INCONTRI DEL PRIMO TIPO, di Antonio de Martini

INCONTRI DEL PRIMO TIPO
Il Washington Post ha annunziato un nuovo mega contratto russo con l’Iran che minaccia di migliorare la posizione strategica iraniana e quella dei suoi alleati.
Il sistema satellitare Canopus-V dotato di una attrezzatura fotografica e di rilevamento ben più efficace e rapida dei mezzi a disposizione dell’Iran oggi.
L’imminente entrata in azione di questo strumento permetterebbe – ad esempio- all’hezbollah o agli houtis- di non essere piu colti di sorpresa e di tenere sotto controllo le basi israeliane da cui potrebbero partire azioni offensive.
La diffusione di questa notizia negli USA, nel silenzio russo e iraniano, significa che al dipartimento di stato prevale la corrente di pensiero che rifiuta l’ipotesi di fare richieste aggiuntive agli iraniani al negoziato di Vienna sul “rientro USA nell’accordo nucleare” come suggerito da alcuni falchi che sottovalutano la determinazione iraniana a non cedere e il fair play russo che continua a fornire solo mezzi difensivi.
Se la Russia rompesse il tacito accordo con Washington e fornisse il sistema antiaereo S400 a Teheran, cambierebbe significativamente la situazione strategica con Israele e nell’area.
Ecco un dossier serio – come quello cinese- sul tavolo della bilaterale russo americana di mercoledi invece che le chiacchiere sulla Crimea, l’Ucraina e i diritti umani ad uso delle folle.

Acqua: un prezioso know-how, di Jean-Baptiste Noé

In economia questo si chiama bene negativo, vale a dire un bene di cui ci accorgiamo dell’esistenza quando è scomparso. Questo è il caso della sicurezza e della pace, è anche il caso dell’acqua potabile. Se non c’è niente di più normale che aprire un rubinetto per fare la doccia o bere un bicchiere d’acqua, questo gesto quotidiano e innocuo è recente.

Acqua: un prezioso know-how

In Francia, cento anni fa, un gran numero di villaggi non aveva ancora l’acqua corrente. L’accesso all’acqua e il controllo della fonte sono stati oggetto di molti drammi e il retroscena di Jean de Florette e Manon des Sources di Marcel Pagnol. Senza acqua potabile, niente vita. Senza un sistema di approvvigionamento idrico, non c’è industria né agricoltura. Nel suo ultimo libro, Guerra e acqua . L’acqua, una questione strategica nei conflitti moderni(Robert Laffont, 2021), Franck Galland risale alle battaglie del 1914 quando l’acqua era essenziale per rifornire le truppe. Anche oggi gli eserciti in proiezione devono provvedere all’approvvigionamento dell’acqua, o che provenga dall’esterno, o che provenga da pozzi. Non c’è operazione riuscita senza collegamento all’acqua.

L’acqua non è una risorsa naturale, ma la dimostrazione della volontà politica e del genio umano. Molti territori hanno un trabocco d’acqua e tuttavia mancano di acqua per la loro popolazione. È il caso del Brasile, compreso San Paolovive in condizioni di stress idrico, quando questo paese è tuttavia un enorme serbatoio d’acqua ed è attraversato da uno dei fiumi più grandi del mondo. Idem nell’Africa tropicale: se l’acqua cade dal cielo, non scorre nei rubinetti. Al contrario, l’Andalusia, sebbene una regione arida, ha saputo molto presto come padroneggiare l’approvvigionamento e l’irrigazione per diventare un frutteto della Spagna. Con i loro acquedotti ancora visibili, i romani erano padroni dell’approvvigionamento idrico. In materia acquatica, non ci sono paesi privilegiati e paesi trascurati, ci sono paesi che sanno padroneggiare e sviluppare tecniche e quelli che sono rimasti indietro. Arabia Saudita e Qatar stanno sviluppando impianti di desalinizzazione, Singapore ricicla le sue acque reflue per renderle sicure al consumo, quando ancora sconsigliato, in una città come Mosca

Leggi anche:  Podcast – La guerra dell’acqua. Franck Galland

L’acqua potabile non è gratuita .

Trattare l’acqua, trasportarla e riciclarla ha un costo. Le grandi aziende sono molto brave a farlo, comprese Suez e Veolia in Francia. Si tratta di lavori tecnici, impegnativi, specializzati che richiedono un’elevata padronanza tecnologica. Città del Capo e Roma, per non aver mantenuto le proprie tubature e dighe, sono state vittime di penuria d’acqua e tagli. È fin troppo facile dare la colpa di questo al cambiamento climatico, quando i veri colpevoli sono politici avventati e demagoghi a breve termine. La mancata manutenzione dei tubi consente un breve risparmio e quindi abbassa i prezzi. Politicamente intelligente a breve termine, questa tattica si è conclusa in un dramma dieci anni dopo, quando i tubi e le infrastrutture sono diventati fatiscenti e obsoleti.

La vera guerra dell’acqua è quindi prima di tutto tecnologica. Acqua riciclata, desalinizzata, pompata in profondità, deviata o riservata, ci sono molti modi per essere in grado di fornire acqua alle megalopoli, affidandosi a società ad alte prestazioni che padroneggiano questi complessi traffici. Per aver fatto la scelta di un accentramento amministrativo dell’acqua, gli Stati americani sono regolarmente posti in stress idrico, in particolare in California. I tubi sono fatiscenti, spesso piombo, che causa gravi problemi sanitari, come in Flintnel Michigan. È un dibattito importante, anche se oscurato, che forse Joe Biden prenderà sul serio, lui che ha un “Mr. Water” nella sua squadra. La Cina sta anche affrontando la scarsità d’acqua, a causa della grande popolazione e dei territori aridi. Portare l’acqua dagli altipiani tibetani ai territori settentrionali e alla costa sarà una delle sue opere maggiori negli anni a venire. Forse un’opportunità di cooperazione globale, che non trasformerebbe più l’acqua in un agente bellicoso, ma in un fattore di pace.

Leggi anche:  La strategia idropolitica della Turchia 

https://www.revueconflits.com/leau-un-savoir-faire-precieux/

Libia, le singolarità del Fezzan_di Bernard Lugan

La terza regione che compone la Libia è il Fezzan, un deserto il cui sottosuolo è ricco di petrolio e acqua, popolata da Tuareg a ovest e Toubou a est, mentre le oasi principali sono arabe.

Negli ultimi anni, diversi gruppi ribelli del Ciad avevano venduto i loro servizi a vari clan libici. L’offensiva iniziale dell’anno 2019 dalle forze del generale Haftar li aveva costretti o ad allinearsi al suo seguito o a lasciare il paese per tornare in Ciad dove l’esercito del presidente Déby li stava aspettando…
L’offensiva del generale Haftar è stata condotta in accordo con il Ciad e decisa il 16 ottobre 2018 in occasione del viaggio del generale a N’Djamena.
Il presidente Idriss Déby Itno e il generale avevano di fatto gli stessi interessi al Fezzan.
Per il presidente ciadiano un’offensiva dell’ANL (Esercito nazionale libico) guidato dal generale Haftar avrebbe disperso i gruppi armati di opposizione fino a quel momento al sicuro nel santuario libico. Per il Generale Haftar, la conquista del Fezzan, oltre all’eliminazione delle forze ostili, gli avrebbe attirato la simpatia delle tribù locali che soffrivano della loro presenza.
Inoltre, nel suo tentativo di circondare e isolare il riconosciuto pseudo-governo di Tripoli
da parte della comunità internazionale, il controllo del Fezzan è stato un passaggio fondamentale
L’offensiva di terra del generale Haftar iniziò nel Gennaio 2019 e all’inizio di marzo, l’intero Fezzan e i suoi giacimenti petroliferi erano sotto il suo controllo.
Prima dell’offensiva delle forze del generale Haftar il Fezzan era in mano a milizie raggruppate in due grandi coalizioni formate intorno alle due principali popolazioni della regione, i Tuareg a ovest e i Toubou a est. I due popoli facevano parte di due alleanze
opposte.
Il primo, formatosi intorno al Toubou, fu sostenuto dalle forze del generale Haftar, dalla
tribù Gheddafi (Kadafdha e Magarha) e armato dagli Emirati Arabi Uniti. La seconda
alleanza unisce Tuareg, arabi Ouled Slimane, le milizie di Misurata e Tripoli ed era armata
dal Qatar e dalla Turchia.

