Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista ad Aurelien _ a cura di Roberto Buffagni

INTERVISTA A AURELIEN

Italiaeilmondo.com segue da tempo con vivo interesse le pubblicazioni settimanali di “Aurelien” sul suo substack[1], e ne ha tradotto diversi articoli. Abbiamo proposto ad Aurelien quattro domande, alle quali egli ha risposto con la sua consueta chiarezza e perspicacia. Lo ringraziamo di cuore per la sua gentilezza e generosità. Buona lettura. Roberto Buffagni

 

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Su questo argomento si scriveranno libri! Dovremmo innanzitutto definire gli errori, poiché non tutti avranno lo stesso elenco e non tutti considereranno certe decisioni come errori.

Tuttavia, credo che la maggior parte delle persone sia d’accordo sul fatto che ci sono stati due errori fondamentali. Il primo è stato l’incapacità di anticipare correttamente la reazione russa sia al rafforzamento militare dell’Ucraina da parte della NATO dopo il 2014, sia alla serie di eventi che hanno avuto inizio con la presentazione da parte russa della bozza di trattato alla fine del 2021. So che secondo alcuni la guerra non è stata in realtà un errore, ma un piano deliberato per attirare la Russia in un conflitto. Non lo credo: la politica non funziona in questo modo, e un complotto simile, che avrebbe dovuto esser tenuto segreto, non si sa come, all’interno della NATO, e per anni, sarebbe impensabilmente complicato e comunque di fatto impossibile da nascondere. Ci sono certamente persone che hanno fantasticato su una guerra con la Russia e altri che hanno cercato, quando erano al potere, di perseguire una politica conflittuale, ma continuo a credere che la reazione effettiva della Russia non sia stata prevista, e che questo sia stato davvero un errore. Il secondo errore credo sia condiviso da quasi tutti: la totale incapacità di rendersi conto delle dimensioni, della complessità e della sofisticazione del complesso militare-industriale russo e delle risorse umane e materiali dell’esercito russo.

Per molti versi, entrambi gli errori derivano dalla stessa serie di fattori. Il primo è, semplicemente, che i governi occidentali non erano molto interessati alla Russia e non la ritenevano un paese particolarmente importante.  Da tempo l’attenzione si era spostata sulla Cina, dal punto di vista economico e strategico, e sul Medio Oriente e il terrorismo islamico.  Non si potevano più fare buone carriere specializzandosi sulla Russia, e il tipo di russi che gli occidentali del governo e dei media incontravano di solito erano ricchi, istruiti e anglofoni, spesso formatisi negli Stati Uniti o in Europa. Con tante altre priorità, i governi semplicemente non potevano riservare allo studio della Russia lo sforzo che gli avrebbero dedicato quarant’anni fa, e comunque non lo ritenevano necessario. Diventare un esperto di produzione militare russa, ad esempio, richiede anni di formazione specialistica e di esperienza, in un’epoca in cui altre cose erano considerate più importanti. I governi occidentali avevano un’immagine della Russia che non era cambiata quasi per niente dagli anni ’90, e che contrastava con l’immagine più positiva di quella che vedevano come un’Ucraina moderna e filo-occidentale. A ciò si collega quello che posso solo descrivere come una tradizionale disistima razzista europea degli slavi russi, come primitivi e arretrati. Dal punto di vista militare, non erano considerati un avversario serio, si pensava che fossero stati sconfitti in Afghanistan e in Cecenia e che fossero notevolmente indietro rispetto all’Occidente in termini di tecnologia militare. Un piccolo ma importante punto è che l’immagine occidentale dell’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale è tratta in gran parte da interviste con generali tedeschi e da documenti tedeschi (in assenza degli equivalenti sovietici) e che questa immagine era molto fuorviante.

 

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Chiaramente, gli errori più tecnici di valutazione e comprensione sono stati, per definizione, quelli del governo e dei suoi consiglieri, nonché dei media: la classe dirigente, se vogliamo. Si sono comportati con un dilettantismo e una mancanza di intelligenza che i loro predecessori, anche trenta o quarant’anni prima, si sarebbero vergognati di esibire. Ma qualsiasi classe dirigente riflette necessariamente i valori culturali di una società, perché tale classe (se intendiamo “classe” come etichetta sociale e professionale, non come classe economica) è costituita dalle persone che hanno avuto il miglior successo secondo le regole culturali del tempo. In parole povere, un alto ufficiale militare o un diplomatico, nella maggior parte dei Paesi occidentali, sono arrivati alla loro posizione sapendo che cosa si vuole, come si deve parlare, cosa si deve dire alla classe politica, e di fatto sono stati socializzati in un modo di pensare culturalmente dominante. In una cultura di questo tipo, in cui regnano il breve termine, il managerialismo e la presentazione, la classe dirigente è impreparata all’insorgere di problemi veramente seri, ed è incapace di affrontarli. E questo è un vero cambiamento. La classe dirigente europea di cento anni fa aveva una serietà di fondo, fondata sulle sue convinzioni religiose, politiche, etiche o nazionalistiche, che fa sembrare quella di oggi un gruppo di bambini.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Se sia reversibile, dipende da che cosa si pensa della crisi. Credo che in realtà sia composta da tre parti.

La prima è una crisi di influenza. Dico influenza piuttosto che “potere” perché è più complessa del solo potere. Per un periodo relativamente breve ma significativo, l’Occidente collettivo è stato la forza politica ed economica più influente del pianeta. È stato militarmente dominante (almeno contro coloro che lo hanno combattuto) e politicamente potente a livello internazionale. La sua influenza all’interno delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali è stata di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro blocco, ed è abituato ad avere una voce importante nella gestione dei problemi in altre parti del mondo: in Medio Oriente, ad esempio. Questa situazione non cambierà all’istante, poiché, ad esempio, l’esperienza occidentale accumulata nella gestione delle crisi in alcune parti del mondo non può essere sostituita da un giorno all’altro. Ma l’Occidente sarà sempre più costretto a condividere il potere, a competere per l’influenza o, più probabilmente, a imparare a cooperare con altri attori e a riconoscere i propri limiti. Questo potrebbe non essere facile, anzi potrebbe non essere possibile.

