L’ANNO DEL DRAGHI O L’ANNO DEL DRAGONE? Il manifesto di Mario, di Giuseppe Germinario

Il 15 dicembre scorso Mario Draghi è stato insignito della ennesima laurea “honoris causa” questa volta dal prestigioso Istituto Universitario Superiore Sant’Anna di Pisa. Più che dalla persona la tesi a corredo del riconoscimento sembra stilata piuttosto dal Presidente della Banca Centrale Europea. https://www.youtube.com/watch?v=8G38JxX6e6s

Un accorgimento più che comprensibile vista la delicatezza dell’incarico ormai a scadenza e l’equilibrismo che deve contraddistinguere una funzione legata all’accordo di ben diciannove paesi aderenti all’euro più i nove restanti paesi dell’UE presenti come soci dell’Istituto.

Una posizione che gli ha consentito a costo zero una imprevista, quasi estorta, manifestazione di orgoglio nazionale; professione di fede per altro a buon mercato. Il suo “orgoglio ancora una volta di essere italiano” di fatto si è risolto in una locuzione un po’ funerea di coraggio rivolta allo studente che lamentava l’esodo di laureati dal paese. Più che uno stimolo, un gesto consolatorio non si sa se legato all’aplomb tecnocratico o alla scarsa offerta di prospettive sottesa nel suo discorso. Se a questo si aggiunge la gag del Draghi immortalato in aereo in qualità di viaggiatore arruolato di buon grado tra i ranghi dei navigatori di classe economica di un qualsiasi aereo di linea comincia a sorgere il sospetto che si inizi a costruire cautamente il personaggio politico incaricato, alla bisogna, di scalzare l’attuale governo comunque poco gradito al vecchio establishment non ostante le prestazioni a dir poco contraddittorie.

Se l’operazione Mario Monti è partita ufficialmente dall’alto dell’investitura a Senatore a Vita, quella di Mario Draghi, tra mille cautele, sembra partire dal basso di un viaggio in terza classe e di una locuzione professorale. Segno del cambiamento dei tempi, ma anche del carattere apparentemente meno schizzinoso del nostro rispetto a un Macron, costretto agli stessi gesti plebei ma sempre col fazzoletto detergente e purificatore in mano.

Un orgoglio nazionale del quale è per altro difficile trovare altra traccia nella prolusione; molto più manifesti sono in quel discorso purtroppo i segni del destino riservato al suo paese natale. Segni per l’appunto; parole quindi tutte da interpretare.

Passando quindi al merito del discorso, la gran parte dei detrattori del Presidente si è limitata a deridere la sua professione di orgoglio e a sindacare sulla buona fede del suo invito a valorizzare le specifiche competenze degli stati nazionali nel determinare i livelli di sviluppo dei paesi europei.

Il personaggio in realtà non va sottovalutato; è inverosimile che si presti ad azioni di piccolo cabotaggio o a svolte strategiche sì, ma con la fanfaronaggine e il pressapochismo di un Matteo Renzi qualsiasi.

La sua prolusione, infatti, per quanto capziosa nella trattazione di numerosi argomenti, è ben ponderata e si prefigge tre obbiettivi chiari.

Irridere ai nostalgici dei bei tempi andati della spesa pubblica in deficit e delle svalutazioni monetarie, sostenere la mancanza di alternative all’attuale politica comunitaria e unitaria in Europa anche a difesa, nel modo migliore possibile, delle prerogative degli stati nazionali, evidenziare il carattere irreversibile delle trasformazioni socioeconomiche che rendono inutile e dispendioso l’utilizzo del vecchio armamentario degli strumenti monetario, svalutazione compresa.

GLOBALIZZAZIONE E MERCATO UNICO EUROPEO

La lectio magistralis inizia con una dotta distinzione e contrapposizione tra globalizzazione e mercato unico europeo (MUE); la prima fautrice di diseguaglianze e di arbìtri senza regole, il secondo attento alle implicazioni sociali legate alla sua introduzione e impegnato quindi a regolamentarlo e ingabbiarlo secondo il rispetto di principi di equità. Un parziale rovesciamento dell’impostazione di umanisti come Habermas, muse ispiratrici del pensiero politicamente corretto, i quali vedevano e si ostinano a sostenere che quella delle unioni regionali è una tappa e un tassello del governo unico mondiale di là da venire, fondato sempre più, man mano che il livello di governo si estende all’universo mondo, su principi morali basici quanto generici quanto in qualche maniera cogenti; reso necessario in ultima istanza dalla formazione di un mercato unico globale al quale le dimensioni del soggetto politico per antonomasia, lo stato, devono tendenzialmente corrispondere per essere efficace. In realtà la globalizzazione e il MUE sono un processo in progressiva formazione del tutto simile, con premesse ideologiche identiche, un identico motore unificante iniziale ma con punti di partenza diversi.

Il grande sviluppo tecnologico degli ultimi trenta anni (i container, i mezzi di trasporto, l’informatica, la telematica, ect) è lo strumento che consente l’interconnessione, l’integrazione e l’allargamento esponenziale (globalizzazione) degli spazi entro cui agiscono gli attori economici in particolare e gli agenti politici in generale, allargando a dismisura spazi e competenze anche degli stati nazionali, specie quelli meglio posizionati e con classi dirigenti più capaci e motivate. Le modalità di sviluppo di queste dinamiche sono partite e incrementate seguendo il principio della regolazione multilaterale dei rapporti fondata sulla supervisione e sull’egemonia unipolare statunitense. Una logica sfuggita di mano, che non è quindi riuscita a imbrigliare per troppo tempo le energie scatenate consentendo l’emersione di formazioni sociali e stati nazionali, abili a sfruttare i margini operativi e sempre più in grado di contrastare e competere con la potenza egemone. Un processo politico comunque ancora lungi dall’essere compiuto e che spinge alla formazione di sfere di influenza, comprese quelle economiche, progressivamente delimitate. Un processo che sta erodendo la base di potenza e di ricchezza che ha consentito la costruzione di solide, coese ed estese formazioni sociali basate sullo stato sociale al centro del sistema originario e sta riducendo la capacità di sviluppo e di contrattazione, quindi il peso politico di quei ceti popolari e soprattutto intermedi professionali e di status la cui forza si fonda su una perimetrazione più rigida e circoscritta delle competenze statali delle formazioni dominanti di un tempo. A livello globale non è mai esistita una reale regolamentazione comune o un principio comune di regolazione dei rapporti sociali propri degli stati sociali; la dinamica di destrutturazione e ridimensionamento da una parte e di formazione nei paesi emergenti di ceti intermedi professionali e di controllo assume quindi l’aspetto di un processo naturale ed anonimo. Nella UE e nel suo mercato unico il soggetto politico fondatore e regolatore è identico, sono sempre gli Stati Uniti. La resilienza di questi però è ben più tenace, solida e persistente. Le dinamiche sono identiche, il processo in generale è analogo, di destrutturazione e di ridimensionamento, ma assume maggiormente le modalità politico-giuridiche di attuazione. La ragione risiede nella relativa omogeneità della condizione socioeconomica iniziale dei sei paesi fondatori al momento, negli anni ‘80/’90, dell’allargamento e nella regolazione istituzionale necessaria del processo di detto allargamento dell’Unione. Un processo le cui modalità erano dettate soprattutto dalla fretta delle mire espansionistiche americane veicolate dalla NATO e dalla capacità tedesca di inserirsi in via subordinata nella gestione profittevole dell’espansione ai danni della Russia. Non tutela dei diritti sociali, come sostenuto da Draghi, ma progressiva liberalizzazione e smantellamento di diritti giuridici e posizioni economiche consolidati, compensata solo parzialmente da una redistribuzione pubblica assistenziale di risorse secondo le capacità dei singoli stati nazionali e secondo la forza politica dei gruppi sociali nazionalmente organizzati. La caduta in pratica della maschera dei principi di equilibrio ordoliberisti e l’innesco delle crescenti sperequazioni e dell’appiattimento verso il basso delle condizioni di vita generali proprie di società in fase di ristrutturazione contestuale a un declino relativo.