La vittoria delle forze del generale Haftar ha condannato entrambi a riposizionarsi.
Il fallimento del generale Haftar a Tripoli rischia di avere conseguenze dirette per il Fezzan e quindi ripercussioni su tutto il BSS. In effetticon  le forze di Misurata-GNA-Turchia attualmente in vantaggio, le tribù del Fezzan saranno quindi probabilmente unite a loro. Se è così, le conseguenze regionali sarebbero poi importanti perché la Turchia, che già sostiene i gruppi terroristi armati che Barkhane combatte potrebbe aiutarli ancora più facilmente.
In realtà, il generale Haftar non ha mai veramente controllato il Fezzan; i suoi unici appoggi in qualche modo affidabili sono stati alcune tribù arabe di cui lui aveva comprato i capi. Per il resto, i Toubou che odiano gli arabi, si vendono al miglior offerente; quanto ai Tuareg, si protendono verso Tripoli.
Tuttavia, il Fezzan dove le tribù definiscono le loro alleanze secondo i rapporti di forza tra
Tripoli e Bengasi, è la retrovia degli avversari del presidente Déby. Ricordiamo, nel 2019,
la loro ultima offensiva che stava per riuscire fino a N’Djamena quando fu bloccata solo dall’intervento dell’aviazione francese.
Tra questi avversari, quello che attualmente sembra essere il più pericoloso militarmente per il presidente Déby è il Toubou-Gorane Mahamat Mahdi Ali, che dirige il FACT (Front pour la alternance et la concorde au Tchad). Quest’ultimo, che afferma di avere 4000 combattenti, sa di poter fare affidamento sul bacino etnico che si estende tra le regioni di Borkou, Ennedi e Kanem.
Al momento, le sue forze sono di stanza al centro della Libia, a una sessantina di chilometri da Jufra, nella regione di Jebel Sawad
(Fonte: Consultazione Fezzan).

Il Fezzan, il Ciad e le tribù arabe della Libia
L’intreccio tra le popolazioni della Libia e del Ciad è una potente realtà [1] come pure il rischio di contagio.
L’esempio di Awlad Sulayman (Ouled Slimane) lo mostra perfettamente. Sotto il nome generico di Awlad Sulayman, si possono trovare diverse tribù o frazioni di tribù beduine, come Hassouna, Magharba, e anche parte di Kadhafda, la tribù del colonnello Gheddafi, che si era stabilita nella regione peri-chadica, soprattutto nel nord Kanem. Anche le tribù commerciali originarie della Tripolitania hanno segmenti in Ciad come il Majabra, il
Zouweye e il Massamra. In Niger, gli arabi libici controllano il grande commercio attraverso il Sahara sull’asse principale Tripoli-Sebha-Agadez. Sebha e Al Jawf sono quindi legati a Tamanrasset, Agadez

A metà del XVIII secolo, l’Awlad Sulayman controllava la parte “libica” del commercio
transahariano sull’asse Syrtes-Fezzan. In guerra contro gli ottomani che volevano sottometterli, furono sconfitti e diversi segmenti della tribù partirono poi verso il nord del lago Ciad, estendendo così il loro percorso commerciale a sud.
Avendo intrattenuto rapporti con le parti della tribù rimaste nell’attuale Libia, quindi insieme alle tribù associate, controllavano poi tutti i commerci attraverso il Sahara, dalla regione peri-chadica al Mediterraneo.
Oggi, gli Awlad Sulayman sono in rivalità con i Toubou che vivono sia in Libia che in Ciad, da qui il rischio di contagio regionale. Soprattutto da quando gli Awlad Sulayman hanno
reti tessute in uno spazio che si estende dal dal Mediterraneo all’Africa centrale.

Il Fezzan e la tratta degli schiavi
Con la conquista araba, la Libia divenne il punto culminante di gran parte della tratta degli schiavi dall’Africa sud-sahariana. Dalla regione del Sahelotchadian al Mediterraneo, il più
breve è stato davvero colui che ha preso le tracce da ovest di Fezzan via Ghat e Mourzouk,
evitando così i deserti del Tibesti a est e Ténéré a ovest.
Secondo Jacques Thiry (1995) dal 750 al 1800,  si dice che siano passati più di 5 milioni di schiavi africani del Fezzan.
Lungo i binari, la mortalità era estrema e i viaggiatori europei hanno descritto i cadaveri essiccati o gli scheletri che li hanno segnati.
L’esploratore tedesco Gustave Nachtigal descrive un raid nella regione del Lago Ciad:
“Gli aggressori – tra loro schiavi, che non erano i meno assetati di sangue, tagliare il
le teste dei resistenti, strapparono loro le viscere, hanno tagliato le loro membra; le madri preferivano uccidere i propri figli piuttosto che vederli ridotti in schiavitù; nella fase della spartizione, i bambini piccoli incapaci di camminare erano semplicemente dati a chi voleva prenderli. In altri casi, sono stati buttati via (…) Abusi sessuali erano frequenti, anche ai danni di tutte le ragazze. I Toubou sembrano aver affrontato i loro schiavi più crudelmente di quanto non abbiano fatto gli Arabi e i Tuareg, aggiungendo ulteriormente al loro
sofferenza la costrizione a indossare merci, limitando così il numero di cammelli. Era raro che una bambina di sei o sette anni anni arrivasse alla fine del suo viaggio senza essere stata deflorata dal Toubou: tale condotta provocò il disgusto dei tuareg. ”
(Thiry, 1995: 525 e 534) (vedi bibliografia).
La schiavitù non fu abolita fino a tardi che con la colonizzazione. Quest’ultimo prosciuga le
fonti di approvvigionamento occupando le tradizionali zone di caccia agli schiavi della regione del Ciad-Sahel. Da quel momento in poi il Fezzan, privato dell’unica ricchezza, entra in letargia.

[1] Il libro di riferimento riguardante le popolazioni arabe del Ciad e i loro legami con le regioni settentrionali è quello di H.A. MacMichael (1967).

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

 