La seconda è una crisi dell’universalismo. La particolare forma di liberalismo sociale ed economico che domina oggi ha la pretesa di essere un sistema di valori universale, con un destino teleologico che prevede che un giorno sarà adottato da tutto il mondo. La storia suggerisce che qualsiasi sistema di valori che pretenda di essere universale deve sempre andare avanti, e, quando smette di andare avanti, è propenso a tornare indietro. È difficile per un sistema universalista riconoscere di aver raggiunto i propri limiti e di doversi fermare, eppure credo che sia proprio questa la posizione in cui si trova ora l’ideologia dell’Occidente. La maggior parte del mondo non condivide questa ideologia, anche se le élite di molti Paesi non occidentali, a parole, vi aderiscono; e sarà molto difficile per l’Occidente, e in particolare per istituzioni come l’UE, abbandonare queste aspirazioni universalistiche.

La terza è una crisi economica. Per molto tempo l’Occidente ha vissuto della sua prima industrializzazione, della sua forza lavoro istruita e del suo sistema finanziario sviluppato. Tuttavia, negli ultimi tempi tutti questi elementi sono in declino. Anche Paesi europei come la Germania e l’Italia, con importanti settori industriali, hanno seguito la tendenza alla deindustrializzazione e alla finanziarizzazione, e naturalmente l’esperienza della crisi ucraina ha accelerato questo processo. L’Occidente si trova a dipendere sia per le materie prime che per le importazioni di prodotti finiti da altre parti del mondo, e ha scoperto che non si possono mangiare i derivati finanziari. La reindustrializzazione, per quanto se ne parli, richiederebbe un livello di mobilitazione da economia di guerra, forse su un periodo di 10-15 anni, per avere qualche possibilità di successo; l’Occidente dovrà abituarsi a dipendere economicamente da altri, che potrebbero a loro volta decidere di fare uso politico della nostra debolezza. Non sono sicuro che le nostre élite al potere siano pronte per questo.

In generale, credo che nessuna di queste tre cose sia reversibile. La vera questione è fino a che punto possiamo convivere con il relativo declino e adattarci ad esso. Con “noi” intendo ovviamente le nostre élite politiche, con le loro ben note debolezze. Ma più in generale, penso che ci sia il rischio che l’incompetenza di queste élite, e la loro difficoltà ad affrontare la realtà, possano portare a tensioni tali per cui almeno una parte dell’Occidente potrebbe non sopravvivere.

 

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Non sono sicuro che questi due Paesi (soprattutto la Cina) abbiano mai abbandonato del tutto le loro tradizioni storiche, e naturalmente il Partito Comunista Cinese è ancora al potere, ma non sono un esperto di nessuno dei due Paesi. Per quanto riguarda l’Occidente, non dovremmo enfatizzare troppo l’idea di unipolarismo. L’Occidente è diviso su molte questioni (anche gli stessi Stati Uniti sono divisi su molte questioni) e molto di ciò che accade sotto la superficie della politica internazionale riflette dinamiche multilaterali molto complesse. Tuttavia, l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, sono inclini a vedere questa situazione in termini molto netti, e spesso a credere di avere più potere e influenza di quanto non sia in realtà. Per questo motivo, l’inevitabile adattamento a un mondo in cui il potere sarà distribuito in modo diverso sarà un problema per le élite occidentali.

Così come non dovremmo dare per scontato che il mondo sia semplicemente “unipolare” ora, allo stesso modo non dovremmo dare per scontato che sarà semplicemente “multipolare” in futuro. Preferisco parlare di potere “distribuito” in forme diverse tra i vari attori. Tuttavia, le due nazioni da lei citate (a cui si potrebbe aggiungere l’India, e naturalmente anche la Corea e il Giappone hanno mantenuto le loro tradizioni) hanno una solida base di civiltà su cui appoggiarsi. Fino a forse cinquant’anni fa si poteva dire lo stesso dell’Occidente, ma il punto centrale del liberalismo moderno è, ovviamente, che è post-nazionale, post-culturale, post-identitario e interamente tecnocratico nella sua concezione ed esecuzione. Trovo davvero difficile capire come si possa costruire un’identità attorno a un dogma che nega specificamente l’identità. Non è che la gente in Occidente abbia perso la voglia di identità collettiva: l’incoronazione di Re Carlo III, all’inizio di quest’anno, è stata un esempio di quanto la gente comune cerchi punti di riferimento comuni. Il problema è che per quanto ci siano diversi tipi di interesse, in questo momento, per le religioni tradizionali, per certi tipi di politica partecipativa o per questioni come l’ambientalismo, essi sono tutti interessi minoritari, e spesso in opposizione tra loro. Una volta distrutte le tradizioni, non mi sembra che sia facile crearne di nuove o far rivivere quelle vecchie. In effetti, la rapidità del crollo del comunismo in Europa è un buon esempio di come le tradizioni non basate su fondamenti storici possano crollare in modo rapido e irreversibile. Posso immaginare una politica reazionaria nel senso da lei descritto, ma purtroppo è probabile che ce ne siano diverse, probabilmente reciprocamente ostili, piuttosto che una sola.

 

