GOOD BYE U.E.!, di Giuseppe Angiuli

GOOD BYE U.E.!

 Il periodo che stiamo vivendo in questo primo semestre del 2020, ricco di tumultuosi cambiamenti del nostro stile di vita in coincidenza con l’influenza globale da coronavirus, sarà senz’altro ricordato sui libri di storia come un momento topico di spartiacque da una fase storica ad un’altra, un momento in cui un vecchio ordine in decomposizione cede spazio ad un nuovo ordine che prende forma e definizione in tempo reale sotto i nostri occhi.

A distanza esatta di un secolo dall’influenza spagnola – che fece da sfondo alla ridefinizione degli equilibri geo-politici successivi al primo conflitto mondiale – un’altra pandemia dalla natura ed origine ancora non ben chiarite sta facendo da contorno ad un passaggio storico in cui tanti nodi gordiani stanno venendo finalmente al pettine, lasciando stupefatti molti tra noi, a cominciare da coloro che Bettino Craxi 25 anni fa ebbe a definire «i declamatori retorici dell’Europa», fautori di un «delirio europeistico che non tiene conto della realtà».

Come i fatti nudi e crudi stanno a dimostrare anche agli occhi dei più duri di comprendonio, un’Europa politicamente unita è sempre stata ben distante dall’esistere realmente, se non nella fantasia dei ben foraggiati burocrati di Bruxelles, giacchè troppo distanti sono sempre stati i tratti distintivi umani, linguistici, culturali e antropologici che storicamente connotano le sue sedicenti componenti fondanti.

Nel frangente più duro per i popoli del continente europeo, stanno crollando come castelli di sabbia tutti i principali luoghi comuni che hanno segnato un’epoca: il dovere di solidarietà tra Paesi vicini, i presunti effetti virtuosi dell’austerità finanziaria, lo stesso vincolo del pareggio di bilancio, la demonizzazione in sé e per sé della spesa pubblica e degli aiuti di Stato all’economia, tutti questi discutibili assunti su cui si è basata la narrazione conformista dell’europeismo retorico che ci stiamo lasciando alle spalle, stanno dimostrando improvvisamente il loro carattere fallace.

Al futuro remoto non possiamo mettere mani ma oggigiorno diventa senz’altro evidente che un’Europa davvero unita non potrà sicuramente esistere nel XXI° secolo, giacchè per i sistemi economici opulenti dei Paesi nordici come Germania, Olanda e loro satelliti risulterà sempre più conveniente camminare da soli con le loro gambe (apparentemente) forti piuttosto che mettere a disposizione dei popoli sottomessi della fascia latino-mediterranea i loro surplus di bilancio.

Questa U.E. è sempre stata come la fattoria degli animali di George Orwell, ossia una pseudo-comunità in cui ci sono sempre stati dei soggetti «più uguali degli altri».

Ormai il re è nudo e forse qui in Italia soltanto i visionari del PD potranno ancora non per molto raccontarci le loro frottole e panzane sullo spirito solidale dell’Europa comunitaria.

Se ormai perfino un ultra-europeista come Mattarella è giunto a mettere all’indice apertamente gli egoismi dei Paesi nordici in diretta TV, vuol dire che il super-lager U.E. è ad un passo dalla sua implosione, con tutti i suoi folli corollari a cominciare da quella maledetta moneta unica che a noi italiani in questo ventennio è costata la rinuncia ad una parte molto significativa del nostro tenore di vita e del nostro welfare (ahi, quanto erano belli gli anni ’80 del secolo scorso, vero?!).

Al punto in cui la crisi delle istituzioni comunitarie è ormai giunta, risulta oltremodo difficile immaginare o prefigurare qualsiasi ripensamento o accomodamento della Germania sulle folli regole di austerità dei trattati U.E.: i tedeschi nella storia hanno sempre perso quasi tutte le guerre decisive (e credo che perderanno anche quella in corso) giacchè troppo spesso hanno dimostrato di mancare di un requisito fondamentale di natura pre-politica, ossia la duttilità di cervello.

Hitler non riuscì a mutare strategia militare nemmeno quando i carri armati sovietici erano già a 5 chilometri di distanza da Berlino ed egli continuava ad assicurare con sussiego e baldanza ai suoi sodali che la Germania avrebbe senz’altro vinto la guerra.

Chi può pensare seriamente che la sig.ra Merkel e la Ursula Von der Lakrimen possano oggi dimostrare, alla vigilia dell’implosione del lager U.E., più duttilità di cervello di quanta ne dimostrò il Fuhrer nel 1945?

La Germania ha segato essa stessa il ramo su cui era seduta.

E’ giunto il momento per noi italiani di mollarla al suo destino, esattamente come abbiamo fatto alla nostra solita maniera ignominiosa nel 1943-45 (ossia decidendoci all’ultimo momento, quando i giochi sono ormai fatti e senza ancora avere deciso una vera strategia di uscita).

E dobbiamo farlo non perchè gli anglo-americani (che sono gli unici veri fautori di questa manovra che porterà al prossimo collasso della U.E.) siano buoni e caritatevoli o perchè intendano venire a «liberarci»: piuttosto, dobbiamo farlo perchè, esattamente come nel 1943-45, oggi non abbiamo altra scelta che quella di uscire il prima possibile dal lager a conduzione germanica in cui ci siamo fatti rinchiudere per nostra insipienza e temerarietà.

 

STA NASCENDO UN ASSE POLITICO DRAGHI-MATTARELLA?

In tanti sono sobbalzati sulla sedia dopo avere letto l’intervento di Mario Draghi sulle colonne del Financial Times di mercoledì 25 marzo 2020.

«Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra», ha pontificato il super Mario nazionale con il tono stentoreo di chi non ha bisogno finanche di dimostrare la fondatezza dei propri assunti, potendo contare unicamente sul senso di prestigio e sulla deferenza suscitati nell’establishment italico dal suo ruolo e dalla sua stessa personalità.

Non crediamo di sbagliare se affermiamo che Draghi sia effettivamente uno degli uomini pubblici in assoluto più influenti tra quelli di nazionalità italica, da sempre legato ai circuiti più altolocati della finanza anglo-americana, a cominciare dal colosso Goldman Sachs con cui ha lavorato per un lungo periodo.

E quel cambio di mentalità oggi ritenuto così indispensabile ed improcrastinabile consisterebbe, ad avviso dell’ex Governatore della BCE, nel fatto che il principale problema da affrontare per le economie dei Paesi dell’eurozona non debba essere più individuato nell’inflazione (come da qualche decennio a questa parte ci era stato assicurato a reti unificate da tutti gli economisti neo-liberisti di scuola ortodossa) bensì nel pericolo imminente che «la recessione si trasformi in una depressione duratura».

E per scongiurare tale pericolo, lo stesso Draghi, ribaltando di 180 gradi quei medesimi postulati che sino ad ora lo avevano reso celebre quale sacerdote indefesso dell’austerità e dei vincoli di bilancio, ha proposto che i Governi dei Paesi europei ricorrano senza indugio ad «un aumento significativo del debito pubblico».

Pur non avendo egli spiegato attraverso quali forme e modalità dovrebbe realizzarsi tale auspicato incremento del debito pubblico, le sue parole hanno indubbiamente assunto l’oggettivo significato di una svolta strategica, di quel tipo di svolte a cui ricorrono i grandi generali, per l’appunto, in tempo di guerra.

Le reazioni a caldo degli osservatori più ingenui ed istintivi, quelli solitamente abituati a guardare il dito anziché la luna, si sono presto incentrate sulle critiche – legittime quanto ovvie e scontate – alle scellerate politiche di privatizzazioni e di austerità finanziaria che per un lungo periodo hanno visto nell’insigne super Mario uno dei più strenui interpreti ed assertori, quanto meno a partire dalla sua partecipazione al noto meeting che si tenne sul panfilo Britannia nel giugno 1992 (un consesso al quale, secondo alcuni bene informati, avrebbe discretamente preso parte anche Beppe Grillo, oggi sedotto dalle formose sirene orientali).

Ma volendo andare un po’ a fondo e provare a leggere tra le righe quale significato politico potrebbe racchiudersi nelle clamorose esternazioni di Draghi, noi proveremmo quanto meno a porci alcune domande.

Quali scenari per il breve e medio periodo si lasciano intravedere nel discorso dell’ex Governatore della BCE?

Che tipo di convergenze politiche inedite – se ve ne sono – risultano sottintese alle sue dichiarazioni?

C’è un nesso logico-politico-temporale tra l’intervento di Draghi sul Financial Times del 25 marzo scorso ed il quasi contestuale anatema anti-tedesco pronunciato da Sergio Mattarella in diretta TV la sera del 27 marzo, allorquando l’inquilino del Quirinale è apparso rivolgere un ultimo e disperato appello alle entità che reggono le sorti dell’€urozona, con delle parole che non lasciano scampo ad equivoci di sorta (avendo egli auspicato che esse «comprendano la gravità della minaccia prima che sia troppo tardi»)?

E come è spiegabile l’accoglienza positiva che verso un ipotetico Governo Draghi si è presto manifestata da personalità euroscettiche tra cui si segnalano il leader della Lega Salvini (intervenuto pubblicamente in Parlamento a favore di un ipotetico Governo guidato da super Mario) ed il direttore del quotidiano La Verità Maurizio Belpietro (autore di un editoriale con stile di panegirico, lo stesso giorno del discorso in TV di Mattarella)?

Sta forse nascendo un asse politico Mattarella-Draghi-Salvini-Meloni (con quest’ultima apparentemente più fredda di altri rispetto all’idea di un Governo di unità nazionale) che avrà il compito di accantonare la stagione di Giuseppi Conte e di assumere le redini del Paese nella fase immediatamente successiva ad una ormai assai probabile e quasi imminente implosione dell’€urozona?

Noi non disponiamo della palla di cristallo per potere fornire una compiuta risposta a ciascuno dei suddetti interrogativi.

Ciò nondimeno, siamo certi che nelle fucine della politica italiana ed internazionale oggi è in fase di preparazione uno scenario di grandi e importanti novità di portata storica.

Quanto al probabile ruolo che Mario Draghi intende ritagliarsi nella nuova stagione, riteniamo decisivo soffermarci su quella parte del suo intervento sul Financial Times in cui l’ex Governatore della BCE ha precisato che «livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

A quale componente del debito privato ha inteso riferirsi Draghi?

Forse a quel debito oggi detenuto dalle grandi banche d’investimento internazionali, i cui bilanci (a cominciare da quelli di Deutsche Bank) sono pieni zeppi  di derivati tossici e di cui oggi la comunità finanziaria occidentale intende scongiurare il fallimento a catena?

 

 

Giuseppe Angiuli

Le prime manovre: Von der Leyen, Bce, mobilitazioni, riposizionamenti. Cronache del crollo, di Alessandro Visalli

Le prime manovre: Von der Leyen, Bce, mobilitazioni, riposizionamenti. Cronache del crollo.

 

Giorni pieni e convulsi.

Venerdì si è tenuto in teleconferenza il Consiglio Europeo, che ha visto uno scontro frontale e prolungato tra Spagna e Italia contro Olanda e Germania, la Francia leggermente defilata e gli altri spettatori attoniti. Al termine un veto di Spagna e Italia ha determinato il rinvio di quindici giorni con mandato alla Commissione ed alla Bce di elaborare proposte da riportare al tavolo.

Sabato, con un’inaudita dichiarazione la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, ha dichiarato che il suo mandato è di elaborare un “piano di ricostruzione” e non di lavorare sull’emissione di bond comuni. Questi, dice, sono ostacolati da “chiari confini giuridici” in quanto dietro c’è “la questione delle garanzie”. Ovvero la vecchia questione secondo la quale la Germania e gli altri paesi rifiutano quella che chiamano “un’unione di trasferimenti”, ovvero di garantire con le proprie risorse fiscali trasferimenti, in una forma o nell’altra, ovvero anche sotto forma di garanzie, ad altri paesi. Dunque, continua, “su questo le riserve della Germania come di altri paesi sono giustificate”. L’economista Sergio Cesaratto ha avuto una parola sola e semplice per questo: traditrice. Il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, invece in una conferenza stampa di qualche minuto fa ha detto, rispondendo[1][1] ad una domanda del giornalista del Corriere della Sera, che “il compito di elaborare la proposta non l’abbiamo dato alla Presidente della Commissione Europea, all’esito abbiamo dato all’Eurogruppo 14 gg per elaborare delle proposte che poi il prossimo Consiglio Europeo possa prendere in considerazione. Quel che mi permetto di dire e sarò inflessibile: qui c’è un appuntamento con la Storia, l’Europa deve dimostrare se è all’altezza di questa chiamata della storia. Uno shock simmetrico che riguarda tutti i sistemi degli stati membri. Si tratta di dimostrarsi adeguati o no”.

Venerdì la Presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, ha fatto una mossa nella direzione esattamente opposta: con tempismo insospettabile ha abolito tutti quei vincoli che la Bundesbank, in un lunghissimo corpo a corpo con la direzione del suo predecessore Mario Draghi era riuscita ad inserire nel corpo degli strumenti monetari “non convenzionali” dell’istituzione monetaria. Nel programma QE eliminato il vincolo del tetto del 33% per acquistare i titoli sovrani, dichiarato che gli acquisti saranno “illimitati” (e non i previsti 750 miliardi). Ipotizzato di attivare per la prima volta il programma OMT che fu messo a punto nel 2012 e mai utilizzato (bastò la minaccia), che però è soggetto a condizionalità. E, un paio di giorni fa, chiesto ai ministri delle finanze di considerare la proposta dei 9 paesi, di emettere titoli di debito comuni. L’esatto opposto di quel che dice la Von der Leyen.

Sabato, nella conferenza stampa già citata, rispondendo ad un giornalista di Sky che chiedeva se fosse vero che in caso di indisponibilità sia “davvero in campo l’ipotesi di bond non europei ma garantiti solo dagli stati sovrani che sono firmatari della lettera[2][2]. A questa inaudita domanda Gualtieri ha risposto, testualmente, “noi vogliamo che la risposta sia di tutta l’Europa a questa emergenza, di tutta l’Unione Europea a 27, di tutta l’area Euro”. Invece Conte ha detto, ancora testualmente, “su questo possiamo riassumere. Il nostro obiettivo in questo momento è assicurare liquidità con il massimo sforzo e la massima rapidità per assicurare liquidità alle imprese, famiglie e lavoratori”. Insomma, uno non risponde di no, e l’altro risponde sì.