UN PO’ DI PROSPETTIVA STORICA, di Andrea Zhok

Qui sotto alcune interessanti considerazioni di Andrea Zhok. Non parlerei di libertà di coltivazione, preservazione e sviluppo del patrimonio culturale, quanto piuttosto del fatto che la battaglia politica nell’ambito culturale almeno sino ad ora prevede dinamiche molto più sofisticate e indirette laddove la coercizione, insita nel politico, è molto più mediata dalla capacità egemonica, persuasiva e discorsiva. Richiede tempi più lunghi ed offre spazi più agibili anche esterni alle istituzioni preposte. Ritengo anzi che gli spazi esterni, con risorse umane (ancora esistenti) e finanziarie (teoricamente disponibili, ma non significativamente fruibili per la cecità e la pochezza dei detentori) appropriate, siano la strada più praticabile viste le dinamiche e le incrostazioni di potere che stanno asfissiando le istituzioni preposte, a cominciare dalle università. Il fiorire di blog e siti, pur nella spazzatura dominante, sono comunque il segno di questa vitalità e fragilità. La battaglia culturale è certamente fondamentale per consentire indipendenza e fondatezza di giudizio in qualsiasi condizione politica, anche la più asservita; è quindi la premessa di un possibile “risorgimento”. Personalmente ritengo che si dovrebbe fare qualche sforzo in più per individuare realisticamente gli spazi e le opportunità nella cornice prospettata con lucidità dal post di Andrea Zhok, superando il dozzinale “anti” e “pro” che caratterizza le fazioni diversamente impegnate nelle tenzoni. Sia in ambito europeo, che nel Mediterraneo questi si sono aperti esplicitamente e anche se con crescenti difficoltà se ne apriranno ancora perchè si stanno ridefinendo le aree di influenza e le modalità di gestione interna di esse. Una qualsiasi forza egemonica e imperiale non riesce a gestire direttamente paesi anche più piccoli e meno complessi dell’Italia; devono agire nelle contraddizioni, nelle rappresentazioni e negli interessi locali e appoggiarsi alle realtà politiche in loco. Sta a queste cercare di preservare margini di autonomia e controllo operativo e su questo si può condurre quantomeno un’azione di smascheramento e delegittimazione del nostro ceto politico e di gran parte della classe dirigente. Vale nell’ambito del controllo delle leve con l’obbiettivo di contrastare i progressivi processi di integrazione operativa subordinata in ambito militare, di ordine pubblico e diplomatico; vale nell’economia, nella ricerca scientifica, nelle applicazioni tecnologiche e nella formazione delle piattaforme industriali. Sembrano ambiti estranei e avulsi dalla logica del conflitto sociale e della “lotta di classe”; in realtà è da quelle dinamiche che dipendono la formazione di ceti medi forti, dinamici e funzionali, di blocchi e formazioni sociali coese nonché la difesa realistica e la collocazione proficua degli interessi degli strati più popolari. Il confronto culturale è certamente essenziale; ma di aspra battaglia politica comunque si tratta. Quanto al “junk” culturale americano, esiste sicuramente negli Stati Uniti e sta ammorbando e debilitando quel paese. Ma non c’è solo quello, fortunatamente per loro; hanno ancora carte da giocare. E’ da noi che arriva e ci viene filtrato quasi esclusivamente quello con zelante accondiscendenza. Buona lettura_Giuseppe Germinario
tratto da facebook.
UN PO’ DI PROSPETTIVA STORICA, di Andrea Zhok
Qualche giorno fa ho letto sulla rivista Limes alcune considerazioni scritte in forma anonima da un ufficiale americano in congedo. Nulla di davvero nuovo, né sconvolgente, solo un promemoria della situazione reale dell’Italia in rapporto agli USA.
<<“Che cosa abbiamo? Il controllo militare e di intelligence del territorio, in forma pressoché totale. E quel grado, non eccessivo, di influenza sul potere politico -soprattutto sui poteri informali ma fondamentali che gestiscono di fatto il paese. Quello che voi italiani ci avete consegnato nel 1945 -a proposito, se qualcuno di voi mi spiegasse perché ci dichiaraste guerra, gliene sarei davvero grato- e che non potremmo, nemmeno volendolo, restituirvi. Se non perdendo la terza guerra mondiale.
In concreto -e vengo, penso, a quella «geopolitica» di cui parlate mentre noi la facciamo- dell’Italia ci interessano tre cose. La posizione (quindi le basi), il papa (quindi l’universale potenza spirituale, e qui forse come cattolico e correligionario del papa emerito sono un poco di parte) e il mito di Roma, che tanto influì sui nostri padri fondatori.
La posizione. Siete un gigantesco molo piantato in mezzo al Mediterraneo. Sul fronte adriatico, eravate (e un po’ restate, perché quelli non muoiono mai) bastione contro la minaccia russa, oggi soprattutto cinese. Ma come vi può essere saltato in mente di offrire ai cinesi il porto di Trieste? Chiedo scusa, ma avete dimenticato che quello scalo di Vienna su cui i rossi di Tito stavano per mettere le mani ve lo abbiamo restituito noi, nel 1954? E non avete la pazienza di studiare il collegamento ferroviario e stradale fra Vicenza (e Aviano) e Trieste -ai tempi miei faceva abbastanza schifo, ma non importa- che fa di quel porto uno scalo militare, all’intersezione meridionale dell’estrema linea difensiva Baltico-Adriatico? E forse dimenticate che una delle più grandi piattaforme di comunicazioni, cioè di intelligence, fuori del territorio nazionale l’abbiamo in Sicilia, a Niscemi, presso lo Stretto che separa Africa ed Europa, da cui passano le rotte fra Atlantico e Indo- Pacifico?”.>>
Il testo prosegue in modo interessante, ma siccome non sono qui intenzionato a sviluppare un discorso di natura geopolitica, per quel che voglio dire, basta così.
Parto da queste valutazioni, che sono un semplice realistico bagno di realtà, per fare alcune considerazioni generali sulla condizione storica dell’Italia.
Il dato di partenza, ben illustrato nel passaggio succitato, è che l’Italia non è in nessun modo valutabile come un paese politicamente sovrano.
Siamo un protettorato USA, cui è stato concesso di acquisire una seconda forma di dipendenza, economica, nei confronti della Germania, nella cornice UE. Questo è quanto.
Siamo dunque poco più di un’espressione geografica, come diceva Metternich, la cui politica ha minimi margini di gioco.
Siamo lontani dagli anni in cui vedevamo le dirette ingerenze dei “servizi segreti deviati” nella politica italiana (“strategia della tensione”), ma ne siamo lontani semplicemente perché ciò che spontaneamente si agita nella politica italiana è già totalmente asservito, e non richiede una manipolazione troppo robusta.
Facciamo una politica estera che ci viene dettata nei dettagli dagli USA, abbaiando obbedienti ai loro avversari.
Facciamo una politica interna innocua e perfettamente inconcludente, e una politica economica apprezzata dagli USA (e che coincide con il gradimento degli ordoliberisti tedeschi.)
Questa è la situazione e, come dice correttamente l’ufficiale, non cambierà fino alla terza guerra mondiale (o fino ad un cataclisma di pari portata).
I margini reali della nostra politica sono quelli che passano tra l’essere un paese nel gruppo di coda nella cornice ordoliberista europea e l’essere un paese nel gruppo di testa, nella stessa cornice. Possiamo cioè migliorare un po’ le condizioni di vita di alcuni gruppi, nel quadro economico dato.
Non è un obiettivo insignificante, può essere meritevole di impegno, ma segnala chiaramente i confini di una politica nazionale che vive nella boccia dei pesci rossi tenuta sul comodino dagli USA.
Non è in discussione la cornice di sistema economico, così come non è in discussione nulla che riguardi la politica estera.
Per quelli che si riempiono la bocca di ‘libertà’ è utile capire che la libertà che abbiamo è quella che il guardiano del carcere concede ai detenuti modello.
In questo contesto, c’è qualcosa che possiamo fare? C’è un ruolo che possiamo giocare senza che sia già pregiudicato?
Direi che rimane soltanto un autentico spiraglio di libertà positiva. E’ lo spiraglio, per rifarci ad un modello classico – e inarrivabile -, che aveva la Grecia antica rispetto alla strapotenza romana: non abbiamo margini per muovere foglia sul piano della politica sovrana, ma potenzialmente avremmo qualcosa da dire come ‘potenza culturale’.
Lo so che siamo troppo occupati, grazie ai nostri media, a piangerci addosso per non essere abbastanza simili al padrone americano.
Lo so che tutto ciò che viene promosso come esemplarità da perseguire dal nostro apparato informativo non travalica i limiti di un’emulazione goffa del modello americano.
Non paga del colonialismo materiale, economico e politico una parte significativa delle classi dirigenti del nostro paese, incardinata nel sistema mediatico, cerca h24 di ridurre l’Italia anche ad una colonia culturale.
Ciò avviene in mille modi, dall’adozione di modelli formativi di ispirazione americana, all’assorbimento passivo illimitato della filmografia americana (e dei suoi temi, che siamo indotti a immaginare siano i nostri), alla resa incondizionata a tonnellate di imprestiti linguistici da parvenu (ci muoveremo grazie al Green pass, canteremo le lodi del Recovery fund, che ci permetterà di ribadire il Jobs act, dopo essere finalmente usciti dal Lockdown, in attesa che vadano al governo quelli della Flat tax al posto di quelli del Gender fluid, e ci dedicheremo allo Smart working, rivitalizzando i settori del Food e del Wedding, mentre lotteremo impavidi contro le Fake news.)
Fortunatamente, nonostante tutti i tentativi di distruzione, le tradizioni culturali hanno una natura coriacea, un’inerzia che tende a permanere nonostante le attività di boicottaggio costante.
E così, nonostante la distruzione sistematica di scuola e università sul piano istituzionale, una tradizione di formazione mediamente decente, a volte brillante, continua a persistere.
E così, nonostante la demolizione a colpi di squallore american-style della cultura musicale, in quello che un tempo era considerato il paese musicale per eccellenza, rimangono buone tradizioni di formazione e continuiamo a produrre musicisti di rango.
E così, nonostante i tentativi di devastare la cultura enogastronomica più ricca del mondo a colpi di bollinature UE e promozioni McDonald’s, rimane un’ampia cultura diffusa della buona alimentazione.
Ecc. ecc.
Il punto di fondo credo sia il seguente.
Nel medio-lungo periodo l’unico vero patrimonio che, come italiani, siamo nelle condizioni di coltivare, preservare e sviluppare liberamente è quello culturale.
Abbiamo ereditato una delle dieci tradizioni culturali più ricche, durature e molteplici del mondo.
E se non cediamo su tutta la linea a quelle élite cosmopolite, mediaticamente sovrarappresentate, ma culturalmente straccione che ambientano i loro sogni a Central Park e nella Baia di San Francisco, se non molliamo completamente il colpo, può darsi che la storia ci riservi ancora un ruolo che non sia quello di un villaggio turistico coloniale.
commenti

Giovanni Greco

Concordo, ma aggiungerei anche il patrimonio tecnologico potenziale del Nostro paese, che, nel suo “piccolo” ( ma neanche tanto…), riesce ad esprimere l’eccellenza, quando non la si svende al privato o all’estero.

Giuseppe Germinario

Non parlerei di libertà di coltivazione, preservazione e sviluppo del patrimonio culturale, quanto piuttosto del fatto che la battaglia politica nell’ambito culturale almeno sino ad ora prevede dinamiche molto più sofisticate e indirette laddove la coercizione, insita nel politico, è molto più mediata dalla capacità egemonica, persuasiva e discorsiva. Richiede tempi più lunghi ed offre spazi più agibili anche esterni alle istituzioni preposte. Ritengo anzi che gli spazi esterni, con risorse umane (ancora esistenti) e finanziarie (teoricamente disponibili, ma non significativamente fruibili per la cecità e la pochezza dei detentori) appropriate, siano la strada più praticabile viste le dinamiche e le incrostazioni di potere che stanno asfissiando le istituzioni preposte, a cominciare dalle università. Il fiorire di blog e siti, pur nella spazzatura dominante, sono comunque il segno di questa vitalità e fragilità. La battaglia culturale è certamente fondamentale per consentire indipendenza e fondatezza di giudizio in qualsiasi condizione politica, anche la più asservita; è quindi la premessa di un possibile “risorgimento”. Personalmente ritengo che si dovrebbe fare qualche sforzo in più per individuare realisticamente gli spazi e le opportunità nella cornice prospettata con lucidità dal post di Andrea Zhok, superando il dozzinale “anti” e “pro” che caratterizza le fazioni diversamente impegnate nelle tenzoni. Sia in ambito europeo, che nel Mediterraneo questi si sono aperti esplicitamente e anche se con crescenti difficoltà se ne apriranno ancora perchè si stanno ridefinendo le aree di influenza e le modalità di gestione interna di esse. Una qualsiasi forza egemonica e imperiale non riesce a gestire direttamente paesi anche più piccoli e meno complessi dell’Italia; devono agire nelle contraddizioni, nelle rappresentazioni e negli interessi locali e appoggiarsi alle realtà politiche in loco. Sta a queste cercare di preservare margini di autonomia e controllo operativo e su questo si può condurre quantomeno un’azione di smascheramento e delegittimazione del nostro ceto politico e di gran parte della classe dirigente. Vale nell’ambito del controllo delle leve con l’obbiettivo di contrastare i progressivi processi di integrazione operativa subordinata in ambito militare, di ordine pubblico e diplomatico; vale nell’economia, nella ricerca scientifica, nelle applicazioni tecnologiche e nella formazione delle piattaforme industriali. Sembrano ambiti estranei e avulsi dalla logica del conflitto sociale e della “lotta di classe”; in realtà è da quelle dinamiche che dipendono la formazione di ceti medi forti, dinamici e funzionali, di blocchi e formazioni sociali coese nonché la difesa realistica e la collocazione proficua degli interessi degli strati più popolari. Il confronto culturale è certamente essenziale; ma di aspra battaglia politica comunque si tratta. Quanto al “junk” culturale americano, esiste sicuramente negli Stati Uniti e sta ammorbando e debilitando quel paese. Ma non c’è solo quello, fortunatamente per loro; hanno ancora carte da giocare. E’ da noi che arriva e ci viene filtrato quasi esclusivamente quello con zelante accondiscendenza.

