Una pausa nella campana di vetro, di Simplicius

Negli ultimi tempi molti hanno notato che le fondamenta del Regime hanno finalmente fatto una grossa falla. I detriti che scendono dall’edificio sono un segno delle cose. Le voci della “destra” si sentono sempre più incoraggiate a parlare, e l’era della cultura dell’annullamento sembra aver finalmente voltato pagina, e sta tramontando.

Le cose sembrano diverse, il cielo si è rotto, il primo morso di ottimismo nell’aria limpida dell’autunno. Certo, YouTube e i big procedono a falcidiare le voci dissidenti dalle loro piattaforme a destra e a manca, ma allo stesso modo si è scatenato un bagno di sangue per gli stalloni dell’establishment per le loro numerose trasgressioni contro l’umanità; per la prima volta, sono sconvolti. È come se una sorta di campo di forza fosse improvvisamente evaporato, lasciandoli storditi e vulnerabili.

Spettacoli importanti come Acolyte della Disney e Lord of the Rings di Amazon sono stati stroncati, derisi e persino cancellati nel caso del primo. Per Acolyte, la cancellazione dopo una sola stagione è stata un colpo senza precedenti per una proprietà che si aspettava di ereditare un successo simile a quello di Mandalorian, una serie di punta per il gigante dell’intrattenimento. La Bestia, il Leviatano si è ripreso dalle sue prime ferite, mentre la tanto attesa ondata di critiche si è finalmente materializzata.

In un disastro ancora più monumentale, Concord di Sony, un gioco multigiocatore che avrebbe dovuto assumere il ruolo di re del gioco online e inaugurare un’era di dominio di Sony, ha subito una cancellazione catastrofica e senza precedenti a pochi giorni dall’uscita. Il suo fallimento ha eclissato persino quello di Acolyte- della Disney, il cui budget era di 120 milioni di dollari. Lo sviluppo di Concord è costato a Sony ben 400 milioni di dollari, un investimento che ha segnato un’epoca per un gioco che sembrava avere tutte le carte in regola per il successo e tutti i muscoli della casa madre. Nell’era dei vibeshift, sembra che questo gioco li superi tutti.

Perché Concord ha fallito? Non c’è bisogno di lunghe esegesi: basta osservare il design dei personaggi, che racconta la maggior parte della storia:

Ogni personaggio sembra modellato sul peggior tipo di tropo. Le boss-babes post-muro, rumorose e spavalde, in credo body-positive, le dignitose Madonne invecchiate in menopausa come alchemichesuperpotenti, il tutto in una poltiglia di ambiguità culturo-etnica cucinata in una distopia Balenciaga. È la Suicide Squad bio-leninista progettata da un’IA istruita per parodiare gli eccessi più estremi e criptografici del movimento woke.

Ed è proprio questo il punto: abbiamo raggiunto quello che sembra un picco logico di singolarità per il movimento woke; ha fatto il suo corso e ha perso la verve vitale e l’autenticità che poteva possedere un tempo, rassegnandosi semplicemente a una banale auto-parodia.

Questo è testimoniato in tutta l’industria su vasta scala. I titani stanno cadendo, gli stalloni vengono ricacciati indietro per la prima volta. Il gigante dei giochi Ubisoft si è schiantato a causa di due mani sbagliate di DEI sotto forma di Assassin’s Creed Shadows, un rompicapo culturale ambientato nel Giappone feudale con protagonista il samurai nero Yasuke, e Star Wars Outlaws con protagonista un androgino dalla mascella a lanterna in un bugfest amatoriale non sviluppato.

Ora Assassin’s Creed Shadows è stato sorprendentemente “ritardato”, mentre Ubisoft si affanna a controllare i danni per capire come far nascere il suo vitello d’oro AAA senza abortire come Sony Concord:

Per chi si chiede cosa sia successo a Ubisoft, un tempo rispettato gigante del settore, è caduto vittima delle insidie della piovra globale DEI:

L’industria dei videogiochi è stata quasi interamente catturata da questi gruppi di interesse speciale, come Sweet Baby Inc, di cui ho già riferito. Ha trasformato tutte le “grandi” case in veri e propri vivai del tipo più insidioso di attivisti bio-leninisti.

Basta prendere in considerazione la seguente piccola promozione:

L’ultima mega-controversia riguarda il prossimo gioco di BioWare Dragon Age: The Veilguard. BioWare è stato un altro celebre sviluppatore responsabile di classici amatissimi come Baldur’s Gate, la serie Mass EffectStar Wars: The Old Republic e molti altri. Ma il loro ultimo sequel Dragon Age trabocca di una ripugnante scala di ruffianeria non richiesta e di virtuosismo attivista:

La nuova pietra miliare introdotta da questo gioco è così evidente da aver mandato in convulsioni di sdegno e sconcerto i fan di vecchia data della serie. La funzione di creazione del personaggio include non solo la possibilità di pavoneggiarsi con varie anomalie fisiche come la vitiligine e la cellulite, di aumentare le “dimensioni del rigonfiamento” dei propri personaggi femminili, ma soprattutto: la possibilità di adornarsi con “cicatrici da chirurgia superiore”:

Rileggete. Cicatrici da intervento chirurgico, in un mondo fantasy medievale pieno di magia, in particolare della capacità magica di guarire le proprie cicatrici. Secondo gli sviluppatori, non si tratta affatto di una rottura dell’immersione. Ma qui c’è il Game Director:

Questo oltre al fatto che il gioco include i pronomi per i personaggi. Che cosa palesemente medievale.

Ma come detto, per la prima volta la diga si sta rompendo. L’intero “movimento woke” – per mancanza di un termine migliore – sta crollando sotto lo stress del proprio narcisismo e dei doppi standard socialmente costruiti. Il contraccolpo sta causando una grande ristrutturazione e un “esame di coscienza” tra le grandi case di Tripla A che avevano scommesso il loro intero futuro su una nuova era di giochi guidati dalla DEI.

Al contrario, l’ultima storia di successo è il gioco cinese Black Myth Wukong, che sarebbe stato avvicinato da una delle stesse società DEI che hanno parassitato gli studi rivali. Ma in un momento cruciale, gli sviluppatori di Black Myth hanno rifiutato i trenta argenti, con risultati meravigliosi

Quello che arrivò andò contro tutte le tendenze e le aspettative: Black Myth è esploso diventando il gioco più venduto al mondo e, secondo quanto riportato, ha superato i 20 milioni di unità vendute. Le vendite hanno superato quelle dei principali titoli di Assassin’s Creed, un risultato senza precedenti per lo sviluppatore indie precedentemente sconosciuto.

Ad appena un mese dall’uscita, il gioco è ora una potenza globale, in testa alle classifiche del “Gioco dell’anno” presso il gigante della stampa videoludica IGN, fino a quando i numeri non sono stati “manipolati” per impedire al “pericoloso” titolo di raggiungere la gloria:

Cosa ci si aspetta da un’industria che ha intrapreso questa strada?

Le rivelazioni più ampie del dramma ruotano attorno ai metodi con cui veniamo volutamente colonizzati, mente e corpo, con la riconfigurazione delle definizioni e dei contorni stessi della biologia umana. C’è un’improvvisa spinta concertata a cancellare semplicemente la forma femminile, ma in un modo molto specifico mirato. La cancellazione riguarda gli oggetti d’affezione di un solo tipo di maschio, quello più temuto dai nostri controllori: l’alfamalese dominante e irriverente. Vi è permesso di godere di forme femminili annacquate, fatte su misura per i gradevoli “soyboy”, “simp” o “closeted” – sapete, il tipo che non diventa mai troppo chiassoso o si spinge ai margini, preferendo colorare all’interno delle linee come un bravo bambino; vedi: archetipo di Tim Walz.

Oltre alle “cicatrici della chirurgia superiore”, la precedente controversia Veilguard includeva il palese nerfing del creatore del personaggio sulla capacità di proporzionare generosamente i “glutei” o il “petto” di una figura femminile:

Ogni donna deve essenzialmente essere in grado di codificare come un uomo. Questo ricorda la controversia Stellar Blade, in cui una donna palesemente voluttuosa era ritenuta proibita dall’industria per la sua capacità di incantare la classe più indomabile di energia psichica e libidica del nostro mondo. Ciò che è sfuggito ai più è che non si tratta della cancellazione della femminilità per modificare l’immagine che le donne hanno di se stesse, ma della soppressione deliberata e sistematica del pericoloso impulso maschile dominante.

Come molti di coloro che hanno letto i manifesti reazionari dell’alt-right e dei “vitalisti” sanno, la guerra culturale alla “mascolinità tossica” infuria proprio perché rappresenta l’ultima resistenza contro le forze del Blob che cercano di assimilarci tutti nel pozzo nero della loro camera di riproduzione manageriale di Longhoused, quella palude estrogenica di servilismo oppressivo alimentato dagli ormoni, profumata con l’infuso tossico della stucchevole karenite.

La quintessenza dell’uomo naturale – quella figura stoica priva di tutte le arie effettate e di gradevolezza – deve essere espulsa… a tutti i costi. Il modo in cui queste Onorate Madri hanno escogitato di farlo è soffocarlo dall’esistenza attraverso il metodo di tagliare tutte le possibili influenze sinergiche che potrebbero potenzialmente “abilitare” o scatenare quell’odiato, indomito ceppo maschile.

Sono sinceramente terrorizzati, gravemente minacciati dall’animoso rinascimento della mascolinità perché rappresenta l’ultimo impulso sopravvissuto con la virilità e l’energia del caos per resistere alla loro tentacolare sussunzione dell’Umanità; è la forza di controbilanciamento alla grande piaga dell’evirazione del genocidio della conformità estrogenica.

Ricordiamo la precedente ammissione di un insider del settore videoludico secondo cui i designer stanno androginizzando i personaggi femminili per la necessità di rivolgersi furtivamente a entrambe le parti senza alienare la comunità trans:

Ha poi rivelato: “Dal punto di vista del design, questo è un problema davvero impegnativo. Ho avuto molte riunioni del consiglio di amministrazione su come affrontare la questione. Le persone trans vogliono una rappresentazione “realistica” nei nostri giochi, ma si sentono escluse se vengono rappresentate come troppo maschili o troppo femminili. È per questo che vedrete molti designer ‘snervare la forma femminile’, per così dire, in modo che la differenza tra le donne trans e le donne cis sia un po’ meno evidente”.

Lo giustificano a se stessi pensando che se riescono a minimizzare le differenze con semplice sottigliezza, allora possono “tranquillamente” sfuggire alle critiche di entrambe le parti, in particolare all’assillante randello della cultura dell’annullamento della folla degli attivisti radicali. Il problema è che è impossibile giocare su entrambi i fronti: o il personaggio sembra una donna, o sembra un taglialegna con il mento da butta.

Nel caso di Star Wars Outlaws di Ubisoft, è quest’ultimo per la famigerata ‘eroina’ principale “Kay Vess”.

La parte più scioccante è che l’attrice che dà voce al personaggio è una splendida ragazza in carne e ossa:

La tipica argomentazione secondo cui un personaggio deve essere “inclusivo” per rappresentare le “donne reali” non regge quando la vera donna che si cela dietro il toon la mette in crisi. Questo vale anche per molti titoli recenti sottoposti a controlli privati da parte dei “consulenti” della DEI:

Guardate un po’: a chi dovrebbe interessare?

No!

No!

No, no, no, no!

Perversione, ti rimproveriamo! Il nostro animo urla nel vuoto in un’angoscia rasposa al pensiero di essere sussunto in quello sfogo ormonale pulsante di effluvi estrogenici che è la moderna camera a gas matriarcale. Non ce ne andremo in silenzio! Non ci adegueremo!

È la materia degli incubi, questo orrore dai capelli arruffati, dal naso seghettato, dalla bocca di lampreda, dagli occhi di rasoio, dalla mascella di lanterna, dal ghigno ormonale.

Proprio come quando hanno tolto il Secondo Emendamento, vogliono soiamente trasformare gli uomini in una classe di sottomessi gradevoli, che devono essere dominati dalle loro aggressive donne-militanti. È per questo che gli unici uomini “accettati” al potere di questi tempi sembrano essere tutti della stessa pasta: in coppia con una moglie più anziana e cupa. Da Bill Gates e la sua assistente Melinda, a Macron e la sua tata più anziana, a Barry e B.M., fino al giovane rampollo Soros e alla sua fidanzata decennale Huma Abedin.

Cominciano già ad avere l’aspetto giusto!

L’assalto ancora più grande perpetrato dai padroni sta reingegnerizzando la definizione stessa di società e nazione. Mentre parliamo, una grande ondata di immigrati culturalmente incompatibili si sta scatenando negli Stati Uniti, senza che sia consentito mettere in discussione le discrepanze culturali insite nell’improvvisa e violenta commistione di influenze. Sarebbe una cosa se si trattasse di una leggera pioggia di gruppi in tutto il Paese, ma invece si sta procedendo a una serie di attacchi di saturazione con armi cliniche su piccole città regionali, travolgendole con un afflusso di stranieri.

La carnevalata dei cani e dei gatti di Springfield, Ohio, ci ha affaticato quasi di proposito, distogliendo il nostro interesse dai molti altri casi che in tutto il Paese sono stati chiusi da un totale blackout mediatico. Ecco un nuovo esempio dalla piccola città di Charleroi, in Pennsylvania, come riportato da un canale YouTube più defilato che vola sotto i radar: .

La parte più impressionante: la piccola città di soli 4.200 abitanti è stata inondata da oltre 2.000 immigrati haitiani in un periodo di pochi mesi, cambiando istantaneamente il paesaggio della città e sovraccaricando i suoi servizi come un lurido esperimento sociale. Il video, più orientato verso la base, è assolutamente da vedere, perché non è stato astroturfed e carpetbagged come alcune delle cose più grandi sponsorizzate dalle ONG che vengono ora diffuse.

Un altro recente reportage dal Minnesota annuncia il giuramento del primo non cittadino agente di polizia, una donna somala che ha solo lo status di residente: .

Immaginate che i vostri diritti naturali vi vengano dettati da qualcuno che non ha nemmeno dimostrato di conoscere o di essere fedele ai pilastri civici del Paese. La gente del video ufficiale di YouTube non ha apprezzato la notizia – controllate il rapporto dei like:.

https://youtu.be/cjYj1ZfrIjA

Anche la sezione dei commenti è uno spasso.

Il punto di questo excursus: al centro del progetto di ingegneria sociale globale c’è un principio centrale: ridefinire i concetti originari in ideali che si adattino al moderno modello aziendale di sfruttamento – l’umanità non come cultura, organismo, famiglia, ma come risorsa estrattiva. La concezione stessa della società e della nazione, come derivazione della famiglia e dell’identità, legate da un eidos e da un ethos comuni, è in contrasto con il mondo della modernità come derivazione della società gerarchica, e la nostra stessa realtà sta lentamente venendo sussunta in un modello di esistenza aziendale.

Il teorico russo Lev Nikolayevich Gumilev ha elaborato alcune interessanti teorie sull’etnogenesi, e di come un popolo sia legato all’ambiente circostante attraverso un fenomeno di passionarietà (passionarnost), che è una sorta di energia vitale che lo permea dell’essenza dell’ambiente circostante:.

“Il concetto centrale di Gumilev è quello di ethnos. Lo collega al concetto di biosfera promosso dall’accademico Vernadskij e giunge alla conclusione che l’ethnos è come un essere umano: ha il suo carattere, la sua infanzia, la sua età adulta e il suo periodo calante. Poiché gli uomini fanno parte della natura, anche i popoli devono seguire le leggi della natura. Tra queste, la più importante è la passionarietà, o energia vitale dell’ethnos. La passione è legata alla geografia – in altre parole, i gruppi etnici che si sono sviluppati in determinate condizioni climatiche e geografiche si “adattano” al loro ambiente, trovano la loro “nicchia ecologica” e diventano parte dell’energia del loro ambiente di vita. Ogni etnia ha un proprio “stereotipo comportamentale”, che viene trasmesso dai genitori ai figli e che potrebbe essere considerato una mentalità nazionale. Questi stereotipi sono come riflessi animali che garantiscono la conservazione di un ethnos. Col tempo, un ethnos sviluppa la propria civiltà, che comprende religione, modi e norme. Gumilev non fu mai in grado di spiegare se una civiltà sia o meno un fenomeno biologico, ma sostenne che persone di razze diverse potessero far parte della stessa civiltà.”

Attraverso questo processo, un gruppo di persone riunite può iniziare ad assemblarsi in un ethnos coerente, assumendo gli attributi di un organismo unico, rispecchiando la progressione biologica di ascesa, picco e caduta: .

Gumilev descrive le fasi di questa etnogenesi così come le ha viste:

Stadi dell’etnogenesi

  1. Aumento passionale: questa fase iniziale è caratterizzata da un’impennata di energia e attività all’interno del gruppo etnico. È caratterizzata da un aumento della creatività, dell’espansione e da un forte senso dello scopo.

  2. Fase Acmatica: è l’apice dello sviluppo dell’ethnos, in cui raggiunge il suo massimo livello di attività e di influenza.

  3. Fase di frattura: Dopo il picco, c’è un periodo di conflitti interni e divisioni all’interno dell’etnos.

  4. Fase inerziale: L’ethnos inizia a stabilizzarsi e a consolidare le sue conquiste, ma con meno energia rispetto alle fasi precedenti.

  5. Fase di oscuramento: questa fase vede un declino della vitalità e dell’influenza dell’ethnos.

  6. Fase della memoria: l’ethnos esiste principalmente nella memoria culturale e nei documenti storici.

Alcune interpretazioni includono una settima fase:

  1. Fase omeostatica: Uno stato di equilibrio in cui l’ethnos può persistere a un basso livello di attività o fondersi con altri gruppi.

Le sue teorie possono sembrare strane a prima vista, ma sono piene di una sorta di naturale convenienza. Egli sintetizza audacemente varie discipline scientifiche in complementi intuitivi, ad esempio la termodinamica e l’ecologia, da cui teorizza la nascita di una sorta di “campo” etnogenico simile ai campi elettromagnetici; li chiama campi di passionalità. Ma non si tratta di “campi magici”, bensì di un modo pragmatico di descrivere un tipo di interazione e influenza antropologica tra persone con determinati comportamenti dirompenti che creano nuovi biomarcatori culturali.

Per intenderci, la cultura e l’ethnos sono inestricabilmente legati alla vicinanza dei gruppi e dei loro particolari dintorni. Da questo nasce il nascente sub-ethnos identità, in ethnos e super-ethnos.

  1. Sub-etnos: è il raggruppamento iniziale di persone con caratteristiche comuni. Gumilev proponeva che un gruppo di persone che vivevano in un unico luogo con uno specifico stile di vita e un’esperienza storica potesse formare una “konviksiya” o “konsortsiya” nel corso delle generazioni.

  2. Ethnos: se il sub-etnos sopravvive e si sviluppa ulteriormente, può diventare un ethnos. Un ethnos è caratterizzato da una propria struttura interna, da marcatori etnici unici e da stereotipi comportamentali che si tramandano per generazioni.

  3. Super-etnos: Quando un etnos continua a svilupparsi e a espandere la propria influenza, può evolversi in un super-etnos. Si tratta di un’entità etnica più ampia, che può comprendere più etnie affini.

  4. Meta-etnos: in alcuni casi, un super-etnos può ulteriormente svilupparsi in un meta-etnos, che rappresenta un raggruppamento etnico ancora più ampio.

Da questo processo, possiamo dedurre, nasce una nazione, dopo che un ethnos sufficientemente grande e potente ha concordato un patto tra l’uomo e l’organo di governo per la protezione sia dei diritti sia di quei segni culturali distintivi che costituiscono l’identità dell'”ethnos”.

È la nazione come famiglia, come collettivo culturale che condivide somiglianze biochimiche e impulsi emotivi, e che germoglia naturalmente organicamente da un’esperienza comune, in un ceppo comune. .

Questo fragile organismo viene distrutto con l’introduzione di un insieme di etnie completamente estranee, tutto in una volta e di punto in bianco, come una sostanza chimica estranea iniettata in una soluzione sterile. L’America come super-etnos viene intenzionalmente derattizzata e distrutta. Ricordiamo che Gumilev riteneva che un super-ethnos può essere costituito da molteplici “etnoi affini”, come nel caso del tessuto multiculturale americano, parzialmente omogeneizzato, che ora è sottoposto a un assalto ancora più estremo da parte di culture esterne. In parole povere: anche le “minoranze” americane sono ora minacciate e ostili all’invasione di migranti in corso, che minaccia di spostarle dalla loro già precaria posizione sul totem sociale. .

Qualcuno potrebbe chiedersi: il nuovo etnoi straniero non può essere assimilato, con la passione di Gumilev per creare un nuovo nascente sub-etnos? Indubbiamente, nel corso del tempo, ma le persone dovrebbero avere la possibilità di scegliere se essere manomesse antropologicamente. Nell’antichità gruppi di persone si agglomeravano per necessità di sopravvivenza o per esigenze ambientali, per scelta e per lunghi periodi di tempo. Naturalmente, anche molti atti di barbarie e di violenza costringevano le persone a unirsi con la forza: la tratta transatlantica degli schiavi, per esempio; ed è proprio quello che è oggi: barbarie e violenza di un altro tipo, esercitata di proposito dai nostri padroni. .

Anche se esula dal nostro scopo qui, si può teorizzare che l’America come super-etnos sia già al numero tre, quattro o addirittura cinque della scala di declino di Gumilev, a seconda del punto di vista: .

  1. Fase di frattura: Dopo il picco, c’è un periodo di conflitti interni e divisioni all’interno dell’etnos.

  2. Fase inerziale: l’ethnos inizia a stabilizzarsi e a consolidare le sue conquiste, ma con meno energia rispetto alle fasi precedenti.

  3. Fase di oscuramento: in questa fase si assiste a un declino della vitalità e dell’influenza dell’ethnos.

Questo perché l’America ha perso definitivamente la sua vitalità culturale e la sua influenza in tutto il mondo dopo un periodo di grande divisione sociale. Persino i media mainstream si sono chiesti cosa “sia” ancora l’America, il che sembra segnalare una rottura della valenza fondamentale dell’ethnos un tempo dominante.