Quel che si può concludere è che, come è accaduto qualche giorno, fa ricominciano le scaramucce al margine dei rispettivi campi. Sul probabile asse Usa-Francia la Lagarde ha chiarito le sue intenzioni (peraltro Macron ha sentito Trump e annunciato grandi interventi[3][3]), mentre sul fronte opposto la Von der Leyen ha precisato quale è la sua lealtà fondamentale per il blocco del nord.

Un articolo de El Pais[4][4], descrive plasticamente lo scontro di giovedì in Consiglio Europeo. Quando Charles Michels, il Presidente del Consiglio Europeo, dopo ore di discussione, ha proposto un testo di accordo che non prevedeva eurobond si è trovato davanti il presidente Pedro Sanchez, spagnolo, e quello italiano, Giuseppe Conte, uniti. Ma questa volta, non come nel 2012, anche con altri sette alleati. Sanchez risulterebbe aver risposto “è inaccettabile. Non posso accettare una parola vaga e diverse settimane di rinvio quando il mio paese ha l’emergenza sanitaria che ha. Abbiamo chiesto un’assicurazione comune sulla disoccupazione e non me la stai dando. Il mandato all’Eurogruppo deve essere chiaro”. Poco prima si era consumato lo scontro tra Conte e l’olandese Rutte sulla presenza o meno del riferimento al Mes. Al premier italiano che lo voleva rimuovere la Merkel ha risposto direttamente: “È uno strumento molto valido. Alla fine è quello che ti aiuterà. Non essere così critico. Se quello che stai aspettando sono i coronabond, non verranno mai. Il mio Parlamento non li accetterebbe. State generando aspettative che non saranno soddisfatte e invierete solo messaggi di divisione”.

In questa discussione è quindi intervenuto direttamente Sanchez, il quale ha proposto alla Merkel l’argomento esattamente simmetrico: se questa non può portare i coronabond al suo Parlamento, il premier spagnolo non può portare “nulla” al suo paese, “non in questo momento”.

 

Ovvero non con 54.000 malati, 5.800 morti (di cui quasi 700 oggi), 12.000 ricoverati (di cui 4.100 critici), e un numero di casi per milione di abitanti che è pari solo a quelli italiani e svizzeri (rispettivamente 1.500 e 1.600).

A questo punto lo scontro è salito di grado emotivo e ha sfiorato la rottura personale:

  1. “Pedro, ti sbagli. Dici che il paragrafo è nulla, ma ci sono persone che lavorano, devi lasciarle fare” (l’Eurogruppo).
  2. “Angela, sto ascoltando, ma è chiaramente insufficiente. Lo abbiamo già visto. Se non diamo loro un mandato chiaro, sappiamo già cosa accadrà. Non capisci l’emergenza che stiamo vivendo?”
  3. “Pedro, come puoi dire che non la capisco?” è stata la risposta risentita della Cancelliera tedesca, accusata di insensibilità umana.
  4. “Ho bisogno che tu capisca l’urgenza del momento”.
  5. “Pedro, siamo già al limite. Abbiamo già preso molti impegni” (dimostrando esattamente ciò a cui lo spagnolo alludeva).
  6. “Ho anche io preso molti impegni in una situazione molto difficile”.

 

Questo sarebbe stato, secondo il quotidiano spagnolo, il momento (il solo momento) in cui il presidente Francese, firmatario della lettera del giorno prima, è intervenuto in soccorso del suo alleato: “Pedro ha ragione. Sono con lui per il fatto che non possiamo trasferire la nostra responsabilità politica all’Eurogruppo. Questa è una questione politica, non possiamo lasciarla nelle mani dei ministri delle finanze, che si riproducono reciprocamente le posizioni”.

 

Ma le sei ore di “fine schermaglia e qualche pugnalata” si sono concluse alla fine con un nulla di fatto ed un rinvio di due settimane. Da impiegare per predisporre una proposta da riportare al tavolo.

Persino sulla scelta delle istituzioni da coinvolgere c’è stata una divergenza altamente indicativa, quando Pedro Sanchez ha proposto di incaricare tutte le cinque istituzioni europee (Commissione, Consiglio, Parlamento, BCE ed Eurogruppo) la Merkel ha risposto un secco “Nein”. Il motivo è stato semplice: una squadra diretta da una francese (Bce), una tedesca (Commissione), un belga (Consiglio), un italiano (Parlamento), un portoghese (Eurogruppo), è stato giudicato troppo sbilanciato. In un sistema decisionale sempre più nazionalizzato si è concluso quindi di escludere italiano e portoghese.

 

Questo è dunque il contesto nel quale, scavalcando gli altri due organismi investiti del compito, la Von der Leyen ha oggi dichiarato che reputa escluso inserire nel pacchetto di “soluzioni” i coronabond al centro dello scontro di ieri.

Ma tutto ciò avviene mentre in Spagna aumentano i morti, in Italia si comincia ad assaltare i supermercati e il governo accelera la spesa mettendo i primi cinque miliardi a disposizione. Soprattutto, mentre il papa produce un’impressionante teatralizzazione della crisi, con la sua benedizione “Urbi et orbi”[5][5].

Ed avviene, ciò è importante, mentre la curva di crescita dell’epidemia inizia ad attenuarsi in Italia, è un passo indietro in Spagna e Francia, ma è appena all’avvio della fase esponenziale in Olanda e Germania, che stanno tardando a prendere misure di distanziamento radicali (come ricorderà aspramente il premier portoghese).

In questa condizione per chi gioca il tempo? Tra quindici giorni l’Italia potrebbe essere anche a 120-130.000 casi, ma stabile, la Spagna e la Francia essere molto vicine, ma la Germania potrebbe averla superata e l’Olanda essere in piena accelerazione.

E, soprattutto, conviene mettere con le spalle al muro un avversario disperato?

 

Vediamo quanto.

Il 27 marzo, Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica italiana, ha pronunciato un solenne e doloroso discorso[6][6] che parte dal ricordo delle quasi diecimila persone che sono morte fino ad ora[7][7], ma subito dopo entra con decisione insolita nel merito della cosa:

 

“Nell’ Unione Europea la Banca Centrale e la Commissione, nei giorni scorsi, hanno assunto importanti e positive decisioni finanziarie ed economiche, sostenute dal Parlamento Europeo. Non lo ha ancora fatto il Consiglio dei capi dei governi nazionali. Ci si attende che questo avvenga concretamente nei prossimi giorni.

Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa.

La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse.

Ho auspicato – e continuo a farlo -che le risposte all’emergenza del coronavirus possano essere il frutto di un impegno comune, fra tutti: soggetti politici, di maggioranza e di opposizione, soggetti sociali, governi dei territori. Unità e coesione sociale sono indispensabili in questa condizione”.

Lo stesso giorno il Presidente francese, Emmanuel Macron, ha rilasciato un’intervista[8][8] nella quale pone domande dirimenti, “L’Unione europea, la zona euro, si riducono a un’istituzione monetaria e a un insieme di regole che consentono a ogni Stato di agire per conto suo?”. Quindi è entrato nel merito, ricordando che “dieci Paesi dell’eurozona, rappresentanti del 60% del suo Pil, hanno esplicitamente sostenuto una capacità di indebitamento comune, quale che sia il suo nome, oppure un aumento del bilancio dell’Unione europea per permettere un sostegno reale ai paesi più colpiti da questa crisi”. Tuttavia, “Alcuni Paesi, tra cui la Germania hanno espresso le loro reticenze. Abbiamo deciso di continuare questo fondamentale dibattito, al più elevato livello politico, nelle prossime settimane. Non possiamo abbandonare questa battaglia. Preferisco un’Europa che accetti divergenze e dibattiti piuttosto che un’unità di facciata che conduce all’immobilismo. Se l’Europa può morire, è nel non agire”.

 

Ecco. L’Europa può morire.

 

Vediamo ora i carnefici.

Mark Rutte, scrive[9][9] Yvonne Hofs sul giornale olandese De Volkskrant, un giornale progressista fondato nel 1919, non vogliono accettare gli eurobond e preferirebbero non dover prestare miliardi di euro a paesi come l’Italia o la Spagna. Il motivo della loro dura opposizione agli eurobond (ovvero ai “coronabond”), è che “entrambe le proposte possono portare i Paesi Bassi alla fine a pagare i debiti del governo italiano e spagnolo”. Vediamo quale è il meccanismo immaginato, perché è davvero interessante: “I crediti Eurobond e ESM sono finanziati da tutti i paesi dell’euro, ma i Paesi Bassi e la Germania non hanno davvero bisogno di quei soldi. I miliardi dell’ESM affluiranno quasi esclusivamente a paesi dell’euro deboli. Solo i paesi che ora pagano tassi di interesse relativamente elevati sul proprio debito nazionale beneficiano degli Eurobond: paesi con debiti elevati come l’Italia. I Paesi Bassi e la Germania ricevono prestiti più costosi con gli Eurobond; essi pagano meno interessi sui propri titoli di Stato nazionali rispetto a qualsiasi eurobond.”

La questione è semplice, dunque, un titolo emesso in comune spunterebbe sul mercato un tasso eguale europeo, attraendo capitali remunerati esattamente nello stesso modo. Ma oggi alcuni paesi del Nord in realtà attraggono talmente tanti capitali (dal sud) da spuntare dei tassi negativi, o comunque largamente inferiori a quelli che sono costretti a pagare i paesi dai quali i capitali fuggono. È una meccanica semplice e chiara. Ed è molto simile a quella della moneta. Una media è sempre superiore al valore più basso e minore del valore più alto. Dunque dei titoli mutualistici non convengono ai paesi del nord, in effetti rischierebbero di fare concorrenza alle emissioni dei paesi sovrani nordici, e comunque al minimo non gli servono.

L’argomento è sia egoistico, sia disvelante della posizione di vantaggio strutturale nella quale sono messi dalla presenza dell’unione. Posizione di vantaggio della quale non reputano essere loro dovere in alcun modo restituire parte.

 

Perché non lo reputano? Il resto lo chiarisce molto bene. Il Ministro delle finanze olandese, il cristiano democratico Wopke Hoeskstra, ha chiesto il 26 marzo che la Commissione Europea, diretta dalla tedesca Von der Leyen, indaghi sui paesi che hanno chiesto gli Eurobond (ovvero sul 60 % dell’eurozona) “per capire i motivi per cui non hanno abbastanza spazio di bilancio per rispondere all’impatto economico della crisi”. Ovvero, secondo l’articolista, “indagare sul motivo per cui alcuni paesi non hanno riformato le loro economie quando il sole ha brillato negli ultimi anni”. Dimenticando che il sole si è dimenticato di brillare al sud, continua affermando che invece “I Paesi Bassi lo fanno dal 2012. Poiché i gabinetti olandesi hanno adottato misure impopolari che colpiscono gli elettori, come l’innalzamento dell’età pensionabile e dell’IVA e la riduzione della detrazione degli interessi sui mutui, i Paesi Bassi sono ora in grado di combattere da soli la crisi della corona. Grazie alla disciplina di bilancio precedentemente dimostrata, il governo olandese ha 90 miliardi di euro in contanti per sostenere l’economia ora che minaccia di crollare sotto la peste del virus”.

Ovvero, i Paesi Bassi hanno praticato misure di austerità. Mentre “L’Italia non ha fatto tutto questo. Quel paese ora vuole aiuti finanziari dai Paesi Bassi, tra gli altri, perché non ha soldi per risolvere il proprio problema corona.”

Sulla base di questa affermazione fattualmente falsa[10][10], l’articolista da una parte nega che sia nazionalista la posizione olandese e non quella italiana, dall’altra estrae il costante timore di attivare una “unione di trasferimenti”.

L’affermazione è dimostrabilmente falsa, non solo ricordando le molte riforme effettuate, ma osservando i saldi primari, ovvero la presenza di risparmi (saldo primario positivo) o di deficit (saldo primario negativo). L’Italia ha un record, è in avanzo primario da 27 anni, ed anche l’incremento del debito pubblico è stato del 29,32% dal 2008 al 2014, contro il 25,23 dei Paesi Bassi ed il 15, 19% della Germania, ma sotto Danimarca, Francia, Stati Uniti, Lussemburgo, Grecia, Regno Unito e Portogallo.

Insomma, l’accusa è frettolosa, mentre il fatto di avere tassi sistematicamente più bassi ed una moneta sottovalutata (rispetto al tenore delle esportazioni), o di poter fare liberamente da zona franca fiscale (attraendo le nostre aziende, come FCA) va bene. Il punto però è un altro, qualunque uso “più liberale” dei meccanismi di prestito (incluso il Mes senza condizionalità) crea impopolarità. “Molti elettori che votano per VVD e CDA [i partiti di governo] temono che la zona euro diventerà un sindacato di trasferimento, in cui paesi deboli come l’Italia saranno strutturalmente sovvenzionati da paesi economicamente forti come i Paesi Bassi. Se Rutte e Hoekstra accettano gli Eurobond, avranno un ruolo i partiti euroscettici come FVD e PVV.”

Questo è il timore, esacerbato dal comportamento della Bce, nella quale, scrive il giornalista, mercoledì Klaas Knot e Jens Weidman sono andati in minoranza[11][11].

 

 

Un’articolo ed una posizione abbastanza netta. Alla quale il premier Portoghese ha reagito in modo davvero violento[12][12], definendo “ripugnanti” i commenti del ministro, e dichiarando che il Portogallo “non è più disponibile ad ascoltare ancora il ministro delle Finanze olandese”, di seguito ha attaccato la politica permissiva dell’Olanda con il virus (non ha ancora attivato misure “all’italiana”), con l’ottimo argomento che l’Unione Europea, se esiste, è un’area di libera circolazione. L’atteggiamento olandese (e, chiaramente, tedesco) viene, insomma, accusato da Costa di essere “avido”. E questa “avidità” di minacciare il futuro della Ue.