L’IRRISIONE DEI NOSTALGICI DEI BEI TEMPI

Nel prosieguo della locuzione Mario Draghi individua finalmente i bersagli delle sue stilettate: i fautori della spesa pubblica in deficit e i sostenitori della sovranità monetaria degli stati nazionali europei, soggetti portanti delle attuali forze sovraniste nazionali in Europa. Per delegittimarli gli tocca risalire dagli anni ‘70/’80 e affidarsi ad una interpretazione manichea di quel periodo. Mario Draghi si concede a questo punto un piccolo vezzo. In soldoni fu un periodo, a detta sua, di titolarità di sovranità monetaria dello stato italiano meramente nominale quando lo SME (serpente monetario) era in realtà agganciato ai capricci e al volere del marco tedesco. Una mezza verità che diventa falsità se si nasconde che quella Unione Europea, come per altro quella attuale, anche se adesso in maniera controversa e contestata, è un sistema che favorisce in primo luogo l’egemonia politica e il sistema economico-finanziario americano; un sistema che sancisce negli stessi trattati la propria subordinazione politico-militare. Una condizione, secondo il suo autorevole parere, comunque ben peggiore dell’attuale determinata da una BCE (banca centrale europea) gestita collettivamente dagli stati europei secondo il loro relativo peso economico. Le affermazioni di sovranità nazionale italiana in quel periodo, esteso sino al ’93, consistettero in ben otto svalutazioni, l’ultima particolarmente drammatica, le quali apportarono puntualmente sussulti benefici del tutto temporanei in un quadro però di progressivo deterioramento economico.

L’altra arma sovranista a doppio taglio si è rivelata la spesa in deficit. Non avrebbe interrotto il calo progressivo dei tassi di sviluppo dei paesi europei, soprattutto di quello italiano in rapporto agli altri, se non, lo riconosce a denti stretti, in alcuni anni e a scapito delle solite generazioni future. Ancora una volta il moralismo che sostituisce un approccio analitico; una religione che sostituisce una politica economica e le sue regole finalizzate ad obbiettivi politico-sociali. La svalutazione di per sé avrebbe pregiudicato la riorganizzazione industriale, lo sviluppo dei settori di punta e gli incrementi necessari di produttività. I deficit di loro avrebbero portato all’incremento dei tassi di interesse, al sacrificio del risparmio dirottato a ripianare il debito, alla affermazione dell’assistenzialismo. Entrambi hanno determinato tassi astronomici di inflazione, il carovita come scandito enfaticamente, a scapito delle condizioni di vita e del potere di acquisto degli strati più popolari. Una rappresentazione volutamente drammatica di un fenomeno di per sé grave e dissestante ma che trovava comunque una compensazione nelle forme indicizzate di tutela dei redditi in una situazione occupazionale, compresa quella precaria e informale, comunque migliore di quella attuale in tempi di stagnazione e deflazione. Un determinismo che per altro non riesce a spiegare come mai l’ultima drammatica svalutazione del ‘92/’93 ha coinciso con un calo netto dell’inflazione e con l’ultima consistente ripresa produttiva; che nasconde il fatto che l’incremento esponenziale dei tassi e del montante reale degli interessi ha coinciso soprattutto con la separazione dei poteri di controllo e di liquidità della Banca d’Italia e con la collocazione a terzi dei titoli pubblici. Ignora artatamente l’induzione al debito di natura parassitaria perpetrata dagli stessi agenti convertiti successivamente alla religione dell’austerità. Glissa sulle possibili alternative di utilizzo delle risorse ricavate dagli incrementi produttivi legati alla svalutazione; sulle dinamiche indotte e sulle scelte politiche consapevoli di trasformazione assistenzialistica e ipertrofica delle partecipazioni statali propedeutiche ad una svendita e ad una privatizzazione scellerata; sul sacrificio consapevole delle poche grandi industrie private innovative come la Olivetti; sul tradimento della piccola e media borghesia contadina specie del centro-sud sacrificata all’intermediazione predatrice grazie al sacrificio dell’intero comparto agroalimentare pubblico e della sua struttura calmieratrice della rete commerciale. Draghi glissa perché fu uno degli artefici e dei complici di quelle scelte dovute al connubio tra un ceto politico approssimativo, senza particolari ambizioni di rinascita nazionale in grado di motivare la nazione, un grande ceto imprenditoriale e manageriale rinunciatario perennemente incapace di egemonizzare una qualche ambizione di sviluppo autonomo, un medio ceto imprenditoriale di settori maturi in buona parte lesto a compiere il salto dimensionale inserendosi nelle pieghe parassitarie delle rendite legate alla gestione dei servizi e delle reti e una rete di intermediari, dai quali lui stesso proviene, pronti a rimediare lucrose parcelle.

IL DIO MERCATO

Per Draghi il verbo illuminante e la panacea risolutrice si riducono al ricorso al mercato, nella fattispecie al mercato unico europeo regolato uniformemente. Una via di fuga che lo conduce, in questa parte così cruciale della sua perorazione, alle acrobazie logiche e alle omissioni rispettivamente le più ardite e complici tanto più da parte di un uomo che ha vissuto dall’interno e ai livelli più alti le vicende legate a quella costruzione. Un edificio, per altro, apparentemente unico; in realtà ancora in gran parte da costruire. Mario Draghi si guarda bene dal rappresentare il mercato come un insieme di spazi e di regole frutto e spesso sommatoria di trattative e pressioni di centri politici, governi nazionali e lobby la cui particolare definizione e conformazione serve ad affermare particolari gerarchie, sistemi di potere e ipoteche di sviluppo. Non potendo offrire comuni magnifiche sorti e progressive, nel corso dell’eloquio esso da strumento diventa progressivamente un fine in sé apparentemente astratto al quale adeguare inesorabilmente le scelte di politica economica. Riconosce a denti stretti che è produttore di diseguaglianze, ma constata che dopo tutto sono fisiologiche e non sono molto dissimili da quelle prodotte da altri mercati unici come quello dello stato federale americano. Si affretta a vantare che con il superamento della crisi del 2008 i differenziali dei tassi di crescita dei paesi europei aderenti all’euro si sono ridotti, ma glissa elegantemente sul fatto che questi tassi, compresi quelli tedeschi, sono risicati e nettamente inferiori a quelli delle maggiori economie e di gran parte dei paesi europei esterni al sistema monetario. L’importante è proseguire sempre e comunque, a prescindere dalle regole fattuali, su questa strada ineluttabile.

I MERITI E LE COSTRIZIONI, LE CONDIZIONI IRREVERSIBILI DEL DIO MERCATO

Come ogni religione che si rispetti, quella del dio mercato prevede un destino, percorsi obbligati, costrizioni, punizioni, l’esercizio virtuoso e gratificazioni; le più significative di queste ultime ai più riservate a tempi di là da venire.

