Non dare alla pace troppe possibilità, di Aurelien

Niente è più pericoloso di un trattato di pace imperfetto.

C’è una differenza fondamentale tra uno stato di pace e un trattato di pace. La storia è piena di disastri provocati da trattati negoziati al momento sbagliato o imposti a partecipanti riluttanti. Non vogliamo ripeterci con l’Ucraina.

Nota: Parte di ciò che segue è tratto da un articolo commissionato alcuni anni fa da un think-tank europeo, ma mai pubblicato perché considerato troppo controverso. Nemmeno io ero pagato.

La nostra società considera la pace sempre preferibile al conflitto e alla guerra, o almeno in linea di principio. Gli operatori di pace sono benedetti e lo sono anche le loro produzioni, per quanto discutibili possano rivelarsi. L’annuncio di un trattato di pace o addirittura di un cessate il fuoco, come recentemente in Etiopia, è visto come una buona notizia senza ambiguità. Inoltre, si presume che la pace sia l’ordine naturale delle cose e che una volta affrontate le “cause sottostanti” e alcuni individui malvagi condannati per qualcosa o altro, allora la pace arriverà naturalmente e tutti la accoglieranno con favore.

Non è sempre stato così. Per la maggior parte della storia umana, la guerra è stata considerata normale e persino lodevole. Si ritiene che una pace troppo lunga, in alcune opere di Shakespeare, porti alla decadenza. La guerra, al contrario, è l’occasione per atti di valore ed eroismo, e i grandi capi erano generalmente grandi capi di guerra, e grandi capi di guerra erano coloro che avevano sbaragliato eserciti nemici, ucciso un gran numero di nemici con le proprie mani e bruciato le loro città e schiavizzarono il loro popolo. “Saul ha ucciso le sue migliaia, ma Davide le sue decine di migliaia”, cantavano esultanti le donne israelite nel primo libro di Samuele , senza mostrare molta preoccupazione per i parenti degli uccisi.

Ora, questo non vuol dire che alla gente comune piacesse necessariamente molto la guerra: era vista nel migliore dei casi come un male inevitabile, e in realtà vivere la Guerra dei Cent’anni, o la Guerra dei Trent’anni, deve essere stata un’esperienza terrificante e esperienza traumatizzante per molte persone. Ma anche così, il richiamo di “andare per un soldato”, di compiere azioni coraggiose e fare fortuna lungo la strada, sembra essere una parte persistente della psiche umana, recentemente visibile nel fango e nel sangue dell’Ucraina.

Tutto questo è cambiato progressivamente negli ultimi duecento anni, non perché il mondo sia cambiato, ma perché la narrativa dominante al riguardo è cambiata. Come ho sottolineato prima , il liberalismo non ha mai veramente compreso le questioni del conflitto e della pace. I conflitti “scoppiano”, le nazioni “cadono nella” violenza, a volte perché le persone coinvolte sono stupide, a volte perché “imprenditori della violenza” sfruttano “rimostranze reali anche se esagerate” per i propri scopi. Criticamente, i conflitti non riguardano mai davvero nulla, e quindi i negoziati di pace, accolti da tutti e idealmente facilitati da quel curioso animale bastardo che è la Comunità internazionale, possono invariabilmente risolvere anche le controversie più intrattabili se esiste la volontà, e la pace durerà se vengono affrontate le “cause sottostanti”.

Un momento di riflessione suggerisce che questo modello dei mali del mondo è tratto dal diritto contrattuale e dalle negoziazioni contrattuali, come gran parte del pensiero liberale. Un trattato di pace può quindi essere paragonato alla creazione di un cartello per controllare la vendita di un particolare prodotto in un particolare mercato. Ci saranno trattative dure, ma alla fine si potrà trovare un compromesso che soddisfi tutti. Poiché, nella visione liberale, il conflitto riguarda in ultima analisi il potere e le risorse, può essere risolto secondo la stessa logica: tanto per te, tanto per me. Il guaio è che il mondo nel suo complesso non funziona così.

In particolare, i conflitti di solito riguardano qualcosa nella pratica e sono spesso situazioni binarie a somma zero in cui qualcuno (di solito la parte più debole) perderà da qualsiasi accordo di pace. Quindi il “conflitto” in Medio Oriente, ad esempio, non riguarda l’odio e la sfiducia reciproci tra ebrei e palestinesi, ma piuttosto su chi deve possedere la terra dove i palestinesi hanno vissuto fino al 1949. Alla fine, tu ed io non possiamo possedere entrambi il stessa casa, e in un conflitto vincerà il più forte. Sebbene le cause profonde del conflitto possano teoricamente essere affrontate in un accordo di pace, in molti casi ciò è impossibile senza assegnare effettivamente la vittoria a una parte. Qui potremmo ricordare l’inversione di Michel Foucault della famosa formula di Clausewitz: la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. Anche quando un’autorità politica pone fine alla guerra, le future relazioni politiche sono ancorate all’equilibrio di forze alla fine del conflitto. Quindi i trattati di pace e le istituzioni che istituiscono non sono neutrali, ma riflettono l’equilibrio del potere politico e militare al momento della firma.

Allo stesso modo, il presupposto che il conflitto sia essenzialmente irrazionale (o non si verificherebbe), e quindi possa essere risolto attraverso i valori liberali della razionalità e della logica, in realtà sottovaluta l’importanza degli stessi motivi irrazionali. L’osservazione di David Hume secondo cui “la ragione è schiava delle passioni” è stata confermata in modo spettacolare dalle scoperte della moderna neuroscienza, che ci dice che la maggior parte delle decisioni sono effettivamente prese dalla nostra mente inconscia su basi emotive, e che la mente cosciente serve in gran parte a fornire post giustificazioni razionali ad hoc . Ecco perché il ruolo della paura nel provocare e prolungare il conflitto è così poco compreso. La paura, infatti, è il singolo più grande generatore di conflitti, e per definizione non è affrontabile con argomentazioni razionali o con l’attenta stesura degli articoli dei trattati di pace. Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Burundi al tempo della crisi ruandese ha commentato in un’intervista che ciò di cui quel Paese aveva bisogno non erano le forze di pace ma gli psichiatri: “hanno tutti paura l’uno dell’altro. Quando stringo loro la mano sono grondanti di sudore”. In tali circostanze, non c’è motivo di fidarsi di nessuno e ogni motivo per vedere cospirazioni ovunque.

I presupposti liberali vedono anche la pace e il conflitto come opposti binari. Non sembra necessariamente così sul terreno. Molti sistemi politici esistono in uno stato di costante lieve conflitto, attraversando uno spettro a seconda della situazione politica. La violenza è quindi uno strumento come un altro, da usare quando è opportuno, e da lasciare da parte a favore della trattativa o della politica quando non è produttiva. In un paese come il Libano, ad esempio, la violenza è un linguaggio in cui diverse fazioni e i loro sponsor stranieri parlano e negoziano tra loro. Lo spettro spazia da violente manifestazioni di piazza ad omicidi, autobombe e conflitti aperti, ognuno dei quali invia un messaggio calibrato, che viene compreso dagli altri. Chiaramente, un “accordo di pace” in tali circostanze è irraggiungibile, e credere che sia stato effettivamente negoziato è pericoloso.

Né gli accordi di pace sono universalmente popolari: anzi, il conflitto ha molti vantaggi, sia per i grandi che per i piccoli. Porta attenzione politica, denaro, investimenti e operatori umanitari stranieri e truppe con denaro da spendere. Negli ultimi anni è diventato sempre più evidente come certi conflitti continuino perché è nell’interesse di tutti i principali attori che lo facciano. (Altrimenti è inconcepibile che il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo sia durato così a lungo). Definire queste persone “spoiler” è poco adeguato: per la maggior parte stanno semplicemente rispondendo in modo intelligente ai dettami e alle opportunità della situazione.

Quindi ci sono molte ragioni per volere che un conflitto di basso livello continui, con solo perdite modeste e corrispondenti pochi incentivi per arrivare a una vera pace, dove come ci ricorda David Keen in un importante studio , “… le funzioni politiche ed economiche della guerra non scomparire semplicemente…. la pace è spesso molto violenta, mentre il dopoguerra si rivela, troppo spesso, un periodo prebellico». Quindi è più probabile che il leader intelligente di un paese o di una fazione, a meno che non stia perdendo male, preferisca la quantità nota di conflitto alle incertezze della pace. Ciò non significa, ovviamente, che parlare di pace, o anche firmare un accordo di pace, sia escluso se ciò è tatticamente vantaggioso. Ma nella maggior parte delle culture diverse dalla nostra, la firma di un accordo di pace è una decisione politica, mentre la sua attuazione è un’altra. In ogni caso, prima di promettere di firmare e rispettare un accordo di pace, un leader intelligente si farà due domande:

  • · La firma di questo accordo di pace favorirà i miei obiettivi politici?
  • · Se lo implemento, sarò ancora vivo alla fine di un certo periodo minimo?

Eppure, nonostante tutte queste difficoltà e debolezze, i trattati di pace vengono quasi sempre firmati, anche se in seguito sfociano in conflitti. Perchè è questo?

Innanzitutto, è importante distinguere tra due tipi di trattati efficaci. Uno (spesso, in pratica un armistizio) può essere considerato un trattato amministrativo . Anche la resa incondizionata deve essere organizzata in qualche modo, dopotutto. Tradizionalmente, tali trattati venivano imposti ai vinti dal vincitore (la sconfitta francese del 1870-71 ne è un buon esempio), ed era normale che la parte perdente pagasse le spese della parte vittoriosa, come in una causa giudiziaria. Questo era il modello ancora in funzione all’epoca dei negoziati di Versailles.

Il secondo è un trattato sostanziale , in cui le differenze devono essere appianate, gli obiettivi confrontati l’uno con l’altro e, si spera, deve essere concordata una soluzione politica duratura. Si tratta di un tipo di trattato tipico delle guerre a obiettivi limitati della prima età moderna, come il trattato di Utrecht del 1713, che pose fine alla guerra di successione spagnola. In tali trattati, tutti concordano sul fatto che la guerra è durata abbastanza a lungo, che è improbabile che ulteriori combattimenti risolvano qualcosa, ed è giunto il momento di parlare. Nel 1713 era chiaro che i francesi avrebbero scelto un nuovo re in Spagna, ma c’erano tutta una serie di altre questioni da risolvere tra i governanti d’Europa.

Curiosamente, la maggior parte dei trattati di pace negoziati nei tempi moderni non rientra in nessuna di queste categorie. Forse è per questo che così tanti di loro falliscono e portano a ulteriori conflitti. Questi trattati tendono ad essere imposti, o almeno fortemente incoraggiati e facilitati, dall’esterno, da nazioni e individui che condividono idee largamente liberali sulla pace e la sicurezza, e quindi piuttosto dissociati dalla realtà. Ora, mentre tutte queste idee non sono molto evidenti nel caso della guerra in Ucraina al momento (piuttosto, le stesse onde radio stanno cedendo sotto il peso della sete di sangue liberale-umanitaria) arriverà un punto in cui “i colloqui di pace ” sono necessarie, o almeno possibili, e in quel momento quasi sicuramente riaffioreranno le tradizionali idee liberali. Ho già suggerito che dobbiamo diffidarne in linea di principio: ecco alcuni casi in cui hanno funzionato in modo disastroso nella pratica e che possono fornire spunti di riflessione nel contesto dell’Ucraina.

Uno è il predominio da parte di estranei, che possono influenzare pesantemente una o più parti e in effetti fornire gran parte del materiale per il trattato finale stesso. Ciò è accaduto a Versailles e ai negoziati associati, dove Wilson e la delegazione americana hanno beneficiato del loro status di banchiere delle potenze dell’Intesa e del suo status di capo di stato. Sono arrivati ​​anche con un programma normativo significativo e poca conoscenza ed esperienza pratica sia dell’Europa e del Medio Oriente, sia dell’arte della negoziazione. La Conferenza di Parigi è stata anche la prima in cui un gran numero di Stati o non erano rappresentati come negoziatori, o nella migliore delle ipotesi erano in modalità supplichevole, chiedendo favori a inglesi, francesi e americani. Le grandi potenze erano, in larga misura, in grado di disporre come meglio credevano.

Questo modello continua oggi, con l’ulteriore complicazione che i negoziati di pace possono essere dominati non solo da stati esterni, ma anche da politici e media nelle capitali nazionali lontane dall’azione. Durante il conflitto in Bosnia, un armistizio generale sarebbe stato possibile in qualsiasi momento dopo il 1993, probabilmente sulla falsariga del Piano di pace Vance-Owen. Ma l’opinione politica in un certo numero di capitali occidentali lontane dall’azione e dal costante accrescimento di cadaveri, ha ostacolato qualsiasi accordo che “ricompensasse l’aggressione”, indipendentemente dal fatto che la gente del posto lo volesse. Nelle parole agghiaccianti di un politico olandese, ciò che serviva era “un accordo che soddisfi il nostro senso di giustizia”. Ma non era solo, e il governo americano, sollecitato da influenti Ong, è riuscito per qualche tempo a ostacolare la pace. Commenti simili sono già stati fatti sull’Ucraina. Questo atteggiamento di moralismo distaccato, lontano dalla realtà sul campo, può portare a negoziazioni di pace strutturate per soddisfare le esigenze dei sistemi politici al di fuori della zona di conflitto.

Nel caso dell’Ucraina, sembra abbastanza ovvio che, una volta che l’Occidente si sarà avvicinato all’idea dei negoziati, è probabile che voglia tentare di determinarne l’esito. Ma dal momento che l’Occidente avrà poca o nessuna influenza sui russi, cercherà di compensare microgestendo la parte ucraina. Ciò avrà (almeno) due ovvie conseguenze. Una sarà quella di mettere ciò che è “accettabile” per l’Occidente, e ciò che può essere venduto ai cittadini, ai parlamenti e ai media, prima di qualsiasi considerazione degli interessi del popolo ucraino, o addirittura delle prospettive di pace. La tentazione, infatti, sarà quella di cercare di costringere gli ucraini a prendere nei negoziati una linea più dura di quanto sia effettivamente ragionevole, o addirittura praticabile. Un altro è che qualsiasi unità di intenti che l’Occidente possa avere all’inizio evaporerà rapidamente e diversi paesi occidentali, individualmente o in combinazione, negozieranno separatamente con diverse fazioni all’interno o all’esterno del governo ucraino.

Gli stessi attori esterni, ovviamente, hanno i loro programmi gli uni con gli altri e nel proprio paese, e molto dipende dal fatto che abbiano uno status ufficiale nei colloqui. È difficile immaginare che gli Stati Uniti, la NATO e l’Unione Europea semplicemente osserveranno da lontano qualsiasi negoziato sull’Ucraina senza cercare di influenzarli, ma ovviamente più attori ci sono in un negoziato, più geometricamente diventa complesso. È probabile che le relazioni tra questi attori (che comunque in gran parte si sovrappongono) diventino tese molto rapidamente. C’è anche una differenza fondamentale tra facilitare i negoziati con competenze e aiuti logistici, e limitarsi a mettersi in mezzo e cercare di influenzare il risultato. L’accordo globale di pace per il Sudan del 2005, ad esempio, ideato in gran parte dall’estero, ha prodotto un testo troppo complesso e ambizioso per essere attuato e ha portato alla fine all’indipendenza e poi all’implosione del Sud Sudan. In ogni caso, non è raro che anche i negoziati formali siano destabilizzati dalle attività di singoli grandi attori: un esempio sono i negoziati sullo Statuto di Roma del 1998, dove altre parti si sono adoperate per accogliere gli Stati Uniti nella formulazione del trattato finale, solo per scoprire che il presidente Clinton aveva paura di sottoporlo al suo Senato per la ratifica.

Un altro rischio è un approccio eccessivamente tecnico a problemi che sono in realtà profondamente politici e potrebbero non avere una soluzione facile. Sebbene il discorso culturale popolare della prima guerra mondiale, seguendo la guida della letteratura degli anni ’20, parli di una “guerra inutile” piena di “strage insensata” che “non ha risolto nulla”, la verità è piuttosto diversa. La guerra ebbe la sua origine ultima nella logica della sostituzione dei possedimenti imperiali sparsi con nuovi stati-nazione, e nei conseguenti problemi di quali sarebbero stati i confini di questi stati-nazione, e come sarebbero stati fissati. (La risposta alla seconda domanda è stata sfortunatamente semplice: è stata con la violenza.) In pratica questo si è risolto nel futuro degli imperi asburgico, ottomano e romanov, e se ognuno di loro poteva contenere le proprie pressioni centripete interne. Altri temi sussidiari includevano, chi avrebbe controllato gli ex territori ottomani se quell’impero fosse crollato, e dove sarebbero stati i confini tra gli stati successori degli imperi Romanov e Asburgico, così come la piccola questione se la Francia o la Germania sarebbero stati i principali potere militare in Europa.

A queste domande è stata data una certa risposta dalla guerra stessa, così come dagli anni di conflitto che seguirono, e dalla serie di trattati solitamente indicati come “Versailles”. In difesa di Lloyd George, Wilson e Clemenceau, si può dire che hanno fatto del loro meglio, di fronte a problemi intellettualmente e politicamente molto più complessi di quanto potessero affrontare. Ma il loro approccio effettivo ricordava un negoziato del diciottesimo secolo in cui i territori venivano scambiati tra sovrani, piuttosto che un mondo in cui i sentimenti nazionalisti popolari e la politica democratica cominciavano ad avere una reale influenza. Quindi probabilmente sembrava un’idea intelligente assegnare i Sudeti di lingua tedesca al neonato stato della Cecoslovacchia per dotarlo di una frontiera difendibile. Che cosa potrebbe andare storto?

In molti modi, quell’incapacità di cogliere lo stesso quadro generale che vediamo più chiaramente ora, è parallela all’incapacità delle nostre élite politiche, intellettuali e mediatiche di capire cosa sta succedendo oggi in Ucraina e, cosa più importante, intorno. Quello che stiamo vedendo sono in realtà due cose: il definitivo allentamento delle tensioni inerenti alla situazione alla fine della seconda guerra mondiale, e la successiva creazione di un nuovo ordine di sicurezza in Europa, dove prevarranno o gli Stati Uniti o la Russia. E se entrambi questi punti sembrano avere echi del periodo 1914-21, ebbene forse sì: in tal senso è giusto dire che la prima guerra mondiale “non ha risolto nulla” perché gli insediamenti definitivi nella storia sono rari. Come accadeva un secolo fa, questi grandi problemi intrattabili contengono molti piccoli problemi intrattabili, come le ultime disposizioni per la disposizione delle repubbliche dell’ex Unione Sovietica, il destino dei confini stabiliti con la forza dopo il 1945, il progressivo lo svuotamento delle popolazioni dei paesi in declino dell’Est e la questione se la Francia o la Germania debbano essere l’attore dominante in Europa. Tra gli altri, ovviamente.

Nel 1914, l’insieme delle tensioni politiche che esistevano in Europa produsse una situazione che non poteva essere risolta pacificamente: Francia e Germania non potevano scambiarsi la proprietà dell’Alsazia e della Lorena a settimane alterne, e la Polonia esisteva o non esisteva. Il risultato è stata la violenza. Allo stesso modo, oggi, l’apparentemente irresistibile marcia verso est del liberalismo normativo si è scontrata direttamente con la massa genuinamente inamovibile dell’opposizione russa. In teoria, quest’ultimo caso avrebbe potuto essere risolto, almeno per un po’, ma come ho sostenuto , ciò sarebbe avvenuto a costo di creare una crisi esistenziale nella cultura liberale occidentale. In pratica, la collisione era probabilmente inevitabile.

Ora è importante non lasciarsi trasportare dai confronti storici. Una guerra generale in Europa non accadrà ora, anche perché l’Occidente in senso lato non ha i mezzi per combatterla. Ma i due momenti sono, direi, di gravità e significato paragonabili. Ciò significa che i tentativi di rimediare al problema ritarderanno solo il peggio, e il peggio sarà probabilmente peggiore di quanto sarebbe stato altrimenti. L’unica cosa che, forse, stabilizzerà la situazione è se le sarà permesso di svolgersi completamente, cosa che probabilmente accadrà comunque. (Spiegherò quel commento gnomico tra un momento.)

Un ultimo rischio (ne bastano tre) è che i partecipanti ai negoziati semplicemente non abbiano alcun reale interesse a concluderli positivamente. Sembra ovvio, ma c’è stata una storia decennale di forzatura di un accordo – qualsiasi accordo – tra le parti di un conflitto armato, per poi rimanere scioccati quando va terribilmente storto. Il classico caso moderno è il trattato di pace di Arusha del 1993 per il Ruanda, che ha diviso il paese, il governo e le forze di sicurezza, più o meno equamente tra l’RPF, rappresentanti della vecchia classe aristocratica in esilio, e l’allora governo di coalizione esistente a Kigali , escludendo tutte le altre forze politiche. In un Paese e in una regione dove le stragi erano uno strumento tradizionalmente basilare della politica, ed era sempre stato assente il concetto stesso di negoziazione e compromesso, lo stesso Trattato destabilizzò la situazione e rese di fatto inevitabile una ripresa della guerra, con le terribili conseguenze che seguito.

Ma può essere vero anche il contrario. Dopo il rilascio di Nelson Mandela nel 1990 e la revoca del bando dell’ANC e del Partito Comunista, le varie parti hanno dovuto trovare una via da seguire. Sebbene ci fossero piccoli gruppi di intransigenti in luoghi diversi, la stragrande maggioranza degli attori (come la stragrande maggioranza della popolazione) ha riconosciuto che le uniche scelte erano un accordo di qualche tipo o un’apocalittica spirale mortale per il paese. Non c’è niente che concentri così tanto la mente sulla ricerca di soluzioni come la prospettiva della distruzione se non ci riesci. E in tal senso, se molti degli accordi presi tra il 1990 e il 1994 possono essere, e sono stati, pesantemente criticati, ciò non toglie che la volontà politica condivisa di uscire dall’impasse sia riuscita ad appiattire tutti gli ostacoli.

Nel caso dell’Ucraina, è importante distinguere diversi tipi di “accordi”, ciascuno dei quali può essere soggetto ad alcuni dei problemi sopra discussi. Potrebbe essere utile prenderli in sequenza. In primo luogo, la fine di qualsiasi combattimento richiede accordi tecnici di qualche tipo. Ci sarà una linea oltre la quale i russi non intendono andare, ci saranno problemi di sicurezza e ordine pubblico nelle città vicine, molti casi di persone che devono transitare sulla linea di controllo, sicurezza da entrambe le parti, indagini sulle violazioni dell’accordo, e così via. Tali accordi sono meglio negoziati a livello locale da coloro che dovranno attuarli. La storia suggerisce che gli “osservatori internazionali” e ancor più le forze di interposizione, nel migliore dei casi non aggiungono nulla e nel peggiore dei casi possono essere manipolati e diventare parte del problema.

Tali accordi provvisori a un certo punto dovranno essere inclusi in un accordo che stabilisca i futuri confini e la composizione politica dell’Ucraina. La storia suggerisce che non è ragionevole aspettarsi troppo dai documenti, perché la pressione per raggiungere un accordo porta inevitabilmente a compromessi, che potrebbero essere deplorati e persino abbandonati in seguito. In particolare, è difficile credere che qualsiasi governo ucraino immediatamente prevedibile sarebbe abbastanza unito e avrebbe abbastanza controllo del paese da firmare e attuare un accordo vincolante. Come precedente storico, si consideri il caso del trattato anglo-irlandese del 1921, aspramente divisivo, che richiese importanti concessioni da entrambe le parti. FE Smith, uno dei negoziatori britannici, ha detto in seguito a Michael Collins, capo della delegazione irlandese: “Potrei aver firmato la mia condanna a morte politica”. A cui Collins ha risposto, prescientemente “Potrei aver firmato la mia vera condanna a morte”. Fu assassinato pochi mesi dopo. Oppure si consideri il caso dei delegati dell’UCK ai colloqui di Rambouillet sul Kosovo nel 1999, dove il capo della delegazione (che in realtà era solo un portavoce dei comandanti militari) era obbligato a dire alla delegazione statunitense che se avesse firmato il trattato proposto nel testo, sarebbe stato ucciso al suo ritorno.