 

Non manca anche una incredibile uscita[13][13] di un Romano Prodi in cerca di riposizionamento, che qualifica come “drammatiche” le conseguenze possibili del Consiglio Europeo fallito. Il rinvio all’Eurogruppo è definito “tragicamente umoristico” e le diversità di vedute, “ad oggi non componibili”. Il realista ex Presidente della Commissione riassume così la cosa: “Si tratta dell’ormai consueto scontro fra Nord e Sud, fra i cosiddetti Paesi virtuosi e noi meridionali, che siamo evidentemente i viziosi. Come sempre il fronte dei virtuosi trova la sua punta più oltranzista nell’Olanda. Un Paese contrario all’entrata dell’Italia nell’euro e contrario a ogni forma di solidarietà. Un Paese che fa del rigore il proprio scudo ma che, nello stesso tempo, è di tutti il più abile a praticare politiche fiscali di dubbia legittimità per trasferire in Olanda le sedi delle imprese degli altri Stati europei, a cominciare dalla Fca”.

Del resto dietro la piccola ed arrogante Olanda (dieci milioni di abitanti, 800 miliardi di Pil) c’è la Germania che ha solo “la creanza di usare un linguaggio meno offensivo”. La conclusione del ragionamento, prima della chiusa rituale sull’interesse comune a superare i problemi è davvero insolitamente amara: “L’incomprensione e il distacco che i governanti europei stanno dimostrando non può che tradursi in un crescente e simmetrico distacco dei cittadini italiani nei loro confronti e nei confronti del progetto europeo. Se non si prende coscienza di questo inevitabile processo le conseguenze saranno gravi e senza rimedio. D’altra parte diventa impossibile identificarsi in una comunità se i membri della stessa comunità non si sentono tali nemmeno quando la sofferenza collettiva è ormai arrivata a un livello intollerabile. Se i governanti europei rispondono solo ai desideri e agli istinti di breve periodo del proprio elettorato, il patto che ha finora tenuto insieme i diversi Paesi europei non può che dissolversi”.

 

Probabilmente questa volta ha ragione.

 

[1][1] – Si veda https://www.youtube.com/watch?v=05FVLzg95KA

[2][2] – La lettera l’abbiamo pubblicata e commentata in “Campo di battaglia: Draghi, Consiglio Europeo, Coronavirus. Cronache del crollo”.

[3][3] – https://www.huffingtonpost.it/entry/macron-sente-trump-iniziativa-forte-a-giorni-per-reagire-alla-crisi_it_5e7d9fbdc5b6256a7a281cfd

[4][4] – 28 marzo 2020, El Pais, https://elpais.com/espana/2020-03-27/michel-tenemos-acuerdo-pedro-sanchez-no-asi-es-inaceptable-asi-fue-la-tensa-cumbre-de-la-ue.html

[5][5] – https://www.youtube.com/watch?v=5YceQ8YqYMc&feature=emb_logo

[6][6] – http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/mattarella-discorso-alla-nazione-47a97e13-8106-4b90-a2cf-07add8a1de62.html

[7][7] – Persone per le quali qualche giorno fa ho scritto “Perdiamo”.

[8][8] – Qui nel sito de la Repubblica, qui su Le Monde.

[9][9] – https://www.volkskrant.nl/nieuws-achtergrond/rutte-en-hoekstra-voeren-achterhoedegevecht-tegen-transferunie~baba7c03/

[10][10] – Si veda http://www.mef.gov.it/focus/prideandprejudice/

[11][11] – Alla BCE, nella quale le decisioni si prendono a maggioranza, sono presenti le Banche Centrali dell’eurogruppo, e quindi il gruppo dei 9 (o 10) sono in maggioranza netta.

[12][12] – https://video.repubblica.it/dossier/coronavirus-wuhan-2020/coronavirus-il-premier-portoghese-costa-attacca-il-ministro-delle-finanze-olandese-parole-ripugnanti/356962/357527?ref=RHPPRB-BS-I0-C4-P4-S1.4-T1

[13][13] – https://www.ilmessaggero.it/editoriali/romano_prodi/coronavirus_europa-5137245.html

La resa dei conti, di Andrea Zhok

La resa dei conti
1) Premessa
Come ampiamente previsto, l’incontro dell’Eurogruppo di ieri si è concluso con un nulla di fatto.
Che gli incontri europei si concludano con un nulla di fatto è peraltro oramai una tradizione consolidata. Settimane fa si erano concluse con un nulla di fatto le trattative per una variazione dello zero virgola nel budget europeo. Per anni si erano concluse con un nulla di fatto le richieste di rivedere le regole sull’accoglienza dei migranti da parte dei paesi dell’Europa meridionale. Incartarsi ad arte per rinviare sine die ogni decisione è una specialità in cui le istituzioni dell’UE hanno dimostrato da tempo straordinario talento.
E naturalmente non è un caso.
Il sistema dei trattati è stato disegnato per funzionare precisamente come una tonnara: una volta entrati non esiste nessuna possibilità di uscirne sani né di cambiare niente di significativo. (L’unanimità necessaria la puoi raggiungere solo su imperdibili iniziative simboliche come l’equiparazione di comunismo e nazismo.)
2) Prima del diluvio
L’emergenza coronavirus tende a farci dimenticare che l’UE non è mai davvero uscita dalla crisi del 2007. L’economia è rimasta lenta, e anche la famosa ‘locomotiva tedesca’ aveva iniziato ad arrancare.
Ben prima che il virus comparisse all’orizzonte si discuteva animatamente di una perdurante stagnazione dell’economia europea (con Italia e Germania in fondo alla classifica della crescita).
Ben prima del virus il sistema bancario tedesco scricchiolava in modo pauroso (i titoli tossici in Deutsche Bank sono ancora tutti là).
Ben prima del virus alcuni paesi, e con particolare intensità la Grecia, erano stati ridotti ai minimi termini, demolendone l’apparato pubblico, condannando la generazione più giovane all’emigrazione e quella più anziana a pensioni da fame, mentre scuole ed ospedali venivano smantellati e mentre le migliori risorse nazionali venivano depredate. Il tutto nel nome del ‘rigore’.
È importante ricordare questi dettagli davanti a quelli che vagheggiano di una ‘rapida ripresa’ europea e di un ‘sereno ritorno alla normalità’, nel caso di una (miracolosamente) rapida risoluzione dell’emergenza coronavirus. L’idea di un possibile andamento a V, con crollo verticale e impennata successiva dell’economia è completamente implausibile anche se domattina i marziani ci offrissero in dono una cura immediata per il Covid-19.
È implausibile una sereno ‘ritorno alla normalità’ essenzialmente perché nella precedente normalità non c’era proprio niente di sereno.
Date le premesse di funzionamento dell’economia dell’eurozona, l’eventuale scomparsa improvvisa del problema epidemico ripresenterebbe un quadro di rinnovata stagnazione, solo su un piano più basso (diciamo più che a V, un andamento a L). Questo per due ragioni, una profonda e una tecnica.
Quella profonda è che l’eurozona è stata più un problema che una risorsa, per buona parte dei suoi partecipanti sin dall’inizio.
Quella tecnica è che non ci sono nell’eurozona strumenti autenticamente anticiclici, a fronte di una crisi peggiore di quella del ’29 (la perdita di un terzo della capitalizzazione delle borse europee in tre settimane è analogo a quello del Wall Street Crash dell’ottobre 1929, e qui sembra essere solo all’inizio).
A questo elemento, che è già ora certo, si deve aggiungere una prospettiva altamente plausibile, ovvero che anche una volta superato il picco dell’epidemia nei principali paesi industrializzati, comunque la ripresa delle attività potrà prendere piede solo molto gradualmente, almeno fino a quando non si trova un vaccino.
3) Digressione: Cave vaccinum
A proposito del tema ‘vaccino’, è importante spendere un paio di parole cautelative. Vista la pressione colossale esercitata letteralmente da tutti i detentori di capitale del mondo affinché si arrivi presto ad approntare un vaccino, è certo che appena dell’acqua sporca avrà una vaga plausibilità di superare l’effetto placebo, essa verrà proposta, se non imposta, per sollecita ed estensiva somministrazione. C’è da augurarsi che anni di discussioni, spesso a vanvera, tra vaccinisti ed antivaccinisti, abbiano almeno allertato l’opinione pubblica sul fatto che un vaccino scarsamente testato può avere effetti peggiori della malattia.
Di fatto l’idea di poter semplicemente ‘premere sull’acceleratore’ ogni qual volta c’è una ‘domanda di mercato’ è una delle più pervicaci illusioni dell’epoca moderna. Tutti i nostri problemi ambientali e strategici vengono trattati sulla base di un assunto, che è un’ode alla hybris: Una volta che un problema nasce, il mercato troverà senz’altro una soluzione perché avrà interesse a farlo. Ma naturalmente non è affatto detto che, una volta emerso un problema, bastino potenti incentivi per trovare una soluzione.
Una ‘scoperta’ – anche una scoperta in un ambito altamente investigato come quello dell’approntamento dei vaccini – non è una mera ‘produzione programmabile’: ha comunque tempi suoi propri e non chiaramente prevedibili. In ogni caso non fulminei.
4) Cronache dal gorgo
Tutti questi elementi suggeriscono come massimamente probabile la prospettiva di un crollo, mondiale ed europeo, dei consumi e della produzione, seguito da una stabilizzazione a livelli di produzione e consumo marcatamente inferiori a quelli precedenti.
La situazione così descritta, tuttavia, non illustra adeguatamente la cascata di implicazioni.
Un crollo stabile di questa natura, in un contesto di produzioni e consumi mondializzati, implica necessariamente pesanti disfunzioni nella catena degli approvvigionamenti, e limiti nell’accesso ai mercati esteri. In altri termini, detto un po’ semplicisticamente, quanto più lontano un paese dall’autosufficienza, tanto più problematica sarà la sua situazione. I blocchi reciproci di forniture ospedaliere in questa fase potrebbero facilmente trasformarsi in limitazioni all’accesso ad altri generi di prima necessità. Tecnicamente, ciò che sta succedendo – e che credibilmente continuerà ad accadere nel medio periodo – è che i ‘costi di transazione’ internazionali (e anche intranazionali, ma in minor misura) tenderanno ad ampliarsi a dismisura. È già cresciuta la difficoltà a movimentare fisicamente alcunché, ma anche a difendere movimenti di merci da colpi di mano e atti illegali, ad esplorare e raccogliere informazioni in nuovi mercati, ecc. In quest’ottica, la ‘scommessa sull’export’, fondata sul presupposto di costi di transazione internazionali bassi, e alimentata come una virtù morale in ambito europeo, promette di collassare rovinosamente.
Simultaneamente, sul piano dei consumi interni, in assenza di vigorose compensazioni statali, un’enorme quantità di attività economiche diventerà insolvente, poiché le prospettive di guadagno sono spostate indefinitamente verso il futuro e mantenere costi fissi (affitti, macchinari, forza lavoro) risulterà insostenibile.
Questo significa, in assenza di interventi correttivi, che vedremo un incremento di milioni di disoccupati in aggiunta a quelli precedenti. Ma dire ‘milioni di disoccupati’ è di nuovo un’espressione freddamente numerica, che non dà conto del fenomeno. È importante capire che, se viene conservata la cornice competitiva che definisce la nostra organizzazione socioeconomica liberale, se cioè le persone continueranno a percepire (come nella precedente ‘normalità’) che un proprio vantaggio comparativo a breve termine potrebbe significare, per sé e la propria famiglia, tenere la testa sopra la linea di galleggiamento, allora quei ‘milioni di disoccupati’ implicheranno decine di migliaia di ‘persone disposte a tutto’ in circolazione. Si tratta di un processo di disgregazione sociale, già ben documentato nello sviluppo storico della ragione liberale, che arriverebbe al suo showdown. Disgregazione sociale significa ‘criminalità’ sul piano legale, e significa un ulteriore aumento dei costi di transazione sul piano economico; e dunque un ulteriore decremento di produzione e consumi. Ci potremmo trovare in pochi passaggi dentro una spirale in caduta libera, caduta impossibile da arrestare se viene mantenuta la cornice del ‘competitivismo’ corrente.
Questo quadro, per inciso, potrebbe essere dipinto a tinte ancor più fosche se volessimo ricordare le lezioni del passato. Infatti è inevitabile che, in un contesto in cui anche i ceti al potere iniziano a temere per la propria condizione, difficoltà sul fronte interno facciano crescere la tentazione di capri espiatori esterni. Che ciò possa condurre ad una crescita internazionale della conflittualità, anche esplicitamente bellica, è da mettere in conto; e questo comporterà un ulteriore ostacolo alle transazioni internazionali.
5) Prospettive e pastoie
Ora, al di là di ogni propensione o appartenenza ideologica, la domanda fondamentale suona: come è possibile porre un freno a questo percorso deflagrante?
La risposta, almeno sul piano teorico, è già a disposizione, visto che l’epoca industriale ha già vissuto situazioni di crisi similmente profonda. In formato semplice, la risposta è senza dubbio la seguente: solo il massiccio intervento degli Stati al di fuori di una logica di mercato può limitare i danni e correggere la rotta. Questo è già, spontaneamente, la direzione in cui ci si sta muovendo un po’ ovunque, ma apparentemente non se ne comprende bene la natura.
Il punto chiave qui non è la semplice invocazione dell’‘intervento degli Stati’. Come gli studi sulla rivoluzione neoliberale ci hanno insegnato, gli Stati hanno assunto negli ultimi cinquant’anni (ma in verità non è la prima volta) un ruolo di supporto esterno ed implementazione dei meccanismi di mercato. In Europa la Germania è stata il primo paese a farlo, seguita dal Regno Unito.
Nell’ordinamento di idee neoliberale lo Stato ha la funzione non solo di preservare il funzionamento dei mercati, ma di costruire tutte le proprie strutture in modo da ottimizzare la competizione. Le strutture economiche che non si adattano bene all’assiomatica del ‘mercato perfetto’ devono essere guidate verso modelli che almeno lo simulano (donde la competizione tra sistemi sanitari, tra scuole e università, le concessioni private di monopoli naturali – come le reti di trasporto -, ecc.). Chi rimane indietro in questo sistema deve essere ‘rieducato’, in modo che domani lasci a qualcun altro il fondo classifica: mors tua vita mea, correndo come se non ci fosse un domani sulla ruota del criceto.
Per gli Stati questa ‘rieducazione’ dovrebbe passare dalle ‘riforme’, che significa, almeno dal Washington Consensus (1989) ad oggi, cure di privatizzazioni, liberalizzazioni, abbattimento delle garanzie sulle condizioni di lavoro, flessibilità, apertura del mercato, ecc. Le famose ‘condizionalità’ del FMI e del MES sono precisamente tali atti di ‘rieducazione alla competizione’.
Che queste ricette si siano dimostrate fallimentari in tutti i casi in cui sono state applicate (erano state concepite per risollevare le economie dei paesi in via di sviluppo) non ha mai comportato alcun ripensamento. Di passaggio, un report del WTO del 2005, constatando i risultati deludenti del Washington Consensus sul piano internazionale ne traeva l’emblematica conclusione che bisognava insistere con maggior vigore: la caratteristica fondamentale dei paradigmi ideologici è infatti di essere impermeabili ad ogni falsificazione.
Ciò di fronte a cui ci troviamo infatti è proprio un paradigma teorico, paradigma che trae la sua autorevolezza dal fatto di essere stato utile a rafforzare la posizione di ceti già privilegiati, ma che ha una sua autonomia teorica di lungo periodo.
Dunque la risposta dev’essere, certo, l’intervento degli stati, ma ciò che va sottolineato è che la logica del loro intervento deve essere assolutamente estranea alla logica di mercato. La logica deve piuttosto aggirarsi dalle parti di – i liberisti perdonino l’abietta citazione – “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità” (cfr. Atti degli apostoli 4, 32-35)
6) Il macigno sul sentiero
Arriviamo così ai ‘niet’ della Germania di questi giorni (e del passato; e del futuro). La Germania ha ricostruito sé stessa dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale adottando quel paradigma neoliberale noto come ‘ordoliberismo’ (anche se fino agli anni ’80 la sua implementazione è stata mitigata sul piano sociale dal timore di ‘sfigurare’ rispetto ai fratelli della Germania Est). L’ordoliberismo si distingue dal neoliberalismo americano essenzialmente per il maggior spazio attribuito allo Stato come funzione collaterale ai processi di mercato. Per così dire, se il modello americano propende a predicare l’”arrangiatevi”, quello tedesco è più incline al paternalistico: “vi rieduchiamo noi”. Tutta la classe dirigente tedesca è permeata da questo paradigma teorico da tre generazioni. Si tratta peraltro di un paradigma che a loro è tornato assai utile: anche se negli ultimi trent’anni le condizioni dei lavoratori tedeschi si sono erose e il welfare tedesco si è ristretto, comunque nel complesso gli avanzi della bilancia commerciale tedesca hanno permesso al paese di mantenere una posizione di complessiva supremazia economica.
La combinazione tra una consolidata rigidità ideologica e la coscienza dei vantaggi pratici ricevuti rende quel paradigma un macigno inscalfibile sulla strada di ogni correzione di rotta.
Quello che oggi molti non capiscono è che la Germania non oppone i suoi divieti perché ‘gli costerebbe’. Alcuni commentatori italiani continuano ad esprimersi appellandosi alla ‘generosità’ (o poca generosità) dei tedeschi, e chiedendo loro di ‘aprire il portafoglio’. Questo modo di esprimersi è altamente fuorviante. Qui non è questione di generosità, né di aprire il portafoglio, perché quello che viene chiesto alla Germania (e ai suoi satelliti) non solo non comporta per loro dei costi, ma gli sarebbe economicamente vantaggioso.
È infatti ovvio che un paese che ha puntato sull’export e su catene produttive lunghissime come la Germania verrà colpito durissimamente dalla presente crisi, molto più di quanto potranno dire i numeri di morti o contagiati. Essendo la Germania strutturalmente distante anni luce da un’economia ‘autarchica’, doversi relazionare con partner in forte contrazione dei consumi non potrà che abbattersi anche sui propri apparati produttivi. Il punto non ha dunque nulla a che fare con la ‘generosità’: in questo momento anche agendo per semplice tornaconto economico alla Germania converrebbe trasformare la BCE in un prestatore di ultima istanza, e adottare una ferma agenda anticiclica di matrice keynesiana.
Ma qui il punto non è pragmaticamente economico, ma eminentemente ideologico e, com’è noto, sulle idee i tedeschi non transigono. Fiat iustitia, pereat mundus.
E la giustizia di cui è ideologicamente portatrice la Germania è quella del paradigma neoliberale, ma è ancora più profondamente quello antico dell’ordalia (dal tedesco Ur-theil), cioè del iudicium Dei dove il fatto che il vincitore avesse vinto significava che la ragione era dalla sua parte (perché Dio lo aveva aiutato a vincere). Nel caso tedesco il competitivismo neoliberale si innesta in una disposizione culturale profondamente radicata, che lo rende particolarmente difficile da scalfire.
Il problema è che questa impermeabilità ideologica non è più un problema solo tedesco, ma oggi è divenuto un problema europeo (e in particolar modo italiano). Abbiamo costruito un sistema sociale ed internazionale il cui senso profondo è quello di sollecitare la competizione e di venerare la vittoria (sia pure nella forma mediata della guerra economica). Ma questo sistema, specialmente nel contesto di un’emergenza come la presente, può rivelarsi una tragica trappola.
7) Cooperazione e competizione
Nonostante tutte le chiacchiere intorno all’idea di una ‘comunità europea’, l’UE non è stata immaginata come una comunità, ma come un’arena (con annessa scuola gladiatoria). Tuttavia situazioni come quella presente, situazioni in cui siamo tutti investiti da un medesimo problema, sono situazioni che non si prestano affatto all’irrigidimento in atteggiamenti competitivi.
(Si potrebbe notare, a titolo di spunto filosofico, che nella condizione umana l’essere ‘investiti tutti del medesimo problema’ non è l’eccezione, ma la regola, e costruire una forma di vita incapace di esservi all’altezza è solo immensamente stupido. Ma tant’è.)
In ogni caso, al presente ci troviamo di fronte ad una situazione che porta alla luce uno scontro disposizionale tra due istanze antropologiche fondamentali: la cooperazione (e il senso di comunità) e la competizione (e il senso di individualità). Nella pluralità di forme di vita in cui l’umanità si è sviluppata fino a tempi recenti, cooperazione e competizione hanno sempre convissuto fianco a fianco in un equilibrio oscillante. L’ideologia neoliberale (ma invero la ragione liberale dalle sue origini) ha invece istituito la socialità nella forma unilaterale della competizione.
Ora, è immediatamente chiaro a chiunque non sia ideologicamente ottenebrato che in una situazione di comune emergenza si collabora. Si tratta, dopo tutto, dell’istinto che ha consentito alla specie umana di sopravvivere e svilupparsi. Ma a questo istinto si sovrappone oggi un impianto ideologico e istituzionale che legittima unilateralmente la competizione (e la cooperazione solo come strumento provvisorio per migliorare la competizione).
Il problema è dunque che in una cornice ideologica che si riconosce e legittima come per essenza votata alla competizione, la cooperazione non può avvenire. Chi coopera non può farlo davvero se pensa che l’attuale cooperazione sia semplicemente un episodio accidentale in un continuum infinito di competizione senza esclusione di colpi. Se so che alla fine verrò punito per ciò che do, se so che ogni mia esposizione mi renderà più debole per la successiva competizione con un avversario opportunista, allora la cooperazione non avrà luogo (o sarà meramente simbolica).
Questo è precisamente quanto accade oggi a livello di nazioni europee. La Germania preferisce rischiare perdite maggiori pur di non infrangere la propria iustitia neoliberale, dove alla fine ad aver ragione è solo chi vince. Per attori politici tedeschi imbevuti di spirito neoliberale una collaborazione che risulti comparativamente più benefica ad un mio competitore, di quanto lo sia per me, va rigettata. Va rigettata anche se per me è comunque altamente benefica, perché ciò che conta non è mai la vita, non è la salute, non il benessere, ma solo il mio posizionamento relativo nella competizione con l’altro. È una logica predatoria. È la logica di qualcuno con cui non è strutturalmente possibile collaborare. Una volta di più, nella sua storia, la Germania si dimostra incapace di guidare alcunché. E una volta di più, purtroppo, la loro storia è anche la nostra.