Per chiudere il cerchio, il metodo storico delle élite è sempre lo stesso: recidere il legame con l’essenza dell’uomo, quel eidos e anamnesiper trasformarlo nel Noviop del futuro aziendale, infinitamente plasmabile, illimitatamente adattabile a qualsiasi progetto lavorativo o estrattivo, come richiesto dai suoi padroni aziendali. La vostra “Fede” vi impedisce di sottoporvi a questo vaccino necessario per rimanere “sani” abbastanza da massimizzare le vostre ore di lavoro per la nostra produttività EBITDA? La religione sia abolita! La vostra “cultura tradizionale” protesta contro questi adattamenti transumani destinati a indurire la vostra mente contro la bassa soglia del dolore della “natura” alle necessarie condizioni di lavoro moderne? Via il tradizionalismo! Dovete essere fratturati e rifatti secondo gli standard e le specifiche delle realtà moderne!

Dai tempi delle prime rivoluzioni contro le monarchie di un tempo, il mondo si è lentamente trasformato per accettare il modello aziendale di dominio-capitale come telos dell’esistenza umana. Travestita da rivolta popolare, la Rivoluzione francese e le altre che seguirono furono in realtà in gran parte l’usurpazione della vecchia nobiltà ereditaria da parte della nuova borghesia – il rovesciamento dell’ancien régime da parte della nuova ricca élite del futuro; un semplice cambio della guardia..

Questa nuova classe ha lentamente rimodellato il nostro mondo nel modello aziendale che si addice alla loro occulta tecnologia monetaria, in cui i pezzi possono essere spostati a capriccio come reparti intercambiabili, a patto che ciò vada a vantaggio dell’efficienza, dei profitti e della crescita, o di qualche altro fine politico. Il sistema manageriale è stato progettato proprio per questo, ed è stato applicato a ogni nazione come una guarnizione di testa per controllare i termini dall’alto verso il basso.

Ma per una volta, la loro campana di vetro ha subito una grave rottura, la nube malata e sgargiante del matriarcato soffocante sta fuoriuscendo in grandi flutti arcobaleno. Per una volta possiamo assaporarel’aria fresca: solo questa ci fa abbassare i nervi, abbassa di un centesimo o due la nostra programmata reazione di lotta o di fuga. Respirate profondamente quell’aria primordiale, riempitevi i polmoni con la sua graffiante presenza e vitalità. .

Ora è il momento di lavorare.


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Il mondo moderno è noioso, di AURELIEN

Il mondo moderno è noioso.

Dove sono ora gli eroi e le avventure?

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Il 21 luglio 1969, verso l’alba , andai finalmente a letto. Dovevo alzarmi qualche ora dopo per andare a scuola, ma era la fine del trimestre, gli esami erano finiti e c’era poco da fare se non oziare. Ricordo di essermi appisolato su una sedia a sdraio guardando una partita di cricket tra il personale e gli alunni. Ma nessuno parlava di cricket. C’era un solo argomento di conversazione: sei rimasto sveglio per vedere Armstrong uscire dal modulo lunare? La maggior parte di noi lo aveva fatto.

Per molti versi questo non è sorprendente. Se eravate nati nei dieci anni successivi alla guerra, e soprattutto se eravate maschi, facevate parte della Space Generation. La promessa di viaggi nello spazio era parte della conversazione quotidiana e un tema ricorrente nei media da sempre. E nello spazio succedeva qualcosa di eccitante più o meno ogni anno: gli sbarchi dell’Apollo, lungi dall’essere una sorpresa, sembravano solo il logico passo successivo. (In retrospettiva, però, è forse più giusto descriverli come la fine dell’era spaziale, anche se non per le ragioni piuttosto facili per cui spesso vengono espressi giudizi di questo tipo).

Tuttavia, la data chiave nella storia dell’esplorazione spaziale non è stata probabilmente quel giorno del luglio 1969, bensì il 12 aprile 1961, quando Yuri Gagarin divenne “il primo uomo nello spazio”: il primo fragile essere umano a essere inviato al di fuori dell’atmosfera protettiva della Terra – in un ambiente di cui, rispetto a oggi, non si sapeva quasi nulla – e per di più a essere riportato indietro sano e salvo. Ricordo ancora molto chiaramente mia madre che portava il giornale del mattino e lo metteva sul tavolo della colazione davanti al figlio maggiore appassionato di spazio. A quel punto il mondo cambiò: anche in un sudicio sobborgo londinese, le cose sembravano più luminose.

Perché scrivo ora di questi ricordi? Se seguite con attenzione i notiziari, avrete notato che negli ultimi dieci giorni circa i cinesi hanno inviato una navicella senza equipaggio, la Chang’e 6, per raccogliere alcune rocce sul lato più lontano della Luna e riportarle sulla Terra, e che finalmente, dopo molti ritardi, gli Stati Uniti sono riusciti di nuovo a lanciare una coppia di astronauti nello spazio e a consegnarli alla Stazione Spaziale Internazionale, con solo piccoli problemi tecnici lungo il percorso. Rispetto al 1969, quando la BBC non trasmise nient’altro per ben dodici ore, la copertura di questi due eventi recenti è stata sommersa dal mare di banalità e di schiuma che oggi costituisce in gran parte i media online. I commentatori hanno parlato della minaccia tecnologica cinese all’Occidente e hanno scherzato sul fatto che una navicella spaziale prodotta dalla Boeing è arrivata senza che uno sportello si staccasse. Nessuno ha dedicato molto tempo a parlare dei risultati tecnici o umani raggiunti.

Perché questa differenza? Sarebbe facile dire che i voli spaziali sono diventati una routine, ma non è del tutto vero: il programma Shuttle, ad esempio, è stato interrotto nel 2011, dopo aver effettuato solo 4-5 voli all’anno per trent’anni. È vero che l’esplorazione spaziale si è spenta decenni fa, ma l’entusiasmo e l’interesse del pubblico non si sono mai basati su questioni ristrette di competizione politica. No, la vera storia è più interessante ed è a sua volta parte di una narrazione più ampia e a lungo termine che coinvolge anche altri argomenti. Ma tutti questi argomenti hanno due componenti in comune: l’avventura e la sfida tecnica, nessuna delle quali è più presente.

Rimaniamo però per un momento sui viaggi spaziali. La caratteristica principale di queste prime missioni è che erano follemente pericolose. Gagarin fu lanciato in cima a un razzo che aveva subito diversi guasti durante i test, con una tecnologia non sperimentata per tenerlo in vita. Nessuno sapeva quale sarebbe stata la reazione del corpo umano a un’accelerazione massiccia o a un’assenza di peso prolungata. Diverse cose andarono storte durante la missione e, alla fine, Gagarin dovette lanciarsi con il paracadute dalla capsula e atterrare senza aiuto, perché i retrorazzi montati sulla capsula erano così poco potenti che l’impatto con il suolo sarebbe stato più forte di quanto un essere umano potesse sopravvivere. In realtà, non ne producono più di simili. E se la tecnologia e la conoscenza dello spazio esterno progredirono rapidamente, i viaggi nello spazio erano ancora incredibilmente pericolosi, come ci ha ricordato l’Apollo XIII.

Credo quindi che sia utile collocare l’era spaziale, in cui sono cresciuto, nel contesto più ampio del mondo del dopoguerra e del tipo di conquiste che ne facevano parte. Dopo tutto, l’era spaziale in sé è stata breve: è durata probabilmente solo dal lancio dello Sputnik 1 nel 1957 alla fine del programma Apollo nel 1972. È durata più a lungo nella narrativa e nella cultura popolare, come discuteremo più avanti, ma anche in questo caso direi che c’è una differenza fondamentale tra ciò che è stato scritto e prodotto prima dell’Apollo e ciò che è venuto dopo.

Cos’altro succedeva all’epoca? L’elenco è lungo. Il primo computer programmabile apparve nel 1945 e un decennio dopo i computer mainframe si diffusero. Il primo volo per infrangere la barriera del suono, compiuto da Chuck Yeager, risale al 1947. La prima scalata dell’Everest da parte di Hilary e Tensing risale al 1953, nello stesso anno in cui Watson e Crick scoprirono il DNA. Il primo vaccino contro la poliomielite fu autorizzato nel 1955. La prima centrale nucleare commerciale al mondo, in Gran Bretagna, entra in funzione nel 1956. Il primo servizio di linea di jet attraverso l’Atlantico, effettuato dal Comet di progettazione britannica, risale al 1958, lo stesso anno del primo transito sottomarino del Polo Nord. Nel 1962, il satellite Telstar trasmette i primi programmi televisivi via satellite. La prima persona a navigare intorno al mondo in solitaria, Francis Chichester, lo fece nel 1966.

Inoltre, il mondo si stava aprendo agli occidentali come mai prima. Come si diceva all’epoca, si sapeva meno del mondo marino a dieci braccia di profondità che del lato più lontano della Luna. La situazione cambiò radicalmente negli anni Cinquanta, con i film e poi le trasmissioni televisive di subacquei pionieri come Hans Haas e Jacques Cousteau. Nel frattempo, David Attenborough scomparve nelle giungle del Borneo e altrove con una squadra di telecamere, realizzando la pluripremiata serie televisivaZoo Quest dal 1954 al 1963.

In tutto questo, c’era un’atmosfera di avventura, eccitazione e talvolta di pericolo. Anche gli scienziati erano figure individuali e nominate, che lavoravano in piccoli laboratori e facevano scoperte grazie alla genialità intellettuale e al duro lavoro, piuttosto che perché avevano alle spalle le risorse dei governi o delle case farmaceutiche. Ma questo non significa che l’epoca venerasse la scienza in sé o che pensasse che il trionfo della tecnologia fosse inevitabile. Ciò che colpisce, piuttosto, è quanto primitiva, rischiosa e incerta fosse la maggior parte della tecnologia, e quanto si affidasse all’ingegno e al coraggio dell’uomo prima di funzionare davvero, ammesso che funzionasse. Come ci ricorda utilmenteil filmato dell’Apollo XIII , la tecnologia di allora era straordinariamente primitiva: in realtà si trattava solo di uno sviluppo della tecnologia degli anni della guerra, l’equivalente della traversata atlantica di Alcock e Brown in un bombardiere riconvertito nel 1919. Ma anche questa era migliore della tecnologia usata da Gagarin, che era relativamente primitiva quanto quella usata da Blériot per attraversare la Manica nel 1909.

E non era nemmeno chiaro se sarebbe stato sicuro o consigliabile per gli esseri umani andare nello spazio: cosa avrebbero potuto trovare lì? Una serie di serie televisive in bianco e nero della BBC, ormai dimenticate, dei primi anni Sessanta, come A for Andromeda (1961), scritta dall’astronomo Fred Hoyle, e The Big Pull (1962), che utilizzavano entrambe la nuova tecnologia dei radiotelescopi con un effetto agghiacciante, suggerivano che lassù potevano esserci cose che non ci piacevano.

In quegli anni, quindi, si celebrava il coraggio, l’intraprendenza e l’ingegno dell’uomo di fronte al pericolo e all’ignoto. L’osservazione del Presidente Kennedy sul fare le cose perché erano difficili si è rivelata avere ogni sorta di risonanza inaspettata e contrasta dolorosamente con la politica di oggi, dove l’idea è quella di annunciare solo le cose che si sa di poter fare e che preferibilmente si sono già fatte. Naturalmente c’è un problema strutturale con la scoperta e l’invenzione: una volta che è stata fatta per la prima volta, la gente perde interesse. Chi, dopo tutto, ricorda il nome della seconda persona che ha raggiunto la vetta dell’Everest? In un certo senso, quindi, quello che sto descrivendo è inevitabile e rappresenta la fine, dopo forse cinquecento anni, della nostra civiltà che fa cose insolite, difficili ed eroiche. Ma perché questo dovrebbe valere anche per la cultura di oggi che, in questo come in tante altre cose, si limita a sminuire il passato per ottenere vantaggi economici?

Se c’è un’opera di cultura popolare che rappresenta la fine dell’era spaziale seria, questa è probabilmente Guerre stellari, che allo stesso tempo saccheggia la cultura popolare di diverse civiltà alla ricerca di pepite e cliché che incastra con scarso riguardo per la coerenza del carattere della narrazione, e contemporaneamente adotta un atteggiamento postmodernista di distanza e superiorità nei confronti del suo materiale. È tutto un grande scherzo concettuale: non un film sull’eroismo, ma un film sui film sull’eroismo, a loro volta realizzati in tempi in cui l’eroismo era una cosa reale. Guerre stellari è ovviamente un’allegoria del Vietnam a parti invertite, ma soprattutto è il prototipo del film post-Età dello Spazio, che non si preoccupa più di tentare la verosimiglianza, perché gli eventi che descrive – civiltà galattiche e così via – non accadranno mai. Perché preoccuparsi di creare una storia convincente e una trama e dei personaggi coerenti per una fantasia per bambini e per adulti?

La disillusione nei confronti dei viaggi spaziali con equipaggio è stata rapida e totale. Tutto si è rivelato molto più difficile, complesso e costoso di quanto ci si aspettasse. Beh, dico “chiunque”, ma gli ingegneri e gli scienziati, i medici e i matematici che lavoravano al volo spaziale con equipaggio non avevano bisogno di essere convinti: lo sapevano già. Erano gli opinionisti dei media, il tipo di persone che ora credono che l'”intelligenza artificiale” salverà il mondo, proprio come un tempo credevano che il cibo geneticamente modificato e una dozzina di altre cose lo avrebbero fatto. Ora c’erano, ovviamente, opzioni reali per andare più lontano nello spazio. Prima ancora che Gagarin volasse, c’era il folle Progetto Orione, che avrebbe inviato astronavi alimentate da esplosioni nucleari intorno al sistema solare. E anche mentre si girava Guerre stellari, la venerabile Società Interplanetaria Britannica stava conducendo il suo Progetto Dedalo, che dimostrava, in modo abbastanza convincente, che un viaggio interstellare limitato era effettivamente fattibile con la tecnologia dell’epoca. Ma ovviamente tali viaggi sarebbero stati inimmaginabilmente costosi e complessi da pianificare e condurre, e non facciamo più questo genere di cose. Anzi, non facciamo più molto di niente. La concezione barocca ed estremamente complessa del Progetto Artemis, progettato per riportare gli astronauti statunitensi sulla Luna nel 2026, è tale perché i razzi oggi disponibili sono meno potenti del Saturn V usato dall’Apollo, e quindi richiedono una sosta di rifornimento nello spazio, e utilizzano tecnologie che in alcuni casi non sono ancora state sviluppate.

E naturalmente non ci occupiamo di eroi al giorno d’oggi. Non solo tutte le cose eroiche sono state fatte, ma l’eroismo stesso è stato decostruito come nient’altro che mascolinità tossica, a quanto pare, e gli storici hanno lavorato in modo cupo e metodico attraverso i presunti eventi eroici e impegnativi della storia moderna, riducendoli tutti a competizione economica o a persone con difetti caratteriali. Le biografie di questi tempi sono incentrate sulle vittime, non sugli eroi, e i biografi sono impegnati a decostruire criticamente le vite di coloro che un tempo ritenevamo eroi e l’idea stessa di eroismo. (Tra l’altro, quasi tutti gli scritti sui conflitti oggi si concentrano su vittime vere o presunte). Questo non significa che il bisogno di eroi in cui identificarsi sia scomparso, ma piuttosto che è stato sublimato nella fantasia eroica e nei videogiochi che, per il momento, non sono dominati dalle vittime.

Neanche noi viviamo le avventure e il rischio è qualcosa che va evitato o gestito, non abbracciato. Chiediamo che noi, e soprattutto i nostri figli, siano protetti non solo dal rischio, ma anche da qualsiasi sensazione di essere in qualche modo insicuri. Eppure gli esseri umani desiderano il rischio e un certo grado di rischio lieve, o almeno di disagio, fa parte del rituale della crescita fin dalle prime civiltà. Al giorno d’oggi, però, è stato sublimato nelle nostre scelte di consumo: Sono sempre sorpreso dal numero di negozi che vendono abbigliamento e attrezzature “outdoor”, “avventura” e “alpinismo”, e dal numero di persone che vedo per strada vestite come per andare in spedizione, ma che in realtà stanno solo andando al supermercato. (Una storia vera: molti anni fa ero su un aereo diretto ad Arusha, in Tanzania, e molti dei passeggeri erano turisti tedeschi. Senza eccezioni, erano vestiti in completo kit tropicale, pantaloncini, calze lunghe, scarponi da montagna, cappelli. Se fossero stati ammessi i coltelli, li avrebbero portati con sé. Sembravano un po’ sorpresi di sbarcare in un aeroporto convenzionale e non nel mezzo della savana africana). E non parliamo poi delle Toyota scure che si vedono a volte, con i conducenti che fantasticano di essere portati in giro per Baghdad o Sana’a con una scorta armata.

Come ho detto, è facile enfatizzare troppo la misura in cui a quei tempi ci veniva promesso un futuro tecnologico paradisiaco. Le auto volanti, le vacanze sulla Luna e così via comparivano nella cultura popolare, ma si trattava di pubblicità per aziende che cercavano di fare soldi, di blaterare ignorantemente da parte del tipo di giornalista che oggi blatera ignorantemente di IA che salverà il mondo, oppure di amplificazioni da parte di scienziati e ingegneri un po’ slegati dalla realtà. Gran parte di ciò che ricordo è stato presentato con cautela come “possibile un giorno” piuttosto che come “in procinto di arrivare mercoledì prossimo”.

Ma c’erano anche ragioni abbastanza logiche per supporre che la tecnologia avrebbe continuato a semplificare la vita delle persone, come stava facendo da decenni. E non stiamo parlando di vacanze sulla Luna, ma della vita quotidiana. La vita delle famiglie comuni è stata trasformata da invenzioni semplici come la lavatrice e il frigorifero, che hanno liberato soprattutto le madri da molte fatiche. I primi telefoni hanno semplificato enormemente la vita. La radio e poi la televisione misero la gente comune in contatto con una realtà mai immaginata prima. La metropolitana mi ha permesso da bambino di raggiungere il centro di Londra in mezz’ora (allora i bambini potevano fare queste cose). Sembrava che ci fossero tutte le ragioni per supporre che esempi semplici e pragmatici di uso intelligente della tecnologia avrebbero continuato a migliorare la vita della gente comune.

Non è successo, ovviamente. Non sto parlando di lamentele del tipo “dov’è la mia auto volante?”. Promesse del genere sono sempre state alimentate da appassionati marginali. La lamentela di base è che la tecnologia, lungi dal facilitare la vita ordinaria, l’ha resa più difficile. Per vivere è necessario avere un computer a casa e, sempre più spesso, uno smartphone con sé. E mentre i telefoni venivano forniti gratuitamente e la tecnologia cambiava solo lentamente, e persino il prototipo di computer internet francese Minitel veniva regalato negli anni ’80, la tecnologia moderna è costosa, sfruttata e deve essere aggiornata continuamente. Non è più possibile entrare nella banca locale e parlare con qualcuno. È frequente parlare con persone del servizio pubblico che spiegano di non potervi aiutare perché il sistema non lo consente. Per parcheggiare un’auto ora è necessario scaricare un’applicazione, creare un account e versare denaro, il che è molto divertente se in quel momento piove. Ma soprattutto, invece di usare la tecnologia per aiutare i propri clienti, le aziende private l’hanno usata per sostituire gli esseri umani, scaricando gran parte dello sforzo sul cliente, il tutto per aumentare i profitti. Credo che se cinquant’anni fa avessero detto alle persone che l’uso diffuso della tecnologia avrebbe reso la loro vita più difficile, frustrante e costosa, avrebbero riso increduli.

Non si tratta quindi solo, o addirittura principalmente, di auto volanti: si tratta dei cambiamenti politici che si sono verificati più o meno dalla fine del programma Apollo, trasformando la tecnologia da bene pubblico a scopo di profitto privato. Non doveva essere così, e se guardiamo in giro per il mondo, possiamo vedere esempi di Stati in cui la tecnologia è ancora in qualche misura considerata uno strumento e non un padrone: nella costruzione di ferrovie ad alta velocità, di edifici e città ecocompatibili, nell’uso della tecnologia e di Internet per semplificare la vita quotidiana, e in molte altre cose. Ma in Occidente non lo facciamo più…

Non c’è dubbio che, nonostante le enormi sfide tecniche e finanziarie, i governi occidentali avrebbero potuto fare di più per far progredire l’esplorazione spaziale se avessero davvero voluto, invece di consegnare i soldi alle banche perché ci giocassero alla roulette, per poi mandarli in rovina quando sono finiti sul lastrico a causa della loro stessa stupidità. Invece, è apparso subito chiaro che lo sviluppo tecnologico, l’avventura e la scoperta erano stati cancellati, a favore della cannibalizzazione di ciò che era già stato fatto e dello sviluppo di nuove tecnologie di sfruttamento. Ciò ha prodotto un effetto quasi immediato nella cultura popolare, in quanto la tecnologia ha iniziato a essere ribattezzata come qualcosa di sinistro e spaventoso, più orientato alla repressione che alla liberazione. Già nel film del 1979 La sindrome della Cina, la tecnologia nelle mani del settore privato cominciò a perdere il suo splendore. Nelle opere Cyberpunk di autori come William Gibson, in particolare il suo primo romanzo Neuromante (1984), vediamo una versione pienamente elaborata della distopia tecnologica del futuro prossimo, con la tecnologia usata solo per scopi repressivi e di guadagno: più o meno come nel classico film di Ridley Scott del 1982 ,Blade Runner. Da allora, questa è l’atmosfera dominante nella cultura popolare adulta. (Escludo implicitamente i film diStar Wars, Star Trek e i film di supereroi da questo giudizio. Sono per bambini).

I viaggi spaziali, come ho detto, sono sempre stati soprattutto un simbolo di avventura e di ingegno, piuttosto che un insieme di tecnologie intelligenti, e l’abbandono di programmi spaziali seri è stato a sua volta un simbolo dell’allontanamento dall’avventura e dall’ingegno verso il tipo di mondo parassitario e sfruttatore e le relative tecnologie che abbiamo oggi. I critici dell’epoca dissero che “avremmo dovuto risolvere i nostri problemi sulla Terra prima di andare tra le stelle”, il che era falso, perché in realtà non c’era alcuna prospettiva di risolvere quei problemi. Ma non credo che nessuno abbia mai osato dire “smettiamo di guardare le stelle, ma non preoccupiamoci nemmeno dei problemi del mondo. Diamo tutti i soldi ai ricchi”.