Tutto ciò suggerisce che non ha molto senso cercare di negoziare una soluzione politica onnicomprensiva per l’Ucraina, con un insieme ampio ed elaborato di strutture per l’attuazione. Un simile insediamento conterrebbe probabilmente in sé i semi della sua distruzione: grossolanamente, come abbiamo visto, più complesso è l’insediamento, maggiore è il margine per le cose che vanno male. Al contrario, i contorni spogli di un insediamento – un’Ucraina smilitarizzata e un po’ più piccola senza alcuna influenza occidentale – sono facili da capire e anche essenzialmente robusti. È questo che bisognerà tenere presente, anche se il legalismo russo e l’inevitabile tendenza dei negoziati a sollevare problemi complessi che invitano a soluzioni complesse lo renderanno difficile. Il coinvolgimento di parti esterne dovrebbe essere contrastato il più possibile, perché in realtà c’è poco che possano contribuire ed è improbabile che una particolare parte esterna sia accettabile per entrambe le parti. E tale coinvolgimento porta i suoi problemi: la convenzione secondo cui un governo degli Stati Uniti non è vincolato dai trattati firmati dal suo predecessore, per esempio, è inutile.

Infine, c’è la questione più ampia del nuovo ordine di sicurezza in Europa che emergerà dopo il conflitto. Anche in questo caso, non è molto utile parlare di trattati e accordi formali, perché, nella misura in cui saranno presenti, sarà un esercizio di riordino quando i principali contorni politici si saranno già aggiustati. In effetti, è un classico errore supporre che gli accordi formali cambino le cose: non lo fanno. Quelli di successo, almeno, registrano semplicemente il fatto che le cose sono già cambiate. Il problema fondamentale di questo nuovo ordine di sicurezza è facile da enunciare: solo una potenza esterna può avere un’influenza decisiva sull’Europa occidentale. Possono essere gli Stati Uniti o la Russia, ma non possono essere entrambi allo stesso tempo. Dopo il 1945, ci fu una demarcazione geografica tra i due, e c’erano regole non scritte che la sostenevano. Sebbene non ci sia mai stato un trattato di guerra fredda, la situazione era notevolmente stabile e le due grandi potenze generalmente evitavano sfide dirette l’una con l’altra. Dopo il 1989, gli Stati Uniti sono avanzati costantemente, fino a quando non hanno colpito un muro di mattoni all’inizio di quest’anno. Ora è possibile vedere una nuova dispensa, non senza gli Stati Uniti del tutto, dal momento che la vita non funziona così, ma con un ruolo americano nettamente ridotto in Europa e il riconoscimento de facto dell’influenza russa. La NATO probabilmente continuerà in qualche forma, e potrebbero anche esserci alcune unità militari statunitensi aggrappate alla periferia, ma questo sarà in gran parte teatro. Ora non c’è motivo di pensare che i russi vorranno emulare le pratiche statunitensi di coinvolgimento diretto con paesi europei, basi militari e così via, e in effetti non ne hanno bisogno. Sarebbe sufficiente un riconoscimento generalmente inteso ma tacito che il nuovo regime è: americani fuori, russi dentro e tedeschi (ancora) giù.

Più a lungo va avanti la guerra, più è probabile che appaiano sul terreno il secondo e il terzo di questi insediamenti, dopodiché potrebbe non essere nemmeno necessario formalizzarli in un trattato. Nessuno, ovviamente, vuole che le guerre continuino per il gusto di farlo, ma, come ho sostenuto, i tentativi di utilizzare negoziati e trattati per fermare i conflitti che in realtà hanno una dinamica inarrestabile non fanno che peggiorare le cose alla fine. Al contrario, alcune guerre, come quella in Bosnia, alla fine finiscono quando le parti sono esaurite. Per quanto l’idea possa sembrare poco allettante, alcune crisi devono solo essere lasciate a risolversi da sole, se mai ci sarà un risultato stabile che abbia una possibilità di durare.

https://aurelien2022.substack.com/p/dont-give-peace-too-many-chances?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=87811858&isFreemail=true&utm_medium=email

La geopolitica energetica della Russia con Cina e India_di Andrew Korybko

Due precisazioni: dalle dinamiche geoeconomiche a quelle geopolitiche il passaggio non è così scontato; la connessione diretta ai confini con la Cina favorisce economicamente quest’ultima e i rapporti commerciali Russia-Cina ammontano ancora a sei volte quelli Russia-India. Rimangono l’interesse per un riequilibrio geopolitico della posizione dei russi e la tradizione di lunghi rapporti politici e militari tra Russia e India. Buona lettura, Giuseppe Germinario

I punti principali di questa analisi sono diversi. In primo luogo, la geopolitica energetica della Russia con Cina e India è reciprocamente vantaggiosa. In secondo luogo, la strategia di diversificazione energetica della Cina è bilanciata dall’insaziabile appetito dell’India per le risorse russe scontate. In terzo luogo, l’India sta rapidamente sostituendo la Cina come principale partner della Russia. In quarto luogo, né le suddette discussioni né le discussioni sino-americane in corso su una nuova distensione sono a somma zero per Mosca o Pechino. E finalmente sta emergendo un nuovo equilibrio strategico globale.

Il nucleo RIC della transizione sistemica globale

La Cina e l’India sono i due principali partner della Russia nel mondo, con i quali collabora strettamente sia a livello bilaterale che multilaterale attraverso i BRICS e la SCO . Collettivamente indicati come RIC, sono le forze trainanti nella transizione sistemica globale verso il multipolarismo . Tutti e tre prevedono di riformare le relazioni internazionali in modo che siano più democratiche, uguali e giuste, con un grande passo in quella direzione compiuto attraverso la cooperazione energetica reciprocamente vantaggiosa di Cina e India con la Russia.

Il ruolo della geopolitica energetica nella nuova guerra fredda

Prima di descrivere in dettaglio le dinamiche delle relazioni energetiche della Russia con entrambi, è importante sottolineare rapidamente come ciò aiuti in primo luogo a far avanzare il multipolarismo. In poche parole, garantire la sicurezza energetica delle grandi potenze asiatiche stabilisce una solida base economica su cui accelerare ulteriormente il loro sviluppo. Questo a sua volta stabilizza le loro società, scongiura complotti di divide et impera guidati dall’esterno e li rende forze più potenti da non sottovalutare in tutto il Sud del mondo.

È in quei paesi che comprendono la maggior parte dell’umanità che la Nuova Guerra Fredda dovrebbe essere combattuta più ferocemente per procura. Questa competizione mondiale è tra il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e il Sud del mondo guidato congiuntamente da BRICS e SCO (o maggioranza globale come gli studiosi russi hanno recentemente iniziato a descriverlo) sulla direzione della transizione sistemica globale. Il primo vuole mantenere l’unipolarità mentre il secondo lavora attivamente per costruire un futuro multipolare.

L’asse energetico russo-cinese

Dopo aver spiegato il grande contesto strategico in cui si sta svolgendo la geopolitica energetica della Russia con Cina e India, è giunto il momento di dettagliare ciascuno di questi due assi. A partire da quello russo-cinese, l’energy business forum di martedì ha visto la condivisione di alcune importanti informazioni sui loro legami. Il CEO di Rosneft Igor Sechin ha rivelato che la Russia è ora il principale fornitore di petrolio della Cina dopo aver fornito il 7% delle sue importazioni e si aspetta che le consegne di GNL diventino pari alle forniture di gasdotti nel prossimo futuro.

Il vice primo ministro russo Alexander Novak ha ribadito la loro stretta collaborazione nel settore energetico e ha suggerito che lo sviluppo e la produzione congiunta di attrezzature potrebbe diventare la fase successiva in questo senso. Ha anche rivelato che stanno sviluppando un sistema di accordi per aggirare lo SWIFT e condurre scambi di valute nazionali. Infine, è stata letta una dichiarazione del presidente cinese Xi sull’intenzione del suo Paese di rafforzare ulteriormente i suoi legami energetici con la Russia, in particolare sulle rinnovabili.

L’asse energetico russo-indiano

Passando all’asse energetico russo-indiano, le importazioni di petrolio del suo partner da parte dello stato dell’Asia meridionale sono aumentate di oltre 50 volte dall’inizio dell’operazione speciale di Mosca Gli ultimi dati della società del mercato finanziario statunitense Refinitiv , che per coincidenza sono stati rilasciati più o meno nello stesso periodo del forum sul business energetico russo-cinese di questa settimana, hanno mostrato che l’India ha acquistato il 40% del petrolio russo di qualità degli Urali, rendendola così il più grande importatore di Mosca di questa risorsa e Il principale partner energetico di Delhi con il 22% del totale.

Mentre i dati hanno anche mostrato che la Cina ha importato 1,82 milioni di barili al giorno in ottobre rispetto al picco dell’India di 935.556, ha anche rivelato che il primo ha rappresentato solo il 5% delle esportazioni marittime degli Urali a novembre, anche se gli esperti prevedono che alcune petroliere dirette altrove cambieranno successivamente le loro destinazione per la Repubblica Popolare. In ogni caso, il significato dei suddetti dati è che la Cina è il principale partner energetico della Russia, ma la stragrande maggioranza delle sue importazioni avviene tramite oleodotti mentre l’India avviene via mare.

Confronto e contrasto

Questa osservazione fornisce chiarezza ai recenti rapporti secondo cui alcuni acquirenti cinesi avrebbero sospeso le loro importazioni di petrolio russo prima dell’incombente price cap dell’Occidente che entrerà in vigore il 5 dicembre. Mentre questo potrebbe probabilmente essere interpretato come un tacito “gesto di buona volontà” da parte della Repubblica popolare nei confronti del suo rivale americano per facilitare le loro discussioni in corso su una nuova distensione , è in gran parte superficiale poiché la maggior parte di tali importazioni di petrolio russo avviene tramite oleodotti, quindi ha vinto ‘t influenzare in modo significativo i legami bilaterali.

L’India, nel frattempo, ha respinto con orgoglio pressioni senza precedenti su di essa da parte dei suoi partner nel Golden Billion per continuare ad espandere in modo completo la sua cooperazione energetica reciprocamente vantaggiosa con la Russia. Nel grandioso contesto strategico della Nuova Guerra Fredda, questa è stata una potente mossa di sfida multipolare considerando il desiderio di Delhi di trovare un equilibrio tra i due blocchi de facto. Senza esagerare, ha svolto un ruolo indispensabile nell’accelerare l’ascesa di quel paese a Grande Potenza di rilevanza mondiale .

Acquisti cinesi di oleodotti contro acquisti marittimi indiani

Alla luce delle intuizioni finora condivise in questa analisi sulle dinamiche della geopolitica energetica della Russia con la Cina e l’India, emergono alcune tendenze emergenti. In primo luogo, la Cina continuerà a fare affidamento principalmente sugli oleodotti russi per ricevere il petrolio del paese vicino, mentre l’India continuerà a fare affidamento sulle rotte marittime. Il primo è più economico in quanto riguarda contratti a lungo termine con prezzi fissi mentre il secondo potrebbe essere un po’ più costoso a causa della loro assenza, ma questo non è scontato.

Questo porta l’analisi alla seconda tendenza emergente ed è che il ruolo di primo piano dell’India come principale importatore di energia per via marittima della Russia e la sua volontà politica nel garantire in modo indipendente i suoi interessi nazionali nonostante la pressione straniera le conferiscono un’influenza sproporzionata nella grande pianificazione strategica di Mosca. La dipendenza sproporzionata del Cremlino dalle esportazioni di energia per attutire il colpo alle sue entrate annuali inflitto dalle sanzioni dell’Occidente potrebbe portare anche a Delhi offerte allettanti a lungo termine.

Le conseguenze della strategia cinese di diversificazione energetica  

In terzo luogo, il “gesto di buona volontà” in gran parte superficiale della Cina nei confronti degli Stati Uniti, dopo che alcuni dei suoi importatori avrebbero interrotto l’acquisto di petrolio russo prima dell’incombente tetto massimo, potrebbe liberare più petrolio marittimo da acquistare da parte dell’India, accelerando così la tendenza precedente. Inoltre, la diversificazione energetica attiva di Pechino rispetto al suo recente accordo GNL da 60 miliardi di dollari per 27 anni con il Qatar potrebbe gradualmente erodere la posizione di Mosca come principale fornitore di energia.

Tale sviluppo potrebbe essere accelerato nel caso in cui la Cina riprenda il suo impegno de facto congelato per la prima fase dell’accordo commerciale dell’era Trump per l’acquisto di 50 miliardi di dollari di esportazioni di energia dagli Stati Uniti per facilitare la nuova distensione o premiare Washington per eventuali concessioni potenziali come ritardare a tempo indeterminato le spedizioni di armi a Taiwan. Ciò non significa che l’impegno del presidente Xi di rafforzare i legami energetici con la Russia non sarà rispettato, ma solo che l’impatto potrebbe non essere quello previsto.

Piuttosto, il punto negli ultimi due paragrafi è che la pragmatica strategia di diversificazione energetica della Cina non influirà in modo significativo sulle relazioni con la Russia a causa dei loro accordi di gasdotti esistenti e di quelli sperati di GNL come suggerito da Sechin, ma potrebbe liberare ancora più risorse per l’India da comprare. Mosca sarebbe incline ad estendere i termini preferenziali a Delhi per raggiungere accordi a lungo termine per garantire la stabilità di bilancio, alimentando al contempo l’ascesa del suo partner come Grande Potenza di importanza globale.

La quarta tendenza è quindi che i legami energetici russo-cinesi rimarranno stabili (anche se cambieranno gradualmente forma passando maggiormente al GNL e infine alle rinnovabili) mentre quelli russo-indiani continueranno a crescere. Il limite del secondo sarà solo la capacità produttiva della Russia e la continua volontà politica dell’India di sfidare la pressione occidentale. Questi possono essere corretti attraverso investimenti congiunti e aprendo la strada a un sistema di pagamento dedollarizzato non SWIFT come quello tra Russia e Cina.

Russia-India > Russia-Cina

Infine, l’ultima tendenza è che il partenariato strategico russo-indiano sta rapidamente sostituendo quello russo-cinese in termini di importanza per la grande strategia di Mosca. Questo non vuol dire che i legami russo-cinesi si deterioreranno – niente affatto! – ma solo che si stanno “normalizzando” di fronte alla lotta di Pechino per ricalibrare la sua grande strategia a causa degli sconvolgimenti sistemici globali causati dal conflitto ucraino e delle discussioni in corso con Washington su una nuova distensione che si stanno verificando di conseguenza.

Questi ultimi sviluppi non sono nulla di negativo per le relazioni russo-cinesi, ma suggeriscono che la cosiddetta “epoca d’oro” dei loro legami in cui si presumeva ( col senno di poi inesatto ) fosse sulla stessa identica pagina con uno un altro a tutti gli effetti è finito silenziosamente. Continueranno a lavorare a stretto contatto per riformare le relazioni internazionali nella direzione multipolare attraverso la de-dollarizzazione e forum multilaterali come i BRICS, ma stanno sempre più facendo le cose a modo loro.

Al contrario, le grandi strategie della Russia e dell’India sono rapidamente confluite da febbraio quando entrambe le grandi potenze si sono rese conto di quanto siano sempre state complementari rispetto alla loro visione condivisa di rompere l’ impasse bi-multipolare della transizione sistemica globale. Nessuno dei due voleva perpetuare indefinitamente il duopolio della superpotenza sino-americana che altrimenti avrebbe potuto radicarsi nelle relazioni internazionali, ecco perché si sono sforzati insieme di distruggerlo nell’ultimo anno.

Pensieri conclusivi

I punti principali di questa analisi sono diversi. In primo luogo, la geopolitica energetica della Russia con Cina e India è reciprocamente vantaggiosa. In secondo luogo, la strategia di diversificazione energetica della Cina è bilanciata dall’insaziabile appetito dell’India per le risorse russe scontate. In terzo luogo, l’India sta rapidamente sostituendo la Cina come principale partner della Russia. In quarto luogo, né le suddette discussioni né le discussioni sino-americane in corso su una nuova distensione sono a somma zero per Mosca o Pechino. E finalmente sta emergendo un nuovo equilibrio strategico globale .

La Turchia sta annegando nelle opportunità, di Kamran Bokhari

Ma i vincoli interni limiteranno la capacità di Ankara di capitalizzare.

In quasi tutte le direzioni, l’ambiente strategico della Turchia presenta opportunità per Ankara. I turchi trarranno vantaggio in particolare dalle crisi parallele che devono affrontare la Russia e l’Iran. Detto questo, lo stato dell’economia politica della Turchia è un serio vincolo. Ciò significa che ci sono limiti a quanto nell’immediato la Turchia potrà trarre vantaggio dagli spostamenti in atto nel bacino del Mar Nero e nel versante meridionale del Paese con il Medio Oriente.

Spazio per crescere

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in un discorso del 23 novembre in parlamento ha affermato che le operazioni aeree della Turchia contro le forze curde siriane nel nord della Siria sono solo l’inizio di un’offensiva terrestre molto più ampia che Ankara lancerà quando opportuno. Erdogan ha affermato che il suo paese è più determinato che mai a proteggere il suo confine meridionale espandendo il suo “corridoio di sicurezza” esistente all’interno del territorio siriano. Il giorno prima, Reuters ha riferito che gli aerei da guerra turchi hanno attraversato per la prima volta lo spazio aereo controllato dalla Russia e dagli Stati Uniti sopra la Siria per attaccare le posizioni separatiste curde siriane come rappresaglia per un attentato del 13 novembre a Istanbul. Un anonimo alto funzionario turco ha affermato che i turchi hanno coordinato i bombardamenti dell’F-16 con le autorità statunitensi e russe.

Controllo territoriale nel nord della Siria |  novembre 2022
(clicca per ingrandire)

Dal 2016, la Turchia è impegnata in diverse operazioni militari nel nord della Siria con l’obiettivo principale di contenere il separatismo curdo siriano. I separatisti hanno guadagnato terreno perché gli Stati Uniti li hanno sostenuti come prima linea nella guerra contro il gruppo dello Stato islamico. Ankara ha anche sostenuto una varietà di forze ribelli siriane contrarie al regime di Assad. Gli sforzi turchi sono stati ostacolati dagli sforzi di Mosca e Teheran per sostenere il presidente Bashar Assad. Il 2022 è stato una sorta di punto di svolta. La guerra della Russia in Ucraina ha gravemente minato la posizione politica interna ed estera di Mosca, mentre l’Iran sta affrontando una crescente rivolta generale interna.

Pertanto, né la Russia né l’Iran hanno la stessa larghezza di banda per trattare con la Siria che hanno avuto negli anni passati. Questa situazione in evoluzione crea le condizioni affinché la Turchia cerchi di approfittare dell’apertura e di fare serie incursioni sul suo fianco meridionale. È ancora troppo presto per prevedere con un certo grado di certezza quanto margine di manovra abbia la Turchia, ma senza un sostegno sostanziale da parte dei suoi alleati russi e iraniani, il regime di Assad vedrà probabilmente una rinascita delle forze ribelli che la Turchia ha un grande interesse a sostenere.

Il Medio Oriente allargato non è l’unica arena in cui la Turchia sta giocando un ruolo di primo piano. Ankara è stata anche un attore chiave nella guerra in Ucraina. Mantiene stretti legami con la Russia mentre fornisce droni alle forze ucraine. Il grado di influenza dei turchi in questo spazio di battaglia può essere misurato dall’accordo sul grano raggiunto a luglio, che Ankara ha mediato tra Mosca e Kiev. Gli sforzi turchi hanno consentito agli ucraini di riprendere le esportazioni di prodotti alimentari che erano stati interrotti dalla guerra e contenere la crescente insicurezza alimentare globale. Nelle scorse settimane i russi hanno minacciato due volte di annullare l’accordo, ma i turchi sono riusciti a convincerli a mantenerlo. La Turchia ha usato la sua posizione nel bacino del Mar Nero per far sembrare che stia negoziando sia con la Russia che con la NATO, che avvantaggia Erdogan vista l’immagine che vuole avere al suo interno. Ne beneficia anche la Turchia in quanto sembra che stia diventando un attore regionale.

Gli Stati Uniti hanno lottato per anni su come trattare con la Turchia di Erdogan, che, pur essendo un alleato della NATO, si è sempre più impegnata in politiche estere unilaterali che sono in conflitto con gli interessi statunitensi. Tuttavia, il ruolo della Turchia nella guerra in Ucraina si è rivelato utile a Washington, il che spiegherebbe come i turchi siano riusciti a ottenere la cooperazione degli Stati Uniti per i loro ultimi attacchi aerei contro i separatisti curdi. Anche se gli Stati Uniti non hanno guardato dall’altra parte, non stanno facendo nulla per scoraggiare la Turchia. Allo stesso modo, l’influenza della Turchia con una Russia isolata a livello internazionale significava che non doveva preoccuparsi che i russi creassero problemi agli attacchi aerei turchi.

Siria e oltre

L’invio di forze di terra sarà molto più complicato, tuttavia, perché è lì che i turchi probabilmente incontreranno gli iraniani, più specificamente le milizie a guida iraniana. Il braccio operativo all’estero del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche di Teheran, la Forza Quds, ha fatto il lavoro pesante per garantire che il regime di Assad non crolli contro una ribellione condotta da milizie islamiste in gran parte sunnite. La Forza Quds ha mobilitato, addestrato e sostenuto diverse decine di migliaia di miliziani che, anni dopo aver aiutato il regime di Assad a reprimere l’insurrezione, rimangono schierati e non lontano dalle regioni della Siria settentrionale dove i turchi cercano di espandere la loro presenza.

Mentre gli iraniani hanno dato scacco matto ai turchi nel Levante, negli ultimi due anni si è sviluppato il contrario nel Caucaso meridionale. Con l’assistenza militare turca, in particolare la fornitura di droni Bayraktar, l’Azerbaigian alla fine del 2020 è stato in grado di invertire l’equilibrio di potere nella regione del Nagorno-Karabakh, dove l’Armenia dal 1994 aveva il sopravvento. Avendo guadagnato una grande quantità di territorio, l’Azerbaigian ora ha un confine molto più lungo con il rivale Iran. Gli iraniani, che sono alleati degli armeni, sono stati allarmati da questo sviluppo sin dalla guerra del 2020, ma lo sono ancora di più ora, poiché i disordini interni si sono diffusi alle parti etniche azere dell’Iran nordoccidentale vicino al confine con l’Azerbaigian.

La situazione ha spinto l’Iran a condurre esercitazioni militari su larga scala il mese scorso vicino al confine con l’Azerbaigian. Mentre l’Iran è sulla difensiva, la Turchia spera di beneficiare della vittoria dell’Azerbaigian sull’Armenia. La Turchia ha negoziato un corridoio che la collegherebbe direttamente all’Azerbaigian attraverso l’exclave di Baku di Nakhchivan e attraverso il territorio armeno, dando alla Turchia la capacità di attingere alle risorse energetiche della regione trans-caspica e oltre, fino all’Asia centrale. Criticamente, questa regione è stata una sfera di influenza russa, ei turchi hanno fatto irruzione nel Caucaso meridionale ben prima dell’indebolimento della Russia nella guerra in Ucraina.

I Balcani sono un altro vecchio terreno di calpestio turco dove i turchi vorrebbero ravvivare la loro influenza. Gli accordi di Dayton del 1995, che hanno posto fine alla guerra in Bosnia, hanno creato un complesso accordo politico tra le sue popolazioni bosgnacche, serbe e croate. Gli Accordi di Dayton sono stati sottoposti a crescenti tensioni, soprattutto a causa degli sforzi della semiautonoma repubblica serba di etnia serba per la secessione dalla federazione bosniaca. I russi sono alleati dei serbi e Mosca è stata a lungo sconvolta dall’intervento occidentale in Kosovo. Il presidente russo Vladimir Putin ha persino giustificato la guerra in Ucraina tracciando un’analogia con il bombardamento della Serbia da parte della NATO e il sostegno all’indipendenza del Kosovo.

I serbi stanno probabilmente assistendo all’indebolimento della loro Russia protettrice con grande trepidazione e si chiedono cosa significhi per il loro futuro nei Balcani occidentali. Se la Russia cerca di innescare il conflitto in questa regione per contrastare le sue perdite in Ucraina o non è in grado di aiutare i suoi alleati serbi che hanno sfidato gli accordi di Dayton, i Balcani occidentali potrebbero precipitare nel conflitto. Ciò creerebbe un’apertura per la Turchia per venire in aiuto dei suoi alleati bosniaci in un modo molto più robusto di quanto abbia fatto negli anni ’90, specialmente con la Turchia che oggi persegue aggressivamente lo status di grande potenza e con le fortune in declino della Russia.

