DEL GATTO E DEL TOPO, di Pierluigi Fagan

DEL GATTO E DEL TOPO. La frase: “Non importa se il gatto è bianco o nero, purché catturi i topi” è attribuita a Deng Xiaoping. Ma compare in un testo del 1977 che era un anno prima che Deng diventasse segretario del PCC e compare addirittura in un discorso alla gioventù comunista del ’62, quindi forse è un classico “detto cinese”. Nella metafora, il topo è la prosperità dell’intera società, il gatto è il modo per ottenerla.

Nel 1978 Deng diventerà il capo del gigante povero cinese e da allora condurrà, dentro un sistema che continuerà convintamente a definire “comunista”, un disaccoppiamento strutturale tra economia e politica, in pratica una inversione di logica all’interno del concetto fondativo del sistema di idee di Marx detto “materialismo storico”. Nella formulazione che Marx aveva dato del concetto del MS nella Per la Critica dell’Economia Politica, il tedesco sosteneva che “Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”. In seguito ed in modo complicato qui da ricostruire, quel “… condiziona, in generale, …” che si opponeva dialetticamente all’idea di Hegel per il quale altresì rapporti giuridici e forme dello Stato avevano una loro storia e sviluppo proprio, divenne un determinismo. Per cui, la tradizione comunista sviluppata nel Novecento, pensò che cambiando il modo economico si sarebbe cambiata la società tutta che da quel modo sembrava dipendere. Su chi e come doveva cambiare quel modo ci fu e c’è ancora dibattito.

Purtroppo però, nell’attualizzazione storica del comunismo tanto sovietico che maoista, quel nuovo “modo economico” non sembrava in grado di acchiappare nessun topo. Viceversa, l’adozione dei modi dell’economia moderna occidentale a partire da quel del Giappone del 1868 (Restaurazione Meiji), mostrava come si poteva senz’altro adottare il modo economico occidentale senza per questo diventare altro da ciò che si era tradizionalmente, attualizzandolo.

Deng varò allora le quattro modernizzazioni (agricola, industriale e commerciale, scientifica e di difesa), coltivò i primi esperimenti dal basso delle Zone Economiche Speciali, ripristinò rapporti non conflittuali con l’URSS, abolì il “sistema delle classi”, tesse vaste relazioni attive con vari paesi occidentali tra cui gli USA che a quel punto disconobbero Taiwan per allacciare rapporti con RPC, ma anche con Giappone e Germania che da allora divenne uno dei principali fornitori di tecnologie per lo sviluppo economico cinese riservandosi tra gli occidentali un ruolo di partner di feconde relazioni speciali che dura tutt’oggi. Contrattò ed ottenne la restituzione di Hong Kong dagli inglesi e Macao dai portoghesi, limitò progressivamente l’intervento dello Stato in economia lasciandogli il ruolo di regista macroeconomico, schivò sette attentati alla sua vita ed infine morì nel 1997.

L’ascesa del mondo asiatico che culminerà con l’adesione della Cina la WTO nel 2002, il processo di convergenza di potenza tra Oriente ed Occidente posti su traiettorie divergenti dal 1850, lo si deve molto probabilmente alla sua profonda azione riformatrice. Come notava Domenico Losurdo nel suo “Il marxismo occidentale” (Laterza, 2017), sul piano ideologico, Deng o comunque questa torsione teorica e pratica cinese, introduceva anche l’obiettivo del cambiamento di lunga durata non solo o tanto posponendo il traguardo finale del processo che doveva portare ad una nuova forma di società, ma incaricandosi di perseguirlo passo dopo passo a partire dalle situazioni contingenti con pazienza e lenta costanza.

Tutto questo racconta di come ideologie occidentali sono state interpretate in ambiente orientale, l’ideologia economica moderna di mercato da una parte, l’ideologia marxista da Deng ricalibrata nei rapporti tra politica ed economia. Per ambiente orientale, intendiamo un polo geo-storico radicalmente diverso dal nostro, dove che si parli di Cina o di Corea tanto del Nord che del Sud, del Giappone o di Singapore, piuttosto che di Cambogia, Laos o Vietnam, si parla di società a forte influenza confuciana. A riguardo, vale la distinzione tra Confucio e confucianesimo (come vale per Gesù Cristo ed il cristianesimo o per Marx ed il marxismo e molti altri), stante che del primo ci sono pervenuti dei libri del – VI/V secolo che comportano complicati esercizi di filologia ed ermeneutica, mentre il secondo è una ininterrotta e vastissima tradizione plurale lunga duemilacinquecento anni e non solo o del tutto, cinese.

La storia del gatto e del topo di Deng quindi ci serve solo come modulo del già a noi noto problema dei mezzi e dei fini. Riportato qui da noi, prendo questa frase di Piketty le cui ultime 1200 pagine ho in programma di leggere (T. Piketty, Capitale ed ideologia, La nave di Teseo, 2019), da una intervista nel suo attuale tour di lancio (da il manifesto): “Per cominciare, penso che sia importante parlare del sistema economico che vogliamo.”. Ne segue quello che lui chiama “socialismo partecipativo” a base di giustizia educativa, imprese partecipate dai lavoratori, tassa progressiva su patrimonio e successioni. La domanda allora è: se il fine è in prospettiva una società meno diseguale e sempre più egalitariamente partecipata, qual è il mezzo? Il mezzo, ovvero il gatto, è ancora disegnare modi economici a priori che poi nessuno sa come implementare, è ancora e sempre scrivere libri dei sogni in cui ci dilettiamo in ingegneri dell’utopia che producono letteratura fantasy che lascia le condizioni del mondo come le trova?

In Oriente, il gatto è lo Stato confuciano (che si dica “comunista” come in Cina o Vietnam o si dica “democratico” senza esserlo come in Giappone o provenga dal dominio di una singola famiglia come a Singapore o Corea del Nord, è solo sua declinazione), in Occidente qual è il gatto?

Quali relazioni internazionali dopo la pandemia di coronavirus?

Questo articolo tratto dal mensile “Foreign Policy” ci dice che negli Stati Uniti il confronto e lo scontro politico su come orientare le scelte internazionali e le dinamiche geopolitiche è tutt’altro che risolto a prescindere anche dalle dinamiche reali e dalla forza della realtà. L’oggetto, però, non è il dilemma tra conflitto e cooperazione, come vuole la retorica, ma su quale sia l’avversario principale e su come va affrontato_Giuseppe Germinario

Come la caduta del muro di Berlino o il crollo di Lehman Brothers, la pandemia di coronavirus è un evento devastante, le cui conseguenze possiamo solo iniziare a immaginare.

Questo è certo: proprio come questa malattia ha rovinato vite, sconvolto mercati e dimostrato la competenza (o la mancanza di essa) dei governi, causerà cambiamenti permanenti nel potere politico ed economico in modi che non saranno apparente solo dopo.

Per aiutarci a comprendere i cambiamenti geopolitici che stanno avvenendo sotto i nostri occhi durante questa crisi, la Politica estera ha intervistato diversi importanti pensatori di tutto il mondo sulle loro previsioni per il futuro dell’ordine mondiale.


Un mondo meno aperto, meno prospero e meno libero

di Stephen M. Walt , professore di relazioni internazionali all’Università di Harvard.

La pandemia rafforzerà lo stato e il nazionalismo. I governi di tutti i tipi adotteranno misure di emergenza per gestire la crisi e molti saranno riluttanti a rinunciare a questi nuovi poteri al termine della crisi.

Il Covid-19 accelererà anche il trasferimento di potere e influenza da ovest a est. La Corea del Sud e Singapore hanno reagito meglio e la Cina ha reagito bene dopo i suoi primi errori. In confronto, la reazione in Europa e in America è stata lenta e disordinata, che ha ulteriormente offuscato l’aura dell’immagine occidentale.

Ciò che non cambierà è la natura fondamentalmente contrastante della politica mondiale. Le precedenti pestilenze, in particolare l’epidemia di influenza del 1918-1919, non ponevano fine alla rivalità tra le grandi potenze né aprivano una nuova era di cooperazione globale. Neanche il Covid-19 lo farà. Assisteremo a un ulteriore declino dell’iper-globalizzazione, mentre i cittadini si rivolgono ai governi nazionali per proteggerli e gli stati e le imprese cercano di ridurre le vulnerabilità future.

In breve, The Covid-19 creerà un mondo meno aperto, meno prospero e meno libero. Non doveva essere così, ma la combinazione di un virus mortale, una pianificazione inadeguata e una leadership incompetente hanno portato l’umanità su una nuova e inquietante rotta.


La fine della globalizzazione come la conosciamo

di Robin Niblett , direttore e CEO di Chatham House.

La pandemia di coronavirus potrebbe essere l’ultima goccia che sta rompendo gli schemi della globalizzazione economica. Il crescente potere militare ed economico della Cina aveva già scatenato una determinazione bipartisan negli Stati Uniti per separare la Cina dalla proprietà intellettuale di alta tecnologia e di origine americana e cercare di costringere gli alleati a seguire l’esempio.

La crescente pressione pubblica e politica per raggiungere gli obiettivi di riduzione del carbonio aveva già messo in discussione la dipendenza di molte aziende dalle catene di approvvigionamento a lunga distanza. Oggi, il Covid-19 sta costringendo i governi, le imprese e le società a rafforzare la loro capacità di far fronte a lunghi periodi di autoisolamento economico.

In questo contesto, sembra molto improbabile che il mondo ritorni all’idea di una globalizzazione reciprocamente vantaggiosa che ha definito l’inizio del 21 ° secolo. E senza l’incentivo a proteggere i vantaggi condivisi dell’integrazione economica globale, l’architettura della governance economica globale stabilita nel 20 ° secolo si atrofizzerà rapidamente. I leader politici avranno quindi bisogno di un’enorme autodisciplina per sostenere la cooperazione internazionale e non ricorrere alla concorrenza geopolitica aperta.

Dimostrare ai loro cittadini che possono gestire la crisi di Covid-19 consentirà ai leader di guadagnare del capitale politico. Ma coloro che falliranno troveranno difficile resistere alla tentazione di incolpare gli altri per il loro fallimento.


Una globalizzazione più incentrata sulla Cina

di Kishore Mahbubani , eminente ricercatore presso l’Asian Research Institute dell’Università Nazionale di Singapore, autore di Has China Won? La sfida cinese al primato americano .

La pandemia di Covid-19 non cambierà radicalmente la direzione dell’economia globale. Accelererà solo un cambiamento che era già iniziato: l’abbandono di una globalizzazione incentrata sugli Stati Uniti a favore di una globalizzazione più incentrata sulla Cina.

Perché questa tendenza continuerà? La popolazione americana ha perso la fiducia nella globalizzazione e nel commercio internazionale. Gli accordi di libero scambio sono tossici, con o senza il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. D’altra parte, la Cina non ha perso la fiducia.

Perché non ha perso la fiducia? Ci sono ragioni storiche più profonde. I leader cinesi sanno che il secolo di umiliazione cinese, dal 1842 al 1949, fu il risultato della sua stessa compiacenza e di uno sforzo inutile da parte dei suoi leader per tagliarlo fuori dal mondo. Al contrario, gli ultimi decenni di ripresa economica sono stati il ​​risultato dell’impegno globale. Anche il popolo cinese ha vissuto un’esplosione di fiducia culturale. Credono di poter essere competitivi ovunque.

Pertanto, come documento nel mio nuovo libro, la Cina ha vinto? gli Stati Uniti hanno due scelte. Se il loro obiettivo primario è mantenere il loro primato globale, dovranno impegnarsi in una competizione geopolitica a somma zero, politicamente ed economicamente, con la Cina.