La mia generazione è stata affascinata dai viaggi nello spazio non tanto per motivi tecnologici, poiché gran parte della tecnologia era semplicemente al di là della nostra comprensione, quanto per le possibilità narrative, mitiche e persino filosofiche aperte dal futuro del nostro pianeta o dal contatto con altri. È questo, a mio avviso, che la cultura popolare ha in gran parte perso. Non seguo la nuova fantascienza con l’assiduità di un tempo e quindi i lettori più giovani potrebbero pensare che io sia ingiusto nei confronti di alcuni dei loro autori preferiti. In tal caso, ditelo nei commenti: è sempre bello scoprire nuovi autori. Ma il luogo comune secondo cui la fantascienza produce un “senso di meraviglia”, che esisteva ancora ai tempi dell’Apollo, oggi è sostanzialmente scomparso: al suo posto c’è forse un senso di terrore.

La cultura popolare, anche solo cinquant’anni fa, non aveva difficoltà a immaginare futuri sostanzialmente diversi dal nostro e a giocare in modo interessante con le conseguenze. Per esempio, il film di Alexander Korda Cose che verranno (1936) era forse l’epitome del futuro come parabola, un dramma didattico sull’ascesa di uno Stato mondiale tecnologico. Questi autori non avevano difficoltà a immaginare un mondo migliore del nostro, non perché vedessero la tecnologia come una forza inarrestabile per il bene (Wells, dopo tutto, scrisse di bombe atomiche e guerre distruttive), ma perché credevano nella possibilità che gli esseri umani potessero effettivamente costruire un mondo migliore se si fossero impegnati. Non avevano necessariamente torto: per chi leggeva il romanzo di Morris nel 1890, il mondo del 1969, con i suoi servizi igienici, i suoi vaccini, i suoi bagni interni, la sua istruzione e la sua assistenza sanitaria gratuite, sarebbe sembrato una vera e propria utopia.

Questo non è il modo dominante di scrivere sul futuro oggi, dove non solo è difficile immaginare un futuro migliore, ma è difficile persino immaginarne uno diverso. La maggior parte dei romanzi e dei film di fantascienza assecondano i gusti del momento e descrivono mondi che sono molto vicini al nostro, anche se sono nozionalmente nel futuro. O sono, in linea di massima, una leggera estensione delle società occidentali moderne e progressiste, o sono distopie che presentano tutto ciò che tali società temono. Parte dell’attrattiva della fantascienza del passato, tuttavia, consisteva nel fatto che era disposta a considerare almeno la possibilità di società molto diverse dalla nostra, anche se spesso basate su un’estrapolazione delle tendenze esistenti. A volte questo avveniva a scopo satirico, come nei romanzi di Frederick Pohl e CM Kornbluth, altre volte più seriamente, come quando Robert Heinlein si è chiesto come sarebbe stata e come avrebbe funzionato una società futura basata, come l’antica Atene, sulla cittadinanza in cambio del servizio militare. Oggi sarebbe insolito trovare qualcosa di altrettanto avventuroso.

In effetti, l’avventurosità delle idee nella fantascienza classica era spesso un punto di forza rispetto alla caratterizzazione dei personaggi: non è insolito per una forma d’arte che è essa stessa una sorta di mitologia. Così, le prime riviste di SF scelsero deliberatamente titoli come Astounding e Thrilling Wonder Stories per sottolineare la loro differenza dalla narrativa comune. Probabilmente non è una coincidenza che il boom della SF sia iniziato proprio quando l’Africa, di cui fino agli anni Ottanta del XIX secolo si sapeva ben poco in Occidente, cominciava a perdere il suo tradizionale status di luogo di meravigliose avventure immaginarie.

Non sorprende che alcuni scrittori di talento abbiano usato gli orpelli della fantascienza solo come cornice per storie che coinvolgono il simbolismo e la filosofia. La “scienza” in Un viaggio ad Arturodi David Lindsay non è altro che un espediente superficiale della trama, e il sistema solare della Trilogia cosmicadi CS Lewis( ) deve molto di più alla cosmologiamedievale che alle scoperte moderne, anche se, a onor del vero, tenta di mostrare gli effetti della bassa gravità su Marte, per esempio. In ogni caso, la “scienza” è secondaria rispetto alla storia mitologica straordinariamente avventurosa e fantasiosa, che non ci aspetteremmo di vedere oggi.

Ma entrambi i libri dimostrano la virtù fondamentale della fantascienza come genere: a differenza del fantasy, può presentarci mondi plausibili molto diversi dal nostro e farci riflettere sulle conseguenze politiche, morali e persino spirituali. Né Lindsay né Lewis erano scienziati, ma James Blish (1921-75) sì. Come scrittore, Blish non poteva che essere avventuroso: le sue storie “Okie” su intere città che vagano per la Galassia, fortemente influenzate dalle teorie di Oswald Spengler, si concludono con la creazione di un nuovo universo. Aveva un forte interesse per la metafisica e la religione, e il suo capolavoro, Un caso di coscienza (1959), riguarda un prete gesuita, membro di una spedizione scientifica su un pianeta che sembra essere un’utopia, ma i cui abitanti apparentemente non hanno religione. (A sua volta, il libro faceva parte di una trilogia libera , After Such Knowledge, che, ispirandosi alla citazione di TS Eliot, si chiedeva se la ricerca della conoscenza fine a se stessa non potesse portare al disastro. (Gli altri due libri erano Doctor Mirabilis, sulla vita di Ruggero Bacone, e un romanzo in due parti su un moderno demonologo e la conoscenza proibita. Niente di più ambizioso).

Il che ci porta, attraverso una serie di altri interessanti racconti e romanzi per i quali non c’è spazio in questa sede, alla figura di Philip K Dick (1928-82), che ha usato gli oggetti convenzionali della fantascienza pulp (navi spaziali, pistole a raggi) per occuparsi per decenni di questioni epistemologiche e ontologiche, prima di dedicarsi, nei suoi ultimi anni, alla scrittura di romanzi intrisi di teologia gnostica . Il suo romanzo più noto, se non il più tipico, L’uomo nell’alto castello (1962) prende il tropo convenzionale di una vittoria dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, ma poi immagina, con dettagli allucinanti, una California dominata dai giapponesi, dove l’I Ching è consultato da tutti, e diventa, in effetti, un personaggio del romanzo stesso, se non la sua spiegazione.

La misura in cui la fine del programma Apollo e la conseguente fine dell’era spaziale abbiano contribuito a prosciugare l’ispirazione e il senso dell’avventura nella cultura occidentale in generale è qualcosa di difficile da dimostrare empiricamente, poiché implica giudizi di valore, ma a me sembra che sia in linea di massima così. È stata la fine dell’ultima frontiera e ha coinciso, e forse ha contribuito a produrre, il trionfo dell’approccio alla cultura orientato verso l’interno, postmoderno e decostruzionista, in cui l’arte era sempre più “sull’arte”, o “interrogava” l’arte, o qualsiasi altro dei fastidiosi cliché che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, compaiono nelle note di programma, come se ci fosse qualcosa di nuovo e audace in essi. Certo, nella narrativa tradizionale (Pynchon, Wallace, Calvino, Nabokov, Eco) e nel cinema (Tarantino, Christopher Nolan, persino i Monty Python e Woody Allen) ci sono eccellenti praticanti del genere come soggetto a sé stante, ma troppo spesso si tratta solo di una scusa per riscaldare per l’ennesima volta vecchi stereotipi, perché nessuno è in grado di proporre qualcosa di nuovo.

Abbiamo perso anche un’altra componente. C’è sempre stato un tipo di fantascienza (“hard” è la terminologia abituale) che si basa su leggi fisiche note e su una tecnologia realistica. Al suo meglio, questo tipo di opere ha una sorta di atmosfera classicista: una grande quantità di ingegno nel poco spazio di manovra disponibile. (Rispetto a serie come Star Trek dove, secondo chi ci ha lavorato, ogni volta che un buco nella trama richiedeva una nuova tecnologia, questa veniva semplicemente scritta nella sceneggiatura) .Mission of Gravity (1954) di Hal Clement è un esempio classico: la storia riguarda l’esplorazione di un pianeta in cui la gravità varia enormemente tra l’equatore e i poli, e le sfide che la spedizione deve risolvere. Non si tratta di una storia d’avventura in quanto tale, e ancor meno di una storia metafisica, ma di una sobria presentazione di professionisti esperti che usano la loro formazione e il loro ingegno per superare problemi pericolosi: un’altra forma culturale che oggi è in gran parte scomparsa, ma che era comune nei romanzi mainstream di autori come Neville Shute e Nigel Balchin, per esempio. Questa era la modalità dominante anche nella hard SF, spesso scritta da scienziati e ingegneri in un’epoca in cui queste professioni erano apprezzate più di quanto non lo siano oggi. Earthlight (1955) di Arthur C Clarke non è solo una presentazione realistica delle tensioni politiche tra una Terra futura e le sue colonie planetarie, ma contiene anche una descrizione rigorosamente scientifica (e molto vivida) di una battaglia spaziale, senza un cannone laser in vista. Ma naturalmente Clarke, che aveva già scritto il trascendente Childhood’s End (1953), ha poi co-scritto 2001 con Stanley Kubrick. Sembra che ci sia qualcosa nella fantascienza che desidera parlare di idee veramente grandi, in un modo che la narrativa tradizionale ha smesso di fare decenni fa.

Ma come può la cultura popolare affrontare una situazione in cui non ci sarà più alcuna esplorazione dello spazio profondo e in cui ci siamo rivoltati contro noi stessi e gli uni contro gli altri, invece di essere interessati alle avventure e agli eroi? Concludo citando tre scrittori con approcci diversi (voi potreste averne altri). Uno è Iain M. Banks(1954-2013), che ha effettivamente barato rendendo i suoi protagonisti umanoidi, ma non provenienti dalla Terra e quindi non soggetti alle stesse limitazioni culturali (sic). I suoi protagonisti – e questo è significativo, non sono veri e propri eroi – provengono da una Cultura post-scarsità (sic) in cui le Intelligenze Artificiali prendono la maggior parte delle decisioni e le risorse per i viaggi interstellari sono liberamente disponibili. Ma nonostante i migliori sforzi di Banks, come ho suggerito altrove, la Cultura appare come un luogo piuttosto noioso, un po’ come un parco giochi sicuro per i bambini, e i suoi cittadini devono uscire per trovare l’avventura e persino il senso della loro vita. (In sostanza, i libri della Cultura, per quanto divertenti da leggere e per quanto mi piacciano, sono versioni aggiornate delle storie d’avventura per bambini di CS Lewis, o anche di Enid Blyton).

Nel frattempo, Neal Asher (1961-), fornitore di un’esuberante space opera da crash-bang-wallop, ha scelto di ambientare le sue storie senza fiato in un universo anch’esso gestito da IA, e quindi privo di irritanti considerazioni sulla scarsità e sul conflitto. Anche in questo caso, si ha l’impressione che la vita sulla Terra debba essere piuttosto noiosa, ma fortunatamente ci sono alcune specie xenocide a disposizione per ravvivare un po’ le cose. Infine, Alastair Reynolds (1966-) si è specializzato in storie limitate ai principi fisici conosciuti, compresi i motori più lenti della luce, con trame complesse e spesso incentrate sui personaggi, che mostrano, ancora una volta, persone intraprendenti che incontrano e nella maggior parte dei casi superano pericoli e sfide.

Nessuno degli ultimi tre autori citati può essere definito “nuovo”: tutti hanno iniziato a pubblicare più di trent’anni fa, e tutti conoscono (conoscevano nel caso di Banks) e rispettano le convenzioni del passato. Le loro storie coinvolgono eroi, avventure e idee davvero grandi, oltre a problemi risolti con intelligenza e spesso con coraggio. (Sto cercando di pensare a qualche romanziere moderno mainstream degli ultimi anni di cui si possa dire altrettanto).

Ha importanza? Non siamo forse in una fase dell’evoluzione sociale in cui ci siamo lasciati alle spalle eroi, avventure e grandi idee? Forse, ma il problema è che il mondo stesso ha qualcosa da dire. Rispetto ai confortevoli anni Cinquanta e ai primi anni Sessanta, quando sono stati scritti la maggior parte dei libri discussi sopra, il mondo di oggi è pieno di pericoli senza precedenti: ambientali, sanitari, politici, economici e militari. Ma come società, siamo diventati chiusi e autofagici: l’attività principale durante la crisi di Covid è stata quella di trovare altri da incolpare. Non siamo più interessati alle grandi domande, se non attraverso best-seller transitori, abbiamo decostruito l’eroismo e cerchiamo solo il facsimile antisettico dell’avventura. Non apprezziamo più la conoscenza e la competenza, ma solo l’astuzia. La fine dell’era spaziale, nella cultura come nella realtà, ha segnato l’inizio di questo ripiegamento su se stessi. Se avessimo usato quell’energia così liberata per risolvere i problemi di questo mondo, sarebbe uno scambio ragionevole, ma in pratica abbiamo solo peggiorato i problemi e ora dobbiamo affrontarli, senza essere culturalmente attrezzati per farlo. Per quanto si possa giudicare dalle librerie, i nostri unici eroi oggi sono gli uomini d’affari e i banchieri, dato che tutti gli altri candidati sono stati decostruiti fino alla morte. Non credo che ci salveranno. “Peccato per la nazione che acclama il prepotente come eroe”, lamentava Kahil Gibran. Non riesco nemmeno a immaginare cosa avrebbe pensato dei miliardari come eroi.

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Pascoli più verdi, di SIMPLICIUS

Molte persone provenienti da paesi occidentali notano qualcosa di intangibilmente attraente quando si recano nel “terzo mondo”. Qualcosa che non riescono a definire con precisione, una qualità di vita che non è “migliore” in superficie, nel senso classico del termine, ma che si fa sentire sempre di più, come un bambino indisciplinato che all’inizio può sembrare fastidioso, ma che in breve tempo diventa pittorescamente adorabile.

La persona comune non è in grado di descrivere con precisione questa differenza. Ma la sente nelle ossa, la beve nell’aria e nell’atmosfera, e la lascia presa da una passione inaspettata dopo che le braci del viaggio si sono raffreddate; si forma presto un’urgenza di nostalgia per viverla di nuovo.

Che cos’è questo indescrivibile magnetismo che sembra attirare le persone verso paesi cuciti apparentemente nel caos e nel disordine? Un recente thread su Twitter ha evocato elegantemente questa umwelt :

Il fatto di essere in Messico per lavoro mi ha ricordato come ci siano dei compromessi, buoni e cattivi, nelle società a bassa e alta fiducia. Guadalajara è una bella città e, a differenza di luoghi turistici come Cancun, che sono stati progettati per essere molto navigabili e accessibili agli stranieri, è solo un luogo pieno di persone che vivono e lavorano.

Ci sono segnali che ricordano che non è del tutto sicuro ovunque, come l’elevato numero di poliziotti e di addetti alla sicurezza, o misure fisiche come cancelli, recinzioni e muri. Ma dall’altro lato c’è una certa sensazione rinfrescante nell’assenza di una regolamentazione di massa. Gli Stati Uniti si sentono molto finti e inorganici in confronto alle loro catene di franchising sempre presenti.

Più vicino alla zona industriale, i quartieri residenziali hanno caffè e piccoli ristoranti aperti nei vialetti residenziali sotto le tettoie. Tutti sono in giro, camminano, mangiano o chiacchierano al telefono. Tutte le auto che ho visto sono manuali, le moto sono ovunque e la città sembra un po’ più viva, ma allo stesso tempo più pigra e rilassata rispetto alla maggior parte delle città americane.

Anche se, a seconda di dove si va, ci sono simboli di povertà schiacciante quando ci si allontana dalle aree economicamente redditizie. Ma ciò che più mi colpisce è il modo in cui la manodopera sembra lavorare nelle aziende. Ci sono persone che si occupano diligentemente di tutto, ovunque. È molto inefficiente dal punto di vista dei costi, ma è molto più bello; anche al lavoro c’è una donna che lavora tutto il giorno per gestire la mensa nella sala ristoro e cucinare, mentre per il resto spazza continuamente tutto.

Ho l’impressione che la manodopera fosse così in America prima degli anni ’50. McKinsey e le sue conseguenze sono state un disastro per gli americani. Le inefficienze tollerabili possono costare, ma fanno sentire l’atmosfera meno sotto pressione. Mi sembra che negli Stati Uniti abbiamo il peggio dei due mondi. L’attenzione a spremere ogni centesimo da ogni cosa, il minmaxxing dell’efficienza totale e la pesante cattura normativa. Forse non ci godiamo le cose, le consumiamo e basta.

Cosa c’è al centro di questa riflessione? È una sensazione generale di rilassamento e di bassa ansia, la libertà dallo stress che sta descrivendo? È la mancanza fisica di “catene di franchising” e della loro sgradevole presenza nell’ambiente, che sembra alimentare i suoi piaceri estetici come un bouquet purificante?

I sentimenti espressi sono in effetti fugaci e difficili da equiparare o da sciogliere, ma sono quelli che molte persone hanno sempre più provato e cercato di trasmettere. Il manifesto adotta un approccio più strutturalista, indicando come colpevole il “minmaxing” aziendale, con McKinsey come figura iconica la cui influenza sulla cultura aziendale americana – e per estensione sulla società stessa – è profonda e indelebile.

Un altro modo per descrivere praticamente ciò che è accaduto in molte società occidentali è: sovraottimizzazione.

Questa settimana il pensiero del collega Freddie deBoer, scrittore di Substack, ha coinciso con il mio:

Freddie de Boer
Conosco un ragazzo che si guadagnava da vivere come rivenditore eBay. Cioè, trovava qualcosa su eBay che pensava fosse sottoprezzo fintanto che l’asta non superava X dollari, lo comprava, poi lo rivendeva per più di quanto lo aveva pagato. Il classico import-export, in realtà, un digitale rigattiere. Alla fine è arrivato al punto in cui, con alcuni oggetti, non riusciva nemmeno…
13 giorni fa · 393 mi piace · 106 commenti · Freddie deBoer

Il suo pezzo cerca di tracciare il filo invisibile della sovraottimizzazione che ha lentamente pervaso ogni crepa della nostra società negli ultimi decenni. Dalle cose più evidenti, come i rivenditori di Ebay che diventano freddi perché gli algoritmi sono stati modificati per far fallire le boutique, fino agli incantesimi più insidiosi e inespressi che questi cambiamenti hanno fatto su di noi.

È vero, come scrive l’autore, che un tempo anche le app di incontri come Tinder offrivano una sorta di innocenza pittoresca nell’inciampare tra i campi dei corteggiatori, in modo più organico e forse stocastico. Ora è stato gamificato con “tattiche” di minmaxing da usare per sfondare le saracinesche algoritmiche che eliminano l’elemento “umano” dall’equazione e trasformano il “dating” in qualcosa che sembra sinteticamente “by-the-numbers”. Alcuni hanno persino progettato applicazioni per automatizzare la messaggistica di massa del più ampio bacino di ragazze, al fine di ridurle a quelle attive.

Anche i viaggi e le visite turistiche sono stati “sovra-ottimizzati” per creare esperienze “taglia-biscotti” destinate a radunare e “processare” il maggior numero possibile di esseri umani attraverso una gamma preconfezionata di “attrazioni”, progettate più che altro per dare ai turisti la loro agognata foto su Instagram, per poi spingerli avanti. Il Monte Everest, come cita Freddie, è diventato un’epitome, anzi, una vetta, di tutto ciò. Negli ultimi anni, la “montagna sacra” si è trasformata in una trappola per turisti, che ha attirato migliaia di pensionati a malapena qualificati e di amanti del brivido per ottenere il loro “momento di gloria” artificiale sulla vetta, anche quando ciò comporta lo scavalcamento dei cadaveri irrigiditi dei loro compagni di viaggio meno fortunati.

Si tratta, come sempre, della mercificazione dell'”esperienza”.

Ma questo non vuole essere il tipico discorso di circostanza sui problemi della mercificazione di tutto ciò che è sacro da parte della modernità. Voglio piuttosto esplorare i misteri più profondi del perché le società occidentali hanno iniziato a farci sentire come se mancassequalcosa .

La precedente riflessione di Aristofene parlava di una città appena sull’orlo del pericolo, priva di una “cattura normativa di massa”, tanto che le attività commerciali operano con un lassismo sufficiente a far sentire le cose organiche e naturali; caffè accoglienti sui marciapiedi o che operano all’interno di garage senza che gli sciacalli si accaniscano su ogni piccola violazione del codice. Naturalmente, alcuni occidentali si arrabbiano, preferendo i loro rigorosi standard di sicurezza e sterilità puritana. Ci sono degli estremi, la cui repulsione è comprensibile: mi vengono in mente i famigerati video di venditori di cibo di strada in India che servono poco più che brodaglia.

Mettendo da parte gli estremi, sembra esserci una via di mezzo: una società con un piede nel “pericolo” senza caderci dentro. La Russia, in molti casi, può essere descritta in questo modo: Espatriati americani come Tim Kirby si sono lamentati del fatto che le città rurali russe possono a volte ritrovarsi disseminate di deiezioni canine dopo il disgelo invernale, perché i regolamenti municipali locali non sono severi nel ripulire il proprio cane come negli Stati Uniti. Con il tempo, però, si è ritrovato ad apprezzare la libertà di un ambiente a bassa regolamentazione; la serenità di non essere perseguitati con la tracotanza dell’applicazione dello “statuto” che strangola e soffoca le città americane come un modo per fare la cresta sulle tasche dei cittadini per arricchire gli sciacalli burocratici.

Riflettendo più a fondo, non si può fare a meno di chiedersi perché le città americane si sentano così diverse. Lo stile di vita americano ruota attorno al progresso perpetuo: l’eterna ricerca del favoloso “sogno americano”, che si riduce essenzialmente alla banalità della ricchezza materiale. In quelli che sono comunemente considerati paesi del “terzo mondo”, la mancanza di “opportunità” diffuse per carriere redditizie sintonizza la vita su una cadenza diversa. Le persone sono inclini ad “accontentarsi” di lavori di base e di livello inferiore come stile di vita e ad essere soddisfatte per questo; la mancanza di alternative porta una tranquilla soddisfazione.