I virtuosi sono quelli predestinati a godere dei benefici sulla terra. Sono quelli che, almeno in buona parte in apparenza, seguono diligentemente le regole austere del buon governo. Sono tutti guarda caso collocati, come una cintura, intorno al paese perno dell’Unione, la Germania. Tutti hanno beneficiato di particolari condizioni: di zone franche necessarie ad ospitare reti finanziarie, logistiche e commerciali; di un trasferimento repentino di fondi europei a discapito di altre zone specie dell’area mediterranea; di attenzioni anche economiche e finanziarie legate alla loro posizione strategica di stati confinanti con la Russia. Condizioni che stanno alimentando nazionalismi radicali alcuni dei quali tanto più urlati ed esibiti quanto più straccioni perché legati strettamente alla copertura politica-militare americana e alla dipendenza economico-finanziaria angloamericana e tedesca. Un dilemma che per la classe dirigente tedesca si sta rivelando un cappio sempre meno districabile per liberare le proprie ambizioni geopolitiche.

Mario Draghi a questo punto si permette anche il vezzo della moral suasion, della persuasione morale autorevole e aggiungo beffarda. Nota che, dopotutto, la politica di deficit non interessa gran che ai residui paesi europei detentori della propria moneta sovrana visto hanno stati di gran lunga con minor debito. Lungi dalla mente del Pontefice dell’euro, la considerazione che è proprio la politica restrittiva, connaturata all’attuale gestione della sua moneta e all’assetto di potere connesso, a costringere al debito e al deficit incontrollato dei paesi subordinati.

Arriva a capovolgere la situazione ed appropriarsi dell’afflato sovranista. Afferma che è compito degli stati nazionali aver cura dei livelli di sviluppo riconquistando la capacità di politiche anticicliche e avviando una volta per tutte le politiche di riforme strutturali. Quelle sacrosante di riforma delle amministrazioni pubbliche. L’esperienza del Governo Renzi ha però rivelato una volta per tutte la mistificazione e l’irrealizzabilità di esse se non accompagnate da un reale processo di rinascita nazionale antitetico a questa Unione Europea, non fosse che per il fatto che il blocco retrogrado e affossatore, al pari delle élite esterofile, è parte integrante di questa alleanza politica europea. Quelle che in realtà sono una liquidazione senza contropartita valida dei residui poteri di controllo e di indirizzo statuali.

Di fatto l’afflato sovranista del Presidente non si spinge oltre il proprio naso, per quanto importante esso sia.

Le politiche anticicliche sarebbero possibili solo una volta messi a posto i conti pubblici e rispettati quindi i parametri di avvicinamento al deficit zero e al debito del 60%.

La strada è tracciata senza possibilità di variazione. La soluzione sta più che nel controllo delle leve e degli azzardi nella dispersione del rischio. I soggetti, sia pubblici che privati, devono collocare il proprio debito e le proprie attività in un ventaglio di operatori quanto più ampio possibile. Aperti alle acquisizioni estere. Mercati finanziari ancora più ampi e aperti quindi. Draghi, evidentemente, in nome di una virtù astratta mostra di girare altrove il proprio naso di fronte alle evidenze e ai cartelli esistenti nel mondo finanziario in stretto collegamento e integrati in centri decisionali politici.

Mercati per di più non soggetti a un controllo pubblico europeo efficace.

Mario Draghi infatti riconosce, ineffabile che l’Unione e l’Autonomia Fiscale Europee, il sistema politico-economico di controllo e azione più efficace, è politicamente irrealizzabile. Non resta che l’Unione Bancaria le cui condizioni si guarda bene da tracciare, comprese la pervasività degli strumenti di controllo e sanzione, la taratura del peso che la composizione dei prodotti speculativi, delle esposizioni in titoli pubblici e in crediti privati necessaria a qualificare la solidità delle banche. L’ennesimo riconoscimento di una struttura di mercato nella quale agiscono le economie europee, ma determinata sostanzialmente da altri.

Infine la costrizione, la camicia di forza.

Mario Draghi vanta con insistenza e soddisfazione il maggior successo della creazione del mercato unico: i notevoli incrementi di produttività consentiti dall’integrazione economica e dalla creazione di catene di valore continentali che contribuiscono alla creazione del prodotto finale. Una strada per consentire la sopravvivenza della piccola industria italiana produttrice di componentistica. L’afflato sovranista del nostro si riduce alla fine ad uno spirito e una politica di sopravvivenza. Glissa omertosamente sul fatto che a determinare le scelte e le strategie economiche sono i detentori del prodotto finale e delle reti e delle politiche commerciali e di investimento strategico; soggetti sempre più assenti dal panorama politico-economico italico.

Segnala che paradossalmente le situazioni di stagnazione e crisi non portano più ad un abbassamento, ma ad un rialzo dei tassi di interesse rendendo inefficaci le politiche sovraniste legate ai tassi di interesse pubblici.

Avverte che tale integrazione annulla progressivamente gli effetti benefici di eventuali svalutazioni rese possibili dal recupero di sovranità monetaria, grazie al peso crescente delle importazioni nel corredo dei magazzini aziendali.

Il quadro del nostro prode convertito al sovranismo pare a questo punto completo.

I FONDAMENTI DI VERITA’ DELLA LECTIO

Non si può ridurre la locuzione di Draghi a un mero pamphlet propagandistico o ad un anatema inquisitoria. Esso poggia su fondamenti di verità fondati su assetti di potere e dinamiche autoavveranti consolidate e potenti.

La considerazione attenta del peso e dell’autorevolezza del personaggio deve indurre a superare la faciloneria con la quale si prospettano soluzioni alternative ed antitetiche e con la quale si adottano le tattiche politiche.

Mario Draghi ci ha detto tra le righe che il processo di integrazione europei crea dinamiche e corpi sociali in grado di neutralizzare le velleità politiche alternative se non si adottano strategie e azioni in grado di neutralizzare e convertire almeno parte di quei corpi. Lo vediamo nelle contraddizioni e nelle resistenze che stanno via via emergendo e si stanno coagulando all’interno delle due forze politiche di governo. In mancanza di forze alternative credibili e in attesa di sviluppi futuri tutti da costruire e al momento improbabili al vecchio establishment non resta in realtà che fare affidamento soprattutto nelle tattiche di infiltrazione e di scompaginamento. I tentennamenti e le giravolte dei leader della compagine non sono solo il frutto di una loro leggerezza ma l’esito di pressioni contrastanti. Il malumore crescente degli imprenditori legati alla catena di valore ostentata da Mario Draghi, le pressioni autonomiste incontrollate delle regioni avulse da un progetto di riordino delle competenze dello stato centrale sono solo due dei potenti fattori destabilizzanti e restauratori in azione.

Una forte e solida classe dirigente politica non può assecondare, ma non può solo reprimere ed osteggiare tali istanze; deve ricondurle almeno in parte al proprio progetto. Sempre che tale progetto esista.

Se i settori di componentistica sono così importanti, bisogna pensare probabilmente ad una riconversione di essi alla creazione di prodotti finali oppure contribuire a creare soggetti aggregatori alternativi. In alternativa alle case automobilistiche tedesche, pensare a cercare altri interlocutori, magari in Cina o nel politicamente più praticabile Giappone, disposti a ricreare una industria automobilistica nazionale.

Se il problema degli operatori agricoli è l’esposizione ai capricci e alle vessazioni della rete commerciale, bisogna pensare a riprendere il controllo almeno parziale di questa rete e a indirizzarla anche secondo gli orientamenti geopolitici nuovi che potrebbero emergere.