[1] https://aurelien2022.substack.com/

STORIA COME INCREMENTO DI COMPLESSITA’ A CUI ADATTARSI, di Pierluigi Fagan

STORIA COME INCREMENTO DI COMPLESSITA’ A CUI ADATTARSI. [Post di studio] Tornerò su un argomento su cui abbiamo scritto più e più volte. Il tema è il passaggio storico tra modi di vita pre e post civili dove -civile- viene da -civitas- e dà luogo a civiltà, quindi pre e post cittadini. Siamo nella sequenza tra Mesolitico e Neolitico tra 15.000 e 3500 a.C. con prospettiva verso l’inizio del periodo civile o storico propriamente detto e siamo in quel della Mesopotamia.
La narrazione (sempre meno) dominante è quella per cui l’invenzione dell’agricoltura, innovazione dei modi di produzione, ha rivoluzionato le forme di vita associata. Questo ha portato da una parte progresso ed incremento di complessità, dall’altra gerarchie sociali, diseguaglianze e guerre. La narrazione è interna alla nostra immagine di mondo costruita già nel XIX secolo e conforme le due famiglie ideologiche politiche prevalenti, quella liberale e quella social-marxista. Ha la stessa scansione della narrazione sulla “rivoluzione” industriale ovvero la teoria è “il proprio (spazio)-tempo appreso nel pensiero” ovvero le forme socio-economiche del Regno Unito nel XIX secolo. Fin qui nulla di male, il problema è poi decidere di fare di questa teoria locale (nello spazio e nel tempo) un universale, una presunta legge storica. Oltretutto pensando che la storia, per rendersi scientifica, debba mostrare le logiche della regina delle scienze: la fisica. La fisica ha le leggi? Quindi anche la storia ed il pensiero economico dovevano avere “leggi”.
Negli ultimi anni, la quantità delle informazioni ricavate dagli scavi archeologici è decisamente aumentata. Viepiù se la compariamo al XIX secolo, ma anche a buona parte del XX. È anche aumentata la nostra capacità di trarre informazione dagli scavi ed è diventata più complessa, quindi più realistica, la nostra organizzazione narrativa in grado ora di mettere assieme informazioni su natura, clima, uomini, modi di vita etc. Vediamo in breve cosa abbiamo scoperto.
1 – L’agricoltura non fu una invenzione puntiforme. Abbiamo primi semi messi da parte per esser ripiantati negli scavi di un sito di 20.000 anni fa. Abbiamo prove di prodotto agricolo selvatico ovvero cura della produzione naturale spontanea che poi lascia il passo a produzione intenzionale ovvero semina-cura-raccolta, da allora fino a 15.000 anni dopo. Tra l’altro l’atteggiamento di cura e raccolta valeva anche per la silvicultura e l’orticultura ad allargare l’output di sussistenza. Pari progressione vale anche per le prime forme di allevamento.
2 – La destinazione di questo nuovo prodotto di sussistenza agricola (naturale ed intenzionale) fu di integrazione e stoccaggio. Integrazione in quanto così si allargavano le opzioni della dieta, di base centrata ancora a lungo su caccia e raccolta. Stoccaggio in quanto i cereali raccolti, seccati, garantivano prodotto consumabile in via differita, per quanto di ripiegamento.
3- Tre informazioni ulteriori vanno considerate per ricostruire un processo che durerà millenni: a) i gruppi umani mostrano una tendenza moderata ma costante (a grana grossa) a crescere di dimensioni. Ciò avviene per vari motivi non tutti derivati dalle oscillazioni di sussistenza disponibile; b) altresì cresce la loro densità territoriale relativa. Questa riduce progressivamente gli areali di riferimento per la singola banda o tribù. A loro volta, molte di queste aggregazioni, diventano progressivamente stanziali. La forma stanziale fissa l’areale di riferimento mentre prima l’areale si spostava allo spostamento del gruppo umano; c) il tutto si svolge in un periodo climatico molto dinamico. Il periodo inizia con la deglaciazione che letteralmente inonda il mondo di acqua, aumentando la produzione naturale di piante ed animali. A più riprese però, il clima oscilla diventando più secco. Queste fasi diminuiscono di colpo (nell’ordine dei secoli) la produzione naturale per, ricordiamolo, gruppi ora più massivi, densi e fissi territorialmente.
4 – C’è un movimento progressivo di discesa del fuoco di presenza umane territoriali dal sud anatolico al Golfo Persico. Contemporaneamente continua l’afflusso dall’esterno di questo areale (Monti Zagros, altopiano iranico). Contemporaneamente, i siti abitativi vanno progressivamente sempre più vicino i due grandi fiumi (Tigri ed Eufrate). Quest’ultimo punto si verifica in più o meno corrispondenza con il cambiamento climatico. C’era una regolare agricoltura intenzionale (semina-cura-raccolto) che si basava sulla semplice periodicità delle piogge e non su lavori di canalizzazione. Quando l’andamento climatico oscilla verso il secco, l’acqua che non cade più dal cielo, andrà presa dai fiumi.
I punti di questa ricostruzione porterebbero ad una narrazione lineare, ma i fenomeni a grana fine non lo furono. I gruppi umani oscillarono all’oscillazione del contesto. Questo perché la regola cui sono soggetti è l’adattamento a contesti mutevoli.