Campo di battaglia: Draghi, Consiglio Europeo, Coronavirus. Cronache del crollo, di Alessandro Visalli

Il Governo italiano ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Europeo che si riunisce oggi, sottoscritta da Emmanuel Macron (Francia), Pedro Sanchez (Spagna), Sophie Wilmes (Belgio), Kyriakos Mitsotakis (Grecia), Leo Varadkar (Irlanda), Xavier Bettel (Lussemburgo), Antonio Costa (Portogallo), Janez Jansa (Slovenia).

Si parla di quasi la metà degli stati dell’eurozona (9 su 19), per un totale di 212 milioni di abitanti (64% dell’area) e 7.800 mila miliardi di Pil (il 57% di quello dell’eurozona).

E’ chiaro che se andassero fino in fondo, nel Consiglio Europeo di oggi (che include tutti i membri dell’Unione Europea, e quindi 442 milioni di abitanti e 17.000 miliardi di Pil, per cui in questo consesso si parla del 48% degli abitanti e 45% del Pil), sarebbe una forza imponente.

Rispetto all’attuale stato dell’epidemia i paesi firmatari sono “titolari” del 72% dei casi in Europa e del 77% dei casi nella sola eurozona. In rapporto agli abitanti il paese più colpito è il piccolo Lussemburgo (che ha 2,67 casi per 1000 abitanti), seguito dall’Italia (1,24), Spagna (1,04), Belgio (0,45), Irlanda (0,34), Francia (0,33), Portogallo (0,3), Slovenia (0,26), Grecia (0,07). Tra i paesi che non hanno firmato spicca la Germania, con 35.700 casi (0,44) e l’Olanda, con 6.400 (0,38), l’Austria con 5.500 (0,64), la Finlandia, con 900 (0,16), la Svezia, 2.500 (0,25), la Polonia, con 1.000 (0,03), Romania, 900 (0,05).

Jeremy Mann

 

Vediamo la lettera:

La lettera al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, del Presidente Conte e dei leader di Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna.

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Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock produce sulle economie europee.

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase più acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circolazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità.

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intraprendere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterranno l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo.

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona.

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia.

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poiché stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria.

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei.

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione.

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio

Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese 

Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece

Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland

Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano

Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo

António Costa, Primo Ministro del Portogallo

Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia


Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

Un breve commento.

Cosa si sta dicendo qui? Che la crisi da coronavirus in corso è esterna e non è colpa di nessuno, che per affrontarla si interromperanno gli scambi e disgregheranno le “catene del valore” (ovvero la connessione di fornitori e clienti di ogni singola impresa), che nello sforzo di canalizzare le risorse contro l’aggressione virale ci sono aziende strategiche e non, che le prime vanno tenute in attività e protette dalle possibili aggressioni ostili, che i danni per i cittadini e l’economia vanno compensati da spesa pubblica, che per farla serve che ci sia un’emissione di titoli di debito comune, garantita in solido.

Nel luogo della lettera in cui si arriva al punto, e si chiede uno strumento di debito comune, alle medesime condizioni e per tutti, la frase successiva risponde all’obiezione luterana sempre ripetuta, che il debito è colpa e

Qui il caso è diverso, nessun paese è responsabile.

Quindi la lettera accende una piccola luce sul futuro e specifica che da ora bisognerà “organizzare le economie”, ovvero le catene del valore globali, i settori strategici, i sistemi sanitari e gli investimenti comuni.

Dunque nel campo di battaglia si è schierato un esercito, ed ha dichiarato le sue intenzioni.

Al contempo è sceso in campo un generale, Mario Draghi sul Financial Times, ha scritto un articolo di grande decisione e rilevanza.

Jeremy Mann

Leggiamolo:

“La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati.  Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.  La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.  È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura.  La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette. I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo.  Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le poste sistema per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.  Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette.  Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così. Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato.  O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità.  I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabilmente futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.  Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è abbastanza una storia di ammonimento.  La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nella ricerca di evidentemente una causa comune”.

Se i nove governi affermano che non è colpa di nessuno e che bisogna sia sostenere sia ristrutturare le economie europee, ma ragionano in termini di capitali da raccogliere sul mercato a condizioni di mercato, sia pure eguali per tutti, Draghi dice una cosa diversa.

Intanto ricolloca la crisi che nel paludato linguaggio delle segreterie era solo “senza precedenti”, come “tragedia di proporzioni bibliche”. Dichiara il costo economico essere al contempo “enorme ed inevitabile” e la recessione sia “profonda” sia “inevitabile”.

Abbiamo dunque al primo passaggio della sua stringente logica un costo economico “enorme” ed una recessione “profonda” (che potrebbe mutare in “depressione”[1]) entrambe inevitabili.

A ciò che è inevitabile bisogna rispondere inevitabilmente. E qui si diventa perentori, “la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico”.

E perché? La bomba arriva esattamente a questo passaggio. Anni di controinformazione, analisi condotte con il metodo dei saldi settoriali, insistenza sul debito privato e sulla eccessiva valutazione di quello pubblico ottengono improvvisamente piena legittimazione. A decine di servili ripetitori del senso comune economico devono essere scoppiate le orecchie: “la perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici”.

Ripetiamo:

  • le perdite del settore privato ed i debiti accumulati, devono essere assorbiti dai bilanci pubblici.

E il “moral hazard”? E la “colpa”? E … l’horror vacui qui colpisce anche buona parte della sinistra storica, che ha inconsapevolmente interiorizzato una versione della narrativa ordoliberale, immaginando che lo stato debba essere “austero” perché l’economia sia “sana”.

Cosa accade se, in condizioni date come queste, le perdite anche esse inevitabili (e, come vedremo, senza colpa) del settore privato, cittadini e imprese, sono assorbite nei bilanci pubblici? Che il debito pubblico sale, che sale in modo “permanente”, e che il debito privato viene “cancellato”.

C’è una glossa di teoria, “È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”.

Quindi è inevitabile, si deve agire, tramite l’espansione del debito pubblico.

Come? Qui c’è il punto. Il “se” è superato. Restano alcune cose:

  •   non fornire solo reddito di base (es, helicopter money), ma proteggere le persone dalla perdita del lavoro,
  •   garantire sostegno alla liquidità immediato,

Arriva la seconda bomba.