Il vincolo Erdoganomico

Nonostante i vuoti geopolitici che si stanno formando attorno ad essa, i vincoli interni di Ankara costringeranno i turchi a scegliere le loro battaglie ea dare priorità ai loro sforzi di conseguenza. Il futuro del regime di Erdogan, dopo quasi 20 anni al potere, è in discussione, con il presidente che dovrà affrontare le elezioni il prossimo anno. Il 2023 segna anche il centenario della moderna repubblica turca. Erdogan inizialmente ha presieduto un decennio di rinascita economica come primo ministro, ma l’economia turca ha preso una brutta piega nel 2013 quando sono scoppiate le proteste contro Erdogan, un anno prima che assumesse il controllo della presidenza e guidasse il paese verso l’autoritarismo.

Valutazione dell'approvazione del lavoro del presidente Erdogan, ottobre 2022
(clicca per ingrandire)

Da allora, la valuta del paese ha perso il 75% del suo valore e l’inflazione è all’85%, mentre Erdogan continua a resistere all’aumento dei tassi di interesse. La situazione finanziaria della Turchia ha imposto un’inversione delle politiche di Erdogan verso il Medio Oriente. Non molto tempo fa, la Turchia era alle prese con tutti i principali attori del Medio Oriente sostenendo le forze dei Fratelli Musulmani sulla scia della rivolta della Primavera Araba. Un decennio dopo, Erdogan ha fatto baldoria per migliorare i legami con Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, più recentemente, Egitto. Proprio la scorsa settimana, la Turchia e l’Arabia Saudita sarebbero state in trattativa per un deposito saudita di 5 miliardi di dollari presso la banca centrale turca. La banca centrale turca ha accordi di swap in valute locali con molte delle sue controparti per un valore totale di 28 miliardi di dollari. I turchi hanno firmato un accordo con la Corea del Sud per quasi 1 miliardo di dollari,

Questa pazzia di indebitamento è guidata dalla necessità di Erdogan di cercare di sostenere il più possibile la situazione economica in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo anno, previste per il 18 giugno. Sei partiti di opposizione, di cui almeno due guidati da ex Erdogan, si sono uniti per mettere in campo un candidato comune contro Erdogan e ripristinare la democrazia parlamentare nel paese. Gli indici di gradimento per il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan sono precipitati a causa del peggioramento delle condizioni economiche. C’è anche la questione se il voto sarà libero ed equo. Indipendentemente dall’esito, le situazioni politiche ed economiche interne continueranno a limitare la capacità della Turchia di sfruttare le numerose opportunità geopolitiche che emergono attorno all’Eurasia.

https://geopoliticalfutures.com/turkey-is-drowning-in-opportunity/?tpa=MWEzZGJkYzAzNjU5OGU0MDE1Y2E1NTE2NzA1MTM4NzgwNGVjMmQ&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https://geopoliticalfutures.com/turkey-is-drowning-in-opportunity/?tpa=MWEzZGJkYzAzNjU5OGU0MDE1Y2E1NTE2NzA1MTM4NzgwNGVjMmQ&utm_content&utm_campaign=PAID%20-%20Everything%20as%20its%20published

Da Apollo, a Musk, passando per Artemis_di Gianfranco Campa

DA APOLLO, A MUSK, PASSANDO PER ARTEMIS! La corsa alla colonizzazione spaziale è ripartita

Nella mitologia greca Artemide era figlia di Zeus e sorella gemella di Apollo.

Il fratello Apollo l’ha preceduta sulla Luna, ora tocca ad Artemide seguirlo sulla stessa scia, dalla Terra alla Luna, passando da Cape Canaveral e da Starbase.

E così che, quasi in sordina, dopo ripetuti ritardi, problemi tecnici, costi esorbitanti, la NASA ha lanciato martedì scorso la missione Artemis 1, appunto verso la luna. La missione circumnavigherà la luna con la sonda Orion senza essere umani a bordo, per poi rientrare sulla terra. Questa dovrebbe essera la prima di molte altre missioni  impegnate, questa volta, da equipaggi umani. L’obiettivo eventualmente è di sbarcare un uomo (una donna?)  sulla Luna; sarebbe il ritorno degli esseri umani sul satellite terrestre.

La prima volta che abbiamo circumnavigato la Luna è stato con Apollo 8, la notte di Natale del 24 Dicembre 1968. Per certi versi l’Apollo 8 è stata più importante e storica del più famoso Apollo 11, con il quale sbarcarono sul suolo lunare due astronauti: Neil Armstrong e Buzz Aldrin.

Mentre Apollo 11 è rimasto impresso nella storia dell’umanità, la missione dell’Apollo 8 è in gran parte, ai più, sconosciuta. Ma fu proprio la missione dell’Apollo 8 ad aprire la strada a tutte le successive missioni che si susseguiranno sul suolo lunare.

Apollo 8 fu il pioniere, l’apripista, al successo dell’intero programma spaziale Apollo.

Con Apollo 8 era la prima volta che gli esseri umani, in carne e ossa, lasciavano l’orbita terrestre per avventurarsi negli ignoti spazi siderali dell’universo, senza aver valutato appieno i rischi che i tre astronauti, Frank Borman, James Lovell e William Anders, avrebbero potuto passare.

Per la prima volta, gli astronauti sono stati in grado di vedere nella sua interezza la  Terra dallo spazio.

Fu la prima volta che fotografammo il sorgere della terra sull’orizzonte lunare in quella notte di Natale del 1968.

Con Apollo 8 fu la prima volta che osservammo e fotografammo la parte nascosta della Luna.

Apollo 8 fu una missione rischiosissima ma necessaria visto che gli Americani all’epoca credevano di non avere il lusso di aspettare. I bollettini di intelligence dicevano che i Sovietici erano pronti a lanciare una missione lunare con il razzo N1. E così fu presa la decisione di accelerare i tempi e andare direttamente sulla luna saltanto alcuni processi di collaudo della missione Apollo.

Nel 1968 l’America era una nazione molto diversa da oggi; più dinamica, più intraprendente, più disposta all’avventura. Un’America che non aveva ancora esaurito l’impeto pionieristico dei suoi antenati.

Oggi è tutto cambiato! Così Artemis 1, senza equipaggio, arriva a circumnavigare la luna emulando la storica missione di Apollo 8. Ma a differenza di Apollo, a parte il compito di circumnavigare la Luna senza equipaggio, Artemis di storico non ha quasi niente.

La missione Apollo era composta da 4 elementi fondamentali. In cima al razzo Saturn V c’era la navicella Apollo, composta da; il Modulo di Servizio (per i sistemi di propulsione e di supporto del veicolo spaziale), la Navicella del Modulo di Comando (gli alloggi dell’equipaggio e la sezione di controllo del volo) e la Navicella del Modulo Lunare (per portare due membri dell’equipaggio sulla superficie lunare, sostenerli sulla Luna e riportarli nell’orbita lunare).

La missione Artemis 1 è composta da due elementi fondamentali; il razzo SLS (Space Launch System), il razzo mammuth al centro di tante polemiche e controversie e la navicella di comando Orion.

Nel 2024 la seconda missione Artemis 2 trasporterà i primi quattro astronauti ospiti della capsula Orion, lanciata dal SLS, verso la Luna, all’interno della quale, durante la missione di circa dieci giorni, l’equipaggio completerà la circumnavigazione lunare e tornerà sulla Terra.

Nel 2025 Artemis 3 vedrà lo sbarco degli uomini sulla superficie lunare. A condizione, naturalmente, che le missioni precedenti abbiano avuto successo. In questa missione il sistema Artemis si arricchirà di un altro importantissimo elemento, il Modulo Lunare, necessario agli astronauti per atterrare e rientrare dal suolo lunare. Gli astronauti stessi dovrebbero rimanere sulla luna per circa una settimana.

Mentre in Italia  e in Europa si tessono le lodi al contributo Italiano ed europeo alla missione Artemis, contributi minori rispetto a quelli americani, la NASA, pur riconoscendo il ruolo europeo alla missione con un “Ampliare le nostre partnership commerciali e internazionali”, sul suo sito rende chiaro lo scopo reale del programma Artemis: “Stabilire la leadership americana e una sua  presenza strategica sulla Luna espandendo al contempo l’impatto economico globale degli Stati Uniti” con buona pace dei buontemponi nostrani che ancora credono alla favola di alleanze e strategie comuni. Strategie comuni e alleanza si, ma solo se il maggior beneficiario di questi intrecci siano sempre gli Stati Uniti d’America. (https://www.nasa.gov/what-is-artemis).

Ho accennato al fatto che Artemis di storico e di rivoluzionario non abbia quasi niente. Mentre si celebra la missione di Artemis, il sistema di lancio SLS è già superato. Il suo destino è già segnato.

In questo eccellente articolo, ERIC BERGER spiega il vero stato della corsa allo spazio in chiave Americana; il futuro appartiene a Elon Musk, non alla NASA.

 

Qui la traduzione della sintesi dell’articolo:

“L’aspetto più impegnativo di quasi tutti i veicoli di lancio sono i suoi motori .Il razzo SLS utilizza i motori rimasti dal programma dello space shuttle. I suoi booster montati lateralmente sarebbero versioni leggermente più grandi di quelli che hanno alimentato la navetta spaziale Shuttle per tre decenni. La parte più recente del veicolo sarebbe il suo grande stadio centrale, che ospita idrogeno liquido e serbatoi di carburante con l’ossigeno necessario ad alimentare i quattro motori principali del razzo. Ma anche questa componente è derivata. Il diametro di 8,4 metri del core stage era identico al serbatoio esterno dello space shuttle, che trasportava gli stessi propellenti per i motori principali dello shuttle.

Il programma missilistico SLS della NASA è stato un disastro fin dall’inizio. È stato efficiente in particolare in una cosa: distribuire posti di lavoro a grandi appaltatori aerospaziali negli stati dei principali leader dei comitati del Congresso. Per questo motivo, i legislatori hanno causato anni di ritardi, un raddoppio dei costi di sviluppo a oltre $ 20 miliardi a scapito della disponibilità di razzi molto più economici e riutilizzabili, costruiti dal settore privato.

Quindi eccoci qui, quasi una dozzina di anni dopo la firma di quell’atto di autorizzazione, con la NASA finalmente pronta a lanciare il razzo SLS. L’agenzia ha impiegato 11 anni per passare dal nulla alla Luna. Ci sono voluti 12 anni per passare dall’avere tutti gli elementi costitutivi di un razzo a  esibirlo sulla rampa di lancio, pronto per un volo di prova senza equipaggio.

Rimane difficile celebrare un razzo che, per molti versi, è responsabile di un decennio perduto di esplorazione spaziale statunitense. I costi finanziari del programma sono stati enormi. Tra il razzo, i suoi sistemi di terra e il lancio della navicella Orion in cima alla pila, la NASA ha speso decine di miliardi di dollari. Ma direi che i costi delle opportunità perse sono ancora più alti. Per un decennio, il Congresso ha diretto l’attenzione dell’esplorazione della NASA verso un programma simile ad Apollo, con un enorme veicolo di lancio, utilizzando la tecnologia degli anni ’70 per i suoi motori, serbatoi e booster.

La conseguente ricerca di un credibile programma di esplorazione dello spazio ha dominato i programmi di volo spaziale umano della NASA negli ultimi due decenni e alla fine ci ha portato al razzo SLS e al programma Artemis Moon.

Nel frattempo ci sono stati anche altri due macro trend molto importanti. Uno è l’ascesa del volo spaziale commerciale con la sua profusione di razzi e satelliti. SpaceX, fondata nel 2002, è l’esempio di questo nuovo movimento spaziale.

L’altro cambiamento radicale è stato l’ascesa del programma spaziale cinese, che ha portato in orbita il suo primo astronauta nel 2003.

Dopo il disastro della Columbia, il presidente Bush ha fissato grandi obiettivi per la NASA: completare la Stazione Spaziale Internazionale entro il 2010 e ritirare il vecchio shuttle spaziale; far volare un veicolo con equipaggio nello spazio profondo (che in seguito sarebbe stato chiamato Orion) entro il 2014 e riportare gli esseri umani sulla Luna entro il 2020 con il Constellation Program. La NASA ha terminato la ISS e ha ritirato la navetta entro il 2011, ma ha fallito gli altri obiettivi.

Le ragioni sono complicate, ma direi che l’ostacolo maggiore proveniva da grandi appaltatori aerospaziali come Boeing, Lockheed Martin e Northrop Grumman i quali insistevano per ottenere grandi pezzi della torta dei finanziamenti utilizzando l’influenza del Congresso per ottenere ciò che volevano.

Questi tre eventi – la fine della Columbia, la fondazione di SpaceX e il primo volo spaziale umano in Cina – segnano l’inizio dell’era moderna dei voli spaziali. Ho avuto un posto privilegiato in prima fila rispetto ai cambiamenti dovuti a questi eventi negli ultimi due decenni, ed è stato affascinante osservare l’impresa statunitense di volo spaziale umano passare finalmente da un modello che era più o meno consolidato negli anni ’60 e gli anni ’70 in un’era moderna, dinamica e innovativa. Ma non è stato facile arrivarci.

Nel 2009, ho iniziato a coprire giornalisticamente a tempo pieno il tema dello spazio per il quotidiano Houston Chronicle. Con l’avvicinarsi del 40° anniversario dell’atterraggio dell’Apollo 11 sulla Luna, chiamai Chris Kraft, il primo e leggendario direttore di volo della NASA. Ho raccolto alcune citazioni e, verso la fine dell’intervista, ci siamo resi conto che eravamo praticamente vicini di casa a Clear Lake.

“È molto costoso da progettare, è molto costoso da sviluppare” riferendosi al SLS; così mi disse quasi un decennio fa. “Quando inizieranno seriamente a svilupare il razzo, il budget andrà in tilt. Faranno emergere tutti i problemi tecnici e di sviluppo, facendo salire i costi di sviluppo. Poi ci sono i costi operativi di quella bestia (SLS), che mangerà viva la NASA . Non saranno in grado di farlo volare più di una volta all’anno, ammesso che otterranno il budget per farlo. Quindi quello che ti ritrovi è una bestia di razzo, che non puoi costruire perché non hai i soldi per farlo e anche  se ce l’avessi non puoi farlo funzionare”.

Le sue argomentazioni, si sono dimostrate quasi del tutto corrette; mi avevano in quel momento convinto. Ho iniziato a farmi un nome come giornalista dello spazio scrivendo in modo critico e in modo incisivo – sul programma SLS, in un momento in cui molti giornalisti del campo lo interpretavano in modo più neutrale.

Contattai l’allora amministratore della NASA, Charles Bolden. Gli chiesi perché la NASA avesse bisogno di un razzo per carichi pesanti quando SpaceX (Elon Musk) aveva iniziato a costruire il Falcon Heavy, che aveva circa il 70 percento della capacità di sollevamento del booster SLS a meno del 10 percento del costo. (Un lancio del Falcon Heavy costa circa $ 150 milioni. Un singolo lancio del razzo SLS costa almeno $ 2 miliardi per l’intero anno.)

‘Siamo onesti’, disse Bolden in risposta. ‘Non abbiamo un veicolo per carichi pesanti disponibile nel privato. Il Falcon 9 Heavy potrebbe un giorno diventare operativo. E` sul tavolo di progettazione; in questo momento l’unica soluzione  reale è  SLS che è invece in costruzione.’

Il Falcon Heavy ha volato per la prima volta nel 2018 ed è ora disponibile per uso commerciale. Il commento di Bolden è diventato un meme.

Quello che è successo con il programma SLS negli anni successivi non dovrebbe sorprendere nessuno. Il livello di finanziamento del programma è costantemente aumentato e il suo sviluppo è stato allungato. Il meccanismo di contrattazione cost-plus utilizzato dalla NASA per finanziare lo sviluppo del veicolo incentiva Boeing e altri appaltatori a spendere più tempo e denaro lavorando su un veicolo perché ottengono più commissioni per un periodo più lungo. La SLS è stata venduta al pubblico come un razzo che sarebbe stato sviluppato nei tempi e con un budget contenuto perché era un derivato dello shuttle e utilizzava hardware tradizionale. Il suo contratto cost-plus predisponeva che accadesse il contrario.

Per la grande industria aerospaziale, quindi,  la pacchia dei contratti statali potrebbe finire. Uno dei cambiamenti radicali che abbiamo visto nell’industria aerospaziale negli ultimi due decenni è l’ascesa di nuovi attori. SpaceX è il più notevole tra loro, ed è senza dubbio il più dirompente, ma è tutt’altro che l’unico concorrente.

Il commento di Bolden fa sorridere col senno di poi perché Falcon Heavy ha battuto il razzo SLS in orbita di almeno quattro anni e mezzo. Ma è anche significativo che anche il razzo di nuova generazione di SpaceX, il veicolo Starship, stia per offuscare il razzo SLS. Se Starship raggiungerà anche solo la metà del suo potenziale, supererà il razzo SLS in ogni modo possibile. È più potente, molto meno costoso e completamente riutilizzabile; può essere lanciato centinaia di volte all’anno, non una sola volta.

Chi quest’anno si è concentrato sulla “corsa allo spazio” tra SLS e Starship ha colto il segno. La vera domanda non è quale dei due razzi super pesanti venga lanciato per primo. L’interrogativo giusto è “quante astronavi  Starship lancerà tra il primo e il secondo volo del razzo SLS?”

Nominalmente, la seconda missione SLS dovrebbe volare nel 2024, ma probabilmente scivolerà nel 2025. In teoria, Starship potrebbe lanciare una dozzina di volte tra oggi e il 2025. Forse 30 volte. Forse ancora di più. Più di un decennio fa, la commissione Augustine ha affermato che la NASA dovrebbe individuare una capacità operativa sostenibile. I razzi riutilizzabili a basso costo sono, chiaramente, la nuova traiettoria sostenibile della NASA.

E la NASA sta già valutando questo futuro. Dopo aver assegnato i contratti SLS e Orion, da allora ha  quasi esclusivamente firmato  contratti “a prezzo fisso” per altri elementi dei suoi programmi di esplorazione con compagnie private, SpaceX principalmente. Attraverso questi contratti, la NASA si è spostata maggiormente verso l’acquisto di servizi dall’industria spaziale commerciale statunitense invece di essere coinvolta direttamente in  ogni fase del processo di sviluppo spaziale.

“Questa è stata una cosa davvero strana”, ha detto Kathy Lueders, che guida l’esplorazione umana operativa per la NASA, “La NASA ha avuto difficoltà a passare dal dire ‘Sono io quello che fa tutto’ a riconoscere ‘lasciamolo fare ad altri'”.

Ma di quello sforzo ne è valsa la pena. Lueders ha spiegato che la NASA sta lavorando con l’industria privata per creare quanti più tipi di partnership possibile per soddisfare le esigenze delle sue varie missioni. L’obiettivo è aiutare l’industria a capire di cosa ha bisogno la NASA e quindi cercare di acquistare servizi che quelle aziende possono anche vendere ad altri clienti spaziali. Ciò incentiva l’industria privata a investire autonomamente in queste tecnologie e fornisce prodotti tempestivi a basso costo.

“Lo facciamo perché riteniamo che sia importante per noi come nazione mantenere la nostra leadership nello spazio”, ha affermato Lueders. “Ogni nazione nel mondo è ammirata di come abbiamo creato queste nuove relazioni con la nostra industria commerciale”.

La NASA lo ha dimostrato nell’aprile 2021 quando l’agenzia ha selezionato l’astronave di SpaceX come “sistema di atterraggio umano” per il programma Artemis Moon. Questo era quasi inimmaginabile solo un paio di anni fa, ma ora l’ambizioso veicolo Starship è saldamente sul percorso critico della NASA verso la Luna. Per ora, Starship si limiterà a traghettare gli astronauti sulla Luna dall’orbita lunare e tornare indietro. Ma non è troppo difficile prevedere gli astronauti che alla fine si lanciano dalla Terra in Starship e vi ritornano allo stesso modo. Se si potrà dimostrare che Starship è sicuro ed efficace – ancora qualche se, per ulteriorecautela- sarà di gran lunga superiore a SLS e Orion in termini di costi, riutilizzabilità e cadenza.

L’ironia è che il Congresso ha accettato di finanziare Starship a $ 2,9 miliardi per lo sviluppo e un paio di missioni lunari. È meno di quanto la NASA spende ogni anno per i costi di sviluppo di SLS e Orion, ma è comunque significativo. E, cosa più importante, nel finanziare Starship, il

Congresso sta finanziando il razzo che un giorno quasi sicuramente metterà fuori servizio il suo amato booster SLS.

La realtà è che lo spazio commerciale privato ha già vinto la guerra dei razzi. La tendenza del settore sembra essere irrevocabilmente diretta verso il riutilizzo. Oltre a Starship, Blue Origin sta costruendo un razzo gigante, New Glenn, destinato ad avere un primo e un secondo stadio completamente riutilizzabili. Relativity Space sta costruendo il gigantesco razzo Terran R completamente riutilizzabile. L’erede della compagnia missilistica United Launch Alliance, di proprietà di Boeing e Lockheed Martin, sta studiando il riutilizzo dei motori principali sul suo nuovo razzo Vulcan. Perfino l’Europa – la vecchia e noiosa Europa istituzionale! – sta cercando di sviluppare un razzo riutilizzabile per carichi pesanti nel prossimo decennio.

 

Il motivo per cui dico che SLS è stata una delle cose migliori che sono successe alla NASA è semplice. Col senno di poi, è il prezzo politico che l’agenzia ha dovuto pagare per portare il Congresso a riconoscre un vero programma di esplorazione dello spazio piu efficiente e meno costoso.

Il  Congresso ha finanziato sempre più altri elementi privati necessari per completare Artemis, tra cui il lander lunare di SpaceX e le tute spaziali per la superficie lunare. Ora come ora, il Congresso non ha un piano per salvare Artemis se la NASA decidesse si abbandonare il razzo SLS e la  navicella Orion. Quindi, grazie a queste nuove collaborazioni col settore privato, la NASA potrà sviluppare un piano per lanciare gli esseri umani sulla Luna e forse, un giorno, su Marte, con o senza SLS.

Se il razzo SLS funziona bene, allora può fungere da traspostatore  pesante provvisorio mentre SpaceX e le altre entità private continuano a lavorare sui loro sistemi di lancio rivoluzionari. Man mano che saranno collaudati, l’uso di SLS e, alla fine, di Orion diventerà obsoleto. Potrebbe succedere in tre anni. O cinque. O 10. Non importa. Ad un certo punto, la NASA si ritroverà con un vero e proprio programma per lo spazio profondo e senza bisogno di razzi imposti dal Congresso.

Quindi grazie, grosso razzo arancione, per aver lubrificato la rampa di lancio. Buona fortuna con la tua arrampicata gravitazionale.  Staremo tutti a guardare e tiferemo per te, anche se non tutti piangeremo la tua fine.”

https://arstechnica.com/science/2022/08/the-sls-rocket-is-the-worst-thing-to-happen-to-nasa-but-maybe-also-the-best/

Qui sotto la traduzione dell’articolo di riferimento

 

Il razzo SLS è la cosa peggiore che possa capitare alla NASA, ma forse anche la migliore?

“Questa è stata una cosa davvero dura.”

Il razzo del sistema di lancio spaziale della NASA all'LC-39B, in preparazione al decollo alle 8:33 ET del 29 agosto 2022.
Ingrandisci / Il razzo del sistema di lancio spaziale della NASA all’LC-39B, si prepara a decollare alle 8:33 ET del 29 agosto 2022.
Trevor Mahlmann

Il 29 luglio 1958 il presidente Eisenhower firmò la legge istitutiva della National Aeronautics and Space Administration. All’epoca gli Stati Uniti avevano messo in orbita circa 30 kg di piccoli satelliti. Meno di 11 anni dopo, Neil Armstrong e Buzz Aldrin sbarcarono sulla Luna.

Il presidente Obama ha firmato un atto di autorizzazione della NASA l’11 ottobre 2010. Tra le sue disposizioni, la legge prevedeva che la NASA creasse il razzo Space Launch System e lo preparasse per il lancio nel 2016. Sembrava ragionevole. A quel tempo, la NASA lanciava razzi, anche molto grandi, da mezzo secolo. E in un certo senso, questo nuovo razzo SLS era già stato costruito.