Non si tratta di dividersi in maniera manichea tra keynesiani e liberisti. Si tratta piuttosto di poter riacquisire le leve di una politica monetaria e del debito oculata tale da garantire potenza e forza economica nonché coesione e dinamismo sociale; dall’altro di adottare dove necessario criteri privatistici di gestione tali da consentire l’ottimizzazione dell’utilizzo di risorse finalizzato a obbiettivi definiti.

Un mix di uso corrente nei paesi emergenti e in quelli intenti a mantenere le proprie prerogative di influenza, compresi quelli che predicano le virtù delle aperture incondizionate altrui.

L’UE non brilla di successi economici. Vive un declino fatto di imprese, comprese quelle tedesche, mature e sottodimensionate. Un aspetto che Mario Draghi si guarda bene di evidenziare e di analizzare nelle sue cause. La Germania stessa ha visto precipitare in pochi anni otto delle dieci aziende presenti nel Gotha mondiale nelle graduatorie sottostanti. Le poche stelle emergenti e realtà innovative di successo, a rischio di regredire e risolversi rapidamente in buchi neri, come il Consorzio AIRBUS, il progetto Galileo, sono nati non ostante la diffidenza e l’avversione degli apparati della UE e l’attuazione di politiche dirigiste. Rischi di regressione frutto di compromessi nefasti tra tedeschi e americani a danno dei francesi.

Un uso sagace di essi scevro però da trionfalismi un po’ cialtroni che nascondono in realtà pesanti compromessi e cedimenti poco confessabili da parte di un ceto politico ostaggio di sondaggi e consensi elettorali volubili.

Nell’attuale Governo esistono queste forze, ma sono ridotte e isolate. Riescono al meglio ad acuire le contraddizioni nello scenario europeo, ad avviare surrettiziamente politiche di consolidamento e ricostruzione di particolari apparati prontamente inficiati però da tendenze e pratiche opposte, non ancora in grado quindi di costruire autorevolezza ed egemonia.

Pochi spunti tra i tanti necessari a ricostruire prerogative dello stato nazionale non fini a se stesse ma utili a riproporre su basi paritarie e di autonomia politica, rispetto agli altri grandi attori geopolitici, il sistema di relazioni tra i principali paesi europei.

L’obbiettivo è tradurre questa intenzione in strategie, tattiche e obbiettivi praticabili, pena il rischio di liberarsi da sudditanze ormai ataviche per cadere in altre sotto diverse spoglie.

Quanto a Mario Draghi lasciamolo libero di coltivare le proprie ambizioni. Costringiamolo, però, a rivelarsi per quello che è, impedendogli di coprirsi dell’aura di salvatore della patria.

Il Quantitative Easing è il biglietto da visita del nostro prode. È stato lo strumento per salvare la Grecia e soprattutto l’Italia, ma per mantenerli con l’acqua alla gola. Si glissa opportunisticamente sui vantaggi maggiori che ha lucrato ad esempio la Germania con l’ingresso di capitali a costo zero.

È il classico personaggio vocato ad esporre alle peggiori intemperie le istituzioni che rappresenta e i paesi che governa piuttosto che a costruire navigli solidi e porti sicuri.

Il suo passato in Goldman & Sachs rappresenta un retaggio da non dimenticare e un marchio da non rimuovere.

 

È Huawei la prima vittima della guerra economica fra Usa e Cina?, di Giuseppe Gagliano

tratto da https://www.ilprimatonazionale.it/economia/huawei-prima-vittima-guerra-commerciale-usa-cina-99335/?fbclid=IwAR2xuRHH5orSdiqlwcMTj9Myzv0oIbEottR1e-EGUyn1n7jSmatvKuPOS54

Roma, 24 dic – Il gigante cinese delle telecomunicazioni è rimasto così deluso dagli Stati Uniti che pare stia valutando di ritirarsi da questo mercato. Huawei infatti non è la benvenuta negli Usa almeno dal 2012, anno in cui un rapporto del Senato americano indicava delle falle nella sicurezza dei suoi dispositivi. Secondo questo richiamo, inoltre, il gruppo rappresentava “una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”, senza nemmeno fornire delle prove concrete a supporto delle accuse. Qualche mese dopo, gli sforzi delle autorità americane per impedire a Huawei di accedere al loro mercato sono aumentati. A marzo 2018, i principali operatori e distributori telefonici americani (AT&T, Verizon e BestBuy) si sono arresi alla pressione politica e hanno deciso di non vendere i cellulari o altri prodotti a marchio Huawei. Il gruppo cinese ha rinunciato così a mettere sul mercato americano il suo ultimo modello di cellulare, il Mate 10 Pro. Il vero duro colpo per Huawei è arrivato però ad agosto, con la promulgazione del Defense Authorization Act. La legge vieta alle agenzie governative statunitensi o al personale e alle strutture che desiderano lavorare con il governo di utilizzare i dispositivi Huawei, ZTE o di altre imprese cinesi. I prodotti Huawei e ZTE sono così ufficialmente banditi dal mercato pubblico americano.

A seguire, in altri Paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare quelli appartenenti al club “Five Eyes” (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), si sono moltiplicati i sospetti riguardo Huawei. Il 23 agosto, l’Australia ha dichiarato il divieto a Huawei e ZTE di aprire la loro rete 5G, appellandosi al rischio di spionaggio. In ottobre il Regno Unito ha avviato un’inchiesta per valutare se il Paese fosse “troppo dipendente” da un unico fornitore per le telecomunicazioni. In un Paese dove la maggioranza degli operatori internet utilizza prodotti Huawei, il gruppo cinese sembrava direttamente preso di mira. Il 28 novembre la Nuova Zelanda ha vietato al suo operatore storico, Spark, di rifornirsi da Huawei, citando i problemi di sicurezza legati alla tecnologia 5G. Una settimana dopo anche all’operatore inglese BT è toccato rinunciare al rifornimento da Huawei per le reti 5G, citando nuovamente i problemi relativi alla sicurezza. Il giorno precedente, il titolare dell’MI6 aveva chiesto di punto in bianco ai media di bandire completamente le apparecchiature telefoniche Huawei. Infine, il 7 dicembre, Reuters ha annunciato che anche il Giappone si apprestava a ritirare Huawei e ZTE dal suo mercato pubblico sul 5G.

Le conquiste realizzate da Huawei sui mercati dei vicini alleati degli USA sembrano così franare come un castello di sabbia. L’insieme dei Paesi o delle aziende che hanno deciso di non fare più affari con il marchio cinese motivano la loro scelta indicando i rischi connessi alla sicurezza. Seppur non si citi espressamente il rischio di spionaggio, l’obiettivo sembra proprio quello di dimostrare l’inaffidabilità del gruppo. Nel Regno Unito, BT ha dichiarato che “Huawei rimane un importante fornitore di dispositivi al di fuori della rete principale, nonché un partner prezioso per l’innovazione” e ha anche annunciato di aver già ritirato, come misura di sicurezza, i componenti dello stesso marchio per le reti 3G e 4G. In Nuova Zelanda si cerca di spiegare che “non si tratta del Paese, ma dell’azienda nello specifico” e che sono i proprietari della 5G ad aver creato una rete più vulnerabile ai cyberattacchi… un altro modo per dire che Huawei non si merita fiducia su questo tipo di tecnologie sensibili. Solo l’Australia ha ufficialmente menzionato il rischio di spionaggio stimando che “le implicazioni per i fornitori (dei prodotti per le telecomunicazioni) esposti alle decisioni extragiudiziarie di un governo straniero” costituiscono un rischio per la sicurezza. Le autorità australiane si riferivano all’art. 7 della legge sui servizi segreti nazionali cinesi del 2017, secondo cui tutte le attività imprenditoriali cinesi devono cooperare con l’intelligence del proprio Paese. Huawei ha risposto negando d’intrattenere rapporti con lo Stato cinese.