Tuttavia, se l’obiettivo degli Stati Uniti è migliorare il benessere del popolo americano – le cui condizioni sociali sono peggiorate – devono cooperare con la Cina. Il consiglio più informato suggerirebbe la cooperazione come la scelta migliore. Tuttavia, dato l’ambiente politico tossico degli Stati Uniti nei confronti della Cina, il consiglio più saggio potrebbe non prevalere.


Le democrazie emergeranno dai loro gusci

di G. John Ikenberry , professore di politica e affari internazionali all’Università di Princeton, autore di After Victory e Liberal Leviathan .

A breve termine, la crisi alimenterà le varie parti del dibattito sulla grande strategia occidentale. Nazionalisti e anti-globalisti, falchi cinesi e persino internazionalisti liberali vedranno tutti nuove prove dell’urgenza delle loro opinioni. Dato il danno economico e il collasso sociale che si sta verificando, è difficile vedere altro che un rafforzamento del movimento verso il nazionalismo, la rivalità tra grandi potenze, il disaccoppiamento strategico, ecc.

Ma proprio come negli anni ’30 e ’40, potrebbe esserci anche una controcorrente più lenta, una sorta di internazionalismo testardo simile a quello che Franklin D. Roosevelt e alcuni altri statisti hanno iniziato a articolare prima e durante la guerra. Il crollo dell’economia globale negli anni ’30 ha dimostrato quanto le società moderne connesse e vulnerabili siano quelle che la FDR chiamava contagio.

Gli Stati Uniti furono meno minacciati da altre grandi potenze che dalle forze profonde – e dal carattere del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde – della modernità. Ciò di cui hanno parlato la FDR e altri internazionalisti è un ordine postbellico che ricostruisca un sistema aperto con nuove forme di protezione e la capacità di gestire l’interdipendenza. Gli Stati Uniti non potevano semplicemente nascondersi all’interno dei propri confini, ma per funzionare in un aperto ordine postbellico, era necessario costruire un’infrastruttura globale per la cooperazione multilaterale.

Gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali potrebbero quindi attraversare questa stessa sequenza di reazioni animate da una sensazione di vulnerabilità a cascata; la risposta potrebbe essere inizialmente più nazionalista, ma a lungo termine, le democrazie emergeranno dai loro gusci per trovare un nuovo tipo di internazionalismo pragmatico e protettivo.


Meno profitti, ma più stabilità

di Shannon K. O’Neil , ricercatore di studi latinoamericani presso il Council on Foreign Relations e autore di Two Nations Indivisible: Messico, Stati Uniti e Road Ahead.

Il Covid-19 mina i fondamenti della produzione globale. Le aziende ora ripenseranno e ridurranno le catene di fornitura multi-fase e multi-nazione che dominano la produzione oggi.

Le catene di approvvigionamento globali erano già sotto tiro, sia economicamente, a causa dell’aumento del costo del lavoro in Cina, della guerra commerciale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dei progressi nel robotica, automazione e stampa 3D, solo politicamente, a causa di perdite di lavoro reali e percepite, soprattutto nelle economie mature.

Il Covid-19 ha ora rotto molti di questi collegamenti: chiusure di impianti nelle aree colpite hanno lasciato altri produttori, così come ospedali, farmacie, supermercati e negozi al dettaglio, senza scorte o forniture.

Dall’altro lato della pandemia, sempre più aziende chiederanno di conoscere meglio la fonte delle loro forniture e si scambieranno l’efficienza con la ridondanza. Interverranno anche i governi, costringendo le industrie che considerano strategiche ad avere piani di emergenza e di riserva nazionali. La redditività diminuirà, ma la stabilità dell’offerta dovrebbe migliorare.


La storia di COVID-19 sarà scritta dai vincitori

di John Allen , presidente della Brookings Institution, ritirò il generale a quattro stelle del Corpo dei Marines degli Stati Uniti ed ex comandante della Forza di assistenza alla sicurezza internazionale per la NATO e le forze degli Stati Uniti in Afghanistan.

Come sempre, la storia della crisi di Covid-19 sarà scritta dai “vincitori”. Ogni nazione, e sempre più ogni individuo, sta vivendo la pressione sociale di questa malattia in modi nuovi e potenti. Inevitabilmente, le nazioni che persevereranno – sia per i loro sistemi politici ed economici unici sia dal punto di vista della salute pubblica – reclameranno il successo contro coloro che sperimenteranno un risultato diverso e più devastante.

Per alcuni, questo sembrerà un grande trionfo definitivo per la democrazia, il multilateralismo e l’assistenza sanitaria universale. Per altri, metterà in evidenza gli ovvi “benefici” di un regime autoritario e decisivo.

Ad ogni modo, questa crisi rimodellerà la struttura di potere internazionale in modi che possiamo solo iniziare a immaginare. Il Covid-19 continuerà a deprimere l’attività economica e ad aumentare le tensioni tra i paesi.

A lungo termine, è probabile che la pandemia riduca in modo significativo la capacità produttiva dell’economia globale, soprattutto se le imprese chiudono e le persone lasciano la forza lavoro. Questo rischio di dislocazione è particolarmente importante per i paesi in via di sviluppo e altri paesi che hanno una grande percentuale di lavoratori economicamente vulnerabili. Il sistema internazionale, a sua volta, subirà una forte pressione, il che porterà all’instabilità e conflitti diffusi all’interno e tra i paesi.


Un nuovo drammatico passo nel capitalismo mondiale

di Laurie Garrett , ex ricercatrice mondiale in materia di salute presso il Council on Foreign Relations e il vincitore del premio Pulitzer.

Lo shock fondamentale per il sistema finanziario ed economico globale è il riconoscimento che le catene di approvvigionamento globali e le reti di distribuzione sono profondamente vulnerabili alle perturbazioni. La pandemia di coronavirus non avrà quindi solo effetti economici duraturi, ma porterà anche a cambiamenti più fondamentali.

La globalizzazione ha consentito alle aziende di esternalizzare la produzione in tutto il mondo e consegnare i loro prodotti ai mercati just-in-time, aggirando i costi di magazzino. Gli inventari rimasti sugli scaffali per più di qualche giorno sono stati considerati fallimenti del mercato. Le forniture dovevano essere assicurate e spedite a un livello globale attentamente orchestrato. Il Covid-19 ha dimostrato che i patogeni non solo possono infettare le persone ma anche avvelenare l’intero sistema di flusso teso.

Data l’entità delle perdite subite dai mercati finanziari da febbraio, le aziende probabilmente usciranno da questa pandemia con una certa timidezza rispetto al modello just-in-time e alla dispersione della produzione in tutto il mondo. Ciò potrebbe comportare un nuovo drammatico passo nel capitalismo globale, in cui le catene di approvvigionamento vengono avvicinate a casa e riempite di licenziamenti per proteggersi dalle interruzioni future. Ciò potrebbe ridurre i profitti aziendali a breve termine, ma rendere l’intero sistema più resiliente.


Altri stati in bancarotta

di Richard N. Haass , presidente del Council on Foreign Relations e autore di The World: A Brief Introduction .

Penso che la crisi del coronavirus porterà la maggior parte dei governi, almeno per alcuni anni, a rivolgersi su se stessi, concentrandosi su ciò che sta accadendo all’interno dei loro confini piuttosto che su ciò che sta accadendo. al di fuori. Prevedo un’evoluzione più marcata verso l’autosufficienza selettiva (e, quindi, verso il disaccoppiamento) data la vulnerabilità della catena di approvvigionamento; opposizione ancora più forte all’immigrazione su larga scala; e una volontà o un impegno ridotti per affrontare i problemi regionali o globali (compresi i cambiamenti climatici) vista la necessità percepita di dedicare risorse alla ricostruzione del paese e di far fronte alle conseguenze economiche della crisi.

Mi aspetto che molti paesi troveranno difficile riprendersi dalla crisi, con gli stati deboli e gli stati falliti che diventano una caratteristica ancora più diffusa nel mondo. È probabile che la crisi contribuisca al continuo deterioramento delle relazioni sino-americane e all’indebolimento dell’integrazione europea. Sul lato positivo, dovremmo assistere a un leggero rafforzamento della governance globale della sanità pubblica. Ma nel complesso, una crisi radicata nella globalizzazione indebolirà piuttosto che aumentare la volontà e la capacità del mondo di reagire ad essa.


In ogni paese vediamo il potere dello spirito umano

di Nicholas Burns , professore alla Kennedy School of Government di Harvard ed ex sottosegretario agli affari politici presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

La pandemia di Covid-19 è la più grande crisi globale di questo secolo. La sua profondità e ampiezza sono enormi. La crisi della salute pubblica minaccia ciascuno dei 7,8 miliardi di persone sulla Terra. La crisi economica e finanziaria potrebbe avere un impatto maggiore sulla Grande recessione del 2008-2009. Ogni crisi da sola potrebbe causare uno shock sismico che cambierebbe permanentemente il sistema internazionale e l’equilibrio di potere come lo conosciamo.

Finora, la collaborazione internazionale è stata deplorevolmente insufficiente. Se gli Stati Uniti e la Cina non fossero in grado di mettere da parte la loro guerra di parole per determinare quale di loro è responsabile della crisi, la credibilità dei due paesi potrebbe essere notevolmente ridotta. Se l’Unione europea non può fornire aiuti più mirati ai suoi 500 milioni di cittadini, i governi nazionali potrebbero riguadagnare più potere a Bruxelles in futuro. Negli Stati Uniti, ciò che è maggiormente in gioco è la capacità del governo federale di prendere provvedimenti efficaci per arginare la crisi.

In ogni paese, tuttavia, ci sono molti esempi del potere dello spirito umano: medici, infermieri, leader politici e cittadini comuni che dimostrano capacità di ripresa, efficienza e leadership. Ciò dà speranza che uomini e donne in tutto il mondo possano prevalere di fronte a questa straordinaria sfida.

tratto da https://foreignpolicy.com/2020/03/20/world-order-after-coroanvirus-pandemic/

PER UNA SEPARAZIONE DEGLI OCCIDENTI, di Pier Luigi Fagan

Penso che la domanda giusta sia: ma noi, gente europea, popoli europei con questa gente quanto ci abbiamo a che fare? Potremmo scoprire che gli OCCIDENTI sono più di due e che solo negli Stati Uniti hanno trovato modo di convivere, ma in quella maniera; almeno sino ad ora. Forse lì hanno trovato un primo denominatore comune_Giuseppe Germinario

PER UNA SEPARAZIONE DEGLI OCCIDENTI. (Dedicato a mia moglie, texana del confine quindi “quasi latina”, ma italiana da quasi quaranta anni). La potente dinamica storica nella quale siamo capitati, impone una riflessione sull’aggregato che chiamiamo “Occidente”. Il termine è un relativo, c’è sempre qualcuno alla tua destra o sinistra stando su un meridiano della Terra, tutto sta a stabilire dove poni il tuo punto. Dalla fine dell’ultima guerra, l’unica potenza superstite vincitrice e per altro l’unico grande stato rimasto intatto, anzi cresciuto e potenziato, furono gli Stati Uniti d’America. Gli USA decisero allora di formare un blocco occidentale organizzato, il cui centro era posto in un punto imprecisato dell’Atlantico.

Sebbene oggi ai più paia naturale ed oggettiva questa partizione, sarà bene ricordare che nella prima parte del ‘900 ed ovviamente prima ancor di più, Occidente era limitato all’Europa centro-occidentale. Il resto era ritenuta una appendice anglofona dei britannici (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda) ed una appendice latina centro-sud americana, residuo del colonialismo iberico con una spruzzata di francese ed una goccia di olandese, più qualche migrante italiano.

