ELEZIONI AMERICANE-IL GIORNO DOPO-ATTO II, con Gianfranco Campa

Le virtù del modello democratico proposto all’universo-mondo sono ormai di pubblico dominio; come del resto i suoi panni sporchi. La farsa sta raggiungendo il culmine. Al proprio apogeo potrà trasformarsi in tragedia per ogni piccola scintilla. Una guerra che non prevede prigionieri. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

DICHIARAZIONE DEL PRESIDENTE DONALD J. TRUMP_ Commento del generale Marco Bertolini

“Sappiamo tutti perché Joe Biden si sta affrettando a fingersi falsamente vincitore, e perché i suoi alleati dei media stanno cercando così pesantemente di aiutarlo; non vogliono che la verità venga rivelata. La semplice constatazione è che queste elezioni sono tutt’altro che finite. Joe Biden non è stato certificato come il vincitore in nessuno stato, per non parlare di nessuno degli stati altamente contestati avviati a riconteggi obbligatori, o stati in cui la nostra campagna ha avviato sfide legali valide e legittime che potrebbero determinare il vincitore finale. In Pennsylvania, ad esempio, ai nostri osservatori legali non è stato consentito un accesso agibile per osservare le procedure di conteggio. I voti legali decidono chi è il presidente, non i media.
“A partire da lunedì, la nostra campagna inizierà a perseguire il nostro caso in tribunale per garantire che le leggi elettorali siano pienamente rispettate e che il legittimo vincitore sia insediato. Il popolo americano ha diritto a un’elezione onesta. Ciò comporta contare tutte le schede legali e non considerare le schede illegali. Questo è l’unico modo per garantire che i cittadini abbiano piena fiducia nelle nostre elezioni. Rimane scioccante il fatto che lo staff di Biden si rifiuti di concordare con questo principio di base e vuole che le schede elettorali siano contate anche se sono fraudolente, fabbricate o espresse da elettori non ammissibili o deceduti. Solo una parte coinvolta in atti illeciti terrebbe illegalmente gli osservatori fuori dalla sala di conteggio per poi battersi in tribunale per bloccarne l’accesso.
«Allora cosa nasconde Biden? Non mi fermerò finché il popolo americano non avrà il numero di voti onesti che merita e che la democrazia richiede “.
– Presidente Donald J. Trump
Generale MARCO BERTOLINI
Ma ci rendiamo conto di cosa è accaduto con questo imbroglio? Il “modello” applicato in America, è lo stesso che è stato reso operativo anche da noi con l’imposizione di un governo senza alcuna legittimazione elettorale pur di non lasciare il potere ai “fascisti” di Salvini e della Meloni che avrebbero vinto le elezioni a man bassa se si fossero tenute. L’accusa di “fascismo” è infatti autocertificante e non ha bisogno di essere provata, e contro il fascismo (anche quello immaginario visto che quello vero è morto da settantacinque anni) è valido tutto, dal tradimento, alla menzogna, alla nomina di ministri incapaci o palesemente inadeguati, alla violenza. In fin dei conti cos’erano gli anni di piombo col loro motto “uccidere un fascista non è reato” se non una riedizione della resistenza nella quale era addirittura un merito versare il “sangue dei vinti” (soprattutto ben al riparo delle armi alleate)?
Negli USA è successa la stessa cosa: Trump è stato imposto come nemico da abbattere da una macchina mediatico politica trasnazionale e interna e contro di lui vale tutto, dalla guerra civile scatenata dai Black Lives Matter ai brogli elettorali fatti praticamente alla luce del sole con una faccia tosta che fa paura. Addirittura, viene censurato da questo stesso social e da altri, come se l’opinione e le prese di posizione del Presidente in carica degli USA non avesse valore, non sia addirittura di interesse mediatico. Avete capito? La voce del Presidente degli USA, di questo Presidente degli USA, è “trascurabile”, addirittura censurabile.
Il fatto che abbia chiuso guerre aperte dai suoi predecessori e che abbia fatto bene come nessun altro per l’economia del suo paese non conta: “deve” essere violento perchè rifiuta i diktat del politicamente corretto, perchè parla di interesse nazionale, perchè è pro-life mentre il democraticume statunitense e interazionale è abortista, omosessualista e eutanasista, perchè non mette la mascherina e anzi guarisce dal COVID ad una velocità irritante, perchè non vuole una guerra con la Russia (non a caso Biden ha già detto che la Russia è la principale “minaccia”), perchè non ha fatto niente per abbattere anche Assad dopo che il suo predecessore aveva incendiato Medio Oriente e Nord Africa, perchè ha una moglie che con la sua bellezza e il suo garbo è uno schiaffo ai miti del femminismo militante. Per ora si sono fermati lì, facendogli solo sentire il profumo della violenza che saprebbero scatenare. Per ora. Se avrà il coraggio e l’energia di tenere duro sarà possibile tutto, anche se non hanno niente da temere, visto che possono permettersi di violare leggi e norme come vogliono, in nome dei loro principi.
Non ci sono dubbi che la democrazia è arrivata ad un punto di crisi assoluto, o forse alla sua logica evoluzione grazie a mezzi di condizionamento potentissimi come i media e i social, che consentono di impapocchiare qualsiasi cosa, di creare qualsiasi fake-realtà, per il pubblico plaudente. Quanto ci vorrebbe, ora, la voce della Chiesa. Intendo quella cattolica, apostolica e romana

Biden vs Trump, a cura di reopen Roma

Mi pare una buona intervista con un paio di argomenti affrontati un po’ con l’accetta. Lo impongono ovviamente i tempi di una intervista.

Il primo riguarda il tema del razzismo. E’ vero che la componente apertamente razzista strutturata politicamente attualmente è certamente marginale; l’accentuazione del carattere identitario delle dinamiche e degli argomenti potrebbe aumentarne l’influenza.

Il secondo riguarda la crisi pandemica. E’ vero che la gran parte delle competenze nella sanità sono appannaggio degli stati federali. La narrazione offerta da Trump, che punta soprattutto allo sviluppo delle terapie, per come è stata sostenuta, ha concesso troppo spazio a teorie complottiste o negazioniste.

E’ mancata da parte mia una sottolineatura essenziale. L’aperto sostegno dei democratici alle manifestazioni dei BLM (Black Live Matter), con annessi i saccheggi e i linciaggi da una parte e l’accusa di razzismo istituzionale ha messo a nudo il loro carattere larvatamente eversivo e offerto a Trump l’occasione ulteriore di presentarsi come l’uomo delle istituzioni.

Un vero e proprio paradosso rispetto alla narrazione di questi ultimi quattro anni. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

L’intervista è edita da “reopen Roma”

https://www.facebook.com/MagnitudoItalia/videos/390676642119865

ELEZIONI AMERICANE_i giorni dopo, con Gianfranco Campa

Grande confusione sotto il cielo. Il segno di una classe dirigente decadente, di un paese diviso, di una nazione a rischio implosione. Lo abbiamo descritto ripetutamente su questo sito. La strada sembra sempre più in discesa_Giuseppe Germinario

https://abcnews.go.com/Politics/2020-Electoral-Interactive-Map?mapId=MjAyMDA0MTAyNjEwMTYwMzQzMTc1MzE2MTYwqUORTBgmSUhGSSNSZBKRSRKSSUgmCQ&fbclid=IwAR0w7g5zH8DukoH6-aiXOOowsRibAn1C6_Q2viY5niCaFvbDizWMecpKjZs

Geopolitica americana, fondamenti e continuità, di Olivier Zajec

https://www.revueconflits.com/geopolitique-americaine-fondements-continuite-olivier-zajec/

A volte si pensa che la geopolitica sia di origine tedesca, segnata da uno spirito realista bismarckiano. Si dice anche che questo metodo di approccio, che analizza le politiche estere degli Stati mettendole in relazione con il condizionamento della loro collocazione geografica, sarebbe fondamentalmente troppo “cinico” e deterministico per corrispondere realmente alla cultura universalista e idealista americana. Queste sono senza dubbio interpretazioni errate.

A ben guardare, sembra che sia l’America, più della Germania, a meritare il titolo di terra eletta per la geopolitica. Per capirlo, è interessante prendere in considerazione due elementi. La prima riguarda gli scambi geopolitici teorici tra Germania e America che erano molto più profondi e soprattutto più antichi di quanto si dica generalmente, e durante i quali l’imitatore non era quello che pensiamo. Il secondo elemento si riferisce alla strategia internazionale di Washington, caratterizzata da un preteso “pragmatismo” che si potrebbe essere tentati di assimilare ad un opportunismo assoluto, ma che, in realtà, segue le linee di forza semplificate di una costruzione geopoliticacoerente. A lungo termine, è quindi possibile giungere alla conclusione della notevole e implacabile coerenza che gli orientamenti americani in politica estera hanno dimostrato per due secoli.