In una strategia rivolta a garantire liquidità all’economia reale, imprese e famiglie, Draghi propone di utilizzare le banche, che sono capillarmente diffuse. E propone che queste aprano linee di credito e scoperti di conto corrente, immediatamente e senza aspettare liquidità (quindi senza aspettare la Bce o altri), perché queste “possono creare denaro istantaneamente”.

Ripetiamo:

  • “Le banche possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito”.

E le riserve? E il buon padre di famiglia? E … anche qui l’horror vacui colpisce buona parte della sinistra storica, che non lo sapeva ma era rimasta ai tempi del dollaro-oro.

In sostanza le banche devono prestare soldi creati dal nulla, istantaneamente, a imprese che conservano l’occupazione. E lo devono fare a costo zero. La ragione è che le imprese, non licenziando, sostituiscono il pubblico che in caso diverso dovrebbe intervenire garantendo un reddito ed un lavoro.

Ovviamente il denaro si crea dal nulla, ma deve essere restituito (schematicamente una banca apre una scrittura contabile, che ad un certo punto deve essere chiusa), e quindi prestare a costo zero lascia impregiudicato l’assorbimento del danno delle mancate restituzioni. Serve qualcuno che faccia fronte e chiuda le scritture. Per questo il governo nello schema di Draghi non impegna denaro immediato per sostenere l’occupazione, ma presta garanzie alle banche per coprire il loro rischio. Ed il costo di queste garanzie, anche esso, deve essere zero.

Questa è la terza bomba, comincia ad assomigliare ad un bombardamento a tappeto. Il costo zero è come l’illimitato, sono altri due tabù. Si deve guadagnare dal sudore della fronte.

  • Ripetiamo, “il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette”.

C’è un problema, le regole prudenziali delle convenzioni di Basilea. Vanno sospese, “Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo”.

Abbiamo poi la quarta bomba. Per alcune imprese e “mutuatari”, il debito alla fine andrebbe cancellato. O tramite il fallimento e la copertura delle perdite da parte del governo o direttamente da questo lasciandole in vita.

Insomma, il debito pubblico salirà per tenere in vita la società. L’alternativa sarebbe peggiore. Ma salirà come? Senza aumentare i costi di servizio.

Qui non entra nel dettaglio, strettamente parlando un enorme incremento del debito pubblico, e la sua detenzione permanente, senza aumento dei costi del servizio di questo (ovvero in sostanza creando moneta) è possibile se gli Stati emettono titoli a scadenza illimitata, non redimibili, ed a tasso zero e se la Banca Centrale li acquista e li detiene. Un simile titolo non è “di mercato” per definizione e corrisponde ad una monetizzazione del debito.

Ogni altra soluzione aumenta i costi del servizio, soprattutto alla luce degli enormi volumi qui prefigurati.

Ciò non significa che i bilanci delle Banche Centrali (i titoli sarebbero poi da redistribuire pro quota nei vari bilanci) resteranno permanentemente ‘gravati’ da un attivo enorme, senza rendimento[2], ma che la progressiva espansione dell’economia li renderebbe sempre meno rilevanti. In fondo il debito pubblico è sempre stato riassorbito in questo modo, il suo vero problema è esclusivamente il costo del suo servizio, ovvero il monte degli interessi annuali che lo stato paga[3].

Tutto ciò va fatto in fretta, e senza remore, perché, ultima bomba: “La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono”.

Abbiamo un esercito che si è schierato ed abbiamo un generale che sembra volerne prendere la testa.

La battaglia si combatterà e penso che sarà persa. Troppo forte è l’inerzia del pensiero unico ordoliberale (attenzione, non che questa posizione sia rivoluzionaria, è comunque una variante di affidamento al mercato, ma con notevole incremento della presenza pubblica[4]). Nella scaramuccia di cavalleria dei giorni scorsi, in sede di Eurogruppo, è stato chiaro l’animus dell’armata nordica.

Mentre Peter Altmeier dichiara per la Germania che “Impediremo una svendita degli interessi economici e industriali tedeschi” (Wir werden einen Ausverkauf deutscher Wirtschafts- und Industrieinteressen verhindern) e, in inglese, in quanto rivolto oltre manica, “Germany is not for sale”, al contempo l’Olanda e la Germania, unite, hanno rigettato ogni ipotesi di messa in comune del debito. Sempre Altmeir, cambiando oggetto, ha detto che “la discussione sugli eurobond è un dibattito sui fantasmi” (Die Diskussion über Euro-Bonds ist eine Gespensterdebatte) e ha aggiunto che “dalla lezione degli anni ’70 abbiamo imparato che lo Stato non può salvare tutti” e che “l’Innovazione è più importante delle sovvenzioni” (Innovation ist wichtiger als Subvention). Insomma, gli interessi economici e industriali tedeschi saranno sostenuti contro qualsiasi nemico, ma quelli degli altri devono restare esposti. Per gli altri vale il principio che non si sovvenziona.

Per sé vale che “il nostro scopo non è solo proteggerci da acquisizioni nemiche (feindlichen[5]), ma anche evitare mancanza di capitale e di liquidità”, per gli altri, per i nemici, ovvero noi, solo se siamo capaci di farcela, se siamo “innovativi”.

Lo scontro delle cavallerie, la classica scaramuccia di avvio, è andato così.

Oggi c’è la battaglia. Avremmo bisogno di Decimo Claudio Druso (detto “germanico”), ma abbiamo solo Giuseppe Conte. Perderemo.

Ma non finirà qui. I popoli nordici hanno una strana caratteristica: sembrano sempre vincere, perché hanno una grande capacità operativa, ma poi alla fine perdono sempre e rovinosamente, perché non avendo la forza sufficiente vogliono troppo e non lasciano nulla. Finiscono per coalizzare tutti contro di loro, ed anche allora continuano, dritti, come un caprone lanciato nella corsa e la testa bassa. Ora pensano di aggirare questo ostacolo, che la sorte ha posto davanti ai piedi, assorbendo i nostri capitali e le nostre aziende, come fecero con quelle della Germania dell’est[6] quando cadde il muro e come hanno fatto per venti anni al tempo dell’euro.

Ma tutto sta arrivando al suo termine[7].

Il mondo non è già più quello della “fine della storia” tardo novecentesca[8], il baricentro si sposta verso est e noi siamo geograficamente, culturalmente, storicamente meglio posizionati. Tra qualche tempo dovremo rovesciare le cartografie d’Europa.

Tra dieci anni vedremo chi ha perso e chi ha vinto. Ma, come è accaduto già due volte, il prezzo per loro sarà altissimo.

 

[1] – Nel gergo economico una “recessione” è un evento ciclico relativamente normale, una “depressione” è una stagnazione permanente e difficilmente risolvibile dell’economia come quella del 29-39 aperta dalla crisi finanziaria e conclusa solo dalla seconda guerra mondiale.

[2] – Non sarebbe molto diverso se i titoli avessero un rendimento, una volta nel bilancio della banca centrale, perché questa deve restituire gli utili ai rispettivi Tesori. Come accade ora per la quota (20%) del debito già detenuto e che potrebbe benissimo essere annullato senza alcuna conseguenza pratica.

[3] – Bisogna notare che questo pagamento di interessi, che in Italia è attivato fino ad essere vicino ai cento miliardi, rappresenta un trasferimento netto di risorse dalla generalità dei cittadini ai renditieri che posseggono titoli di debito. È, insomma, un fattore tra i più rilevanti di incremento delle ineguaglianze e uno strumento potente di redistribuzione verso l’alto.

[4] – L’intero meccanismo proposto da Draghi è preordinato a salvaguardia delle gerarchie sociali e nazionali attuali. Limita l’intervento pubblico ad un consolidamento dello status dei rapporti di classe, si mette a salvaguardia del sistema delle imprese attuale, in qualche modo congelandolo. Certo, l’alternativa è diventare una colonia interna (ancora di più) del capitale nordico, ma ciò che serve è ben altro e molto più.

[5] – Come giustamente scrive Vincenzo Costa “Feindlich” allude a nemico, un termine che non si usa a cuor leggero. Non dice competitori: dice nemici. Allude al fatto che chi non riesce a proteggere la propria economia, chi non è in grado di sostenerla in questo momento, diventerà un terreno di conquista per altri. Perderà il dominio sui settori strategici, la sovranità sulle scelte di politica economica: diventerà una colonia. (cfr https://www.facebook.com/vincenzo.costa.79025/posts/106587930990528)

[6] – Si veda il testo di Vladimiro Giacchè.

[7] – Si veda “Riavviare l’economia in Cina, cronache del crollo

[8] – Titolo del famoso libro di Francis Fukuyama.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/campo-di-battaglia-draghi-consiglio.html?fbclid=IwAR1XM3rbnJWlwkVHlHej6KZfzAAkH-R90D5rvpSAusTYaQMhQ6vs_8vvDdg

Coronavirus! Cambio di paradigma, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto tre articoli che testimoniano del fatto che qualcosa sta cambiando nei criteri di individuazione e gestione dei focolai di diffusione della epidemia e soprattutto nella informazione.

Non sono solo questi due testi a testimoniarlo; anche nella cosiddetta grande stampa nazionale e nel sistema televisivo qualche barlume comincia ad illuminare la reale situazione. Sono però ancora iniziative estemporanee, frammentarie e non coordinate, comunicate significativamente sottotraccia. L’inquietudine, il timore che possano emergere già in corso d’opera i gravi errori e le pesanti responsabilità di un ceto politico in varie forme al governo e di una classe dirigente, ivi compresa quella impegnata nel sistema di informazione, tali da comprometterne del tutto la residua credibilità e autorevolezza, serpeggiano e sono palpabili. La crisi pandemica sta accelerando ed accelelerà convulsamente processi in corso da almeno quindici anni.

Il nostro sistema di informazione, gran parte del ceto accademico ed intellettuale, la quasi totalità del ceto politico, in questi anni si è trastullato da miserabile saccente a denigrare e sminuire Trump come una pittoresca meteora, ad esorcizzare Putin sin dal suo importante intervento alla Conferenza Internazionale di Monaco del 2007, a fraintendere il ruolo della classe dirigente cinese, quella che più di altri ha saputo e voluto approfittare degli spazi offerti dal processo di globalizzazione per affermare e consolidare il proprio interesse nazionale piuttosto che dissolversi nel globalismo; a cullarsi soprattutto nell’illusione della fratellanza europea.

Non ha compreso, non lo vuole, che il termine di amicizia assume un significato diverso, spesso agli antipodi se attribuito alle relazioni tra individui, a quelle tra popoli e più ancora tra i centri decisionali e gli stati. Doveva sopraggiungere il bisogno insoddisfatto di banali mascherine e di ventilatori a mostrare il re nudo e il senso reale della solidarietà internazionale.

Non è bastato però! Non v’è più cieco di chi non vuol vedere; più sordo di chi non vuol sentire. Stanno ancora tergiversando, a due mesi di distanza, su un programma di parziale riconversione produttiva realizzabile in poche settimane e si spendono a piene mani a pietire a destra e a manca, trattati spesso a pesci in faccia all’estero, i materiali necessari a garantire cure e sicurezza sanitaria.

Hanno bloccato i voli diretti dalla Cina, e con quello la possibilità di controllo diretto dei punti di arrivo dei flussi; non si sono accorti delle vie alternative utilizzate e verificabili già due giorni dopo il blocco dalle fonti di intelligence e anche da internet. L’esplosione del contagio in Iran non è un prodotto del destino avverso. Troppo impegnati a considerare e a confondere la trasmissione virale e il messaggio di fratellanza e solidarietà a base di pacche sulle spalle.

Si sono profusi in appelli accorati a mantenere le distanze e al senso civico, ma hanno ignorato la formulazione, la diffusione e l’applicazione di direttive e protocolli che limitassero i contagi tra gli operatori sanitari e tra questi e il pubblico; protocolli ben conosciuti dagli esperti di gestione sanitaria e delle emergenze; esperti autorevoli, spesso e volentieri relegati nelle quarte file.

L’autorevolezza, si sa, non si accompagna, il più delle volte, all’accondiscendenza. Hanno inventato un nuovo istituto giuridico, un vero ossimoro: la decretazione di raccomandazioni e suggerimenti. Ne è conseguita una catena di comando incerta, una sovrapposizione di incarichi, direttive contraddittorie in un contesto istituzionale già reso precario e incerto da uno sciagurato decentramento regionale. Consola la premura con la quale Borrelli, il capo della Protezione Civile, sottolinea l’attenzione e la parsimonia nella gestione della spesa; vorremmo che il proconsole che gli hanno affiancato proclamasse con la stessa partecipazione.

Una tara dovuta alla situazione d’emergenza bisogna concederla

Sta di fatto che l’istituzione più preparata alle emergenze, alla logistica, al coordinamento dei vari ambiti operativi rimane tagliata fuori e relegata al ruolo di coadiutori dei vigili urbani e delle pompe funebri.

Troppi precedenti emergenziali dovrebbero suonare come campanelli d’allarme sugli appetiti famelici da soddisfare in queste contingenze. Una inadeguatezza che rischierà di condannare definitivamente il paese quando si dovrà passare dalla fase di emergenza tesa al contenimento dell’epidemia a quella presumibile di convivenza con il virus, in attesa di una cura medica risolutiva. Ben venga la solidarietà internazionale. Cina, Russia, Cuba e Stati Uniti vanno quindi ringraziati. Un po’ meno la aperta politicizzazione. Anche la solidarietà internazionale, nel rapporto tra gli stati e nelle dinamiche geopolitiche, richiede un prezzo e uno scotto specie quando a richiederla è un ceto particolarmente remissivo e inconsapevole dell’interesse nazionale. Un prezzo sia nei confronti del singolo paese solidale, sia nei confronti di altri ben presenti sul nostro suolo da decenni e che si sentirebbero minacciati dai nuovi arrivati. Nel primo caso, nella fattispecie con la Cina, non è ancora chiaro se gli accordi commerciali prevedono solo scambi di prodotti e la concessione di presidi, simili ai fondaci che concedevano le repubbliche marinare oppure arrivano a delegare almeno in parte il controllo strategico della logistica e dei flussi; lo stesso dicasi per il 5G. Nel secondo la questione è ancora più delicata e cruciale per la sovranità del paese.