Un temibile concorrente

Sia che intendano allertare i propri partner dei gravi rischi che corre la sicurezza, sia che vogliano vincere una guerra commerciale, non si può non notare lo sforzo concertato delle autorità statunitensi per indebolire Huawei. Il 23 novembre, il Wall Street Journal ha accusato gli Stati Uniti di condurre una campagna nei confronti di alcuni dei suoi alleati – tra cui l’Italia, la Germania e la Francia – al fine che questi rinuncino alla tecnologia 5G prodotta dall’azienda cinese. In un’intervista rilasciata al Journal du Dimanche il 24 novembre, l’amministratore delegato di Huawei France ha cercato di rassicurare tutti i suoi clienti europei puntando il dito contro le manovre americane: “Lavoriamo da più di dieci anni in Germania e non abbiamo mai avuto il minimo problema, esattamente come negli altri 170 Paesi dove ci siamo stabiliti. Sospetti senza fondamento come questi emergono in un clima di tensioni commerciali e geopolitiche”.

In effetti è difficile non vedere in queste misure un tentativo da parte degli Stati Uniti di indebolire un rivale temibile su un mercato che, peraltro, si prospetta promettente. Un rapporto del Senato americano del 15 novembre dedicava un intero capitolo al dominio cinese sul mercato mondiale del 5G, il quale si può descrivere come un nuovo terreno di guerra economica che va conquistato. Secondo il rapporto, “il governo cinese cerca di superare a livello industriale gli USA per aggiudicarsi una fetta più grande di benefici economici e d’innovazione tecnologica”. Malgrado la concorrenza sleale degli Stati Uniti e il rischio spionaggio, si sottolineava la necessità di superare la Cina.

Le accuse americane coincidono peraltro con i primi lanci delle reti 5G al mondo, i quali hanno avuto inizio negli Stati Uniti nell’ottobre 2018 e che, in Cina e in Europa, inizieranno rispettivamente nel 2019 nel 2025. È così che gli Stati Uniti cercano di sabotare gli sforzi di Huawei, la quale sembrava essere molto favorita in questi mercati. L’azienda, leader del 5G, ha di recente annunciato di aver siglato 22 contratti commerciali per l’installazione di questa rete: è stata l’unica a guadagnare terreno sui mercati nel 2017, passando dal 25 al 28%, strappando il trono ai suoi rivali europei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Huawei rappresenta, anche nel mercato del 5G, una minaccia crescente per il gigante americano Qualcomm. L’azienda cinese ha infatti sviluppato le proprie smart card compatibili con la tecnologia 5G, mettendo in pericolo il predominio di Qualcomm, che primeggiava ampiamente sul mercato.

La rimessa in gioco della carta dell’extraterritorialità del diritto statunitense

La campagna di destabilizzazione di Huawei sul mercato del 5G appare come un’ulteriore rappresentazione della guerra economica che Cina e Stati Uniti stanno per scatenare. Dopo aver cercato di gettare fango sulla reputazione del gigante cinese, pare che gli Stati Uniti vogliano passare alla fase successiva. Mentre il 1° dicembre aveva inizio a Buenos Aires il vertice del G20, la direttrice finanziaria cinese Meng Wanzhou veniva arrestata all’aeroporto di Vancouver su richiesta degli Stati Uniti. Meng Wanzhou, che è figlia del capo di Huawei, rischia l’estradizione negli Stati Uniti. Le ragioni ufficiali dell’arresto non sono chiare, ma, secondo Le Figaro, Huawei è accusata di violare l’embargo statunitense contro l’Iran. Lo spettro dell’extraterritorialità del diritto americano sembra così essersi abbattuta nuovamente sul suo avversario economico. Un altro esempio recente si è verificato il 22 novembre, quando la Société Générale si è vista precipitare addosso una multa da 1,35 miliardi di dollari per aver violato gli embarghi americani. Se Huawei verrà condannata, nell’arco di un anno per la Cina saranno due le società di telecomunicazioni – leader nel settore – a essere prese di mira: a giugno 2018, infatti, ZTE è stata accusata di aver violato gli embarghi del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) all’Iran e alla Corea del Nord. ZTE ha dovuto pagare una multa da 1 miliardo di dollari e si è vista imporre la presenza nelle sue sedi di un “compliance team”, una squadra addetta al controllo della conformità, per un periodo di dieci anni.

Rispetto all’arresto di Meng Wanzhou, le autorità cinesi hanno reagito senza celare la collera, pretendendo fermamente la liberazione della cittadina. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il consigliere all’economia alla Casa Bianca ha assicurato che il Presidente Donald Trump non fosse stato informato dell’arresto della dirigente. È quindi così che, durante il G20, si è svolto il tête-à-téte con il Presidente Xi Jinping. Una nota amara che non può accontentare la parte cinese e che sembra suonare la campana a morto per la tregua commerciale tra i due giganti.

Giuseppe Gagliano

PRIMATO ENERGETICO E GEOPOLITICA, di Gianfranco Campa

PER LA PRIMA VOLTA DOPO 70 ANNI GLI STATI UNITI HANNO ESPORTATO PIÙ PETROLIO DI QUANTO NE ABBIANO IMPORTATO.

 In un articolo che abbiamo pubblicato su Italia e il Mondo lo scorso Giugno (http://italiaeilmondo.com/2018/06/10/2155/ ), abbiamo annunciato come gli Stati Uniti siano diventati il primo produttore di Petrolio, Idrocarburi e gas naturale al mondo.

Ebbene la settimana scorsa la EIA, cioe la U.S.Energy Information Administration (https://www.eia.gov/), l’agenzia federale, parente del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che si occupa di collezionare, analizzare e disseminare  tutti i dati pertinenti alle importazioni, esportazioni e produzione su carbone, petrolio, gas naturale, energia elettrica, energia rinnovabile e nucleare, ha divulgato dati importantissimi che dimostrano la crescente potenza energetica degli Stati Uniti.

E ormai confermato che gli Americani sono diventati la potenza energetica principale al mondo e l’ultimo tassello nel consolidamento di questa epocale trasformazione si è avuto nell’ultimo semestre del 2018; per la prima volta dal 1949, cioè quando il presidente Harry Truman era ancora in carica alla Casa Bianca, quasi 70 anni fa, le importazioni nette settimanali di petrolio greggio e prodotti petroliferi sono scese a meno 211.000 barili al giorno (bpd) a fronte di un’impennata delle esportazioni di greggio con il record settimanale di oltre 3,2 milioni di bpd. In altre parole gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di energia, hanno esportato più di quanto abbiano importato.

Sempre secondo i dati forniti dalla EIA, le importazioni nette di petrolio negli Stati Uniti hanno raggiunto un picco nel 2005 di oltre 14 milioni di barili al giorno e da allora sono sono costantemente scese fino a raggiungere, la settimana scorsa il livello più basso mai registrato. Durante questo periodo, la produzione di petrolio negli Stati Uniti è più che raddoppiata, trasformando gli Stati Uniti nel più grande produttore di petrolio e gas naturale del mondo, avanti all’Arabia Saudita e alla Russia.