La Germania nella scuola degli Stati Uniti

Ci sono generalmente due canali di “educazione geopolitica” nella storia intellettuale degli Stati Uniti. Il primo è la diffusione del lavoro di geografo Friedrich Ratzel da Ellen Semple, alla fine del XIX °  secolo. Il secondo è giocato nel 1940: si tratta di reception sensazionalista e il rifiuto del lavoro di Karl Haushofer, che più di ogni altro, personificato per gli americani della geopolitica tedeschi nel XX °  secolo.

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Da quali fonti, tuttavia, aveva attinto lo stesso Haushofer? Un background germanico, ovviamente: aveva letto Ernst Kapp [1] , ed è innegabile che la sua ripresa delle opere di Ratzel e soprattutto di Kjellen gli fornisca le basi della sua geopolitica . Tuttavia, va sempre ricordato che su questo sfondo si innestò anche nel Dottore Generale una presunta appropriazione di schemi anglosassoni. Fu il britannico Mackinder, teorico dell’Heartland e dell’opposizione terra-mare, a ispirare in gran parte la geopolitica tedesca del periodo tra le due guerre, con riluttanza. Non è l’unico: il libro del suo discepolo scozzese James Fairgrieve, Geography and World Power (1917), che si oppone “ il parallelogramma del Vecchio Mondo e delle Americhe, posto nel grande oceano  “, pur distinguendo una”  zona di schiacciamento  “dove le potenze costiere si scontrano con il cuore della Terra, è stato abbastanza rapidamente tradotto in tedesco dalla moglie di Karl Haushofer, Martha , con una prefazione dello stesso Haushofer.

 

Ciò che si dice meno è che i geopolitici tedeschi hanno letto anche autori americani. Durante il suo interrogatorio a Norimberga nel giugno 1946, Haushofer si lamentò con Edmund Walsh, dell’Università di Georgetown, che lo interrogò sugli obiettivi della sua Geopolitik  : ”  Perché il tuo governo non può mandarmi uomini esperti?” domanda, come Isaiah Bowman  o Owen Lattimore  ? […] Questi uomini avrebbero capito cosa volevo dire e cosa volevo costruire attraverso la mia geopolitica . “Arciere? Leader dei geografi politici del Nuovo Mondo, consigliere di Wilson poi di Roosevelt, autore di The New World nel 1921, era considerato da Haushofer il suo alter egoAmericano, allo stesso modo in cui Mackinder era il doppio inglese del generale tedesco. Nel 1936, Otto Maull, collaboratore di Haushofer, presentò il lavoro collettivo Macht und Erde come ” l’analisi pratica del potere globale […] culminante in una visione geopolitica del pianeta […] ” costruita come ” il contrappeso tedesco al Il nuovo mondo di Isaiah Bowman  ”. Nel suo primo studio geopolitico sul fenomeno dei confini ( Grenzen in ihrer geographischen und politischen Bedeutung , 1927), Haushofer prende come riferimento i suoi compatrioti Ratzel, Albrecht Penck, Robert Sieger e Berthold Volz, l’inglese Thomas Holdich (che ama citare la formula si scatena ” l’incommensurabile costo dell’ignoranza geografica  ”), ma anche gli americani Homer Lea, Brooks Adams e Nathaniel Peffer [2] .

 

Gli Stati Uniti, una “geopolitica applicata”

Tra il pensiero geopolitico americano e quello tedesco, il “modello” non è necessariamente quello che pensiamo. Un secolo prima che la stampa americana si concentrasse un po ‘istericamente su Geopolitik tra il 1940 e il 1942, furono i teorici della politica estera del giovane impero tedesco a studiare con invidia il potenziale di potere derivante dallo spazio disponibile e dalla posizione della giovane repubblica degli Stati Uniti. L’equilibrio del potere, la profondità strategica, il bilanciamento offshore e la consapevolezza geopolitica dell’unità del consiglio di potere mondiale sono argomenti che sono stati attivamente pensati dagli uomini più importanti della storia americana.

Esaminando le scelte di politica estera dei “padri fondatori” Jefferson o Hamilton, possiamo effettivamente verificare in quale modo pragmatico i primi statisti americani non esitarono, dopo la guerra d’indipendenza, a considerare la possibilità di controbilanciare l’influenza dell’alleato – o meglio del salvatore – francese con un’alleanza utilitaristica con il colonizzatore inglese estromesso. È inoltre riferendosi a questo pensiero “geopolitico” originale, anche se il termine è ovviamente anacronistico, che lo scienziato politico Nicholas Spykman proporrà negli anni Quaranta, come lui stesso affermerà, “[…] Un ritorno alla saggezza dei nostri fondatori, l’accettazione della realtà del nostro posizionamento geografico e della natura della società internazionale […], il principio che la conservazione di un equilibrio di potere in Europa e in Asia è il prerequisito per la nostra sicurezza a lungo termine  ”. In conclusione “  […] Chiedo un ritorno a Jefferson, un ritorno a Monroe. 

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Dal 1823 l’affermazione della dottrina Monroe esercitò un vero fascino sugli autori tedeschi, che la interpretarono come la prima formulazione di una teoria esclusivista dei grandi spazi aperti. È inoltre sorprendente notare che tre dei più importanti fondatori della geografia politica e poi della geopolitica tedesca trassero parte della loro ispirazione dallo studio del potenziale del potere spaziale degli Stati Uniti.

È il caso di Friedrich List (1789-1846), emigrato negli Stati Uniti nel 1825, giornalista a New York, specialista in economia politica, scrivendo sia in inglese che in tedesco, amico del Segretario di Stato americano Henry Clay, ammiratore delle dottrine protezionistiche di Alexander Hamilton e ispiratore, al suo ritorno in Europa, dello Zollverein tedesco. Friedrich Ratzel, nel frattempo, si recò negli Stati Uniti nel 1873 come corrispondente per la stampa della Kölnische Zeitung  ; vi documenterà per pubblicare Städte-und Kulturbilder aus Nordamerika (1876), e in particolare Die Vereinigten Staaten von Nordamerika (1878-80). La sua geografia Politische(1897) rivela anche l’influenza del darwinismo sociale di Herbert Spencer. Haushofer, ispirato dalle realtà americane, divora gli autori del Nuovo Mondo. E ‘anche possibile citare il caso più antico di Adam Heinrich Dietrich von Bülow (1757-1807), che viaggia negli Stati Uniti alla fine del XVIII °  secolo, e pubblicato nel 1799 Geist di Neuren Kriegssystems , implementazione logica geopolitica spazi del Nuovo Mondo nel quadro diviso dell’Europa dei principi.

 

Secondo Robert Strausz-Hupe, la politica estera degli Stati Uniti nella prima metà del XIX °  secolo può quindi essere considerato un ”  applicata geografia politica  ” e ha influenzato i tedeschi, anche più profondamente di quanto avessero previsto 1870 prima di realizzare la propria unità, e che volevano recuperare il tempo perduto confrontando i modelli di sviluppo di altre potenze per applicare le migliori lezioni.

Del destino manifesto …

Se si cerca di stabilire una catena causale tra i vari pensieri “geopolitici” nazionali che sono apparsi durante gli anni 1900-1940 (un processo all’interno del quale il caso tedesco è generalmente descritto come centrale), in ultima analisi sembra possibile porre la presupposto che le teorie tedesche, ispirate alla dottrina di Monroe, è stato già costruito dall’inizio del XIX °  secolo, secondo i dati della politica estera degli stati Uniti.

Dal XIX °  secolo, un Ratzel o elenco, colpito dalla energia e dinamismo che gli americani sparavano loro provvidenziale profondità territoriale, vi trovò un argomento per essere fatto – specchio – sostenitori di espansione territoriale Wilhelmine assunto , nello spazio della vicina Mitteleuropa , oa livello coloniale. Nella diplomazia imperiale e in uscita della presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909), il Secondo Reich stava già vedendo la manifestazione della vitalità di un potere giovane e ambizioso, da cui avrebbe tratto ispirazione in una certa misura. Il mito del confine si è in qualche modo trovato trasposto dal Nuovo al Vecchio Continente, dove è stato in grado di riattivare vecchi schemi geodinamici (primo fra tutti il Drang nach OstenGermanica introdotto XIII °  secolo [3] ).