Quando si decide di risvegliare l’allarme e la preoccupazione del proprio tutore bisogna avere la ragionevole certezza, almeno probabilità, di poter resistere alle prevedibili reazioni e di poter contare su di un contesto internazionale favorevole e sul sostegno fattivo di altre potenze, Il recente esempio di Tsipras in Grecia è particolarmente illuminante. La capitolazione definitiva di Syriza sotto il giogo dell’Unione Europea è avvenuta quando Putin aveva fatto capire di non avere molte armi da offrire alla resistenza greca e quando era apparso chiaro che alla Cina premeva soprattutto mettere radici nel Pireo e non compromettere la propria penetrazione commerciale nell’Unione Europea. La domanda a questo punto sorge spontanea: questo ceto politico, questa classe dirigente ha la consapevolezza sufficiente della posta in palio; ha un sufficiente controllo quanto meno delle proprie istituzioni e dei propri apparati tale da consentirle sufficiente libertà di azione? Dispone della sufficiente autonomia e visione strategica che le possa garantire di poter giocare su più tavoli piuttosto che ridursi al carnevalesco servo di più padroni? Gli antefatti sulla Libia e sulla Unione Europea lasciano dubitare pesantemente. Conosciamo la fine delle oche giulive. Il redde rationem lo vedremo probabilmente a partire dal prossimo novembre, specie se alla Casa Bianca al tanto vituperato e rozzo Trump dovesse succedere qualche democratico compassionevole, banditore di pace e fautore di guerre.

Il nostro paese avrebbe bisogno di un cambio di paradigma, a cominciare da questa emergenza sanitaria così destabilizzante. Quello che riescono ad offrire è qualche aggiustamento perpetrato per di più di soppiatto. Lo stato di emergenza rappresenta la cornice adatta a mascherarne la pochezza. A cosa potrà portare questa commistione poco virtuosa non si sa. Potranno certo offrire una qualche via di fuga o un arroccamento; a se stessi, non alla massima parte del paese. Buona lettura e ascolto, Giuseppe Germinario

 

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza), di Pierluigi Fagan

I migliori, i più furbi. Non è detto i più intelligenti_Giuseppe Germinario

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza). Un fantasma si aggira nelle statistiche mondiali sul fenomeno pandemico. Un solo Paese al mondo, mostra statistiche del tutto fuori logica tra i dichiarati contagiati ed i morti: la Germania.

E sì che la Germania è il Paese europeo più grande (demograficamente circa un terzo circa più grande dell’Italia, della Francia e dell’UK), ha un peso di popolazione anziana praticamente pari all’Italia ed in più, è il primo Paese europeo in cui si è accertata la precoce presenza del virus il che è ovvio visto che è anche il Paese con i maggiori contatti ed interscambi economici coi cinesi. Il virus è lì da più tempo che altrove, in un Paese pieno di anziani, un terzo almeno di più che in Italia, ma i tedeschi non muoiono. Lo “spread dei morti” tra ogni Paese del mondo e la Germania è ovunque alto ma si sa, quando si tratta di spread, ai tedeschi piace ben figurare.

Il mistero ha attratto i giornalisti anglosassoni, vi hanno scritto articoli a vario titolo il FT, the Guardian, the Indipendent, WSJ, ma molto meno la stampa europea. L’Espresso, l’altro giorno, vi ha posto ritardata attenzione confezionando un “the best of” di ragioni a spiegazione, copiato dagli articoli anglosassoni che avevano doverosamente riportato le risposte tedesche alle domande poste:

1) Il loro facente funzione di ISS, il Robert Koch Institute (RKI) afferma che i morti tedeschi sono più giovani quindi la popolazione anziana è stata misteriosamente per il momento evitata dal virus (a parte il medico della Merkel). Qualcuno sostiene che gli anziani tedeschi vivono più “isolati” dai giovani che non in Italia o Cina, ma francamente a me pare una stupidaggine insostenibile, anche perché andranno pur in giro a far la spesa come tutti, no? ma le spiegazioni arzigogolate hanno anche varianti;

2) i tedeschi sostengono che l’epidemia, da loro, si sarebbe sviluppata più tardi. Ma come? esistono studi pubblicati su the Lancet che confermano la precocità del paziente 0 in Germania come è ovvio che sia. Portano loro l’infezione in Lombardia ma non in Germania? Tutta Europa ha più morti percentuali di loro perché loro sono “in ritardo” nella diffusione del contagio? Incredibile … anche perché la stampa tedesca se ne uscì a gennaio e primi febbraio con notizie di una incredibilmente contagiosa e virulenta epidemia di influenza polmonare, rigorosamente diagnosticata come tale e non corona virus come probabilmente era. Alla domanda se RKI dispone di test Covid-19 post mortem, gli interessati hanno risposto sì ma i giornalisti inglesi hanno verificato che la strana struttura sanitaria tedesca che è iper-federale, crea notevoli asimmetrie tra centro e periferia, ognuno fa un po’ come gli pare. In più perché fare i tamponi ex post e non ex ante visto che dichiarano di farne in ognidove? Questa strana struttura della sanità tedesca darebbe anche conto del perché i tedeschi danno le cifre in ritardo mentre John Hopkins University che segue la pandemia dall’inizio, dà cifre diverse perché attinge direttamente ai Lander. Insomma, a voler pensar male si potrebbe notare una certa cortina fumogena di grande confusione fatta apposta per render difficile la comprensione reale degli eventi e sopratutto per darsi la libertà di sparare cifre ad estro;

3) poi c’è la versione secondo la quale i tedeschi farebbero molti più tamponi di chiunque altro, dichiarazione del RKI riportata anche dalla stampa inglese (in effetti RKI dichiara che “possono” far tamponi, non che li fanno). Non so, a me secondo altri dati non risulterebbe, o sono sbagliati i miei dati o la stampa inglese riporta dichiarazioni tedesche senza verificarle e chissà perché tutti fanno finta di crederci;

4) si arriva così alle note enormi capacità di ricovero ospedaliero e letti di terapia intensiva tedesche. Ma dati alla mano, è vero che la Germania sta messa meglio dell’Italia ma l’Italia starebbe comunque messa meglio di (in ordine) Francia, Svizzera, UK ed Olanda oltre a molti altri. Ma più che altro, questa spiegazione se sembra logica di primo acchito non lo è in approfondimento. In Italia il SSN ha retto botta per un bel po’ prima di andare in affanno ed è andato in affanno solo nell’area più colpita. I morti a casa perché gli ospedali son pieni, in Italia non compaiono nelle statistiche. In più i morti italiani censiti, passano dai letti di terapia intensiva e finiscono nella bara comunque, come per altro in tutto il mondo visto che non sembra esserci una cura effettiva ma solo un supporto terapeutico che è lo stesso in tutto il mondo. Cos’hanno i tedeschi di diverso? Letti più comodi? Respiratori fabbricati dalla Mercedes? Dottor House in ogni stanza? Non si sa …

Ma una rasoiata di Occkam comincia qui e lì a comparire a mezza bocca. Un portavoce del direttivo del’ISS che ogni sera affianca Borrelli in conferenza stampa, a precisa domanda, qualche giorno fa ha risposto qualcosa tipo “io so che noi contiamo sia “morti di” che i “morti con”, come contano gli altri, non lo so”. Da qualche giorno questo insistere sul fatto che noi contiamo -tutti- i morti è stata ripetuta da Borrelli, Brusaferro e altri membri dell’ISS che si alternano giornalmente anche fuori dal contesto della “questione tedesca”. Ieri hanno avanzato dubbi su questa differenza che è logicamente l’unica e per giunta auto-evidente statisticamente e logicamente parlando, un biologo su la Stampa ed uno sul Corriere.

Nessuno può ufficialmente accusare i tedeschi di contare i morti in modo scorretto è evidente, sarebbe guerra diplomatica ed anche improprio perché non lo si può dimostrare, ovviamente. E’ inoltre una questione più politica che non virologica o biologica, non sta a gli scienziati fare ipotesi di tal fatta anche se ogni biologo o virologo o statistico sa che quella sproporzione è talmente esagerata che non c’è altro modo per spiegarla. E così si spiega anche il silenzio pudico in Europa, chi va a fare una accusa così grave ed indimostrabile e pure antipatica perché politicizzare i morti è davvero brutto?

Abbiamo visto tutti come ogni cancelleria ha negato sin dall’inizio l’esistenza del problema del virus pur nota a tutti come ora viene fuori nei rapporti dati con grande anticipo tanto negli USA che in Francia, UK e non c’è motivo di non ritenere, anche Germania. E tutti abbiamo visto come i Paesi più ostinatamente difensori del mercato come ordinatore sociale abbiamo ritardato gli interventi a costo di mentire, inventare idiozie come “l’immunità di gregge”, modulare interventi ma salvaguardando l’operatività economica come plaudono anche molti insospettabili difensori del “market first”, forse involontari, qui da noi. Magari avanzando cautele costituzionali o biopolitiche o libertarie o sdilinquendosi davanti ai miracoli del “modello coreano” o solo perché ormai il far polemica su tutto gli parte di riflesso facebook-esistenziale. E vediamo tutti la reazione furibonda al decreto del Governo pur in ritardo, pur mal comunicato, pur pieno di difetti, quando tocchi la fabbrica ed il denaro scoppiano scintille, è ovvio.

Il governo tedesco non conta i morti reali per non spaventare la propria popolazione che lo costringerebbe a misure che vogliono ritardare il più a lungo possibile, come hanno provato a fare tutti, e questo avviene nel cuore dell’Europa, dell’Occidente democratico e trasparente che s’indigna per i ritardi cinesi e le nebbie russe. Il virus in Germania colpisce solo giovani alti, biondi e sanissimi, per questo le Merkel va in quarantena stanziando miliardi di miliardi per far fronte ai 90 morti dichiarati (cioè come gli svizzeri che sono otto volte di meno!) in un mese e mezzo su 82 milioni di individui. “Buying time”, comprare tempo pagandolo con morti non censiti. Berlino manipolando la sua opinione pubblica ed iniettando al contempo denaro nell’economia, si vuole garantire il suo rimaner al centro del sistema europeo anche nel “dopo”, perché è quella la sua “potenza”. Ed alla potenza si sacrifica tutto.

[Il post è della serie libere opinioni. Naturalmente seguo la faccenda da giorni ed ne ho letto e studiato il più possibile, per quanto mi è stato possibile. Se qualcuno ha da postare dati (le opinioni di articoli che si arrampicano sugli specchi per favore no), che facciano ulteriore luce, è il benvenuto. Vediamo chi mi fa cambiare opinione …]

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La prossima fase della lotta cinese contro il Coronavirus, di Phillip Orchard. Traduzione di Piergiorgio Rosso

Un colpo da maestro. Il gruppo dirigente del Partito Comunista Cinese è riuscito in queste ultime due settimane in un miracolo. E’ riuscito a ribaltare, almeno in Europa e in Italia, la percezione della propria immagine di primo responsabile della propagazione incontrollata del coronavirus all’interno e della sua diffusione all’esterno. Il danno politico legato all’attività censoria e agli iniziali ritardi nella informazione, dovuti verosimilmente in parte a timori di ordine pubblico e di lesione di immagine e in parte alle necessità di predisposizione di un apparato operativo funzionale sono stati compensati dal successo quantomeno momentaneo nel contenimento del virus dovuto ai draconiani interventi di isolamento, pur al netto delle presumibili manipolazioni di dati che riguardano la Cina al pari degli altri paesi. Le condizioni oggettive favorevoli all’incubazione di epidemie, in parte dovute a ragioni climatiche, ma in parte a condizioni socioeconomiche, in un breve lasso di tempo sono scivolate nel dimenticatoio di fronte all’espandersi dell’emergenza e alla rimozione, alla imperdonabile sottovalutazione ed improvvisazione almeno iniziale con le quali si è affrontato il problema dei focolai rispettivamente in Iran, in Iraq, in Italia e via via negli altri paesi. La successione temporale e geografica della propagazione, al netto delle evidenti manipolazioni dei dati in corso nei vari paesi, indicano e confermano l’origine e il percorso di diffusione. A questa confusione ed allarme crescenti si sono sovrapposte delle vere e proprie campagne ossessive riguardanti l’origine artificiale del virus e la volontarietà della diffusione. Non che l’ipotesi sia inverosimile. A Wuhan ci sono laboratori appositi dediti alla ricerca e manipolazione dei virus e un incidente che possa aver provocato la fuga del virus rimane una ipotesi plausibile; manipolazioni destinati presumibilmente ad uso civile, quanto militare. Ne è seguita invece una vera e propria battaglia mediatica e di manipolazione informativa tesa ad attribuire la responsabilità a l’uno o all’altro, ai cinesi o agli americani. L’esito di questa battaglia, specie in Italia e nel gossip internettiano, sembra volgere decisamente a favore della Cina. Una schiera di adepti sembra essere colta da furore indomito nel cavalcare questa onda; furore che nella gran parte dei casi si riduce a fungere da gran cassa più o meno inconsapevole sulla base di spartiti scritti da altri. In un prossimo articolo mostreremo come l’esasperazione delle teorie più complottistiche e allarmistiche, venute alla luce negli ultimi decenni, nascono proprio da fonti equivoche di quel paese, gli Stati Uniti, oggetto degli strali dei più accaniti partigiani della polemica antiamericana. Tanto accaniti per altro, quanto dannosi alla causa del recupero delle prerogative di sovranità della nostra nazione e del nostro stato, gravemente compromesse dalla catastrofe militare del ’43 e dalla qualità delle classi dirigenti specie degli ultimi tre decenni. Si sa però che le vittorie mediatiche spesso e volentieri non coincidono con la vittoria della verità. Quest’ultima probabilmente non verrà mai alla luce. Quello che appare chiarissimo, purtroppo, specie in Italia, è la capacità di assorbimento acritico delle informazioni più astruse e la propensione partigiana di abbeverarsi fideisticamente ad una delle due fonti secondo le proprie propensioni di fedeltà e sudditanza. Entrambi i burattinai hanno agito da maestri, i cinesi più degli americani. Trump ha parlato di virus cinese; le varie ambasciate cinesi, nelle telefonate e nelle voci insinuanti fatte circolare, parlano di virus giapponese, americano, tedesco o italiano a seconda degli interlocutori. I secondi, forti della loro esperienza plurimillenaria, stanno prevalendo sui primi anche su questo aspetto, almeno per il momento. Il colpo da maestro lo si è raggiunto con la fornitura di aiuti, pervenuti all’Iran, all’Iraq e poi all’Italia a fronte di un comportamento meschino e cieco dei paesi fratelli europei e dell’assenza di un qualsiasi gesto da parte americana. Nelle more buona parte degli aiuti giunti da Pechino sono destinati alle comunità cinesi in Italia, tra le quali quella milanese che conta alcune decine di migliaia di immigrati provenienti dalla regione di Wuhan. Onore al merito della lungimirante diplomazia cinese. E onore alla sua capacità di influenza e controllo militare e “comunitario” delle proprie comunità all’estero. Decisamente sconfortante, al contrario, il comportamento dei tifosi del Bel Paese i quali pur di liberarsi dal gioco di un padrone non esitano ad accettare, a volte senza nemmeno accorgersene, di buon grado il giogo dell’altro contendente. L’esito di questo atteggiamento l’abbiamo già conosciuto in altri secoli bui, con il nostro suolo calpestato da più padroni a volte in contrasto e a volte in collusione tra di loro, comunque ai danni nostri. Se si cominciasse a mettere in secondo piano l’aspetto “affettivo” nelle relazioni internazionali e nelle logiche geopolitiche, si individuerebbero più facilmente i limiti, i punti critici e i lati oscuri dei rapporti di dominio instaurati tante dalle potenze emergenti che da quelle impegnate a difendere le posizioni egemoniche consolidate. Rappresenterebbero esattamente gli spazi di opportunità ed agibilità di una politica più autonoma ed indipendente, di costruzione di una identità nazionale politicamente più salda. Alzare la testa e saper guardare con i propri occhi comporta però dei rischi; per degli uccellini vissuti in gabbia la fuga da una porticina aperta il più delle volte si risolve comodamente con il ricovero rassicurante in un’altra gabbia. Non è detto, tra l’altro, che essa sia alla fine più accogliente. Gli sviluppi legati a questa crisi saranno tutti lì a dimostrarlo. La simpatia e l’affinità culturale verso un popolo, nella fattispecie cinese, non deve comportare una subalternità o peggio ancora la ricerca di un nuovo protettore, pena il deterioramento dei rapporti di amicizia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La prossima fase della lotta cinese contro il Coronavirus