Luigi Giordano

I media, maledetti media, fanno la differenza. Seguono l’ordine del giorno deciso dalle élite, ovvero i loro padroni.

Roberto Buffagni

Concordo, è il “calati juncu ca passa la china” che ci permise di sopravvivere, come realtà culturale, nella lunga notte politica di Seicento e Settecento. Oggi fa più buio e ci sono meno luci ma la ricetta più o meno è quella. Ci sarebbe stato uno spiraglio di finestra di opportunità con la presidenza Trump, se Trump non fosse stato Trump e se i sovranisti italiani e non solo non fossero stati i sovranisti italiani e non solo, ma la finestra si è chiusa e qualcuno ci ha anche lasciato le dita in mezzo.

Stefano Vezzoli

Una persona maliziosa, un critico, vedrebbe in questo suo scritto un elogio, come unica speranza politica, della resilienza tanto bistrattata. Resilienza che lei stesso ha criticato riferendosi al discorso di Draghi.
Ora, come rispondere a questa critica? Dove passa e quanto è sottile il confine tra resilienza passiva e resistenza attiva? E trovato questo confine, che si mantiene in forma istintiva (individuale), come renderlo poi esplicito, politico, militante, per tradurlo in azione di “riconquista” (comunitaria)?
Forse la differenza tra resilienza e resistenza è dunque che la prima è individuale, atomizzata, non guidata all’azione politica, umorale; mentre la seconda è collettiva, sociale, indirizzata politicamente, romantica?

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Autore

Andrea Zhok

Stefano Vezzoli Mi sono astenuto attentamente dall’usare il termine resilienza, per quanto fosse qui appropriato. Ad ogni modo non ho mai detto che la resilienza sia una qualità cattiva (così come quando ho criticato la retorica dell’eccellenza non ho mai pensato che mirare ad eccellere sia di per sé male); quello che ho detto è che la resilienza su base individuale propagandata (prescritta) dal neoliberalismo altro non è che l’accettazione di prendere bastonate, contando sul fatto che poi ci si rialzerà. La resilienza culturale di un paese non è una scelta, è una qualità intrinseca: descrittiva, non prescrittiva.

Raul Catalano

Condivido molto di questo scritto ma, utopia per utopia, credo che la possibilità di sganciarsi (almeno un poco) da questo destino di totale omologazione e sudditanza ormai possa passare solo da un aumento della forza contrattuale europea nel suo complesso, sia perché il discorso potrebbe applicarsi benissimo alla maggior parte degli altri paesi europei (UK esclusa, ovviamente, e infatti …) ma soprattutto perché senza una sufficiente “massa critica” le probabilità di resistere alla attrazione economico/culturale/militare del gigante morente americano e della Cina pigliatutto sono prossime allo zero. Con tutto ciò di male che posso pensare della Europa a trazione tedesca, abbiamo più in comune con loro che con la volgarità e la superficialità americana. Sappiamo benissimo che qualsiasi singolo tentativo di vera autonomia rispetto agli interessi geopolitici americani verrebbe schiacciata, con le buone e con le cattive.

Dario Grison

Raul Catalano sì però non è solo l’Italia ad essere uscita sconfitta nel 45, ma l’Europa continentale intera. Ricordo una brillante sintesi di Caracciolo: agli USA interessa un’Europa abbastanza forte da non dover intervenire, ma sufficientemente debole da non costituire una concorrente

Alessandro Bruno

Negli anni 80 però, ci furono coraggiosi e notevoli tentativi di distaccarsi dal dominio atlantista. E ogni tanto, qualcuno è riuscito anche a svincolarsi negli ultimi vent’anni. (Per esempio, D’Alema in Libano 2006) o perfino Berlusconi con la Libia …

Altro…

Alessandro Leonardi

Considerate la varie traiettorie del Sistema globale nei prossimi due/tre decenni, fra multiple crisi, salti tecnologici, disperati tentativi di rivitalizzare la “crescita occidentale” e tensioni strutturali alle stelle, la mia generazione (i Millenial) e quelle successive potrebbero vedere per la prima volta l’Italia in una forma drasticamente diversa rispetto allo status quo messo in piedi dal 1945. Probabilmente fuori dall’orbita di questa o quella Potenza. Non è ancora il momento, siamo ancora distanti, ma nei prossimi 20/30 anni potrebbe succedere di tutto, data la velocità stessa del modello globale e le sue crisi interne. Sinceramente non credo che le istituzioni repubblicane reggeranno in codesta forma, in caso di violenti scossoni esterni. L’Italia è un bel vecchio museo aggrappato al treno planetario e quindi il suo destino è legato ad esso. Nel bene e nel male.
Autore

Andrea Zhok

Alessandro Leonardi Se è solo un vecchio museo qualcuno se ne approprierà e basta, come accade sempre per le reliquie. Per avere/essere un patrimonio culturale la cultura (conoscenza, destrezza, sensibilità, ecc.) deve essere nelle persone.

Dario Grison

L’alternativa è diventare tutti cattolici tradizionalisti, che sembra essere l’unica forma di influenza ancora perseguibile, a detta dell’anonimo di Limes
Autore

Andrea Zhok

Dario Grison Non necessariamente tradizionalisti, però che la cultura cristiana abbia radici profonde, e feconde, nella cultura italiana è indubbio.

Maria Esposito Siotto

Grazie per la riflessione e la diffusione del documento. Ricordo una sua riflessione in merito ai danni della pandemia in un paese a forte vocazione culturale per i motivi dei limiti alla mobilità ed al turismo imposti dai lockdown. La risorsa cu…

Altro…
Autore

Andrea Zhok

Maria Esposito Siotto Ovviamente, ma questa è una visione a breve termine, sin troppo alimentata, quella di vendere ad un buon prezzo le glorie passate (“valorizzazione del patrimonio”).
Accettabile, ma nel lungo periodo assai miope.

Claudio Gallo

Non ci resta che coltivare una gentile impotenza. Poi, a proposito dei servizi deviati: sono deviati solo dopo che si fanno prendere con le mani nel sacco.

Marcello Bernacchia

“Correligionario del papa emerito”? Cioè, sta dicendo che non considera Bergoglio cattolico?

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia la domanda contiene la risposta…

Marcello Bernacchia

D’altronde, se non mettessero becco anche lì, che colonizzatori sarebbero?

Roberto Buffagni

Marcello Bernacchia Se davvero è un ufficiale, normale che disprezzi Bergoglio, come si disprezzerebbe il servilismo e la corrività in chiunque.

Marcello Bernacchia

Io su Bergoglio sono più possibilista, nonostante non poche perplessità. E penso che un ufficiale Usa di Bergoglio disprezzi il “socialismo” (reale o presunto), che per me è un punto a favore di Bergoglio.

Roberto Buffagni

Marcello Bernacchia Può essere. Un consiglio: se aspetta il socialismo da Bergoglio, si metta comodo.

Marcello Bernacchia

Non lo aspetto da lui, ma constato che qualcuno da lui lo teme. E ciò che è creduto vero esiste, come già notava von Hofmannsthal.

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia E’ tutto da vedere se ciò che taluni da lui temono sia davvero il socialismo

Maurizio Candiotto

Marcello Bernacchia E, comunque, di *quale* socialismo, esattamente, stiamo parlando? Di quello che “serve a fare funzionare meglio il capitalismo”?! Quello, lo temo anche io (e in effetti esiste o va ad esistere. Magari anche con un aiutino da Mr. B.)

Federico Virgilio

Non cedere sulla linea significa “pensare con la propria testa”: sarà questa la sfida per il prossimo imminente futuro. E’ un presente di barbarie…

Carlo Pasini

Professore, l’ufficiale in congedo (da cui il post) parte male quando dice di “avegli consegnato il Paese nel ’45″” e, quando con spocchia chiede “perché ci dichiaraste guerra” che invece il vergognoso Duce dichiarò a Gran Bretagna e Francia.
A mio avviso è il globale neoliberismo il nemico del Paese ( quello della Costituzione) e della nostra Democrazia, ma non scomoderei fatti di 75-80 anni fa per le parole di un esuberante Yankee.

Sebastiano Lisi

“[…] ma potenzialmente avremmo qualcosa da dire come ‘potenza culturale’.”
Mah, forse stando nelle università non si vede, ma credo che pure come vagheggiata ‘potenza culturale’ i buoi siano da tempo scappati.