L’aspetto più impegnativo di quasi tutti i veicoli di lancio sono i suoi motori. Nessun problema: il razzo SLS utilizzerebbe i motori rimasti dal programma dello space shuttle. I suoi booster montati lateralmente sarebbero versioni leggermente più grandi di quelli che hanno alimentato la navetta per tre decenni. La parte più recente del veicolo sarebbe il suo grande stadio centrale, che ospita serbatoi di carburante a idrogeno liquido e ossigeno per alimentare i quattro motori principali del razzo. Ma anche questa componente era derivata. Il diametro di 8,4 metri del core stage era identico al serbatoio esterno dello space shuttle, che trasportava gli stessi propellenti per i motori principali dello shuttle.

Ahimè, la costruzione non è stata così facile. Il programma missilistico SLS della NASA è stato un disastro fin dall’inizio. È stato efficiente proprio in una cosa, distribuendo posti di lavoro a grandi appaltatori aerospaziali negli stati dei principali leader dei comitati del Congresso. Per questo motivo, i legislatori hanno trascurato anni di ritardi, un costo di sviluppo più che raddoppiato a oltre $ 20 miliardi e la disponibilità di razzi molto più economici e riutilizzabili costruiti dal settore privato.

Quindi eccoci qui, quasi una dozzina di anni dopo la firma di quell’atto di autorizzazione, e la NASA è finalmente pronta a lanciare il razzo SLS. L’agenzia ha impiegato 11 anni per passare dal nulla alla Luna. Ci sono voluti 12 anni per passare dall’avere tutti gli elementi costitutivi di un razzo ad averlo sulla rampa di lancio, pronto per un volo di prova senza equipaggio.

Ho emozioni decisamente contrastanti.

I booster montati lateralmente sul razzo SLS derivano dal programma dello space shuttle
Ingrandisci / I booster montati lateralmente sul razzo SLS derivano dal programma dello space shuttle
Trevor Mahlmann

Con il lancio a pochi giorni di distanza, sono incredibilmente felice per le persone della NASA e delle compagnie spaziali che hanno lavorato sodo, tagliato la burocrazia, gestito migliaia di requisiti e realizzato questo razzo. E non vedo l’ora di vederlo volare. Chi non vorrebbe vedere un enorme razzo di Brobdingnagian consumare milioni di chilogrammi di carburante e spezzare i legami scontrosi della gravità terrestre?Sul lato meno felice, rimane difficile celebrare un razzo che, per molti versi, è responsabile di un decennio perduto di esplorazione spaziale statunitense. I costi finanziari del programma sono stati enormi. Tra il razzo, i suoi sistemi di terra e il lancio della navicella Orion in cima alla pila, la NASA ha speso decine di miliardi di dollari. Ma direi che i costi di opportunità sono più alti. Per un decennio, il Congresso ha spinto l’attenzione dell’esplorazione della NASA verso un programma simile ad Apollo, con un enorme veicolo di lancio che è completamente esaurito, utilizzando la tecnologia degli anni ’70 nei suoi motori, serbatoi e booster.

In effetti, alla NASA è stato detto di guardare indietro quando la vivace industria spaziale commerciale di questo paese era pronta a spingere verso voli spaziali sostenibili costruendo grandi razzi e facendoli atterrare, o immagazzinando propellente nello spazio o costruendo rimorchiatori riutilizzabili per andare avanti e indietro tra la Terra e la Luna. È come se il Congresso avesse detto alla NASA di continuare a stampare giornali in un mondo con Internet a banda larga.

Non doveva essere così. In effetti, una manciata di visionari leader della politica spaziale ha cercato di fermare lo spreco, ma è stata respinta dall’industria della difesa e dai suoi alleati al Congresso.

Per me personalmente, questa è anche la fine di un’era. In molti modi, questo razzo ha rispecchiato la mia carriera di giornalista e scrittore che si occupa dell’industria spaziale. Quindi, mentre ci avviciniamo a questo lancio epocale, voglio raccontare la storia, la vera storia, sull’origine e su dove sta andando. Sosterrò che il razzo SLS è la cosa peggiore, e forse allo stesso tempo la cosa migliore, che sia mai capitata alla NASA.

Credo che questa storia possa ancora avere un lieto fine.

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Come le animazioni del Protocollo Callisto hanno preso vita con il Motion Capture

Torna all’inizio

Ho scritto del programma spaziale per due decenni, a partire dal disastro dello space shuttle Columbia nel febbraio 2003. Questa tragedia ha costretto i responsabili delle politiche spaziali con sede a Washington, DC, a fare i conti con la fine del programma dello space shuttle e decidere cosa avrebbe fatto la NASA in seguito. .

La conseguente ricerca di un credibile programma di esplorazione dello spazio profondo ha dominato i programmi di volo spaziale umano della NASA negli ultimi due decenni e alla fine ci ha portato al razzo SLS e al programma Artemis Moon. Ci sono stati anche altri due macrotrend molto importanti. Uno è l’ascesa del volo spaziale commerciale e la sua profusione di razzi e satelliti. SpaceX, fondata nel 2002, è l’esempio di questo nuovo movimento spaziale. L’altro cambiamento radicale è stato l’ascesa del programma spaziale cinese, che ha portato in orbita il suo primo astronauta nel 2003.

Questi tre eventi – la fine della Columbia , la fondazione di SpaceX e il primo volo spaziale umano in Cina – segnano l’inizio della moderna era dei voli spaziali. Ho avuto un posto privilegiato in prima fila rispetto ai cambiamenti causati da questi eventi negli ultimi due decenni, ed è stato affascinante vedere l’impresa statunitense di volo spaziale umano passare finalmente da un modello che era più o meno consolidato negli anni ’60 e Gli anni ’70 in un’era moderna, dinamica e innovativa. Ma non è stato facile arrivarci.

Dopo il disastro della Columbia , il presidente Bush ha fissato grandi obiettivi per la NASA: completare la Stazione Spaziale Internazionale entro il 2010 e ritirare il vecchio shuttle spaziale, far volare un veicolo dell’equipaggio nello spazio profondo (che in seguito sarebbe stato chiamato Orion) con gli astronauti entro il 2014 e riportare gli esseri umani a la Luna entro il 2020 con il Constellation Program. La NASA ha terminato la ISS e ha ritirato la navetta entro il 2011, ma ha fiutato gli altri obiettivi. Le ragioni sono complicate, ma direi che l’ostacolo maggiore proveniva da grandi appaltatori aerospaziali come Boeing, Lockheed Martin e Northrop Grumman che insistevano per ottenere grandi pezzi della torta dei finanziamenti e avere l’influenza del Congresso per ottenere ciò che volevano.

Gli appaltatori – non è il caso di chiamarli Big Aerospace, poiché sono tutti tra i principali appaltatori della difesa degli Stati Uniti – hanno vinto la loro prima battaglia nel 2005. Mentre la NASA cercava il modo migliore per riportare gli astronauti nello spazio profondo, la scelta era tra un sistema di trasporto derivato dallo space shuttle o funzionante con gli esistenti razzi Atlas e Delta utilizzati dalle forze armate statunitensi, i cosiddetti Evolved Expendable Launch Vehicles. Alla fine, la NASA ha deciso  di costruire razzi utilizzando i propri componenti dello shuttle. Convenientemente, questo piano prometteva la maggior parte dei soldi per lo sviluppo per i grandi appaltatori.

In un’analisi di questo approccio, il noto scienziato lunare Paul Spudis ha scritto che mentre l’architettura Constellation potrebbe alla fine funzionare, ha richiesto molti più finanziamenti di quelli disponibili. La riluttanza della NASA ad adottare possibili alternative, ha concluso, è diventata “una camicia di forza programmatica”. L’alternativa preferita di Spudis era quella di utilizzare i razzi Atlas e Delta disponibili in commercio e sviluppare depositi di propellente in orbita per rifornirli di carburante per le missioni lunari.

Spudis aveva ragione. L’amministrazione Bush non si è mai battuta per i miliardi di dollari aggiuntivi necessari per Constellation, e il Congresso non aveva alcuna fretta di vedere progressi reali. Com’era prevedibile, un paio d’anni dopo, i programmi di sviluppo di Constellation erano in forte ritardo e fuori budget.

L’elezione del presidente Obama nel 2008 ha posto le basi per la seconda battaglia. Ha nominato il dirigente aerospaziale Norm Augustine per condurre una revisione degli sforzi di esplorazione umana della NASA. La prima frase di questo rapporto di 156 pagine era succinta e riassumeva il problema: “Il programma di volo spaziale umano degli Stati Uniti sembra essere su una traiettoria insostenibile”.

Di conseguenza, l’amministrazione Obama ha cercato un percorso sostenibile e ha chiesto aiuto all’industria spaziale commerciale. A quel punto, SpaceX aveva lanciato con successo il suo razzo Falcon 1 per la prima volta ed era a buon punto nello sviluppo del più grande razzo Falcon 9. Il CEO di Amazon Jeff Bezos stava investendo centinaia di milioni di dollari nella costruzione di un grande razzo a Blue Origin. E la United Launch Alliance stava valutando le opzioni per modernizzare i suoi razzi Atlas e Delta.

Nella sua richiesta di bilancio per l’anno fiscale 2011, l’amministrazione Obama ha cercato di cancellare i razzi Ares I e Ares V, così come Orion, e spendere invece 3,1 miliardi di dollari per finanziare lo sviluppo di un futuro sistema di lancio per carichi pesanti. In sostanza, questo denaro sarebbe stato conteso dall’industria privata, consentendo loro di svolgere attività di ricerca e sviluppo sulle tecnologie di propulsione. L’obiettivo era finalizzare i progetti di nuovi razzi commerciali entro il 2015 e iniziare a costruirli successivamente attraverso un partenariato pubblico-privato. Se questo programma fosse avvenuto, SpaceX Starship e i veicoli New Glenn di Blue Origin potrebbero già volare regolarmente.

Il Congresso era sbalordito, ovviamente, perché questo piano avrebbe ridotto il suo controllo sui finanziamenti lasciando competere le società private per gli appalti. Il contraccolpo alle proposte di Obama, sia da parte dei repubblicani che dei democratici, è stato tremendo.

“Dato che abbiamo proposto di rescindere contratti del valore di miliardi di dollari, la risposta negativa al budget non è stata sorprendente”, ha scritto l’allora vice amministratore della NASA, Lori Garver, nel suo libro Escaping Gravity . “Poiché la NASA non faceva parte di un’agenda nazionale più ampia da decenni, i suoi alfieri includevano senatori e rappresentanti autoselezionati con contratti e lavori esistenti nei loro distretti il ​​cui interesse principale era spesso mantenere lo status quo”.

Il Congresso, che aveva il potere della borsa, reagì. Ha concesso a malincuore alcune centinaia di milioni di dollari alla NASA per finanziare il “programma dell’equipaggio commerciale” che alla fine ha portato allo sviluppo dei veicoli Crew Dragon e Boeing Starliner di SpaceX. A sua volta, ha ottenuto oltre 3 miliardi di dollari all’anno per la navicella spaziale Orion e un nuovo razzo, lo Space Launch System. Questa volta il Congresso non ha scherzato. Ha scritto l’autorizzazione del razzo per garantire che i suoi appaltatori preferiti, tra cui Boeing e Northrop Grumman, ottenessero gran parte dell’azione.

Big Aerospace ha vinto la sua seconda grande battaglia in cinque anni sui piani di esplorazione dello spazio profondo della NASA, ed è stata una vittoria duratura. Tutto sommato, la NASA ha speso circa $ 50 miliardi in hardware e sistemi di terra Ares, Orion e SLS. Ma alla fine, questa potrebbe essere una vittoria di Pirro.

“SLS è reale”

Nel 2009, stavo iniziando a coprire lo spazio a tempo pieno per lo Houston Chronicle, oltre a riferire sulla scienza e sulla miriade di uragani della regione. Con l’avvicinarsi del 40° anniversario dell’atterraggio dell’Apollo 11 sulla Luna, ho chiamato Chris Kraft, il primo e più leggendario direttore di volo della NASA, da cui è stato nominato Mission Control a Houston. Ho raccolto alcune citazioni e, verso la fine dell’intervista, ci siamo resi conto che eravamo praticamente vicini di casa a Clear Lake.

Mi ha invitato a passare qualche volta e abbiamo stretto un’amicizia nel decennio successivo. (È morto all’età di 95 anni, appena sei giorni dopo il 50° anniversario dell’atterraggio dell’Apollo 11.) Ogni due mesi, andavo a casa sua nel pomeriggio, dopo la sua partita mattutina, e sorseggiavamo Coca -Cola nella sua tana al piano di sopra. A quel punto, Kraft aveva aspettato decenni che accadesse qualcosa con gli umani nello spazio profondo dai tempi di Apollo, e niente era successo. Quindi era frustrato.

A Kraft è piaciuta l’idea iniziale alla base del programma Constellation, ma ha visto i problemi che ha incontrato quando il finanziamento promesso si è esaurito. Quando il Congresso ha detto alla NASA di costruire il razzo SLS, non aveva niente di tutto ciò.

“È molto costoso da progettare, è molto costoso da sviluppare”, mi ha detto quasi un decennio fa. “Quando inizieranno effettivamente a svilupparlo, il budget andrà in tilt. Sorgono tutti i tipi di problemi tecnici e di sviluppo, che aumenteranno i costi di sviluppo. Poi ci sono i costi operativi di quella bestia , che mangerà vivi la NASA se ci arriveranno. Non saranno in grado di farlo volare più di una volta all’anno, se questo, perché non hanno il budget per farlo. Quindi quello che hai è una bestia di un razzo, che ti darebbe tutte queste capacità, che non puoi costruire perché non hai i soldi per costruirlo in primo luogo, e non puoi gestirlo se lo avessi.”

Le sue argomentazioni, che si sono rivelate del tutto corrette, mi hanno convinto in quel momento. Ho iniziato a farmi un nome come giornalista spaziale scrivendo in modo critico – e discuterei in modo incisivo – sul programma SLS in un momento in cui molti giornalisti spaziali lo interpretavano in modo più neutrale. Nel 2014, ho scritto una serie in sette parti sul Chronicle intitolata “Alla deriva”, con la tesi centrale che il programma per lo spazio profondo della NASA era fuori rotta.

Nella misura in cui la serie viene ricordata oggi, è a causa di una citazione che mi è stata data dall’allora amministratore della NASA Charles Bolden. Gli ho chiesto perché la NASA avesse bisogno di un razzo per carichi pesanti quando SpaceX aveva iniziato a costruire il Falcon Heavy, che aveva circa il 70 percento della capacità di sollevamento del booster SLS, a meno del 10 percento del costo. (Un Falcon Heavy sacrificabile costa circa $ 150 milioni. Un singolo lancio del razzo SLS costa almeno $ 2 miliardi all’anno.)

“Siamo molto onesti”, ha detto Bolden in risposta . “Non abbiamo un veicolo per carichi pesanti disponibile in commercio. Il Falcon 9 Heavy potrebbe un giorno nascere. È sul tavolo da disegno in questo momento. SLS è reale.”

Il Falcon Heavy ha volato per la prima volta nel 2018 ed è ora disponibile in commercio. Il commento di Bolden è diventato un meme .

Quello che è successo con il programma SLS negli anni successivi ad “Adrift” non dovrebbe sorprendere nessuno. Il livello di finanziamento del programma è aumentato e il suo sviluppo è stato allungato. Il meccanismo di contrattazione cost-plus utilizzato dalla NASA per finanziare lo sviluppo del veicolo incentiva Boeing e altri appaltatori a spendere più tempo e denaro lavorando su un veicolo perché ottengono più commissioni per un periodo più lungo. L’SLS è stato venduto al pubblico come un razzo che sarebbe stato sviluppato nei tempi e nel budget perché era un derivato dello shuttle e utilizzava hardware tradizionale. Il suo contratto cost-plus garantiva che accadesse il contrario.

Per tutti questi motivi, ma in particolare per i suoi costi di opportunità e per la sua natura retrospettiva, il razzo SLS è quasi la cosa peggiore che sia accaduta alla NASA negli ultimi sei decenni.

Aumento dello spazio commerciale

Per Big Aerospace, tuttavia, la festa potrebbe finire. Uno dei cambiamenti radicali che abbiamo visto nell’industria aerospaziale negli ultimi due decenni è l’ascesa di nuovi attori. SpaceX è il più notevole tra loro, ed è sicuramente il più dirompente, ma è tutt’altro che l’unico concorrente.

Il commento di Bolden è divertente col senno di poi perché Falcon Heavy ha battuto il razzo SLS in orbita di almeno quattro anni e mezzo. Ma è anche significativo che anche il razzo di nuova generazione di SpaceX, il veicolo Starship, abbia quasi battuto il razzo SLS in orbita. Se Starship raggiunge anche solo la metà del suo potenziale, supererà il razzo SLS in ogni modo possibile. È più potente, molto meno costoso e completamente riutilizzabile e può essere lanciato centinaia di volte all’anno, non una sola volta.

Chi quest’anno si è concentrato sulla “corsa allo spazio” tra SLS e Starship ha colto il punto. La vera domanda non è quale dei due razzi super pesanti venga lanciato per primo. Piuttosto, è “quante astronavi lanceranno tra il primo e il secondo volo del razzo SLS?”

Nominalmente, la seconda missione SLS dovrebbe volare nel 2024, ma probabilmente scivolerà nel 2025. In teoria, Starship potrebbe lanciarsi una dozzina di volte tra oggi e allora. Forse 30 volte. Forse di più. Più di un decennio fa, la commissione Augustine ha affermato che la NASA dovrebbe trovare una traiettoria sostenibile. I razzi riutilizzabili a basso costo sono, chiaramente, la traiettoria sostenibile della NASA.

E la NASA sta già acquistando questo futuro. Da quando ha concesso i contratti SLS e Orion, ha assegnato quasi esclusivamente contratti “a prezzo fisso” per altri elementi dei suoi programmi di esplorazione. Attraverso questi contratti, la NASA si è spostata maggiormente verso l’acquisto di servizi dall’industria spaziale commerciale degli Stati Uniti invece di fornire un design di alto livello e controllare ogni fase del processo di sviluppo.

“Questa è stata una cosa davvero dura”, ha detto Kathy Lueders, che guida l’esplorazione umana operativa per la NASA, alla conferenza ASCENDx a Houston ad aprile. “La NASA ha avuto difficoltà a passare dal dire ‘ Sono io quello che lo fa’ a ‘ Lo stiamo facendo'”.

Il razzo Falcon Heavy di SpaceX ha il 70 percento della capacità di sollevamento del razzo SLS, a meno di un decimo del costo.
Ingrandisci / Il razzo Falcon Heavy di SpaceX ha il 70 percento della capacità di sollevamento del razzo SLS, a meno di un decimo del costo.
Trevor Mahlmann

Ma quello sforzo è valsa la pena. Lueders ha spiegato che la NASA sta lavorando con l’industria per creare quanti più tipi di partnership possibili per soddisfare le esigenze delle sue varie missioni. L’obiettivo è aiutare l’industria a capire di cosa ha bisogno la NASA e quindi cercare di acquistare servizi che quelle aziende possono anche vendere ad altri clienti spaziali. Ciò incentiva l’industria privata a investire autonomamente in queste tecnologie e a fornire prodotti tempestivi a basso costo.

“Lo facciamo perché riteniamo che sia importante per noi come nazione per mantenere la nostra leadership nello spazio”, ha affermato Lueders. “Ogni nazione nel mondo è invidiosa del modo in cui abbiamo creato queste nuove relazioni con la nostra industria commerciale”.

La NASA lo ha dimostrato nell’aprile 2021 quando l’agenzia ha selezionato l’astronave di SpaceX come “sistema di atterraggio umano” per il programma Artemis Moon. Questo era quasi inimmaginabile anche un paio di anni fa, ma ora l’ambizioso veicolo Starship è saldamente sul percorso critico della NASA verso la Luna. Per ora, Starship si limiterà a traghettare gli astronauti sulla Luna dall’orbita lunare e tornare indietro. Ma non è troppo difficile vedere gli astronauti che alla fine si lanciano dalla Terra in Starship e vi ritornano allo stesso modo. Se si può dimostrare che Starship è sicuro ed efficace – ancora se, per essere sicuri – è di gran lunga superiore a SLS e Orion in termini di costi, riutilizzabilità e cadenza.

L’ironia è che il Congresso ha accettato di finanziare Starship a un livello di $ 2,9 miliardi per lo sviluppo e un paio di missioni lunari. È meno di quanto la NASA spende ogni anno per i costi di sviluppo di SLS e Orion, ma è comunque significativo. E, cosa più importante, nel finanziare Starship, il Congresso sta finanziando il razzo che un giorno quasi sicuramente metterà fuori servizio il suo amato booster SLS.

Dove andiamo da qui

La realtà è che lo spazio commerciale ha già vinto le guerre missilistiche. La tendenza del settore sembra essere irrevocabilmente diretta verso il riutilizzo. Oltre a Starship, Blue Origin sta costruendo un grande razzo, New Glenn, destinato ad avere un primo e un secondo stadio completamente riutilizzabili. Relativity Space sta costruendo il grande razzo Terran R completamente riutilizzabile. L’eredità della società missilistica United Launch Alliance, di proprietà di Boeing e Lockheed Martin, sta studiando il riutilizzo dei motori principali sul suo nuovo razzo Vulcan. Perfino l’Europa – la vecchia e noiosa Europa istituzionale! – sta cercando di sviluppare un razzo riutilizzabile per carichi pesanti nel prossimo decennio.

Il motivo per cui dico che SLS è stata una delle cose migliori che sono successe alla NASA è semplice. Col senno di poi, è il prezzo politico che l’agenzia ha dovuto pagare per portare il Congresso a bordo con un vero programma di esplorazione dello spazio profondo. Il programma Artemis, che è certamente il più “reale” programma di esplorazione umana dello spazio profondo della NASA dai tempi di Apollo, è stato creato dal vicepresidente Mike Pence e dall’allora amministratore Jim Bridenstine circa tre anni fa. Il Congresso ha accettato solo perché Bridenstine ha promesso di utilizzare il razzo SLS per tutti i lanci umani sulla Luna.

Da allora, il Congresso ha finanziato sempre più altri elementi necessari per rendere reale Artemis, tra cui il lander lunare di SpaceX e le tute spaziali per la superficie lunare. Per ora, il Congresso non acquisterà Artemis se la NASA si allontanerà dal razzo SLS e dalla navicella spaziale Orion. Quindi, grazie a questi programmi, la NASA ha un piano in buona fede per rimandare gli esseri umani sulla Luna e forse, un giorno, su Marte.

Quello che succede dopo si riduce all’esecuzione. Se il razzo SLS funziona bene, bene. Può fungere da sollevatore pesante provvisorio mentre SpaceX e i suoi fratelli continuano a lavorare sui loro grandi sistemi di lancio rivoluzionari. Man mano che saranno online, l’uso di SLS e alla fine di Orion diventeranno obsoleti. Potrebbe succedere in tre anni. O cinque. O 10. Davvero non importa. Ad un certo punto, la NASA si ritroverà con un vero e proprio programma per lo spazio profondo e senza bisogno di razzi imposti dal Congresso. Accadrà… che l’astronave è salpata.

Quindi grazie, grosso razzo arancione, per aver ingrassato i pattini. Buona fortuna per scalare quella collina gravitazionale la prossima settimana. Staremo tutti a guardare e tiferemo per te, anche se non tutti piangeremo la tua fine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le armi segrete di Zelensky, di Claudio Martinotti Doria

Esattamente come Hitler nell’ultimo periodo bellico, quando ormai le sorti della guerra erano segnate, anche l’ex comico cocainomane Zelensky, ripone le sue ultime speranze nelle armi segrete.

In un video che ha circolato per qualche tempo in rete, poi subito fatto sparire, si è visto atterrare nell’Aeroporto Internazionale di Leopoli “Danylo Halytskyi”, un cargo C-130J Super Hercules privo d’insegne identificative e di color nero, dal quale ci si sarebbe aspettato di vedere scendere materiale bellico o forze speciali. Con immensa sorpresa, i pochi testimoni, uno dei quali probabilmente autore del video, videro scendere alcune decine di uomini e donne con strani costumi policromatici e folkloristici, come fossero provenienti da o diretti a una festa in maschera o di Halloween, tutti portavano una molteplicità di amuleti e talismani di ogni forgia, collane, ornamenti pittoreschi, alcuni disponevano di lugubri bastoni con dei piccoli teschi al posto del pomelo.

Successiva il video, che seppur sparito dalla rete è stato salvato in tempo da diversi internauti, è stato esaminato da alcuni esperti in discipline antropologiche, etnologiche e simbologiche, che hanno identificato i costumi come haitiani. In particolare si tratterebbe di costumi cerimoniali indossati dagli houngan e dalle mambo durante i rituali vudù.