Ciò significa che i venditori ambulanti e i camerieri dei caffè sono più felici di fare il loro lavoro e i loro spazi offrono un’atmosfera più amichevole, invitante e rilassata. Negli Stati Uniti, il “servizio” al giorno d’oggi è spesso poco amichevole o disimpegnato, perché la cameriera di quartiere è in realtà una “starlette di Hollywood” sotto mentite spoglie, il cassiere del supermercato è un aspirante rapper con sogni sfarzosi da grande città; persino lo scorbutico autista dell’autobus sta solo “lavorando in nero” – è solo una cosa temporanea, dice, mentre snocciola mentalmente i suoi lavoretti secondari piuttosto che concentrarsi su quella che considera una carriera “al di sotto di lui”.

A volte questi esami derivano da una mentalità privilegiata, elitaria o colonialista: “Boohoo, quei camerieri messicani mi servono con molto più rispetto dei poveri americani della mia città”. Ecco perché il mio tentativo è quello di abbozzare un paragone sociale più ampio e più applicabile rispetto al semplice contrasto, per quanto superficiale, della qualità del servizio. La distinzione più sottile è che nella grande rincorsa all’ormai illusorio “sogno americano” si perde qualcosa di vitale. Le persone sono inculcate ad essere sempre insoddisfatte della loro sorte e questo ha generato una cultura priva di tranquillità, di apprezzamento per la presenza del momento. Tutti sono impegnati a inseguire mentalmente quei sogni lontani, mentre si affannano a rastrellare le loro vite aritmiche, scontente per la vergogna. È il motivo per cui i venditori ambulanti appassionati come questo sono una vista rara negli Stati Uniti:

Negli Stati Uniti, in particolare, i lavori di livello inferiore sono associati alla vergogna e al fallimento. Questo si riflette su tutta la catena, con i “migliori” della classe superiore che guardano dall’alto verso il basso i commercianti al di sotto di loro. Il ciclo di feedback crea una sorta di egregore culturale di vergogna nascosta che si manifesta in perversione, disillusione, anomia, stratificazione, ecc. I gradini più bassi sono costretti a dissimulare, spesso mentendo sulle loro professioni; ho conosciuto persone che, alla domanda su come vivono, elencavano le loro aspirazioni piuttosto che il loro lavoro quotidiano.

Nei cosiddetti Paesi sottosviluppati, la gente è orgogliosa del proprio lavoro, qualunque esso sia: ecco quindi l’ubiquità degli artigiani di strada sorridenti, come nel video qui sopra. Queste persone non hanno molto di cui vergognarsi: la cultura e la società non diffondono quotidianamente denigrazioni sulla levatura del loro lavoro. Negli Stati Uniti ci sono molte fonti di questa propaganda, in particolare la tossica macchina di corrosione culturale di Hollywood. In America, i film e la cultura pop esaltano e glorificano i ricchi e i famosi, deridendo gli oppressi e i colletti blu, rafforzando il mito del “successo”. In altri Paesi, queste professioni hanno ricchi legami culturali e storici e sono rispettate all’interno della famiglia e della comunità. La “comunità” occidentale ha quasi cessato di esistere a causa dell’afflusso di immigrati forzati e di altre odiose politiche progressiste; anche le piccole imprese sono state abbattute dai monopoli sfrenati delle Big Corp. Naturalmente il lavoro del calzolaio di quartiere perderà la sua lucentezza quando le scarpe saranno progettate per l’obsolescenza da giganteschi conglomerati che coltivano in fabbrica, destinati a pompare oceani di robaccia a basso costo e non riparabile a prezzi stracciati.

La “sovraottimizzazione” ci spinge in una corsa fiscale senza fine verso l’arricchimento degli azionisti, privandoci del dono del “momento”. Rimaniamo scontenti dei nostri magri guadagni, con una cultura strangolata dalla presunzione imposta di un bisogno e di una necessità perpetui. Le istituzioni sono state progettate per farci soffrire con la scarsità, la privazione e la FOMO, abituandoci a un intruglio controllante di tensione e angoscia. Dal momento che gli stravolgitori della cultura hanno usurpato anche i valori tradizionali, come l’importanza della famiglia, il vuoto lasciato nelle nostre vite viene invariabilmente riempito con la vuota lotta per avere successo nel gioco del “progresso perpetuo“. Tutti sono sempre “diretti da qualche parte“, anche se non sanno dove.

Nei Paesi “sottosviluppati” questo fenomeno è attenuato. Poiché le persone non sono alimentate da illusioni senza speranza, sono inclini a stabilirsi semplicemente in un’esistenza di contentezza: la tranquillità della vita presente. Sanno che non c’è nulla di “più grande” ad attenderli, quindi si accontentano di ciò che hanno, apprezzando le piccole cose e i momenti fugaci. Per questo motivo, quando visitano questi Paesi, gli occidentali sperimentano spesso un rallentamento del tempo, che di solito non hanno il vocabolario o la preparazione per articolare. Utilizzeranno eufemismi come “le cose sembrano sognanti” o “rilassate”, comprendendo a livello istintivo e cellulare che questo è il modo in cui le cose dovevano essere, come la vita doveva essere vissuta.

Alcuni potrebbero paragonarlo al buddismo, o almeno a come viene superficialmente inteso dagli occidentali alla moda: la liberazione dal “desiderio e dall’ambizione”. Ma non c’è bisogno di sfruttare gli estremi; non si tratta di un semplicistico dualismo Occidente: male, sottosviluppo: bene. Si tratta di ciò che si può togliere, di ciò che si impara. È vero, il sistema occidentale è in gran parte costruito su una sovraottimizzazione di stampo McKinsey, la cui etica privilegia l’efficienza senza alcuna considerazione per i costi sociali o della società.

Si potrebbe sostenere che il miglioramento dell’efficienza aziendale abbia una sorta di effetto a cascata, arricchendo l’economia e rendendo i cittadini più prosperi. Ma se non viene controllato, questo processo prosegue a cascata fino all’assurdo, quando i benefici per gli “stakeholder” sono già stati esauriti da tempo. Per esempio, quanto segue fa certamente aumentare i profitti della società madre, ma come potrebbe mai giovare ai cittadini locali?

I lavoratori virtuali dei fast food provenienti dalle Filippine vengono assunti per 3 dollari l’ora, rispetto al salario minimo di New York di 16 dollari l’ora. “Si possono assumere 5 lavoratori virtuali al prezzo di un lavoratore in carne e ossa” Questo dimostra quanto politiche sbagliate come questa danneggino le classi medie e basse in America.

L’altra questione, molto più ampia, è semplicemente quella della cultura, del nomos stesso. Sappiamo che una classe elitaria di ingegneri sociali parassiti lavora instancabilmente per derattizzare e sradicare la cultura, i legami storici e le tradizioni in Occidente, per creare vasi vuoti programmati a forza di inseguire la ricchezza materiale perché non conoscono altro. I legami storici vengono cancellati, la tradizione viene denigrata e scoraggiata, creando una perfetta tabula rasa da programmare per lo sfruttamento da parte della classe predatoria degli avvoltoi capitalisti. E non lo intendo in senso dialettico marxista – sappiamo che le élite non aderiscono al vero capitalismo o al marxismo, e io stesso non sono un sostenitore di nessuno dei due. Lo uso semplicemente come identificativo dei finanzieri globali in cerca di rendita, le Vecchie Famiglie che, in virtù del loro potere generazionale, della loro ricchezza e della loro influenza, fungono effettivamente da tiratori di fili del nostro mondo in crisi.

In Occidente, queste élite di comprador hanno lavorato instancabilmente per elidere la tradizione, sublimare l’istinto e rimitologizzarci come idolatri rotti che cercano di soddisfare gli impulsi materiali e libidici più superficiali, che per caso si adattano ai loro schemi di arricchimento e al monopolio del potere. I Paesi “sottosviluppati” conservano le loro radici, i loro legami con la tradizione e i legami familiari, le loro mitologie. Non sono divisi da divisioni artificiali come quelle della politica dell’identità, che lascia le loro società in uno stato di relativa concretezza. Naturalmente, sono spesso afflitti da altri problemi, come la criminalità organizzata nel caso del Messico; quindi questa non vuole essere un’apologia idealistica del Terzo Mondo. Anche il thread originale su Twitter menziona i compromessi tra queste allettanti provincialità e l’albatros della “povertà schiacciante” e della criminalità che le avvolge.

Il suo scopo è piuttosto quello di evocare la sensazione che viviamo in una costruzione artificiale che cerca continuamente di levigare le nostre vestigia grezze, di lucidarci e plasmarci in Noviops del futuro, organi perfettamente docili di estrazione di rendita. Quando ci spingiamo verso le inospitali terre di confine dell’Impero, ci ritroviamo inebriati dalla sensazione di atemporalità, dal galleggiamento della libertà dalla grande accelerazione, dalla progressione pilotata dell’ inesorabile psicomacchina della modernità. Probabilmente è per questo che sempre più pensionati si ritirano all’estero. Sembra che le cose vadano un po’ più al loro ritmo, ricordando loro un tempo lontano, prima che l’America e l’Occidente venissero inghiottiti dall’avidità corporativa, spazzati via dalla gigantesca ruspa succhia-vita della finanza e del capitale globali.

Avete avuto esperienze simili viaggiando all’estero? O questi capricci sono solo gli idealismi selettivamente impuri di una nostalgia sbagliata e retrograda?

Se siete occidentali e vivete – o avete vissuto – in un Paese incatenato dall’etica imposta dalla cabala bancaria globale, condividete i vostri pensieri e le vostre esperienze di viaggio nelle regioni periferiche dell’Impero. Siete d’accordo che c’è un’aura intangibilmente irresistibile nel modo di vivere lì? O stiamo solo feticizzando la povertà, proiettando i nostri ideali disperati su una tela comoda e pronta?


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L’essenza del flop della VR di Apple, di SIMPLICIUS THE THINKER

L’essenza del flop della VR di Apple

Alcuni hanno fatto notare che il tanto decantato Apple Vision Pro, che doveva essere il salvatore dell’AR/VR e inaugurare l’era cyberpunk che cambia i paradigmi, in realtà ha fatto inaspettatamente, più o meno, più o meno, purtroppo...flop.

Ok, in realtà c’è un dibattito su questo punto. Secondo alcune indiscrezioni, il dispositivo ha venduto 200.000 unità, un numero presumibilmente impressionante. Tuttavia, altri sostengono che la maggior parte di queste erano prevendite e che dopo il rilascio le cose si sono arenate. Infatti, quasi la metà dei primi acquirenti ha intenzione di restituire le cuffie, adducendo vari problemi:

Non preoccupatevi: questa non vuole essere una recensione tecnica pedante. Ma per evitare le premesse, riconosciamo che l’Apple Vision Pro costa ben 3.500 dollari per il suo prezzo base più basso. Per i modelli di fascia più alta con 1 tb di memoria, al netto delle tasse e di altri accessori consigliati o di qualità, il prezzo massimo è di poco inferiore ai 5.000 dollari. Questo fatto da solo impedisce alla stragrande maggioranza delle persone di prendere in considerazione l’acquisto. Tim Cook si è preoccupato di dare un’occhiata alla società di recente? So che i signori della tecnologia di Cupertino si rinchiudono nelle loro paludate enclavi, ma di sicuro hanno qualche consulente per valutare almeno occasionalmente la temperatura degli operai che lavorano sotto le nuvole. Non sono passati molti decenni da quando si poteva comprare un’auto nuova al prezzo di questi orrendi occhiali da sci, e sembra che Apple creda davvero ai dati della Fed sul reddito pro capite.

Il divario tra l’élite tecnologica e la plebaglia comune si sta allargando a tal punto? Chi, sano di mente, pensava che questo sarebbe diventato un accessorio di moda?

Questo è il nocciolo della questione. Il potenziale fallimento del Vision Pro, come i Segway e i Google Glass prima di lui, è indice di una frattura metafisica tra i comuni mortali e la classe dirigente tecno-transumanista.

La strada che si biforca

Qualcuno potrebbe storcere il naso: ecco che ricomincia con quei filosofismi fantasiosi. Ma in questo caso uso il termine metafisica molto deliberatamente, per indicare che l’élite sta iniziando a divergere dal resto dell’umanità nel senso più fondamentale: a livello di realtà-concetto.

Nel mondo delle élite, il dogma del giorno è la crescita assente e il progresso perpetuo, di cui ho parlato qui:

DISPACCI DALLA CENTRALE DI BEDLAM

Iperstizioni e culto del progresso pilotato

24 MARZO 2023
Hyperstitions and the Cult of Steered Progress

Iperstizioni: la capacità degli esseri umani di creare il proprio futuro. Ma è questo un genio che non vogliamo far uscire dalla bottiglia?

È seguita dall’alta società dei tecnoburocrati come una fede cieca. Il motivo è semplice: dà loro una rubrica di base per il successo e la realizzazione, in assenza di un vero significato o di una profondità spirituale, di cui sono tutti innegabilmente privi. Dà alla vita una freccia fittizia da seguire, adatta alle valutazioni del mondo da parte del cervello sinistro. Per intenderci: se si riesce a disegnarla elegantemente su un grafico, con la linea inclinata che mostra una crescita verso l’alto, allora è Buona e tutto va bene per il mondo; un senso di appagamento, di conferma e di convalida tutto in uno.

In parole povere, fa credere ai tecnici di fare la cosa giusta: migliorare il mondo. Li fa sentire importanti e necessari. Li fa sentire bene con se stessi in quella grandiosa lacuna post-cristiana di stampo nietzschiano che abitiamo. Non pensano alle reali implicazioni più profonde, di secondo ordine, dei loro costrutti tecnologici: finché possono tracciare un movimento verso l’alto e cifre crescenti, la ricompensa dell’autocompiacimento segue. È la fede immortale del culto del progresso.

Questo progresso ha un’inerzia intrinseca che riempie la tecno-élite a bassa intelligenza con una nuova vertigine ogni volta che viene superato un punto di accelerazione. L’applauso quasi infantile al “progresso” superficiale si traduce in una crescente ignoranza della vera metafisica della natura umana. Con ogni nuova “eccitante” scoperta, diventano sempre più orgogliosi, la loro auto-validazione vibra come le viti di una macchina incomprensibile. Diventa una dipendenza: sempredi più, sempre di più esempre più velocemente. Non c’è una teleologia intrinseca al di là dell’astrazione vagamente narcisistica dell’utopia dell’abbondanza infinita. Basta ammassare un numero sufficiente di questi aggeggi e di queste diavolerie tecnologiche e saremo tutti santi immortali che si crogiolano nel godimento.

Di solito scrivo degli sviluppi tecnologici futuri con una sfumatura di cauto ottimismo, almeno per quanto riguarda l’adozione o la maturazione delle tecnologie attualmente in voga, siano esse VR/AR, AI, ecc. Ma in uno spirito contrarianista, ecco un breve manifesto sul perché ci sono buone probabilità che questa tecnologia venga rifiutata dalla società, generando alla fine non il nirvana della civiltà, ma l’indifferenza.

L’enigma del pendolo di Krugman

Nel 1998, l’economista Paul Krugman ha formulato la sua tanto declamata previsione, che io definisco il Pendolo di Krugman:

“La crescita di Internet subirà un drastico rallentamento, poiché diventa evidente la falla nella ‘legge di Metcalfe’: la maggior parte delle persone non ha nulla da dirsi! Entro il 2005 sarà chiaro che l’impatto di Internet sull’economia non è stato superiore a quello del fax”.

Come sempre accade nei discorsi su Internet – cosa che per certi versi riscatta quanto detto sopra – le cose vengono diluite, generalizzate o deliberatamente travisate per spingere qualsiasi agenda di conferma si desideri. In questo caso, la reazione è stata riduttivamente legata alla parte della dichiarazione che dice, in sostanza, che Internet non avrà un grande impatto [sull’economia].

Se nei primi estatici anni della bolla internet questa previsione sembrava sempre più ridicola, più ci avviciniamo a oggi, più le persone hanno cominciato a ripensarci. In primo luogo, oggi possiamo affermare con certezza che Internet ha avuto un effetto deleterio sradicando le economie locali, svendendole agli affamati avvoltoi aziendali del globalismo. Questo ha scatenato un effetto boomerang che alla fine ha permesso di acquistare qualche anno di merci a basso costo, sventrando le nostre fondamenta e riducendo la qualità della nostra vita.

Si può sostenere che, al di là dell’arricchimento delle aziende, la previsione di Krugman era accurata nel prevedere che Internet non avrebbe avuto alcun reale beneficio economico per l’uomo comune. Non è interessante che i critici della previsione scelgano di valutarla utilizzando il denominatore di Wall Street e delle grandi imprese? In base alle misure delle medie del Dow Jones e del Nasdaq, si potrebbe pensare che l’economia non abbia fatto altro che crescere grazie a Internet. Ma il cittadino medio è poco legato al mercato azionario e ne ha ricevuto pochi benefici reali.

Per esempio, il seguente articolo di Snopes usa assurdamente il totale del mercato di Apple, Google e altri, come indicazione dell’errore di Krugman:

L’implicazione è che le smisurate ricchezze accumulate da queste aziende, facilitate dal boom di Internet, abbiano in qualche modo migliorato la società, l’umanità o l’economia in generale. In realtà, gli standard di vita dell’uomo comune sono totalmente scollegati dalla valutazione di Apple, e si potrebbe addirittura dire che sonoinversamente proporzionali: mentre le grandi aziende si sono arricchite, noi tutti siamo diventati più poveri per questo; l’era del consolidamento aziendale non ha fatto altro che aumentare la cartellizzazione, danneggiando la concorrenza e distruggendo le economie locali.

Internet ha davvero cambiato il modo di vivere degli esseri umani? Al di là delle movenze superficiali dell’oziare davanti agli schermi degli smartphone, scorrendo cascate di contenuti scialbi, si può sostenere che Internet abbia avuto un effetto reale marginale sulla vita quotidiana. È servito semplicemente come una sorta di surrogato più debole e annacquato di altre cose; siti web pieni di imprecisioni e poco impegnativi come sostituti di contenuti ben realizzati e pubblicati fisicamente, e così via. Ha fornito la comodità di fare certe cose più velocemente: comprare i biglietti del cinema online invece che al cinema. Ma questo cambia davvero qualcosa a livello fondamentale nell’attività umana?

Per molti versi la vita è quasi indistinguibile da quella di trent’anni fa: le persone continuano a svolgere gli stessi compiti, vanno al lavoro, tornano a casa e magari, invece di guardare la TV, scorrono il telefono o guardano Netflix. Invece di fare la spesa nei grandi magazzini, può scegliere di ordinare su Amazon. Si può affermare senza ironia che Internet non ha cambiato quasi nulla e, in effetti, anche i pochi cambiamenti superficiali che ha stimolato stanno probabilmente regredendo, soprattutto perché le persone abbandonano i social network e cercano sempre più una via d’uscita dal panopticon digitale.

Questo è il punto successivo: nella loro gioia di calpestare la predizione, gli apostoli senza fede hanno completamente ignorato la parte più notevole di essa:

“La crescita di internet rallenterà drasticamentela maggior parte delle persone non ha nulla da dirsi!.

E qui sta il problema, che riguarda la nostra discussione sulla metafisica.

I techguru ignorano l’impulso evolutivo umano-biologico di base: assumono un proprio telos distorto della condizione umana, che soddisfa i loro criteri di bias di conferma. È una forma di wishful thinking: vogliono che gli esseri umani siano in un “certo modo” perché quel “modo” coincide con un mondo – o una realtà – chesi adatta all’ideale utopico dei techguru, soprattutto quello in cui sono lodati e riccamente ricompensati per i loro “contributi” all’umanità.

Gran parte degli sviluppi tecnologici della modernità non soddisfano in alcun modo i bisogni umani più elementari, essenziali o fondamentali: l’impulso di cui ho parlato. Le idee sbagliate derivano dagli stessi discepoli del Culto del Progresso che usano la foto ingannevole della disparità di elettricità tra la Corea del Nord e la Corea del Sud dallo spazio come una rubrica definitiva del “Progresso”; è un progresso vuoto e senza significato.

Allo stesso modo, i guru della tecnologia partonosemplicemente dal presupposto che, poiché i dispositivi VR come l’Apple Vision Pro sono una meraviglia tecnologica o un balzo in avanti, questi gadget possiedono innatamente una qualche forma di convalida evolutiva umana; il prodotto è buono perché è innovativo. Ergo, deve essere oggettivamente un’evoluzione naturalmente ordinata del nostro tessuto sociale, senza fare domande.

Ma queste persone sopravvalutano l’essenzialità dei loro aggeggi. Ogni volta che questi gadget hanno fallito, una scusa incorporata li ha sempre attribuiti a qualche problema imprevisto, “senza dubbio” da correggere nelle iterazioni future. Il fallimento non viene mai attribuito alla totale incomprensione dei bisogni e dei valori umani da parte dei techguru. Per esempio, ora si dice che il VR Pro è stato “eccessivamente ingegnerizzato” perché era la prima volta che Apple si cimentava in questa tecnologia e aveva bisogno di attirare le persone con un lancio impressionante. Le future iterazioni probabilmente ridurranno alcune delle cose superflue, rendendo l’unità non solo meno costosa ma anche più attraente in generale. Questa è la quintessenza della mancanza di autoconsapevolezza.

E se vi dicessi che nessuna modifica di questo tipo può salvare questi prodotti? E se, a sua insaputa, la predizione di Krugman avesse rivelato il seme di qualche verità nascosta della vita?

“Le persone non hanno nulla da dirsi!”.

Lasciate che queste parole riecheggino in voi come un fantasma uditivo mentre riflettete sulle loro implicazioni. Nessuna quantità di ornamenti tecnologici può annullare le dinamiche umane fondamentali. Queste spinte del “progresso” cercano di trascinarci in un futuro per il quale gli esseri umani non sono stati progettati e per il quale non hanno alcun interesse innato, al di là della novità superficiale e di breve durata di “stare al passo con i Jones” e del fattore FOMO che ci induce a fare acquisti assenti di robaccia venduta in modo coercitivo e che offre poco significato o miglioramento alle nostre vite.

Parlo per esperienza: sedotto dal primo fattore “wow” dei giocattoli VR, sono diventato l’orgoglioso proprietario di uno dei set più costosi, per poi annoiarmi nel giro di poche settimane e non toccarlo più. Mi ha insegnato qualcosa sull’esperienza umana: per quanto le nostre moderne vite da tabula rasa possano sembrare banali e poco eccitanti, il vaporoso intruglio di questi mondi virtuali sintetici è un pessimo sostituto. Viene da chiedersiache cosa servono esattamentequesti espedienti moderni ?