Gabriela Fantato

Ecco, con queste riflessioni acute, precise e colte mi son commossa, e mi è venuto in mente anche Foscolo (….)” A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti “(….).
E da , a seguire, che l’Italia è un Paese ” invasi” da una subcultura anglofona, ” tranne la memoria, tutto”( ci è stato rubato, svenduto, dimenticato!!!).
Da questa nostra storia di grande musica, arte, letteratura, anche di cultura gastronomica,direi, dobbiamo trarre forza e orgoglio per ” opporci” all’ annientamento politico/ sociale in atto.
Grazie prof Andrea Zhok , lei è una guida!

Marco Sore

Raggelante notare come l’ufficiale, dal suo punto di vista, abbia fatto un discorso onesto.

Mauribeth Duir

Nel nostro piccolo, da queste parti ci stiamo lavorando 🙂
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Jacopo De Battista

Al contrario della retorica imperante della “liberazione” è bene ricordare che noi la seconda guerra mondiale l’abbiamo persa, e l’abbiamo persa particolarmente male.
Chi può stupirsi di queste conseguenze?

Pierclaudio Brunelli

Ben ponderato e ben scritto…ma non posso fare a meno di percepire la considerazione finale .quasi uguale a: “quante me ne hanno date…ma quante gliene ho dette!!!!”

Angela Mastrolonardo

Siamo vittime e complici di questi bulli che ci tengono sotto schiaffo. Provo un senso di soffocamento, riesco solo a sottrarmi ai loro “prodotti culturali” e alle loro mode. Ho preservato la mia famiglia da questo

Massimiliano Esse

Nulla di strano. Tutto preciso.

Mario Amato

Non posso che essere d’accordo al 100%.
D’altra parte per chiunque abbia seguito con spirito critico gli avvenimenti degli ultimi 40 anni risulta chiaro e abbastanza evidente, e senza contare le decine di basi militari USA che abbiamo.

Mi ritorna in me…

Altro…

Renato Rivolta

Che noi siamo una provincia dell’Impero è fuori discussione. Che la Cina sia un pericolo mi sembra però altrettanto oggettivo. I cinesi, a differenza degli americani, non usano i missili e i droni per “esportare la democrazia”, usano mezzi più raffina…

Del resto, a differenza degli yankees, hanno qualche migliaio di anni in più di storia sulle spalle
Autore

Andrea Zhok

Renato Rivolta Diciamo che dopo settant’anni di dieta unilaterale yankee un po’ di ‘mezzi raffinati’ cinesi possono essere un accettabile compromesso.

4

Gian Luca Beccari

Professore, lo vado dicendo da molti anni, inoltre considerare “alleati” chi ti ha sconfitto e colonizzato, è semanticamente una offesa alla verità. Inoltre mi permetto di aggiungere un’altra stringente e determinante forma di controllo, quella messa quella messa in atto attraverso piattaforme tecnologiche che controllano ogni nostro movimento, tutto ovviamente controllato da oltre oceano.

Camillo De Vito

Giusto. Ed è quello che ripete Dario Fabbri ed anche io prima di lui, da nessun pulpito e con nessun titolo se non quello di osservare la realtà. Ma penso che farsi allungare il guinzaglio e liberarsi dei tedeschi, potremmo farlo.

Volano gli stracci tra Stati Uniti e Cina sul covid 19, di Max Bonelli

L’articolo del giornalista scientifico Nicholas Wade ex collaboratore del NY Times,(uno non proprio arrivato con la piena del fiume Po) ha ribaltato con argomentazioni difficilmente confutabili la narrazione del Covid 19 frutto di un salto di specie da pipistrello ad uomo.
Anzi con grande probabilità il poco simpatico virus dai 3 milioni e passa di morti su scala mondiale non è altro che un prodotto di ricerca di laboratorio.

Wade (ma a dire il vero ancora prima anche Franco Fracassi) ha dimostrato che il laboratorio di Wuhan era finanziato in queste ricerche su virus pericolosi da una fondazione la Eco Healta Alliance(EHA) su cui gravitano diversi soggetti da ditte farmaceutiche a studi legali prestanome della Cia.
Il presidente della EHA Peter Daszak era anche il manovratore dietro la lettera firmata da diversi noti virologi apparsa sul Lancet il 19 febbraio 2020 che smentiva l’ipotesi del virus nato in laboratorio.

L’articolo di Wade (che non svela solo queste notizie di qui sopra ma che va nel dettaglio scientifico pro e contro le due ipotesi sull’origine del virus) è stato pubblicato dal sito Oltre la linea in italiano.(1) Ci vuole una buona preparazione scientifica per afferrare le finezze di questo pregevole pezzo di giornalismo scientifico.

L’imbarazzo alla casa bianca è stato evidente da qui la dichiarazione ufficiale di Biden per una indagine esaustiva sull’argomento.
Dopo questo passo i media nostrani hanno effettuato la contromanovra alla “contrordine compagni” ed hanno rivitalizzato con qualche imbarazzato articolo l’ipotesi laboratorio.
Purtroppo devo riscontrare che anche un paio di media in teoria alternativi come La voce del patriota (2)e il Primato nazionale(3) sono caduti (volutamente o meno?) nella trappola “del al virus cinese”.
Questa tendenza al facile messaggio dei cinesi cattivi che si sono lasciati scappare il virus dal laboratorio e poi hanno nascosto il fattaccio è una semplificazione nel migliore dei casi dovuta alla mancanza di approfondimento da parte degli autori.

In realtà Wade ed anche Fracassi hanno dimostrato che lo sviluppo di funzioni su virus era frutto di un piano d’investimenti occidentali nel laboratorio di Wuhan con qualche traccia di capitali cinesi privati. Tutto al di fuori del controllo di Pechino.
Ma anche questa verità ha un lato imbarazzante per la Cina e cioè la mancanza di controllo sul proprio territorio.
Si sono fatti delocalizzare una ricerca pericolosa in casa loro senza accorgersene.

Laboratorio di Wuan in Cina

La mia teoria che il Covid 19 sia stato diffuso volutamente dal Deep State americano sta ancora in piedi anzi è suffragata dal lavoro di Nicholas Wade.(4).
Il lettore che vuole approfondire consiglio la lettura di quell’articolo all’epoca definito complottista…ma ci sono abituato
all’etichetta. Dai tempi in cui scrissi nel 2015 sul mio libro Antimaidan che gli sniper a Kiev erano baltici e georgiani addestrati dalla Nato.

Purtroppo la realtà degli avvenimenti geopolitici degli ultimi anni è spesso frutto di veri complotti ai danni di milioni di persone.

(1)

https://oltrelalinea.news/2021/05/11/cosi-il-coronavirus-e-nato-in-un-laboratorio-di-wuhan-tutta-la-verita/

(2)

USA, l’Intelligence rivela: virus circolava in laboratorio a Wuhan già a novembre 2019.

(3)

https://www.ilprimatonazionale.it/primo-piano/covid-laboratorio-virologi-wuhan-malati-novembre-2019-194683/

(4)

Il “Deep state” dietro il Covid-19?, di Max Bonelli

già ripreso da https://www.ariannaeditrice.it/articoli/volano-gli-stracci-tra-stati-uniti-e-cina-sul-covid-19

http://italiaeilmondo.com/2021/05/21/cosi-il-coronavirus-e-nato-in-un-laboratorio-di-wuhan-di-nicholas-wade/

Semiconduttori: la ricerca della sovranità (4/5), di Gavekal

I semiconduttori rappresentano la principale sfida tecnologica per gli anni a venire. Sono essenziali per lo sviluppo della tecnologia digitale e dell’industria, e quindi dell’economia. La Cina è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Taiwan. Catturare il mercato dei semiconduttori è quindi una sfida importante per la sovranità dei paesi.

 

Conflitti traduzione di un articolo di Dan Wang originariamente pubblicato sul sito Gavekal

 

  1. La risposta degli Stati Uniti 

 

Nonostante i loro ovvi problemi, le politiche cinesi sui semiconduttori hanno sollevato campanelli d’allarme a Washington. I politici statunitensi si sono preoccupati per la prospettiva che le aziende cinesi fortemente sovvenzionate sostituiscano (o rilevino) le aziende statunitensi esistenti, vedendo l’esercito cinese rafforzare la sua capacità tecnologica e vedendo le reti di telecomunicazioni statunitensi e i loro alleati diventare troppo dipendenti da componenti cinesi che potrebbero costituire una backdoor per spionaggio o disturbo.

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Nei giorni conclusivi dell’amministrazione Obama, la Casa Bianca ha pubblicato un rapporto sui semiconduttori, avvertendo di “una spinta concertata dalla Cina per rimodellare il mercato”. Le prime risposte degli Stati Uniti si sono concentrate sul blocco dell’attività di fusione e acquisizione cinese. Nel 2015, il produttore statunitense di chip di memoria Micron ha respinto un’offerta di acquisto da 23 miliardi di dollari per Tsinghua Unigroup sulla base del fatto che l’accordo sarebbe stato bloccato dall’organismo di regolamentazione, il Committee on Foreign Investment nel governo degli Stati Uniti. Nel 2016, Obama ha bloccato un tentativo cinese di acquistare il produttore di chip tedesco Aixtron, impedendo la vendita della filiale statunitense di Aixtron.