Si presume pertanto che le persone sbarcate a Leopoli fossero sacerdoti e sacerdotesse vudù.

Tutti sappiamo quale sia la principale prerogativa attribuita a tali personaggi, quale sia il loro potere, per quanto ammantato di leggenda e mitologia.

Di fronte al collasso del suo paese, al rischio di un’interruzione del sostegno occidentale, alla migrazione di decine di milioni di abitanti infreddoliti e affamati, e soprattutto di fronte a un esercito ormai decimato e allo sbando, che rischia continui ammutinamenti (seppur soffocati nel sangue dai nazisti e taciuti dai media mainstream), a Zelensky non rimane altro che far resuscitare i soldati da lui stesso fatti massacrare, per obbligarli a combattere di nuovo, in un perverso e aberrante circolo vizioso, una sorta di angosciante loop temporale, nel quale le vittime sono sempre le stesse, come pure il carnefice.

Ma la componente più inquietante di questo situazione è l’imperdonabile complicità dell’Occidente, che non solo sostiene questo osceno personaggio ma ospita moltissimi corrotti oligarchi ucraini fuggiti dalla guerra, arricchitisi depredando il loro paese e vendendo le forniture militari destinate al fronte. Un regime criminale nazista creato dagli anglosassoni con il colpo di stato del 2014 in chiave antirussa, che ha come effetto collaterale doloso il depauperamento dell’UE, eseguito dall’attuale leadership europea che agisce contro gli interessi della popolazione.

Ad ogni modo non escluderei l’ipotesi che gli zombie, una volta attivati, vedendo le folle cittadine dirigersi verso i confini europei in cerca di un pasto e un luogo di accoglienza caldo, si pongano sulla loro scia e non varchino anche loro i confini dell’UE. Aggravando in tal modo la situazione. Non dubito che anche in questo caso, per coerenza politica, i DEM di casa nostra invochino il diritto di accoglienza nei loro confronti, come profughi di guerra, che per altro, nel loro specifico caso, hanno veramente combattuto.

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

LA STRATEGIA USA, VIA NATO, PIANIFICA LE INFRASTRUTTURE MILITARI E CIVILI DEI TERRITORI EUROPEI IN FUNZIONE DEL CONFLITTO CON LA RUSSIA E CON LA CINA. IL CASO DEL TERRITORIO ITALIANO. a cura di Luigi Longo

LA STRATEGIA USA, VIA NATO, PIANIFICA LE INFRASTRUTTURE MILITARI E CIVILI DEI TERRITORI EUROPEI IN FUNZIONE DEL CONFLITTO CON LA RUSSIA E CON LA CINA. IL CASO DEL TERRITORIO ITALIANO.

a cura di Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Antonio Mazzeo, Basi di guerra da nord a sud. L’unità d’Italia rifatta dalla NATO pubblicato sul sito www.marx21.it, del 15/11/2022, che propongo, è interessante perché fa riflettere sul ruolo della NATO come strumento di gestione della pianificazione strategica dei territori europei da parte degli USA. In particolare si sofferma sull’utilizzo del territorio italiano, disseminato di infrastrutture e basi militari (senza considerare quelle segrete), come avamposto delle strategie statunitensi nel Mediterraneo, nei Balcani, nel Vicino, Medio ed Estremo Oriente. Mi interessa sottolineare quattro questioni: la prima, la fase, che corrisponde a quella pre-multicentrica (che dato nel 2011 con l’emergere in maniera chiara delle due potenze mondiali, Cina e Russia, in grado di contrastare l’egemonia mondiale degli USA), dove lo strumento statunitense dell’Unione Europea (UE) era funzionale alle sue strategie, caratterizzata dall’approntamento delle infrastrutture (i corridoi europei) finalizzate alla costruzione di una rete di mobilità per gli scenari di allargamento della NATO nell’Europa centrale e dell’est per costruire quel cordone militare di isolamento e contrasto della Russia (per approfondimenti rimando ai miei scritti su Tav, Corridoio V , NATO e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico; L’americanizzazione del territorio. Appunti per una riflessione; Le infrastrutture militari nella fase multicentrica; I corridoi europei e la strategia USA pubblicati sui siti www.conflittiestrategie.it e www.italiaeilmondo.com); la seconda, il sabotaggio ai gasdotti Nord Stream rappresenta sia un atto di rottura da parte degli USA-UE delle relazioni con la Russia (di tipo prevalentemente economico), sia l’inizio della fase di passaggio dalla fine del progetto statunitense della UE (con il declino del sistema-euro conseguenza del declino del sistema-dollaro) alle relazioni dirette con le singole nazioni europee (iniziata dall’amministrazione di Donald Trump) e la sua sostituzione, di fatto, con il progetto NATO più funzionale alle strategie della fase multicentrica; la terza, il progetto NATO della fase multicentrica comporterà un nuovo equilibrio dinamico con nuove architetture istituzionali sovranazionali che gestiranno l’attuale spazio europeo; nuove organizzazioni territoriali (ne circolano da tempo diverse configurazioni) si prevedono per il futuro dell’Europa, espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi; la quarta, l’assenza della ricerca (pubblica e privata) sia sulle relazioni tra basi militari Usa-Nato e sviluppo locale, regionale, nazionale e internazionale, sia sulle relazioni politiche, militari, industriali, economiche, sociali e culturali nei territori di localizzazione delle basi e delle loro proiezioni nei sistemi di valori territoriali.

Oggi c’è la necessità per l’Italia e per l’Europa (che è bene ricordarlo non è l’Europa delle nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti soprattutto tedeschi) di uscire dalla NATO per costruire la possibilità di una Europa che cessi di << […] continuare a essere un mito, un sogno staccato dalla realtà di popolazioni molteplici e diverse, un continente fatto di europei senza un’Europa>> (Jacques Le Goff, L’Europa raccontata ai ragazzi, Laterza, Roma-Bari, 1996, pag.25) e sia capace di porsi come un piccolo continente di intersezione e di dialogo tra Occidente e Oriente.

<< Nel 1313 […] i nuovi statuti del comune di Treviso trovarono un’immagine efficace per definire la dialettica fra individuo e la collettività […] la società è come un concerto: gli strumenti e le voci sono tutti diversi fra loro, e così dev’essere perché valga la pena di ascoltare la musica; allo stesso modo sono diversi fra loro gli esseri umani, ma se obbediscono alla ragione […] dalla loro diversità risulterà una società armoniosa >> (Alessandro Barbero, Donne, madonne, mercanti e cavalieri. Sei storie medievali, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013, pag. 130). Provo a immaginare l’Europa come un grande concerto: le nazioni sono tutte diverse fra loro, e così deve essere perché valga la pena ascoltare una musica di costruzione, di cambiamento, di coordinamento finalizzata ad una società più sensata e più attenta alle esigenze della maggioranza delle popolazioni.

Chi mette in musica un progetto alternativo di una nuova idea di organizzazione sociale nella fase multicentrica affinchè l’Europa cessi di essere un mito e diventi un piccolo continente autodeterminato in relazione all’Occidente e all’Oriente?

Occorre un soggetto sessuato in grado di offrire una partitura come fondamento solido e meditato per i suoi obiettivi tenendo conto del grande e attuale insegnamento di Karl Marx quando sostiene che << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli. In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!>> (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

 

 

 

 

BASI DI GUERRA DA NORD A SUD. L’UNITÀ D’ITALIA RIFATTA DALLA NATO*

di Antonio Mazzeo**

 

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico.

L’ultima missione di spionaggio sui cieli dell’Europa dell’Est è stata tracciata dai radar lo scorso 14 ottobre. Un Gulfstream E.550 CAEW del 14° Stormo dell’Aeronautica militare italiana dopo essere decollato dallo scalo romano di Pratica d Mare ha raggiunto prima i confini della Polonia con l’Ucraina e poi quelli con l’enclave russa di Kaliningrad. Un’operazione ormai di routine da quando le forze armate di Mosca hanno invaso l’Ucraina. Il velivolo in dotazione ai reparti di volo italiani aveva fatto il suo debutto nelle aree di conflitto l’8 marzo 2022 con una missione d’intelligence nello spazio aereo della Romania fino ai confini con Moldavia e Ucraina e le sempre più agitate e militarizzate acque del Mar Nero. Da allora i Gulfstream E.550 di Pratica di Mare sono uno degli attori più richiesti dai comandi NATO che coordinano le operazioni aeree di sorveglianza e “contenimento” dei reparti di guerra della Federazione russa in territorio ucraino.

Basati sulla piattaforma del jet sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd. (società del gruppo IAI), i velivoli in dotazione all’Aeronautica italiana non sono semplicemente dei “radar volanti”, ma possiedono anche compiti di “gestione” delle missioni alleate nei campi di battaglia e di disturbo delle emissioni elettroniche “nemiche”. “Gli aerei CAEW hanno funzioni di sorveglianza aerea, comando, controllo e comunicazioni, strumentali alla supremazia aerea e al supporto alle forze di terra”, spiega lo Stato maggiore dell’Aeronautica.

“In altre parole, essi sono un assetto di straordinario valore sia per l’Italia che per la NATO per conseguire quella che è definita come Information Superiority, cioè il vantaggio che deriva dall’abilità di raccogliere, processare e trasferire un flusso ininterrotto di informazioni mentre si impedisce al nemico di poter fare lo stesso”.

Non sono solo i sofisticati e costosissimi aerei di produzione israelo-statunitense a consolidare il ruolo di cobelligerante dello scalo militare di Pratica di Mare nel sanguinoso conflitto russo-ucraino. E’ da qui infatti che decollano con sempre più frequenza i velivoli cisterna KC-767A dell’Aeronautica utilizzati per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri italiani e NATO impiegati nella Air Policing Mission anti-russa nello spazio aereo di Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria e delle Repubbliche baltiche. Velivoli cargo dello stesso tipo vengono impiegati da Pratica di Mare anche per trasportare i sistemi d’arma “donati” dal governo italiano alle forze armate ucraine e gli uomini, i mezzi pesanti e gli armamenti destinati ai battaglioni di pronto intervento che la NATO ha insediato a mò di tenaglia alle frontiere occidentali di Russia e Bielorussia (attualmente i reparti italiani d’élite dell’Esercito sono presenti in Ungheria, Bulgaria e Lettonia).

Ma in Italia non c’è solo Pratica di Mare a fare da trampolino di lancio degli assetti aerei impiegati nella pericolosa escalation bellica in Europa orientale e nel Mar Nero. Dalla stazione aeronavale di Sigonella, in Sicilia, con cadenza ormai quotidiana e fin da prima dell’aggressione russa del 24 febbraio scorso, decollano i droni d’intelligence AGS della NATO e “Global Hawk” di US Air Force e i nuovi pattugliatori marittimi P8A “Poseidon” di US Navy e delle forze aeronavali di Australia e del Regno Unito. Anch’essi ricoprono le stesse rotte fino ai confini con il territorio ucraino, rumeno, bulgaro e moldavo, per operazioni di intelligence e ricognizione. Così come avviene con i CAEW Gulfstream di Pratica di Mare, i dati sensibili raccolti dai “Poseidon” e dai droni USA e NATO di Sigonella vengono messi a disposizione delle forze armate di Kiev per pianificare le operazioni contro l’invasore russo. Sono cioè una specie di occhio e orecchio non poi tanto segreto contro le manovre dell’esercito di Mosca e una sorta di consigliere-guida della controffensiva ucraina che ha già consentito di ottenere sul campo rilevanti “successi” sugli avversari.

Questi velivoli hanno pure moltiplicato gli interventi nel Mediterraneo orientale in prossimità del porto di Tartus, Siria, utilizzato per le soste tecniche della flotta militare russa. In particolare proprio un pattugliatore P-8A di US Navy è stato protagonista di quella che, per il valore politico-simbolico ma soprattutto per le conseguenze in termini di vite umane, ha rappresentato una delle azioni di guerra più significative e drammatiche del conflitto: l’affondamento dell’incrociatore russo Moskva a largo di Odessa, mercoledì 13 aprile, presumibilmente dopo essere stato colpito dai militari ucraini con uno o più missili anti-nave. Sono ancora fittissimi i misteri sulle dinamiche e sulle unità protagoniste dell’attacco, così come è ancora ignoto il numero delle vittime. E’ tuttavia certo che l’operazione militare contro la nave ammiraglia russa nel Mar Nero è stata “monitorata” e registrata a poche miglia di distanza da un “Poseidon” statunitense decollato dalla stazione aeronavale siciliana.

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico. Dalle Alpi al Canale di Sicilia non c’è comando, centro radar e telecomunicazione, aeroporto e scalo portuale che non ospiti o stia per stia per ospitare milionari cantieri infrastrutturali. La NAS – Naval Air Station di Sigonella è forse l’esempio più eclatante: per ospitare i nuovi pattugliatori “Poseidon” sono state realizzate alcune aree di parcheggio e un maxi-hangar con annesso centro di manutenzione del costo di 26,5 milioni di dollari, inaugurato ufficialmente a metà gennaio 2022.

Nella base siciliana è divenuto pienamente operativo l’AGS – Alliance Ground Surveillance, il sistema avanzato di sorveglianza terrestre e intelligence dell’Alleanza Atlantica basato su cinque grandi velivoli senza pilota RQ-4 “Phoenix” realizzati dal colosso aerospaziale Northrop Grumman.

Questi nuovi droni sono lunghi 14,5 metri e possono volare in tutte le condizioni ambientali e ininterrottamente per più di 30 ore, fino a 18.280 metri di altezza e a una velocità di 575 km/h. Il loro raggio d’azione è di oltre 16.000 km. Inoltre, poche settimana fa, il Dipartimento dell’US Air Force ha firmato un contratto del valore di 177 milioni di dollari con una società controllata dal colosso militare industriale Raytheon Technologies, per migliorare l’efficienza dei 14 terminali mondiali (tra cui Sigonella) inseriti nel sistema High Frequency Global Communications (HFGCS). Le stazioni terrestri dell’HFGCS trasmettono i cosiddetti EAM (messaggi di azione di emergenza) e altri tipi di codici di rilevanza strategica, compresi quelli per la conduzione di un attacco nucleare.

A Vicenza, dopo la realizzazione presso l’ex aeroscalo “Dal Molin” di un enorme complesso militare riservato ai paracadutisti della 173^ Brigata aviotrasportata di US Army, ha preso il via un megaprogetto del valore stimato di 373 milioni di dollari per la realizzazione entro cinque anni di 478 alloggi per il personale militare statunitense e famiglie (villette a schiera e diverse nuove palazzine all’interno della caserma Ederle e del cosiddetto Villaggio della Pace). Sono previste inoltre nuove infrastrutture viarie per rendere più rapido e “sicuro” il collegamento delle basi USA di Vicenza con l’aeroporto NATO di Aviano (Pordenone), sede di alcuni reparti aerei dell’US Air Force dotati dei cacciabombardieri di quarta generazione F-16 a capacità nucleare, nonché utilizzato per i grandi aerei cargo che trasportano i parà della 173^ Brigata verso i maggiori scacchieri di guerra internazionali (recentemente in Iraq e Afghanistan, attualmente in Europa orientale e in Africa). E ad Aviano, così come a Ghedi (Brescia), sono in via di completamento i lavori di “rafforzamento” dei bunker che ospitano le bombe nucleari tattiche B-61 delle forze aeree statunitensi, attualmente in fase di aggiornamento per essere impiegate a bordo dei cacciabombardieri di quinta generazione F-35 in dotazione alle forze USA e italiane.

Bibliche colate di cemento a fini bellici sono previste anche per un’altra città dall’incomparabile patrimonio storico, artistico, architettonico e paesaggistico: Pisa. Secondo quanto previsto dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, in un’area di 73 ettari a Coltano, all’interno del parco regionale di Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli, saranno realizzati innumerevoli caserme e alloggi per militari e famiglie, poligoni di tiro e basi addestrative.

Tre i reparti d’assalto dei Carabinieri che saranno insediati a Coltano ci sono il 1° Reggimento Paracadutisti “Tuscania”, il G.I.S.-Gruppo di Intervento Speciale e il Centro Cinofili, da decenni impiegati nei maggiori teatri di guerra internazionale in azioni di combattimento e nell’addestramento “anti-terrorismo” del personale militare di alcuni ingombranti regimi africani e mediorientali. Il progetto di Pisa è funzionale al rafforzamento del ruolo geo-strategico della regione Toscana per la proiezione extra-area delle forze armate nazionali, USA e NATO. La nuova cittadella dei reparti d’assalto dei Carabinieri si aggiungerà infatti alla grande base di stazionamento dei mezzi pesanti di US Army di Camp Darby, agli aeroporti di Pisa-San Giusto e Grosseto, al porto di Livorno, alle tante caserme dei parà della “Folgore”, al centro di ricerca militare avanzato (già nucleare) di San Piero a Grado, al comando fiorentino della Divisione “Vittorio Veneto” prossimo ad operare come Multinational Division South NATO per gli interventi dell’alleanza nel Mediterraneo e in Africa.

Un hub toscano per la guerra globale che si aggiunge a quelli veneto-friulano (con Vicenza e Aviano); siciliano (Sigonella, il MUOS di Niscemi, la baia di Augusta, lo scalo di Trapani-Birgi e le isole minori di Pantelleria e Lampedusa); pugliese (le basi navali NATO di Taranto e Brindisi, gli aeroporti di Amendola, Gioia del Colle e Galatina); campano (il porto di Napoli e Capodichino, il Comando interalleato di Lago Patria); sardo (gli innumerevoli poligoni sparsi per tutta l’isola, Decimomannu, l’arcipelago della Maddalena). L’Italia armata e ipermilitarizzata per gli interessi strategici del Pentagono e dell’Alleanza Atlantica ma anche per i profitti e i dividendi del complesso militare-industriale nazionale e internazionale.

A esclusivo beneficio delle industrie di morte sorgerà a Torino l’ultimo tempio dedicato ad Ares, dio di tutte le guerre, che convertirà parte del territorio dell’Italia nord-occidentale nell’ennesimo hub militare del paese (in quest’area esistono già il centro di Cameri-Novara per la produzione degli F-35, il quartier generale dei NATO Rapid Deployable Corps di Solbiate Olona, i complessi Leonardo- Agusta a Varese, la base nucleare di Ghedi, le fabbriche di pistole, mitra e fucili nel bresciano). Lo scorso 7 aprile i ministri degli Esteri e della Difesa della NATO hanno approvato un documento strategico che pone le basi del “Defence innovation accelerator for the North Atlantic” (DIANA), cioè l’Acceleratore di innovazione nella difesa per l’Atlantico del Nord), dotato di una prima tranche di un miliardo di euro circa grazie al NATO Innovation Fund, il fondo di investimenti finanziari varato dall’Alleanza. Con il DIANA sarà promossa la ricerca scientifico-tecnologica di centri accademici, start up e piccole e medie imprese sulle cosiddette deep technologies, le tecnologie emergenti che la NATO ha identificato come “prioritarie”: sistemi aerospaziali, intelligenza artificiale, biotecnologie e bioingegneria, computer quantistici, cyber security, motori ipersonici, robotica e sistemi terrestri, navali, aerei e subacquei a pilotaggio remoto, industria navale e delle telecomunicazioni, ecc.

“Gli investimenti e la ricerca del progetto DIANA serviranno a dare vita a quelle tecnologie nascenti che hanno il potere di trasformare la nostra sicurezza nei decenni a venire, rafforzando l’ecosistema dell’innovazione dell’Alleanza e sostenendo la sicurezza del nostro miliardo di cittadini”, ha dichiarato il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. E proprio la città di Torino è stata scelta come prima sede europea degli acceleratori DIANA. L’avvio dell’ambizioso programma è previsto per l’inizio del prossimo anno, quando saranno definiti i progetti da finanziare. In una prima fase la sede di DIANA sarà ospitata in un’area di 9.000 mq ricavata all’interno delle storiche Officine Grandi Riparazioni, il complesso industriale sorto a Torino a fine Ottocento. A partire dal 2026 l’incubatore-acceleratore DIANA sarà trasferito nella Città dell’Aerospazio in via di realizzazione in un’area di 184.000 mq alla periferia ovest del capoluogo piemontese, grazie ad un finanziamento di 300 milioni di euro del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR), più altri 800 milioni che dovrebbero giungere da una settantina di aziende del settore aerospaziale interessate al progetto industriale.

Tra queste ultime in pole position c’è ovviamente l’holding Leonardo SpA, leader nella produzione di sistemi d’arma tecnologicamente avanzati. “Leonardo, azienda partecipata al 30% dal Ministero dell’economia coordinerà tre progetti del nuovo sistema di difesa europeo: il sistema di navigazione satellitare Galileo, finanziato dall’Unione europea con 35,5 milioni di euro; quello di tecnologia sicura Essor, che ha ricevuto 34,6 milioni; e il progetto degli anti-droni Jey Cuas (13 milioni)”, ha riportato l’Indipendente in un ampio servizio pubblicato il 17 luglio 2022. “Una parte degli spazi della città sarà destinata al nuovo campus del Politecnico di Torino, mentre l’altra sarà occupata dagli uffici del programma DIANA e da alcune aree per la sperimentazione di nuove tecnologie di terra e di volo”.

A fianco dei laboratori e degli spazi per le start-up, si insedierà nella Città dell’Aerospazio pure il Business Incubation Centre dell’Agenzia Spaziale Europea. Secondo quanto dichiarato dal ministero della Difesa italiano, verrà messo a disposizione del progetto pure il neo costituito acceleratore Takeoff – Aerospace & Advanced Hardware (una creatura di Cdp Venture Capital, Fondazione CRT e UniCredit) e “saranno rese disponibili le capacità di sperimentare tecnologie innovative” presso il Centro di Supporto e Sperimentazione Navale della Marina Militare di La Spezia e il Centro Italiano Ricerche Aerospaziali (CIRA) di Capua, società partecipata dell’Agenzia Spaziale Italiana, del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Regione Campania.

Un mixer – letteralmente esplosivo – di organizzazioni militari internazionali, grandi, medie e piccole industrie, istituzioni pubbliche e private, banche e gruppi finanziari, autorità statali, regionali e locali, università e centri di ricerca scientifica che farà di Torino la capitale europea delle guerre globali aerospaziali del XXI secolo. Guerre ancor più automatizzate e disumanizzate di quelle a cui abbiamo assistito, impotenti e inorriditi, in questi ultimi decenni.

*I corsivi e i grassetti presenti nell’articolo sono i mei (LL).