C’è poi anche una controverifica indiretta alla tesi dell’invenzione del modo agricolo. I modi agricoli compaiono a più riprese in poco meno di altri dodici casi nel globo (ma c’è chi ne conta ben di più), in tempi differenti, tra luoghi non comunicanti. A meno di non prevedere una magica sincronizzazione dell’ingegno umano, l’unica spiegazione che sta in piedi, è che i vari gruppi umani vennero sottoposti a pressioni adattive simili. La condizione simile è un “complesso di cause” (cause tra loro interagenti) che prevede: aumento costante demografico, aumento di densità per areale chiuso (che ha condizioni migliori che non si trovano nell’intorno), un primo miglioramento costante delle condizioni naturali (clima, acqua, rigoglio vegetale, esuberanza demografica animale), progressiva stanzializzazione, una seconda relativamente improvvisa inversione negativa delle condizioni climatiche. Il ricorso a produzione intenzionale (agricoltura-allevamento) che all’inizio è arricchimento della varietà di dieta, poi stoccaggio di alimenti a cui attingere per compensare le curve oscillanti di produzione naturale (caccia e raccolta), diventa sempre di più fonte di sussistenza primaria, poi esclusiva. Per quanto di apporto nutritivo monotono e modesto, la coltivazione di cereali e la segregazione con riproduzione di animali, era l’unica possibilità di sopravvivenza date le condizioni. Ed a sua volta, la sua relativa prevedibilità quindi sicurezza alimenterà ulteriore incremento demografico e di densità relativa avviandoci lungo un percorso irreversibile.
Non ci fu quindi alcuna invenzione come motore della storia, fu un complesso adattamento a nuove condizioni dei gruppi umani, dei territori e distribuzione umana e naturale dentro di essi, del clima. Tutte le mitologie posteriori raccontano questa storia come una caduta dall’età dell’oro, non come un progresso. Ritenuti a lungo “miti”, oggi sembrano confermati dall’analisi delle ossa e degli scheletri che confermano l’impoverimento nutritivo, dismorfismo sessuale e la perdita di forza e salute generale. A seconda di come si deciderà di organizzare le nuove forme di vita associata, nasceranno le diseguaglianze sociali (anziani su giovani, maschi su femmine, classi su classi, élite castali su popolo), le gerarchie fisse e riprodotte per ereditarietà, la guerra, le narrazioni di contesto, tra cui le religioni, le varie caste tripartite (commerciali, militari, sacerdotali) ovvero la civiltà.
Il significato proprio del ricorso prima saltuario, poi sistematico, poi unico all’opzione agricola fu una necessità, non una libertà. Necessità di garantire, quindi prevedere, output alimentare per numeri sempre più ampi di popolazione già stanziale per via delle dimensioni. L’adattamento del tempo portò in dote il problema del doverci pensarci prima, del prevedere. Il ricorso sempre maggiore all’agricoltura-allevamento fu la necessità di prevedere le forniture di sussistenza per migliaia e migliaia di persone ormai inurbate. Per altro, non sembra neanche che fu il semplice predominio del modo agricolo a scatenare la trasformazione sociale, ma una dinamica più complessa a molti fattori che all’inizio prese forma di quello che alcuni chiamano “socialismo sacerdotale” ovvero l’attribuzione del prodotto della terra (inizialmente terra degli dèi, non più totalmente libera e non ancora privatizzata) ad un centro ridistributivo gestito dai funzionari della credenza. Sarà all’interno di questi centri che la burocrazia civile al servizio del tempio diverrà poi predominante politicamente (il “re”, inizialmente spesso eletto e senza dinastia, al tempio si affiancherà il palazzo) mentre accanto si infittiscono le dispute per lo spazio da cui si svilupperanno le élite militari e si formano i monopoli di scambio tra eccedenze e mancanze, a volte pubblici, a volte privati, più spesso privati su concessione pubblica. Se all’inizio il “centro” assolve ad una funzione controllata, al crescere del volume dei gruppi, il centro si emancipa dal controllo dal basso e diventa l’alto dominante.
Se una regola si vuol trovare, a grana grossa, sembra lampante una correlazione tra modi di organizzare la società e sua dimensione in cui società viepiù massive confinano le decisioni da prendere in una élite sempre più stretta. Più che in economia, il motore della faccenda va cercato in socio-demografia. Quello che si perde è la facoltà di decidere assieme il che fare, facoltà naturale nei piccoli gruppi, molto meno naturale in quelli grandi.
Detto da D. Graeber e D. Wengrow nel loro di recente pubblicato “L’alba di tutto” (Rizzoli, 2022, p. 19): “La questione ultima della storia dell’umanità non è l’equo accesso alle risorse materiali (terre, alimenti, mezzi di produzione), per quanto queste cose siano ovviamente importanti, bensì l’equa capacità di partecipare alle decisioni sulla nostra convivenza”.
Oggi, con un mondo cresciuto di tre volte in soli settanta anni, di quattro quando saremo al 2050, si pone nuovamente, il problema dell’adattamento su previsioni anticipanti. Il modo o forma di come comporre le nostre forme di vita associata, non dovrebbe più esser un esercizio a ruota libera, di invenzione, innovazione, nostri vari desiderata. Dovrebbe esser un esercizio di necessità e compatibilità: come e cosa fare per convivere in così tanti nello stesso spazio obbligato. Dovrebbe esser un esercizio adattativo, le forme sociali dipendono non solo dalle loro dinamiche interne, ma queste stesse sono condizionate dal contesto. Ereditiamo forma politiche in cui pochissimi si occupano di questo problema, inevitabilmente propensi ad aumentare diseguaglianze, gerarchie, vantaggi ereditari, guerre e confitti, narrazioni sempre più assurde, forme religiose di credenza anche quando non hanno in oggetto fatti spirituali.
Cinquemila anni fa dovemmo fare i conti di compatibilità tra società umane e contesto, di nuovo oggi. Allora andò come sappiamo, come fare in modo che oggi vada diversamente?