 

Il presidente Donald Trump ha continuato questa campagna. Nel 2017, Trump ha posto il veto all’acquisizione di Lattice Semiconductor da parte di un consorzio di private equity guidato dalla Cina. L’anno successivo, ha bloccato l’ acquisizione di Qualcomm da parte di Broadcom , che non è cinese (la società era allora registrata a Singapore ma da allora si è trasferita negli Stati Uniti), con la motivazione che l’operazione svuoterebbe Qualcomm della sua capacità di ricerca e sviluppo e la renderebbe meno competitivo rispetto ai potenziali rivali cinesi.

 

Avvio di sanzioni

 

Dopo aver chiarito che nessuna azienda statunitense di semiconduttori era in vendita, l’amministrazione Trump ha quindi avviato una serie di azioni volte a limitare il flusso di tecnologia in generale, e tutto ciò che ha a che fare con i semiconduttori, i driver in particolare, dagli Stati Uniti alla Cina. Nella maggior parte dei casi, i funzionari hanno adottato regolamenti e meccanismi esistenti e li hanno applicati in modo più aggressivo contro le società cinesi. Questi includono elenchi di società con performance negative soggette a vari tipi di sanzioni: “Entity List” e “Military End-User List” del Dipartimento del Commercio, che impongono restrizioni all’accesso alla tecnologia statunitense. ; la “lista delle imprese militari cinesi comuniste” del Ministero della Difesa,

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L’altro grande sviluppo normativo dell’era Trump è stato l’approvazione da parte del Congresso nel 2018 di due disegni di legge che hanno notevolmente rafforzato la capacità del governo degli Stati Uniti di limitare gli investimenti e le esportazioni legati alla tecnologia. Il Foreign Investment Risk Review Modernization Act ha rafforzato i poteri del CFIUS, il comitato guidato dal Tesoro che controlla gli investimenti esteri negli Stati Uniti. La legge sulla riforma del controllo delle esportazioni Exportha posto le basi per un ulteriore controllo delle esportazioni da parte del Dipartimento del Commercio. Una delle caratteristiche principali di queste due leggi è stata quella di estendere i motivi per limitare un test di sicurezza nazionale a un test tecnologico. A causa di queste restrizioni, gli investimenti diretti delle aziende cinesi nei settori tecnologici statunitensi sono praticamente scesi a zero. E mentre il Dipartimento del Commercio continua ad approvare la stragrande maggioranza delle licenze di esportazione di tecnologia in Cina, il suo tasso di rifiuto per queste licenze è più che raddoppiato tra il 2018 e il 2020, al 6%.

 

 

Questi regolamenti e leggi hanno preso di mira le aziende cinesi in vari settori legati alla tecnologia. Nel campo dei semiconduttori, le principali vittime sono state Fujian Jinhua, Huawei e SMIC.

 

Huawei è stata una vittima unica delle azioni statunitensi. È stato inserito nell’elenco delle entità a maggio 2019, quindi ulteriori restrizioni sono state sviluppate dal Dipartimento del Commercio a maggio e agosto 2020. Queste regole inizialmente hanno reso più difficile per le aziende statunitensi fare affari con Huawei. ; hanno poi impedito la fabbricazione dei chip HiSilicon di Huawei con apparecchiature di origine americana; e infine, in una importante rivendicazione di extraterritorialità, hanno affermato che la vendita a Huawei di qualsiasi articolo prodotto utilizzando tecnologie di origine americana richiederebbe una licenza.

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Huawei ha anticipato alcune di queste misure e ha accumulato enormi scorte di componenti di chip. Nonostante le restrizioni statunitensi, i suoi ricavi sono cresciuti del 19% nel 2019 e del 4% nel 2020, fino a raggiungere i 137 miliardi di dollari. Tuttavia, la sua prospettiva è desolante. Ha perso il primo posto nelle vendite di cellulari in Cina per rivaleggiare con Xiaomi. La sua attività di stazione base per le reti mobili 5G – l’obiettivo chiave delle sanzioni statunitensi – è ancora in sospeso, poiché in questa attività a basso volume le sue scorte di componenti possono durare più a lungo. Ma senza allentare i controlli sulle esportazioni statunitensi, il futuro di Huawei come grande azienda tecnologica sembra desolante. HiSilicon, dal canto suo, ha dovuto fare i conti con un flusso di partenze del personale,

 

SMIC è stato inserito nell’elenco delle entità nel dicembre 2020, durante il periodo dell’anatra zoppa di Trump. SMIC attualmente affronta restrizioni meno severe rispetto a Huawei. Ogni acquisto di apparecchiature originali americane richiederà una licenza, ma le uniche licenze che verranno rifiutate per impostazione predefinita saranno per gli strumenti necessari per produrre chip a nodi di processo inferiori a 10 nm. Inoltre, gli Stati Uniti hanno esercitato con successo pressioni sul governo olandese per impedire ad ASML di fornire il suo strumento EUV di fascia alta al salario minimo. Queste restrizioni impediranno alla SMIC di produrre chip avanzati, ma è improbabile che paralizzino il business.

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Resta da vedere come si evolveranno i controlli tecnologici statunitensi sotto l’amministrazione Biden. Finora, Biden ha lasciato in vigore i controlli di Trump e li ha ampliati selettivamente. All’inizio di aprile, il ministero del Commercio ha inserito altre sette società tecnologiche cinesi nell’elenco delle entità: tre società di semiconduttori e quattro società di supercomputer legate all’esercito cinese. In risposta, TSMC ha interrotto la produzione di chip per una delle società sanzionate, la Tianjin Phytium Information Technology.

 

Non importa quanto dura sia l’amministrazione Biden, il quadro generale è chiaro. Gli Stati Uniti hanno messo in atto un regime completo di restrizioni tecnologiche il cui obiettivo principale è frenare il flusso di tecnologie avanzate verso la Cina e hanno dimostrato la volontà di utilizzare queste restrizioni per limitare, paralizzare o distruggere le attività delle aziende cinesi. A parte il danno ad alcune società cinesi, gli effetti principali sono stati l’impossibilità per le società cinesi di investire in risorse tecnologiche statunitensi e l’impossibilità per le società tecnologiche degli Stati Uniti o di altri paesi di esportare in Cina.

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L’industria si difende

 

Il principale ostacolo al desiderio del governo degli Stati Uniti di soffocare i flussi di tecnologia verso la Cina è l’industria dei semiconduttori statunitense. Per molti produttori di chip e utensili, la Cina è il mercato più importante o in più rapida crescita e un anello vitale nella catena di produzione integrata a livello globale. Per i primi sette produttori di apparecchiature per semiconduttori, il mercato cinese è il doppio di quello degli Stati Uniti; per i primi otto produttori di chip, il mercato cinese è quasi due volte e mezzo quello degli Stati Uniti. Le aziende tecnologiche statunitensi affermano che in un mondo in cui non potrebbero più vendere alla Cina, i loro ricavi e la capacità di investire in ricerca e sviluppo crollerebbero.

 

Hanno mobilitato consulenti per sostenere questi argomenti con cifre. Nel 2020, il Boston Consulting Group ha calcolato che uno sforzo sostanziale per “disaccoppiare” i settori della tecnologia statunitense e cinese ridurrebbe i ricavi delle società di chip statunitensi di $ 80 miliardi, costringendole a tagliare la ricerca e lo sviluppo dal 30 al 60 percento. Al contrario, il BCG ha stimato che la concorrenza creata dal programma “Made in China 2025” costerebbe solo alle società di chip statunitensi $ 10-15 miliardi di entrate. Un rapporto pubblicato nel febbraio 2021 dalla Camera di commercio degli Stati Uniti e dal Rhodium Group afferma che la perdita di accesso ai clienti cinesi comporterebbe una perdita di produzione di 124 miliardi di dollari e una riduzione di 12 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo.

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La Semiconductor Industry Association, che rappresenta sia i produttori di chip che di hardware, continua ad affermare che gli Stati Uniti devono imparare a convivere con una catena di fornitura di semiconduttori integrata a livello globale e che, invece di applicare sanzioni generali alla Cina, il governo dovrebbe spendere fino a $ 50 miliardi di sussidi e agevolazioni fiscali per ricostruire la capacità di produzione di chip negli Stati Uniti. Pat Gelsinger, il nuovo CEO di Intel, ha chiesto un “colpo di luna” per ridurre la quota degli Stati Uniti della capacità di produzione globale di chip a un terzo. L’amministrazione Biden è in ascolto: la sua proposta infrastrutturale include 50 miliardi di dollari per la produzione di chip e la ricerca e sviluppo. Questo andrebbe ad aggiungersi ai 10 miliardi di dollari spesi in ricerca e sviluppo. Questo andrebbe ad aggiungersi ai 10 miliardi di dollari in sovvenzioni e crediti d’imposta già approvati dal Congresso nel 2020 ai sensi del CHIPS Act .

https://www.revueconflits.com/semi-conducteurs-la-quete-de-la-souverainete/

Libia, la realtà tribale_di Bernard Lugan

L’intervento franco-NATO del 2011, che si è svolto nella completa ignoranza delle sottigliezze politiche locali hanno sconvolto l’intarsio tribale libico, che ora impedisce qualsiasi pacificazione duratura

Nel lungo periodo, dal periodo greco-romano fino ad oggi, la grande costante
socio-politica della Libia è la debolezza del potere in relazione alle tribù.
Ce ne sono diverse dozzine se tuttavia contiamo solo le principali, ma diverse centinaia se teniamo conto di tutte le loro suddivisioni.