**Giornalista e saggista. Ecopacifista e antimilitarista.

 

Trump, ora più che mai!_di Roger Stone

Qui sotto pubblichiamo l’appello lanciato da Roger Stone a sostegno della ricandidatura di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Roger Stone è stato, assieme al Generale Flynn, una figura chiave della prima elezione di Trump. Non tutti lo hanno compreso nel movimento MAGA; forse nemmeno appieno lo stesso Trump, almeno sino a quando lo ha graziato dalla persecuzione giudiziaria allo scadere del suo mandato presidenziale. Lo hanno capito benissimo al contrario i suoi avversari portandolo con ferocia e spietatezza alla rovina economica e ad una condizione di salute precaria. Non ostante, assieme a qualche altro fondatore, abbia scelto di mettersi saggiamente in disparte al momento dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, è rimasto comunque nel mirino spietato dei suoi avversari. Ricordiamo tutti la vergognosa spettacolarità della vera e propria operazione militare che lo ha condotto agli arresti in piena notte nella sua abitazione. Roger Stone è stato un alto funzionario dello stato federale con incarichi chiave sin dalla lontana amministrazione Nixon. Conosce benissimo i meccanismi di funzionamento delle dinamiche politiche americane ed ha intuito, tra i primi, la via del disastro verso la quale stavano conducendo il paese le varie amministrazioni, a partire da quella di Bush Senior e i centri decisori presenti negli apparati nevralgici. A settanta anni Stone getta sul terreno il peso della sua autorevolezza per sostenere ancora una volta Trump e diradare almeno in parte la cortina fumogena stesa sulle candidature alternative, o presunte tali che stanno emergendo. Non conoscendo bene, nei particolari, le dinamiche interne al movimento, nutriamo qualche dubbio, però, sulla giustezza di questa ricandidatura di un personaggio dai limiti, pari alla sua tenacia, evidenti e sulla maturità di eventuali candidature realmente alternative. Tanto più che, alla sua seconda riproposizione, non sembra disporre del sostegno e del supporto di un gruppo ben organizzato, strutturato ed esperto. La dinamica dello scontro politico negli Stati Uniti vive una fase di stallo, ma solo apparente. Di fatto la polarizzazione geografica del conflitto interno si è ulteriormente accentuata con l’ulteriore fattore dirompente di un movimento che continua ad estendersi nei ceti popolari produttivi delle varie etnie. L’alterazione dei risultati elettorali con brogli ormai su scala industriale sta facendo il resto, insinuando il dubbio sulla effettiva efficacia di un impegno politico fondato e dettato esclusivamente sulle scadenze elettorali in un movimento che ha compreso l’importanza di un radicamento nei centri amministrativi e di potere e di una connessione con quelle élites dissenzienti con l’attuale politica avventurista. Il movimento MAGA vive all’interno profonde contraddizioni tra chi punta ad una azione tendente semplicemente a dividere il fronte geopolitico avversario che si sta compattando, più per la costrizione esterna americana che per affinità dei componenti, attorno al polo russo-sino-indiano e chi, mosso probabilmente da una impostazione economicista e un po’ ingenua, tende a ridurre le dinamiche geopolitiche ad una serie di relazioni bilaterali mutevoli. Una interpretazione, quest’ultima, probabilmente accettabile e praticabile solo in una fase temporanea di transizione verso una ricomposizione multipolare degli schieramenti e non a caso sostenuta, paradossalmente, anche dalla attuale leadership cinese. Un aspetto che avrebbe dovuto far riflettere meglio la dirigenza cinese, riguardo al suo comportamento nei confronti di Trump. Un movimento il cui successo, però, potrebbe condurre ad una dinamica meno tragica le relazioni geopolitiche e spostare più all’interno degli Stati Uniti un conflitto che, altrimenti, coinvolgerà il mondo intero. Una classe dirigente e un ceto politico serio e legato agli interessi fondamentali dei paesi europei più importanti dovrebbe sostenere ed agevolare convintamente la strada di questo movimento proprio per gli spazi che un suo successo definitivo aprirebbe ad una condizione più autonoma ed indipendente dell’Europa. Il carattere miserabile, stupido, insipiente e compradore di questi, già visibile in quei quattro anni, sta emergendo, purtroppo, sempre più alla luce del sole condannando, con poche eccezioni, un intero continente al disastro inconsapevole ed autolesionistico a vantaggio di una élite sempre più arroccata. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 

ROGER STONE: TRUMP, ORA PIÙ CHE MAI

Trump non è accettato o sostenuto dai membri titolari di tessera dell’establishment repubblicano di Washington. Questa è una virtù, non una pecca.

 

Nel suo discorso di annuncio alle sua corsa alle presidenziali 2024, un discorso ordinato e perfettamente disciplinato, Donald Trump si è riformulato come un outsider politico pronto a tornare alle guerre politiche di vecchia stagione e a sfidare gli interessi politici e mediatici radicali che hanno sistematicamente ribaltato e neutralizzato il progressi fatti durante la sua prima presidenza.

Quelli del movimento MAGA riescono a percepire, attraverso la narrativa accuratamente orchestrata, implacabile e completamente falsa, la tesi che cerca di incolpare l’ex presidente per la sottoperformance del partito repubblicano nelle elezioni di medio termine. Com’è conveniente che la vittoria relativamente facile del candidato appoggiato da Trump J.D. Vance in Ohio, così come la dura, ma riuscita rielezione del senatore Ron Johnson (forse il più grande difensore di Trump al Senato degli Stati Uniti) in Wisconsin sono così facilmente trascurate dai media.

Quelli della cabala corporativa/governativa/mediatica ora elevano lo spettro di una candidatura del governatore della Florida Ron DeSantis. La scelta di De Santis come principale nemico di Trump è un riconoscimento del fatto che il collegio elettorale dell’America Prima (MAGA) è ancora dominante alla base del Partito Repubblicano. DeSantis, nonostante il suo pedigree, ha governato in Florida seguendo il manuale del MAGA.

L’establishment, che ora cerca di distruggere Trump, ha già riconosciuto la non fattibilità di presentare come alternativa a Trump l’ex vicepresidente Mike Pence o l’ex direttore della CIA e segretario di Stato Mike Pompeo, tutte e due potenziali candidature assolutamente impopolari tra la base di MAGA. L’ascesa di una potenziale candidatura di De Santis, toglie prezioso ossigeno che una delle loro candidature richiederebbe.

L’unico altro potenziale candidato, dietro cui la cabala repubblicana/mediatica poteva schierarsi, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato sostanzialmente neutralizzato da Trump quando l’ex presidente ha tenuto un comizio caloroso a favore di Rubio, in Florida, nel momento in cui  la rielezione del Senatore Rubio era in bilico. La sfida contro la candidata Democratica si presentava problematica poiché la deputata della sinistra radicale; Val Demings era ben finanziata e organizzata. L’intervento di Trump ha tolto dalla pentola bollente Rubio forzando poi Rubio ad essere in debito con Trump e quindi ora fedele all’ex presidente.

Prima del comizio di Trump a Miami, i sondaggi mostravano che Rubio era in vantaggio su Demings di soli tre punti, ma dopo il comizio di Trump, il senatore Rubio ha ottenuto una vittoria finale di 16 punti rispetto alla Demings.

Con Pence e Pompeo che mancano del necessario appeal nella base repubblicana e con Rubio dipendente ora da Trump,altro non rimane che DeSantis.

Ieri sera ho partecipato allo storico annuncio del presidente Trump a Mar-a-Lago della sua candidatura per le presidenziali del 2024. C’era elettricità nell’aria che non vedevo né sentivo dall’inizio del 2016. I media hanno rapidamente sottolineato che mentre io e Mike Liddell, descritti come “i sostenitori di Trump”, eravamo tra il pubblico, nessun membro del nuovo Congresso era presente . Ancora una volta, i media giudicano male l’umore degli elettori;  il fatto che Trump non sia appoggiato o sostenuto da membri tesserati dell’establishment repubblicano di Washington è un pregio, non un difetto.

L’assalto organizzato dall impero mediatico NewsCorp di Rupert Murdoch, tra cui Fox News, il Wall Street Journal e il New York Post, mette in mostra una chiara impressione errata del ruolo svolto da Fox e dalle altre testate giornalistiche di Murdoch nell’ascesa iniziale di Trump.

Fox News ha cercato sistematicamente di promuovere più sfidanti a Trump nelle primarie del 2016. Tuttavia, ha visto svanire quegli sforzi quando hanno scoperto che trasmettere dall’inizio alla fine i comizi di Trump faceva guadagnare gli indici più alti di ascolto mai registrati prima nella storia di Fox News, consentendo così a Murdoch di addebitare molto di più per la pubblicità sulla sue reti. Fox News ha  beneficiato della nomina e dell’elezione di Donald Trump più che Trump abbia beneficiato delle dirette fatte dalle emittenti di Murdoch.

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump potrebbe affrontare coloro che traggono grandi profitti dall’immigrazione illegale e frontiere aperte?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump smaschererà e correggerà la corruzione nelle nostre agenzie di intelligence e negli uffici delle forze dell’ordine, come la CIA e l’FBI?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump organizzerà una campagna nazionale per porre un limite temporale per  i membri eletti del Congresso?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump imporrebbe il divieto agli ex membri del Congresso, o del ramo esecutivo, di esercitare pressioni dopo aver lasciato le alte cariche del governo?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump sfiderà il duopolio bipartitico che sta cercando di cancellare la nostra eredità, cancellare la nostra Costituzione e distruggere le stesse libertà che garantiscono lo stile di vita americano?

Ecco perché sono con Trump, ora più che mai.

 

Roger Stone

Cambio di epoca, di André Laranè

Da Olaf Scholz a Joe Biden, il ritorno del protezionismo

23 novembre 2022: la “terza globalizzazione” volge al termine. Questo fenomeno era stato a lungo evidente. Ma ciò che lo era di meno è il caos in cui si pone con gli Stati dell’Unione Europea che competono tra loro attraverso i sussidi e gli Stati Uniti che stabiliscono senza remore misure fortemente protezionistiche a vantaggio dei loro industriali nazionali…

Attraverso il caos economico che ha provocato (penuria, embarghi, crisi energetiche, ecc.), la guerra in Ucraina ha rilanciato la guerra commerciale e questa ha colpito in primo luogo gli Stati che si erano maggiormente impegnati nel libero scambio, vale a dire gli Stati europei.

Siamo molto probabilmente giunti alla fine di un ciclo storico iniziato dopo la seconda guerra mondiale con i negoziati internazionali a favore della liberalizzazione degli scambi ( Kennedy Round ) e culminato a fine secolo con la creazione del WTO ( World Trade Organization ) nel 1994. Non è niente di nuovo sotto il sole. È la riedizione di una politica di libero scambio iniziata con il  trattato franco-britannico del 1860 e durata fino alla vigilia della Grande Guerra. In questo periodo, ricorda Suzanne Berger, docente al MIT di Cambridge (Massachusetts),“l’internazionalizzazione dell’economia lì ha raggiunto, nei settori del commercio e della mobilità dei capitali, un livello che riprenderà solo a metà degli anni ’80”  ( nota ).

Contestata dagli antiglobalisti  fin dall’inizio del XXI secolo, la  “terza globalizzazione”  è oggi allo stremo (621). Niente di straordinario in questo. I suoi principali iniziatori, vale a dire gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, hanno esaurito il suo fascino. Ciò che è inatteso, invece, è la ricomposizione dei circuiti di scambio attorno al pianeta e la ridistribuzione delle carte. Quasi vent’anni fa, abbiamo evocato l’ avvicinarsi della fine di questa globalizzazione prevedendo la costituzione di blocchi più o meno interdipendenti: Americhe, Europa-Russia-Mediterraneo, Asia meridionale e paesi dell’Oceano Indiano, Estremo Oriente.

Ce ne stiamo allontanando infatti per ragioni che hanno a che fare con l’ideologia e le bizzarrie geopolitiche piuttosto che con la razionalità economica. La Russia, ricacciata nelle tenebre , ruppe brutalmente con l’Europa alla quale era destinata ad associarsi. Nella stessa Europa, la moneta unica ha aggravato le divergenze e le tensioni tra il nord (ex “zona del marco” ) e il sud ( “Club Med” ). Dall’Algeria all’Iran, il mondo mediterraneo e mediorientale non offre più serie prospettive di sviluppo. La Cina, dopo gli sgargianti successi, prende atto del fallimento delle sue Nuove Vie della Seta. Comincia a soffrire, come i suoi vicini, dell’invecchiamento della sua popolazione e del mancato rinnovamento delle generazioni. Solo l’Asia meridionale ei paesi dell’Oceano Indiano (India, Insulindia, ecc.) proseguono la loro allegra strada.

L’Occidente sull’orlo di un esaurimento nervoso

In Occidente, il libero scambio si è manifestato per l’ultima volta con l’attuazione del trattato commerciale tra Europa e Canada (CETA). Il trattato è entrato in vigore il 21 settembre 2017, “provvisoriamente” , senza votazione da parte dei parlamenti nazionali. Da allora, la ribellione degli elettori alle urne e nelle strade così come la rivelazione della nostra fragilità industriale in occasione della pandemia (carenza di mascherine, respiratori, ecc.) hanno raffreddato l’ardore liberista.

Infine, la guerra in Ucraina ha fatto cadere le maschere. Quando si è trattato di riarmo, Polonia e Germania si sono subito rivolte agli Stati Uniti per ordinare caccia F-35 senza preoccuparsi di considerare l’offerta francese con il suo Rafale . Qualche mese dopo, per dare il cambio, tutti fingono di voler riattivare il progetto di un aereo europeo.

Nel settembre 2022, il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato lo sblocco di 200 miliardi di euro per proteggere le persone e soprattutto le aziende dall’aumento dei prezzi dell’energia. Questa misura a sostegno della sua industria, presa senza consultazioni con gli altri governi europei, è uno schiaffo in faccia ai partner commerciali della Germania e in particolare alla Francia, che non hanno tante riserve monetarie e temono che le loro aziende vengano schiacciate dai loro rivali tedeschi.

Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti, forti della loro onnipotenza militare, se ne servono apertamente per rompere quel che resta dell’autonomia europea.

Il sabotaggio dei gasdotti balticiha infranto le speranze degli industriali tedeschi di trovare rapidamente energia a basso costo. Due mesi dopo, nonostante i mezzi di indagine a disposizione degli americani, non sappiamo ancora chi si celi dietro questo sabotaggio: i perfidi russi, come suggeriscono i media occidentali, o gli inglesi che, con i loro luoghi di conoscenza, avrebbero agito su ordine da Washington, come suggerisce il Cremlino? Eppure questo sabotaggio è un nuovo duro colpo per gli europei che sono costretti ad acquistare a caro prezzo lo shale gas liquefatto americano, mentre cittadini e industriali d’oltreoceano possono continuare ad acquistare questo stesso shale gas a un prezzo tre volte inferiore: 10 dollari invece del 30 per mille BTU (unità termiche barili).

Infine, a seguito della sua promessa agli elettori che lo hanno riconfermato alla Casa Bianca, Joe Biden ha firmato l’ Inflation Reduction Act (RIA). Con il pretesto di combattere sia l’inflazione che il riscaldamento globale, ha sbloccato 300 miliardi di dollari a beneficio dei suoi concittadini con in particolare un credito d’imposta fino a 7500 dollari, riservato all’acquisto di un veicolo elettrico uscito da una fabbrica nordamericana con una batteria prodotta localmente. Si prevede inoltre che la fabbrica sia aperta ai sindacati statunitensi, il che esclude le fabbriche di produttori asiatici installate in America! Questa clausola rivolta gli europei e in particolare il commissario europeo al mercato interno Thierry Breton, che vede“Ingenti sovvenzioni che possono portare a distorsioni della concorrenza” .

Si apriranno trattative tra gli alleati per cercare di appianare queste divergenze senza però vedere gli assetti degli europei, divisi e più che mai dipendenti da Washington in materia militare e strategica. Questa situazione ricorda i rapporti tra Atene ei suoi “alleati”  della lega di Delo , dopo che questi ultimi avevano affidato ad Atene la loro sicurezza contro l ‘”orso” persiano .

https://www.herodote.net/D_Olaf_Scholz_a_Joe_Biden_le_retour_du_protectionnisme-article-2838.php

“La guerra necessaria. Logiche della dipendenza, di Alessandro Visalli

La guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari. Anche se lascia senza parole, tutto ciò non accade per caso: appena la posizione dei nostri sistemi economici nella catena del valore, o, per dirlo meglio, nella catena dello sfruttamento e dell’estrazione di valore mondiale è stata sfidata, e ciò si è fatto urgente[1], allora abbiamo immediatamente dismesso l’abito del mercante per prendere dagli antichi armadi quello del guerriero e tutta la sua epica. Non appena i nostri privilegi, la possibilità di avere i nostri agi e i nostri giocattoli con poche ore di lavoro (mentre i fattori con i quali sono prodotti derivano da tantissime ore di altri umani meno umani) è stata messa a rischio allora è uscito lo spirito vero dell’Europa. Il pirata Drake, fatto baronetto e poi divenuto parte della schiatta dominante; i tanti avventurieri senza scrupoli ma con tanto coraggio che hanno piegato il mondo; la corazza di Cortez, … Tutto è tornato, anche la nausea.

Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio[2] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l’allineamento del mondo agli standard dell’occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[3] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[4], storicamente necessaria, dei “progressi”[5] della “Ragione”[6] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[7], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata oggi dalla direzione che stanno prendendo i fatti.

Bombardamento di Belgrado, 1999

 

Ci sono molte chiavi possibili per comprendere questo fenomeno. Una risale allo scontro di potenza (ovvero tra “grandi potenze”[8]) che ha un sapore novecentesco inconfondibile. Per chiamare un testimone non sospettabile di amicizia con il nemico, Chas Freeman[9] ha recentemente dichiarato[10] che la guerra tra Ucraina e Russia assomiglia alle guerre per procura tra i blocchi della guerra fredda, come quella del Vietnam o dell’Afghanistan, dove una parte era impegnata e si logorava e l’altra operava in modo indiretto. La parte che agiva tramite il procuratore, fino al suo ultimo uomo, non aveva alcun interesse a porvi fine. In questo caso Washington ha costantemente soffiato sulla brace fino a che è divampato il fuoco. Come scrive nel suo articolo, ha “trascorso gli ultimi otto anni ad addestrare ed equipaggiare le forze ucraine per combattere la Russia e i separatisti a Donetsk e Lugansk. Ha sostenuto con forza la resistenza ucraina all’aggressione russa, suggerendo al contempo che potrebbe opporsi a un accordo ucraino con Mosca, che considera troppo favorevole alla Russia”. Insomma, “queste politiche non mirano a produrre una pace. Mirano a sostenere la guerra finché ci sono ucraini disposti a morire in combattimento con i russi”. Dunque, in sintesi, “nella guerra in Ucraina, abbiamo appena assistito alla fine del periodo successivo alla Guerra Fredda, alla fine del secondo dopoguerra e all’era di Bretton Woods, alla fine della pace in Europa e alla fine del dominio globale euro-americano. Le sanzioni ora divideranno il mondo in ecosistemi in competizione per finanza, tecnologia e commercio. Difficilmente possiamo immaginare le implicazioni di una tale trasformazione.”

Guardando invece la cosa dal punto di vista russo per il politologo russo Dmitrij Trenin[11] la guerra per procura con gli Stati Uniti è da inserire in un complessivo processo di cambiamento dell’ordine mondiale che vede il baricentro di attività economica spostarsi dall’Euro-Atlantico all’Indo-Pacifico. In questa crisi si sta abbandonando l’eredità di Pietro il Grande, ovvero il desiderio Russo di essere parte integrante della civiltà paneuropea che è andato avanti sino al “primo” Putin (il quale chiese di entrare nella Ue e nella Nato). Il fallimento di questi tentativi deriva però dal semplice fatto che “gli edifici europei sono stati costruiti ed occupati sotto la protezione degli Stati Uniti, e non della Russia”. Questa, come dice, “non è colpa di nessuna delle parti. È impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali; ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica” (questa è la frase chiave, sulla quale torneremo nel seguito).

E’ sempre più evidente che i paesi ‘non bianchi’ (secondo la razzistica tassonomia implicita, e talvolta non solo, occidentale[12]) emergono alla consapevolezza che la pluralità di civiltà esistenti ha pieno diritto di considerarsi alla pari con quella occidentale. Le civiltà cinese, indiana e islamica si stanno quindi alzando e rifiutano la visione gerarchica lungo il maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’[13]. Di fronte a questa contrapposizione, anche culturale, la guerra ibrida[14] in corso nasconde e manifesta ad un tempo grumi concreti di interesse, di classe e di gruppo. Specificamente l’interesse dell’Occidente (anzi, di uno degli occidenti) a conservare la sua capacità di aspirare dal mondo il surplus, tramite il commercio ineguale e tramite l’interconnessione finanziaria, e sostenere in tal modo un tenore di vita che eccede quello del resto dell’umanità. Interessi che sono per questo accuratamente nascosti sotto più strati sovrapposti di ideologia e di sentimenti apparentemente umani.

 

Perché, però, Trenin dice che è impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali in quanto ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica? Uno schema analitico[15] proposto a partire dagli anni cinquanta del novecento (con antesignani negli anni venti e trenta) e poi sommerso negli anni novanta dalla fine della guerra fredda può fornire qualche indizio. Esso individuava nella “metropoli” una tendenza alla concentrazione e sottoinvestimento tenuta a tratti sotto controllo da specifiche ‘controtendenze’ le quali coinvolgono le “periferie”. Le principali nel secondo dopoguerra furono la guerra fredda (con l’espansione del sistema militare-industriale e i corposi investimenti pubblici connessi), l’esportazione di capitale per sfruttare lavoro e materie prime a basso prezzo, e la cetomedizzazione[16], che contribuì a spegnere le tensioni politiche create dalle numerose ‘periferie’ interne. La nozione di ‘periferia’ e di ‘centro’ (o “metropoli”) era una delle chiavi più importanti ed anche una delle più delicate della teoria e viene ripresa spesso nel dibattito contemporaneo.

Uno dei punti chiave era che il dirottamento del surplus su spese improduttive (il cui massimo esempio è in quelle militari), lungi dall’essere uno spreco ed una distorsione, diventa una necessità sistemica che serve nel breve termine ad impedire la stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale. Dunque, sempre nel breve termine, esso rende possibile la prosecuzione dell’accumulazione. Le merci e i servizi prodotti, infatti, nelle condizioni monopolistiche hanno una strutturale difficoltà a trovare collocazione in un mercato interno reso debole dall’eccesso di estrazione di surplus e di concentrazione dei profitti e dei capitali. Ne deriva la tendenza alla successione di fasi di espansione e destabilizzazione, e di conseguente l’insorgere ciclico di fasi di disordine sistemico (anche politico), che caratterizzano la fisiologia del sistema capitalistico esteso.

La tesi, avanzata già alla fine degli anni Quaranta, era che le ‘ragioni di scambio’[17] tra paesi sviluppati e non tendono, nel lungo periodo, a sfavorire i paesi esportatori di prodotti primari in favore di quelli che esportano prodotti manifatturati. È la debolezza relativa del mondo del lavoro nelle periferie a determinare questo effetto, per il quale i prodotti industriali contengono, a parità di prezzo, molto meno lavoro e meno fattori (energia, materia) di quelli con i quali sono scambiati. Di qui la prescrizione classica di procedere ad un’industrializzazione forzata. La prescrizione economica principale di tutte le diramazioni della teoria è la cosiddetta “disconnessione[18]. Ovvero, partendo dal riconoscimento dell’esistenza di una ‘metropoli’ sfruttatrice e di una ‘periferia’ sfruttata, della necessità di sviluppo industriale autonomo e della ‘sostituzione delle importazioni[19]. Una prescrizione per molti versi semplicistica che è fallita ovunque non erano presenti le condizioni di forza (ma non ovunque).

 

La mondializzazione e l’Ordine Mondiale a guida occidentale (dell’Occidente collettivo) emerse proprio dopo la decolonizzazione e gli sforzi falliti di “sostituire le importazioni”; molti paesi ex coloniali a quel punto avevano infrastrutture ed erano disponibili ad avviare cicli di industrializzazione molto più solidi. I capitali (anche quelli riciclati dal saccheggio dell’est) vennero quindi proiettati nelle ex periferie con maggiore impeto ed esplose in pochi anni l’esercito di riserva mondiale. La base produttiva si sparpagliò in tutte le aree di minore resistenza. Nel modello che si affermò la domanda era, peraltro, ormai garantita dalla fluidità ed estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nacque così il sistema della “sostituzione delle esportazioni”, fragile e basato sulla liquidità, che da allora deve correre sempre più forte per restare sostanzialmente fermo. In questo contesto in via di formazione, dalla metà degli anni Ottanta, a Birmingham la “banda dei quattro” (Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, André Gunder Frank e Samir Amin) elaborò la “teoria dei sistemi mondo”. Il focus analitico si spostò dagli stati-nazione al sistema globale. Negli anni Novanta la teoria si consolidò. Venne proposta da Giovanni Arrighi una teoria dei cicli egemonici[20] non economicista, che individua come fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra due tecnologie del potere reciprocamente estranee: una ‘capitalista’ ed una ‘territorialista’. Lo schema analitico postulava l’esistenza di grandi cicli di accumulazione, composti idealtipicamente da una fase di espansione produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando ogni volta un sistema funzionalmente interconnesso. Quando i cicli vanno ad esaurimento la soluzione delle contraddizioni avviene tramite la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte di un nuovo Stato capitalistico egemonico che ha un diverso e più efficace modello. Nel complesso si passa quindi da un modello fondato sulla trasformazione DTD’ ad una TDT’, passando da un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”, nel senso di sfruttabili.

 

Secondo le ‘teorie della dipendenza’, che pure hanno andamento plurimo e notevoli divergenze interne, insomma, il capitalismo è un movimento che genera sempre una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di classe. Crea e vive di squilibri. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi sbocchi alle eccedenze di capitale che generano i “centri” (monopolistici)[21]. Ma questo determina una cronica instabilità e genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi costantemente e necessariamente economie subalterne, e quelle che Harvey chiama “coerenze strutturate incomplete” (appunto perché dipendenti). Contemporaneamente genera e sostiene alleanze di classe nelle quali quelle superiori sono di necessità estese a livello internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo (esterno ed interno) ed imperialismo. Il punto è che questo movimento a spirale, oltre ad essere costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce la concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su quelle di provenienza. Per questa ragione la geopolitica del capitalismo è sempre alla ricerca di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello sfruttamento di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca, parossistica, di ‘soluzioni’ spaziali attiva il circolo vizioso della competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio di precipitare nella violenza (anzi, è in se stesso violenza potenziale, trattenuta e minacciata).

