombrello americano, a volte suggerisce che prima ci liberiamo dell’atomo, meglio è. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2020, il presidente francese ha messo in evidenza le contraddizioni dell’ardente pacifismo di Berlino. Come dice lui: questa riluttanza verso le questioni militari è finta, perché la Germania è bagnata fino all’osso in una politica di potere, inclusa la sua componente nucleare, attraverso la NATO – tranne che è una politica americana. Infatti: sotto l’egida della condivisione nucleare (alla quale Parigi non partecipa) dell’Alleanza, gli Stati Uniti hanno una ventina di cariche nucleari sul territorio tedesco. Inoltre, i servizi segreti federali (BND) occasionalmente spiano l’Eliseo e la Commissione europea per conto di Washington. L’atlantismo patentato di Berlino nasce da un ragionamento lucido. Da un lato, Berlino spera che in cambio del suo incrollabile sostegno al primato USA/NATO nella sicurezza europea, Washington sarà più indulgente con i suoi scherzi in altre aree (i suoi legami commerciali con Russia e Cina, in particolare). D’altra parte, la stessa Berlino beneficia di questo primato americano: questo relativizza il peso e la portata degli assetti militari francesi, e riduce così il vantaggio politico di Parigi negli equilibri di potere all’interno dell’UE.

(Credito fotografico: Portfolio.hu)

Zelo europeo per egoismo?

In ogni caso, l’atteggiamento della Germania nei confronti dell’integrazione europea è, per così dire, complesso. Berlino è sempre stata una fervente sostenitrice delle istituzioni sovranazionali dell’Unione, tanto più che le aveva investite per molto tempo e la sua influenza lì è schiacciante. Resta il fatto che il freno più netto al futuro dell’integrazione è arrivato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Nella sua decisione del 2009 che interpreta il Trattato di Lisbona, questo organo supremo dichiara nero su bianco che il quadro nazionale è l’unico rilevante per la democrazia e la sovranità tedesche. Il diritto europeo non ha la precedenza, l’Europa non è un’entità sovrana, non ha quella che si chiama “la competenza della competenza”. Quanto alle azioni concrete, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer osserva: “I governi tedeschi ora vedono sempre più l’Europa in termini di promozione degli interessi tedeschi. E lì c’è un pericolo per l’Europa”.

Berlino sta ora anteponendo sempre più apertamente le proprie considerazioni a ogni “comune interesse europeo”. Era disposto a sacrificare anche il più importante progetto strategico europeo fino ad oggi, il sistema di navigazione satellitare Galileo, a meno che il sistema tedesco OHB, ma totalmente incompetente per il compito, non si aggiudicasse l’appalto. In questi giorni, la Germania si rifiuta di discutere del futuro del razzo Ariane, anche se ciò significa mettere a repentaglio uno degli strumenti strategici (e commerciali) più cruciali dell’Europa, il suo accesso indipendente allo spazio. Certo, Berlino può anche essere generosa, purché trovi un profitto clamoroso.

Se ha tanto sostenuto l’allargamento dell’Unione verso Est, è perché ha trovato il suo tradizionale “Hinterland”, con manodopera a basso costo a disposizione delle sue aziende, nello stesso spazio normativo. Per quanto riguarda l’attuale piano di stimolo dell’UE, la Germania ha accettato solo l’idea del pooling del debito per garantire meglio gli sbocchi europei di cui la sua industria ha estremo bisogno (a causa della contrazione dei mercati internazionali). Sul versante della diplomazia, Berlino non esita più a far sentire la propria voce, anche a discapito delle considerazioni europee, a seconda dei casi. Quando la Turchia si avventura, ad esempio, nelle acque greche e cipriote, l’UE nel suo insieme è il bersaglio delle sue provocazioni. Atene insiste: “La Grecia protegge i confini europei”. Tuttavia,

L’eterno avversario: la Francia

Caso dopo caso, Berlino si trova ripetutamente di fronte alla Francia. Sono le due potenze centrali dell’UE, e la storia del nostro continente è in gran parte quella dei loro scontri. La Germania è principalmente interessata all’idea europea nella misura in cui questa può far pendere a suo favore gli equilibri di potere tra i due paesi. Prendiamo l’esempio di questa idea, a priori simpatica, secondo la quale Parigi potrebbe rinunciare al suo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a favore dell’Unione europea. Sorpresa, sorpresa: ancora una volta la Germania intende “rafforzare” l’Europa sacrificando un… asset francese. Inoltre, l’UE ne trarrebbe ben poco. Infatti, finché gli Stati membri concordano su una posizione, è meglio avere diversi membri del Consiglio di sicurezza per difenderlo (un seggio equivale a un voto – e ci sono sempre uno o due paesi dell’UE tra i membri non permanenti). E se i Ventisette non dovessero trovare un accordo, la cosiddetta voce unica “comune” rimarrebbe in silenzio. Ovviamente a Berlino non interessa.