L’Occidente recente, è stato un sistema a baricentro americano, ordinato dal principio economico, ordinato dal mercato ed ordinativo del politico espresso in un parlamento da un popolo di produttori-consumatori soggiacente una élite dotata di capitale. La vis bellica del sistema è stata delegata interamente a gli americani. Dalla fondazione nel 1776, gli USA hanno fatto guerre per il 93% del loro tempo storico, unica pausa: i cinque anni della Grande depressione. Ora, le guerre si fanno per procura, si proteggono gruppi armati salafiti, si vendono armi a gli amici, si impongono dazi, si combatte su tutte le trincee finanziarie, economiche, diplomatiche, energetiche, digitali, spaziali. Adattivamente, gli americani contemplano una variabile da lungo tempo espulsa dai principali sistemi di civiltà: la violenza.

La contemplano esternamente dove il militare traina il complesso produttivo secondo auspici e condizioni di possibilità creati dal politico. Il complesso militare-industriale individuato dal presidente uscente D. Einsenhower, un generale repubblicano e non certo un yippie pacifista, nel celebre discorso radio il giorno del suo commiato nel 1961, venne poi reso concetto dal sociologo C. Wright Mills e da allora usato in letteratura da molti. La velina originaria del discorso del presidente contiene la dicitura “complesso militare-industriale-congressuale” con l’ultimo termine barrato in correzione. Già ai tempi di Einsehower, il complesso volgeva le sue mire non più solo o tanto alla produzione materiale industriale. Da lì a poco infatti nasceva Arpanet, la rete militare da cui proviene Internet. Il mondo digitale-informatico nel quale alcuni di noi sono nati, non è nato spontaneamente, è stato il frutto voluto di intense ricerche e sviluppi governato dalla RAND Corporation (ARPA-DARPA) sin dai primi anni ‘60 e molte altre istituzioni pubblico-private americane irrorate da capitali pubblici nella fase di messa a punto e poi privati nella fese di sfruttamento commerciale. Quando ancora non c’era quasi niente di tutto ciò da quotare, gli americani -previdenti- lanciano il NASDAQ, era il 1971, l’anno del Nixon shock. Il computer è fisicamente figlio di questo impegno (con capitali della Marina Militare), tutti gli sforzi sull’Artificial Intelligence e Life, la bioingegneria, le nanotecnologie, che già nel 2002, convergono in un piano promosso dalla Natonal Science Foundation e Dipartimento al Commercio USA in quella che venne chiamata: “convergenza NANO – BIO – INFO – COGNO” ovvero quel misto di post-umanesimo tecno-distopico atto a sviluppare potenziamento post-umano per chi se lo può permettere con ampie ricadute commerciali e strutture per il ferreo controllo psico-comportamentale delle popolazioni.

Ma lo sviluppo del principio di violenza che fa degli americani di gran lunga maggiori investitori pubblici in armi al mondo al grido di “più Stato per il mercato!” (dati SIPRI ’19: USA hanno la stessa spesa militare della somma dei successivi 11 stati ovvero Cina. India, Russia, Saudi Arabia, Francia, Germania, UK, Japan, South Corea, Brasile ed Italia), tenuto conto che loro da soli sono il 4,5% della popolazione mondiale e gli altri 11 sono poco meno del 50%, ha ovviamente il suo lato interno, un primato indiscusso anch’esso.

Il II° emendamento alla loro Costituzione, sancisce il diritto inviolabile di libertà individuale di occuparsi della difesa personale, cioè portare armi, 40 milioni in più dei suoi abitanti, il 42% delle armi personali del mondo. La National Rifle Association è la potente lobby che finanziando con 30 milioni di dollari (il doppio di quanto NRA investiva di solito in finanziamenti al candidato repubblicano) la campagna 2016 di Trump e con altri 24 milioni US$ altri sei senatori repubblicani tutti eletti, promuove gli interessi del comparto. Di contro, poiché gli USA hanno col 4,4% della popolazione il 22% della popolazione carceraria del mondo, (in Europa c’è un settimo della popolazione carceraria americana per 100.000 abitanti), la domanda di difesa personale è alta.

Oltre alle armi, c’è un complesso sistema di supporto alla libera espressione della violenza, assistenti sociali che riempiono gli svantaggiati di pillole per la devastazione psichica, giudici ed avvocati, carceri pubbliche ma soprattutto carceri private, le quali sono “imprese” al cui interno si lavora con paghe da schiavi (ma “Arbeit”, si sa, “macht frei” e del resto quella tedesca è l’etnia maggioritaria in USA) e che secondo non pochi studiosi, fanno a loro volta “pressioni” su i giudici distrettuali per ottenere condannati senza i quali l’impresa deperisce. Infatti, sebbene i tassi di criminalità siano diminuiti di un po’ negli ultimi decenni, quelli di incarcerazione sono aumentati del 500%.

Col solo 13% di popolazione totale, i neri sono ben più del 50% della popolazione carceraria ed un terzo di ragazzi sotto i 20 anni neri, sono tra carcere o libertà vigilata. Molto è dovuto allo spaccio di droga pulita consumata dai giovani rampolli bianchi, mentre quella chimicamente sporca è di conforto ai giovani neri. La mano d’opera di riserva, nel caso, è ispanica. Il consumo di droga americano è anche il maggior contributo dell’economia alla sviluppo per il Sud America. I cartelli della droga poi tiranneggiano i politici locali così che l’élite politica locale sia debole e manipolabile dalle multinazionali americane che vanno a rapinare le risorse indigene. A massaggiare le opinioni pubbliche latine poi c’è l’esercito degli evangelici.

Gli americani sono anche di gran lunga i maggiori consumatori al mondo di antidepressivi, ansiolitici ed ipnotici con ricetta e non, hanno la più alta percentuale al mondo di malati mentali e rispetto a tutti paesi occidentali, sono di gran lunga quello che i più alti indici di diseguaglianza. Un terzo della popolazione nel paese in cui vivono il 41% dei più ricchi del pianeta, è povero, ma gli homeless non sono ammessi perché la sola loro vista produce un reato perseguibile penalmente: “reato contro la qualità della vita”.

Adesso dilettatevi a tifare contro o per Trump, Biden, Soros, Gates, Bezos, Zuckerberg, Bannon, questo o quel articolista che vi spiegherà cosa c’è sotto questo o quello, qualche economista che vi spiega come si rende felice la scienza triste, o quello che vi terrorizzerà col pericolo cinese, sputerà contro qualche istituzione internazionale e vi imbambolerà con qualche cazzata di giornata a cui abboccherete con la passione tipica dei colonizzati mentali, i pretoriani dell’Impero che non mancano mai nei paesi ridotti ormai a colonie di fatto, felici di esserlo. E non dimenticate di ribellarvi ad Immuni stando su facebook ed usando google, mi raccomando …

Ma noi europei, con questa gente, cosa abbiamo a che fare?

Le vere ragioni della morte di Abdelmalek Droukdal, di Bernard Lugan

Qui sotto la traduzione del notiziario di Bernard Lugan, il più puntuale analista francese della situazione sociopolitica del continente africano. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Abdelmalek Droukdal, il capo di Al-Quaïda in tutta l’Africa del Nord e la fascia sahéliana, da due decenni l’uomo più ricercato in Algeria, ha abbandonato il suo santuario di Kabylia con il suo Stato Maggiore per raggiungere il nord del Mali laddove l’armata francese lo ha abbattuto. E’ stato «neutralizzato» nella regione di Tessalit, in territorio touareg; un dato dalla importanza fondamentale.

Sorgono due domande:
1) Perché ha corso questo rischio?
2) Perché era diventato imbarazzante per gli algerini i quali non potevano non sapere del suo “spostamento”?

1) Per diverse settimane, i gruppi jihadisti dalle obbedienze diverse e dalle motivazioni disparate si sono combattuti nella BSS (Fascia Sahelo-Sahariana). Un conflitto aperta e scoppiato contemporaneamente tra l’EIGS (Stato islamico nel Grand Sahara), legato a Daesh e i gruppi che si richiamano al movimento di Al Qaeda, gli EIGS accusati dai primi di tradimento. Di fatto, i due principali leader etno-regionali della nebulosa di Al Qaeda, vale a dire il Touareg ifora Iyad Ag Ghali e il Peul Ahmadou Koufa, capo della Katiba Macina, stanno attualmente negoziando con Bamako.

2) L’Algeria è inquieta nel vedere Daesh avvicinarsi  alle sue frontiere. Or dunque, poiché considera il BSS come propria retrovia, l’Algeria ha sempre “patrocinato” un accordo di pace. Il suo uomo sul posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive in Algérie dove possiede una casa. Politicamente egli dispone di quattro referenze:
– Egli è touareg ifora;
– è musulmano «fondamentalista».
– Oltre al sostegno dei touareg, dispone di una base popolare a Bamako grazie alla fedeltà dell’imam Mahmoud Dicko.
– Soprattutto, è contrario alla dissoluzione del Mali, una assoluta priorità per l’Algeria, che non vuole un Azawad indipendente; rappresenterebbe un faro per i propri Touareg.
La negoziazione che procede al momento «discretamente» ha per scopo la regolazione di due conflitti differenti i quali, non ostante le apparenze e la versione popolare, non hanno una matrice islamica. Si tratta in effetti di conflitti iscritti nella notte dei tempi, come descritti da me nel libro Les Guerres du Sahel delle origini in nessun viaggio,  di risorgenze etno-storico-politiche-oggi mimetizzate dietro il paravento islamico.
Questi due conflitti, ciascuno dalla propria dinamica sono:
– Quello del Soum-Macina-Liptako, condotto dai Peul; da qui l’importanza di Ahmadou Koufa.
– Quello del nord Mali, l’attualizzazione della tradizionale contestazione dei touareg; da qui l’importanza dell’Iad di Agha.
Or dunque, Abdelmalek Droukdal era contrario a questi accordi, e aveva deciso o ancora era stato persuaso a recarsi nella zona, forse per ristabilire un modus vivendi con Daech. Mais, surtout, per riprendere in mano e imporre la propria autorità a sua volta a Ahmadou Koufa e a Iyad ag Ghali.
Rappresentava dunque l’ostacolo al piano di pace regionale tendente a isolare i gruppi di Daech, in modo da regolare  rispettivamente il problema touareg in Mali e il problema peul nel sud del Mali e nel nord del Burkina Faso. Ecco il perché della sua morte.

Lo stratagemma della “salsiccia” dei gruppi terroristi è perfettamente riuscito. Prova due cose:

1) L’Algeria è tornata nel conflitto.

2) I militari francesi che hanno condotto l’operazione si sono ispirati alla massima di Kipling secondo il quale “il lupo afghano è inseguito in Afghanistan dal levriero afghano”.

In altre parole, non cesso di dirlo dall’inizio del conflitto, una raffinata conoscenza delle popolazioni che è indispensabile

Se la strategia dovesse essere coronata da successo, con il ritorno al gioco politico dei Touareg uniti dalla guida di Iyad ag Ghali e  dei Peul, al seguito di Ahmadou Koufa,

si potranno concentrare tutti i mezzi  sull’EIGS, con uno scivolamento delle operazioni verso l’est del Niger e della BSS.

Il problema è ormai è di sapere se il Fezzan Libico sta sfuggendo al generale Haftar (voce del comunicato del 28 maggio 2020 ). Nel caso la Turquie, nostro «buono» e «leale» alleato in seno alla NATO, avrebbe dunque un corridoio che consentirebbe ai propri servizi una linea diretta per sostenere i combattenti dell’EIGS. L’imperativo sarà quindi di riprendere il controllo fisico della regione di Madama, in modo da impedire la rianimazione del terrorismo attraverso la Libia.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

Attenti a quei due, di Giuseppe Germinario

La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!

Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo. L’urgenza espressa dal nostro paese rientra nell’ordine dei mesi colti dalle dita di una mano o poco più. La crisi di liquidità delle imprese, l’interruzione istantanea della rete di relazioni economiche in un contesto in cui la fluidità dei circuiti era già compromessa dagli sconvolgimenti geopolitici e dalle innovazioni tecnologiche stanno compromettendo l’esistenza di un numero enorme di aziende non necessariamente decotte. Il tempo richiesto dall’impegno finanziario del “recovery fund”, del “sure”, dei finanziamenti della BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l’eccezione non casuale del MES, rientra nell’ordine degli anni (sei) con elargizioni per di più rateizzate e legate al rispetto e verifica dei protocolli. Un criterio quest’ultimo, per altro, particolarmente virtuoso nelle procedure rispetto a quelle di concessione ed esecuzione dei lavori adottate dalle amministrazioni pubbliche italiane così come illustrate in particolare a suo tempo da Fabrizio Barca.

Lo è anche per i centri decisionali europei di quei paesi che detengono il pallino della definizione e del controllo dei meccanismi europei. Il fattore tempo è uno strumento fondamentale nel confronto geopolitico e geoeconomico, nella ridefinizione quindi delle gerarchie e delle posizioni. Lo è anche per un altro motivo, probabilmente ancora più importante. La sopravvivenza della Unione Europea nella sua attuale conformazione e progressione dipende in gran parte dall’esito del confronto politico negli Stati Uniti con i suoi riverberi in Europa; in subordine dall’acceso confronto politico interno agli stessi paesi motori del processo di integrazione, Francia e Germania.

Agli occhi dei critici più o meno istituzionali assume per la verità importanza sostanziale un altra caratteristica dell’intervento europeo: la grave insufficienza degli stanziamenti rispetto alle necessità, solo in parte mitigata dagli interventi provvidenziali ma circoscritti sulla liquidità corrente della BCE.

Sarebbero due ambiti di critica realmente dirimenti se fossero fondati i presupposti sui quali poggiano. Che la finalità dell’Unione Europea sia quella di garantire la coesione e lo sviluppo equilibrato delle economie e delle regioni in un ambito di cosiddetto libero mercato; che gli strumenti normativi, procedurali ed amministrativi di cui dispone la UE siano idonei al perseguimento di quegli obbiettivi.

La finalità ultima e dirimente della UE è in realtà il processo di integrazione all’interno del quale si predeterminano gerarchie, controlli e controllori sulla base di scontri, confronti, occupazione ed infiltrazione nei posti di comando che vedono regolarmente gli stessi deus ex-machina, attori principali e comparse. Le compensazioni previste sono solo una forma di redistribuzione parziale che non intaccano minimamente le dinamiche. Le rendono in realtà più tollerabili ed agevolano la fluidità del circuito domanda/offerta del mercato; le istituzionalizzano e le perpetuano con l’indebitamento.

Gli strumenti, compresi i fondi strutturali, sono stati tutti indistintamente costruiti in funzione di quella dinamica principale.

Il duo Merkel-Macron, da comprimari quali sono, a differenza di gran parte della nostra classe dirigente e del nostro ceto politico che le ignora o finge di ignorale, conoscono benissimo questa narrazione e le susseguenti implicazioni.

Sanno benissimo che passano attraverso un indebolimento progressivo delle prerogative e delle capacità di controllo e di intervento degli stati nazionali di cui sono essi stessi vittime rispetto agli altri attori geoeconomicopolitici; ma in misura molto minore, è questo infatti il loro ambito di azione prioritario, rispetto ad altri quali la Spagna e l’Italia. Di fatto l’UE agisce strutturalmente per garantire la libera circolazione finanziaria e per impedire la formazione di grandi imprese paragonabili in dimensioni e qualità a quelle americane ed ora cinesi, specie nei settori strategici dell’alta tecnologia e della difesa. I pochissimi settori nei quali Francia e Germania si sono ritagliati uno spazio, come nell’aereonautica (Consorzio AIRBUS), lo hanno acquisito a dispetto della UE e ora rischiano di perderlo grazie al mercimonio dei tedeschi i quali, forti della loro supposta “integrità morale”, dopo aver acquisito il controllo di una tecnologia francese a loro estranea, hanno recentemente cercato si svenderla agli americani in cambio di un loro benestare nell’acquisizione nel campo della chimica. Acquisizioni in cui sono compresi fardelli legali e risarcitori talmente pesanti da rivelarsi fatali per il colosso tedesco della Bayer. Il riferimento è alla ex-americana Monsanto. Altri, come il progetto Galileo, hanno goduto di un sostegno europeo parziale ma con pesanti limitazioni legate all’uso esclusivamente civile di una tecnologia di fatto superiore a quella americana. La conferma ulteriore di come i vincoli politici dai quali è legata la costruzione europea determinano le dinamiche e le scelte economiche.

Se il duo ha tanto insistito nel loro discorso sul carattere a fondo perduto di buona parte del “recovery fund”e sul “sure” e sull’interlocuzione diretta della UE con i beneficiari e le regioni, ma glissando elegantemente sulle necessarie garanzie pubbliche, è perché conoscono benissimo la frammentazione del panorama politico, lo scarso attaccamento alla nazione e allo stato nazionale di buona parte dello zoccolo duro dell’elettorato leghista e la propensione assistenzialista della componente grillina e progressista. Come le sirene con Ulisse, il loro di fatto è un richiamo alle origini di una Lega, possibilmente dimentica delle sue ambizioni di partito nazionale e nuovamente attratta dalle suggestioni di un polo eurobavarese, proprio nel momento in cui tra l’altro questo avrebbe meno da offrire.

Non è un caso altresì che il duo, accompagnato dieci giorni dopo dalla loro ventriloqua, abbia insistito sull’uso del canale dei fondi strutturali nella gestione del fondo. Non ostante l’ampia letteratura a disposizione, in Italia non riesce ad insinuarsi nemmeno il sospetto che quei fondi possano costituire il principale veicolo dell’integrazione, piuttosto che della coesione. Potenzialmente un veicolo di ulteriore esposizione alle dinamiche di squilibrio e di dipendenza delle zone depresse o a sviluppo intermedio rispetto ai centri politicoeconomici. Con il criterio del cofinanziamento vincolano, se non tutti, almeno la gran parte dei fondi statali al rispetto dei criteri europeistici, di quelle regole di concorrenza che impediscono il sorgere, con il necessario sostegno e la copertura pubblica in qualche maniera protezionistica, di realtà imprenditoriali autoctone. Una dinamica tanto più consolidata quanto meno sono disponibili risorse nazionali aggiuntive ed autonome per gli investimenti, quanto meno è presente l’ambizione a scelte autonome di una classe dirigente. Una ulteriore spinta al regionalismo, vecchio cavallo di battaglia della UE e di tante forze politiche non farebbe che accentuare tale predisposizione. È una tendenza fattiva che ha trovato tanto spazio e compromesso, nelle modalità di esercizio, paesi come l’Italia e la Spagna con i risultati ormai evidenti, ha intaccato la solidità della Francia, ha assunto una maschera simile ad una finzione nei paesi dell’Europa Orientale, indossata con il solo scopo di poter accedere ai fondi europei. La lezione degli anni ‘90 che ha portato, contestualmente al trasferimento all’Europa Orientale di gran parte dei fondi europei, allo smantellamento repentino in Italia delle agenzie nazionali e di tutto il relativo apparato tecnico-amministrativo in grado di progettare opere strategiche e processi di industrializzazione, nonché del sistema di incentivi non è stata appresa, pur considerando le grandi pecche di quel sistema. Solo la Germania è sembrata immune dalle conseguente di tali scelte, ma solo perché, risorta sotto impulso americano con una impronta federalista, esentata in quanto paese occupato da scelte di politica estera dirimenti e perché in possesso di una rete associativa e corporativa, direttamente coinvolta nelle scelte, tale da garantire sufficiente omogeneità politica tra i laender della federazione; soprattutto perché, grazie al suo progressivo e certosino controllo diretto ed indiretto delle leve politiche e burocratiche della UE, in questo ben avvallato dalla paterna accondiscendenza degli USA sino ad un paio di anni fa, ha saputo prepararsi e predeterminare gli indirizzi e la gestione di essa.

È arrivato il momento di chiarire un altro aspetto della natura particolare dell’azione delle strutture della UE in funzione dei due interventi oggetto di attenzione. Si parla costantemente di leggi e giurisprudenza europea. La produzione della Commissione Europea è fatta in realtà di norme frutto di trattative e pressioni degli Stati Nazionali ed espressione della immane attività lobbistica di aziende ed associazioni accettata e riconosciuta dagli organismi comunitari senza nemmeno i bilanciamenti che l’analoga legislazione americana, alla quale si è ispirata, ha creato a tutela dei cittadini e delle decisioni politiche; suscettibile quindi delle più svariate pressioni, interpretazioni e modifiche. Una dinamica che penalizza fortemente gli attori del panorama economico italiano. Che la UE non goda di uno statuto internazionale particolare è dimostrato dal fatto che organizzazioni internazionali come l’OMC non la riconoscano. Due aspetti che mettono all’angolo una volta per tutto il lirismo europeista della nostra classe dirigente utile a nascondere la propria assenza di protagonismo ed autorevolezza e il proprio fallimento; l’assenza di sagacia nelle continue contrattazioni in sede europea.

Alla luce di quanto detto le due novità più importanti degli interventi del duo e del commissario europeo assumono una luce particolare. La prima è che, almeno nelle intenzioni, la Unione Europea potrà diventare soggetto di imposta e quindi esattore diretto. La seconda è che comincia a farsi strada il concetto di tutela ed autonomia della produzione industriale. Due tabù cominciano ad essere messi in discussione. Il primo è l’acquisizione di una prima prerogativa statuale della UE, la riscossione delle tasse. Saremmo ben lontani dall’acquisizione della massa critica di risorse, stimata in un 20% del PIL, tale da dare corpo alla prerogativa; ma è un principio che comincia ad insinuarsi. La seconda appare una messa in discussione della verità assoluta del dogma del libero mercato. In quanto dogma, ben lungi ed impossibile da essere praticato coerentemente nell’azione quotidiana, quando si tratta in effetti di tradurlo in norme, comportamenti e sanzioni. Ma un’arma comunque necessaria da brandire alla bisogna in mano al censore investito e abilitato. Apparentemente parrebbe finalmente un sussulto di ambizione verso i potenti del globo. Non bisogna dimenticare però che uno dei protagonisti, Macron, è stato il cofautore della crisi del complesso nucleare francese, della cessione del settore delle turbine alla americana GE, strategico nel settore navale e nucleare, della produzione dei treni alla Siemens e di pericolosi tentennamenti nella vicenda AIRBUS. La seconda appare come la paladina di un primato industriale su prodotti maturi disposta a mantenere questa posizione sacrificando settori strategici altrui. Di una esposizione rischiosissima ai venti speculativi della finanza. Per non parlare della permeabilità esterna del proprio apparato istituzionale. Una coppia quindi molto poco credibile. Tanto più che l’obbiettivo strategico dell’economia verde può risolversi tranquillamente in un paravento per nascondere la residualità e la subordinazione nelle scelte strategiche, quello più corposo del 5G allo stato appare del tutto velleitario.

Allo stato l’iniziativa potrebbe assumere due significati non necessariamente alternativi.