E’ importante sottolineare che la tendenza intrinseca del capitalismo a generare scontri tra aree e dipendenze “coloniali” non è una questione di disposizione morale, ma una necessità. Non è un complotto ma un funzionamento. L’accumulazione del capitale è, infatti, in buona misura una questione geografica. Il problema è che, nel quadro di questa teoria, l’interconnessione delle dinamiche di espansione e contrazione produce oggi l’esaurimento della soluzione (alle crisi degli anni Sessanta e settanta) della finanziarizzazione e poi mondializzazione e quindi l’accelerazione di una transizione in corso da molto tempo. Transizione che è cresciuta all’ombra della fase ‘unipolare’ (quando l’egemone statunitense si è progressivamente mutato in dominatore) fino ad emergere negli ultimi anni con la doppia sfida della Cina e della Russia (e degli altri). Assistiamo perciò all’emergere di nuove potenziali costellazioni di potenza, e di una nuova egemonia possibile, che determina aree di crisi ad elevato rischio di perdita di controllo. Perdita di controllo che oggi abbiamo sotto i nostri occhi, quando la ‘violenza trattenuta e minacciata’ tende ad uscire dalle caserme.

Più concretamente, l’esaurimento, da vedere come perdita di equilibrio, del ciclo del debito sembra imminente. Le istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali da tempo è caduto il peso di salvare il sistema dal quale dipendono per intero le élite e buona parte dei sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno crescente fatica a garantire la liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe sul tappeto e sempre meno tempo è in tal modo “comprato”[22]. Tutto ciò è stato enormemente accelerato dalla crisi pandemica[23]. Dall’altra parte sono in corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[24]. Si tratta di un livello sotterraneo, ma decisivo, di tensione che spinge per mutamenti radicali a causa della difficoltà alla riproduzione del capitale, dei crescenti rischi di controllo, della dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste forze convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[25] e quindi delle strutture della vita quotidiana di molti. Queste tendenze di crisi, che possono essere lette con le lenti della “teoria della dipendenza”, si legano agli effetti depositati dalla lunga fase neoliberale. Precisamente alla ridislocazione in occidente del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli ed a più elevato tasso di sfruttamento ed alla concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione, avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’ che li organizzano.

 

La guerra tra la Russia e l’Ucraina aggiunge un’ulteriore dimensione a questa consapevolezza e sta spingendo tutte le parti del mondo a richiedere improvvisamente “indipendenza”, piuttosto che efficienza e rapidità.

Ciò che accade ha portata storica. Alcuni mesi fa il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, il filoccidentale ma fedelissimo di Putin ex Presidente ed ex Primo ministro fino al 2020 Dmitrij Anatol’evič Medvedev, ha dichiarato sulla stampa russa che le sanzioni (congelamento delle riserve, misure sui capitali privati all’estero, esclusione dallo Swift) violano la sacralità della proprietà privata e lo stato di diritto, apparentemente cari all’occidente, e dunque manifestano una ‘guerra senza regole’ che ‘distruggerà tutto l’ordine economico mondiale’. Lo distruggerà (anzi, lo ha già distrutto) perché queste misure colpiscono principalmente la credibilità stessa di chi le promuove, stracciando leggi e regolamenti, con ciò mostrando la natura del potere. Determinano l’arrivo di un nuovo “Ordine finanziario mondiale” nel quale chi non è credibile non avrà più voce in capitolo. Chi farebbe patti con un baro? La risposta russa a questa mossa è stata di tentare di capovolgere il principio di base denaro-per-merci. L’idea è di connettere merci di base, petrolio, gas naturale, materie prime minerarie e oro, al rublo. La guerra valutaria lanciata contro la Russia, fondata sull’inibizione della liquidità in modo che sia inibita sia la funzione di riserva di valore, sia quella di mezzo di scambio della moneta internazionale detenuta dal sistema economico russo, viene tradotta da questa mossa (alla quale lavora la Banca centrale Russa e la diplomazia economica altamente attiva verso i paesi ‘non allineati’, che crescono ogni giorno) in guerra di merci e monete. Ovvero in un confronto a tutto campo tra ‘merci’ cruciali e monete sovrane ad esse ancorate. Se l’Occidente ha la sua valuta finanziaria, il ‘non-occidente’ (che si genera per negazione direttamente dalla logica della ‘crociata’ politico culturale altamente autolesionista avviata dai neocon americani negli anni Novanta ed ora fatta propria dai democrat al potere[26]) ha le merci di base e anche la capacità di trasformazione. Da tempo, infatti, le basi industriali di tutte le filiere mondiali non sono più in Occidente e questo fa tutta la differenza. Allora, chi ha paura di chi? Chi punisce chi? Chi ha ucciso il cervo? Si chiede Zhang Weiwei (docente di economia al Fudan e presidente del China Research Institute) su Guancha[27].

Chiaramente, la rivoluzione contro l’Ordine valutario americano[28], lanciata in questo modo, deve vedere necessariamente la partecipazione della Cina stessa, che è ormai la più grande economia mondiale (a parità di potere di acquisto, ovvero in termini di beni reali), il più grande commerciante di beni e il più grande mercato di consumo e investimento. E’ del tutto chiaro che avendo perso tutti questi primati gli Stati Uniti sono in una posizione di fragilità.

Questa considerazione mostra con precisione la posta della guerra e anche la ragione della disperata determinazione americana (e dei suoi clienti e subalterni).

Si tratta, niente di meno che di tradire il principio cardine dell’Ordine finanziario esistente per il quale la liquidità va sempre protetta. Ovvero il principio per il quale va sempre garantito, costi quel che costi, che sia sempre possibile la convertibilità incondizionata tra moneta e credito (per cui qualsiasi credito sia sempre rilevabile a richiesta in moneta). Questo è quel che rendeva il dollaro la moneta centrale e i suoi titoli la riserva di valore più affidabile per privati e stati. Se il credito è essenzialmente una relazione rischiosa, allora ciò che è stato fatto è di distruggerlo. Ma non si può distruggere una relazione senza esserne colpiti.

Ed il colpo cade in una situazione di enorme fragilità. Infatti la potenza americana, in prima fase fondata sulla maggiore produttività e sull’enorme dotazione di infrastrutture, industrie, capacità in un mercato continentale interconnesso, dalla crisi degli anni sessanta-settanta (nella quale quella supremazia si erode) e dalla rottura del 1971 non vive più del suo commercio e della sua produzione, ma dei suoi debiti. Paradossalmente vive di rendita sui propri debiti, grazie alla tesaurizzazione come moneta del debito della sua Banca Centrale, che è accettata in tutto il mondo come moneta di riserva. Il sistema del dollaro svolge questa funzione in modo rischioso ed incerto, a causa dell’assenza di una sottostante economia effettivamente dominante, sostenuta da un attivo commerciale che renda logico detenere riserve (per acquistare beni). La funzione di riserva, questo si vede benissimo in questa crisi, ha il suo limite fuori di sé (si regge sull’indispensabile capacità di minaccia, e quindi di ordine, svolta dalle forze armate americane). Del resto, a ben vedere, c’è in pratica un solo ‘bene’ nel quale la superiorità Occidentale è ancora netta: le armi. Di qui l’assoluta necessità di spezzare la resistenza russa, prima che la Cina diventi troppo forte anche su questo terreno.

 

Dall’altra parte l’idea che emerge dalla reazione del sistema russo alla crisi, alla quale si era lungamente preparato[29], è di riposizionarsi nella catena del valore da paese ‘periferico’, che essenzialmente vende materie prime con sfavorevoli ragioni di scambio, affidandosi per il resto alle importazioni di prodotti finiti o semilavorati, a paese ‘semicentrale’ in un ecosistema dominato da centri di potenza ed industriali meno ostili (la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, i Brics, ai quali aggiungere almeno il Venezuela, alcuni paesi africani, alcuni paesi del golfo, probabilmente il Pakistan e forse l’Arabia Saudita) e, soprattutto, più complementari.

Detto in altre parole, c’è una sorta di ironia: l’occidente si aspetta che l’ambiente economico russo sia costretto dalla crisi dei capitali ad accettare una situazione di maggiore dipendenza e quindi maggior sfruttamento (banalmente di dover accettare di vendere i propri prodotti e materie prime ad un prezzo inferiore, o serbando minore quota del profitto[30]), ricollocandosi in posizione ancor più periferica. Ma la Russia sembra voler accettare la sfida e punta a ricollocarsi in un diverso ecosistema nel quale la propria industria e i propri prodotti energetici siano più necessari. Il progetto di Putin, e dei gruppi decisionali che lo circondano, è quindi di invertire la sconfitta degli anni Ottanta, ma non nel modo che pensiamo: non si tratta affatto, almeno a medio termine, di recuperare le aree di influenza territoriale perdute che, nel frattempo, si sono interconnesse con l’ecosistema economico occidentale in modo troppo intenso (tanto meno di farlo per via militare). Si tratta di qualcosa di molto più significativo: di risolvere l’incorporazione subalterna del sistema-mondo che allora fu determinata. Esiste solo un modo a tal fine, ed è quello che viene indicato come “ristrutturazione strutturale dell’economia”. Si tratta di riportare le proprie élite industriali e finanziarie, con le buone o le cattive (ed una guerra è a tal fine perfetta) sotto il dominio della propria logica ‘territorialista’; rialzare a tal fine barriere di sistema (e questo lo stanno facendo gli Usa); trovare un’altra area di proiezione per i propri capitali, nella quale la concorrenza sia più contenuta e l’ambiente normativo più controllabile. Passare da un modello trainato dalle esportazioni (quello della “Grande Moderazione” degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a stabilizzare il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il quale saranno necessari anni e potrebbe fallire, si dovrà: ristrutturare il mercato del lavoro; modificare i settori trainanti; attuare quella che in Cina è stata chiamata una “doppia circolazione”. Ciò dovrà comportare una netta ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree economiche geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali estere perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci sarà più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare, per far crescere la domanda interna. Il modello neoliberale funziona all’esatto opposto. Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i profitti industriali, e ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire il realizzo delle merci in capitale all’estero in una lotta spietata a somma zero. In questo consiste la sua “libertà”. La scommessa russa è di poter ritransitare nel modello opposto, ovviamente insieme alla Cina ed a numerosi partner. Un modello che stabilizza il proprio ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale facendo essenzialmente leva sul mercato interno, salari alti e stabili, una classe media in ascesa. Ovviamente ne fanno parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità a farsi controllare dall’esterno.

L’idea è che dentro questo sistema, che fraziona il complessivo sistema-mondo occidentale, ritagliandovi un grande enclave, la Russia possa trovare una posizione di minore debolezza. In altre parole che possa essere più necessaria, sia come fornitore di materie prime e di tecnologie avanzate (in alcuni specifici settori, aerospaziale, chimica, nucleare, militare), sia come fornitore di protezione (sfidando, ovviamente, il monopolio Usa su questo cruciale ‘servizio’). Due generi di interlocutori sono da individuare per questo progetto: in primo luogo, i grandi paesi altamente differenziati e fortemente finanziarizzati, ma che nell’ecosistema “Occidentale” sono costantemente schiacciati al ruolo di junior partner o di ospite inaffidabile[31]. In secondo luogo, i paesi intermedi, con una specializzazione più pronunciata e minori risorse umane, materiali e finanziarie. Questi si sentono spesso umiliati e vittimizzati dall’arroganza occidentale e possono essere tentati di ridurre la dipendenza.

Chiaramente, e simmetricamente, i paesi che nell’attuale sistema-mondo sono ‘centrali’ o ‘semi-centrali’ (o ‘semi-periferici’ in un centro rilevante come quello europeo), da questa riframmentazione in sistemi-mondo interconnessi, ma anche parzialmente separati, hanno da perdere. Da una parte si riducono gli sbocchi alle eccedenze di capitale, ovvero le aree nelle quali proiettare i capitali garantendone per via politica o di influenza militare la redditività. Quindi diventa più difficile il gioco di rompere gli ‘spazi regionali’, costringendoli a rilasciare i propri valori e destabilizzandoli (gioco nel quale gli Usa sono maestri, ma noi siamo i vecchi maestri ed attuali volenterosi allievi). Infine, si ridefinisce l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione del surplus; in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità ‘capitalismo’ (ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di soggettività che si definiscono per la centralità del principio organizzativo e di ordine del ‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna delle quali trova la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione nell’insieme. Posizione che è sempre gerarchica. La ragione è che tutti i fenomeni economici e sociali, ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità di essere compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione.

 

Il processo di fratturazione dell’ambiente finanziario e commerciale mondiale, e la revoca della centralità in esso del dollaro (processo che richiederà qualche anno), riprodurrà quindi quella priorità all’indipendenza che rese possibile il percorso di crescita di tanti paesi nel trentennio ’50-’80 e ne motivò la tensione ideale. Anche alla luce di questi fenomeni si può verificare come tutte le teorie trovino sempre la loro urgenza e plausibilità dal contesto del tempo. Sono, cioè, illuminate dal tempo nel quale si manifestano, più che il contrario. Prevedo che, insieme al confronto tra sistemi, intorno a questo tempo difficile tornerà perciò in campo la “teoria della dipendenza” e quella “dell’imperialismo”.

 

 

 

[1] – Fenomeno che, lo dovremo guardare con attenzione, si è incrudito quando la crisi del Covid ha spezzato le supply chain mondiali e la ripartenza ha evidenziato l’incremento senza controllo delle materie prime, con conseguenze sistemiche e cumulative a carico della competitività e dell’inflazione.

[2] – Il termine è messo in giro nel XVIII secolo e rappresenta la condensazione di un’idea contemporaneamente semplicissima e straordinariamente sottile: quella che il fatto di far passare le relazioni umane attraverso il vincolo morbido dello scambio per puro interesse (il “dolce commercio”) le trasformerà e civilizzerà. L’uomo stesso diventerà meno ferino, meno orientato a perseguire motivazioni irrazionali (come “l’onore”), e la società diventerà meno separata in enclave, in clan in lotta reciproca; sarà meno attraversata da inimicizie radicali (ad esempio religiose). Ma questa non è l’idea di una condizione ‘naturale’ dell’uomo che si tratta solo di far emergere, contiene il progetto di una antropologia minimalista. Il progetto di un “uomo nuovo” che viene prodotto dall’estensione del commercio e dalla struttura legale e governativa che lo impone. Cfr., ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero del male”, Libri Scheiwiller, 2008 (ed. or. 2007).

[3] – Altro termine chiave della costellazione liberale: si tratta del superamento del mondo tradizionale, con tutte le sue strutture relazionali ed antropologiche, i sistemi di potere, i vincoli costitutivi, i valori (ad esempio l’onore, la responsabilità concreta, la reciprocità nel sistema del dono, l’ordine presunto naturale, …).

[4] – L’idea di un procedere per “tappe” della “storia” è un’altra tipica idea illuminista, fattasi strada tra il XVII ed il XVIII secolo, viene articolata sia nell’ambiente napoletano (Gianbattista Vico, 1668-1744) sia in quello scozzese (Adam Ferguson, 1723-1816), ovviamente ciò porta a ritenere che l’uomo proceda, generazione dopo generazione, ad apprendere sempre meglio il proprio modo di essere nel mondo e quindi progredisca.

[5] – “Progresso” è probabilmente il termine più inevitabile della costellazione liberale-moderna. Il concetto è legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura cinque-seicentesca e nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto negativo”, si può leggere Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi, 2020.

[6] – “Ragione”, rigorosamente al singolare, è quindi il coronamento di questo giro di concetti e del progetto ad essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve imporre una unica via, perché aderente all’autentica natura umana (o, per meglio dire, alla natura umana che deve diventare unica).

[7] – La “Storia” è quindi orientata, ha carattere unitario, conoscibile nel suo senso, normativamente connotata.

[8] – Il riferimento obbligato è al lavoro di Mearshmeier.

[9] – Vicesegretario alla Difesa per gli affari di sicurezza internazionale dal 1993 al 1994 ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Arabia Saudita durante le operazioni Desert Shield e Desert Storm. Freeman è noto in ambito diplomatico per essere stato vice segretario di Stato per gli affari africani durante la storica mediazione statunitense per l’indipendenza della Namibia dal Sud Africa e del ritiro delle truppe cubane dall’Angola. Ha inoltre lavorato come Vice Capo Missione e Incaricato d’Affari nelle ambasciate americane sia a Bangkok (1984-1986) che a Pechino (1981-1984). Dal 1979 al 1981 è stato Direttore per gli Affari Cinesi presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ed è stato il principale interprete americano durante la storica visita del presidente Richard Nixon in Cina nel 1972.

[10] – Si veda https://it-insideover-com.cdn.ampproject.org/c/s/it.insideover.com/guerra/ucraina-ex-ambasciatore-freeman-usa-non-vogliono-pace-ucraina.html/amp/

[11] – Dmitrij Trenin, “Riflettendo sul percorso internazionale della Russia: chi siamo, dove siamo, per cosa e perché”, Guancha, 15 aprile 2022

[12] – Si può vedere il post “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022.

[13] – E’ quello che, in una diversa prospettiva, mostra Christopher Coker in “Lo scontro degli stati-civiltà”, Fazi Editore, 2020 (ed- or. 2019).

[14] – Si veda Qiao Liang, Wang Xiangsui, “Guerra senza limiti”, LEG, 2001 (ed. or. 1999).

[15] – Si veda per un inquadramento concettuale, Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020, oppure Giacomo Gabellini, “Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”, Mimesis, 2021.

[16] – Una spiegazione interna della tendenza alla crescita della classe media che caratterizzò gli anni del ‘trentennio socialdemocratico’ e con essa l’insorgenza della ‘società del benessere’ (poi revocata nel quarantennio neoliberale).

[17] – Si definiscono “ragioni di scambio” il rapporto tra l’indice dei prezzi all’esportazione di un paese e quello dei prezzi all’importazione. Dal punto di vista dell’intero paese, rappresenta l’ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici.

[18] – Dai flussi di capitale governati dal ‘centro’ e dalle altre forme di dipendenza commerciale e/o politica.

[19] – Si veda R. Prebisch, Crecimiento, desequilibrio y disparidades: interpretación del proceso de desarrollo económico, 1950, in italiano. La crisi dello sviluppo argentino. Prebisch è, con Hans Singer, il creatore della tesi della “sostituzione delle importazioni”, per la ragione che il deterioramento continuo delle ragioni di scambio delle economie primarie, normalmente periferiche, è conseguenza del fatto che la domanda di prodotti manufatti cresce molto più rapidamente di quella delle materie prime.

[20] – Qui la coppia interpretativa è quella dominio/egemonia per la quale si è soliti rinviare ad Antonio Gramsci. Il concetto di ‘egemonia’, per essere compreso, va connesso con la sua assenza, ossia con il puro e semplice “dominio”. Dove il potere è nudo, privo della necessaria componente del consenso. Ma il vero potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti e ai cuori, si fa seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo e la meccanica dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base” degli interessi e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il vero potere è dunque egemonia.

[21] – Data la loro difficoltà a trovare occasioni di investimento al livello adeguato per effetto dei rendimenti decrescenti.

[22] – Vedi Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013

[23] – Interviene in questa situazione, da tempo compromessa, lo shock determinato dall’attesa pandemia figlia dei molti squilibri del mondo e della sua vorticosa e irresponsabile integrazione orizzontale senza protezione. Quella in corso è solo l’ultima delle recenti zoonosi che si sono diffuse nel mondo, uccidendo negli ultimi quarant’anni oltre trenta milioni di persone. C’è una relazione piuttosto riconoscibile tra l’estensione degli insediamenti umani, a ridosso di tutte le rimanenti aree di naturalità, e lo sfruttamento intensivo della vita stessa (ad esempio, degli allevamenti) e la frequenza e rapidità con la quale batteri, virus e funghi, protisti, prioni e vermi, riescono a fare un salto di specie ed a replicarsi tra uomo e uomo. Ed inoltre, una volta che il patogeno si è insediato nell’ospite umano la velocità con la quale questo entra in contatto con altri ospiti e questi si muovono nel mondo. La pandemia amplifica e accelera le molte linee di crisi antecedenti e tendenze già in movimento. Lo fa in quanto figlia dell’interconnessione del mondo e dell’estensione in esso del modo di produzione capitalista, per sua natura incapace di limitarsi nello sfruttamento di qualsiasi cosa sia utilizzabile come merce.

[24] – Una recente ricostruzione, se pur di parte liberale, si può leggere in Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Il Mulino 2019.

[25] – Intendo per “piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi, coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (e in ultima analisi possibile).

[26] – Si veda, “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022. E anche “Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”, Tempofertile, 5 aprile 2022.

[27] – Zhang Weiwei, “Russia vs Stati Uniti: la guerra del denaro e della valuta”, Guancha, 25 aprile 2022

[28] – Si nomina in questo modo la capacità della moneta americana, fino al 1971 nel suo ancoraggio nominale all’oro e in base al Trattato di Bretton Woods e dopo senza di esso, di essere quella riserva di valore ed unità di conto che rende stabile il sistema finanziario mondiale.

[29] – Nella crisi Ucraina del 2014 la Russia ebbe chiarissimo che ad uno scontro con l’occidente si sarebbe ad un certo punto giunti, e che la stessa Ucraina lo voleva. La preparazione al momento è stata condotta allargando le riserve, riducendo l’esposizione in dollari, rinforzando le relazioni internazionali con i paesi non occidentali. Per un chiarimento si può vedere questo video del 2014.

[30] – Ad esempio, cedendo alle multinazionali britanniche o Usa le concessioni delle proprie risorse minerarie a fronte di royalties limitate.

[31] – Questi, che vanno dalla Cina all’India con l’aggiunta del Brasile (ma guarderei anche al Messico), sono in qualche modo ed a vario modo riluttanti a fare lo stesso passo. Lo faranno solo se costretti, quindi fino a che il network al quale tutti stanno lavorando non sarà consolidato cercheranno di stare su tutti i tavoli. In ogni caso sono troppo grandi per chiudere completamente le porte. In prospettiva cercheranno di ascendere al ruolo di egemone di un nuovo sistema-mondo guidato in modo federato.

https://tempofertile.blogspot.com/2022/11/la-guerra-necessaria-logiche-della.html?fbclid=IwAR1DXEnxj9Yd2H3wZ57lwUK7Tv2otY6A3JK0dyoOhmrb6LwO6i_km_l9GBg

È guerra, Josep, ma non come la conosciamo_di Aurelien

Cercando di capire cos’è l’Ucraina.

Ho in gran parte evitato di scrivere qualcosa di troppo attuale sul conflitto in Ucraina e dintorni, perché non mi piace la polemica, e comunque non ho abbastanza conoscenze tecniche per scrivere di questioni militari quotidiane. Nondimeno, non posso fare a meno di essere colpito dal senso di disorientamento e confusione intellettuale che mostra molta della scrittura occidentale sulle operazioni militari. A sua volta, questo deriva, suggerisco, da una fondamentale riluttanza occidentale a fare il duro lavoro di apprendere la strategia e gli usi politici della forza militare, e ad alzare gli occhi dagli eccitanti scoppi e boom, avanzate e ritirate sul campo di battaglia, e guardare il quadro generale.

Quindi qui, proverò a fare un passo se non tre indietro; parlerò del più grande dei grandi quadri e cercherò di mostrare come vari fattori politici ed economici debbano essere presi in considerazione per capire cosa pensano i russi e cosa stanno cercando di fare. Qualunque sia la tua opinione sul conflitto, è molto difficile dire qualcosa di utile al riguardo (sto guardando te, Josep Borrell, per esempio) a meno che tu non faccia uno sforzo per capire l’importanza di questi fattori.