Lo stesso vale per il cambiamento climatico. La Germania ha deciso di chiudere al più presto tutte le sue centrali nucleari a favore delle energie rinnovabili (risultato: riprende la produzione di carbone, e Berlino punta, con Nord Stream 2, sull’aumento dei consumi di gas naturale. ). D’altra parte, quasi il 70% dell’elettricità francese proviene dal nucleare, una fonte non solo economica e permanente (affidabile sia in inverno che in estate), ma che riduce anche al minimo le emissioni di CO2. Tuttavia, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) e il Centro comune di ricerca (JRC) dell’UE affermano entrambi che l’energia nucleare, nonostante tutti i suoi difetti, è attualmente uno dei nostri migliori strumenti per passare a un modello senza carbonio, La Germania sta conducendo una dura battaglia contro di essa. Di recente è riuscita ad escludere il nucleare dai bond “verdi” dell’Ue, per un importo di 250 miliardi, a differenza dei cosiddetti progetti “transitori” sul gas naturale che vi troveranno posto.

Ancora una volta, gestendo bene le istituzioni dell’UE, Berlino sta lavorando per indebolire le risorse francesi, gettando nel processo gli interessi europei. Quando reindirizza le risorse e gli investimenti dell’UE a società e progetti tedeschi, distrugge anche le prospettive per l’energia nucleare europea. Che avrebbe però il multiplo vantaggio di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica per l’UE entro il 2050, di promuovere la competitività delle industrie, di garantire energia elettrica stabile a un prezzo accessibile anche ai cittadini, il tutto senza che l’Europa non cada in un mercato energetico dipendente da potenze esterne come Russia, Turchia o Stati Uniti.

Il settimanale tedesco Der Spiegel ha recentemente riassunto i 16 anni al potere della cancelliera Merkel sotto il titolo “Opportunità mancate”. Questa osservazione vale anche, se non soprattutto, per l’Europa. Il giornale cita il filosofo Jürgen Habermas, per il quale Angela Merkel ha cercato soprattutto la pace – da qui la grave mancanza di qualsiasi strategia degna di questo nome durante le crisi successive e l’attenzione sul solo armeggiare per far ripartire la macchina, senza fare di più. In effetti, c’è una ragione molto più profonda per questo ostinato rifiuto di imparare dalle difficoltà. Il problema, per la Germania, è che la maggior parte degli eventi degli ultimi quindici anni, dalla crisi finanziaria alla pandemia passando per la presidenza Trump, hanno confermato la rilevanza degli obiettivi francesi per l’Unione, sovente agli antipodi delle priorità tedesche.

Che si tratti di emancipazione dagli Stati Uniti (la famosa autonomia strategica), di riportare in Europa le filiere produttive, di rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, di necessità di un’agricoltura autosufficiente, di utilità del nucleare nella lotta al riscaldamento globale, o l’importanza degli eserciti e di un’industria degli armamenti indipendente in un contesto internazionale caratterizzato da una crescente rivalità tra poteri – il mondo intero è consapevole di queste tendenze e cerca di trarne le conseguenze. Ma la Germania, dal canto suo, si oppone con le unghie e con i denti a che l’Europa faccia lo stesso, per paura che ciò favorisca troppo il suo partner francese. Perché, ovviamente, perseguire una politica capace di dare risposte concrete a tutte queste sfide significherebbe, per l’Europa, intraprendere la strada che Parigi ha sempre raccomandato. In questo caso, l’influenza della Francia sarebbe rinforzata automaticamente e le sue risorse ancora esistenti sarebbero immediatamente valorizzate. Tuttavia, Berlino vuole evitare a tutti i costi un simile spostamento negli equilibri di potere tra i due paesi.

Il generale de Gaulle ha detto: “E’ destino della Germania che nulla possa essere costruito in Europa senza di lei”. D’altra parte, c’è da temere che con essa non ci possano essere che “anticipi” che, a ben guardare, finiranno sempre per giovare all’Europa molto meno che a Berlino.

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Un addio senza rimpianti_di Antonio de Martini

Domenica prossima 26 settembre le elezioni tedesche archivieranno l’ “ epoca Merkel”.
Ha regnato due anni più di Hitler e uno meno di Adenauer.
Sarà ricordata come una zelante burocrate di formazione DDR di cui i tedeschi non serberanno ricordo passati tre anni.
Avrebbe potuto concludere brillantemente il processo di integrazione europea iniziato da Adenauer, De Gasperi e Shuman, oppure rilanciare la Ost-politik di Bismarck e di Brandt, ma ha preferito fare la Kellerina degli Stati Uniti e scambiarsi occhiate di intesa con Sarkozy, un altro profugo dell’est di cui l’Europa avrebbe fatto volentieri a meno.
Gli esegeti la elogiano perché andava personalmente a fare la spesa e si é fatta fotografare a dieci anni di distanza con lo stesso vestito.
Pochino per quattro lustri di regno.
Ha fatto da zelante eco a tutte le dichiarazioni del Presidente USA che ne controllava le telefonate come a una cameriera sospettata di fare la cresta sulla spesa.
Accettò di chaperonare la Turchia per conto della NATO per ricondurla all’ovile coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
In casa, con politiche ambigue e rinunciatarie ha fatto rinascere una forte estrema destra nazionalista.
Anche il Parlamento Europeo sta sbarazzandosi dei suoi protetti.
Scialba e stinta ma stabile. Come un vecchio divano della casa di campagna, disponibile ad ogni uso, ma non é il salotto buono.
E’ stata l’ideale di una democrazia borghese, rassicurante perché imbelle; una miope amministratrice col braccetto corto.
Uno statista si distingue perché impone una cultura e/o lascia dietro di sè una squadra di eredi di cui la Germania sembra invece già ansiosa di sbarazzarsi.
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