Questa trasformazione energetica è dovuta a molti fattori, ma soprattutto all’uso della fratturazione idraulica (fracking) conseguente alla perforazione orizzontale che ha permesso di sfruttare i giacimenti del Shale Gas (gas da argille). Il miracolo energetico degli Stati Uniti deve essere quindi ricercato nello sfruttamento dello Shale Gas, ma non solo.

Un altro fattore importante nel determinare la rivoluzione energetica americana va vista nel programma di riforme del presidente Trump. Programma teso a stimolare la crescita economica eliminando regolamenti federali eccessivi e onerosi cha hanno alleggerito l’impatto burocratico nell’industria in generale ma energetica in particolare. Grazie alle politiche di sostegno dell’industria energetica, i produttori di shale continuano a stabilire risultati record, in primis riducendo i costi di estrazione e di conseguenza aumentando l’input di produzione, al punto tale che anche se il costo a barile dovesse scendere a 40 dollari, i produttori americani non perderebbero la loro competitività.

L’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) ha, in gran parte, dettato il mercato del petrolio negli ultimi 50 anni. L’Agenzia internazionale per l’energia, tuttavia, ha recentemente stimato che gli Stati Uniti rappresenteranno quasi il 75% della crescita della produzione petrolifera mondiale da qui al 2040. L’Energy Information Administration prevede che il Shale Gas, solo nello stato del Texas rappresenterà il 50% di tutta la nuova produzione mondiale di petrolio nei prossimi cinque anni. Spinti da questi livelli di produzione, nel 2017, l’economia del Texas è cresciuta più velocemente di qualsiasi altro stato americano, a confronto, fino a due volte e mezzo in più rispetto al PIL registrato all’epoca dell’amministrazione Obama. C’e` di piu! Nel 2017 la produzione di Shale Gas associata a tutta quella del comparto energetico statunitense, ha alimentato la crescita del settore manifatturiero, soprattutto in Texas dove ha significativamente superato la media nazionale. L’aumento della produzione energetica americana ha creato nuovi posti di lavoro, posti di lavoro altamente remunerati. Ma non è solo il Texas a beneficiare di questa rivoluzione energetica; anche stati come la Pennsylvania, il North Dakota, il New Mexico, il Colorado e tanti altri hanno fruito economicamente del boom energetico Americano. I grandi giacimenti nella regione del bacino Permiano, nel Texas e nel Nuovo Messico, passando per la riserva Bakken nel North Dakota, un “serbatoio”  petrolifero di circa 200 mila miglia quadrate di estensione,  fino alla formazione della Marcellus in Pennsylvania, hanno contribuito al miracolo energetico degli Stati Uniti. Come se tutto ciò non bastasse il Dipartimento degli Interni americano ha annunciato, il 6 dicembre scorso, la scoperta del più grande giacimento di petrolio e gas mai visto. Il giacimento è situato nel cosiddetto Wolfcamp Shale e sovrasta il Bone Spring Formation in Texas nonchè nel bacino Permiano del Nuovo Messico. Si stima che il nuovo giacimento contenga 46,3 miliardi di barili di petrolio, 281 trilioni di metri cubi di gas naturale e 20 miliardi di barili di gas naturale per un valore stimato in trilioni di dollari. (https://www.doi.gov/pressreleases/usgs-identifies-largest-continuous-oil-and-gas-resource-potential-ever-assessed )

Secondo l’API (American Petroleum Institute) (https://www.api.org/) per bocca del suo vicepresidente, Erik Milito, ha dichiarato che:  “L’industria petrolifera e del gas naturale statunitense continua a essere all’avanguardia, portando grandi benefici economici, inclusi investimenti e posti di lavoro, in varie comunità sparse per il paese, oltre naturalmente a energia abbordabile e affidabile.. Il Nuovo Messico, per esempio, nel 2015,  beneficiò di oltre 90.000 nuovi posti di lavoro sostenuti dal 13% del suo PIL derivante dall’industria del petrolio e del gas naturale…Tecnologie avanzate e alti standard industriali consentono all’industria petrolifera e del gas naturale di esplorare e sviluppare in modo sicuro e responsabile sia onshore che offshore..”

 

La differenza principale tra produzione tradizionale di petrolio e quella dello Shale Gas è la diversità di accesso alla produzione che, invece delle grandi compagnie petrolifere, vede come attori principali le piccole e medie imprese energetiche. In altre parole i proprietari terrieri trasformati da mandriani a milionari dell’energia nel giro di pochi anni. Una Arabia Saudita agli antipodi; lì i proprietari di dromedari si sono trasformati in sceicchi del petrolio, mentre qui in USA, i Cowboy delle praterie del Dakota in imprenditori del settore energetico.

La notizia che gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di petrolio per la prima volta dopo quasi 70 anni è stata oscurata, la scorsa settimana, dall’incontro dell’OPEC a Vienna, dove i 15 membri e la Russia hanno deciso di tagliare la produzione di 1,2 milioni di barili per i primi sei mesi del 2019.

Gli Stati Uniti erano esclusi dal summit tra i produttori OPEC e non OPEC; ciononostante l’influenza del paese a stelle e strisce sui mercati petroliferi globali è destinata inevitabilmente a rafforzarsi e ad oscurare il cartello petrolifero , come afferma anche l’International Energy Agency (IEA) che nel suo ultimo rapporto ha dichiarato  “Mentre gli Stati Uniti non erano presenti a Vienna, nessuno può ignorare la loro crescente influenza…”  All’incontro dell’OPEC insomma c’era un convitato di pietra, mai nominato, non invitato, ma inevitabilmente presente, soprattutto nei pensieri dei partecipanti al vertice: gli Stati Uniti. Se l’ombra degli Stati Uniti non bastasse, si aggiungono ai dolori dell’OPEC anche la notizia che il Qatar si ritirerà dall’organizzazione. Intervenendo ad una conferenza stampa, il ministro dell’Energia del Qatar, Saad al-Kaabi, ha dichiarato che il paese si ritirerà dall’OPEC dal primo  gennaio 2019, ponendo fine a un’adesione che dura da più di mezzo secolo.

E chiaro che il boom energetico americano crea una serie di problematiche a livello geopolitico non indifferenti. L’OPEC è in fase di declino, gli analisti mettono in discussione la rilevanza a lungo termine del cartello petrolifero in un contesto storico dove gli Stati Uniti assumono un ruolo sempre più importante in quel mercato. Il rapporto tra Stati Uniti e resto del mondo , in particolare gli stati arabi del golfo, verrà senza dubbio influenzato da queste nuove dinamiche economiche-energetiche. Il futuro verrà rimodellato in parte dai cowboys delle praterie americane, trasformati in magnati del petrolio. Se sia una cosa positiva o meno ce lo dirà solo il tempo.

Nel frattempo gli Stati Uniti, ormai secondi al mondo dopo la Cina nel campo delle rinnovabili, stanno comunque sviluppando la produzione alternativa di energie rinnovabili a dispetto della nomea generale diffusa.

Il settore delle energie rinnovabili ha continuato a crescere significativamente nel 2018 nonostante alcune storture di natura burocratica e fiscale. L’innovazione tecnologica legata alla produzione e allo stoccaggio di queste energie sta compiendo passi significativi e progressivi.

Nel frattempo la decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo climatico di Parigi, provocò, all’epoca, indignazione tra i politici, la comunità internazionale e gli ambientalisti, definendola una scelta di isolazionismo pericoloso per l’ambiente e di conseguenza per l’umanità.