Il primo potrebbe essere quello di gettare il cuore oltre l’ostacolo visto l’incalzare degli avversari interni ed esterni al progetto europeo e i punti fermi ormai stabiliti dalla Corte Federale tedesca che inibiscono ulteriori traccheggiamenti. Il secondo è che il vero obbiettivo è un riassetto definitivo degli equilibri interni che prevedono l’annichilimento definitivo di alcuni stati europei, l’Italia in primis; la definizione della Francia come partner politico-economico sostitutivo dell’Italia, come fornitore quindi dell’indotto, vista la crisi della sua grande industria. Un progetto però ancora tutto da definire e da costruire con parecchi terzi incomodi all’interno, soprattutto tra i paesi dell’Europa Orientale, legati del tutto strumentalmente ed opportunisticamente alla costruzione europea e molto più sensibili politicamente alle sirene americane; con numerosi e particolarmente influenti osservatori esterni, in primis gli Stati Uniti. I due potrebbero coltivare l’illusione, con la sconfitta di Trump, ad un ritorno al passato. Speranza mal riposta. Con il direttore d’orchestra che comincia a perdere colpi, il loro appare certamente un progetto foriero di conflitti distruttivi nel continenti piuttosto che un sussulto capace di costruire un nucleo politico di paesi europei in grado di partecipare attivamente alle dinamiche geopolitiche. Più che un oggetto di contesa, il nostro paese, con la sua attuale classe dirigente, appare in proposito, in questo contesto, una pallina da ping pong sballottata a piacimento senza alcuna considerazione. Dal punto di vista storico, in Europa ogni tentativo interno di posizione egemonica o di dominio continentale diretto si è risolto in catastrofi foriere di nuovi equilibri sempre precari. Non è detto che la storia si ripeta pedissequamente, ma gli ingredienti per una nuova disfatta si intravedono tutti.

https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/05/18/initiative-franco-allemande-pour-la-relance-europeenne-face-a-la-crise-du-coronavirus

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/about_the_european_commission/eu_budget/2020.2139_it_04.pdf

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it#documents

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

CONFUSIONE ORGANIZZATA, di Pierluigi Fagan

CONFUSIONE ORGANIZZATA. Il mondo occidentale è da tempo in un difficile ed epocale transizione. Il modo occidentale di stare al mondo creato in Europa lungo i precedenti cinque secoli, il modo moderno, non dà più garanzie di fornire adattamento ai tempi che vengono. Si può leggere la difficoltà obiettiva di questa fase storica per il soggetto occidentale, almeno da cinquanta anni. La fase in corso vede un sistema già molto disordinato, colpito da una causa disordinante nuova, un virus con alta replicazione, medio effetto sanitario, bassa mortalità.

Il mondo occidentale è un sistema che gravita intorno a gli Stati Uniti d’America. Ma gli USA sono condannati a pagare il prezzo più alto della transizione storica. Gli USA sono il 4,5% della popolazione mondiale, avevano circa il 50% del pil mondiale ai primi anni ’50, oggi ne hanno la metà, nei prossimi decenni ne avranno la metà della metà. Rimane comunque una bella cifra visto il rapporto con la popolazione e visto che se la percentuale diminuisce, ciò su cui si applica aumenta. Tant’è che a livello di pil procapite, se un italiano ha in teoria 41.000 euro anno, un francese 48.000, un tedesco 55.000, un americano avrebbe ben 67.000 dollari procapite teorici. Ma non li ha, perché il sistema di ridistribuzione interno della ricchezza nazionale è particolarmente ineguale.

In America c’è un indice di diseguaglianza che è il doppio della Francia ed il triplo della Germania, cioè danno troppo a pochi e troppo poco a molti. Sono convinti sia giusto così perché la società deve premiare ad incentivi (quindi anche più dell’obiettivo valore) chi traina lo sviluppo economico, gli altri vengono trascinati. Quando il totale della torta era molto ampio, questo sistema sbilanciato permetteva comunque di avere il 10% meno ricco sopra la linea della minima decenza. Quando il totale si è andato contraendo, il 10% meno ricco è andato sotto, anche più del 10%. Nel tempo sarà molto più del 10% che andrà sotto se non si cambia il sistema di ridistribuzione, ma pare che nessuno abbia in agenda questa ristrutturazione che prima che fiscale è culturale. Quindi rimane solo la possibilità di gestire la tensione sociale da una parte e lottare sempre più furiosamente per mantenere alta la propria percentuale di pil del mondo, il che porta a vari tipi di tensioni per dominarlo ed impedire che altri concorrenti emergano.

Negli ultimi tempi, è arrivato il virus. Il presidente americano ha capito subito i danni che il virus avrebbe fatto non tanto o solo dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista economico. Tant’è che non ha fatto assolutamente nulla per tempo, pur sapendo perfettamente cosa stava succedendo. I suoi strateghi di comunicazione, hanno sviluppato una strategia di confusione organizzata ben precisa. Ogni giorno, qui su facebook, qualche ingenuo pubblica articoli, video, filippiche negazioniste, rivelazioni sconcertanti, movimenti contro le mascherine, dubbi statistici e sanitari, insight conto l’OMS, Bill Gates, Rothschild ed altri “illuminati” che tramano per farci loro schiavi biopolitici. Il virus non c’è, se c’è non è così grave, se è grave è colpa dei cinesi, comunque è meno grave della crisi economica che porterà, meno grave della perdita della libertà, comunque poi arriva qualche vaccino, forse. C’è una marea montante di agenti confusionari sul fronte informativo, di agitatori politici su quello sociale, tutti tesi a “gestire” il problema. Si sarebbe potuta investire la stessa energia dal punto di vista epidemiologico o sanitario, ma sarebbe stato ammettere che in effetti c’era il virus, il che avrebbe fatto sì che effettivamente il virus, modificando i comportamenti individuali, avrebbe depresso oltre il gestibile l’economia già duramente colpita.

Il virus pare colpisca la popolazione afroamericana col doppio di incidenza delle altre etnie, ma nessuno sa perché. Certo, ci possono esser ragioni sociali ma non è detto poiché altre etnie come gli ispanici sono socialmente deprivati eppure hanno incidenze molto più lievi. Sta di fatto che dal punto di vista sanitario è così e certo la strategia negazionista del governo, acuisce il senso di paura ed ingiustizia. Poi si sommano gli effetti sociali, diversi punti percentuali di disoccupazione per gli afroamericani in più rispetto ai bianchi i quali però, per la prima volta da decenni, si trovano anch’essi in relativa massa esposti alla disperazione sociale. Il morto di Minneapolis, diventa la scintilla che appicca l’incendio sociale. Come per le epidemie, come per gli incendi, intervenendo subito si soffoca il fenomeno sul nascere, ma perché soffocarlo e non invece alimentarlo?

Ecco allora comparire assaltatori di negozi ed istituzioni, qualche sparo, qualche morto, distruzione della proprietà che in America è peggio che stuprare la figlia del vicino, il Presidente che twitta minacciando cani che sbranano i manifestanti, forse a breve (ma non tanto breve, “the show must go on” almeno finché frutta sempre maggiore richiesta popolare di ordine e di disciplina) l’esercito. E visto che organizzare attriti e confusioni è ritenuto buono per manipolare gli andamenti sociali, scatta anche la guerra ai social.

Nel frattempo, dopo la fiammata di accuse sull’origine manipolata o forse solo distratta del virus da parte cinese, tra nuovi dazi e sanzioni, sponde verso Taiwan, manipolazione dei moti di Hong Kong, pronunciamenti del congresso in favore degli Uiguri, guardando con occhio interessato e chissà se solo con l’occhio alle tensioni tra Cina ed India, guerriglia sul 5G e pressioni su Israele che fa affari con Pechino, si combatte la battaglia fondamentale: rallentare la rincorsa cinese. E’ la rincorsa cinese infatti, la forza che spinge a restringere ulteriormente il peso del pil americano sul totale mondo, direttamente ed indirettamente.

Poiché Merkel l’altro giorni gli ha detto in una litigata la telefono che lei non sarebbe andata al G7 pianificato a giugno, Trump lo sposta a settembre ma invitando i russi (e questo già si sapeva) ma anche australiani, coreani del sud ed indiani ovvero la nuova cintura di contenimento anti-cinese. Tanto non si farà neanche a settembre, a due mesi dal voto chi si espone senza saper nulla del dopo?

Virus, crollo economico, social, Cina e chissà cos’altro da qui a novembre quando si voterà per la presidenza. Tutto il mondo e quello occidentale in particolare, è invitato, obbligato a scegliere modalità referendum, tra “o con noi o contro di noi” ed internamente “o con me o contro di me”. Anarchici assaltatori della proprietà privata e marmaglia nera evocati sul piano interno, cinesi infidi ed illiberali su quello esterno, una vaga e confusa nuvola di scienziati al soldo di Big Pharma (il secondo maggior contributore elettorale di Trump), Bill Gates, microchip sottocutanei, social media, Rothschild, onde del 5G (se il 5G fosse americano sarebbe salutare, ovvio, come lo sono le onde elettromagnetica del wi-fi o delle reti mobili tradizionali che ovviamente non lo sono affatto), Rockfeller, socialisti, globalisti, WHO, non c’è più destra né sinistra ma solo popolo verso élite (purché siano vaghe, lontane, imprecisate e soprattutto non quelle che governano l’America) per tutti i confusi del quadrante occidentale.

Mancano poco più di cinque mesi alle elezioni ed andrà sempre peggio, statene certi. Dispiace perder tempo a scrivere queste banalità, ma vedo che per molti non sono banalità. Soprattutto per qual vasto gruppo di brancolanti nel buio che si è arruolato spontaneamente a difendere il paladino del popolo ed i suoi centri di potere al centro della lotta per il potere imperiale. I tanti “servi volontari” che si sommano a fascistelli e conservatori di varia foggia, che palpitano accorati nella difesa dei valori occidentali più fondanti: perpetuare il potere dei Pochi su i Molti.

[Ho preso questa simpatica “mappa del delirio” da un post sulla pagina del >movimento arancione del Gen. Pappalardo (che fa già ridere così)<, un altro movimento organizzato perché la confusione non è mai troppa di questi tempi].

tratto da facebook

Libia: fine del gioco per il maresciallo Haftar?, di Bernard Lugan

Il maresciallo Haftar non è riuscito a prendere Tripoli, nonostante i suoi annunci di vittoria e il massiccio aiuto ricevuto dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti. Nelle ultime settimane ha anche subito gravi battute d’arresto militari, perdendo la posizione strategica di Gharyan e la base aerea di Watiya in Tripolitania.

Ecco i quattro motivi di questo scacco:

1) Il maresciallo Haftar non ha fanteria, i suoi unici veri combattenti sul campo sono mercenari, principalmente sudanesi, supportati da contractors russi di basso valore militare. Questi ultimi si sono appena ritirati dal fronte di Tripoli dopo aver subito gravi perdite al cospetto delle forze speciali turche.

2) Le milizie di Zintan di cui sperava il supporto si sono schierati alla fine con i turchi-tripolitani.

3) L’intervento militare della Turchia ha rovesciato l’equilibrio di potere a favore del GNA (Governo dell’Unione Nazionale) di Tripoli.

4) La Russia, che non ha mai ingaggiato il suo esercito, ritiene che Haftar non sia più l’uomo giusto alla attuale situazione.

 

Pertanto sorgono quattro domande:

–  Qual è la linea rossa tracciata dalla Russia alla Turchia?

– Chi succederà al maresciallo Haftar a Bengasi?

– Quale soluzione politica è possibile?

– Quali conseguenze per il presidente Déby i cui oppositori sono installati a Fezzan?

 

1) Dov’è tracciata la linea rossa dalla Russia?