È proprio quello che si è chiesto Max Read in una recente rubrica:

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Google ha creato un’intelligenza artificiale così sveglia da far impazzire gli uomini
Saluti dal quartier generale di Read Max! Nel tentativo di giocare con il formato e di evitare l’incombente burnout, la newsletter di questa settimana presenta tre brevi articoli su articoli recenti o eventi di cronaca. Di seguito troverete alcune riflessioni su: Come pensare e comprendere la divertentissima polemica sul papa nero di Google Gemini…
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A cosa servono i chatbot A.I.?

Devo fare una confessione: Non so davvero a cosa servano i chatbot dell’intelligenza artificiale. Cioè, so che ChatGPT e MidJourney e qualsiasi altra chatbot generativa basata su LLM sono bravi in certe cose – riassumere e organizzare pezzi di testo, per esempio, o generare immagini passabilmente dettagliate di certi tipi – e un po’ meno bravi in altre cose – giocare partite di scacchi complete e coerenti, per esempio – e direttamente pessimi in alcune cose, come citare precedenti legali. Ma in senso più ampio, non ho idea a cosa servano: Quale sia il loro uso ideale, o addirittura cosa la gente voglia da loro. Va bene, perché sono un idiota che non capisce la maggior parte delle cose. Ma ho sempre più il sospetto che anche nessuno dei responsabili di questi chatbot capisca a cosa servono o cosa dovremmo fare con loro.

In sostanza, l’autore si serve della recente debacle di Google Gemini per chiedersi quale dovrebbe essere esattamente lo scopo dell’IA generativa. Nelle fasi iniziali della mania per l’IA, la maggior parte delle persone era troppo accecata dall’eccitazione per la novità superficiale per potersi chiedere. I chatbot erano “divertenti” e creavano “immagini fantastiche”.

Ma ora che abbiamo lentamente iniziato a vedere il lato oscuro di questa tecnologia – la sovversione ideologica, appunto – più persone stanno iniziando a sollevare la questione. È chiaro che le IA non sono concepite come un compendio infallibile di conoscenza enciclopedica, poiché introducono troppi pregiudizi non ammessi, diventando schive o manipolatrici quando le si chiama in causa. Né serviranno mai come motori di bias di conferma totalmente soddisfacenti per i misantropi sempre più squilibrati della sinistra. Per questo motivo occupano l’armadietto delle novità mediocri, non del tutto adatte allo scopo di un compito particolare, che altri strumenti specializzati svolgono meglio.

Accontentando tutti, non accontentano nessuno.

Ma questo porta alla questione più ampia e generale che lega il tutto. Chiedetevi: perché, esattamente, queste IA sono così poco adatte al nostro mondo? Io sostengo: perché la metafisica del mondo è molto diversa dalle bugie che ci sono state insegnate.

I gruppi cosmopoliti e leali delle bigtech cercano di globalizzare l’umanità, cioè di “connetterci tutti”, come predicato all’infinito nelle pubblicità che ritraggono il mondo come una scintillante ostrica comune in cui tenersi per mano e cantare allegramente, mentre “condividiamo” le nostre “storie” e “culture” in un purè di streghe omogeneizzato: l’estasiante visione kalergiana del mondo come un busteefelicemente fiorente .

Dato il fine dichiarato dell’élite tecnocratica, i loro aggeggi nanici, fabbricati nei bui laboratori sotterranei di Palo Alto e di Mountain View, saranno necessariamente progettati per massimizzare l’accelerazione verso questo fine. Ciò significa che i nuovi gadget come il VR Pro dovranno necessariamente rispettare le regole della globalizzazione dei vostri pensieri, delle vostre esperienze, del vostro mondo interno, delle vostre concezioni e, in ultima analisi, della vostra metafisica, per allinearsi a quella della casta dei tecnovampiri submontani, di quegli ingegneri sociali e biotecnologi che si agitano nelle loro tane senza Dio affamate di luce.

Lo scopo di queste cuffie è quello di martellare e plasmare le vostre bio-risposte esperienziali, per rivestirle e pressarle a freddo nella struttura pressofusa adatta a servire la visione predesignata della nuova élite transnazionalista del mondo. In termini pratici, questo significa usare le simulazioni tattili e cinestesiche iper-reali per trapiantarci dalla terra radicata dei nostri antenati e delle nostre memorie biologiche ad altri nomoilontani e alieni , dove possiamo incarnare il perfettamente docile cittadino globale.

Collegare, immedesimarsi, assimilare.

Questa digi-derattizzazione è lo strumento postmoderno perfetto per riscrivere il sacro codice biologico che è stato l’enigma ne plus ultra dell’ultima spiaggia per la classe dirigente.

Ma proprio come il pendolo di Krugman ha oscillato contro logica verso la linea di partenza, così ci sono buone ragioni per credere che le voci di imminenti rivoluzioni della singolarità dell’IA possano essere premature. Così come l’umanità ha in gran parte respinto i tentativi di sprofondare nell’inferno della derattizzazione digitale attraverso una perpetua immersione nel freddo cibernetico, anche la nuova era dei chatbot e degli assistenti personali AGI/ASI “senzienti” potrebbe rivelarsi una novità passeggera.

Non fraintendetemi, è chiaro che le prossime trasformazioni dell’IA lasceranno la loro impronta, influenzando una serie di settori lavorativi e aumentando l’intrusione nelle nostre vite:

Hai chiesto l’AI con lo spazzolino da denti?

Ma ciò che è meno chiaro è quanto effettivamente in modo sostanziale cambierà nel mondo. Molte delle “innovazioni” dell’intelligenza artificiale potrebbero fungere da rumore di fondo e da vetrina, proprio come fa oggi Internet. Come in passato, Internet sembra onnipresente e onnicomprensivo, eppure cosa c’è di veramente diverso oggi, a parte la possibilità di cuocere senza pensieri davanti a un telefono a piacimento?

Potremmo svegliarci nell’anno 2075 e le cose potrebbero sembrare “trasformate” in superficie. I robo-taxi ci pedineranno, i robo-concierge ci segnaleranno per le strade con battute spiritose, i robo-maggiordomi ci delizieranno con storie generative per rasserenare il nostro spirito, le pubblicità saranno interattive e “senzienti” – e sempre più rumorosamente invadenti e fastidiose. Ma cosa sarà effettivamente diverso? Forse non molto.

Per quanto riguarda le cuffie e i mondi virtuali, è molto probabile che l’umanità respinga i pesanti tentativi di cablatura. I nostri valoriinnati, guidati dall’istinto, continueranno a scontrarsi con le trasmutazioni metafisiche imposte dalla “realtà potenziata” dei tecnocrati e dai sogni di connettività globale. Per questi tecnovampiri è fatale il fatto che gli esseri umani, in ultima analisi, hanno esigenze molto più semplici di quelle che si addicono ai loro progetti impetuosi. Le basi del comfort e del sostentamento, la famiglia, la casa e la sicurezza; la cultura generazionale radicata. L’unico modo per deprogrammare questo codice sorgente biologico è quello di sottoporre il sistema a shock massicci e a richiami esogeni di dopamina, per ricablarci dall’esterno. Ma tali stratagemmi probabilmente falliranno, poiché la natura artificiale delle digi-Utopie progettate dai tecnovampiri non sarà mai conforme alle ancore ipostatiche del nostro essere, le cui scaglie generazionali sono saldamente scavate nella nostra carne collettiva.

Senza dubbio, stiamo entrando nella prossima fase del progresso umano. Il tema del prossimo secolo sarà: L’essenza, definendo che cos’è e perché è importante, e poi – per loro – tentandodi decodificarla.

L’essenza è il paradosso finale per i tecnovampiri, l’ultima stringa del codice enigmatico umano, che ha messo in crisi le loro macchine di analisi e i loro congegni cibernetici. L’essenza è eterna e al di là della loro comprensione. È la perla scintillante all’interno dell’ostrica dell’umanità che non sono in grado di sottrarci. Ma nel prossimo secolo, con l’aiuto delle loro superintelligenze artificiali di nuova concezione, la metteranno nel mirino e ci proveranno.

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Il paradosso della diversità, di Aurelien

Il paradosso della diversità.
Si tratta di dignità, efficienza e cose del genere.

AURELIEN
21 FEB 2024
Ho ricevuto diverse richieste da parte di persone che mi hanno chiesto se possono ristampare (e non solo linkare) questi saggi. La risposta è sì, a patto ovviamente di attribuirli e di fornire un link a questo sito. Ho anche ricevuto alcune richieste di interviste, che in linea di principio sono felice di fare.

Questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potete sostenere il mio lavoro mettendo like e commentando, e soprattutto trasmettendo i saggi ad altri e ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️

Grazie a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando alcune traduzioni in italiano e ha creato un sito web dedicato a queste traduzioni.

Nel corso dei quasi due anni di questi saggi, sono tornato più volte sulla questione del declino della capacità politica e organizzativa dell’Occidente e sulle sue possibili conseguenze. Ho parlato del declino di concetti come quello di “dovere” verso la società, senza il quale era difficile capire come la società come entità potesse continuare. Ho parlato dell’incapacità della nostra classe politica e della Casta Professionale e Manageriale (PMC) di pensare per più di cinque minuti al futuro e di affrontare seriamente qualsiasi cosa. Ho sostenuto che l’attuale classe politica, oltre ad altre mancanze, non è molto brava in politica e che i nostri Paesi sono gestiti da “élite” autodefinite che sono ancora ferme all’adolescenza. Ho suggerito che il modello estrattivo dell’economia ha infettato anche altri settori della vita e che, di conseguenza, l’Occidente si stava avviando a mangiare se stesso. Di recente, ho cercato di esaminare le conseguenze di alcuni di questi problemi per le fantasie di riarmo e di confronto con la Russia che vengono ora sbandierate. E c’è molto altro ancora, ma questo è sufficiente per un paragrafo di autopubblicità riflessiva.

Questo saggio è un tentativo di fare un passo indietro e di mettere tutti questi elementi in una sorta di relazione coerente tra loro. Ma voglio anche andare un po’ oltre, perché credo che possiamo vedere altre manifestazioni dello stesso insieme di problemi altrove, e spesso in aree che non ci si aspetterebbe. Per esempio, la crisi dell’istruzione a tutti i livelli, l’incapacità dell’Occidente di produrre attrezzature militari affidabili, i pezzi che si staccano dagli aerei Boeing, ma anche le infinite pressioni per la “diversità” nelle organizzazioni, e persino la solitudine e le evidenti difficoltà di formare e mantenere relazioni stabili.

Possiamo riassumere il problema in una frase: il paradosso della diversità. Per “diversità” non intendo solo il tipo di manipolazione aritmetica, ma qualcosa di più fondamentale. Considerate: rispetto a cinquant’anni fa, le organizzazioni di ogni tipo hanno accesso a un bacino teorico di talenti molto più ampio che mai, soprattutto in termini di genere ed etnia. Possono reperire talenti e tecnologie da tutto il mondo, raccogliere finanziamenti ovunque, subappaltare ovunque. Hanno accesso a generazioni di entusiasmanti teorie manageriali e ad esempi da seguire in tutto il mondo. Le istituzioni educative hanno acquisito un’intera classe di amministratori altamente qualificati per aiutarli nel loro lavoro e, come altre organizzazioni, hanno tutti i vantaggi di un’ampia scelta di tecnologie per rendere il loro lavoro più facile. La vita sociale ha guadagnato enormemente in diversità e varietà grazie a Internet e ai social media, e tutto ciò che si può desiderare di sapere sulle relazioni o sull’educazione dei figli è disponibile in un solo clic. Rispetto al mondo insulare, reazionario, poco qualificato, socialmente statico e legato alle tradizioni degli anni ’70, oggi abbiamo accesso a una varietà e a una diversità quasi infinite di possibilità.

Eppure non funziona nulla. A tutti i livelli, dalle interazioni sociali personali alle organizzazioni, fino alla politica nazionale, il sistema sta andando in pezzi. Si è tentati di vedere questo come un processo causale: ad esempio, mai i governi occidentali sono stati più “diversificati” nel gergo corrente, eppure mai sono stati più inefficaci, incapaci e corrotti. Ma il paradosso della diversità non è solo questo. Sarebbe forse più corretto dire che i governi, così come le organizzazioni e gli individui, hanno oggi accesso a una varietà e a una diversità di input senza precedenti nella storia dell’umanità, eppure non c’è alcuna prova visibile che qualcuno di essi stia facendo del bene: piuttosto il contrario.

Un modo per affrontare questo paradosso è quello di indagare su singole parole e concetti. Ad esempio, cosa significa “lavoro” in questo contesto? Cosa significa “efficace”? Cosa significa “capace”? Quali sono gli scopi annunciati per cui esistono organizzazioni e governi? Prenderò in considerazione un paio di distinzioni e concetti che mi sembrano utili come base per ulteriori discussioni.

Nel suo libro The English Constitution (1867) Walter Bagehot introdusse la sua famosa distinzione tra le parti “dignitose” e quelle “efficienti” di quella Costituzione (non scritta). Le parti “dignitose” esistevano per “impressionare i molti”, mentre quelle efficienti esistevano per “governare i molti”. Bagehot era un giornalista piuttosto che un teorico della politica e basava le sue idee sull’osservazione: in particolare sulla differenza tra ciò che un sistema politico sembrava essere e ciò che effettivamente era, tra gli aspetti formali e l’uso effettivo del potere.

Lo stesso Bagehot ammetteva che non era possibile fare una distinzione completa tra le due cose, e naturalmente in politica il simbolico e il formale hanno sempre avuto un ruolo importante, mai come oggi. Ma la distinzione è comunque utile, se la consideriamo applicabile in linea di principio a tutte le situazioni e istituzioni politiche, e anche al modo in cui ci presentiamo al mondo e gli uni agli altri. Bagehot (che era tipico della tendenza liberale antidemocratica del XIX secolo) pensava che gli elementi “dignitosi” fossero utili per ottenere l’obbedienza delle masse ignoranti, ma che la cosa veramente importante fosse che la parte “efficiente” fosse, appunto, efficiente. In effetti, qualsiasi sistema politico deve essere “efficiente”, nel senso di “efficace”, o scomparirà. Un modo in cui questo accade (e ci sono esempi storici) è quando la parte “dignitosa”, che consiste nel cerimoniale, nelle procedure, in quelle che oggi definiremmo “pubbliche relazioni”, nelle dispute visibili per il potere, la precedenza e l’influenza, e tutto il resto, arriva a dominare e ad occupare troppo del tempo e degli sforzi disponibili.

Credo sia ragionevole pensare che questo sia ciò che sta accadendo oggi in politica. Nella maggior parte dei Paesi, la “politica” riguarda l’assassinio dei personaggi, la vita personale degli attori principali, le dispute ideologiche su punti di dettaglio e il fatto che le opinioni di qualcuno siano sufficientemente distanti in un senso o nell’altro. Possiamo pensare agli intrighi e agli scandali della corte francese prima del 1789, o all’irrealtà degli ultimi decenni di Bisanzio. Siamo arrivati a un punto che Bagehot difficilmente avrebbe potuto immaginare, in cui l’immagine non solo è più importante della sostanza: l’immagine è tutto ciò che esiste. Così, quando i sistemi politici si confrontano con la brutale realtà, scoprono di non poterla affrontare e si sgretolano.

Ma credo che l’argomento possa essere esteso ad altri settori. Le aziende private, ad esempio, devono fare marketing e parlare dei loro prodotti, oltre a produrre beni e fornire servizi per i quali le persone sono disposte a pagare. Da qualche tempo a questa parte, le aziende private occidentali si affidano sempre più alla pubblicità per compensare le carenze di ciò che hanno effettivamente da offrire. Al giorno d’oggi, spesso sembra che l’immagine – compresa l’associazione con gli ultimi slogan buonisti – sia tutto ciò che esiste davvero, e si chiede alle persone di comprare l’immagine, anche se dietro non c’è nulla di “efficiente”. Sul perché e sul come questo sia accaduto, mi soffermerò tra poco. Allo stesso modo, la finanziarizzazione dell’economia fa sì che la maggior parte degli sforzi sia destinata alla manipolazione dei risultati e dei prezzi delle azioni per impressionare giornalisti e azionisti (l’equivalente delle masse ignoranti di Bagehot).

E infine, naturalmente, si applica anche alle relazioni personali e professionali. Alla fine, qualsiasi relazione che duri più di cinque minuti deve tenere conto della dimensione “efficiente”: cioè, chi e cosa siete veramente. Farsi fotografare da un fotografo professionista per un sito di incontri, presentarsi falsamente come il candidato ideale che il potenziale datore di lavoro vuole vedere, o creare cinicamente un “progetto personale” completo di obiettivi di vita e volontariato di beneficenza per assicurarsi un posto all’università, può ottenere un effetto temporaneo simile a quello che Bagehot pensava che la regalità potesse ottenere sulle masse ignoranti, ma per definizione, poiché non è il vero voi, non può durare. E poi le persone si chiedono perché sono infelici nel lavoro e nelle relazioni, e perché non riescono ad affrontare il corso di laurea in cui si sono infilati.

Credo quindi che questa sia una parte della risposta: i sistemi e le persone si sono concentrati sull’immagine escludendo tutto il resto, sulla necessità di impressionare con lo scintillio di superficie, a scapito dell’effettiva capacità di fare le cose: il lato “efficiente” di cui scriveva Bagehot. E poiché è così, le immagini di ciò che significa “successo” vengono trasmesse a una nuova generazione, che sceglie il proprio futuro professionale sulla base delle immagini che le sono state insegnate come più positive e potenti. Quasi sempre, ciò implica denaro, status e potere, e l’adozione di un’immagine attesa per entrare in un mondo, e quindi avere successo in esso. Date le circostanze, non sorprende che la vocazione e le capacità giochino un ruolo sempre più piccolo in chi entra, ad esempio, in politica o nel servizio pubblico, e in chi vi ha successo.

Consideriamo, ad esempio, una società di generazione elettrica statale o nazionalizzata negli anni Settanta. Probabilmente si trattava di un monopolio pubblico, che assumeva ingegneri e specialisti tecnici, offrendo stipendi tipici del settore pubblico. I suoi funzionari erano scarsamente conosciuti dal pubblico al di fuori dei livelli più alti. Per definizione, quindi, chi era interessato principalmente al denaro e all’autocompiacimento avrebbe cercato un lavoro altrove. L’alta dirigenza sarebbe stata selezionata tra coloro che erano bravi ingegneri e manager, magari con un’aggiunta di nominati politici ai vertici. Non c’era bisogno di impressionare il pubblico e i contribuenti con l’immagine e la pubblicità: ciò che contava era l'”efficienza” di Bagehot, cioè la fornitura di energia.

Al giorno d’oggi queste aziende sono state per lo più privatizzate, in tutto o in parte, o per lo meno trasformate in simulacri di aziende private. In molti casi, sono costrette a competere tra di loro, cosa che fanno attraverso campagne di marketing e una miriade di offerte speciali indecifrabili e spesso mendaci. Spesso è impossibile sapere con esattezza chi sia il vero proprietario del proprio fornitore di servizi, e in effetti (dato che poche persone riescono a vivere senza elettricità) la parte “efficiente” del lavoro dell’organizzazione non ha molta importanza per i responsabili. I clienti possono, in teoria, cambiare il proprio fornitore (che in molti Paesi è comunque solo un rivenditore), ma senza alcuna garanzia di un servizio migliore. Gli sforzi si concentrano quindi sulla componente “dignitosa” di Bagehot, impressionando i giornalisti finanziari e il mercato azionario, e attirando e poi accalappiando i clienti. Dato che la concorrenza reale nella produzione di energia elettrica nella stessa area è di fatto impossibile, la concorrenza diventa quindi del tutto virtuale, dove la massificazione dei risultati finanziari è l’attività principale della maggior parte delle aziende.

Quanto detto non sarebbe controverso, ma vale la pena di considerare alcune conseguenze per le persone che lavorano in queste organizzazioni e che potrebbero esserne attratte. In primo luogo, le priorità sono di tipo finanziario, piuttosto che reale, il che significa che inevitabilmente coloro che salgono ai vertici sono quelli più bravi a massificare le cifre. (Ciò significa anche che gli esperti tecnici saranno sottovalutati e spesso emarginati, con una corrispondente riduzione della capacità dell’organizzazione di fare ciò che dovrebbe fare (tornerò su questo punto). Così, ad esempio, sembra che la Boeing abbia semplicemente perso la capacità tecnica di produrre aerei sicuri e affidabili, e che l’industria della difesa occidentale non sia più in grado di produrre attrezzature affidabili. .

A sua volta, ovviamente, la messaggistica di un’organizzazione di questo tipo attrae in modo sproporzionato il tipo sbagliato di individui: quelli che associano il successo al denaro, al potere e allo status. È ormai assodato che i ranghi più alti di gran parte del settore privato sono occupati da sociopatici, spinti principalmente dalla gratificazione dell’ego, e che quindi usano essenzialmente l’organizzazione per cui lavorano, e le persone che lavorano per loro, come strumenti per soddisfare i propri desideri. Tali organizzazioni attraggono necessariamente un gran numero di queste persone, interessate a ciò che possono saccheggiare, ma prive di particolari capacità gestionali o strategiche che compensino la loro mancanza di conoscenze tecniche. Anzi, probabilmente non considerano tali competenze importanti. Ma ciò che possiedono sono quelle che Bagehot avrebbe definito credenziali “dignitose”: spesso MBA. Un po’ come la tessera del Partito Comunista, queste sono un distintivo di ingresso in un’organizzazione e un aiuto per la promozione, ma non dicono nulla sulle reali capacità della persona che porta la tessera (o il certificato) di svolgere correttamente il lavoro.

Ma questo spiega anche la disastrosa riduzione delle capacità nel settore pubblico e in politica? In parte sì. La trasformazione della politica in un’attività puramente tecnocratica, la cosiddetta depoliticizzazione della politica, ha lasciato i politici senza un’adeguata base ideologica su cui costruire una posizione politica, e ancor meno un partito. Così la politica si è trasformata in marketing, e individui e gruppi cercano di promuoversi a segmenti di mercato, nello stesso modo in cui le aziende private cercano di venderli. Quando un programma politico consiste solo nell’accattivarsi i favori dei sostenitori più accaniti, non c’è molto spazio per altro, se non per il conflitto personale e l’ambizione sociopatica dilagante. Naturalmente i politici sono sempre stati ambiziosi e non bisogna idealizzare il passato, ma è vero che in molti Paesi i politici potevano, e lo facevano, trascorrere anni nei loro Parlamenti rappresentando il loro collegio elettorale (spesso quello in cui erano nati) e cercando di promuoverne gli interessi, senza necessariamente ambire ad alte cariche. Oggi, nella maggior parte dei Paesi occidentali, solo la vecchia generazione di politici è così. Nella maggior parte dei Paesi, un periodo in politica è comunque solo una preparazione al passaggio al settore privato per guadagnare molti soldi.