Le tribù libiche sono raggruppate in tre grandi alleanze regionali (coffs): la
Confederazione Sa’adi in Cirenaica, la confederazione Saff al-Bahar nel nord della Tripolitania e la Confederazione di Awlad Sulayman che occupa la Tripolitania orientale e interna così come il Fezzan.
All’interno di queste alleanze, le tribù più forti controllavano gli immensi corridoi di nomadizzazione sull’asse Mediterraneo-Ciad. Le tribù più deboli hanno praticato un semi
nomadismo regionale.
Proveniente dalla tribù Qadhadfa, (Confederazione Awlad Sulayman di Tripolitania), Muammar Gheddafi basava il suo potere su queste realtà tribali. Così, grazie al suo matrimonio con un Firkeche, un clan della tribù reale Barasa della Cirenaica, integrò nel suo sistema di alleanze le tribù della Confederazione Sa’adi di questa stessa Cirenaica.
A seconda degli eventi, ha favorito tale o tal altri componenti di queste confederazioni dimostrando un’intima conoscenza dei meccanismi tribali.
Siamo infatti in presenza di una società tribale, quindi comunitaria, in cui la vita politica non è organizzata intorno a partiti politici in stile europeo, ma dalle tribù.
Se le loro basi demografiche sono scivolate verso le città, i legami tra i loro membri non si sono per questo allentati finora.
Il colonnello Gheddafi aveva basato il suo potere sull’equilibrio tra i tre grandi sodalizi libici; è dal momento in cui queste alleanze tribali sono state distrutte che la situazione libica è caotica.
La priorità non è quindi proporre una soluzione democratica “in stile europeo”, ma lasciare che le tre confederazioni tribali ricostruiscano i collegamenti tra loro. Tuttavia, questa realtà tribale è stata ignorata o trascurata dalla diplomazia internazionale la quale si è ostinatamente rifiutata di lasciare che le tribù lo facessero come all’indomani della seconda guerra mondiale; vale a dire, discutere tra di loro per creare un nuovo patto sociale.
Invece, il processo di uscita dal conflitto è stata fondato sul dispositivo elettorale. Tre elezioni si sono poi tenute[1] le quali non solo non solo non sono servite a nulla poiché non hanno portato la pace, ma che, per di più, hanno accentuato ulteriormente la divisione Cirenaica-Tripolitania e provocato una implosione all’interno di queste due regioni.
L’altro errore è stato ignorare il caso Seif al-Islam, figlio del colonnello Gheddafi. Tuttavia, il 14 Settembre 2015, il Consiglio Supremo delle Tribù della Libia lo aveva nominato suo rappresentante legale, quindi come unica persona legittimata a parlare in nome
della vera linfa vitale della Libia. Inoltre, Seif alIslam è l’unico in grado di ricostituire l’alchimia tribale polverizzata dall’intervento militare di2011; lui che è legato ad entrambi gli Awlad Sulayman per parte di padre e ai Sa’adi da parte di madre. Attraverso la sua persona, potrebbe quindi essere ricostituito l’ordine istituzionale libico smantellato dal
guerra franco-NATO.

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

NORD STREAM 2/ Una lezione per la futura Forza Nuova su come sostenere l’Eni, di Piergiorgio Rosso

NORD STREAM 2/ Una lezione per la futura Forza Nuova su come sostenere l’Eni

Ripubblichiamo il commento di Paolo Annoni della rivista online Il Sussidiario che ci sembra cogliere alcuni punti decisivi degli ultimi sviluppi della questione Nord Stream 2 che questo blog ha seguito fin dalle origini e poi continuativamente qui, qui e qui sulla base della teoria del Conflitto Strategico promossa da Gianfranco La Grassa.

Il primo punto da considerare è il riconoscimento della necessità del gas russo a basso costo per la Germania. I rigassificatori del GNL americano si faranno ma non possono avere la rilevanza strategica del gas russo da pipeline.

Questo vincolo interno ha comportato sia la forte determinazione della classe dirigente tedesca sia la presa d’atto degli USA di non poter proseguire oltre sulla linea delle sanzioni, pena la rottura dei rapporti con la Germania. Rottura strategicamente intollerabile per gli USA, considerato l’imperativo geopolitico di evitare la saldatura della penisola europea con la Russia.

La lezione da portare a casa per noi è che fare di necessità, virtù … paga anche se si hanno le forze armate americane in casa (dedicato agli alternativi critici-critici tutto no-gas/no-NATO) .

Il secondo punto è la consapevolezza che le politiche europee denominate Green Deal sono ad esito del tutto incerte, perché basate su tecnologie inaffidabili, costose o ancora da sviluppare (vedi in particolare alla voce Idrogeno Verde). Seppure la Germania può permettersi qualche lusso in proposito, ma con un sicuro ed affidabile back-up costituito da carbone e nucleare previsti durare ancora decenni, per l’Italia l’alternativa non esiste: “ … Il Nord Stream 2 italiano, la garanzia di poter far sopravvivere il nostro sistema economico e industriale mentre si vive il sogno, o l’utopia, delle rinnovabili tutte e subito si chiama Eni che non a caso è stata la protagonista dell’industrializzazione italiana..”. Tesi più volte sostenuta in questo blog e riconfermata nel recente libro “Per una Forza Nuova” di G.La Grassa/G. Petrosillo, da cui estraggo questo passaggio assai pertinente alla vicenda trattata in questo articolo: “… E’ indispensabile che sul piano geopolitico globale, si partecipi alla lotta tra “predoni” nell’attuale multipolarismo e si dovrebbero prendere la misure adatte a sviluppare la propria potenza. In ogni caso anche se non sarà gran cosa per un lungo periodo di tempo, in Italia andrebbero difese quelle poche grandi imprese che agiscono in settori di punta, tecnologici ed energetici…”

Buona lettura

22.05.2021 – Paolo Annoni

Gli Stati Uniti hanno dovuto accettare il fatto che la Germania completi il Nord Stream 2. Una lezione per l’Italia sulla difesa di Eni

L’Amministrazione Biden ha deciso che non applicherà le sanzioni contro la società che sta costruendo il Nord Stream 2 e il suo amministratore delegato. Il portavoce del Segretario di Stato Blinken ha dichiarato che la decisione riflette l’impegno del Presidente americano per “ricostruire le relazioni con i nostri alleati e partner europei” anche se ha ribadito che “l’opposizione al progetto rimane risoluta”. 

Gli Stati Uniti ritengono che il gasdotto sarebbe decisivo per ampliare l’influenza russa in Europa, ma evidentemente i rapporti con Berlino sono stati ritenuti prioritari. La Germania, infatti, si è dimostrata determinata a completare il progetto nonostante le minacce e le pressioni dell’alleato americano. 

A questo punto della vicenda e a pochi mesi dal completamento del gasdotto bisogna interrogarsi su quello che sembra essere l’epilogo di una vicenda che ha messo i due partner su lati opposti per anni. L’epilogo oltretutto arriva in una fase in cui i rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia sono ai minimi termini con il Presidente americano che dà in pubblico dell’assassino a Putin e gli ambasciatori rientrati in patria. L’unica spiegazione possibile alla svolta americana e alla determinazione tedesca è che sia la Germania ad aver bisogno della Russia e del suo gas e non viceversa. La necessità di avere gas a buon prezzo e per molti anni evidentemente deve essere così importante che anche l’alleato americano alla fine ha dovuto “mollare”. La Russia potrebbe vendere il suo gas altrove tanto più in una fase in cui si minaccia il blocco dell’esplorazione in idrocarburi che gli Stati in via di sviluppo non saranno mai in grado di sostituire con fonti rinnovabili. La Germania invece non ha alternative.

Il costo energetico tedesco è già alto e riflette anni di investimenti in rinnovabili. Lo sforzo europeo sulle emissioni rischia di minare l’industria tedesca e di metterla fuori gioco nella competizione globale oltre che abbassare irrimediabilmente gli standard di vita dei suoi cittadini; la Germania ha quindi più che mai bisogno di un complemento affidabile ed economico ed eventualmente di un ripiego nel caso in cui la transizione verde si dovesse rilevare impraticabile e incompatibile con le esigenze di un Paese sviluppato. I Paesi sviluppati, infatti, si basano su un’enorme premessa: la disponibilità di energia a basso costo e affidabile. Tolto questo elemento che oggi si dà per scontato salta tutto. 

Le rinnovabili oggi hanno enormi problemi di costi e di affidabilità. Non sono in grado di sostituire gli idrocarburi in un’ottica di 10/20 anni se non a patto di gravare imprese e cittadini di rincari molto consistenti e magari di esporli al rischio di blackout periodici. Tralasciamo poi i lati sporchi delle rinnovabili a partire dall’auto elettrica che richiede l’estrazione di materie prime che pongono tanti problemi ambientali e sociali nei Paesi produttori; il fatto che l’Occidente non li veda e per questo si senta la coscienza ambientale pulita è un fattore non secondario.