L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO, di Pierluigi Fagan

L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO. In psicologia, la rimozione è il confinamento nelle segrete della psiche di qualcosa che disturba. Il “qualcosa” disturba probabilmente la coerenza della nostra immagine di mondo dello stato cosciente dove per “immagine di mondo” intendiamo l’insieme delle logiche e dei pensieri (convinzioni, giudizi, verità etc.) che animano la nostra mente, quindi noi, almeno nello stato di veglia ossia di coscienza. Ma laggiù nelle segrete della psiche, i guardiani non sono poi molto efficienti, i chiavistelli non sono ben fissati.
Così, sebbene il rimosso sia confinato e spinto nel fondo buio, a volte si ripropone, come avviene con ciò che non si digerisce ovvero ciò che disintegriamo per esser assorbito e così cessare di esistere. Il “rimosso”, non potendo esser digerito, rimane vivo anche se ostracizzato e quindi può sempre tornare a disturbare. Questo è detto “affioramento”, ritorno in superficie di ciò che si tentava di affondare per sempre. Il rimosso di cui vorrei occuparmi è il concetto di “culture”.
Le “culture” sono modi di pensare e di fare comuni ai gruppi umani che condividono una medesima immagine di mondo. A grana grossa, questi “gruppi umani” sono popoli, umani che vivono da tempo assieme in un certo territorio. Prima che esistessero le città stato e poi i regni e gli imperi alla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, esistevano proprio le “culture”. Lo sappiamo perché scavando, in archeologia, abbiamo trovato segni di comune cultura materiale non potendo avere reperti di quella immateriale. Le “culture”, in antichità profonda, emergono in certi territori dove l’interrelazione umana, a livello di individui e gruppi, era maggiore (più intensa, più frequente) di quanto individui e gruppi avessero con l’area esterna. Dovendo avere a che fare gli uni con gli altri, sistematicamente, si venne a condensare una cultura condivisa poiché per avere a che fare gli uni con gli altri, ci vuole appunto una condivisione di alcuni elementi di quadro generale, una comune immagine di mondo.
Le “culture”, nell’era moderna che qui definiamo storicamente quindi quale quella europea successiva al medioevo, all’incirca da dopo il XVI secolo (ma essendo una lunga transizione c’è chi ne segna l’esistenza prima o dopo), sono state a lungo un problema. O meglio. Da settanta anni pensiamo siano un problema avendo diagnosticato che il conflitto endemico intra-europeo che per secoli operò incessantemente culminando nel suicidio in due puntate del doppio conflitto mondiale, era mosso appunto dal fatto che i popoli tali definiti per relativa diversità culturale, erano mossi alla reciproca aggressione e tentativo di preminenza, proprio dal fatto che avevano diversa cultura, diversa immagine di mondo. Abbiamo quindi tentato di rimuovere l’esistenza delle “culture”, sperando che in loro assenza manifesta, ci si potesse divincolare dalla coazione a ripetere del conflitto. Ma l’operazione è insensata.
Le “culture” sono epifenomeno dell’esistenza dei popoli, occorrerebbe quindi eliminare i popoli (ovvero le loro distinzioni relative), non è che i popoli spariscono perché si tacitano le loro espressioni culturali. Oppure, si sarebbe dovuto prender il toro per le corna e cercar meglio di capire come i popoli, pur diversi tra loro, possano convivere senza far delle loro obiettiva differenza, motivo di conflitto. Certo non si risolve il problema rimuovendo la loro espressione culturale. Infatti, puntualmente, ecco che le diversità culturali affiorano dalle segrete in cui le si erano confinate pensando che lontane dagli occhi, lontane dal cuore (e dalla mente).
Ciò che rompe i tentativi di contenimento del rimosso è una forte emozione. La rimozione è logico-razionale sebbene spinta da ragioni -in fondo- emotive e le catene logico-razionali sono assai fragili quando sono investite da forti onde emotive. Infatti, coi recenti campionati europei di calcio, ecco riproporsi le forti onde emotive, la rottura dei confinamenti logico-razionali che tentavano di cancellare l’esistenza delle culture, l’affioramento del rimosso, con scandalo. Scandalo per l’eterno ritorno del tribalismo nazionale che pare prerogativa della mentalità maschile. Infatti, tra i vari tentativi di rimozione, c’è anche il fatto che evolutivamente erano gli uomini i guardiani del bordo esterno, molto più propensi a ragionare per codici del “noi” vs “voi”.
Diffusa ignoranza pensa che queste faccende “culturali” siano immateriali quindi facilmente cancellabili per gesto di volontà, quando invece il “culturale” emerge dal “neuronale” ovvero da precise strutture fisiche (bio-chimiche). Cambiare comportamento, smettere di fumare, dimagrire, emanciparsi dalle tossicodipendenze, cambiare idea o peggio “sistemi di idee” per non parlare di “sistemi di pensiero” che presiedono l’azione, è così difficile proprio perché le strutture fisiche (mentali e corporali) non si spostano o cancellano facilmente. Più o meno il tempo che hanno impiegato per formarsi è il tempo che sarà necessario per s-formarle o ri-formarle anche se in questo secondo caso c’è sempre il pericolo dell’affioramento del rimosso.
Così, gli Antichi Greci avevano scoperto utile sospendere il loro eterno conflitto tra città-Stato indicendo periodicamente le Olimpiadi, la guerra sublimata nell’agone sportivo con grandi risparmi di sangue umano e distruzione materiale. Ogni atleta diventava il “nostro miglior cittadino”, noi stessi ma nella versione potenziata, tant’è che gli si erigevano statue in caso di vittoria, tributandogli anche molti altri onori materiali per tutta la durata della loro vita. Così oggi ci sentiamo tutti un po’ Berrettini ed un po’ Chiellini o Bonucci, anche se chi come me è interista, su questa ultima coppia ha processi di identificazione contrastati. Siamo certo della stessa cultura italiana, ma di due tribù fondamentalmente rivali. Ma buonsenso vuole che il senso di tribù maggiore (italiani) subordini quello minore (questa o quella squadra) e così sia, almeno per una settimana.
Divertente quindi notare come il Regno Unito, come tutti i Paesi che ostentano questa “unità” nel nome (Stati Uniti, Unione Sovietica, Emirati Arabi Uniti, a suo tempo Province Unite etc.), non lo siano affatto. Una gioiosa “schadenfreude” (piacere procurato dalle sfortune altrui) ha prima animato scozzesi ed irlandesi del Nord, poi anche gallesi che pure dovrebbero ritenersi assimilati almeno dal Cinquecento in quanto i primi sono popoli indigeni dell’isola addirittura pre-indoeuropei, mentre i secondi e terzi sono di derivazione celtica. Gli angli ed i sassoni invece, sono gli uni di origine danese, gli altri di origine germanica, migrati a forza in quel della Britannia lasciata a sé stessa dal ritiro dei Romani. Popoli barbari ed assai pugnaci, non civili, che divennero le élite dei successivi inglesi, quindi l’aristocrazia, i famosi “baroni” di cui si occupa un buon terzo del Levitano di Hobbes.
Tutte le aristocrazie europee sono per lo più derivate dai barbari invasori. Ancora oggi, la Gran Bretagna, ha una camera “alta” “House of Lords”, derivata dai conflitti tra baroni e monarca del 1215 (Magna Charta), con 680 pari a vita nominati dalla Corona, 84 addirittura con diritto ereditario e 26 vescovi. Dalla riforma del 1999 discutono come eliminare questa anomalia che confligge con il senso moderno, ma invano. Non legiferano ma hanno molti modi per influire sui destini politici britannici (tra cui la Brexit dal punto di vista della riottenuta autonomia a fini di nuovo globalismo ex Commonwealth), quella Gran Bretagna che è per alcuni patria di quello che molti chiamano “capitalismo” e che altri pensano addirittura esser patria della moderna “democrazia” avendo, in entrambi in casi, una certa confusione definitoria dei due concetti.
In una sperimentale psicologia dei popoli, si potrebbe diagnosticare per gli anglo-sassoni un ineliminabile senso di inferiorità a cui fanno diga con un manifesto senso di superiorità che li rende, obiettivamente, poco simpatici. Si ricordi che furono spesso inglesi le prime teorie “scientifiche” della razza (gli anglo-sassoni si sentono “ariani”, la famiglia reale è di origine tedesca sebbene abbia cambiato nome d’origine solo durante la Prima guerra mondiale adottando il nome di Windsor rimuovendo quello vero che recitava Sachsen-Coburg und Gotha e del resto, il principe William è un esemplare dolicocefalo), così come l’idea che fosse naturale il predominio di classe (darwinismo sociale). Infatti, è assai probabile che la citata “schadenfreude” più che comprensibile per le vittime dirette dell’obbligata convivenza nelle due isole dei vecchi britanni, si sia l’altra sera estesa a larghe parti del mondo come ammette un articolo scritto da un keniano su Al Jazeera ripreso da Internazionale.
L’inferiorità è data dal loro lungo dover subire, a loro volta, il senso di superiorità dei civilizzati che li hanno a lungo considerati barbari, quali erano in effetti. In un esercizio di storia controfattuale, chissà quanti tra colo che ne hanno subito le angherie hanno immaginato cosa sarebbe successo se i Romani non si fossero ritirati lasciandogli spazio libero da riempire.
Be’, l’altra sera, nel grande romanzo popolare della storia delle culture, i discendenti dei Romani li hanno sconfitti in quel di Londinium, privando loro di una gioia, regalata invece ai molti che ne hanno vastamente e lungamente subito l’indubitabile egoistica ed arrogante potenza.
Anche questa è “cultura”, certo “popolare”, ma molti amanti a parole del popolo farebbero meglio a coltivare di più le connessioni sentimentali con quel “popolo” che vorrebbero emancipare senza diventare quindi una nuova aristocrazia. Sebbene solo intellettuale, sempre della convinzione di essere i migliori (àristoi), si tratta.
> L’articolo di Internazionale citato: https://www.internazionale.it/…/inghilterra-italia-europei