Per illustrare il tutto con un esempio reale, lasciatemi raccontare una storia di eventi recenti in Francia. All’inizio del nuovo anno, l’adolescente Gabriel Attal è stato nominato Primo Ministro, in sostituzione di Elisabeth Borne, priva di carisma. Questo fatto ha sorpreso molte persone, perché il primo incarico ministeriale, quello dell’Istruzione, era stato assunto solo da pochi mesi e si tratta di un ministero di alto profilo, dato il suo ruolo storico nell’inculcare i valori repubblicani, e controverso, dato che in passato gli insegnanti erano la spina dorsale del Partito socialista (RIP). Attal è stato scelto, e non me lo sto inventando, perché era giovane, bello, e sarebbe stato il volto pubblico della coalizione di Macron contro il giovane, bello, Jordan Bardella, il No2 di Le Pen, nelle prossime elezioni europee, locali e regionali che si prevede martellino la coalizione di Macron. Posso vedere Bagehot annuire da qui.

Ma questo ha lasciato un posto vacante all’Istruzione. Il posto è stato occupato dalla splendida Amélie Oudéa-Castéra, amica di Macron da quando frequentavano insieme l’École nationale d’administration, ex campionessa di tennis e ministro dello Sport e della Gioventù, nonché responsabile delle Olimpiadi del 2024. E in una coda davvero bizzarra, è stato deciso che avrebbe mantenuto tutte queste responsabilità, oltre a occuparsi di Educazione nel tempo libero. Anche alcuni media hanno pensato che questo fosse un po’ strano, perché, dopo tutto, c’era molto da fare per lei, e le poche settimane in cui ha ricoperto l’incarico sono state segnate da furiose polemiche mediatiche. Se si conosce il sistema educativo francese, si potrebbe immaginare che si trattava di cose come il declino catastrofico degli standard di alfabetizzazione e di calcolo, gli enormi problemi di reclutamento e di mantenimento degli insegnanti, soprattutto nelle aree più povere, l’incapacità di trovare insegnanti qualificati in scienze e matematica, l’incapacità dei datori di lavoro di assumere persone in grado di leggere e scrivere, la violenza e le intimidazioni contro gli insegnanti da parte di islamisti e altri. Ma no, si trattava di lei che aveva mandato i suoi tre figli in una scuola cattolica altamente selettiva e socialmente conservatrice di Parigi, su cui il suo stesso Ministero stava indagando, e poi aveva mentito sul perché l’avesse fatto. Dopo un mese di aspre polemiche, in cui nessuno ha menzionato una sola questione politica sostanziale, la signora è stata cacciata in modo sommario (vale la pena notare che sia lei che Attal erano tecnocrati che non erano mai stati eletti, come del resto Macron prima del 2017). Per chi ha lavorato al governo è stato come assistere a un incidente d’auto al rallentatore: come può un politico essere così dilettante da non essere nemmeno in grado di mentire in modo convincente, oltre che di dire bugie che verrebbero rapidamente scoperte? Ma, se si vive secondo la logica della “dignità”, si muore anche per essa.

Questo contribuisce a spiegare, credo, la terrificante confusione della reazione occidentale all’Ucraina. I politici occidentali sono arrivati a credere non solo che il controllo narrativo sia essenziale, ma anche che sia tutto ciò che è necessario. Questo ha funzionato, più o meno, in Afghanistan. Ma in Ucraina, con le truppe addestrate dall’Occidente massacrate e le attrezzature occidentali fatte a pezzi, le élite si sono improvvisamente rese conto di ciò che Bagehot avrebbe potuto dire loro: che mentre il controllo della narrazione può “impressionare i molti”, sono comunque necessari strumenti di coercizione per ottenere effettivamente le cose, e l’Occidente, ovviamente, ora non ne ha.

Infine, naturalmente, la pubblica amministrazione prende spunto almeno in parte dalla leadership politica. I ministri con programmi e l’intenzione di attuarli saranno popolari tra i loro collaboratori. Ma i ministri interessati solo all’immagine e alla pubblicità, non disposti a prendere decisioni per paura di offendere qualcuno, che visitano chiaramente la vita politica per ottenere più soldi, e ossessionati dal potere e dallo status, allontanano le persone valide. Più queste persone si circondano di “consiglieri” carrieristi, il cui futuro è legato a quello del loro capo, più il personale permanente diventa demotivato. E quando il compito principale dei funzionari permanenti è quello di far fare bella figura al Ministro, il tipo di persona che arriva ai vertici non è quasi certamente la più competente.

Lasciamo per un momento da parte Bagehot, perché voglio fare uso di un paio di concetti discussi da qualcuno che ha pensato a questi problemi diverse migliaia di anni prima di Bagehot. Si tratta di Aristotele, ma non preoccupatevi, si tratta di un discorso innocuo e non minaccioso. Voglio usare due dei concetti citati nella sua opera come punti di partenza per il resto del saggio. Entrambi questi concetti hanno suscitato una miriade di commenti: in questa sede, voglio solo utilizzarli come spunto.

Il primo è il concetto di aretḗ, generalmente tradotto come “eccellenza”, o la qualità di essere bravi, o addirittura eccezionali in qualcosa. Sembra che sia stato spesso usato nel senso di “realizzare il proprio potenziale” (in alcuni contesti viene anche tradotto come “virtù”, ma nel vecchio senso del latino virtus che significa “potente”). L’esempio classico è Achille, che dimostra alla perfezione gli aretḗ del guerriero: coraggio, abilità marziale e morte eroica. Le cose inanimate possono avere l’aretḗ (l’esempio classico è un coltello che taglia bene), ma gli esseri umani, a differenza dei coltelli, non hanno questa virtù intrinseca. Devono sforzarsi di coltivarla, sia che si tratti di un sovrano o di un negoziante, di un poeta o di un contadino.

Consideriamo ora un esempio pratico. Come definireste un medico “eccellente”? E l’eccellenza è la stessa cosa del successo? La maggior parte delle persone direbbe di no. Direbbero che un medico eccellente merita di avere successo, ma che non si può presumere che un medico di successo (diciamo uno molto pagato e che gode di grande prestigio sociale e professionale) sia necessariamente eccellente. Eppure la nostra società incoraggia proprio questa visione. Così, ad esempio, lo scienziato che appare in TV, scrive un best-seller, sfrutta il suo staff di ricerca e riesce a far apparire il suo nome su documenti a cui non ha contribuito, non solo è un “successo” nei nostri termini; quella persona viene poi considerata come una fonte di conoscenza e di saggezza, anche se gli scienziati più “eccellenti” (più saggi e più competenti) vengono ignorati.

Ma c’è di peggio. Collegata alla parola aretḗ in greco c’è la parola aristos, solitamente tradotta come “il migliore”. Almeno in teoria, i Greci facevano parte di quell’ampio consenso storico che credeva che “le persone migliori” (aristoi) dovessero governare, perché, come molti altri, vedevano il governare con saggezza come una competenza che richiedeva lo sviluppo del carattere oltre a quelle che oggi definiremmo abilità politiche. Qualunque cosa si pensi di questa idea, è chiaro che la nostra società moderna l’ha completamente invertita. I ricchi, i potenti e i vincenti di oggi non possono accettare che l’avidità, l’ambizione e la pura fortuna abbiano giocato un ruolo importante nel loro successo e si attribuiscono qualità di saggezza e intuizione che non possiedono. Un sistema mediatico e politico sicofante pende dalle loro labbra come se avessero qualcosa di valore da dire. E naturalmente la convinzione di essere arrivati in cima per merito manda un messaggio su cosa sia il successo, su cosa sia l’eccellenza e su cosa le persone dovrebbero apprezzare nella loro vita, come ha notato Michael Sandel. Le grandi riforme istituzionali del XIX secolo hanno inaugurato un periodo in cui i governi occidentali (e anche il settore privato) hanno cercato di fare dell’eccellenza il criterio principale per l’assunzione e l’avanzamento, sostituendo il sistema personalizzato e aristocratico in cui le persone venivano nominate in base a chi erano, a chi conoscevano e soprattutto alle credenziali aristocratiche che avevano. Ora stiamo tornando indietro, sembra, con l’odierna PMC, dotata di credenziali e presumibilmente “meritocratica”, che sta diventando una nuova classe aristocratica, con tutte le pretese di quella vecchia, ma senza la sua cultura.

Questo è, a mio avviso, uno dei motivi principali del Paradosso della Diversità. Mentre in teoria il bacino di potenziali reclute si è molto allargato, in pratica i messaggi inviati dalle persone “di successo” oggi equivalgono a un incitamento subliminale a una nuova generazione di aspiranti sociopatici, concentrati sulla gratificazione narcisistica dell’ego e sul soddisfacimento della brama di potere e di denaro, e scoraggiano molte persone “eccellenti” dall’entrare in un’organizzazione o dalla politica, perché giudicano, comprensibilmente, che non vorrebbero lavorare in un ambiente del genere, né sono interessati a combattere battaglie politiche per ottenere più status e ancora più denaro. E questo vale per tutti, a prescindere dalla pigmentazione della pelle, dalle disposizioni genitali o da qualsiasi altra cosa. I sociopatici sono sociopatici, e in generale i sociopatici sono pessimi manager e pessimi nel loro lavoro. Le uniche abilità che possiedono sono quelle legate al successo personale. Così, le organizzazioni e i sistemi politici falliscono.

La prevalenza della convinzione che il successo debba essere misurato attraverso il raggiungimento del potere, del denaro e dello status formale, spiega una serie di caratteristiche sconcertanti della politica e della società occidentali. Questa visione non è, in pratica, affatto universale, ma è in gran parte una razionalizzazione da parte del tipo di sociopatici descritti sopra, che, a prescindere dal loro “successo” mondano, sono dei falliti come esseri umani. Questi obiettivi, e l’aggressività e l’ambizione che li accompagnano, tendono a essere codificati dalla nostra società come “maschili”, anche se in pratica la maggior parte degli uomini non li condivide e solo una piccola percentuale, anche nella nostra società sottoposta a lavaggio del cervello, è disposta a lavorare aggressivamente solo per la ricchezza e il potere. È curioso, quindi, che le femministe abbiano definito il “successo” assumendo acriticamente tali obiettivi maschili come loro obiettivo, oltre a imitare tutte le peggiori caricature del comportamento maschile. Una donna che fa bene il politico o il gestore di un fondo speculativo è considerata un “successo” nel senso in cui non lo è un’eccellente preside o un medico di famiglia, il che indica certamente un particolare senso delle priorità.

Ma c’è anche una grande confusione su cosa siano effettivamente il potere e l’influenza e su come funzionino. Secondo la tradizione della scienza politica americana, il potere è visto come un fenomeno puramente formale, oggettivo e quantitativo, misurato in base alle dimensioni del vostro ufficio e al vostro stipendio, al numero di persone che lavorano per voi, alla vostra anzianità nell’organizzazione, a quanto spesso ottenete e a quanto gridate alle riunioni. Ma chiunque abbia lavorato in organizzazioni di qualsiasi dimensione sa che il potere, nel senso di ottenere il risultato desiderato, funziona molto raramente in questo modo. Avrò partecipato a centinaia di riunioni con persone potenti nella mia vita, e spesso ho ottenuto ciò che volevo, senza dover urlare. Ma poiché il liberalismo è ossessionato esclusivamente da descrizioni formali e quantitative del potere, il nostro sistema incoraggia il perseguimento di questi orpelli, piuttosto che l’influenza reale e la capacità di ottenere risultati. Non importa quanto sia diversificata un’organizzazione: se i suoi vertici passano tutto il tempo a urlarsi addosso e a fare stupidi giochi di status, non si otterrà nulla. Questo vale a tutti i livelli: tutti sanno che in qualsiasi sistema politico coloro che hanno il più alto status formale e il più alto potere formale non sono necessariamente i più influenti. Ma la nostra cultura continua a essere ossessionata dalla facciata del potere formale, perché è quantitativo, facile da capire e da misurare. Ma più viene perseguito come obiettivo in qualsiasi struttura, peggiore sarà il funzionamento complessivo di quella struttura.

Infine, vorrei invocare un’altra parola usata da Aristotele: “telos”, solitamente tradotta come “scopo” o “fine”, e da cui si ricava “teleologico”, cioè diretto verso un fine. Negli scritti greci sull’etica, telos è l’obiettivo finale a cui la vita dovrebbe essere diretta, spesso la felicità (eudaemonia), e nella biologia di Aristotele si riferisce allo scopo di un organo o di una capacità nell’insieme: il telos di un occhio è la vista, per esempio. Qui voglio usarlo per porre due domande: qual è lo scopo di un’organizzazione o di una struttura e quali dovrebbero essere i fini a cui dovrebbe essere indirizzata la vita di coloro che ne fanno parte?

Dobbiamo ovviamente accettare il fatto che, in una società complessa, le organizzazioni e le strutture devono servire contemporaneamente diversi scopi. Questi scopi possono non essere del tutto compatibili tra loro, ma almeno non dovrebbero essere in diretta opposizione. Questo è più facile da capire nel settore pubblico, quindi cominciamo da lì. Un esercito, ad esempio, ha lo scopo primario di fornire la forza o la minaccia della forza a sostegno della politica del governo (analogo al ruolo “efficiente” di Bagehot) e ha il secondo scopo di essere una parte visibile dello Stato. Questo include compiti cerimoniali e di rappresentanza, l’obbedienza alla legge (compresa la legge sui conflitti armati) e l’agire come strumento di politica estera e interna (più vicino a ciò che Bagehot descriverebbe come funzioni “dignitose”). Infine, l’Esercito è un’illustrazione della politica generale del governo per il settore pubblico e la società attraverso, ad esempio, l’inclusione delle minoranze, i metodi di reclutamento e le opportunità di carriera per i suoi membri. Ma è importante rendersi conto che si tratta di una gerarchia: il telos di un esercito è quello di essere in grado di condurre operazioni militari. Se non è in grado di farlo, tutto il resto non conta, tranne il turismo e le conferenze sui diritti umani. Eppure è abbastanza chiaro che la maggior parte dei militari occidentali non è in grado di svolgere efficacemente questo compito, perché non si è prestata sufficiente attenzione a quale sia il loro telos. La situazione è simile per un servizio sanitario: non importa quante pratiche di gestione moderna abbia introdotto, quanta tecnologia informatica abbia, quanto siano qualificati e ben pagati i suoi dirigenti, o quanto sia ampio il reclutamento del personale, fallirà se non è in grado di fornire assistenza medica, che è il suo telos. Lo stesso vale per l’istruzione, i trasporti o qualsiasi altra funzione governativa.

Nel settore privato le cose possono sembrare più complicate, ma in realtà non lo sono. Il telos di un’azienda privata è fornire ai clienti beni o servizi che essi vogliono acquistare, a prezzi che sono disposti a pagare. Oggi, naturalmente, è più probabile che si senta dire che lo scopo di un’azienda è fare soldi per i suoi azionisti, ma un attimo di riflessione suggerisce che è una sciocchezza. È possibile fare soldi solo come risultato di un’attività, anche se si tratta di una semplice rapina in banca o di una frode. Fare soldi è chiaramente essenziale per la sopravvivenza dell’azienda, ma è il secondo scopo, non il primo: un risultato, non l’obiettivo principale. Un’azienda che persegue il profitto escludendo il suo scopo principale cessa presto di essere un’azienda. Sì, è vero che le aziende possono ottenere grandi profitti attraverso pratiche subdole, abuso di posizione di mercato, esclusione dei concorrenti, eccetera, ma deve comunque esserci un’attività economica in corso. (Micro$oft almeno produceva software, anche se la maggior parte di esso era scadente). Quindi il telos di una banca è quello di prendersi cura del denaro delle persone e di fornire prestiti e servizi finanziari. Le banche che sono crollate, o quasi, nel 2008, lo avevano semplicemente dimenticato.

Ci sono conseguenze importanti anche per chi lavora, o potrebbe lavorare, in organizzazioni che hanno dimenticato qual è il loro telos. Coloro che saranno favoriti o promossi saranno quelli che sapranno svolgere le parti delle funzioni dell’organizzazione che sono più in voga e più apprezzate dai suoi leader. Massaggiare i risultati finanziari, far fare bella figura ai ministri, manipolare le statistiche sui tempi di attesa negli ospedali o fare da portavoce autorevole della leadership politica e dire cose a cui non si crede, sono più importanti per il proprio futuro che fare un buon lavoro. Un Capo della Difesa che sorride e dice ai media che naturalmente può fare tutto con niente, o che l’ultima folle iniziativa sulla diversità è una buona cosa, se la caverà bene. Chi parla con franchezza sarà spinto alla pensione, e naturalmente questo agirà come un segnale per tutti coloro che cercheranno posizioni di responsabilità in futuro.

In effetti, le organizzazioni di ogni tipo sono essenzialmente tornate al modello preottocentesco di predazione e parassitismo, in cui lo Stato (e oggigiorno le aziende private) sono lì solo per essere sfruttate e saccheggiate. Si sceglie la propria carriera in base ai benefici che ci si può aspettare e si organizza la propria vita professionale per massimizzarli. Si dicono e si fanno le cose giuste per assicurarsi un avanzamento e, a tempo debito, si collabora con altri in posizioni di potere per saccheggiare il sistema e passare oltre. I vantaggi possono essere finanziari, ma anche di status e di percezione, e in effetti la vostra prima carriera – ad esempio nel settore pubblico – potrebbe essere solo una preparazione per una molto più redditizia altrove.

Aristotele avrebbe detto che questo è un tradimento del telos dell’essere umano, che è la felicità attraverso una vita virtuosa. Se oggi questo suona incredibilmente pittoresco, e se in qualsiasi organizzazione ci sono sempre state e sempre ci saranno persone avide e ambiziose, è pur vero che oggi questo comportamento è ufficialmente riconosciuto e ci si aspetta che sia la norma. Ma è semplicemente impossibile per qualsiasi organizzazione funzionare efficacemente in queste condizioni.

E forse è impossibile anche per una società funzionare in questo modo. Ho commentato molte volte come la nostra società occidentale contemporanea sia basata sulla gratificazione dell’ego e sulla soddisfazione di desideri narcisistici. La società, e in effetti le altre persone, sono solo da saccheggiare per il nostro beneficio emotivo e finanziario. Le scuole e le università esistono solo per darci competenze che ci aiutino a diventare ricchi. I governi esistono solo per fornirci cose che rivendichiamo come “diritti”. Cerchiamo di costringere le istituzioni e le aziende ad agire e parlare in modi che riteniamo gradevoli, riflettendo i continui cambiamenti negli equilibri di potere nelle nostre società, indipendentemente dalle loro reali funzioni e obiettivi. Tutta la vita diventa una competizione per estrarre il massimo beneficio dagli altri, anche se loro cercano di estrarre il massimo beneficio da noi. E questo sembra inquinare anche le relazioni personali: non si può vivere con una lista della spesa di caratteristiche che si richiedono agli altri per soddisfare i propri bisogni emotivi. Come minimo bisogna riflettere seriamente su quale sia il proprio contributo. Le conseguenze del dimenticare il telos degli esseri umani e del considerarli solo come meccanismi per facilitare la soddisfazione emotiva sono evidenti ovunque.

Alla fine, si scopre che le istituzioni e i sistemi politici funzionano meglio quando perseguono i loro scopi fondamentali e quando impiegano persone eccellenti e le incoraggiano a essere eccellenti. Il fatto che questa visione appaia oggi radicale, piuttosto che ovvia, è il risultato della costante acquisizione di potere da parte di forze esterne – amministratori, MBA, media, ONG – e delle tendenze sociali che hanno trasformato la nostra società da produttrice a consumatrice, anche reciprocamente. Eppure, alla fine, tutti sanno che gli amministratori non possono insegnare, i manager non possono fornire cure mediche, gli MBA non possono costruire cose nelle fabbriche, i tecnologi dell’informazione non possono trasmettere la conoscenza, indipendentemente da quanto siano pagati. (Quanti MBA ci vogliono per portare un bambino malato in ospedale? Nessuno: non ci sono soldi). Quindi le nostre organizzazioni continueranno a declinare, i nostri servizi cadranno a pezzi e le nostre fabbriche chiuderanno, mentre i saccheggiatori del sistema prenderanno sempre di più da ciò che resta. Mi piacerebbe pensare che a un certo punto potremmo riscoprire cose come l’eccellenza e lo scopo, ma temo che potrebbe essere molto tardi prima che ciò accada.