Aggiungiamo che la scuola tedesca di geopolitica sembra essere caratterizzata meno dalla nozione di “determinismo” geografico che da quella di vocazione , che è più spirituale. Un termine che risuona altrettanto potente nella storia americana. Se guardiamo ancora alla politica estera dei Padri Fondatori degli Stati Uniti, notiamo così una primissima formalizzazione della geoidentità, spinta meno dall’idea di necessità che da quella di destino., che i loro successori perseguiranno con costanza, le cui tappe più suggestive saranno l’acquisto della Louisiana (1803), quella della Florida (1819), le conquiste a spese del potere messicano (annessione del Texas nel 1845, cessione ” forzato “della California, Nevada, Arizona, Utah nel 1848) o l’acquisto dell’Alaska dai russi (1897), il culmine di questa incessantezza geospaziale, quasi-capetingia politica “proto-imperiale” degli anni 1870-1890, culminata con la “splendida piccola guerra” del 1898 che consentì a Washington di strappare molti territori a una Spagna morente, e di creare i laghi dei Caraibi e del Pacifico.

 

Ad accompagnare questa determinata espansione geopolitica del potere americano anche al di fuori della sua isola culla protetta da due oceani, le opere dell’ammiraglio Alfred T.Mahan e Frederick J. Turner, famosissime, o quelle di Homer Lea o Brooks Adams , che lo sono meno, simboleggiano l’importanza di questa ricerca di una profondità geostrategica destinata a proteggere la nuova Gerusalemme. Nel 1885, il trionfalismo geoculturale di Josiah Strong nel capitolo XIII del suo Our Country (”  The Anglo-Saxon and the World Future  “) è un esempio in materia, così come la profezia formulata già nel 1903 nell’affascinante conclusione di The New Empire, di Brooks Adams, storico teorico dell’espansionismo americano discendente da due dei primi presidenti degli Stati Uniti [4]  : “ […] Gli Stati Uniti supereranno ogni impero individualmente, se non tutti gli imperi messi insieme. Il mondo intero renderà omaggio. Il commercio fluisce verso est e ovest, e l’ordine che esisteva dall’alba dei tempi sarà invertito [5] 

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… al “Nuovo Ordine Mondiale”

Quando si esamina la questione dell’evoluzione geopolitica degli Stati Uniti, si deve anche tornare al termine strutturante di “destino manifesto”, utilizzato per la prima volta nel 1846 dal giornalista John O’Sullivan in un articolo del Morning News, sul dominio “naturale” degli Stati Uniti sull’intero continente americano. O’Sullivan, convinto sostenitore di un’espansione territoriale del suo Paese, evoca in questo momento “il nostro manifesto destino di occupare e possedere tutto il continente che la Provvidenza ci ha dato “. Inizialmente, questa nozione proto-geopolitica corrispondeva quindi, come possiamo vedere, a un decreto della Provvidenza che destinava il popolo americano a dominare il Nuovo Mondo, e non, almeno apparentemente, il resto del mondo .

Sono state le guerre del 1898, poi del 1917-1918 e del 1941-1945 che avrebbero ampliato il significato originariamente circoscritto di questo destino manifesto: a poco a poco emerge l’idea che anche l’America è destinata ad “educare” il mondo, L’America Latina naturalmente, ma anche e presto senescente l’Eurasia. Il presidente Wilson e il suo consigliere Isaiah Bowman a Versailles nel 1919, poi Henry Luce e il suo concetto di “secolo americano” nel 1945, offrono esempi di una teorizzazione di questa estensione moralizzante e benevolmente orgogliosa della missione americana. Non è un caso se, nel wilsonianesimo del 1919, al di là di un’ambizione diplomatica e commerciale americana estesa alle dimensioni del globo, un Haushofer già scorgeva, per qualche motivo, il dispiegamento di una geo-moralecoercitivo e utilitaristico, assumendo la forma di un universalismo sul punto di traboccare dal proprio emisfero prendendo il posto del potere britannico in declino.

 

Dopo il 1945, questo programma di fusione geopolitica e geomorale non sarà più nascosto, come dimostra questa sentenza del 1957, firmata dal profugo Robert Strausz-Hupé, che ispirerà parte della corrente neoconservatrice: ”  La missione del popolo americano è seppellire il Stati-nazione, guidano i loro popoli in lutto verso unioni più grandi e intimidiscono con il suo potere i tentativi di sabotare il nuovo ordine mondiale, che non hanno nulla da offrire all’umanità se non un’ideologia marcia e forza bruta… Per i prossimi cinquant’anni o giù di lì il futuro appartiene all’America. L’impero americano e l’umanità non saranno opposti, ma semplicemente due nomi per lo stesso ordine universale sotto il segno della pace e della felicità. Novus orbis terranum . Nuovo ordine mondiale[6] . “

Un paese intriso di geopolitica

Si potrebbe obiettare che questo ideale non era geopolitico in senso proprio, e che era più semplicemente e classicamente il risultato della diplomazia istituzionalista e liberale pazientemente perseguita e promossa. Peter Taylor osserva così che “  dal 1945 al 1975 non fu pubblicato alcun testo in lingua inglese con le parole“ geopolitica ”o“ geopolitica ”nel titolo  ”.

In effetti, si è spesso detto che il metodo di approccio geopolitico, appesantito dalle sue origini “tedesche”, era scomparso negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. È tuttavia necessario qualificarsi molto fortemente: non solo la geografia politica esisteva negli Stati Uniti prima degli anni Quaranta, come abbiamo visto, ma, contrariamente a quanto sembra suggerire l’osservazione di Taylor, non ha mai cessato di esistere negli Stati Uniti. questo paese dopo il 1945. L’influenza delle teorie di Mahan, Adams, Strong, Homer Lea, Mackinder, Bowman o Spykman non è scomparsa nell’inconscio geostrategico americano tra il 1945 e il 1975. lavoro degli scienziati politici Harold e Margaret Sprout, ad esempio ipotesi di relazione uomo-ambiente nel contesto della politica internazionale, pubblicato nel 1956, si riferiscono a una forma di geopolitica. Nel 1957, Edgar S. Furniss, Jr, un importante scienziato politico e studente di Spykman, pubblicò la politica militare americana: aspetti strategici della geografia politica mondiale . Nel 1968, lo storico John Spanier ha osservato delle due “formule” di Heartland e Rimland  che altre espressioni ”  non avrebbero potuto riassumere la storia del mondo del secondo dopoguerra in modo più efficace  “. Nel 1970, è William TR Fox – scienziato politico che ha inventato il termine “superpotenza” – che forse meglio esprimerà il vero status della geopolitica negli Stati Uniti durante questo periodo: “La nostra abitudine di pensare in termini geopolitici è così assimilata ai modelli di pensiero del tipico studioso contemporaneo di relazioni internazionali che la stessa parola “geopolitica” sembra aver perso la sua visibilità, e se ne parla in termini geopolitici. pensando piuttosto erroneamente che la geopolitica sia morta con Mackinder e Haushofer . “

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Gli Stati Uniti non hanno quindi aspettato fino al 1942 per possedere un pensiero strategico spazializzato. Il 1919 e il 1945 non sono rotture, né momenti di scelta, alla soglia dei quali l’America avrebbe esitato tra l’isolamento idealista corrispondente alla sua natura profonda e il tuffo contro la natura in preda alla geopolitica globale, nel nome delle responsabilità conferitele dal suo nuovo potere. In realtà, non esisteva una “End of Innocence [7]  ” americana: il 1919, poi il 1945, dovrebbe piuttosto essere visto come semplici passaggi logici sulla via di un’ascesa al potere che avrà seguito un master plan geopolitico con le sue radici nelle origini stesse della Repubblica del Nuovo Mondo.

Preoccupazione costante: profondità strategica

Questa straordinaria continuità spiega perché la politica estera americana avrebbe potuto essere l’unica matrice di modelli diplomatici così diversi come quelli che hanno successivamente dominato il periodo tra le due guerre (wilsonianesimo), la guerra fredda (il realismo della “sicurezza nazionale”), e l’era del dopo Guerra Fredda (diplomazia dei diritti umani, nozione di “comunità internazionale”). Tutti questi modelli, idealistici o realistici, sono contraddittori solo in apparenza. Possono fondersi e succedersi armoniosamente perché sono tutti articolati in uno schema geopolitico che rimane stabile. Dalla frontiera del selvaggio West nel XIX °  secolo per fronti geopolitici del continente eurasiatico al XX ° e XXI ° secoli, dal suo emisfero nativo al suo emisfero di proiezione , attraverso le vicissitudini della storia, la logica strategica di questo modello di espansione e influenza è rimasta fondamentalmente la stessa per gli Stati Uniti, a grandi linee: consiste nel contenere i forti nell’Heartland (ieri URSS, poi Russia, ora Cina); dividere e sponsorizzare i deboli del Rimland (Europa, mondo arabo, cordone insulare dell’Asia orientale); infine, per integrarsi sia culturalmente che economicamente attraverso un paziente lavoro di influenza e sensibilizzazione.