L’American Enterprise Institute (AEI) analizzando i dati a disposizione, ha pubblicato un grafico che indica come gli Stati Uniti sono leader mondiali nella riduzione di emissioni di carbonio. Dal 2005 le emissioni annue di biossido di carbonio sono diminuite di 758 milioni di tonnellate. Nello stesso periodo, per l’intera comunità Europea, le diminuzioni sono state di 770 milioni di tonnellate. Nel 2017 le emissioni di carbonio negli Stati Uniti sono diminuite di oltre 42 milioni di tonnellate, questo nonostante l’uscita dall’accordo di Parigi. Tra il 2005 e il 2017 le emissioni di anidride carbonica sono diminuite del 12,4% su base assoluta e del 19,9% su base pro-capita. In contrasto la Cina, firmataria di Parigi, si è confermato il paese con le emissioni inquinanti più alte del mondo, emettendo nel 2017, il più alto numero di carbonio nell’atmosfera, accoppiati con l’India hanno rappresentato quasi la metà del totale delle emissioni globali di carbonio.

Qui sotto i link illustrativi delle tendenze in atto:

https://www2.deloitte.com/us/en/pages/energy-and-resources/articles/renewable-energy-outlook.html?fbclid=IwAR0Im0ARrlxluB5oeasJkixoA1zDXvA_yg60cob9WfGO7Rcxw787it4YJO8

https://capitalresearch.org/article/u-s-achieves-largest-decrease-in-carbon-emissionswithout-the-paris-climate-accord/?fbclid=IwAR2m6YBCj0ISubdVrdXF5ryF4Kqpt_8TBdfAxtI-fYLeLDOBZobLC0PNv3A

https://capitalresearch.org/article/u-s-achieves-largest-decrease-in-carbon-emissionswithout-the-paris-climate-accord/?fbclid=IwAR2kJ9xraYo19Lr4eaq30wn_Xa-hF5rl_D149i3Lpz5tZXe6ClFTPfmbvhU

NB_ Il traduttore di google offre una traduzione attendibile in caso di necessità

Subordinazione alla francese, a cura di Giuseppe Germinario

Pubblichiamo qui sotto il testo tradotto di una intervista di Leslie Varenne riguardante le ragioni dello spezzettamento e della cessione a General Electric dell’intero comparto energetico. Nell’affrontare il tema dell’elezione di Macron abbiamo già sottolineato alcuni aspetti della politica estera ed economica francese. http://italiaeilmondo.com/2018/01/06/macron-micron_-3a-parte-di-giuseppe-germinario/ Dietro i toni e la retorica nazionalista, ben inserita nel contesto europeista, si celava una condizione di subalternità deprimente, del tutto paragonabile a quella italiana. Questa intervista chiarisce nei dettagli alcuni aspetti importanti di queste dinamiche. Rivela positivamente, ancora una volta, la presenza strutturata anche se minoritaria di forze sovraniste ben radicate in alcuni centri di potere e decisionali. Soprattutto, svela come la competizione economica sia parte integrante della competizione politica e geopolitica. Uno dei meriti dell’elezione di Trump è di aver messo a nudo una verità a lungo nascosta dalle ideologie globaliste. Buona lettura_Giuseppe Germinario

10.July.2018 // The Crises

Le vere ragioni del taglio di Alstom, di Leslie Varenne

Alstom-Siemens

 

Fonte: IVERIS, Leslie Varenne , 10-10-2017

Durante una conferenza, Christian Harbulot, capo della Scuola di Guerra Economica, ha parlato del caso Alstom e dell’acquisto del suo ramo energetico da parte della General Electric, come parte della dura guerra economica tra Stati Uniti e Cina (1). Infatti, prima che il caso scoppiasse, Alstom e Shanghai Electric si stavano preparando a sottoscrivere una joint venture nel mercato delle caldaie per le centrali elettriche. Questa partnership avrebbe permesso loro di diventare il leader mondiale in questo settore. Nel luglio 2013, Alstom ha firmato un accordo di partnership con il gruppo cinese Dongfang per progetti di reattori nucleari. Per comprendere le vere cause dello smantellamento di quello che era un fiore all’occhiello dell’industria strategica francese, l’IVERIS offre un’intervista a Loïk il Floch-Prigent.

Pensi che i progetti di fusione e partnership di Alstom con i gruppi cinesi siano stati determinanti nell’acquisizione americana del business dell’energia di Alstom, e in che modo queste due attività erano strategiche?

Cos’è la globalizzazione oggi? Sostanzialmente la coesistenza di due sistemi antagonisti, gli Stati Uniti d’America con una potenza economica e militare senza precedenti e una popolazione media, e la Cina, che si è svegliata con una popolazione tre volte più alta e un’innegabile forza di volontà. È il Regno di mezzo che ha davanti a sé il futuro, il tempo, e che avanza silenziosamente sulle sue pedine sulla scacchiera mondiale. L’Europa è troppo divisa per pesare in questa avventura, e la Russia è ancora indebolita dopo settant’anni di oscurantismo sovietico. È chiaro che durante la Guerra Fredda la nostra industria era sotto una lente d’ingrandimento in modo che non venisse in aiuto all’impero sovietico. Ora è la Cina il problema numero uno negli Stati Uniti. Non vederlo, ignoralo, ignoralo,

Alstom ha avuto due specialità dopo che la Compagnie Générale d’Electricité (CGE) è stata smantellata da ideologi mediocri: il trasporto ferroviario e l’energia. La ferrovia non è un problema centrale per gli Stati Uniti, ma l’energia è una risorsa importante nella loro spinta verso il potere. Hanno dominato il petrolio sin dal suo inizio e vogliono mantenere questo fondamentale vantaggio. Negli ultimi anni, l’aumento dei prezzi del petrolio ha portato gli Stati Uniti a rendere economiche le loro riserve di petrolio non convenzionale (shale oil) e sono diventati autosufficienti almeno per i prossimi 150 anni, il che ha giustificato il loro relativo disimpegno Politica del Medio Oriente; non hanno più bisogno dell’Arabia Saudita per funzionare!

Quello che è stato ascoltato nel 2012-2013 da Alstom, una delle principali società di trasformazione dell’energia (carbone, gas, energia idroelettrica, nucleare)! Stava per trovare un partner russo in orbita per il suo dipartimento ferroviario, e lei si sarebbe concentrata sulle soluzioni energetiche, grazie ad un accordo con Shanghai Electric per le centrali a carbone e un altro con Dongfang per il nucleare! È questa roadmap che viene presentata alla stampa e ai sindacati dal capo del gruppo che segnala in questa occasione che, di fronte al potere della singola compagnia ferroviaria cinese, Alstom-transport non può vivere da solo poiché il mercato futuro è principalmente asiatico, ed è urgente trovare un partner in questo settore per avere la libertà di rimanere nel cuore industriale di Alstom,

Poche settimane dopo, un dirigente di Alstom domiciliato in Asia viene arrestato durante uno dei suoi viaggi negli Stati Uniti, e l’amministratore delegato del gruppo annuncia il trasferimento del dipartimento energia al conglomerato americano General Electric, che dovrebbe consentire di effettuare il trasporto ferroviario Alstom una pepita globale!