NOTTE FONDA, MA SOLO IN OCCIDENTE_di FF

NOTTE FONDA, MA SOLO IN OCCIDENTE
Come sempre in tempi di insicurezza politica e sociale e di grave crisi economica si diffondono le peggiori forme di irrazionalismo, che, lasciando spazio a ciarlatani e demagoghi di ogni risma, sembrano offrire non solo una “immagine del mondo” che non richiede particolare “ingegno” o cultura per essere compresa dai “semplici”, ma pure un facile rimedio ai mali che affliggono le “moltitudini”.
Capacità di organizzazione, lucidità di pensiero e ordine mentale non vengono così neppure presi in considerazione, quasi che bastasse una folla inferocita per “cambiare il mondo”. Eppure è noto che se nei secoli passati le “moltitudini” potevano uccidere qualche nobile o incendiare qualche castello, poi tutto tornava come prima. Bastava cioè una “decisa” carica di cavalleria e mozzare qualche “testa calda” per calmare i bollenti spiriti delle “moltitudini”.
In politica centomila teste, sempre pronte ad azzuffarsi tra di loro perché ciascuna vuole difendere solo il proprio “bene” anche a scapito di quello degli altri, valgono assai meno di mille teste che vedono il bosco oltre agli alberi, ossia hanno uno scopo comune e soprattutto sanno come perseguirlo, senza anteporre il proprio interesse a quello del gruppo cui appartengono.
D’altronde, miseria, rabbia e disperazione hanno sempre contraddistinto la vita delle “moltitudini” nei secoli passati, ma non hanno mai abbattuto i muri della prigione in cui le “moltitudini” erano rinchiuse, tranne quando, nel cosiddetto “secolo breve”, le “moltitudini” sono diventate dei veri eserciti, guidati da “rivoluzionari di professione” o comunque era il “moderno principe” a guidarle. Anche il “secolo breve” però è finito, perlomeno in Occidente in cui le “moltitudini” sembrano tornate ad essere quel che sono state nel corso dei millenni.
E con i “nuovi tempi”, non più diversi da quelli “vecchi”, i “signori” sono tornati a comandare e le “moltitudini” ad ubbidire anche se ancora pronte a seguire l’arruffapopolo di turno, sia che si tratti di qualche “signore” che vuole fare le scarpe ad altri “signori” carpendo la fiducia delle “moltitudini”, sia che si tratti del solito cieco che vuol guidare degli altri ciechi, scambiando la propria immagine fasulla del mondo per la realtà. Sotto questo aspetto, conta relativamente poco pure che oggi sia la destra a pretendere o a far finta di rappresentare gli interessi delle “moltitudini” mentre la sinistra difende a spada tratta quelli dei nuovi “signori”, giacché quel che conta davvero è che le “moltitudini” pensino e si comportino come vogliono i “signori”, e che gli “eunuchi”, di destra o di sinistra che siano, facciano bene il loro mestiere.
Dunque, tutto come prima o perfino peggio di prima?
No. E non solo perché i nuovi “signori” non sono dei “signori” ma in buona misura sono solo “plebaglia” arricchita e volgare, ovverosia non tanto perché considerino dei maestri di pensiero e di morale saltimbanchi, pagliacci e ballerine, o perché siano privi di quel senso estetico che una volta caratterizzava il mondo indubbiamente “feroce” dei “signori” ma che ha lasciato opere che “impreziosiscono” tuttora la vita delle stesse “moltitudini”, quanto piuttosto perché pensano di potere governare il mondo grazie all’aiuto (certo non disinteressato) degli “eunuchi” e di quella sorta di “liberti” che sono i cosiddetti “tecnici”, mentre è solo il “loro mondo” che governano.
Nuove “moltitudini”, infatti, sono comparse sul palcoscenico della storia, anch’esse guidate se non da “rivoluzionari di professione” da capi capaci e soprattutto decisi a non servire più coloro che ancora credono di essere i “padroni del mondo”. Sicché, chi pensa che ormai sia possibile soltanto una continua “variazione” o “ricapitolazione” di quel che in Occidente già esiste, ignora che i confini dell’Occidente non sono (ancora?) i confini del mondo. Vale a dire che ignora che non esiste solo la storia dell’Occidente e che pertanto pure la storia dell’Occidente, comunque la si pensi, è ben lungi dall’essere terminata.

 

senza né Capua, né coda, di Pierluigi Fagan

SENZA NE’ CAPUA, NE’ CODA. (Un’avvelenata) Il post è sull’uso improprio degli “esperti” nel dibattito pubblico, un problema già noto che è passato dalla sovraesposizione di economisti che non saprebbero gestire neanche il bilancio della rosticceria sottocasa, ai biologi che passano dalle piastre di Petri al crisis management con altrettanta nonchalance.