 

Questa fusione di discorsi morali in un’unica tela di potere spiega la profonda unità della politica estera americana, nonostante le differenze accessorie che possono separare Democratici e Repubblicani. Persino i leader e diplomatici americani più idealisti, da Wilson a Carter e Hillary Clinton oggi, non hanno mai smesso di modellare la loro visione del mondo su uno schema geopolitico comune di preservare la profondità strategica del santuario dell’isola americana, di modo per mantenere per sé una piena libertà di azione limitando commercialmente e politicamente l’autonomia del resto del mondo, con l’obiettivo di non far emergere alcun sistema di organizzazione politica, culturale e ideologica che possa competere con il modello di civiltà americano.

Resta da vedere se un magistero morale ben intaccato dal fallimento iracheno-afgano, dalla crisi del modello finanziario deregolamentato e dalle iniziative di concorrenti multipolari sempre più intraprendenti, non ostacolerà l’applicazione di questo schema geopolitico americano finora ha beneficiato con successo di un trittico vincente che combina un santuario oceanico liberalmente conferito dalla Provvidenza, una dominazione talassocratica pazientemente acquisita e gelosamente conservata e un contenimento eurasiatico tenacemente perseguito.

 


  1. Ernst Kapp, Vergleichende allgemeine Erdkunde in wissenschaftlicher Darstellung der Erdverhältnisse und des Menschenlebens , Braunschweig, G. Westermann, 1868 [1845]. Le prime due parti di questo libro pionieristico sono intitolate ”  Politische Geographie “.
  2. Cfr . Olivier Zajec, Nicholas John Spykman, l’invenzione della geopolitica americana , Parigi, Pups, 2016.
  3. Affonda le sue radici nella Bolla d’Oro di Rimini del marzo 1226 promulgata da Federico II di Hohenstaufen, che conferma i possedimenti dell’Ordine Teutonico in Prussia.
  4. In questo caso John Adams (1735-1826), secondo presidente dopo Washington e John Quincy Adams (1767-1848), sesto presidente.
  5. Henry Brooks Adams, The New Empire , New York, The MacMillan Company, 1903, p. 209.
  6. Manifesto pubblicato nel primo numero della rivista Orbis , fondata da Robert Strausz-Hupé nel 1957.
  7. Denise Arthaud, La fine dell’innocenza . Gli Stati Uniti da Wilson a Reagan , Parigi, Armand Colin, 1985.

elezioni presidenziali americane_ un primo bilancio e qualche considerazione- con Gianfranco Campa

Il sito italiaeilmondo.com ha dedicato una rubrica agli aggiornamenti costanti sulla campagna delle elezioni presidenziali americane. http://italiaeilmondo.com/2020/10/30/elezioni-presidenziali-americane_aggiornamenti/E’ arrivato il momento di presentare qualche considerazione su quanto di profondo ha rivelato una competizione così accesa e che non ha trovato una soluzione di continuità con quella del 2016. La conversazione con Gianfranco Campa definisce il quadro istituzionale entro il quale il confronto è destinato a proseguire con toni sempre più aspri e comportamenti sempre più ostili. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Mali: serve un cambio di paradigma, di Bernard Lugan

Scrivo da anni che nel nord del Mali il problema non è principalmente quello dell’islamismo, ma quello dell’irredentismo tuareg. Questo dato a lungo termine, radicati nella notte dei tempi, si sono manifestati dal 1962 attraverso periodiche risorgenze [1] . Secondo l’equilibrio di potere del momento, si esprime sotto varie bandiere. Oggi è sotto quello dell’islamismo.
Avendo trascurato i loro consiglieri di tener conto del peso dell’etno-storia, i leader francesi definirono una politica nebbiosa confondendo gli effetti e le cause. Da qui l’attuale impasse strategico da cui è tanto più difficile districarsi poiché l’equilibrio di potere locale è cambiato. Infatti, i suoi “emiri” algerini sono stati uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, Al-Qaeda-Aqmi non è più governata localmente da stranieri, ma dal tuareg Iyad ag Ghali. Tuttavia, e come avevo anche annunciato, questi ultimi finirono per prendere il controllo delle varie fazioni Tuareg per un periodo ufficialmente e artificialmente rivali. L’accoglienza personale che ha riservato a Kidal ai “jihadisti” recentemente rilasciati ha mostrato in modo eloquente che il nord del Mali è ora sotto il suo controllo.
È quindi con questa nuova realtà in mente che vanno analizzate e comprese le dichiarazioni del 14 ottobre dell’AQIM e del GSIM ( Support Group for Islam and Muslims ), due falsi nasi di Iyad ag Ghali, chiedendo la partenza di Barkhane attraverso la retorica bellicosa sulla lotta contro i “crociati”. Tuttavia, è soprattutto una nuvola di fumo destinata a non lasciare il campo aperto all’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) affiliato a Daesh e il cui leader regionale è Adnane Abou Walid al-Saharaoui, un arabo marocchino della tribù Réguibat. Questo ex quadro del Polisario, accusa di tradimento Iyad ag Ghali per aver privilegiato la rivendicazione Tuareg attraverso trattative con Bamako e ciò, a scapito del califfato transetnico per ingombrare gli attuali stati saheliani.
A meno che non si scelga deliberatamente la via dello stallo, questi recenti cambiamenti costringeranno i responsabili delle decisioni francesi a rivedere molto rapidamente le missioni di Barkhane. Altrimenti la guerra al nord si riaccenderà inevitabilmente e dovremo quindi affrontare un fronte aggiuntivo, quello dei Tuareg. Inoltre, poiché la “legittimità” del nostro intervento è diventata almeno “incerta” dopo il colpo di stato di Bamako lo scorso agosto, è quindi tempo di porre la questione della nostra strategia regionale nella SBS. (Banda sahelo-sahariana).
Si distinguono tre aree, ognuna delle quali merita un trattamento speciale:

– Nel nord del Mali dove, politicamente e militarmente, non abbiamo nulla da difendere, l’errore sarebbe quello di continuare a persistere in un’analisi basata sullo slogan artificiale della lotta al “terrorismo islamista” e di cui l’unico risultato sarebbe l’apertura delle ostilità con i Tuareg. In queste condizioni, poiché l’Algeria considera il nord del Mali come il suo cortile, lascia che i suoi servizi si adattino alle “sottigliezze” politiche locali, cosa che faranno tanto più facilmente perché non saranno paralizzati da i “vapori” umanitari che impediscono qualsiasi azione reale ed efficace sul terreno …

– La regione dei “tre confini” presenta un caso diverso perché è la chiusa del Burkina Faso e più a sud quella dei paesi costieri, compresa la Costa d’Avorio, con cui abbiamo accordi. Il nostro sforzo deve quindi concentrarsi lì attraverso il sostegno dato agli eserciti del Niger e del Burkina Faso.

– La regione del Ciad in senso lato, perché dobbiamo includere il Camerun e la Repubblica centrafricana, è una futura ampia zona di destabilizzazione. Ecco perché deve essere guardato con la massima attenzione. È quindi imperativo rafforzare la nostra presenza militare lì.

[1] Sono evidenziati e sviluppati nel mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours .

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA, di Giuseppe Angiuli

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA

DOPO UN PERIODO DI CRISI E DESTABILIZZAZIONE

 

A sinistra Luis Arce, nuovo Presidente della Bolivia e già ministro dell’Economia nei Governi a guida di Evo Morales

A destra nella foto, il nuovo vice-Presidente David Choquehuanca

 

Le elezioni presidenziali tenutesi in Bolivia domenica 18 ottobre 2020 hanno visto la chiara vittoria senza contestazioni di Luis Arce Catacora, candidato del M.A.S. – I.P.S.P. (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos), ministro di lungo corso nei governi diretti dell’ex Presidente Evo Morales.

Luis Arce, economista di solida formazione teorica, guiderà il Paese per i prossimi cinque anni e sarà affiancato dal suo vice David Choquehuanca, storico lìder dei movimenti contadini indigeni del Paese e già ministro degli Esteri con Evo Morales.

Queste ultime elezioni si sono celebrate in un clima di forte polarizzazione nel Paese andino e sono giunte al termine di un periodo di circa un anno contraddistinto da grande incertezza ed instabilità politica, dopo che l’ex Presidente Evo Morales (rimasto saldamente alla guida della Bolivia dal 2006 fino al 2019) era stato costretto a dimettersi a novembre dello scorso anno, appena dopo avere apparentemente vinto per la quarta volta consecutiva le elezioni presidenziali e quando le aspre contestazioni di piazza, unitamente alle pressioni dei vertici di Polizia e dell’esercito, lo avevano costretto alla fuga all’estero.