[https://geopoliticalfutures.com/the-next-phase-of-chinas-fight-with-the-coronavirus/] di  Phillip Orchard – March 13, 2020

 

Il Partito Comunista Cinese vorrebbe farci sapere che sta vincendo la guerra contro il coronavirus e che tutti noi dobbiamo ringraziare Xi Jinping. Questo è stato il messaggio centrale dei media statali cinesi nelle ultime settimane, segnando un importante punto di svolta nella crisi. Internamente, la massiccia mobilitazione della Cina contro il virus sembra aver frenato la marea, con il tasso di crescita delle nuove infezioni che rallenta a valori a singola cifra e l’industria cinese che sta tornando al lavoro con cautela. E mentre l’epidemia è diventata una pandemia, le risposte a chiazze dei governi occidentali hanno messo in una luce più favorevole sia i passi falsi fatti di Pechino all’inizio, che i suoi successivi successi.

E’ stata una fortuna per i propagandisti di Pechino, che ora possono richiamare l’attenzione sui trionfi della Cina e sui problemi del mondo. Il loro messaggio ha anche chiarito che Xi e il suo circolo interno emergeranno intatti dalla crisi sanitaria – e forse anche più forti. Xi ha comandato le battaglie decisive della “Guerra popolare” contro un nemico invisibile, almeno secondo i media statali intenzionati a elevare il presidente a uno status simile a quello di Mao.

Ma se Xi è al sicuro sul suo trono, il suo regno non lo è. L’economia cinese, per dirla chiaramente, è in pessime condizioni. Quasi tutti i problemi che Pechino non era riuscita a risolvere sono stati peggiorati di un ordine di grandezza dalla crisi del coronavirus. E mentre il virus che diventa globale potrebbe rappresentare un colpo di striscio alla iper-macchina cinese, la sua diffusione potrebbe benissimo chiudere le strade più promettenti del paese verso una rapida ripresa.

La battaglia di Xi

Un mese fa, il CCC stava vacillando. L’epidemia era diventata quasi incontenibile e la struttura decisionale strettamente centralizzata di Xi sommata ad una cultura della censura, erano almeno in parte responsabili. Ciò ha creato pressioni sia in patria che all’estero, costringendo Pechino ad attuare una svolta verso la “campagna dei cento fiori” di Mao, allentare le restrizioni ai rapporti indipendenti e censurare i social media con un tocco più leggero. Lo sdegno che seguì, in particolare dopo la morte del dottore Li Wenliang, fece paura a Pechino, costringendola a una serie di mosse goffe per soffocare il dissenso. Pechino fu anche costretta a rinviare il suo Congresso Nazionale annuale, su cui il PCC fa affidamento per allineare i meccanismi dello stato con la sua agenda. Per gran parte di questo tempo, lo stesso Xi era chiaramente assente dai riflettori. Quando il governo centrale ha finalmente lanciato una campagna per dimostrare il suo comando nella risposta alla crisi, non è stata guidata da Xi ma dal Premier Li Keqiang, la figura più vicina a Xi rispetto a un rivale del Comitato permanente del Politburo. Ma non appena apparve chiaro che la crisi avrebbe raggiunto il picco, all’inizio di febbraio, Xi è tornato saldamente di nuovo in scena.I pilastri del potere in Cina sono spesso descritti come “le tre P”: l’Esercito Popolare di Liberazione [PLA in inglese – NdT], il personale e la propaganda. E diventando il volto pubblico della risposta del governo, Xi ha dimostrato di controllare ciascuna di esse. All’inizio di febbraio ha schierato l’esercito, che gli risponde direttamente come presidente della Commissione militare centrale e che era stato notevolmente assente dalla risposta di gennaio, per costruire ospedali, trasportare forniture, garantire l’ordine pubblico e inviare medici in prima linea a Wuhan. Se Xi avesse perso il controllo delle nomine del personale chiave, non sarebbe stato in grado di sostituire la leadership del partito nella provincia di Hubei con una coppia di suoi fedelissimi. Infine, la macchina della propaganda è andata a tutto regime per fare del Presidente un leone. I media statali hanno iniziato a riferirsi al presidente come “il leader del popolo” e soprattutto, durante la tanto attesa visita di Xi a Wuhan questa settimana, equiparando la sua leadership nella lotta contro il coronavirus al comando di Mao sulla vittoria della guerra civile del Partito Comunista nel 1949. Questo rappresenta più di un mero simbolismo. Elevando efficacemente Xi allo status di Mao, il Partito Comunista sta legando la propria legittimità ancora più strettamente al culto della personalità di Xi, rendendo quasi impossibile per i rivali sloggiarlo.Tuttavia, ci sono almeno altre due “P” che contano. La prima è il pubblico, che per ora sembra sostenere ampiamente il PCC. A dire il vero, ci sono sacche di malcontento per la cattiva gestione di Pechino – e non solo nei circoli dei social media all’interno dei quali ingannare con astuzia i censori è diventata una forma d’arte. I medici di Wuhan non hanno smesso di parlare della soppressione da parte del governo della informazione sul virus. Un discorso particolarmente ottuso tenuto dal capo del partito di Wuhan che chiedeva una “campagna di educazione alla gratitudine” per i residenti della città prima del tour di ispezione di Xi, è stato affossato dai censori dopo aver ottenuto così tanti contraccolpi. E i video trapelati hanno mostrato che il vice premier cinese Sun Chunlan è stato inondato di insulti da cittadini in quarantena durante la sua visita a Wuhan. Ma questo deve ancora tradursi in un qualsiasi tipo di movimento di massa per le strade.Ciò è dovuto in parte al fatto che il paese è stato effettivamente bloccato. (In effetti, i sistemi di controllo digitali messi in atto per combattere la diffusione del virus saranno utili per combattere i tentativi di mobilitazione contro il governo in futuro.) Anche perché non si vede in giro nessun esponente o partito di opposizione di rilievo. (Questo è il motivo per cui qualsiasi segno di una divisione importante nel PLA o nel Politburo sarebbe così importante). Ma il potere della macchina mediatica dello stato non dovrebbe essere sottovalutato. La propaganda è più efficace quando contiene noccioli di verità. Pechino può ragionevolmente indicare i blocchi in Italia e altrove per sostenere che la sua risposta era entro i limiti accettabili e potrebbe indicare la grave carenza di maschere mediche, kit di test, letti d’ospedale e così via in luoghi come gli Stati Uniti per sostenere che, qualunque siano i suoi difetti, il modello di governo del PCC è superiore alle democrazie occidentali in una crisi.La guerra non è finitaL’altra “P” è la prosperità. La crescita a rotta di collo stava già diventando impossibile da sostenere. A febbraio l’economia si è effettivamente fermata. Circa un terzo delle imprese cinesi rimane chiuso, e molte altre operano solo a capacità parziale. Come è stato chiarito dai dati anemici sulla crescita del credito pubblicati questa settimana, le croniche difficoltà di Pechino per ottenere liquidità per le piccole e medie imprese – che rappresentano fino all’80% dell’occupazione in Cina e più della metà delle quali afferma di poter usare i loro risparmi per massimo due mesi – persistono. Anche il “sistema bancario ombra” ha toccato un minimo da tre anni, a febbraio. Questa è una buona notizia per la battaglia a lungo termine di Pechino contro prestiti sconsiderati, ma è una cattiva notizia nell’attuale contesto.Abbiamo notato che la Cina sarebbe ragionevolmente ben posizionata per un recupero a “V” una volta che potesse contenere il virus abbastanza da riavviare il suo motore di produzione, vale a dire fino a quando potesse evitare lo sfondamento dei rischi sistemici nel settore finanziario o immobiliare. Fondamentalmente quello che è successo dopo l’epidemia di SARS nel 2003. Una volta che le persone potranno effettivamente tornare a lavorare in massa, non sarà difficile riavviare i settori delle fabbriche e dei servizi cinesi.Il ritmo della ripresa dipenderà quindi principalmente dalla domanda. La massiccia spesa per gli stimoli e il settore statale aiuteranno. Ma con la perdita di massa dei salari a breve termine che potrebbe trascinare verso il basso il consumo interno per almeno un mese o più, il consumo esterno sarà di nuovo la chiave.Questo è il motivo per cui la diffusione globale della crisi è un grosso problema per la Cina, soprattutto perché sta avvenendo a un ritmo che potrebbe durare mesi e potrebbe risalire nuovamente in autunno. Interruzioni prolungate degli scambi sarebbero abbastanza gravi per le esportazioni cinesi, che sono diminuite di oltre il 17% solo a gennaio e febbraio. Più le economie europee e statunitensi rallentano, più la domanda occidentale di beni cinesi si prosciugherà. In questa luce, i peggiori scenari come quelli presentati dalle Nazioni Unite che prevedono un colpo di $2 trilioni di dollari al prodotto interno lordo globale, sembrano in qualche modo ottimisti.

(click to enlarge)

Nel frattempo, lo stress sui mercati finanziari in Occidente – combinato con la probabile spinta alle forze politiche anti-globalizzazione e l’ampia consapevolezza tra le multinazionali che le catene di approvvigionamento sono diventate eccessivamente dipendenti dalla Cina – ridurranno gli investimenti e i flussi di capitali verso la Cina. Nonostante l’impressionante capacità della Cina di individuare ogni singolo contagiato da virus in ogni singola porta delle fabbriche o degli aeroporti, non è impossibile che il virus ritorni. Altre quarantene di massa, ovviamente, potrebbero essere incalcolabilmente dirompenti. (Un lato positivo del rallentamento globale per Pechino: il crollo dei prezzi del petrolio avrà effetti contrastanti sull’economia cinese, ma nel complesso farà più bene che male.)Da quasi un decennio eravamo in attesa del prossimo grande shock che avrebbe testato la resilienza del sistema guidato dal PCC. L’ipotesi era che lo shock più probabile sarebbe venuto da forze esterne. Si scopre che lo shock è arrivato dall’interno, si è diffuso nel resto del mondo e ora sembra probabile che ritorni indietro. Non c’è nulla che i propagandisti cinesi possano fare a riguardo.

EPIDEMIA CORONAVIRUS: DUE APPROCCI STRATEGICI A CONFRONTO, di Roberto Buffagni

Culto cinese degli antenati

Culto dei Lari

 

I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

 

 

Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.

L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche  delle nazioni e dei popoli. La scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.

Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:

  1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
  2. Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).

Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo. La quota di pre-condannati a morte sarà più o meno ampia a seconda delle capacità del sistema sanitario, della composizione demografica della popolazione (rischiano di più i vecchi), e di altri fattori imprevedibili quali eventuali mutazioni del virus.

La ratio di questa decisione sembra la seguente:

  1. L’adozione del modello 2 (contenimento dell’infezione) ha costi economici devastanti
  2. La quota di popolazione che viene pre-condannata a morte è in larga misura composta di persone anziane e/o già malate, e pertanto la sua scomparsa non soltanto non compromette la funzionalità del sistema economico ma semmai la favorisce, alleviando i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza sanitaria e sociale nel medio periodo, per di più innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento rispetto ai loro maggiori.
  3. Soprattutto, la scelta del modello 1 accresce la potenza economico-politica relativa dei paesi che lo adottano rispetto ai loro concorrenti che adottano il modello 2, e devono scontare il danno economico devastante che comporta. Approfittando delle difficoltà dei loro concorrenti 2, le imprese dei paesi 1 potranno rapidamente sostituirsi ad essi, conquistando significative quote di mercato e imponendo loro, nel medio periodo, la propria egemonia economica e politica.

Naturalmente, per l’adozione del modello 1 sono indispensabili due requisiti: un centro direzionale politico statale coerentemente e tradizionalmente orientato su una accezione particolarmente radicale e spietata dell’interesse nazionale (tipici i casi britannico e tedesco); una forte disciplina sociale (ecco perché l’adozione del modello 1 da parte della Francia sarà problematica, e probabilmente si assisterà a una riconversione della scelta strategica verso il modello 2).