La Germania, quindi, è perfettamente consapevole di non poter garantire un futuro al suo sistema economico e industriale senza il gas russo. Gli Stati Uniti sanno perfettamente che in un contesto di investimenti green miliardari in tecnologie acerbe privare la Germania del gas russo rischia di far saltare l’alleato europeo. Questo è il quadro.

A questo punto si impone una riflessione sull’alleato italiano che ha perso la partita sul South Stream. Oggi si invoca in Italia una transizione decisa verso il green che non si guardi indietro e bruci i ponti. È una posizione da incoscienti alla luce non di qualche oscura contro teoria ma proprio di quello che è successo questa settimana tra Stati Uniti e Germania. Il Nord Stream 2 italiano, la garanzia di poter far sopravvivere il nostro sistema economico e industriale mentre si vive il sogno, o l’utopia, delle rinnovabili tutte e subito si chiama Eni che non a caso è stata la protagonista dell’industrializzazione italiana. Chi oggi cerca di impedire a Eni di fare il suo mestiere è nella stessa posizione di chi voleva impedire all’industria tedesca di completare il Nord Stream 2. La Germania ha percepito immediatamente la minaccia mortale e per questo ha sfidato ogni sorta di pregiudizio. C’è solo da imparare.

NB_Già apparso su http://www.conflittiestrategie.it/nord-stream-2-una-lezione-per-la-futura-forza-nuova-su-come-sostenere-leni

Stati Uniti! Il gran cavaliere, il Grande Idaho, il caro estinto_con Gianfranco Campa

Non poteva mancare il suggello della diplomazia italiana al trionfo personale di una eminenza dello Stati Uniti, Anthony Fauci. Dalla provincia, però, i riconoscimenti devono pagare il pegno della distanza; rischiano di giungere in ritardo, se non fuori tempo massimo. Fauci ha ricevuto il titolo di Cavaliere di Gran Croce al crepuscolo, appena prima del pensionamento e della sua probabile caduta in disgrazia. E’ servito a puntellare le trame ordite ai danni di Trump, ha raccolto gli onori del suo fedele servizio, è caduto vittima della propria hybris. Sarà il comodo capro espiatorio dello scontro tra filo ed anticinesi nella compagine presidenziale americana. Nel frattempo lo scontro politico negli USA inizia ad assumere i connotati di identità territoriale; il Great Idhao è qualcosa in più di una fantasia di una cerchia ristretta di gruppi politici. Un ulteriore colpo alla coesione di una nazione quando i redivivi del vecchio establishment credono ancora di poter risolvere il contenzioso politico eliminando per via giudiziaria Trump, la loro ossessione dietro la quale non vogliono vedere la foresta di un movimento ormai svincolato dai destini di una persona. Il tutto condito da giochi proibiti condotti nel privato di personaggi riconosciuti per la loro filantropia, ma esposti alle manovre più oscure. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vhr6kd-stati-uniti-il-gran-cavaliere-il-grande-idaho.html

 

Libia, la situazione attuale_di Bernard Lugan

I Governi italiani, in particolare i Governi “Giuseppi”, con il noto “Giggino” esperto in affari internazionali, hanno assecondato con la loro inettitudine questa dinamica, consentendo l’ingresso anche della Turchia nello scenario libico, non ostante le reticenze iniziali all’intervento. Porte aperte a un nuovo interlocutore, tra i tanti (troppi), in grado di giocare nell’affollato crocevia energetico del Mediterraneo e di manipolare l’attività delle gang mafiose dedite al traffico migratorio, ma senza avere le risorse politiche e finanziarie della Germania necessarie a rabbonire le inquietudini_Giuseppe Germinario

Il 29 maggio 2018, su iniziativa del presidente Macron, e nel tentativo di riparare le terribili conseguenze della guerra geopoliticamente ingiustificabile che il presidente Sarkozy ha dichiarato al Colonnello Gheddafi, si è tenuto a Parigi un vertice sulla Libia. Questa iniziativa fallì perché, partendo ancora una volta dalla realtà, questo vertice è persistito nei due principali errori del passato:

1) Le tribù, le uniche vere forze politiche del paesi, sono state escluse.
2) L’unica soluzione proposta era ancora una volta un’agenda elettorale. Come dire parole al vento in quanto nuove elezioni non regolerebbero la questione libica rispetto a quelle del 7 luglio 2012 e del 20 febbraio 2014. Semplicemente perché la soluzione sta nella ricostituzione delle alleanze tribali dislocate dalla guerra intrapresa contro il colonnello
Gheddafi e non dalle elezioni.
Da qui l’impasse politica. Nel 2016, Vladimir Putin aveva imposto un nuovo paradigma basato sul vero equilibrio di potere. Ha aperto un nuovo scenario diplomatico con, in conclusione, il viaggio del generale Haftar [1] fatto a Mosca il 27-28 novembre 2016 e in occasione del quale il presidente Putin gli ha concesso ufficialmente il sostegno russo. L’uomo con il quale la diplomazia dell’UE si era rifiutata di parlare direttamente, diventato poi dall’oggi al domani essenziale …
Tuttavia, il generale Haftar era il maestro del Cirenaica e Tobruk, l’unico porto in acque profonde tra Alessandria e Mers-el-Kebir. Aveva l’unica forza militare del paese. Stava controllando l’85% delle riserve petrolifere della Libia, il 70% del gas, 5 dei suoi 6 terminali petroliferi e 4 delle sue 5 raffinerie. Tutto il crocevia petrolifero attraverso il quale viene esportato il 60% del petrolio libico era in suo potere.
Inoltre, aveva il sostegno della confederazione tribale di Cirenaica e delle tribù di Gheddafi di Tripolitania[2].

Con il supporto russo, tre possibilità gli si offrivano:
1) Il tentativo di conquistare tutta la Libia e l’eliminazione delle molteplici milizie gangsterislamiche che affliggono il paese.
2) Un santuario della sola Cirenaica, preludio di una partizione di fatto tra Tripolitania e
Cirenaica.
3) La costituzione di un governo nazionale in cui sarebbe stato l’uomo forte.
Ha scelto la prima opzione, ma non è riuscito a prendere Tripoli avendo il “governo di unità nazionale ”(GUN) presieduto dal signor Fayez el-Sarraj, insediato dall’Occidente, ma privo di una forza militare autonoma, fatto appello alla Turchia.
Se il maresciallo Haftar non è riuscito a prendere Tripoli, nonostante i massicci aiuti ricevuti da Egitto ed Emirati Arabi Uniti, è perché non disponeva di fanteria contro le forze speciali Turche. Inoltre, le milizie di Zintan, delle quali contava il sostegno, si sono radunate a favore dei turco-tripoliti.
La Russia, che non ha mai impegnato il suo esercito al fianco del generale Haftar probabilmente per non aprire un nuovo fronte con la Turchia, ha però tracciato una linea rossa a quest’ultima santuarizzando il fronte ad ovest di Sirte.
La domanda quindi sorge semplicemente:
– Essendo la Turchia militarmente impegnata a fianco del GNA, il generale Haftar non prenderà Tripoli.
– La Russia santuarizza la Cirenaica, quindi il GNA non prevarrà a Bengasi.

Conclusione: le trattative possono quindi riprendere. Ma su basi diverse da quelle irrealistiche, perché solo elettorali, della “comunità internazionale”.
In questo modo, in un certo senso, ci muoveremmo verso un ampio federalismo. Resta da risolvere il problema della condivisione degli idrocarburi che, vista la posizione geografica dei giacimenti, consentirebbe di trovare facilmente un equilibrio territoriale.

[1] Il generale Khalifa Haftar della tribù Ferjany la cui roccaforte è la città di Sirte, luogo di nascita del colonnello Gheddafi, fu, con quest’ultimo, uno degli autori del colpo di stato militare che rovesciò re Idriss nel 1969. Se in seguito litigava con il colonnello, d’altra parte non recise mai i legami con la sua tribù; fattore che lo colloca al centro di una strategica alchimia tribale situata all’incrocio della Cirenaica e della Tripolitania.
[2] Per tutto ciò che riguarda le tribù della Libia e le loro alleanze, vedi il mio libro Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri.

Grazie ai buoni rapporti che il colonnello Gheddafi intratteneva con il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, erano stati presi accordi molto concreti e la Libia ne controllava le coste.
Il dramma di Lampedusa e del Mezzogiorno si spiega con il fatto che la Libia è in piena anarchia, con il paese imploso che in feudi tribali e con milizie i cui leader hanno preso il controllo del traffico della rotta trans-sahariana, compresa quella dei migranti. L’imbuto libico che è quindi il culmine delle principali rotte africane di immigrazione clandestina dall’Africa sud-sahariana, dal Corno e dalle regioni del Vicino Oriente, si è riversata nell’Italia meridionale a partire dalla guerra che ha rovesciato il colonnello Gheddafi.
Qui siamo direttamente immersi nel Camp des Saints di Jean Raspail. Questo libro profetico che risale al 1973, descrive il crollo delle società occidentali sotto lo sbarco di migliaia di immigrati clandestini arrivati ​​su navi spazzatura. Clandestino davanti al quale tutte le istituzioni crollarono a causa dell’etno-masochismo delle “élite” europee piene di sentimentalismo, sentimento che ha avuto la precedenza sulla ragione e persino sugli istinti vitali.

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

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