Una piccola prospettiva, una buona conoscenza della geopolitica mondiale, e abbiamo capito … ” fai le tue sciocchezze nel trasporto, non ci riguarda ma l’energia siamo noi e serviamo le tue conoscenze ai cinesi, non le domande“! Questa non è la prima volta che gli Stati Uniti ci avvertono che sono i padroni del mondo nella politica energetica, possiamo fingere di ignorarlo, combattere contro i mulini a vento con tremoli nella voce, s ‘ all’indignazione, sarebbe comunque necessario fornire i mezzi, e il gruppo Siemens con il quale si sarebbe potuto discutere era appena uscito indebolito in modo duraturo da un caso analogo in cui aveva dovuto separarsi da tutto il suo gruppo dirigente per le stesse ragioni che Alstom: corruzione di stati esteri con dollari, e quindi punita dall’emittente della valuta, gli Stati Uniti.

Questa è la storia che abbiamo vissuto. Non volevamo guardare in faccia, volevamo credere alla terribile corruzione del nostro campione nazionale, ma in questo settore tutti hanno agito nello stesso modo. Ciò che era insopportabile è che Alstom si impegna in una politica di alleanza con la Cina senza l’esplicita autorizzazione del padrone di energia del paese, gli Stati Uniti.

Dovremmo vedere un legame con la severa condanna negli Stati Uniti di Frederick Pierucci ai sensi della legge anti-corruzione poiché era il vicepresidente della divisione mondiale delle caldaie e che avrebbe dovuto prendere l’iniziativa? joint venture?

È chiaro che l’immediata detenzione di Frédéric Pierucci, la costituzione della joint venture con Shanghai Electric nel carbone, ma anche il centro delle trattative con la Cina, è stata chiarissima perché c’era un grande numero di altri dirigenti Alstom che hanno partecipato agli atti illeciti, in particolare l’amministratore delegato. La detenzione di Frédéric Pierucci era sia un avvertimento che un ricatto contro il management team del gruppo, che era già stato raggiunto con Siemens qualche anno prima. Sappiamo anche che i politici europei sono cauti non appena compare la parola ” giustizia “. Possiamo dire che gli americani hanno giocato molto bene!

Il processo a Frederic Pierucci si è svolto il 25 settembre e il verdetto è sconcertante: trenta mesi di carcere mentre eseguiva solo gli ordini dei suoi superiori e non beneficiava di un arricchimento personale. Ottiene la stessa punizione del CEO di Halliburton, mentre quest’ultimo ha ricevuto una tangente da $ 10 milioni. Questo dirigente di Alstom è chiaramente un ostaggio economico, non è anche lui una vittima della guerra USA / Cina?

Certo, ma è stato anche abbandonato dalla compagnia che gestiva, e questo è semplicemente sconcertante.

Quindi l’FCPA (American Corruption Act (2)) è anche un’arma della guerra economica condotta da questi due stati per il dominio economico mondiale? Airbus, che è attualmente sottoposto a una procedura negli Stati Uniti, si assume dei rischi quando firma un contratto di 20 miliardi di euro sull’A330 con la Cina?

L’FCPA, ovvero la capacità di agire in tutto il mondo per la giustizia degli Stati Uniti non appena un dollaro ha cambiato le sue mani, è un’arma formidabile con cui i politici europei hanno familiarità. Non vogliono andare in prima linea, e capiamo, ma quando lasciano i leader industriali da soli nel caos, possiamo chiederci a cosa giocano. Nessun commentatore si preoccupa. Abbiamo sperimentato questo tipo di rassegnazione collettiva e cecità nel nostro paese in altri momenti della sua storia. L’FCPA è un problema fondamentale per la sopravvivenza della grande industria del nostro continente. Vedremo come si sistemeranno gli affari di Airbus!

Nell’affare ” Alstom “, che è davvero uno scandalo di stato, c’era un rapporto, un libro, un documentario, le audizioni all’Assemblea nazionale. I ministri hanno parlato sull’argomento, eppure nessuno ha visto che Alstom era il bersaglio degli americani a causa dei suoi progetti con gruppi cinesi. Perché? Non è questo il segno del fallimento del pensiero strategico francese? Non siamo tutti collettivamente responsabili della situazione di Alstom oggi?

Non possiamo scacciare il nostro sguardo sull’ombelico, è una malattia che abbiamo visto la devastazione con la COP 21 e la recente necessità di dare ” l’esempioProibendo l’esplorazione e la produzione di idrocarburi in Francia! Pensiamo che sogniamo! La nostra produzione nazionale annua rappresenta metà della produzione giornaliera del mondo! Quale esempio, quale impatto, su chi? Il mondo continuerà la sua esplorazione e sfruttamento degli idrocarburi perché gli Stati Uniti e la Cina non fermeranno la loro crescita per soddisfare sia il loro desiderio di potere che la loro popolazione. La nostra possibilità, con Alstom, era quella di essere in prima linea per un uso più pulito del carbone, che rimane il più grande produttore di elettricità del mondo, per essere all’avanguardia dell’idroelettrico, che è la grande opportunità del continente. raddoppierà la sua popolazione in 25 anni, sulla punta dei turbo-alternatori « Arabelle Che equipaggia oltre la metà delle centrali nucleari del mondo. Dovevamo dimostrare la nostra determinazione a mantenere il controllo del nostro destino ed evitare di prestarci alle critiche volendo combinare con la Cina (3)! Non lo abbiamo ancora capito e il nostro paese, i nostri team, i nostri ingegneri stanno pagando il prezzo oggi senza capire veramente cosa sia successo. Alcuni stanno ancora soffrendo, altri godono di giorni felici, ma il nostro Paese soffre di non vedere e non capire che una politica energetica è necessaria, e che passa attraverso una revisione senza concessioni della nostra realtà. In noi ‘ spargimento“Alstom abbiamo perso il controllo della nostra industria nucleare già minata da molta incompetenza. Abbiamo anche perso il controllo sulla nostra idraulica e non rappresentiamo nulla in quelle che chiamiamo ” nuove energie “, cioè energia solare ed eolica. La nostra politica energetica è una politica di scarabocchi, che può solo rallegrare gli Stati Uniti e la Cina. Ci rifiutiamo di vederlo. Abbiamo avuto molti altri errori in passato e i risultati sono stati piuttosto scoraggianti.

Nel mondo in cui viviamo, stiamo sistematicamente fallendo. Le continue informazioni, i dibattiti concordati tra i cosiddetti esperti su tutti i temi attuali ci impediscono di prendere un po ‘di altezza. Reagiamo nell’immediatezza mentre i commentatori e gli attori politici praticano in larga misura la negazione della realtà.

Patrick Kron, l’ex amministratore delegato di Alstom, ha negoziato con gruppi cinesi per il settore dell’energia e con i russi per il settore dei trasporti. Questa strategia non era rischiosa? Ha ignorato così tanto le relazioni di potere? Cosa avrebbe dovuto fare per evitare di cadere nelle trappole e di essere in grado di proteggere il suo gruppo ei suoi dipendenti?

Patrick Kron non ha avuto la strategia vincente per Alstom, è un fatto acquisito ora. Lascio ad altri di analizzare le singole azioni. Ho detto quello che pensavo della nostra cecità collettiva, è molto più serio.

(1) Questa conferenza è stata dedicata all’ultimo libro di Christian Harbulot, intitolato ” American Economic Nationalism “, pubblicato da VA nella raccolta ” War of Information “.

(2) https://www.iveris.eu/list/compterendus_devenements/114-apres_alstom_a_which_the_tour__

(3) https://www.iveris.eu/list/tribunes_libres/61-the_turbine_arabelle_or_the_independence_technology_francaise

Fonte: IVERIS, Leslie Varenne , 10-10-2017

 

1 8 9 10