A partire dalla prima vittoria elettorale alla fine del 2005 di Evo Morales – soprannominato el indio, storico sindacalista dei contadini che abitano i vasti altipiani del Paese e primo Presidente indigeno (di etnia haymara) ad ascendere ai vertici di una nazione sud-americana – la Bolivia aveva imboccato un percorso politico di netta inversione di marcia rispetto al suo lungo passato di dominio coloniale ed aveva fornito un suo contributo decisivo al processo politico di integrazione continentale con gli altri Paesi del cono sur delle Americhe.

La Bolivia ha inscritta nel suo stesso nome tale propensione verso l’ideale dell’unità politica del sub-continente indio-latino e non per caso, circa due secoli fa, la nazione per un breve periodo era stata battezzata República de Bolívar, con un espresso riferimento alla figura mitica del libertador Sìmon Bolívar.

Anche in virtù del solido rapporto di amicizia che lo legava al compianto lìder venezuelano Hugo Chavez, Evo Morales non aveva avuto dubbi nel condurre la Bolivia all’interno del blocco dei Paesi latino-americani contraddistinti dal più enfatico radicalismo anti-U.S.A. e riuniti nell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América).

Da tale percorso politico, la Bolivia aveva tratto una forte spinta all’emancipazione dalla storica piaga del sottosviluppo e aveva saputo intraprendere con efficacia un programma di massiccia redistribuzione dei proventi delle sue copiose ricchezze naturali e minerarie, consentendo forse per la prima volta dopo secoli, alle componenti più povere della sua società, di riscattarsi socialmente e di recuperare un diffuso spirito di fierezza e dignità.

Alla base dell’azione politica di Evo Morales e del Movimiento al Socialismo (un movimento politico da lui stesso fondato nel 1997) vi è sempre stata una miscela ideologica sincretica data dalla fusione di alcuni principi del marxismo classico con gli storici ideali del nazionalismo indigeno latino-americano: nella comunicazione politica del M.A.S., assume da sempre una consueta centralità il richiamo alla necessità di recuperare una piena sovranità del popolo boliviano rispetto alle entità straniere che storicamente lo hanno sottomesso e umiliato, depredandolo delle sue risorse umane e materiali.

L’avvento di Morales alla Presidenza aveva dunque segnato un complessivo rovesciamento del paradigma di rappresentanza degli interessi interni al Paese, avendo egli messo al centro del suo programma per la prima volta i diritti delle popolazioni rurali di origine dell’altopiano andino – in particolare le rivendicazioni dei piccoli poveri contadini cocaleros, ossia i coltivatori di coca, una pianta tipica della cultura andina – e non più gli interessi delle componenti elitarie di etnia bianca indo-europea, da lungo tempo assolute dominatrici nella conduzione della politica e del modello economico  estrattivista del Paese.

Erano state proprio queste elites bianche di origine europea, molto presenti soprattutto nell’area industrializzata della città di Santa Cruz de la Sierra e da sempre assai legate agli U.S.A., a non digerire fin dal primo istante l’ascesa di Morales alla più alta carica governativa del Paese nel 2006: fin da quel momento, le classi dirigenti di quella ricca regione dell’est della Bolivia avevano pertanto dato vita ad una forte conflittualità e ad una radicale delegittimazione delle scelte del Governo centrale di La Paz, non mancando di alimentare anche delle pericolose spinte secessioniste.

Evo Morales, Presidente della Bolivia dal 2006 al 2019

 

Il primo evento di grande impatto simbolico che aveva suggellato l’avvio del nuovo corso della Bolivia era stato senz’altro l’avvento della nuova carta costituzionale nel 2009, allorquando il Paese aveva assunto per la prima volta la denominazione di Stato plurinazionale di Bolivia, a testimonianza della composizione pluri-etnica e del carattere multi-culturale della sua popolazione[1].

Con lo storico passaggio a tale nuova dominazione ufficiale dello Stato e con l’approvazione della nuova Costituzione indigenista (che presenta non pochi punti di contatto con le coeve nuove carte costituzionali adottate da Venezuela ed Ecuador), la nuova Bolivia di Morales aveva dunque segnato il riconoscimento della sua natura di Stato di diritto unitario, plurinazionale e comunitario fondato sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico.

 

Non per caso, fin dai suoi primi articoli la nuova carta costituzionale del 2009 menziona espressamente le nazioni e i popoli indigeni quali originari abitanti della Bolivia pre-coloniale e sancisce il diritto di tali componenti autoctone alla conservazione di alcune sfere intangibili di autonomia politico-amministrativa, al mantenimento della loro cultura originaria e ad esercitare delle forme di autogoverno tramite il riconoscimento di istituzioni proprie e tramite il consolidamento di entità territoriali autonome pur nel quadro di una pacifica convivenza all’interno dell’unità statale.

In altri passaggi della stessa magna carta, non manca una espressa consacrazione del diritto inalienabile delle comunità autoctone alla proprietà collettiva sulle terre ancestrali.

Come è tristemente noto, i percorsi rivoluzionari ispirati da una forte spinta ideologica di stampo egualitario  partono quasi sempre con degli ottimi propositi ma molto spesso – non soltanto alle latitudini latino-americane –  non riescono a raggiungere gli auspicati risultati in termini di benessere e sviluppo economico.

Anche in tempi recenti, altre esperienze di Governo delle sinistre in America Latina – tra tutte il Venezuela e il Brasile – a dispetto dei proclami enfatici di marca anti-imperialista, non sono state in grado di promuovere la nascita di nuovi modelli di sviluppo efficienti e dalle gambe solide.

Viceversa, nel caso della Bolivia di quest’ultimo quindicennio, pur senza volere indulgere verso qualsiasi atteggiamento di faziosità ideologica, è lecito senz’altro affermare che l’esperienza dei Governi a guida socialista non aveva oggettivamente deluso le attese anche sul terreno socio-economico, facendo conseguire al Paese degli indici di sviluppo e di crescita economica – pari a circa il 5% annuo in media – davvero invidiabili e che trovano difficilmente un riscontro all’interno di analoghi contesti nazionali dei Paesi latino-americani di questo XXI° secolo.

Nello stesso periodo, secondo i dati generalmente accettati dalla comunità internazionale e dalle principali testate giornalistiche del globo, i governi a guida del M.A.S. erano riusciti a mantenere sotto controllo sia l’inflazione che il tasso di disoccupazione e inoltre erano stati in grado di ottenere una drastica riduzione dell’indice di povertà interno al Paese: sotto quest’aspetto, è significativo ricordare che nel giugno del 2015, in occasione della 39^ Conferenza Generale della F.A.O. (organismo delle Nazioni Unite che si occupa di elaborare programmi per l’alimentazione e per lo sviluppo dell’agricoltura), il Governo boliviano era stato insignito del riconoscimento ufficiale per avere saputo ridurre di più della metà il dato percentuale della popolazione sotto-alimentata, che era passato dal 34% al 15% prendendo in esame un periodo compreso tra il 1990 ed il 2015.

Il celebre incontro tra Evo Morales e Papa Bergoglio nel 2015

 

Altrettanto significativo e per certi versi clamoroso era stato il riconoscimento pervenuto in tempi non sospetti ai governi socialisti a guida di Morales – che avevano visto proprio nell’attuale neo-Presidente Arce lo stratega della crescita economica nella sua qualità di ministro per l’Economia – perfino dalle colonne del Wall Street Journal, che nel 2014 aveva definito Luis Arce «il principale architetto del risorgimento economico del Paese»[2].

Tra le più significative misure di marca anti-liberista adottate negli anni di Governo a guida di Evo Morales va senz’altro segnalata la nazionalizzazione non solo dei giacimenti di gas naturale e di idrocarburi ma anche delle riserve di preziosi minerali e metalli strategici come litio, stagno e cobalto, oltre alla completa ri-pubblicizzazione delle risorse idriche del Paese, che prima dell’avvento dei governi di marca socialista erano finite anch’esse nel mirino delle società multinazionali, dando vita ad un forte rincaro dei costi di accesso all’acqua e così scatenando la protesta di ampie fasce del popolo boliviano.

L’immenso deserto di sale Salar de Uyuni in Bolivia, la più grande riserva di litio al mondo

 

Nel 2016, Evo Morales aveva provato a fare approvare con referendum consultivo una modifica alla Costituzione con l’obiettivo di consentire a se stesso di lanciarsi in una quarta ricandidatura consecutiva alle elezioni presidenziali (non permessa dalla magna carta da lui stesso promossa).

In quell’occasione, il popolo boliviano, votando a maggioranza per il NO al referendum costituzionale, aveva inviato al lìder un chiaro messaggio di presa di distanza dalla deriva auto-referenziale del suo potere personale.