Dopo aver sostenuto il maresciallo Haftar, Mosca si è resa conto che costui non era in grado di prendere il potere a Tripoli. I russi sanno anche che il maresciallo è odiato in Tripolitania, dove coloro che hanno rovesciato il regime del colonnello Gheddafi lo considerano, giustamente o erroneamente, come suo successore. Questo è il motivo per cui sembrano averlo abbandonato, ma fissando una linea rossa alla Turchia. Dove è tracciata? Ecco tutta la questione

Per Mosca, la priorità è congelare la situazione sul terreno, in attesa di trovare un successore del maresciallo Haftar, che implica un’evoluzione nelle posizioni dell’Egitto e in particolare degli Emirati Arabi Uniti i quali sostengono ancora quest’ultimo. Militarmente, e da quello che è possibile sapere, Mosca avrebbe deciso di santuarizzare il fronte a ovest di Sirte.

In questo contesto, l’annuncio americano dell’invio di aerei russi ultra moderni al generale Haftar è una disinformazione perché, per quanto ne sappiamo, questi aerei “moderni” sono in realtà quattro dispositivi di seconda mano che, in ogni caso, non modificheranno l’equilibrio delle forze sul terreno.

2) Chi succede al maresciallo Haftar?

Diversi nomi sono in predicato. Tra questi, i “candidati” più autorevoli sembrano essere:

– Il generale Abderrazak Nadhouri, l’attuale capo dello staff, la cui stella è però offuscata dalle sconfitte subite in Tripolitania contro le forze turco-misuratine.

– Il Generale Ahmed Aoun, della tribù Ferjan nella regione di Sirte. Se questo ex generale di Muammar Gheddafi, popolare nell’esercito del maresciallo Haftar, fosse naturalmente in grado di radunare i kadhafisti della Tripolitania, quale sarebbe la reazione di coloro che rovesciarono il vecchio regime, in particolare il potente Zintani ?

– Si dice che Aguila Salah, il presidente della Camera dei rappresentanti che siede a Tobrouk sia il puledro dell’Egitto. L’uomo si è opposto al maresciallo Haftar da quando, consapevole del punto morto militare in cui si era cacciato, aveva proposto un piano per porre fine alla crisi attorno alla riforma di un consiglio presidenziale tripartito su base regionale ( Tripolitania, Cirenaica e Fezzan).

3) Soluzioni politiche

La domanda è semplicemente affermata:

– Con la Turchia impegnata militarmente a fianco del GNA, il generale Haftar non prenderà Tripoli.

– Con la Russia che santifica la Cirenaica, il GNA non prevarrà a Bengasi.

Conclusione: la negoziazione può quindi riprendere. Ma su basi diverse da quelle irrealistiche, perché solo elettorali, poste dalla “comunità internazionale”.

In tal modo :

1) Alla conferenza di Berlino dello scorso gennaio, la divisione del potere era stata quasi stabilita, il comando dell’esercito tornato in Cirenaica e la presidenza in Tripolitania. Tuttavia, i negoziati si erano fermati sul posto da assegnare al generale Haftar che, spinto dagli Emirati, aveva adottato una posizione massimalista che aveva interdetto la Russia.

2) Fayez el Sarraj, il capo del GNA (governo dell’Unione nazionale) con sede a Tripoli potrebbe dimettersi. Chi lo potrebbe sostituire allora? Misrati Fahti Bachaga essendo unanime con tutti coloro che temono il dominio della città-stato di Misrata sulla Tripolitania, un’opzione più consensuale sarebbe quella di Zentani Oussama Jouli. Soprattutto dal momento che quest’ultimo ha radunato nella sua persona la frazione di Zintani fino ad allora alleata con il generale Haftar, ma che ha permesso alle forze turche-GNA di riprendere la base aerea di Watiya il 12 maggio. È importante notare che, durante la guerra contro il colonnello Gheddafi, le forze speciali francesi avevano appoggiato le truppe di Osama Jouli.

Ci saremmo così spostati, in un certo senso, verso un ampio federalismo. Resta da risolvere la questione della condivisione del petrolio che, tenendo conto delle posizioni geografiche dei depositi, faciliterebbe la ricerca di un equilibrio territoriale.

4) Conseguenze per il Ciad

Con le forze di Misrata-GNA-Turchia che attualmente hanno acquisito un vantaggio, probabilmente le tribù fezzane si uniranno a loro. Se così fosse, le conseguenze regionali sarebbero quindi significative perché la Turchia, che già sostiene i gruppi terroristici armati nel BSS, sarebbe quindi direttamente in contatto con l’area, costringendo così Barkane a riposizionarsi a Madama.

In realtà, il generale Haftar non ha mai veramente controllato il Fezzan, il suo unico supporto quasi affidabile è che ci sono alcune tribù arabe i cui capi vengono comprati. Per il resto, i Toubou che odiano gli arabi vendono al miglior offerente e, come per i tuareg, si sporgono verso Tripoli.

Tuttavia, questo Fezzan in cui le tribù definiscono le loro alleanze in base all’equilibrio di potere a Tripoli e Bengasi, è la retrovia degli avversari del presidente Déby. Per la cronaca, nel 2019, la loro ultima offensiva, che stava per raggiungere N’Djamena, è stata bloccata solo dall’intervento dell’aviazione francese.

Tra questi oppositori, quello che sembra essere attualmente il più militarmente pericoloso per il presidente Déby è il Toubou-Gorane Mahamat Mahdi Ali che è a capo del FACT (Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad). Quest’ultimo che afferma di avere 4000 combattenti, sa di poter contare sul bacino etnico che si estende sulle regioni di Borkou, Ennedi e Kanem. Per il momento, le sue forze sono di stanza nella Libia centrale, a circa sessanta chilometri da Jufra, nella regione di Jebel Sawad (Fonte: Fezzan Consultation ). Il crollo del generale Haftar avrebbe quindi aperto Mahamat Mahdi Ali, una “finestra di fuoco” che non avrebbe mancato di sfruttare.

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Iran, Cina e Russia: alleati ad hoc?, di Michel Nazet

I media occidentali sono stati ossessionati dalle posizioni anti-occidentali dell’Iran sin dalla Rivoluzione islamica del 1979 e dal suo presunto desiderio di acquisire armi nucleari. Le relazioni dell’Iran con la Russia, come con la Cina, sono quindi un po ‘il volto nascosto della politica estera iraniana e ne sono state completamente nascoste, fino ai piani per la (ri) costituzione dell’Eurasia per la Russia e la Terra Via della seta per la Cina.

 

I legami con la Cina sono attestati dai rapporti tra i Parti e i Cinesi, quindi dall’esistenza della via della seta che attraversava, dal II E  secolo prima di J. – C., tutto il nord della Persia, ed era un vettore di scambi di tutti i tipi. La Persia, la Cina e gran parte della Russia furono persino brevemente unificate dai mongoli tra il 1227 e il 1259, prima che il loro impero si spezzasse.

Quindi le relazioni con la Cina furono ridotte. Con la Russia, sono diventati sempre più difficili, la rimozione di Mosca a Persia numerosi territori nel XIX °  secolo (vedi mappa a pagina 47). Nel 1920, i comunisti incoraggiarono la creazione di una repubblica effimera di Gilan nel nord del paese; nel 1945 e nel 1946, Stalin cerca ancora di strappare l’Azerbaigian e il Kurdistan dalla Persia all’Iran. Queste minacce portano l’Iran a rivolgersi all’Alleanza occidentale e aderire al Patto di Baghdad.

L’Iran è alla ricerca di nuovi partner

La logica geopolitica contemporanea degli ultimi decenni ha avvicinato l’Iran alla Russia e alla Cina. Rompendo con gli Stati Uniti, sentendosi minacciato dall’accerchiamento delle potenze sunnite, molte delle quali sono ostili nei suoi confronti, traumatizzati dal suo isolamento durante la guerra con l’Iraq, Teheran adotta una politica estera “anti-egemonica”, neutralista e terzo mondo.

Pertanto, l’Iran si oppone principalmente agli Stati Uniti, influenti nel Golfo Persico, che si oppongono all’adesione al rango di potere internazionale dell’Iran.

Inoltre, ha sentito parlare a nome dei paesi del Sud, rifiutando il Washington Consensus (1) e facendo una campagna per un pianeta multipolare. Questo impegno si riflette in una posizione eminente all’interno del movimento non allineato, di cui Teheran è diventato il quartier generale dal 2012 e di cui Hassan Rohani è l’attuale segretario generale.

Queste posizioni hanno portato l’Iran ad avvicinarsi al suo vicino russo e alla Cina, che sono anche parte di una sfida all’attuale ordine mondiale e di una sfida a un egemonismo americano percepito come dinamico e minaccioso …

Verso un “nuovo impero mongolo”?

Di conseguenza, le relazioni tra i tre stati si sono intensificate solo a causa di molti interessi comuni (sensazione di essere circondati dagli Stati Uniti, lotta contro il terrorismo di ispirazione jihadista e traffico di droga in generale ed eroina in particolare).

L’Iran è quindi diventato, negli ultimi anni, un partner privilegiato della Russia, nell’ambito di un partenariato di cooperazione militare del 2001 rafforzato all’inizio del 2015, per gli acquisti di armi (quindi i missili antiaerei avanzati S-300 tra cui Mosca ha appena sbloccato la consegna), l’energia nucleare civile (costruzione della centrale di Bouchehr ), il settore del gas. Più recentemente, a marzo 2015, a seguito dell’embargo russo sui prodotti agricoli europei, l’Iran e la Russia hanno firmato un importante contratto che promuove le esportazioni iraniane di prodotti della pesca e dei prodotti lattiero-caseari, nonché i trasferimenti finanziari.

Allo stesso tempo, le relazioni economiche tra Iran e Cina si sono sviluppate fortemente dal 2004. Nonostante le pressioni, Pechino non applica le sanzioni imposte dalle Nazioni Unite. La Cina è quindi diventata dall’inizio del decennio il primo partner economico dell’Iran (l’Unione Europea, da tempo in prima fila, essendo caduta al quarto posto); importa principalmente idrocarburi (50% di petrolio iraniano esportato) e prodotti petrolchimici. Il commercio, che ha raggiunto i 30 miliardi di dollari nel 2010, ora supera i 40 miliardi con l’obiettivo di 100 miliardi all’anno.

 

Allo stesso modo, mentre l’Iran ha posizioni molto vicine a quelle formulate dai BRICS e vi è collusione da parte degli organi di stampa iraniani, russi e cinesi, questo paese è diventato un osservatore presso la Shanghai Cooperation Organization ( dove Pechino e Mosca siedono già) nel 2005 e potrebbero diventare membri a pieno titolo al vertice di Ufa a luglio 2015. Infine, recentemente, il 3 aprile 2015, l’Iran ha aderito come membro fondatore dell’iniziativa bancaria cinese Asian Investment Bank , la Asian Infrastructure Investment Bank , alla quale gli Stati Uniti e il Giappone hanno rifiutato di aderire …

Sembra quindi prendere forma un asse Mosca-Teheran-Pechino che Thomas Flichy di La Neuville ha descritto come “il  nuovo impero mongolo (2)” e che Zbigniew Brzezinski aveva previsto dagli anni ’90.

Un’entità improbabile …

I tre paesi, plasmati da un acuto sentimento nazionale, sono lungi dall’avere dimensioni geografiche e umane comparabili. Sentono anche il bisogno assoluto di aprirsi agli Stati occidentali che rappresentano una domanda di solventi e sono fornitori di capitale e tecnologia … La loro capacità di opporsi all’egemonia è quindi limitata e irregolare.

Hanno anche interessi che possono rivelarsi divergenti. Ognuno aspira, sulla scala del continente asiatico, un luogo strategico che, se geograficamente complementare, compete anche con quello dei suoi due partner. Questa divergenza di interessi può quindi alimentare solo ulteriori motivi e sospetti, concretizzati dalle posizioni ambivalenti di Cina e Russia, ieri durante il conflitto iracheno-iraniano, oggi sull’energia nucleare iraniana. La Russia, in particolare, può sinceramente desiderare che Teheran acquisisca armi atomiche? D’altra parte, le controversie del passato hanno perso parte del loro significato poiché i due paesi non hanno più un confine terrestre dalla rottura dell’URSS. Né esiste, per il momento, una lotta per l’influenza in Asia centrale, anche nel Tagikistan della cultura iraniana. Qui la rivalità riguarda Mosca e Pechino.