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L’oppressione oggi, di Gennaro Scala

Oggi si fa fatica a mettere a fuoco le forme dell’oppressione. Tempo fa ho condiviso un articolo di Emanuel Pietrobon (qui il link) che conteneva un’impressionante descrizione delle enormi dimensioni raggiunte dal disagio psichico negli Stati Uniti, il paese guida del cosiddetto Occidente allargato, il cui modo di vita si diffonde alle altre nazioni occidentali. Un fenomeno che raggiunge tali dimensioni non può più essere attribuito alle particolarità individuali, ai geni, alla biologia, ma è un fenomeno sociale. Pietrobon scrive che il disagio psichico è diventato una delle principali preoccupazione per le stesse classi dominanti americane, in quanto mina la vitalità interna e quindi la stessa potenza degli Usa. Ma sono proprio le condizioni di vita disposte dalle classi dominanti che creano questo disagio!
Oggi il termine “oppressione” è scomparso dal vocabolario politico, eppure la dialettica sociale, seppure assume forme diverse, è sempre quella descritta da Machiavelli nel Principe: “in ogni città si trovano questi duo umori diversi, e nascono da questo, che il popolo desidera non esser comandato né oppresso da’ grandi, e i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo”. Le classi dominanti esercitano la loro funzione di mantenere un ordine, ma nel far questo opprimono le classi dominate, le quali a loro volta esercitano una resistenza. Da una ben bilanciata dialettica tra questi due “umori” nasce una società vitale e sana. Com’era, per Machiavelli, la Roma antica repubblicana.
Nella società moderna le classi popolari hanno invece perso la capacità di opporre resistenza. La società viene tutta organizzata dall’alto e alle classi popolari non viene lasciato nessuno spazio. La stessa enorme concentrazione di ricchezza verificatasi negli ultimi decenni non va vista in termini economicisti, ma come capacità di determinare le condizioni di vita dei dominati che poi sono anche i non possessori di capitali.
È l’oppressione che produce il disagio psichico, in quanto l’individuo viene ricacciato nella sfera privata provocando quell’atomizzazione sociale, di cui parla anche Pietrobon. Cambiano con la tecnica gli strumenti a disposizione delle classi dominanti, ma l’obiettivo resta sempre quello di impedire che le classi dominate si organizzino, tuttavia il dilemma era già stato individuato da Machiavelli 5 secoli fa: “Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta” (Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio). Un eccessivo avvilimento del “popolo” dovuto all’oppressione mina le basi stesse della potenza. Vale per una potenza espansionista come quella statunitense, quanto per uno Stato che soltanto intende conservare la propria indipendenza. Inoltre, in generale, delle classi dominanti forti, sicure del loro potere, possono maggiormente tollerare che le classi popolari si organizzazione, mentre ciò viene temuto da classi dominanti deboli tendono ad estendere il loro controllo proprio perché insicuro.
In fin dei conti, cosa fu il ’68, se non una reazione giovanile, la parte per natura più vitale della popolazione, ad una vita che prevedeva il giorno trascorso in azienda o in ufficio e la sera davanti alla televisione nella “famiglia mononucleare”? C’era voglia di stare all’aria aperta e con gli altri, espresso sovente in forma spontaneistica. Gaber, di cui ho parlato in un post di qualche giorno fa, fu espressione a suo modo, di quel movimento che, partito dagli Usa, interessò tutti i paesi occidentali. Egli scrisse una canzone, più tardi, negli anni ’90, insieme a Luporini, dal titolo “C’è solo la strada”, in apparenza contro la famiglia. Il cantante fu sposato per oltre 40 anni con Ombretta Colli, “restando fedele all’amore” che li aveva uniti (vedi il brano parlato “La fedeltà? Ma dove l’ho messa?”) e poco amava la promiscuità quasi d’obbligo allora in certi ambienti di sinistra, che si potrebbe dire una reazione opposta e speculare alla “famiglia mononucleare”. La canzone in realtà intende mettere in guardia contro il rischio di rintanarsi in casa, pensando si sopperire con l’ambiente familiare alla mancanza di vita sociale. In breve, quella canzone voleva cacciare i singoli dalle case,
C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia, il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada, nella piazza
Perché il giudizio universale
Non passa per le case
In casa non si sentono le trombe
In casa ti allontani dalla vita
Dalla lotta, dal dolore, dalle bombe.
È chiaro che uno spazio privato è necessario ad ognuno, ed in genere sono le “istituzioni totali” che privano il singolo di uno spazio privato, ma quando questo spazio viene considerato come uno spazio esclusivo di libertà, esso si capovolge nel suo contrario, in una prigione. Oggi, inoltre è entrata in crisi anche la “famiglia mononucleare” che, per quanto problematica, contribuiva a mantenere un minimo di equilibrio mentale. Per questo oggi molti vagheggiano il ritorno alla “famiglia tradizionale” intendendo in realtà la “famiglia mononucleare” che è in realtà molto poco tradizionale, ed è un modello affermatosi a partire dagli anni ’50 ed entrato in crisi a partire dagli anni ’70. Il singolo si ritrova completamente isolato e ricacciato nel suo mondo privato in cui vive una sofferenza acuta, in quanto l’essere umano è un essere sociale, comunitario e politico, che trae il significato della sua vita dalle gioie e dai dolori del rapporto con gli altri. Questa atomizzazione sociale ha subito un peggioramento qualitativo con le trasformazioni indotte dalla digitalizzazione, che ha accresciuto di molto la capacità di controllo delle classi dominanti. Mentre con i social si è voluto fornire un surrogato della socialità che manca, e che finiranno per rendere ancora più incapaci i singoli di relazionarsi. Data l’acutezza che ha raggiunto il fenomeno, soprattutto negli Usa, c’è da aspettarsi delle forme di rivolta. Anche quelle del ’68 giunsero inaspettate, ma non sarà un “nuovo ’68” perché oggi il sistema è realmente in crisi. E la lotta sarà lunga e dolorosa.
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L’ossatura del domani, di SIMPLICIUS THE THINKER

Con l’avvicinarsi della fine dell’anno, vengo irrimediabilmente trascinato in una fantasticheria riflessiva. Anche se non è la fine del decennio, quando le cose assumono davvero una sfumatura retrospettiva, questi tempi di sconvolgimenti fanno sì che gli anni sembrino davvero passare come decenni.

Ho sempre sostenuto che un decennio in realtà non cambia solo alla sua cuspide nominale, quando trabocca nella sorgente in attesa di quello successivo, ma piuttosto a metà, il vero cuore ed epicentro. Forse è stato Andy Warhol, o qualcuno del suo calibro, a riassumere i decenni come momenti di rottura della loro vera crisalide stilistica durante i loro centri esatti; è quasi come se la prima metà fosse una sorta di maturazione, la ricerca a tentoni dell’identità mentre gli anni si accumulano in una lotta alla ricerca di se stessi, per poi emergere nella sua forma più vera a metà strada, seguita dalla fase di lento declino e burnout, il processo naturale di decadenza e rinnovamento.

E così, mentre ci avviciniamo alla metà degli anni 2020 – un decennio che molti di noi non avrebbero mai pensato di vedere – sono solito rapsodiare sulle incognite del futuro e su quelle pugnalate alla cieca del periodo del parto a cui siamo ora soggetti.

Ci sono decenni di cambiamenti, e poi ci sono intere epoche. Mentre rifletto su queste cose, mi capita di leggere Il mondo di ieri di Stefan Zweig, un’ode romantica all’Europa, in particolare all’Impero austro-ungarico e al suo ultimo lustro di dinastia asburgica, scritta alla vigilia di un cambiamento epocale durante la seconda guerra mondiale. Il libro ha una certa valenza mistica anche perché l’autore si uccise appena un giorno dopo aver consegnato il manoscritto al suo editore. Era distrutto dal peso schiacciante di un futuro incerto, mentre il passato idilliaco dei suoi ricordi veniva spazzato via dallo zolfo e dalle cannonate di una guerra incomprensibile.

Il libro stesso ruota attorno a quel rarefatto passaggio della guardia, un mondo che svanisce in un altro irriconoscibile. È un’elegia malinconica agli ideali dell’infanzia offuscati dall’oscurità sconcertante della modernità, l’attrazione spaventosa verso i sentieri incerti che si irradiano in un futuro privo di logica. Il libro abbaglia con le sontuose descrizioni della Parigi e della Vienna di un tempo come centri di espressione, amore, ordine e libertà, certamente eccessivamente idealizzati dall’autore, un po’ credulone e infantile, ma comunque rappresentativi del senso di qualcosa di perduto e mai più ritrovato, che tutti noi sopportiamo sempre più spesso al giorno d’oggi.

Un estratto dal capitolo Luminosità e ombre sull’Europa:

La generazione di oggi è cresciuta in mezzo a disastri, crisi e fallimenti di sistemi. I giovani vedono la guerra come una possibilità costante da aspettarsi quasi quotidianamente, e può essere difficile descrivere loro l’ottimismo e la fiducia nel mondo che provavamo quando noi stessi eravamo giovani all’inizio del secolo. Quarant’anni di pace avevano rafforzato le economie nazionali, la tecnologia aveva accelerato il ritmo della vita, le scoperte scientifiche erano state fonte di orgoglio per lo spirito della nostra generazione. La ripresa che stava iniziando poteva essere percepita quasi nella stessa misura in tutti i Paesi europei. Le città diventavano di anno in anno più attraenti e densamente popolate; la Berlino del 1905 non era come quella che avevo conosciuto nel 1901. Da capitale di uno Stato principesco era diventata una metropoli internazionale, che a sua volta impallidiva di fronte alla Berlino del 1910. Vienna, Milano, Parigi, Londra, Amsterdam: ogni volta che vi si tornava si rimaneva sorpresi e deliziati. Le strade erano più ampie e raffinate, gli edifici pubblici più imponenti, i negozi più eleganti. Tutto trasmetteva un senso di crescita e di maggiore distribuzione della ricchezza. Anche noi scrittori ce ne accorgemmo dalle edizioni dei nostri libri: nel giro di dieci anni il numero di copie stampate per ogni edizione triplicò, poi quintuplicò e decuplicò. Ovunque c’erano nuovi teatri, biblioteche e musei. I servizi domestici, come i bagni e i telefoni, che prima erano prerogativa di pochi ambienti selezionati, divennero disponibili per la classe medio-bassa e, ora che le ore di lavoro erano più brevi di prima, il proletariato aveva la sua parte almeno nei piccoli piaceri e nelle comodità della vita. C’era progresso ovunque. Chi osava, vinceva. Chi comprava una casa, un libro raro, un quadro, vedeva aumentare il suo valore; più audaci e ambiziose erano le idee alla base di un’impresa, più era certo il suo successo. All’estero si respirava un’atmosfera meravigliosamente spensierata: cosa avrebbe potuto interrompere questa crescita, cosa avrebbe potuto ostacolare il vigore che traeva sempre nuova forza dal suo stesso slancio? L’Europa non era mai stata più forte, più ricca o più bella, non aveva mai creduto con più fervore in un futuro ancora migliore e nessuno, a parte qualche vecchio rinsecchito, piangeva ancora la scomparsa dei “bei tempi andati”. E non solo le città erano più belle, anche i loro abitanti erano più attraenti e più sani, grazie alle attività sportive, a un’alimentazione migliore, a orari di lavoro più brevi e a un legame più stretto con la natura. La gente aveva scoperto che in montagna l’inverno, un tempo triste stagione da trascorrere giocando a carte nelle taverne o annoiandosi in stanze surriscaldate, era una fonte di luce solare filtrata, un nettare per i polmoni che faceva scorrere il sangue deliziosamente sotto la pelle. Le montagne, i laghi e il mare non sembravano più lontani. Le biciclette, le automobili, le ferrovie elettriche avevano ridotto le distanze e dato al mondo un nuovo senso dello spazio. La domenica migliaia e decine di migliaia di persone, vestite con abiti sportivi dai colori sgargianti, sfrecciavano sulle piste innevate con sci e slittini; centri sportivi e bagni erano stati costruiti ovunque. In quei bagni si vedeva chiaramente il cambiamento: mentre nella mia giovinezza una figura di uomo veramente bella spiccava tra tutti gli esemplari dal collo taurino, paffuti o con il petto di piccione, oggi i giovani agili e atletici, abbronzati dal sole e in forma grazie a tutte le loro attività sportive, gareggiavano allegramente tra loro come nell’antichità classica. Solo i più poveri rimanevano a casa la domenica; tutti i giovani andavano a passeggiare, ad arrampicarsi o a gareggiare in ogni tipo di sport, perché il mondo si muoveva a un ritmo diverso. Un anno… quante cose potevano accadere in un anno! Le invenzioni e le scoperte si susseguivano a ritmo incalzante, e ognuna di esse diventava rapidamente un bene comune. Mi dispiace per tutti coloro che non hanno vissuto questi ultimi anni di fiducia europea quando erano ancora giovani. Perché l’aria che ci circonda non è un vuoto e un’assenza, ma ha in sé il ritmo e la vibrazione del tempo. Li assorbiamo inconsciamente nel nostro flusso sanguigno, mentre l’aria li trasporta in profondità nei nostri cuori e nelle nostre menti. Forse, ingrati come sono gli esseri umani, non ci siamo resi conto in quel momento della forza e della sicurezza con cui l’onda ci portava in alto. Ma solo chi ha conosciuto quell’epoca di fiducia nel mondo sa che da allora tutto è stato regresso e oscurità.
Questo passaggio ha forse smosso qualcosa di profondo nelle vostre viscere? Un ricordo di un tempo lontano, che forse risuona in quei confini claustrali del vostro essere? Quand’è stata l’ultima volta che la nostra società attuale ha offerto una vera crescita, in qualsiasi forma o sapore, o qualsiasi cosa di valore? Quand’è che le invenzioni e i progressi scientifici sono stati fatti per avvantaggiare l’uomo comune piuttosto che, al contrario, per togliergli i mezzi di sussistenza, come tutti gli ultimi sviluppi dell’intelligenza artificiale? Quando vi siete trovati per l’ultima volta a camminare all’aperto e a guardare una scena come questa colorata del 1945, e vi siete sentiti involontariamente cadere a capofitto verso un destino indeterminato, ma eccitante, nato da un futuro che valeva la pena di essere vissuto?


È la quintessenza del joi de vivre, quella leggerezza quasi indescrivibile o galleggiamento dell’essere, che manca gravemente all’esperienza vissuta di oggi. Forse io sono solo un po’ morigerato, e molti di voi sono meravigliosamente appagati da un senso di promessa vitalizzante per il futuro. Forse questa nostalgia esistenziale vi sembra una nota stonata. Ma azzardo che sempre più spesso vi siete sentiti inciampare in un bosco crepuscolare negli ultimi tempi, con una cecità temporale che vi impedisce di vedere la luce che si affievolisce oltre gli alberi davanti a voi.

Per coincidenza, mi è capitato di leggere l’ultima opera del collega Substacker David Bentley Hart, che risuonava con lo stesso senso sincronico di ricordo perduto. Egli descrive magnificamente le magiche evocazioni della liminalità contenute nel classico romanzo francese Le Grande Meaulnes:

Per me, è qui che risiede il genio peculiare di entrambi gli uomini: nella loro capacità di evocare il senso di qualcosa che si trova sempre alle proprie spalle e che non si riesce a girare abbastanza velocemente per scorgere: il senso di un paese perduto al cui confine si può solo andare alla deriva, o di una memoria perduta di cui non si riesce ad afferrare il bordo tremulo. La loro è un’arte pervasa dal dolore dell’esilio, dalla sensazione di qualcosa di ormai scomparso che è sempre stato al tempo stesso pericolosamente fragile e profondamente amato: un’infanzia o una prima giovinezza svanite; un’innocenza scomparsa; la bellezza della Francia e dell’Inghilterra rurali, con i loro boschi e boschetti che presto saranno cancellati per lo sviluppo, e i loro campi e stradine di campagna che presto saranno coperti da autostrade asfaltate; un consenso sociale più antico, sostenuto da una serie di illusioni più rosee; un paese fatato che svanisce alla luce dell’alba; un paradiso sprecato e immemore; o qualsiasi altra cosa. Soprattutto, in una lunga retrospettiva, evoca le immagini di una generazione di bambini cresciuti nella lunga e serena primavera edoardiana, ma che non sarebbero diventati abbastanza grandi da avere figli propri.
La maggior parte delle culture ha un concetto vagamente legato a questo. Che si tratti del je ne sais quoi dei francesi, o del mono no aware dei giapponesi, o del portmanteau di vesperance, coniato da un altro scrittore di internet con l’aiuto di ChatGPT, che ho proposto prima:

Vesperanza (n.): L’emozione solitaria di un malinconico riconoscimento del presente come un’epoca in via di dissolvimento, che si tinge di anticipazione per un futuro irriconoscibile e trasformativo.
Colpisce il cuore del precipizio su cui ci troviamo oggi. L’America è l’esempio più viscerale: gli ultimi decenni sono stati segnati da un’esuberanza decadente che ha visto la cultura americana, pur con tutti i suoi eccessi, portare la fiaccola attraverso le tenebre strascicate della postmodernità, verso un futuro tangibile che potevamo anticipare con il morso dell’aria salmastra che preannuncia un mare. Nonostante la mancanza della capacità di dargli un nome o una forma, una sorta di determinazione speranzosa ci riempiva almeno di un cauto senso di ottimismo per le cose a venire.

Ma negli anni ’60 e ’70 un crescente disordine cominciò ad attanagliare il mondo. Vari shock e crisi legati al petrolio, alla politica monetaria e alla geopolitica spuntarono come cavallette. La guerra culturale iper-liberale ha abbattuto le barriere una dopo l’altra, propagandando alti livelli superficiali che smentivano i mali che si trovavano sotto la terra colpita alle radici della società. La malattia è stata sublimata attraverso i movimenti di controcultura e le scene indie in espansione, che hanno abbracciato il nichilismo e la dissoluzione, senza alcun esito felice. Mi viene in mente Ian Curtis, cantante dei Joy Division, che si uccise alla vigilia del loro primo tour nordamericano, un tema tristemente prevalente.

In tutto questo, il fervore per le promesse del domani continuava a brillare fiocamente, unendo le persone con un tocco affine non dichiarato. La società occidentale conservava la sua licenza morale di presiedere alla rubrica del bene e del male; l’Unione Sovietica offriva un facile antipodo mitologico, sfruttato a dovere dai potenti. Anche se il futuro lasciava presagire l’incertezza, rimanevano almeno alcuni elementi tangibili: la gente pianificava la propria vita perché le necessità materiali erano ancora a portata di mano: ci si poteva permettere una casa, un’auto, le vacanze, ecc. Il Paese portava la sua leadership mitizzata come una corona e il mondo si inchinava libidinosamente al suo percepito “primo diritto”.

Oggi l’America è avvolta da uno strano pantano. La cultura ha perso la sua lucentezza, il suo peso per muovere il mondo: le esche usate un tempo per intrappolarci in un mito comune di salvezza giacciono appassite come falsi idoli. Il fuoco che si sta affievolendo ha fatto sparire ogni senso di “magia” nell’Occidente che sta andando a rotoli, sostituendolo con i resti di un’incomprensibile inquietudine, un’accidia esistenziale. Le pietre miliari della cultura si sgretolano intorno a noi come edifici in decomposizione uno dopo l’altro, torri d’avorio che riscattano anni di abbandono spirituale. Marchi come Disney, che un tempo rappresentavano filoni inviolabilmente profondi della psiche americana, sono stati trasfigurati in motori di perversione – o più propriamente di conversione – con perdite miliardarie: sangue che sgorga dalla bocca di un gargoyle. L’America assomiglia ormai a un carcere di massima sicurezza, con ogni Stato che ha un blocco di celle separato, i cui residenti, in preda alla collera, si agitano con sospetto o con vera e propria ostilità l’uno verso l’altro. Il sole è tramontato sui bon vivants di un tempo e lo spettacolo dei pony è andato in malora.

La Cina, la Russia e l’Africa tracciano ora audacemente le proprie strade, ignorando le vermicolose ricadute culturali dell’America. I loro imperativi sociali sono concepiti per proteggere non solo la famiglia, ma anche la maggioranza della società; basti pensare al recente decreto di Putin secondo cui il 2024 sarà considerato “l’anno della famiglia“, con tutti gli investimenti sociali e governativi che ne conseguono; ad esempio, Putin ha già organizzato giorni fa una conferenza con il compito di delineare nuovi benefici sociali per le famiglie che hanno figli, bonus di maternità per le donne, ecc. Allo stesso modo, lo status del movimento LGBT è stato ancora una volta declassato a una regolamentazione più severa, al fine di proteggere la stragrande maggioranza dei cittadini da una propaganda dannosa e destabilizzante. Al contrario, in Occidente la maggioranza subisce i colpi e le frecce di una vera e propria nuova Inquisizione spagnola per amore di un’immaginaria minoranza vittimizzata. In realtà, questa minoranza è stata indotta e armata come mero guignol istituzionale contro coloro che rappresentano la più grande minaccia per gli ingegneri sociali dell’autorità. La società occidentale ha sempre più l’odore di una sfrenata lustrazione rituale.

A cosa ha portato tutto questo?

L’Occidente ha sbattuto contro un muro culturale; la sua visione del mondo è stata rifiutata dalla società in generale e con essa il mandato di dettare la direzione da seguire. Ci troviamo in una sorta di bardo nebuloso, una palude liminale, intrappolati tra le epoche senza una chiara via d’uscita, senza una visione soddisfacente del futuro che ci guidi o ci rassicuri. Di conseguenza, la cultura si è trasformata in un vortice stagnante: un ciclo temporale interrotto di ossessionante isolamento, solitudine e indescrivibile alienazione. Questi, i nostri nuovi idoli, sono diventati i tessuti sociali del nostro continuum dislocato, per essere occasionalmente interrotti dalle contorsioni stridenti di qualche “tecno-meraviglia” di breve durata – AI e ChatGPT come nuovi uscieri del nostro spossessamento.

Diversi pensatori hanno fatto carriera analizzando il fenomeno negli ultimi anni. Primo fra tutti il brillante Mark Fisher, che ha reso popolare il termine Hauntology, coniato da Derrida, per descrivere il modo in cui i nostri “futuri perduti” trapelano attraverso i pori del nostro presente collettivo, sintetizzandosi in un senso sempre più viscerale non solo di perdita per qualcosa che un tempo era stato promesso, ma anche di un’ineluttabile sensazione di vuoto sviscerale nei confronti del domani. In sostanza, in mancanza di un vero futuro, le figure di quello che ci è stato promesso continuano a esercitare la loro seduzione sulla nostra psiche come un ritmo ipnotico; spettri lampeggianti di ciò che è stato e sarà.

Fisher parla di “lento annullamento del tempo”, un concetto che riecheggia leggermente nel “deserto post-ideologico” di Zizek – l’idea che la modernità abbia soppiantato ogni sviluppo precedente con un paesaggio arido di non-idee, simile ai “non-luoghi” di Marc Augé, a cui Fisher fa riferimento. In breve: la post-modernità e la metamodernità come un terreno vuoto infestato dai fantasmi di un futuro che non c’è più.

Riuscite a indovinare il prevedibile destino di Fisher?

Una discendenza diretta può essere rintracciata non solo attraverso Derrida, ma anche attraverso il suo ex allievo Fukuyama, che ha notoriamente dichiarato la fine della storia, con il capitalismo neoliberale che è culminato in un apice del progresso umano, una vetta che guarda al mondo lillipuziano con un freddo sogghigno. Il conquistatore della montagna – in questo caso l’Occidente consacrato – unisce passato e futuro in un unico vessillo da apporre con orgoglio nell’eterno crepuscolo, dichiarando la Pax Liberalis.