Nell’occasione, si era registrato l’errore politico più evidente di Evo Morales, forse dettato da un suo eccesso di sicurezza e di spavalderia: il Presidente indio, anziché accettare di buon grado il responso dell’elettorato, aveva inaspettatamente forzato la mano, rivolgendosi alla Corte Suprema della Bolivia, dinanzi alla quale era riuscito a fare affermare il discutibile principio per cui il diniego alla sua possibilità di ri-presentarsi ancora una volta alle elezioni presidenziali avrebbe costituito una presunta «violazione dei suoi diritti umani» (sic).

Questa inaccettabile forzatura costituzionale aveva costituito la più imperdonabile delle sviste per Evo Morales ed aveva messo a rischio il funzionamento dei meccanismi di partecipazione democratica nel Paese, facendolo scivolare verso forme di caudillismo nella sua accezione deteriore (una strada già tristemente seguita dall’attuale Venezuela di Maduro).

Un vero peccato per il Presidente indigeno il quale, pure avendo bene governato per circa un quindicennio, non aveva saputo resistere alle tentazioni personalistiche e col suo comportamento aveva purtroppo creato un primo serio vulnus nel rapporto di fiducia fino ad allora sapientemente instaurato con la maggioranza della popolazione boliviana.

Morales in compagnia di Hugo Chavez e Rafael Correa

 

 

Alle elezioni presidenziali del 20 ottobre 2019, Morales si era dunque ri-presentato agli elettori provando ad essere ri-eletto per la quarta volta consecutiva.

Al termine del processo di conta dei voti, che aveva subito un andamento anomalo per via di alcuni poco facilmente spiegabili rallentamenti, secondo i dati diffusi dal C.N.E. (Consiglio Nazionale Elettorale) il Presidente uscente avrebbe conseguito il 47,08% dei voti contro il 36,51% del suo principale rivale e con tale scarto di voti, superiore al 10% dei votanti, non ci sarebbe stato bisogno di celebrare un secondo turno di ballottaggio ma Morales sarebbe stato rieletto Presidente al primo turno per la quarta volta consecutiva.

A quel punto, la sua controversa quarta proclamazione come Presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia non era stata riconosciuta dalle opposizioni che, forti del sostegno esterno di Luis Almagro e della Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A.) da lui presieduta, avevano presto incitato alla rivolta di piazza, da cui era scaturito un clima di forte polarizzazione dello scontro politico, con scontri violenti nelle principali città del Paese andino che in pochi giorni avevano provocato almeno alcuni morti e diverse centinaia di feriti.

In seguito, in un clima di aspra contestazione del risultato che non accennava a placarsi, a convincere Evo Morales ad annunciare il 10 novembre 2019 le sue dimissioni dalla carica presidenziale, aveva assunto una valenza decisiva la pressione esercitata su di lui dai vertici delle Forze Armate e della Polizia, che avevano disconosciuto la validità della sua rielezione, mettendo così in atto, in forme analoghe a quanto già avvenuto nella storia più recente dei Paesi dell’America Latina, una sorta di Golpe morbido istituzionale.

Al momento di lasciare il suo Paese per rifugiarsi momentaneamente in Messico e per poi stabilirsi in Argentina, Evo Morales aveva denunciato al mondo di essere stato costretto a rinunciare alla sua carica a causa di un «colpo di Stato».

 

Un’immagine delle proteste di piazza in Bolivia dopo la deposizione di Evo Morales nel novembre 2019

 

 

La defenestrazione repentina di Evo Morales – come detto, senza dubbio favorita da un suo evidente errore politico – si era inserita in un vasto disegno di destabilizzazione dell’arco dei Governi progressisti dell’America Latina messa in agenda in questi ultimi anni dal Dipartimento di Stato U.S.A., con l’obiettivo di disarticolare quel processo di integrazione politica su base continentale che aveva preso vita nel primo decennio di questo secolo sotto il decisivo impulso del compianto Presidente venezuelano Hugo Chavez.

Nel corso del mandato presidenziale di Donald Trump alla Casa Bianca, l’amministrazione in carica a Washington, quantunque abbia sposato in molti casi un approccio più soft alla sua politica estera in aree lontane come il medio oriente e la Corea del Nord, ha palesato la consapevolezza sulla necessità di riassumere al più presto possibile il pieno controllo politico di quell’ampia area compresa tra il fiume Río Bravo e la Patagonia e che già 2 secoli fa veniva ufficialmente considerata dall’establishment U.S.A. come il proprio «backyard» («il cortile di casa»), secondo una celebre definizione data dal Presidente James Monroe nel 1823.

James Monroe, Presidente degli Stati Uniti d’America tra il 1817 e il 1825

 

Se tale esigenza di asservimento geopolitico dell’intera America Latina ha costituito da sempre un punto irrinunciabile per la proiezione imperiale degli U.S.A., tanto più la riassunzione di un pieno controllo sul subcontinente latino-americano ha necessitato di essere ribadita con forza in questi ultimi tempi, quando i consiglieri più in sintonia con Trump – sul punto in dissenso con i vertici del Pentagono – si sono convinti della insostenibilità per gli Stati Uniti della compresenza di troppi fronti di guerra in giro per il globo e sulla conseguente inevitabilità di un parziale e progressivo rientro a casa delle forze armate regolari già dislocate in alcune aree-chiave del pianeta (Siria e Afghanistan su tutte).

Sta di fatto che la netta vittoria popolare alle elezioni in Bolivia del 20 ottobre 2020 del nuovo Presidente socialista Luis Arce, successore espressamente designato da Evo Morales (oggi ancora in esilio in Argentina), sta a dimostrare che per gli U.S.A. forse è ormai davvero finito il tempo in cui in una qualsiasi nazione dell’America Latina bastava registrare una qualche sintonia di intenti tra i vertici dell’esercito e una ristretta elite indo-europea per sequestrare la volontà di un intero popolo, ancorchè questo fosse desideroso di voltare pagina: in questo senso, gli esempi di Governi filo-U.S.A. impostisi in America Latina nel secolo scorso per il semplice volere di falchi come Henry Kissinger sono innumerevoli, a cominciare dalla triste dittatura militare nel Cile di Augusto Pinochet.

 

Il popolo boliviano – che ha dovuto attendere quasi un anno per poter tornare ad esprimersi nelle urne, dopo che le elezioni già fissate al 3 maggio 2020 erano poi state rinviate per l’emergenza sanitaria da Covid –  avendo tributato dei generosi consensi pari al 52% a favore di Luis Arce, con circa 20 punti di distacco dal principale sfidante di destra, ha senza dubbio inteso esprimere un forte desiderio di continuità con le politiche anti-liberiste e di segno integrazionista che avevano contraddistinto quasi un quindicennio di azione politica di Evo Morales.

Vista la profonda sintonia di vedute tra il neo-Governo progressista boliviano e quelli dello stesso orientamento politico già al potere in Argentina e in Messico, adesso il quesito che resta da sciogliere è quale futuro attende il continente latino-americano, alla luce di un quadro politico alquanto variegato e composito, che ad oggi contraddistingue l’intera regione a sud del Rìo Bravo.

 

 

Giuseppe Angiuli

[1] All’articolo 8 della nuova Costituzione dello Stato plurinazionale di Bolivia, si legge: «Lo Stato si fonda sui valori di unità, uguaglianza, inclusione, dignità, libertà, solidarietà, reciprocità, rispetto, complementarità, armonia, trasparenza, equilibrio, pari opportunità, uguaglianza sociale e di genere nella partecipazione,
benessere comune, responsabilità, giustizia sociale, distribuzione e ridistribuzione dei
prodotti e beni sociali, per vivere bene
».

[2] Cfr.  l’articolo a firma di John Otis, «Luis Alberto Arce, l’uomo dietro il successo di Evo Morales», The Wall Street Journal, 9 ottobre 2014.

 

La stabilità della politica estera nel caos politico, di George Friedman

Qualcosa di simile non è accaduto anche all’impero romano? Lo scontro politico interno, le guerre civili e i chiarimenti hanno dato linfa ed energia alla costruzione dell’impero, ma ne hanno anche determinato la fine in altre circostanze. L’attuale conflitto interno agli Stati Uniti sta assumendo sempre più le caratteristiche di qualcosa di endemico_Giuseppe Germinario

https://geopoliticalfutures.com/the-stability-of-foreign-policy-amid-political-chaos/?tpa=OTk3NzE1ZWYxNDlhN2RhYWNiMmRlZTE2MDM4OTkzNDFjYmFiNDc&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fthe-stability-of-foreign-policy-amid-political-chaos%2F%3Ftpa%3DOTk3NzE1ZWYxNDlhN2RhYWNiMmRlZTE2MDM4OTkzNDFjYmFiNDc&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

La stabilità della politica estera nel caos politico

Negli anni ’70, il presidente Richard Nixon entrò nel caos politico e sociale provocato dall’amministrazione Johnson e lo aggravò sostanzialmente. Quindi, quando ho visitato l’Europa durante la fine degli anni di Nixon, tutto il discorso riguardava il declino degli Stati Uniti. Ciò era in parte dovuto alla guerra del Vietnam, ma anche a crisi politiche come il Watergate. Dal punto di vista europeo, la sconfitta in una guerra di sette anni, unita a profonde divisioni nella politica americana, potrebbe solo significare il declino dell’America. (Ricorda che molti americani hanno continuato a sostenere Nixon fino alla fine, accusando i media ei suoi nemici di aver cercato di abbatterlo.)