 

Infine, questi paesi hanno poco in comune culturalmente e ideologicamente. I loro sistemi sociali non hanno nulla di paragonabile.

Tutto sommato, l’Iran, la Cina e la Russia condividono indubbiamente una visione divergente del mondo da quella trasmessa dall’Occidente, mentre la loro vicinanza geografica autorizza l’implementazione di complementarità economiche e collusione strategica. Ma hanno particolarità irriducibili che, se non ostacolano un inevitabile riavvicinamento, impediscono loro di essere troppo fuse. L’Iran ha quindi il suo progetto geopolitico per diventare una potenza regionale la cui influenza si estenderebbe sia al Medio Oriente che all’Asia centrale al fine di cessare di essere “una potenza limitata”. A medio termine, questo progetto prevede migliori relazioni con l’Occidente e anche con la Turchia, la chiave per il mondo di lingua turca.

Anche se la sua realizzazione, un vasto programma, richiederà non solo una normalizzazione del potere iraniano, ma anche una pacificazione regionale attualmente fuori portata, la straordinaria diplomazia iraniana, che si dice non sia mai buona come quando opera sul precipizio, tra cui lavoro…

 

  1. I principi delle politiche liberali incoraggiate dal FMI sono così chiamati: deregolamentazione, privatizzazioni, apertura, rigore di bilancio, ecc.
  2. Thomas Flichy di La Neuville, Cina, Iran, Russia, un nuovo impero mongolo? Lavauzelle, 2013.
  3. https://www.revueconflits.com/iran-chine-russie-allies-de-circonstance-michel-nazet/

La politica dello spazio, di  Jacek Bartosiak

La politica dello spazio

La prima puntata di una serie in quattro parti che esplora la concorrenza sullo spazio.

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Mentre scrivo questo articolo, chiuso nella bellissima regione della Warmia nella Polonia settentrionale, vicino al sito della campagna invernale di Napoleone del 1806-07, le ricadute della pandemia di coronavirus sembrano intensificare la rivalità tra Stati Uniti e Cina. Ricorda un fulmine che colpisce prima di una tempesta, illuminando un campo di battaglia poco prima dell’inizio di una nuova battaglia.

I campi di battaglia tra grandi potenze di solito consistono in cose come lavoro, commercio, produzione, valuta, investimenti e tecnologia. In un’economia globalizzata, il controllo su queste aree dà a un paese la capacità di imporre la propria volontà sugli altri – che è la definizione di potere. In precedenza erano controllati da potenze regionali all’interno delle loro sfere di influenza e dal crollo dell’Unione Sovietica sono stati dominati dall’unica superpotenza del mondo – gli Stati Uniti – che possiede una marina con portata globale, una valuta globale, una proiezione di potere capacità e superiorità nei mondi tecnologici e finanziari.

Ma il fattore più importante che determina il potere strutturale di un paese nell’economia globale è il suo vantaggio tecnologico. La capacità e la volontà di abbracciare la modernizzazione è una fonte di grande profitto e potere.

La tecnologia crea “nuove economie”, premiando coloro che investono in anticipo e abbracciano il cambiamento, lasciando indietro coloro che resistono al cambiamento e mantengono lo status quo. In questo modo, altera l’equilibrio del potere. Possiamo vedere questi cambiamenti di paradigma con le innovazioni in agricoltura, l’invenzione della polvere da sparo, l’addomesticamento e l’allevamento dei cavalli e i progressi nelle tecnologie di produzione e navigazione.

La rivoluzione industriale, il motore a vapore, il motore a combustione interna, l’aviazione, la metallurgia e Internet pongono i paesi occidentali ai vertici della gerarchia internazionale. È stata la capacità dell’Occidente di modernizzare che l’ha spinta verso l’alto e l’ha trasformata in un modello per gli altri che cercano di far avanzare il proprio status nel mondo.

Coloro che hanno modernizzato hanno preso parte alla corsa della civiltà; quelli che non ne sono usciti, e spesso si sono trovati divisi o colonizzati (il Commonwealth polacco-lituano e la Cina sono esempi chiave). In questo modo, la modernizzazione è uno sforzo geopolitico e una fonte di competizione senza fine tra tutte le aspiranti grandi potenze del mondo.

L’Inghilterra, un tempo povera e periferica, utilizzava la tecnologia per costruire una flotta di livello mondiale in grado di attraversare l’Atlantico. Ha sconfitto i suoi concorrenti nella corsa ai profitti della nuova economia, aprendo così la strada al suo controllo del mondo. La Cina, invece, ha avuto meno successo. Nel 15 ° secolo, prese la decisione imprudente di distruggere la propria flotta esplorando l’Oceano Indiano e la costa africana, mentre cercava di aggrapparsi al vecchio paradigma in cui molti decisori chiave cinesi erano a proprio agio. In tal modo, ha dimostrato che le cattive decisioni geostrategiche – contrarie alla modernizzazione – possono portare al collasso della propria civiltà.

In passato, epidemie e guerre hanno accelerato gli sforzi di modernizzazione. Radar britannico, bomba atomica e missili balistici tedeschi: tutte queste innovazioni sono nate dall’ultima guerra mondiale. Perfino Sputnik e i voli con equipaggio sulla luna erano in qualche modo i prodotti di quel conflitto e del programma tedesco sui missili balistici V-2. Wernher von Braun era, dopo tutto, uno dei principali architetti del V-2 e in seguito il cervello dietro al programma Apollo degli Stati Uniti.

La guerra fredda ha intensificato la competizione per la supremazia tecnologica. Le potenze hanno gareggiato per dimostrare le loro capacità in una serie di aree: razzi, aerei, radar, navi, ottica, circuiti integrati, microchip, voli spaziali e armi nucleari e termonucleari. Gli Stati Uniti hanno dimostrato la loro superiorità con iniziative come il Progetto Manhattan, il programma Apollo e la triade nucleare. Ma quando divenne evidente negli anni ’70 e ’80 che i sovietici avevano perso la corsa allo spazio, gli americani iniziarono a lasciarsi andare. Smisero di volare missioni con equipaggio sulla luna, contenti di lanciare voli verso un’orbita bassa della Terra facilmente raggiungibile, con l’aiuto di una tecnologia un po ‘migliorata sebbene datata degli anni ’60 e ’70.

60 anni di esplorazione spaziale
(clicca per ingrandire)

Era arrivata l’era della globalizzazione. Francis Fukuyama ha annunciato la fine della storia. Nuovi mercati hanno iniziato ad aprirsi. È emerso un mondo unipolare. Ma la fine della rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica ha portato un forte legame strategico, certamente quando si è trattato di esplorazione dello spazio, mentre il compiacimento degli Stati Uniti ha aperto le porte alle potenze emergenti – vale a dire la Cina – per competere con uno spazio USA sempre più inefficiente e un programma sottofinanziato.

In effetti, quando si tratta di esplorazione dello spazio, non è successo molto dopo la fine dell’Unione Sovietica. I lanci dello space shuttle si sono rivelati inefficienti. Gli Stati Uniti sono diventati dipendenti da altri paesi per accedere alla stazione spaziale internazionale. La NASA è diventata un simbolo di ipertrofia burocratica e cattiva gestione finanziaria. Durante il periodo in carica del presidente Barack Obama, alcuni hanno persino suggerito che fosse completamente eliminato e che il programma spaziale fosse terminato.

La mancanza di progressi è in parte dovuta alle risorse finanziarie necessarie per mantenere un moderno programma spaziale, in modo tale che solo le nazioni più potenti con le maggiori economie possano permettersi di averne uno. Oltre ai soldi, hanno bisogno di una visione e una strategia. Un primo esempio dell’inefficienza dell’attuale programma spaziale è lo Space Launch System della NASA, un’iniziativa estremamente costosa sostenuta principalmente da legislatori di stati come la Georgia e l’Alabama dove viene prodotto il sistema.

Queste inefficienze sono un sintomo della debolezza strutturale del sistema politico americano. Pertanto, imprenditori come Elon Musk e Jeff Bezos – i moderni Cristoforo Colombo e Vasco da Gama – hanno raccolto la bandiera della causa, lanciando i propri progetti spaziali con iniziative come SpaceX e Blue Origin.

Esploratori come Musk e Bezos, o Columbus e da Gama, o la moltitudine di temerari senza nome e coloro che assumevano rischi prima, hanno affrontato enormi sfide e rotto vecchi paradigmi. Spesso tali avventurieri hanno dovuto affrontare carenze finanziarie, derisioni e attacchi costanti. Il cambiamento è dirompente e alla gente non piace l’interruzione, quindi alla gente non piace il cambiamento.

Inoltre, con la fine della Guerra Fredda è arrivata l’illusione di una fine della storia: la convinzione che il liberalismo avesse trionfato e che forse i giorni peggiori di cambiamento e distruzione fossero passati. Nel corso della storia umana, i vincitori hanno sempre ipotizzato che il loro trionfo rappresentasse la fine della rivalità geopolitica. Che la vittoria degli Stati Uniti nella guerra fredda fosse dovuta principalmente al dominio tecnologico dell’Occidente e alla promessa di modernizzazione in qualche modo sfuggì alla nostra percezione.

Invece, il sogno di belle relazioni tra le persone ha legato le mani dei leader occidentali, in particolare gli americani, e ha bloccato il percorso verso azioni più audaci in nuove aree come lo spazio. L’idea che il cosmo e le sue illimitate possibilità e risorse appartenessero a tutta l’umanità – non solo a coloro che vi arrivarono per primi – era seducente. E se non ci fosse urgenza e chiarezza su chi pagherà e su chi trarrà beneficio dai frutti dell’esplorazione, allora gli investimenti pubblici e privati ​​per finanziare l’esplorazione dello spazio potranno aspettare.

Esistono chiari parallelismi con l’esplorazione dei mari e degli oceani, a cui il cosmo è strutturalmente (dal punto di vista dell’uso e del controllo) paragonabile. Solo i grandi poteri hanno capacità spaziali. I paesi senza tali capacità assomigliano a quelli privi di sbocco sul mare. In un’era di grande competizione di potere, tali stati non avrebbero fatto liberamente uso dell’esplorazione del mare. Solo durante i periodi in cui esisteva un egemone navale che approvava i principi del movimento, tutti gli stati potevano beneficiare del potenziale del mare dato. Al momento non esiste un singolo arbitro nello spazio, almeno non ancora. Quindi seguono le implicazioni.

Discussioni simili hanno avuto luogo durante i periodi di grandi scoperte geografiche: chi possiede le terre scoperte e i loro frutti? Su quali principi viene utilizzato l’oceano mondiale? Chi possiede l’Atlantico e le linee di comunicazione della nuova economia? Tali dibattiti si sono sempre conclusi allo stesso modo: il potere decide e il potere vittorioso impone la sua volontà di diventare arbitro della nuova economia. La Gran Bretagna ha giocato il gioco in più fasi e con grande maestria, con Trafalgar come ultimo tocco della grande visione.

Nell’era della recente globalizzazione, l’Occidente voleva credere che il corso della storia potesse essere domato e controllato e che le persone fossero cambiate. Soprattutto, che questa volta sarebbe stato diverso.

Non lo sarà.