Nulla in particolare contro la signora in questione, già parlamentare della lista Monti (Scelta civica), che tutti i giorni ci spiega come si dovrebbe gestire l’emergenza da coronavirus in Italia stando a Miami, senza far i conti con il fastidioso attrito della realtà concreta. Senz’altro una “eccellenza” (mammamia questo uso smodato del vocabolario retorico mi fa venire l’orticaria), in più “donna e scienziata”, quindi mille punti, per carità. Ma “mille punti” a che gioco? in che contesto? mille punti ad un idraulico valgono anche per risolvere problemi dell’impianto elettrico? Il problema è che se aprite un qualsiasi quotidiano nazionale spagnolo, francese o inglese, scoprirete che con ritardo di una settimana, le stesse questioni che dibattiamo qua, vengono improvvisamente “scoperte” anche là. E così scopriamo tutti la stesse cose che -in breve- sono quattro:

1) mentre diventavamo tutti Paesi con concentrati di vecchi anziani che si camuffano con botulino e jeans, i nostri Paesi hanno continuato a ragionare come fossimo ai primi del Novecento quando cinque rivoluzioni tecno-scientifiche (energia, meccanica, chimica, elettrica e sanitaria) dettero lo start all’incredibile sviluppo economico del Novecento. I nostri Paesi cioè, non sono “paesi per vecchi” eppure siamo sempre più vecchi;

2) abbiamo creduto … alla favola bella che ieri ci illuse ed oggi ci delude … di un rampollo di famiglia portoghese sefardita trapiantata a Londra e proprietario di una banca (tal David Ricardo) che, due secoli fa, sosteneva che ogni Paese deve concentrarsi a produrre sempre meglio una specifica cosa e poi la scambia con altri Paesi per avere tutte le altre che non produce eppure servono per vivere. Così in ogni Paese mancano mascherine, camici, ventilatori, tamponi, reagenti chimici, farmaci ed ogni altro strumento necessario improvvisamente ed in quantità inimmaginabili per far fronte all’emergenza sanitaria. Quindi il primo che dice “facciamo a tutti i tamponi”, è pregato di tirar fuori anche i reagenti, i biologi, i laboratori e le attrezzature, altrimenti taccia.

3) come ben espresso da una studiosa politica britannica ieri sul Guardian, la nostra immagine di mondo è settata sul modo “aspettiamo di non avere scelta e poi ci adattiamo”, quando il mondo complesso funziona in modo che se non prevedi per tempo e ti attrezzi ex ante, quando ti svegli è tardi e il locomotore sulla rotaia su cui ti eri appisolato pensando di esser nel migliore dei mondi possibili, di trancia la gola;

4) pensavamo di vivere in un “mondo globale”, un grande villaggio comune mentre invece eravamo solo in un Risiko di giocatori egoisti competitivi che rubano le mascherine e la clorochina gli uni a gli altri. Pensavamo di esser in una commovente comunità degli europei ed invece stiamo in un tavolo da poker in cui si gioca a “mors tua vita mea”. Pensavamo di esser nell’era dell’informazione e della conoscenza ed invece tutti quanti non sappiamo e forse mai sapremo quanta gente ha preso davvero il virus, quanta ha l’influenza, quanta ne muore a casa, quanti tamponi davvero si fanno, quanti i ricoverati, gli ossigenati, gli intubati e soprattutto i morti. Dai cinesi ai russi, dai tedeschi a gli inglesi ed americani è gara a non dirla tutta e non turbare troppo il bambino che è in noi. Sulla “democrazia” non spendo parole, di questi tempi sparare sulla croce rossa è inelegante.

Ecco allora che quando il problema è complesso, l’esperto della frazione infinitesimale, apporta solo entropia, confusione falsa conoscenza. E giù col solito tormentone: gli economisti non sanno di biologia, i biologi di logistica, i logistici di geopolitica, i geopolitici di economia, in circoli vari sempre più larghi e senza chiusura, cioè senza né capo né coda. In questo triste momento di clamoroso fallimento cognitivo ed adattivo, ci illumina solo il terso pensiero dell’intramontabile di Ponte a Ema, il quale scuotendo sconfortato la testa diceva: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Aggrappiamoci alla sua saggezza, quando i sopravvissuti avranno acquisito tutti l’immunità di gregge, finito di contare i morti, forse sarà il caso di ripartire rimettendo proprio in discussione la nozione di “gregge” e cominciar col rivedere molte cose, se non tutte visto che son tra loro interconnesse.

IMMUNITA’ DI GREGGE MA NON GREGGI, di Massimo Morigi

IMMUNITA’ DI GREGGE MA NON GREGGI.  BREVE CONSIDERAZIONE GEOPOLITICA SU REGNO UNITO ED ITALIA A CONFRONTO DI FRONTE AL CORONAVIRUS

 

Di Massimo Morigi

 

Nella conferenza stampa di martedì 12 marzo, Sir Patrick Vallace, UK Government Chief Scientific Adviser, vale a dire il consigliere scientifico particolare del Primo Ministro, carica inesistente nel Bel Paese ma di estremo e strategica importanza nel Regno Unito, in relazione all’epidemia di Cronavirus ha affermato, testuali parole: «It’s not possible to stop everybody getting it and it’s also not desiderable because you want some immunity in the population». Fornendo qui  l’URL attraverso il quale si può prendere diretta contezza di quella parte della conferenza stampa dove è stato pronunciato questo giudizio, https://twitter.com/BBCNews/status/1238151926379880449, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200313223603/https://twitter.com/BBCNews/status/1238151926379880449, osserviamo solo che il falso umanitarismo è sempre foriero di disastri  materiali e morali mentre una vera democrazia  – se per democrazia non s’intendono le “pappe del cuore” ma un preciso comune sentire, che travalica la destra e la sinistra e  sempre diretto a fare appello e leva sulle capacità di consapevolezza ed orgoglio di un popolo – è sempre collegata con una volontà imperiale che, nel caso inglese di come buona parte dell’opinione pubblica intende reagire a questa grave crisi epidemiologica, non significa certo ricostruire passati domini su terre lontane ma, molto semplicemente, accettare le sfide che ci presenta la storia  non in maniera passiva ma affrontarle a viso aperto ed attrezzandosi perché queste sfide procurino meno danni possibili (infatti il corollario di accettare che l’epidemia si diffonda e così sviluppare un’immunità di gregge che porti alla fine alla sua estinzione è, ovviamente, potenziare le strutture ospedaliere che possano consentire ai casi più gravi di essere salvati con le maggiori probabilità di successo). Certo, si tratta di una volontà imperiale molto “sui generis” che è, in primo luogo e principalmente, una volontà di comando sul proprio destino e non su qullo altrui ma, non nascondiamolo, siamo in presenza di propositi che se portati fino in fondo, infatti Sir Patrick Vallace parla anche per conto e per voce del nuovo primo ministro Boris Johnson (il quale churchillianamente tuona: «abituatevi a perdere i vostri cari»), intendono portare il Regno Unito sullo scenario internazionale come una potenza  la quale, anche se ha perduto dopo la seconda guerra mondiale il primato economico e militare, non accetterà mai alcun tipo di ricatto, né economico né militare. Il coronavirus, quindi, come un’occasione per riproporsi come un imprescindibile attore in uno scenario geopolitico in tempi, non di coronavirus come piagnucolando e scimmiottando titoli di opere letterarie ripetono ad ogni piè sospinto i nostri prezzolati e servi media nazionali, ma in tempi odierni e futuri di un sempre più tumultuoso e violento policentrismo. In una trasmissione di una importante emittente italiana, abbiamo potuto assistere alla piagnucolosa intervista a studenti italiani ospiti della “Perfida Albione” (questo era il senso del servizio) che di fronte al comportamento del governo di Sua Maestà Britannica si erano isolati in casa (comportamento legittimo,  evitare di cadere vittima di un’epidemia è una più che legittima aspirazione) ma che a questo comportamento, oltre aggiungere pesanti e gratuite querimonie contro il governo inglese, univano sentiti ed accorati elogi su quanto stava facendo il governo italiano. Piccole domande: se sono tanto impauriti perché non se ne tornano nella «Bella Italia, amate sponde» visto che nessuno li trattiene? e se apprezzano tanto l’operato del nostro governo perché una volta tornati in Patria (campa cavallo…)  non si mettono a fare politica attiva nel nostro paese piuttosto che rompere i … degli altri? (altrettanto campa cavallo, perché questi soggetti, oltre ad essere immediatamete spendibili per basse ricette di cucina politica nostrana, una volta tornati sul nostro artistico ed umanitario suolo potrebbero facilmente trovare lavoro, trovarlo sì ma come raccoglitori di pomodori).  Per ora in Italia la crisi epidemiologica del coronavirus non sembra  portare alcunchè di buono. Come sempre confidiamo sulla nottola di Minerva che spicca il suo volo solo all’imbrunire  (cioè, tradotto nel linguaggio di una rinnovata dialettica, sulle Epifanie strategiche di cui anche il nostro Paese ha fornito begli esempi nella sua storia).