Allo stesso tempo, Nixon stava gettando le basi di una politica estera che sarebbe rimasta in vigore fino alla fine della Guerra Fredda. Aveva tre elementi. La prima è stata l’intesa con la Cina. La guerra del Vietnam aveva indebolito le forze armate statunitensi. Nixon ha ribattuto che entrando in una relazione con la Cina. I cinesi avevano combattuto i sovietici in battaglie lungo il fiume Ussuri. Erano allarmati dall’indebolimento degli Stati Uniti quanto lo erano gli europei. Qualunque cosa fosse segretamente concordata, i sovietici dovevano presumere che includesse un certo grado di coordinamento.

Il secondo fondamento era la distensione con l’Unione Sovietica. All’inizio degli anni ’60, gli Stati Uniti e i sovietici avevano giocato una partita spericolata. L’intesa raggiunta con i sovietici non contraddiceva il rapporto con la Cina e, di fatto, si è costruita su di essa. Se gli Stati Uniti avessero un’intesa con la Cina, anche i sovietici ne avrebbero avuto bisogno, altrimenti avrebbero potuto essere intrappolati tra Stati Uniti e Cina. La distensione ha creato canali per eliminare i conflitti tra i due paesi e ha formato un’intesa, per lo più seguita, per evitare conflitti che potrebbero degenerare in uno scontro.

La terza fondazione stava creando un quadro per la pace tra Israele ed Egitto che rendesse impossibile una guerra convenzionale arabo-israeliana. Ciò è stato accelerato dall’attacco di Egitto e Siria a Israele e dalla conclusione di una guerra che ha richiesto un incontro diretto tra ufficiali egiziani e israeliani, con Henry Kissinger presente. Il presidente egiziano Anwar Sadat era l’architetto, ma gli americani erano garanti fondamentali. Ciò ha portato alla fine agli accordi di Camp David, al ritiro di Israele dal Sinai e al posizionamento delle truppe statunitensi con sede nel Sinai come cuscinetto.

L’accordo con la Cina è rimasto in vigore anche dopo la morte di Mao Zedong. (Probabilmente, è durato fino a tempi molto recenti.) La distensione tra Washington e Mosca è rimasta in vigore fino al collasso dell’Unione Sovietica. L’accordo egiziano-israeliano continua ad essere il garante di quanta stabilità ci sia nella regione. Molto di questo è emerso nel tempo, ma le basi sono state gettate negli anni di Nixon, nonostante tutto il caos politico e l’imminenza della sua impeachment.

Tali momenti di ristrutturazione non si verificano spesso. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, una politica estera di comprensione universale che esisteva sotto il presidente Bill Clinton è crollata nel 2001. Sotto il presidente George W. Bush, l’attenzione degli Stati Uniti era su al-Qaeda e sui suoi potenziali benefattori. La politica degli Stati Uniti nel resto del mondo era in gran parte basata sul pilota automatico, o modellata per concentrarsi sulla minaccia dell’Islam radicale.

Non è stato fino al presidente Barack Obama che è stato posto il tempo libero e la necessità di una nuova fondazione. Il primo fondamento è stato la fine o almeno una presenza statunitense drasticamente ridotta in Afghanistan e Iraq, e il rifiuto di entrare in conflitto in modo simile nella regione. Gli Stati Uniti sarebbero rimasti politicamente coinvolti ma ovviamente, senza una presenza militare, il coinvolgimento politico significava meno. Per Obama, il problema principale era l’esposizione degli Stati Uniti agli eventi nella regione, non gli eventi stessi.

Il secondo fondamento era affrontare la Russia senza rischiare la guerra con essa. In particolare, voleva limitare l’influenza russa, soprattutto in Europa. Ciò è stato innescato dalla guerra russa del 2008 con la Georgia, un conflitto che ha segnato un drammatico cambiamento nella politica russa. La risposta americana è stata quella di imporre sanzioni alla Russia e di sostenere i movimenti anti-russi in paesi come l’Ucraina.

Infine, sulla Cina, Obama ha avviato una politica per sfidare Pechino su questioni come l’accesso delle merci statunitensi al mercato cinese, la manipolazione cinese del valore della sua valuta e una serie di altre questioni. I cinesi non erano cooperativi, ma durante la sua amministrazione una serie di incontri tesi portarono ad aprire tensioni nelle relazioni USA-Cina. Obama non ha agito su queste tensioni, ma ha gettato le basi per gli eventi se la Cina fosse rimasta rigida.

Non è chiaro quanto dureranno queste fondamenta. Come Obama, il presidente Donald Trump ha ridotto il coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, con alcune eccezioni. Ha continuato la politica di imporre sanzioni sostenendo paesi anti-russi come Polonia e Romania. Trump ha esteso la posizione di Obama sulla Cina imponendo tariffe, una mossa che è stata considerata ma non eseguita da Obama.

Come per la fondazione Nixon, le fondamenta di Obama sono state gettate in un momento in cui l’instabilità politica ribolliva sotto la superficie, come evidenziato dall’elezione di Trump. Ed è stato derivato dall’agenda pressante che la nazione deve affrontare piuttosto che da un capriccio o un’ideologia. Ha sollevato l’impronta degli Stati Uniti in Medio Oriente, ha utilizzato strumenti limitati per contenere la Russia e ha affrontato la Cina. Nonostante tutto il dramma, Trump ha semplicemente costruito su queste basi. Molti dei suoi sostenitori negherebbero con veemenza che Obama abbia creato gli aspetti più importanti delle sue politiche, proprio come i nemici di Trump negherebbero che le politiche di Trump assomigliano in qualche modo a quelle di Obama. Ma poi, il presidente Jimmy Carter non voleva davvero ammettere che gli accordi di Camp David furono generati da Nixon.

C’è ciò che è necessario per la politica estera di una nazione e ciò che è necessario per la sua politica interna. Creano una grande tensione, vista dall’esterno come la fine del potere americano. In realtà è una delle radici del suo potere. La politica estera condotta dagli Stati Uniti è modellata dalla realtà del mondo. La politica in cui si impegna si basa sulle realtà sociali. È difficile vederlo quando succede. Ma quando guardiamo indietro a Nixon e ricordiamo che era un periodo come il nostro, possiamo vederlo in azione. Ma in un momento di reciproco disgusto e disprezzo, come c’era alla fine degli anni ’60 e ’70, l’idea che un criminale come Nixon, oi suoi feroci nemici, potessero agire con prudenza è inaccettabile. Ma in questo mondo alcune cose sono impossibili e altre no, e il mondo non è sottile. Non importa quante cose impossibili vengono tentate,

Ci sono tre punti che sto sottolineando. Il primo è che le turbolenze politiche degli Stati Uniti non sono incompatibili con una politica estera stabile. Il secondo è che c’è più continuità nella politica estera di quanto ci si potrebbe aspettare nel tempo. Il terzo è che, a parte due esempi recenti, abbiamo assistito a una tale continuità dopo la seconda guerra mondiale con disordini politici intermittenti. All’interno, l’America potrebbe sembrare in fiamme. All’esterno, può essere ingannevolmente stabile. Ovviamente, c’è un numero enorme di altri problemi sul tavolo in qualsiasi momento, ma pochi che definiscono le generazioni.

Cultura strategica americana di fronte alle guerre in corso, di Vincent Desportes

Dopo quella inglese è la volta di trattare della strategia militare statunitense. Qui sotto la traduzione di un articolo tratto da https://www.revueconflits.com/etats-unis-conflits-armes-culture-strategique-vincent-desportes/ Giuseppe Germinario

È chiaro che, per mezzo secolo, gli Stati Uniti hanno lottato per raccogliere i frutti dei loro enormi investimenti nel loro strumento militare. Dal Vietnam all’Afghanistan passando per l’Iraq, impegni incessanti ma molti più risultati negativi dell’efficacia strategica. Il modello militare americano è in un vicolo cieco?