Nel dicembre 2019, gli americani hanno creato Space Force. Durante l’inaugurazione, il presidente Donald Trump ha dichiarato: “lo spazio è il più nuovo dominio di guerra al mondo. Tra le gravi minacce alla nostra sicurezza nazionale, la superiorità americana nello spazio è assolutamente vitale. E stiamo procedendo, ma non  abbastanza. Ma molto presto, saremo in testa a molti. La Forza Spaziale ci aiuterà a scoraggiare l’aggressività e controllare l’altura più elevata. “

Trump ha aggiunto nelle osservazioni successive: “L’essenza dell’uomo americano è esplorare nuovi orizzonti e domare nuove frontiere. Ma il nostro destino, oltre la Terra, non è solo una questione di identità nazionale, ma una questione di sicurezza nazionale. Così importante per i nostri militari. Così importante. E la gente non ne parla. Quando si tratta di difendere l’America, non è sufficiente avere semplicemente una presenza americana nello spazio. Dobbiamo avere il dominio americano nello spazio. “

Pertanto, nella visione di Trump, sono gli Stati Uniti ad essere il guardiano del nuovo oceano mondiale, l’arbitro dei principi che regolano i viaggi nello spazio e i flussi strategici di persone, merci, investimenti, tecnologia, dati e conoscenze . A tal fine, gli Stati Uniti vogliono controllare la proiezione della forza dallo spazio alla Terra e viceversa, e allo stesso tempo controllare i sistemi di osservazione della Terra e le comunicazioni in entrambe le direzioni.

La competizione tra gli Stati Uniti e la Cina sarà del tutto incomparabile rispetto a qualsiasi cosa precedente. Una Cina sveglia è un grande potere. Quando gli Stati Uniti divennero un paese potente, la Cina praticamente non esisteva come importante centro statale, essendo stata colonizzata e dettata da potenze straniere. Mai nella storia c’è stata una Cina potente e un potente Stati Uniti allo stesso tempo. Le voci allarmistiche affermano addirittura che non c’è posto per entrambi allo stesso tempo.

Quando le potenze europee stavano combattendo per il dominio in Europa, mentre venivano scoperte nuove rotte attraverso l’Atlantico verso l’America e verso l’Asia intorno all’Africa e cambiando le economie e il commercio, esse consumarono le risorse necessarie per combattere per il dominio sul loro vecchio mondo natio – cioè  l’Europa. Nella prossima battaglia per la supremazia sulla Terra e la sua economia globalizzata, il centro di gravità delle catene del valore e delle tecnologie esistenti sarà rapidamente bloccato in una situazione di stallo, assomigliando alle Fiandre nel 1914-18. Pertanto, la concorrenza in nuovi campi e domini passerà alle catene del valore e alle tecnologie future, che creeranno industrie e produzione nel 21 ° secolo: 5G, intelligenza artificiale, stampa 3D, produzione distribuita, produzione spaziale in un vuoto, energia solare economica e illimitata energia, comunicazione dallo spazio alla Terra, esplorazione ed estrazione di risorse spaziali, ecc. La nuova economia è tradizionalmente creata da una svolta basata sull’accesso a nuove materie prime, nuove tecnologie di produzione e nuova connettività. L’esplorazione dello spazio promette tutti e tre contemporaneamente.

La nuova civiltà riguarderà le tecnologie emergenti, ma la condizione per questo è il dominio militare. In effetti, l’uno abilita l’altro. E nello spazio non c’è premio per il secondo posto; chi ottiene il controllo dell’accesso può negare l’accesso ad altri.

Non ci può essere illusione: nessuna delle due parti si arrenderà senza combattere. Per gli americani, non c’è spazio per l’alloggio nel loro attuale modello socio-economico. Non ascolteranno gli avvertimenti di Henry Kissinger, che teme il confronto con la Cina, né ascolteranno Kishore Mahbubani di Singapore, un collega del leggendario fondatore del paese, il defunto Lee Kuan Yew. Mahbubani crede che gli Stati Uniti debbano adattarsi al potere della Cina perché gli Stati Uniti hanno già perso la battaglia.

Neanche i cinesi si arrenderanno. Accettare le richieste di Washington sarebbe visto come un accordo con le versioni moderne dei trattati ineguali che hanno portato all’età dell’umiliazione del XIX secolo. La Cina è determinata a non cambiare la sua strategia di crescita, soprattutto perché gli ultimi 40 anni sono probabilmente il periodo migliore della storia dei 4.000 anni del Regno di Mezzo. Allora perché dovrebbe cambiare qualcosa adesso, specialmente quando il Paese che richiede il cambiamento è in circolazione da meno di 250 anni, un breve periodo dal punto di vista cinese?

James Carafano della influente Heritage Foundation con sede a Washington ha recentemente annunciato la rottura della cooperazione tra Stati Uniti e Cina, il divorzio della catena di approvvigionamento globale e la divisione del mondo in sfere di influenza: Nord America, Europa di fronte all’Atlantico e parti di Asia orientale in una zona e Cina e suoi alleati nell’altra zona. Con le parole di Slawomir Debski dell’Istituto polacco per gli affari internazionali, questo pone la Polonia, come avanzata roccaforte occidentale di fronte alla grande massa terrestre dell’Eurasia, sotto il potere della Cina.

Allo stesso modo, Andrew Michta del think tank americano del German Marshall Fund postula la necessità di un forte disaccoppiamento e fine della cooperazione con la Cina. E Wess Mitchell, ex vice segretario di stato USA per gli affari europei ed eurasiatici, fa un cenno ai paesi tra il Mar Baltico e il Mar Nero e ordina loro di schierarsi immediatamente con l’America e cessare la cooperazione economica con la Cina. L’implicazione è che, in caso contrario, quei paesi saranno esclusi dalla zona americana per impostazione predefinita.

Sebbene io personalmente conosca e apprezzi tutti questi pensatori, il confronto con la Cina sarà più complicato di quanto pensino gli americani.

Nonostante gli avvertimenti di Kissinger e le raccomandazioni del famoso leader di Singapore, gli americani intraprenderanno questa lotta – e la guerra sarà combattuta. È ora di allacciare le cinture di sicurezza.

https://geopoliticalfutures.com/the-politics-of-space/?tpa=YzJhM2ZmNzUyOTZjMzFhYTNiZWNmOTE1OTE0NTc2NDhhMmY4YTU&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fthe-politics-of-space%2F%3Ftpa%3DYzJhM2ZmNzUyOTZjMzFhYTNiZWNmOTE1OTE0NTc2NDhhMmY4YTU&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

INTERPRETAZIONE E FATTI, di Pierluigi Fagan

INTERPRETAZIONE E FATTI. Come si nota nella vignetta di uno dei più grandi intellettuali italiani viventi, i fatti esistono, il problema sono le interpretazioni.

Stamane mi sono letto un lungo articolo in inglese per altro ben fatto, che festeggiava ideologicamente la fine del neoliberismo. https://thecorrespondent.com/466/the-neoliberal-era-is-ending-what-comes-next/61655148676-a00ee89a?fbclid=IwAR3qE6fKSgecLY-nsv2sCw5E8IbeJnq1dMw3KQ60yXaLinxeDfvKvNCw-vACitava il famoso fondo del Financial Times che essendo fatto da gente sveglia, ha colto l’odore dei tempi al volo già il 4 aprile. Cito: ““Le riforme radicali – invertendo la direzione politica prevalente degli ultimi quattro decenni – dovranno essere messe sul tavolo. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia. Devono vedere i servizi pubblici come investimenti piuttosto che passività e cercare modi per rendere i mercati del lavoro meno insicuri. La ridistribuzione sarà di nuovo all’ordine del giorno; i privilegi degli anziani e dei ricchi in questione. Le politiche fino a poco tempo fa considerate eccentriche, come il reddito di base e le tasse sul patrimonio, dovranno essere nel mix. “. La chiave del discorso però è una e ben precisa: “I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia.”.

FCA ha chiesto 6,3 miliardi di euro per sostenere le proprie italiche produzioni e nonostante i borbottii addirittura di Calenda oltreché del M5S e del PD, Conte ieri ha fatto capire che al di là di dove uno ha sede legale e fiscale (nel caso Olanda e Gran Bretagna), se produce e dà lavoro in Italia, è ragionevole dargli una mano.

Nell’ultimo decreto, e ieri Conte ha anticipato viepiù in uno prossimo che pare si occuperà di “semplificazione”, l’Italia si appresta a modificare alcune norme di diritto societario anche per vincere la concorrenza di paesi come l’Olanda, tant’è che addirittura pare Campari ci stia ripensando a trasferirsi nelle terra dei tulipani. Si tratta del “voto plurimo” ovvero abbandonare il principio democratico di un voto per azione, dando ad alcune azioni anche tre voti. Il che permetterebbe di mantenere il controllo strategico proprietario pur distribuendo la stragrande maggioranza delle azioni. Attenzione perché in filosofia politica o insomma qualcosa che si avvicina alla lontana, in terra americana, da tempo si discute di come migliorare l’inefficiente democrazia o riservando il voto politico a chi sa o dando “più diritti di voto” a chi sa lasciando formalmente intatto il carattere popolare del suffragio.

Addirittura Il vice-segretario del PD, Andrea Orlando se ne esce così: “Nelle prossime settimane vivremo una serie di attacchi al governo finalizzati alla sua caduta, ispirati anche da centri economici e dell’informazione, non tanto per correggere come è lecito l’attività di governo ma per rivedere il patto di governo e a riorganizzare la maggioranza“. Il bottino in palio sono i miliardi che lo stato dovrà immettere nell’economia per non far crollare l’ambaradan.

Saltando di canale in canale o di giornale in giornale, non sarà sfuggito il brontolio costante animato da amici di Confindustria, Gruppo Mediaset, Gruppo GEDI (La Stampa, la Repubblica, l’HuffPost etc.) di fresco acquisito da Exor (FCA, quando si dice il “tempismo”) su quanto sia inadeguato questo governo, brontolio fatto proprio a mezza voce (ma solo per il momento) da Renzi ed opposizione che però in questo secondo caso è normale mentre nel primo, meno. Tutti i giorni escono articoli sul prossimo governo Draghi, fatto così o cosà o come altro non si sa.

Quindi il fatto rimane l’ombrello di Altan messo come al solito lì in posizione scomoda. L’interpretazione è che l’élite è in grado di passare in mezzo secondo netto dal “meno stato più mercato” quando le cose vanno bene a “più stato per il mercato” quando vanno male. Lo stato è ricattato perché il potere economico è in mano a quella élite e “o la borsa o la disoccupazione” funziona sempre. In più, visto che la situazione va disordinandosi il potere si addensa come è sempre successo in sempre meno mani con sempre più potere. L’idea che il voto politico non doveva esser per tutti dello stesso peso è del 1850, i liberali riciclano incessantemente il loro per altro povero bric-a-brac teorico. Perché poi fare investimenti pubblici o dare salario a tutti coloro che non lo hanno o usare denaro pubblico per mantenere lo stesso salario con meno orario oltretutto sapendo che nei prossimi mesi di Jeep (molto poetico lo spot FCA su questo veicolo in questi giorni in programmazione, in effetti lo “spirito” della Jeep è notoriamente tipicamente “italiano”, no?) qui prodotte ne venderai pochine? No, meglio dare 6,3 miliardi ai padroni della Jeep, è logico, strategico e lungimirante. La gente festeggia a grande partecipazione l’evidenza di questa necessità di addensamento del potere perché “è logica”.

Non lo è, tutt’altro, ma se invece del possesso dei mezzi di produzione (tanto le tue poche azioni valgono il triplo), hai il possesso dei mezzi di formazione, di informazione e di gestione del dibattito pubblico, lo farai sembrare e tutti ne saranno gioiosamente convinti e partecipi. Così la tua “influenza politica” varrà il triplo o anche più.

I fatti esistono, ma ciò che provoca più danni sono le interpretazioNI

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