Fukuyama potrebbe aver avuto ragione, ma non nel modo in cui immaginava. Invece il presente si è accartocciato su se stesso: quella promessa tonica della modernità, costruita sui sogni dissacrati di un futuro sventrato e reso sterile per tamponare i peccati del passato, è venuta meno.

La supremazia culturale dell’Occidente si è affievolita sotto la luce fioca del suo ingegno. Sotto la facciata seducente dell’innovazione, dell’espressione, della progressione e di tutte le altre vuote tangenti agitistiche che adornano i pannelli scintillanti delle pareti, abbiamo trovato le tracce ben nascoste di un elaborato stratagemma: una rete nascosta di corde e pulegge, l’astuta sovversione delle forze mercificanti globaliste. Una corsa di topi, una mitografia religiosa dei motori di sfruttamento dell’eccesso di capitale in fuga, il “mito del progresso” astorico. Senza la sottoscrizione del capitale predatorio globale, la locomotiva culturale si è trovata a fermarsi. Sotto l’impiallacciatura di gingilli e fronzoli non c’era altro che l’orpello sbiadito di una vuota sublimazione: la negazione dell’impulso moderatore della natura. Il punto in cui ci troviamo ora è quello in cui ci siamo sempre trovati: le sabbie mobili del tempo.

Quando Edward Bernays iniziò a progettare i copioni del moderno reality show, fu almeno abbastanza coscienzioso da mantenere le spinte comportamentali solo leggermente sfalsate rispetto ai nostri impulsi naturali. I costumi della società sono stati preservati, con solo un attento e periodico ritocco per soddisfare le esigenze degli showrunner di Big Business.

Ora i tecno-farisei eletti hanno alzato la posta in gioco. A causa dell’urgenza dell’imminente caduta della loro egemonia finanziaria, sono costretti a fistolizzarci la gola con megadosi di programmi confusi per assicurarsi che la nidiata sia abbastanza compiacente e disunita da non prendere in considerazione alcuna scomoda modalità di ricorso durante il periodo storico di declino del fariseo eletto. L’alleanza avvelenata deve durare a tutti i costi, per evitare che il tessuto della realtà imposta si disfi.

Il rumore incoerente ci intrappola in uno stato di limbo: sempre distanti, sempre alienati, sempre diffidenti gli uni verso gli altri. Questa distanza insopportabile ci lascia menestrelli spostati che scalciano sulla ghiaia sciolta del passato, rovistando alla ricerca di frammenti di quei futuri estranei, un tempo splendenti, come archeologi ribelli. Quali tesori possono nascondersi in questi campi abbandonati? Potremmo portare alla luce un significato per questi tempi fratturati?

Avendo trovato un frammento imperfetto, posizioniamo le nostre casse di risonanza in qualche angolo poco frequentato di questo vecchio fascio di fibre e portiamo avanti le nostre parole e canzoni di ricordo, sperando di accendere un ricordo o due in un compagno di viaggio. Forse qualcosa si smuoverà, per scoprire qualcosa di più di ciò che è andato perduto.

Vi va di cantare una canzone?


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Patriarcato e guerra sui sessi_di Andrea Zhok

Ci sono temi più importanti e preferirei tacere su tutto il circo che è partito dalla vicenda dell’ultimo omicidio volontario di una donna. Preferirei tacere anche per preservare la salute psichica, perché ogni qual volta ci si scontra con il muro ideologico costruito dai media correnti la frustrazione è inevitabile.
Ma alla luce del fatto che il ministro Valditara sta davvero prendendo sul serio le fiabe ideologiche correnti, una parola mi sembra necessaria.
Speravo in uno scherzo, ma leggo che il ministro dell’istruzione, in una pregevole armonia di intenti con l’opposizione, sta davvero proponendo un’ora a settimana di “educazione alle relazioni” nella scuola secondaria. Non solo, la proposta prevede anche l’intervento in queste ore di educazione sentimentale di “influencer, cantanti e attori per ridurre le distanze con i giovani e coinvolgerli”.
Forse fraintendiamo l’intervento del ministro, che probabilmente ha il solo scopo di incrementare l’afflusso alle scuole private. Come spiegare altrimenti questa ulteriore accentuazione della tendenza della scuola pubblica a diventare un interminabile catechismo dell’ovvio, che ripete in bianco e nero gli stessi contenuti che si ritrovano, a colori, su una rivista media da parrucchiere? Tra ramanzine moralistiche, alternanze scuola-lavoro e consulti psicologici gli spazi per insegnare qualcosa di sostanziale nella scuola pubblica si stanno riducendo a feritoie.
Ma purtroppo questo è solo piccola parte del problema.
Il problema più grosso è che l’interpretazione ufficiale degli eventi delittuosi aventi per oggetto donne ha subito da tempo un sequestro ideologico. Esiste una singola lettura che anche persone intelligenti e al di sopra di ogni sospetto ripetono pappagallescamente, come se fosse una sorta di verità acclarata. E questa lettura non è semplicemente sbagliata, che sarebbe il meno, ma è proprio socialmente dannosa, anzi dannosa per le stesse dinamiche che si immagina di voler correggere.
Provo a spiegarmi in breve.
La lettura d’ordinanza di questi eventi delittuosi è la seguente. Si tratterebbe di espressioni di un’atavica, arcaica (patriarcale), concezione subordinante della donna che la concepisce come una proprietà, un oggetto a disposizione, e che perciò non ne accetta l’indipendenza e la punisce con la violenza e persino con la morte.
Dunque, dissimulato sotto la superficie di un mondo moderno e formalmente egalitario serpeggerebbe ancora questo “residuo patriarcale”, tenace e ostico da sconfiggere, che richiede perciò una rieducazione della popolazione – e della popolazione maschile in ispecie.
Ora, io credo che questa lettura delle violenze e degli omicidi spesso per futili motivi che oggi riscontriamo, tra cui anche quelli che hanno per oggetto donne, non c’entri assolutamente nulla con alcuna presunta “cultura patriarcale”. E credo che le ricette che vengono proposte, lungi dall’essere risolutive, possano soltanto aggravere il problema.
Perché mai?
Partiamo da un po’ di pulizia terminologica e mentale. Tutti si riempiono la bocca di “patriarcato” senza avere per lo più alcuna idea di ciò di cui si tratta. Ora, l’unico senso antropologicamente accettabile della nozione di “patriarcato” (che non va confuso con la patrilinearità della discendenza) è il modello sociale diffuso un tempo in molte civiltà dedite all’agricoltura o alla pastorizia, dove l’ultima autorità cui ricorrere per i dissidi interni e per i rapporti verso l’esterno era rappresentato dal maschio più anziano del gruppo (patriarca). Queste strutture sociali erano (e in alcune parti del mondo ancora sono) caratterizzate da una sostanziale assenza delle legislazione pubblica, da forti nessi comunitari all’interno di famiglie estese connesse, che dovevano risolvere molte questioni oggi risolte dalla giustizia ordinaria. Gli ordinamenti patriarcali sono tipicamente preindustriali e definiti da ordinamenti famigliari estremamente solidi e vincolanti.
La prima domanda che dovrebbe venire in mente è: cosa diavolo c’entra questa forma sociale con il mondo occidentale odierno? Ovviamente non c’entra assolutamente nulla, ma questa impostazione del problema nasce negli anni ’70, in cui l’idea che ci fossero ancora residui patriarcali da abbattere era il principale oggetto polemico del second-wave feminism. Oggi, mezzo secolo dopo, stiamo ancora qua a berci un’interpretazione che era tirata per i capelli allora e che oggi è letteralmente fluttuante nel vuoto.
A questo punto c’è sempre qualcuno che se ne viene fuori dicendo che sono questioni filologiche, di lana caprina, che se non va bene il termine patriarcato chiamiamolo maschilismo che va bene uguale.
Solo che il problema non è meramente terminologico, ma è legato a quale si ritiene essere la radice causale di violenze e assassini odierni. Se si evoca il “patriarcato” o simili si evoca l’immagine di un residuo ostico del passato che stentiamo ancora a lasciarci dietro le spalle. Dunque per superarlo dovremmo procedere ulteriormente con l’abbattimento di qualunque simile residuo del passato: bando al familismo, bando all’autorità paterna, bando al normativismo, sempre in odore di autoritarismo, ecc.
Ora, prima di esporre quella che credo essere un’interpretazione più plausibile, provo a sottoporre all’attenzione qualche fatto empirico.
Se il problema delle violenze si radica nei residui patriarcali in una qualche versione, allora i paesi che hanno società maggiormente modernizzate, con minori vincoli famigliari e con una posizione di maggiore indipendenza delle donne dovrebbero essere esenti da questo problema, o almeno presentarlo in misura molto minore.
Ma è davvero così?
Curiosamente ciò che si profila è esattamente l’opposto.
Se guardiamo alle violenze domestiche vediamo che (dati di un paio di anni fa) i primi paesi per denunce di violenza subita dalle donne sono quattro paesi proverbialmente emancipati: Danimarca (52% delle donne lamentano di aver subito violenza), Finlandia (47%), Svezia (46%), Olanda (45%), in coda classifica in Europa troviamo la Polonia (16%).
Naturalmente qui c’è la replica pronta: si tratterebbe di un mero effetto statistico, dovuto al fatto che in quei paesi, proprio grazie alla maggiore emancipazione, le donne denunciano di più.
Può darsi.
Allora per tagliare la testa al toro andiamo a vedere la categoria degli omicidi volontari di donne (cosiddetti “femminicidi”), che registra eventi non soggetti a filtri interpretativi.
Qui, secondo i dati Eurostat aggiornati al 2019, il profilo appare leggermente diverso, ma non troppo.
In testa in questa macabra classifica stanno costantemente i paesi baltici (Lettonia, Lituania, Estonia), insieme a Malta e Cipro, con Finlandia, Danimarca, e Norvegia poco sotto e Svezia a metà classifica. All’estremo opposto, costantemente agli ultimi tre posti troviamo Italia, Grecia e Irlanda, che si scambiano solo di posto di anno in anno.
Per un confronto numerico (2019), l’Italia presenta un dato di 0,36 “femminicidi” ogni 100.000 abitanti, la Norvegia 0,61, la Germania 0,66, la Francia 0,82,la Danimarca 0,91, la Finlandia 0,93, la Lituania 1,24.
Ora, cosa hanno in comune Italia, Irlanda, Grecia?
Non molto, salvo il fatto di essere tutte società con un ruolo tradizionalmente molto forte delle famiglie, società di cui spesso si è lamentata la limitata modernizzazione, anche per il peso significativo delle istituzioni religiose.
Cosa hanno in comune gran parte dei paesi del Nord e in parte dell’Est Europa? Sono società che hanno subito processi estremamente accelerati di modernizzazione, con laicizzazione forzosa, e frantumazione (riconosciuta al loro stesso interno) delle unità famigliari.
Ecco, una volta messi giù questi dati, per quanto sommari, io credo che un’intepretazione molto più sensata delle eventuali radici culturali della violenza e dell’omicidio per futili motivi di donne sia rintracciabile nell’esatto opposto del “patriarcato”.
Lungi dall’aver a che fare con ordinamenti famigliari estesi, vincolanti, con elevata normatività, tipici del patriarcato, ci troviamo di fronte a contesti dove le forme famigliari sono dissolte o in via di dissoluzione, dove i giovani crescono educati più da tik-tok e dai video trap che dalle famiglie, società dove peraltro da tempo la figura del padre latita ed è spesso definita dagli psicologi come effimera. In questi contesti, “modernizzati ed emancipati” si allevano in maggior misura identità fragili, disorientate, anaffettive, che si sentono costantemente sopraffatte dalle circostanze, e che perciò, occasionalmente, possono più facilmente ricorrere alla violenza, che è il tipico modo di reagire a situazioni di sofferenza che non si è in grado di comprendere né affrontare.
Molti altri aspetti andrebbero approfonditi, ma se, come io credo, questa è una lettura assai più probabile dei fatti, le strategie che stiamo adottando per affrontare il problema vanno precisamente nella direzione dell’ennesimo aggravio dei problemi.
Questo in attesa delle lezioni di educazione sentimentale di Sfera Ebbasta.

OPPENHEIMER, recensione teppistica_di Roberto Buffagni

OPPENHEIMER, recensione teppistica
Ieri pomeriggio ho visto “Oppenheimer”, un brutto film. Anticipo che mi sono perso gli ultimi venti minuti perché mi sono addormentato, come al solito mi ero svegliato molto presto e non avevo potuto fare il solito pisolino pomeridiano.
Prima di vedere il film, di Robert Oppenheimer non sapevo niente tranne quel che sanno tutti, che era stato il direttore del “Manhattan Project”, che dopo la bomba aveva citato le Baghavad-Gita, che aveva avuto qualche problema con il maccartismo, che portava un caratteristico cappello. Dopo il film, non ho imparato niente di più tranne un aspetto interessante e preoccupante della sua vita di cui parlerò dopo.
“Oppenheimer” è un brutto film perché un film incentrato sulla vita di un uomo che non ce ne mostra l’interiorità, con le sue motivazioni, il suo percorso e il suo cambiamento è un brutto film, a meno che l’uomo non sia Conan il Barbaro.
Dal film si evince quanto segue (che non so in che misura corrisponda alla realtà biografica):
Oppenheimer è un fisico brillante. Quanto brillante non si sa. L’impressione che si ricava è che fosse un brillante fisico di second’ordine (essere di second’ordine quando di prim’ordine sono Heisenberg, Bohr, Einstein è ovviamente un risultato notevolissimo). Pare invece che fosse un organizzatore e un venditore di primissimo ordine; anzitutto, venditore di se stesso, della sua immagine e della sua superiorità, tant’è vero che riesce a radunare menti brillantissime e a coordinarle nel progetto che dirige.
Non ha opinioni solide in merito alla politica o alla società. È genericamente “di sinistra” perché in quegli anni, praticamente tutti gli intellettuali che lo circondano lo sono. Il momento della verità coincide con la guerra di Spagna, che con la creazione della Legione internazionale a sostegno del governo repubblicano fornisce l’occasione per dimostrare quanto si fa sul serio a tutti gli intellettuali.
Ovviamente si può fare sul serio per davvero, ovvero prendere parte alla guerra anzitutto per sostenere le proprie idee e la causa repubblicana e antifascista, come fanno Orwell, che poi scrive il bel libro “Homage to Catalunia”, e Simone Weil, l’improbabile guerriera che appena giunta in Spagna si rovescia sui piedi un pentolone d’acqua bollente e deve tornare a casa, e poi, letto il meraviglioso “Les Grands Cimetières sous la lune”, scrive una lettera indimenticabile a Bernanos, un uomo di destra che militava dall’altra parte; oppure si può fare sul serio per finta, cioè per far vedere a tutti quanto siamo più fighi e valorosi di voi, come Hemingway, che fa un giro in Spagna e poi scrive uno dei libri più farlocchi della letteratura universale, “For Whom the Bell Tolls”, un sogno bagnato adolescenziale che pensando all’età in cui lo scrisse risulta seriamente imbarazzante.
Oppenheimer non fa nessuna delle due cose perché, a quanto risulta dal film, è abbastanza astuto e lungimirante da non compromettersi politicamente e così bruciarsi la possibilità di accedere all’ufficialità che desidera ardentemente. Si limita insomma a sostenere le cause di sinistra a parole.
Allo stesso modo non ha opinioni solide in merito alla bomba atomica. È persuaso che bisogna arrivarci prima dei tedeschi, e ovviamente ci sta. Dopo Hiroshima e Nagasaki ha qualche perplessità, che si manifesta nei seguenti modi: citazione dalla Baghavad-Gita (“Io sono morte, il distruttore di mondi”) e contrarietà alla ricerca per la bomba all’idrogeno, come se un aumento quantitativo della potenza distruttiva fosse il punto chiave. Non firma la petizione contro la bomba atomica promossa da Leo Szilard. Butta lì qualche auspicio inconcludente su una trattativa mondiale per la rinuncia generale agli armamenti atomici, non cogliendo il punto della questione: l’atomica non si può disinventare, le ipotesi possibili sono solo a) gli USA finché ne hanno il monopolio nuclearizzano l’URSS e creano un governo mondiale, come suggerito da Bertrand Russell al Segretario alla Difesa statunitense b) si entra nella meccanica avventurosa della deterrenza.
Ci sarebbe poi il tema della mutazione ontologica inaugurata dalla bomba atomica, ossia il fatto nuovo che l’uomo, uscito dalla minorità con l’Illuminismo come dice Kant, è diventato capace di distruggere sul serio se stesso, ma a questo tema Oppenheimer pare non dedicare pensiero alcuno.
Nel dopoguerra, con l’inizio della Guerra Fredda, il sostegno a parole alle cause di sinistra lo frega perché essendo molto vanitoso ha pestato i piedi a personalità importanti che si vendicano.
L’unica cosa nuova che ho imparato su Oppenheimer è che a un certo punto sbologna il figlio piccolo a una coppia di amici, perché sia lui sia la moglie non hanno voglia di occuparsene. Gli amici accettano, forse (è una mia inferenza, non c’è nel film) perché sono entrambi comunisti e sperano che Oppenheimer ricambi il grosso favore con informazioni sulla ricerca atomica da passare all’URSS.
Al momento della consegna del piccolo sventurato, Oppenheimer dice più o meno: “Siamo due persone orrende, insensibili ed egocentriche” e l’amico comunista ribatte “Le persone orrende, insensibili ed egocentriche non sanno di esserlo”, una affermazione totalmente falsa, come ognun sa: sono i PAZZI che credono di essere Napoleone che non sanno di essere pazzi, gli egocentrici sanno benissimo di esserlo e salvo qualche eventuale rimorso, di solito a parole, gli va bene così, sennò non sarebbero egocentrici.
In effetti Oppenheimer e sua moglie, se hanno fatto quel che il film mostra, SONO due persone orrende, insensibili ed egocentriche, anche perché sono entrambi ricchi di famiglia e se proprio non ce la facevano a occuparsi del bambino potevano tranquillamente pagarsi una o più governanti. Il film non spiega come mai non gli sia venuta in mente questa soluzione più semplice e tradizionale del problema “bambino piccolo che dà noia”. Si evince, o almeno io evinco, che non gli è venuta in mente perché sono effettivamente due persone orrende, insensibili ed egocentriche che vogliono sbarazzarsi totalmente della povera creatura che hanno messo al mondo, e per farla fuori non hanno abbastanza pelo sullo stomaco.
Quanto al film come tale, il povero Cillian Murphy che interpreta Oppenheimer brancola nel buio sgranando gli occhi dal primo all’ultimo minuto (salvo errore per gli ultimi venti in cui ho dormito), perché nessun attore può interpretare bene un personaggio così, sfuggente come un’anguilla, che resta sempre identico a se stesso e inspiegato nelle sue motivazioni. Gli altri attori forniscono il minimo sindacale perché i loro personaggi – tutti di contorno anche quando sarebbero interessanti, come l’amante di O. – sono anch’essi costruiti sulla sabbia, figure di cartone.
Bella fotografia di paesaggi, di esplosioni, di manifestazioni dell’energia con tante righine ondulatorie luminose che ci rinviano alla fisica quantistica (di cui si capisce, ovviamente, zero).
Costo: sei euro grazie alla riduzione per vecchi over 65. That’s all folks.

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Gli intellettuali e FB, di Vincenzo Costa

Gli intellettuali e FB
Un caro amico, ma di quelli proprio cari che si conoscono da almeno trent’anni, dice di non accettare dibattiti su FB, che i luoghi del dibattito sono altri: libri, articoli, etc. Premesso che la libertà di ognuno è insindacabile e che l’amicizia viene prima di ogni giudizio politico, resta che questa tesi è – secondo me- aristocratico-reazionaria, per diverse ragioni che investono la nozione stessa di cultura nel mondo della vita mediatizzato:
1) la filosofia europea inizia nelle piazze, che corrispondono a quella piazza virtuale che è oggi FB e gli altri social. Socrate poteva anche non andarci.
2) i social hanno mille limiti e altrettanti pericoli, ma sono ormai l’ambiente entro cui si muovono i flussi culturali.
3) quel criterio esclude dalla circolazione del senso tutti, lo limita a quattro gatti. Alla fine per partecipare al dibattito bisigna aver letto per anni la Logica di Hegel e tutto Adorno in tedesco.
4) i social sono un potente correttivo all’intellettualismo, come lo sono le lezioni per gli studenti. Mentre tra studiosi si fa in fretta a perdersi dietro a intenzionalità, contraddizione dialettica etc. nei social e a lezione non puoi bleffare: devi essere chiaro, per cui rappresentano un luogo di pulizia concettuale.
5) la circolazione delle idee e la riflessività sono cambiata nelle società contemporanee, avvengono per “diffusione” (qui sono oscuro, vero, ma credo si capisca): i concetti si diffondono come un’epidemia, attraverso criteri di rilevanza dettati dalle urgenze del presente.
6) ovviamente i social non sono un luogo privilegiato. Senza libri, articoli, luoghi deputati a discussioni più a grana fine saremmo più poveri, ma i social sono sorgente genuina di nuove idee, permettono lo scambio e la circolazione del senso tra mondo della vita e sistema culturale, e senza di essi questa circolazione si interrompe e il sistema culturale diventa autoreferenziale e inutile.
7) quell’idea è difensiva: ha paura dell’esposizione, di rischiarsi nel fuoco della piazza. Alla fine crea una nicchia di significato, in cui si riconosco gli adepti, e così concetti tutt’altro che definiti e che forse sono scemenze senza capo né coda diventano categorie interpretative della realtà.
8 ) c’è molta molta spocchia in quella posizione, della serie: non discuto con voi merdacce, se volete leggete i miei libri. Ecco, questo proprio no, questo è- per come intendo io la cultura e la sua funzione- inaccettabile.
9) alla base c’è forse l’aristocratismo Francofortese, la sua incapacità di comprendere la nozione di cultura popolare, ma questo richiederebbe davvero se non un libro almeno una serie articolati di post.
10) la verità è che FB è faticoso, se si cerca di usarlo come luogo di circolazione del senso, e certo ognuno di noi è già gravato da tante cose. E tuttavia, dato il sistema mediatico esistente, rappresenta l’unico spazio di intersoggettivita’ discorsiva, l’unico luogo di incontro e di scambio di idee. Poi chiaro che ci sono momenti in cui diviene necessario prendersi delle pause, ma questo deriva solo dai limiti di tempo e di energia.

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