Al centro delle difficoltà militari degli Stati Uniti, troviamo sempre il paradigma neo-clausewitziano, alla convergenza di un Jomini affermato e un Clausewitz reinterpretato, unito a una determinante esperienza storica. La cultura strategica americana è strutturata attorno a questo patrimonio di un mondo che è scomparso e la cui idea centrale è che tutti i conflitti possono essere pensati in relazione a una forma centrale: la guerra interstatale con una concentrazione infinita di potenza (1) . Oggi, mentre la diversità delle crisi rende molto spesso questo paradigma inoperante sia per la comprensione che per l’azione, le forze armate americane sono impotenti … e si stanno ritirando dal mondo, il che non è una buona notizia. per quest’ultimo !

Colpisci velocemente, vinci velocemente e senza perdite, disimpegnati

L’americano Hoffman resta rilevante quando descrive la tradizione americana di overkill strategico, concentrato in stile diretto verso la distruzione dell’avversario: “  Gli eserciti americani mostrano una particolare predisposizione per offensive di portata strategica supportate da una mobilitazione completa. nazionale, utilizzando le capacità economiche e tecnologiche della nazione per impegnarsi nella prepotenza nel modo più diretto e deciso possibile (2) . “

L’America vuole vincere rapidamente con forze che, massicciamente o brutalmente offrendo un alto livello di violenza, consentono un’azione vivace, montanti abbaglianti e un ritorno alle solite preoccupazioni. L’azione tradizionale è quindi un’azione “al potere” volta a sopraffare il nemico in numero: prendere piede e riversare forza. Se la tendenza è ora verso le forze di alleggerimento, è perché la tecnologia permette di mantenere il principio generale accentuando ulteriormente l’effetto attraverso la velocità del colpo: il colpo aumenta di efficienza perché “l’energia cinetica », Il rapporto« energia scaricata / tempo di azione », migliora. La tecnologia può cambiare i mezzi di azione e le modalità di attuazione, l’idea rimane la stessa: colpire velocemente, vincere velocemente e senza perdite, disimpegnarsi.

Leggi anche:  Iraq, la guerra per procura degli Stati Uniti

Dopo tanti anni (3) passati a concentrarsi sulle guerre convenzionali, la tendenza era quella di pensare alle insurrezioni come “guerre modello” con il rischio di non essere in grado di applicare modelli e principi teorici ad esse opposti. cultura tradizionale. Secondo John Nagl, ” [l’idea che] qualsiasi nemico su qualsiasi campo di battaglia può essere sconfitto, a condizione che uno abbia abbastanza potenza di fuoco e uno abbia completa libertà. per applicarlo, ha impedito qualsiasi evoluzione istituzionale di fronte alla guerra di controinsurrezione in Vietnam  ” (4); continua a farlo. Da qui le difficoltà di adattamento agli impegni attuali. Questi ultimi, ad esempio, pretendono che l’iniziativa prevalga a piccoli livelli ma rimanga gestita in gigantesche sedi operative costituite da “innumerevoli file di scrivanie coperte di computer” e inserite “in basi giganti che difficilmente incoraggiano le persone a fare affari. immersione culturale ”come la descrive Thomas Ricks (5) .

 

Inoltre, la tradizione americana non supporta le perdite quando sembrano sproporzionate rispetto agli interessi immediati. Si tratta quindi di disegnare modelli di forze, armamenti e strategie, che salvano il sangue. Troviamo quindi una tendenza generale: evitare il contatto, poiché il contatto uccide. Da qui la priorità data al fuoco sullo shock e sui generosi bombardamenti, al centro dell’azione americana, che hanno portato sia in Iraq che in Afghanistan un’estensione e radicalizzazione dei gruppi armati. Da qui il posto importante dei mezzi di bombardamenti, terra e aria, come l’enfasi posta sul stand-off armi(a distanza) permettendo di rimanere fuori dalla portata dell’avversario. Da qui, anche, la ricerca di dottrine occupazionali che permettano di evitare il più possibile gli schieramenti di terra che – giudiziosi a livello tattico e penalizzanti a livello strategico – si sono rivelati controproducenti negli odierni campi di guerra. .

Goffaggine e rifiuto per disinteresse

L’ancora forte tradizione che l’unica vera guerra sia la “grande guerra” e che altre forme di guerra non siano degne degli eserciti americani, guida sia le autorità politiche che il comando – contagiate dalle sindromi del Vietnam e Somalia (”  Non facciamo insurrezioni  “) – per evitare guerre che non siano ”  guerre a tutto campo  ” (letteralmente “guerre profonde”): sono viste come problemi minori che distraggono dalla vera professione.

Da qui questa tendenza, ”  per molti, ad aderire fortemente al dogma che l’America dovrebbe condurre solo grandi guerre convenzionali, a preferire accumulare armi ad alta tecnologia in attesa del giorno in cui i nemici si lanceranno in questo tipo di guerra. dove eccelle, nel non riconoscere le insurrezioni come guerre reali  ” (6) , quindi nel non capire che la” guerra reale “, la guerra combattuta oggi e domani, è davvero” guerra reale “( guerra reale contro la vera guerra ).

Quindi, la soglia del XXI °  secolo, un piccolo numero di agenti con gravi conoscenza di questo tipo di confronto, e invece, una certa attrazione ”  per la grande manovra cinetico  ‘ (7) , la culto dell’offensiva e dello schiacciamento con la massiccia applicazione della forza letale. Purtroppo oggi questi passi che mirano all’annientamento dei “terroristi e ribelli” provocano la resistenza e la radicalizzazione della popolazione locale, in particolare a causa dei “danni collaterali” che generano.

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Le strutture delle forze armate e lo stato d’animo non incoraggiano i militari a impegnarsi in conflitti non convenzionali dove l’azione, circondata da vincoli politici, non ha l’obiettivo di distruggere. Le forze americane si impegnano solo per vincere. Per fare ciò, intendono sfruttare appieno i loro vantaggi comparativi, massa e tecnologia. Tuttavia, la tecnologia richiede che gli obiettivi vengano visti e distrutti; non si applica bene agli ambigui campi di guerra dei conflitti asimmetrici. Da lì, inoltre, la riluttanza degli eserciti americani a impegnarsi contro l’Iraq per paura di non poter sfruttare i loro essenziali vantaggi comparativi e quindi di essere coinvolti alla fine del conflitto in una lunga missione di stabilizzazione a cui non appartengono. erano impreparati e sentivano di distoglierli dalla loro missione essenziale. Queste riserve sono state espresse chiaramente alPresidente Bush dal generale Tommy Francks, capo delle operazioni, nonché dai capi di stato maggiore dei quattro eserciti, esercito, marina, corpo dei marine e aeronautica e dal segretario di stato Colin Powell, ex capo di Joint Staff, e da ex grandi leader militari, in particolare il generale Schwarzkopf, comandante in capo durante la prima guerra del Golfo.

La “tatticizzazione” della strategia

L’americano James S. Corum osserva, insieme a molti altri, che “  la fede nel determinismo tecnologico è al centro della moderna cultura militare americana, questa preferenza per approcci scientifici e high-tech è diventata estrema dagli anni ’70. false illusioni conferite dalla vittoria del 1991 nel Golfo  ” (8) . Questa deriva, confermando la tendenza positivista descritta a monte, ha finito per far credere alle persone che la tecnologia potesse prendere il posto della strategia.

Ciò porta a questa “tatticizzazione della strategia” denunciata da Michael Handel, cioè ”  alla definizione della strategia mediante considerazioni operative di livello inferiore  ” (9) . Questa ossessione per il successo tecnico e tattico a scapito del pensiero strategico e della finalità è particolarmente dannosa nelle guerre odierne dove la dimensione politica prevale su qualsiasi altra: la qualità del ragionamento strategico, cioè, vale a dire, la definizione delle modalità secondo la finalità politica e la fine comprensione dell’altro, risulta essere una condizione fondamentale per il successo.

Oggi possiamo solo rimpiangere che, sebbene l’avversario iracheno ovviamente non rappresentasse una minaccia significativa, lo staff del CENTCOM incaricato di preparare l’invasione dell’Iraq si è concentrato quasi esclusivamente sulle dimensioni tattiche e operativi, abbandonando i ben più complessi problemi del “giorno dopo”, trascurando di raccogliere i mezzi, umani in particolare (10) , necessari per la sicurezza immediata del Paese. Ha così subito posto l’Iraq e gli Stati Uniti in una situazione catastrofica da cui non è ancora certo di essere usciti sette anni dopo la facile vittoria tattica iniziale. Ma CENTCOM non aveva fatto di meglio per l’Afghanistan: “Dopo la caduta di Kabul e Kandahar, non esisteva ancora una seria pianificazione volta a stabilire la stabilità politica, sociale ed economica in Afghanistan ” , afferma la prima storia ufficiale (11) della guerra.

Non basta vincere i primi combattimenti, devi vincere alla fine.

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