 

 

 

 

 

 

Ivan Krastev – Gli ultimi giorni dell’Unione, di Teodoro Klitsche de la Grange

Ivan Krastev – Gli ultimi giorni dell’Unione. Luiss University Press, Roma 2019, pp. 133 € 16,00

L’autore ha vissuto da giovane il crollo del comunismo, la cui “ragione sociale) era l’emancipazione definitiva dell’umanità e la durata – nel caso più longevo, come l’URSS – è stata poco più di settant’anni. In questo saggio Krastev ritiene assai probabile anche il collasso dell’Unione europea.

Causa principale è l’esaurirsi dello “spirito” originale. Scrive Saraceno nella prefazione “A partire dagli anni Ottanta del Ventesimo secolo, le sfide della globalizzazione hanno messo in crisi questo modello e il suo motore principale, quelle classi medie ormai impoverite, strette fra un élite globale di plutocrati sempre più ricchi che di fatto si sono sottratti al patto sociale, e le classi medie dei Paesi emergenti, che reclamano il posto che compete loro sulla scena globale. A questo si aggiunge in economia un “Nuovo consenso”, anch’esso sviluppatosi negli anni Ottanta e che, in nome di una supposta supremazia dei mercati, rifiuta un ruolo proprio a quello Stato regolatore e al patto sociale che avevano costituito due dei pilastri del modello sociale ed economico europeo. A questo si aggiunge che nel nuovo quadro della globalizzazione “è diventato impossibile effettuare scelte democratiche a livello di Stati nazionali; … essendo la cessione di sovranità all’Unione Europea una chimera, i popoli europei maltrattati dalla globalizzazione hanno cercato spazi di democrazia nel sovranismo e nella protezione dell’interesse nazionale”.

La profezia di “fine dell’Europa” non è auspicata: è anche (e soprattutto) un monito; “è un pugno in faccia alle élite compiaciute che soffrono di “disturbo autistico”.

Tuttavia che il recupero di una piena sovranità nazionale porti alla risoluzione dei problemi pare non meno utopico all’autore del progetto federale in via di decomposizione. Certo occorre cambiare (politiche ed élite dirigenti). Il saggio è pieno di intuizioni originali o poco frequentate: ad esempio il “peso” della concezione di Fukuyama nell’ideologia della globalizzazione. O l’emergere di nuovi conflitti. “I conflitti tra esponenti di visioni Da Ovunque e Da qualche Posto, tra globalisti e nativisti, tra società aperte e società chiuse influenzano l’identità politica degli elettori più di quanto facessero le precedenti identità basate sulle classi”; il tutto mette in crisi, con riduzioni a percentuali sempre più modeste, il consenso ai partiti di sinistra (e non solo) che sulla scriminante di classe avevano investito.

È costante poi la stigmatizzazione di Krastev sull’inadeguatezza delle elite politiche ed economiche europee ad affrontare la crisi; onde hanno in effetti lavorato per i loro avversari sovranisti e populisti. Chi abbia visto (e sopportato) l’opera del governo Monti, principale ostetrico del sovran-populismo italiano, non può che concordare.

Chiudendo tale recensione (breve per definizione di genere) il crescere del populismo ha prodotto anche una copiosa produzione di saggi sul medesimo, che ne attribuiscono l’emergere impetuoso alle cause più varie: dalla decadenza delle élite alla globalizzazione, da uno stile di propaganda alla crisi economica, dalla difesa dell’identità nazionale a quella della democrazia. Verosimilmente tutte (o quasi) compresenti. Se si vuole ascrivere a uno di tali “filoni interpretativi” il saggio di Krastev, questo è a quello – forse il più antico – che risale al saggio di C. Lasch sulla “Ribellione delle élite” di oltre vent’anni orsono.

La tesi di Lasch era che le nuove élite globalizzate, erano separate dalle masse per cultura, aspirazione, modi di vita. Èlite e masse non condividevano non solo l’idem sentire de republica ma molto di più. Se quindi basta la non condivisione dell’idem sentire per generare una crisi di legittimità, ancora più facile e determinante che si produca se quella distinzione è a “tutto tondo”: coinvolge pubblico e privato, lavoro, tempo libero, famiglia e svago, morale e scelte religiose. E da una crisi siffatta si esce in un solo modo: ricostruendo quell’almeno “idem sentire” e, meglio, anche qualcosa di più.

Teodoro Klitsche de la Grange

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