Fortunatamente, altri si sono comportati così prima di scrivere di strategia, e nessuno più fruttuosamente del grande soldato prussiano e teorico militare, Carl von Clausewitz. Ora uno dei motivi per cui Clausewitz è importante è che fa parte di un gruppo molto ristretto di teorici e storici, tra cui Machiavelli e Tucidide, che erano praticamente coinvolti nelle cose di cui scrivevano. Come loro, si fa riferimento a lui molto più di quanto lo si legga, e si fraintende anche quando lo si legge. Ma Clausewitz è stato il primo teorico importante ad abbandonare gli scritti dettagliati sulla tattica e a porre (e in effetti a rispondere) alla domanda: a cosa serve effettivamente la guerra?  Perché gli stati ricorrono alla forza militare? La sua risposta è stata semplice: la guerra è “un atto di forza per costringere il nostro nemico ad accettare la nostra volontà”. Vogliamo che il nostro nemico faccia qualcosa, o smetta di farlo, e quindi, dice Clausewitz, dobbiamo mettere il nostro nemico in una “situazione che è ancora più spiacevole del sacrificio che gli chiedi di fare”. Inoltre, aggiunge, questa situazione non può essere transitoria, tale che il nemico può semplicemente aspettare che le cose migliorino, ma in cui il nemico è effettivamente indifeso o è probabile che lo diventi.

Ma Clausewitz insiste sulla necessità di situare la guerra nel contesto della politica statale in generale (non “politica” come spesso qui si traduce erroneamente politik ). Le guerre iniziano, dice, a causa di qualche “situazione politica, e l’occasione è sempre dovuta a qualche oggetto politico”. Così, “la guerra non è semplicemente un atto di politica, ma un vero strumento politico, una continuazione del rapporto politico, portato avanti con altri mezzi… L’oggetto politico è l’obiettivo, la guerra è il mezzo per raggiungerlo, e il mezzo non può mai essere considerato isolatamente dal loro scopo ” (corsivo mio). Sebbene On War sia un testo proibitivo, queste citazioni (nella traduzione standard di Howard e Paret) sono tutti presi dal Libro I, e puoi scaricare una vecchia traduzione di pubblico dominio di quel Libro e leggerla in un’ora. (Forse l’ufficio del signor Borrell dovrebbe considerare di farlo.)

Dopo averlo fatto, le cose diventano immediatamente molto più chiare, e una serie di domande non poste dai media e dai politici occidentali diventano ovvie. Quali sono, ad esempio, i più grandi obiettivi politici russi? Quanto sono significativi gli attuali combattimenti in Ucraina, e in effetti quanto sono significative le singole battaglie? Quali attività parallele stanno accadendo, politicamente ed economicamente, tutte nella stessa direzione? E quale visione hanno i russi della situazione che vogliono realizzare, quello che Clausewitz chiama lo “stato finale”?

Ma perché queste domande non vengono poste in modo sistematico dall’Occidente? Dopotutto, se si vuole frustrare i piani russi, potrebbe avere senso provare a dedurre quali sono quei piani e come i russi si aspettano di realizzare il loro stato finale.

La risposta, credo, viene da una combinazione di due fattori. In primo luogo, gran parte dell’impulso politico sull’Ucraina viene dai paesi anglosassoni, la cui storia di guerra, e il cui pensiero sulla guerra, è essenzialmente di corpi di spedizione e circoscritto. A parte brevissimi periodi nel 1916-18 e nel 1944-45, gli inglesi e gli americani non dovettero mai considerare l’uso di grandi forze terrestri e aeree e sviluppare una dottrina per il loro impiego. Storicamente le spedizioni militari erano piccole, con obiettivi limitati, lontane dalla madrepatria. La guerra delle Falkland del 1982, nonostante sia stata una notevole conquista militare, si inserisce perfettamente in questa tradizione, di tattiche di piccole unità, leadership individuale e improvvisazione sul campo di battaglia.

Il tipo di operazioni militari che gli europei hanno effettivamente condotto dal 1945, e soprattutto dal 1989, tende a seguire questo modello. Sebbene generazioni di ufficiali della NATO abbiano pianificato ed esercitato scontri apocalittici con il Patto di Varsavia, quei paesi che hanno effettivamente effettuato operazioni nella vita reale sono stati coinvolti in missioni di controinsurrezione o di mantenimento della pace di livello molto inferiore. E quando gli europei, ancora un po’ storditi dalla caduta del muro di Berlino, iniziarono a pensare a quali compiti avrebbero potuto svolgere i loro militari in futuro, la loro ipotesi migliore fu più o meno la stessa: missioni di pace, evacuazioni con assistenza militare, gestione delle crisi e relativo dispiegamento e così via. E così il servizio nazionale e i grandi eserciti furono abbandonati, la guerra su larga scala ad alta intensità smise di essere studiata se non come storia e le carriere venivano costruite guidando piccoli gruppi di soldati in missioni lontane.

Il secondo fattore è semplicemente che in generale le guerre dell’Occidente sono state guerre a responsabilità limitata, dove ci sono state poche vittime in patria. È vero, le guerre in Algeria, Angola e, probabilmente, Vietnam, hanno prodotto convulsioni politiche e fatto cadere i governi, ma la morte e la distruzione vere e proprie sono avvenute quasi tutte altrove.

Per i russi, la geografia imponeva un diverso insieme di criteri. Da sempre un paese enorme con una popolazione relativamente numerosa e lunghi confini, la nazione ha subito ripetutamente invasioni militari straniere nella sua storia. È abituato a combattere sul proprio territorio e nella sola seconda guerra mondiale ha subito quasi trenta milioni di morti, in gran parte civili. Pertanto, la difesa nazionale è letteralmente una questione di vita o di morte; pensare e pianificare la guerra avviene a un livello strategico enormemente più alto e più complesso. Vale anche la pena sottolineare che il formidabile edificio della scienza militare marxista-leninista non ha perso la sua influenza, e il marxismo era soprattutto una dottrina basata sul predominio delle forze materiali tangibili.

Questa esperienza russa produce inevitabilmente un modo di guardare al conflitto radicalmente diverso da quello occidentale, fermo restando che lo stesso Occidente ha dovuto dolorosamente imparare simili lezioni durante due Guerre Mondiali, per poi dimenticarsele ogni volta puntualmente. La guerra è vista in senso totale: come lotta politica, economica e militare combinata. Numeri puri, disciplina politica, enormi riserve di uomini e attrezzature, capacità di mobilitazione totale e pianificazione strategica a lungo raggio e ambiziosa sono caratteristiche inevitabili di un tale approccio, quindi se vogliamo vedere cosa cercano i russi, sarebbe bene includere questi fattori. Lo stato finale non è, per definizione, militare, e quindi i militari possono contribuire a tale stato finale in un’ampia varietà di modi. La vittoria sul campo di battaglia potrebbe non essere la priorità assoluta, se altri fattori stanno operando a tuo favore, e l’impiego di grandi forze su una vasta area imporrà esso stesso un modo di pensare di livello superiore. Ad esempio, dare battaglia, anche se pensi di vincere, potrebbe essere una cattiva idea se consuma unità ed equipaggiamento che saranno assolutamente necessari altrove. Meglio ritirarsi. Al contrario, invitare un nemico ad attaccare le tue posizioni, anche se tatticamente svantaggioso, può essere una buona idea se infliggi pesanti perdite che il tuo nemico non può sostituire.

Le forze armate sovietiche e russe hanno una lunga tradizione nello studio delle terribili guerre passate dal loro paese; ci sono una serie di conclusioni ovvie traibili da qualsiasi analisi del genere. Uno è l’importanza dei numeri, del personale, delle attrezzature e delle munizioni. In una lunga guerra, che i russi, a differenza dell’occidente, si sono sempre aspettati di combattere, queste cose contano moltissimo. Nella Guerra Fredda, l’Armata Rossa pianificò di vincere con una tattica nota come echeloning. In sostanza, invii prima le tue forze migliori, che vengono per lo più distrutte, ma distruggi anche le migliori forze nemiche. Quindi invii il tuo secondo scaglione e rastrelli le forze rimanenti del nemico, anche se perdi la maggior parte delle tue. Il tuo terzo scaglione non ha effettivamente opposizione e vinci. (Questo non avrebbe sorpreso Clausewitz, il quale sosteneva che era importante essere “forti ovunque, soprattutto nel punto decisivo.”) Allo stesso modo con le scorte di munizioni. Se hai due milioni di colpi di munizioni e il tuo nemico ne ha mezzo milione, il tuo nemico si esaurirà prima di te, dopodiché avrai il dominio. L’Occidente ha optato, dalla fine degli anni ’40, per avere meno armi e meno manodopera, sperando che la qualità prevalga sulla quantità. Durante la Guerra Fredda, prevedeva anche di utilizzare presto armi nucleari tattiche, poiché non poteva accettare l’onere economico di mantenere massicce forze convenzionali come fece l’Unione Sovietica. Per fortuna, non lo sapremo mai se tutto ciò avrebbe funzionato durante la Guerra Fredda, ma chiaramente è esattamente l’opposto della politica che i russi hanno perseguito di recente.

Se questo suona come una guerra su scala industriale, è esattamente quello che è. E’ letteralmente così, in quanto l’importanza della produzione bellica fu un’altra lezione tratta dal 1941-45, quando l’Unione Sovietica superò i tedeschi in attrezzature militari anche dopo aver spostato le sue fabbriche ad est degli Urali. Inoltre, l’equipaggiamento sovietico e successivamente russo era progettato per essere utilizzato dai coscritti, e quindi era mantenuto relativamente semplice, in modo da poter essere impiegato in numero molto elevato. Stiamo vedendo i risultati ora in Ucraina, dove i carri armati T-62, tenuti in riserva per molti anni, vengono inviati nel Donbass per essere gestiti dalle milizie locali e dai richiamati riservisti con standard di addestramento inferiori. L’Occidente ha optato per piattaforme che individualmente potrebbero funzionare meglio in combattimento (finora nessuno lo sa) ma sono molto più complesse e difficili da gestire e mantenere.

L’Occidente ha una difficoltà intrinseca con questo tipo di approccio. In particolare, la sua tradizione di storia e teoria militare si concentra molto più sulle battaglie che sulle campagne, molto più sui leader che sulle forze, molto più sulle storie dei singoli sistemi d’arma che sulla produzione bellica. Anche gli storici che scrivono sul fronte orientale nella seconda guerra mondiale tendono ancora a scrivere di singole battaglie (in particolare Kursk), mentre i migliori resoconti (di Chris Bellamyad esempio) solgono concentrarsi correttamente sul livello della campagna. In effetti, è stato argomentato in modo persuasivo che le singole battaglie in quel terribile conflitto influenzarono in gran parte solo il calendario preciso e che i fattori sottostanti determinarono il risultato fin dall’inizio. In particolare, la catastrofica sottovalutazione tedesca delle dimensioni e del potere di combattimento dell’Armata Rossa e l’incapacità della Wehrmacht di terminare la campagna entro l’inizio dell’autunno, sono state ritenute limitazioni molto più importanti della vittoria o della sconfitta in ogni singola battaglia. È come può essere, ma è chiaro che anche quel tipo di approccio è del tutto estraneo alla cornice intellettuale di quei commentatori occidentali che seguono ogni video, ogni voce, ogni svolta della sanguinosa partita che si sta giocando in Ucraina. Difficile trovare una metafora appropriata: forse critici musicali che discutono sul costume della primadonna in un’opera, senza menzionare se la produzione sia stata finalmente salutata da fiori e standing ovation, o dal cast bersagliato di uova marce.

Infine, i russi stanno operando, per ribadire l’osservazione che, secondo una tradizione Clausewitziana, vede la forza militare utile solo quando è chiaramente legata a uno scopo politico. (E uno scopo non è solo un’aspirazione.) L’invasione sovietica dell’Afghanistan, ad esempio, includeva una chiara strategia politica per creare sostegno al nuovo regime tra la classe media professionale, riformare lo stato e il sistema politico e creare forze di sicurezza efficaci . Alla fine non funzionò, almeno non dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma almeno fu una strategia. Al contrario, il tipo di piani per la ricostruzione afghana che ricordo di aver visto circolare in Occidente negli anni 2000, erano solo una serie di aspirazioni vagamente collegate, in cui si presumeva che le frecce sulle diapositive di Powerpoint rappresentassero in realtà una sorta di relazione causale . Più o meno lo stesso era vero al tempo della guerra in Iraq (sebbene il Dipartimento di Stato americano avesse fatto del suo meglio). A Washington, il futuro dell’Iraq era visto in termini di una serie di fantasie concordanti e sequenziali, senza alcuna idea di come si sarebbero realizzate. Principalmente, questo è dovuto al fatto che il liberalismo presuppone sempre che certi elementi politici esistano universalmente e che una volta che i Cattivi saranno rimossi dal potere, le nazioni si svilupperanno automaticamente e ineluttabilmente verso un modello democratico liberale. Questo è ancora il punto di vista prevalente odierno. Se hai a che fare con qualcosa di simile ad idee scambiate come ricostruzione post-conflitto o costruzione della pace, in particolare come commercializzazioni da organizzazioni come le Nazioni Unite e l’UE, ti verrà presentata una serie di passaggi sequenziali verso un’ipotetica utopia, ma con niente che li tenga insieme. Così, ad esempio, viene mostrato che un cessate il fuoco porta alla smobilitazione, quindi al riavvio del processo politico, quindi alle elezioni, quindi alla stabilità. Ma se chiedi con precisione come un cessate il fuoco porterà a riavviare il processo politico (o addirittura perché dovrebbe farlo) verrai accolto con un imbarazzato silenzio. E naturalmente nella vita reale generalmente non è così; è strano che sia il liberalismo, piuttosto che il marxismo, a credere nell’inevitabilità storica.

Quindi, se questa è la tradizione da cui provengono i russi, e se è per questo che l’Occidente ha difficoltà a capire cosa sta avvenendo in Ucraina, allora cosa ci dice sul tipo di piano più ampio e a lungo termine che i russi potrebbero avere, e come lo perseguiranno? Tuttavia, prima di iniziare è necessario aggiungere due chiose.

In primo luogo dovremmo evitare la tentazione di assumere ovunque “masterplan”. È facile cadere nelle teorie del complotto sugli Illuminati, il gruppo Bilderberg, la “cabala anglo-sionista” o qualche complotto per distruggere l’economia europea ideato da Washington. Ma questa è roba da bestseller aeroportuali, non da vita reale. In secondo luogo, e in parte di conseguenza, non stiamo parlando di un piano complesso e dettagliato nel corso delle generazioni, ma piuttosto di una serie di obiettivi relativamente semplici a diversi livelli, coerenti con le affermazioni russe fino ad ora, e con uno sguardo imparziale ragionevole su ciò che possono essere ovviamente i loro obiettivi di sicurezza. Da bravi studenti di Clausewitz, ci aspetteremmo che i russi considerino la guerra a tutti i suoi livelli, quindi affidiamoci di nuovo a lui come nostra guida.

Si consideri anzitutto quanto disse Clausewitz circa la necessità che la vittoria sia completa, e definitiva, per evitare che il nemico possa ricominciare la guerra. E qui ricordiamo che, nel 1945, l’Armata Rossa non si fermò al confine russo, ma arrivò fino a Berlino, dove occupò metà del paese e installò un regime fantoccio. Questo tipo di conclusione di una guerra in realtà non è insolito: nel 1814, le truppe russe occuparono effettivamente Parigi dopo la sconfitta finale di Napoleone. È solo negli ultimi decenni che accordi di pace pienamente inclusivi che affrontano le cause alla base dei conflitti, con la partecipazione di gruppi vulnerabili e complessi regimi di costruzione della pace dopo negoziati dettagliati e trattati di pace onnicomprensivi, sono diventati la norma. Quest’ultimo certamente non accadrà questa volta, motivo per cui dobbiamo stare molto attenti a come utilizziamo la parola “negoziazione”, ma non è nemmeno probabile che i russi vogliano occupare fisicamente l’Ucraina più del necessario. Quindi cosa significherebbe vittoria completa, in questo senso?

Dopo Clausewitz, la prima variabile sarebbe quella del tempo. Per i russi, l’Ucraina deve essere lasciata in una situazione in cui non sia in grado di costituire una minaccia in tempi ragionevoli. È difficile essere precisi, ma venticinque anni suonano bene. Ora, anche se i russi non facessero altro, l’ipotesi migliore è che ci vorranno dieci anni buoni per ricostituire le forze ucraine a qualcosa di simile al livello di efficacia del febbraio 2022. Ma si noti che ciò implica la disponibilità di massicci fondi (di cui l’Ucraina non dispone) o massicci, organizzati e sostenuti aiuti dall’estero, inclusi sostanziali dirottamenti di nuovi armamenti dalle già esaurite forze armate statunitensi ed europee, o sostanziali investimenti in nuova produzione di strutture soprattutto per l’Ucraina. Nessuno dei due sembra molto probabile. Inoltre, una nuova generazione di ufficiali dovrebbe essere reclutata e addestrata, l’infrastruttura militare riparata o ricostruita, e dovrebbe essere sviluppato un processo globale di conversione dall’equipaggiamento militare ex-sovietico a quello occidentale, insieme alla dottrina operativa associata. E naturalmente l’infrastruttura di base del paese dovrebbe essere riparata affinché l’esercito possa funzionare. Le possibilità di raggiungere questo obiettivo, figuriamoci nel breve periodo di un decennio, non sono grandi.

Quindi il problema potrebbe risolversi da solo. Tuttavia, probabilmente non è nell’interesse della Russia che l’Ucraina sia completamente disarmata, perché ciò porterebbe a una potenziale instabilità, che potrebbe estendersi alla Russia stessa. Qualunque governo succederà all’attuale regime di Kiev dovrà essere in grado di controllare il proprio territorio. Quindi i russi potrebbero imporre un trattato di pace all’Ucraina che, ad esempio, includa la creazione di una gendarmeria professionale, autorizzata a guidare veicoli corazzati leggeri ed elicotteri, ma non di più. I tentativi di sviluppare o acquisire sistemi più potenti sarebbero impossibili da nascondere e facili da schiacciare. Questa è una soluzione molto più elegante e molto più economica rispetto ai tentativi di costruire massicce fortificazioni o occupare territori non di lingua russa.

Tuttavia, è ovvio da tempo che l’Ucraina è solo la parte visibile dell’iceberg strategico, per entrambe le parti. L’Occidente vuole, grosso modo, un ritorno agli anni ’90 e la fine di un concorrente ideologico e strategico. Gli obiettivi russi ovviamente includono la frustrazione, ma quasi certamente vanno molto oltre. A differenza di molte persone, non ho idea di cosa ci sia nei capi collettivi del governo russo, ma è possibile fare alcune ampie deduzioni dalle bozze di trattati che i russi hanno fatto circolare nel dicembre dello scorso anno. Questi sono testi di trattati, e per di più bozze, quindi è improbabile che costituiscano qualcosa di più di una lista di obiettivi che in realtà dovrebbero probabilmente essere aggiustati verso il basso. Ma possiamo fare alcune deduzioni ragionevoli.

Il principale obiettivo russo in Europa è quello di essere la superpotenza militare locale, in un’Europa che è militarmente debole, in parte dipendente economicamente dalla Russia, e non rappresenta una minaccia militare. Per quanto riguarda la stessa Europa occidentale, ora non siamo lontani da questo: si poteva dire che solo l’Ucraina rappresentava una minaccia militare, e non è più così. L’idea sarebbe allora quella di convertire l’anello di Paesi attorno ai confini di Russia, Ucraina e Bielorussia (in pratica, Baltici, Romania e Polonia) in effettivi stati neutrali, senza truppe straniere di stanza lì. Ciò non significherebbe necessariamente che questi paesi lascino la NATO, perché le truppe statunitensi, ad esempio, sono comunque di stanza in paesi non NATO. Piuttosto, ci sarebbe un tacito accordo (come con la Finlandia durante la Guerra Fredda) che questi stati si sarebbero comportati bene nei confronti della Russia. Una componente di questa soluzione sarebbe il ritiro del numero relativamente piccolo di truppe statunitensi ancora in Europa. È probabile che ciò faccia parte dell’obiettivo parallelo di distruggere efficacemente la NATO come alleanza, dimostrando che, in pratica, non ha alcuna utilità militare e, per estensione, che quella che viene generalmente chiamata la “garanzia di sicurezza” americana è priva di valore. Si noti che questo non significa che la NATO non possa sopravvivere in qualche forma dormiente e rudimentale; è improbabile che i russi si oppongano a questo.

In tutto questo, bisogna tenere presente un altro concetto di Clausewitz: il Centro di Gravità. Clausewitz ha scritto molto su questo in diverse parti di On War, ma il modo più semplice per concepirlo consiste nel definire l’obiettivo più importante della guerra, da cui dipende tutto il resto. È “la sostanza ultima della forza nemica” sulla quale dovrebbe essere concentrato il massimo sforzo possibile. Clausewitz osserva che queste possono essere, ma non devono necessariamente essere, le forze militari del nemico. Alla fine del libro, monta una forte difesa della decisione di Napoleone di entrare a Mosca nel 1812, piuttosto che inseguire l’esercito russo sconfitto. Nessuna vittoria militare concepibile, sostiene, avrebbe potuto buttare fuori dalla guerra un paese delle dimensioni della Russia, mentre prendere e detenere la capitale nemica avrebbe potuto farlo. Alla fine, accetta che il piano sia fallito, ma in realtà valeva la pena tentare la sola cattura di Mosca. Se lo zar e l’aristocrazia fossero stati scossi dalla perdita della città come sperava Napoleone, la guerra sarebbe finita.

Clausewitz osserva inoltre che il centro di gravità potrebbe essere lo sferrare un colpo contro un alleato più potente. Quindi, nel caso delle operazioni nella stessa Ucraina, ciò significa la volontà dell’Occidente di continuare a sostenere militarmente, politicamente ed economicamente il regime di Kiev, perché se questo si ferma, finirà anche un’effettiva resistenza ucraina e questo aprirà la strada ad altri obbiettivi strategici. In una guerra in cui sia la Russia che l’Occidente stanno attenti a non colpirsi direttamente, questa volontà dovrà essere attaccata indirettamente, convincendo di fatto l’Occidente ad arrendersi, perché il successo è impossibile. Ci sono precedenti per questo, anche se possono sembrare sorprendenti. Le forze NVA/VietCong che combattevano contro gli Stati Uniti e le forze del Vietnam del Sud erano ben consapevoli di non poter ottenere una vittoria militare convenzionale. Quello che potevano fare era portare gli americani al punto in cui si rendevano conto che la lotta era senza speranza, semplicemente continuando la guerra e infliggendo danni politici ed economici agli stessi Stati Uniti. Questo lo fecero debitamente. La situazione era abbastanza simile con i francesi in Algeria e i portoghesi in Angola; entrambi erano militarmente dominanti, ma ogni guerra si concludeva con l’esaurimento politico ed economico e un cambio di governo. L’Afghanistan è un esempio più recente di un simile approccio. Quindi qui, l’obiettivo russo è probabilmente l’esaurimento politico ed economico dell’Occidente al punto in cui un ulteriore sostegno all’Ucraina sembra inutile, o addirittura impossibile. E anche se potrebbe non essere stato parte dei piani originali, è difficile credere che i russi si sarebbero pentiti che l’Occidente continuasse, almeno per un po’, a indebolirsi militarmente ed economicamente per una causa senza speranza.

Quindi, a quel livello, i russi stanno presumibilmente cercando di far rinunciare all’Occidente ad ogni speranza di una soluzione a loro favorevole. Ciò significa che non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi o ad accettare colloqui di pace. In effetti, cercano solo di dettare i termini della pace, forse lungo le linee delineate sopra. Se l’Occidente non si arrende, le operazioni in Ucraina continueranno finché sarà necessario. A un livello strategico più alto, i russi probabilmente intendono anche che la guerra duri abbastanza a lungo da rendere trasparente la debolezza della NATO e l’impotenza degli Stati Uniti, in modo tale da poter raggiungere più facilmente il tipo di obiettivi più ampi che ho appena delineato , oltre a indebolire le economie occidentali.

Ora, non ho idea se questo sia effettivamente ciò che i russi intendono fare: posso solo dire che mi sembra del tutto possibile. Questa è, dopotutto, una società che prende Clausewitz più seriamente di Harry Potter e Tolstoy come una guida alla guerra migliore di Twitter. E non ho idea se avrà successo. Ma ancora più importante, se l’analisi di cui sopra è corretta anche lontanamente, allora il fatto che l’Occidente è intellettualmente e politicamente mal equipaggiato per capire cosa stanno facendo i russi, figuriamoci circa la capacità di reagire efficacemente.

https://aurelien2022.substack.com/p/its-war-josep-but-not-as-we-know

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