L’adozione del modello 1, insomma, corrisponde a uno stile strategico squisitamente bellico. La scelta di sacrificare consapevolmente una parte della popolazione economicamente e politicamente poco utile a vantaggio della potenza che può sviluppare il sistema economico-politico, in soldoni la scelta di liberarsi dalla zavorra per combattere più efficacemente, è infatti una tipica scelta necessitata in tempo di guerra, quando è normale perché indispensabile, ad esempio, privilegiare cure mediche e rifornimenti alimentari dei combattenti su cura e vitto di tutti gli altri, donne, vecchi e bambini compresi, nei soli limiti imposti dalla tenuta del morale della popolazione, che è altrettanto indispensabile sostenere.

Gli Stati che adottano il modello 1, dunque, non agiscono come se i loro concorrenti fossero avversari, ma come se fossero nemici, e come se la competizione economica fosse una vera e propria guerra, che si differenzia dalla guerra guerreggiata per il solo fatto che non scendono in campo gli eserciti. La condotta di questo tipo di guerra, proprio perché è una guerra coperta, sarà particolarmente dura e spietata, perché non vi ha luogo alcuno né il diritto bellico, né l’onore militare che ad esempio vieta il maltrattamento o peggio l’uccisione di prigionieri e civili, l’impiego di armi di distruzione di massa, etc. Per concludere, la scelta del modello 1 privilegia, nella valutazione strategica, la finestra di opportunità immediata (conquistare con un’azione rapida e violenta un vantaggio strategico sul nemico)  sulla finestra di opportunità strategica di medio-lungo periodo (rinsaldare la coesione nazionale, diminuire la dipendenza e vulnerabilità  della propria economia dalle altrui accrescendo investimenti statali e domanda interna).

 

***

 

Alla luce di quanto delineato a proposito degli Stati che adottano il modello 1, è più facile descrivere lo stile etico-politico degli Stati che adottano il modello 2.

Nel caso della Cina, è indubbio che il centro direttivo politico cinese sappia molto bene che la competizione economica è componente decisiva della “guerra ibrida”.  Furono anzi proprio due colonnelli dello Stato Maggiore cinese,  Liang Qiao e Xiangsui Wang, che negli anni Ottanta elaborarono il testo seminale sulla “guerra asimmetrica”[1]. Credo che il centro direzionale politico cinese abbia scelto, pare con successo, di adottare il modello 2 per tre ragioni di fondo: a) il carattere spiccatamente comunitario della tradizione culturale cinese, nella quale il concetto liberale di individuo e il concetto cristiano di persona hanno rilievo scarso o nullo b) il profondo rispetto per i vecchi e gli antenati, cardine del confucianesimo c) una valutazione strategica di lungo periodo, riassumibile in queste due massime di Sun Tzu, il pensatore che più ispira lo stile strategico cinese: “La vittoria si ottiene quando i superiori e gli inferiori sono animati dallo stesso spirito”  e  “Una guida coerente permette agli uomini di sviluppare la fiducia che il loro ambiente sia onesto e affidabile, e che valga la pena combattere per esso.” In altri termini, penso che la direzione cinese abbia valutato che il vantaggio strategico di lungo periodo di preservare e anzi rafforzare la coesione sociale e culturale della propria popolazione superasse il costo di breve-medio periodo del danno economico, e della rinuncia a profittare nell’immediato delle difficoltà degli avversari. Perché “le vie che portano a conoscere il successo” sono tre: 1. Sapere quando si può o non si può combattere 2. Sapersi avvalere sia di forze numerose che di forze esigue 3. Saper infondere uguali propositi nei superiori e negli inferiori.”

Nel caso dell’Italia, la scelta – per quanto incerta e mal eseguita – del modello 2 credo dipenda dalle seguenti ragioni. 1) Sul piano culturale, dall’influsso della civiltà italiana ed europea premoderna, infusa com’è di sensibilità precristiana, contadina e mediterranea per la famiglia e la creaturalità, poi parzialmente assorbita dal cattolicesimo controriformato e dal barocco: un influsso  di lunghissima durata che continua ad operare nonostante la protestantizzazione della Chiesa cattolica odierna, e nonostante l’egemonia culturale, almeno di superficie, di liberalismo ideologico e liberismo economico 2) Sempre sul piano culturale, dal pacifismo instaurato dopo la sconfitta nella IIGM e perpetuato prima dalle sinistre comuniste e dal mondo cattolico, poi dalle dirigenze liberal-progressiste UE; un pacifismo che genera espressioni buffe come “soldati di pace”, e la negazione metodica della dimensione tragica della storia 3) Sul piano politico, sia dal grave disordine istituzionale, ove i livelli decisionali si sovrappongono e ostacolano reciprocamente, come s’è palesato nel conflitto tra Stato e Regioni all’apertura della crisi epidemiologica; sia dalle preoccupazioni elettorali di tutti i partiti; sia dalla fragile legittimazione dello Stato, antico problema italiano 4) sul piano politico-operativo, dalla sbalorditiva incapacità delle classi dirigenti, nelle quali decenni di selezione alla rovescia e abitudine a scaricare responsabilità, scelte e relative motivazioni sulle spalle dell’Unione Europea hanno indotto una forma mentis che induce sempre a imboccare la linea di minor resistenza: che in questo caso è proprio la scelta di contenere il contagio, perché per scegliere la via del triage bellico di massa (comunque la si giudichi, e io la giudico molto negativamente) ci vuole una notevolissima capacità di decisione politica.

In altre parole, la scelta italiana del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili,  e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché. Però lo siamo stati, e di questo dobbiamo ringraziare i nostri antenati defunti, i Lari[2] il cui culto, sotto diversi nomi, si perde nei secoli e millenni; e che senza saperlo, oggi onoriamo e veneriamo facendo tutto il possibile per curare i nostri padri, madri, nonni, anche se non servono più a niente.

Farebbe sorridere Sun Tzu e forse anche Hegel constatare che i due modelli impongono metodi operativi di implementazione esattamente opposti rispetto allo stile strategico.

L’implementazione del modello 1 (non conteniamo il contagio, sacrifichiamo consapevolmente una quota di popolazione) non richiede alcuna misura di restrizione della libertà: la vita quotidiana prosegue esattamente come prima, tranne che molti si ammalano e una percentuale non esattamente prevedibile ma non trascurabile di essi, non potendo ottenere le cure necessarie per ragioni di capienza del servizio sanitario, muore.

L’implementazione del modello 2 (conteniamo il contagio per salvare tutti i salvabili) richiede invece l’applicazione di misure severissime di restrizione delle libertà personali, e anzi esigerebbe, per essere coerentemente effettuato, il dispiegamento di una vera e propria dittatura, per quanto morbida e temporanea, in modo da garantire l’unità del comando e la protezione della comunità dallo scatenamento delle passioni irrazionali, cioè da se stessa. Operativamente, la direzione esecutiva del modello 2 dovrebbe essere affidata proprio alle forze armate, che possiedono sia le competenze tecniche, sia la struttura rigidamente gerarchica adatte.

Concludo dicendo che sono contento che l’Italia abbia scelto di salvare tutti i salvabili. Lo sta facendo goffamente, e non sa bene perché lo fa: ma lo fa. Stavolta è facile dire: right or wrong, my country.

[1] Liang Qiao e Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Edizioni 2011

[2] v. https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html

IL CUOCO DI BORDO E BARBANERA, di Massimo Morigi

 

 

IL CUOCO DI BORDO E L’ASSALTO DEI PIRATI ALLA NAVE

 

Di Massimo Morigi

 

Oggi 13 marzo 2020 tutti i grandi organi di informazione, tutti allineati, sono indignati per le dichiarazioni del presidente della BCE Christine Lagarde di lasciare i tassi invariati e che il ruolo della BCE non è quello di fare abbassare lo spread, alle quali ha immediatamente fatta eco la “durissima” replica del Presidente della Repubblica italiana (mamma mia che impressione!) nelle quali, testuali parole, stigmatizza «L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione» (a rileggerle, scorre per la schiena un brivido di orgoglio patriottico e non aggiungiamo altro… per carità di Patria). Difficile dire se il presidente della BCE abbia compiuta una gaffe oppure abbia scientemente voluto dare una mano alla speculazione internazionale che in questa gravissima e sistemica crisi non solo epidemiologica ma economica, sociale e politica dell’Italia scommette sul crollo del paese. Per noi il migliore commento alla situazione ci viene da Stadi sul cammino della vita di Søren Kierkegaard, dove il pre-esistenzialista filosofo danese a metafora della condizione umana priva di punti riferimento scriveva: «State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.» Alle quali parole, come chiosa della situazione attuale, aggiungiamo: «E venuta a sapere della situazione della nave, i pirati stanno compiendo  l’abbordaggio».

 

 

 

 

La nave è ormai in preda al cuoco di bordo e ciò che trasmette al microfono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani.

Politica – da PensieriParole.it <https://www.pensieriparole.it/aforismi/politica/>

Søren Aabye Kierkegaard

 

 

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Approvando, citando gli  Stadi sul cammino della vita di Søren Kierkegaard

 

 

 

“State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.”

Søren Kierkegaard – Stadi sul cammino della vita

 

Stadier paa Livets Vei. Studier af Forskjellige sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder
Autore Søren Kierkegaard
1ª ed. originale 1845
1ª ed. italiana 1993
Genere saggio
Sottogenere filosofia
Lingua originale danese

Stadi sul cammino della vita. Studi di autori diversi raccolti, dati alle stampe e pubblicati da Hilarius il Rilegatore (in danese Stadier på Livets Vej) è un’opera del filosofo Søren Kierkegaard del 1845, al cui interno vengono raccolti scritti firmati con gli pseudonimi Hilarius il Rilegatore, William Afham e Frater Taciturnus. Viene considerato una specie di continuazione della raccolta Enten-Eller che prevalentemente si occupa di vita etica e vita estetica, mentre qui l’autore si occupa di vita religiosa

 

Stages On Life’s Way: Studies by Various Persons, compiled, forwarded to the press, and published by Hilarious Bookbinder (Stadier paa Livets Vej. Studier af Forskjellige. Sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder)

https://www.academia.edu/24856545/Stages_on_the_way_of_life_Kierkegaard

The captain is on the bridge and the cook is in the galley. These days – as Kierkegaard used to say – we find the cook has taken the helm and is handing out orders, so we know what we are going to eat tomorrow but have no idea in which direction we are sailing.The crisis is giving rise to disquiet, because we no longer know what is on tomorrow’s menu.

 

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What is the biggest battle ever fought?

 

 

Kevin Flint, studied History

Updated February 14, 2018 · Featured on HuffPost · Upvoted by David Bliss, MA in history and Vadim Mikhnevych, Former Driver-Electrician in the Air Forces

The Battle of Vienna
So yes, there have been large and protracted actions defined as battles that have lasted weeks, months, or years. But if we want to narrow the definition of “battle” to be defined as a single uninterrupted moment of conflict (ie the classical definition of “battle”,) then September 12, 1683 is a strong contender for both number of combatants simultaneously engaged, and because at 5 PM that day there occurred what could well be the most awesome spectacle in the history of battle.

The set up: For 2 months the mighty army of the Ottoman Empire had laid siege to Vienna. And though they massively outnumbered the 15,000 defenders by 10 or 20 to 1, it was no easy task. The fortifications and walls of Vienna were some of the most modern of the era, and reinforced with 370 cannon. The Ottomans were forced to slowly whittle down the defenses by completely cutting off the city and using extensive tunneling and sapper action to reduce the walls.




The Relief: Arriving on September 11, the Polish and German relief forces had managed to quickly consolidate their fractious alliance under the leadership of the Polish King. Early the next morning, as they were still consolidating and readying their order and lines of battle, the Ottoman forces attacked. At the same time, beneath the clashing infantry, a subterranean battle was being waged as thousands of Ottoman sappers in miles of tunnels faced an army of counter sappers from the city defenders.

The counter sappers managed to delay or disarm the massive bombs intended to devastate the walls. This denied the Ottoman infantry the chance to take the city, and to assume strong defensive positions within the walls.

The Charge: Late in the afternoon, after an entire day of massive infantry battle above and below the ground, the exhausted Polish-German forces let out a cheer. For they saw that their cavalry was finally ready to engage en masse. At the top of the hill abutting the battlefield, 20,000 men on horseback had formed up. Spearheaded by 3000 Polish Hussars – the most elite and heaviest cavalry of the age – they charged. Not as individual units or in bunches, but all at once. The largest cavalry charge in human history. 20,000 horses. 80,000 hooves pounding the ground in unison. A mass of steel and flesh and muscle crashing down upon an Ottoman infantry that was worn out from 12 hours of intense fighting.

The ground did tremble. A man made earthquake. And though the Ottoman forces well outnumbered the relief army in infantry forces, this thunderous, deafening wall of cavalry carved a massive hole straight through their lines. A deep gash was cut all the way through to the supply tents and camps of the Ottomans, ripping the army into fractious pieces. Faced with this massive, unprecedented attack, the Ottoman forces collapsed, and slaughter followed. And though fighting would continue into nightfall, the greatest cavalry charge in human history had finished the battle, and solidified the Habsburg dynasty’s power in Europe.

Fun tidbit: Remember the epic siege of Gondor in Tolkien’s “The Lord of the Rings?” Many think it was inspired by the Battle of Vienna. It has many parallels, including the massive cavalry charge that finally breaks the siege just in time. Though I think it would be fair to say the Ottoman Empire was considerably more civilized than the Orc horde, their fate was quite similar.


​Edit… For those of you who enjoyed this, I just wrote another one.
Kevin Flint’s answer to What is the most ridiculous war ever fought in our history?

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Coronavirus, politica e geopolitica, con Piero Visani e Gianfranco Campa

Qui sotto una conversazione con Gianfranco Campa e Piero Visani, registrata una settimana fa, sulle pesanti implicazioni politiche e geopolitiche della pandemia ormai in corso. L’Italia è ormai uno dei paesi più esposti ma la crisi è destinata a coinvolgere drammaticamente sempre più paesi e contribuirà a sconvolgere ulteriormente gli equilibri. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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