Lettera al Presidente, lettre à monsieur le Président_di e a cura di Giuseppe Germinario

Invito a leggere questa lettera-appello pubblicata in Francia il 22 aprile scorso. Segue qualche considerazione_Giuseppe Germinario

“Per un ritorno all’onore dei nostri governanti”: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo

Su iniziativa di Jean-Pierre Fabre-Bernadac, ufficiale di carriera e direttore del sito di Place Armes , una ventina di generali, un centinaio di alti ufficiali e più di mille altri soldati hanno firmato un appello per un ritorno di onore e dovere all’interno della classe politica. Valeurs Actuelles diffondono, con la loro autorizzazione, la lettera intrisa di convinzione e impegno da parte di questi uomini legati al loro Paese.

Signor Presidente,
Signore e Signori del Governo,

Signore e Signori, Membri del Parlamento,

L’ora è seria, la Francia è in pericolo, diversi pericoli mortali la minacciano. Noi che, anche nella riserva, rimaniamo soldati di Francia, non possiamo, nelle attuali circostanze, restare indifferenti alle sorti del nostro bel Paese.

Le nostre bandiere tricolori non sono solo un pezzo di stoffa, simboleggiano la tradizione, attraverso i secoli, di coloro che, qualunque sia il loro colore della pelle o la loro fede, hanno servito la Francia e hanno dato la vita per essa. Su queste bandiere, troviamo in lettere d’oro le parole “Onore e Patria”. Tuttavia, il nostro onore oggi sta nella denuncia della disgregazione che colpisce la nostra patria.

– Disgregazione che, attraverso un certo antirazzismo, si manifesta con un unico scopo: creare sul nostro suolo un malessere, addirittura odio tra le comunità. Oggi alcuni parlano di razzismo, indigenismo e teorie decoloniali, ma attraverso questi termini è la guerra razziale quella che vogliono questi odiosi e fanatici partigiani. Disprezzano il nostro Paese, le sue tradizioni, la sua cultura, e vogliono vederlo dissolversi portandogli via il suo passato e la sua storia. Così attaccano, attraverso statue, antiche glorie militari e civili analizzando parole vecchie di secoli.

– Disgregazione che, con l’islamismo e le orde suburbane, porta al distacco di molteplici lembi della nazione per trasformarli in territori soggetti a dogmi contrari alla nostra costituzione. Tuttavia, ogni francese, qualunque sia il suo credo o il suo non credo, è ovunque a casa in Francia; non può e non deve esistere nessuna città, nessun distretto in cui non si applicano le leggi della Repubblica.

– Disgregazione, perché l’odio ha la precedenza sulla fraternità durante le manifestazioni in cui il potere usa la polizia come agenti ausiliari e capri espiatori di fronte ai francesi in gilet giallo che esprimono la loro disperazione. Questo mentre individui infiltrati e incappucciati saccheggiano aziende e minacciano le stesse forze di polizia. Tuttavia, questi ultimi applicano solo le direttive, a volte contraddittorie, fornite da voi, governanti.

I pericoli aumentano, la violenza aumenta di giorno in giorno. Chi avrebbe previsto dieci anni fa che un giorno un professore sarebbe stato decapitato al momento di uscire dal liceo? Tuttavia, noi, servitori della Nazione, che siamo sempre stati pronti a garantire con la vita il nostro impegno – come richiesto dal nostro stato militare, non possiamo essere di fronte a tali atti degli spettatori passivi.

Inoltre, coloro che guidano il nostro paese devono assolutamente trovare il coraggio necessario per sradicare questi pericoli. Per fare ciò, spesso è sufficiente applicare le leggi esistenti senza debolezze. Non dimenticare che, come noi, la grande maggioranza dei nostri concittadini non ne può più delle vostre colpevoli tergiversazioni.

Come ha detto il cardinale Mercier, primate del Belgio: “Quando la prudenza è ovunque, il coraggio non è da nessuna parte. ” Allora, signore e signori, basta rinvii, la situazione è seria, il lavoro è enorme; non perdete tempo e sappiate che siamo pronti a sostenere politiche che tengano conto della salvaguardia della nazione.

D’altra parte, se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un’esplosione e l’intervento dei nostri camerati in servizio in ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri connazionali sul territorio nazionale.

Come si vede, non è più tempo di procrastinare, altrimenti domani la guerra civile metterà fine a questo caos crescente e le morti, di cui voi sarete responsabili, si conteranno a migliaia.

I generali firmatari:

General de Corps d’Armée (ER) Christian PIQUEMAL (Legione straniera), General de Corps d’Armée (2S) Gilles BARRIE (Fanteria), Generale di divisione (2S) François GAUBERT ex governatore militare di Lille, Generale di divisione (2S ) Emmanuel de RICHOUFFTZ (fanteria), generale di divisione (2S) Michel JOSLIN DE NORAY (truppe di marina), generale di brigata (2S) André COUSTOU (fanteria), generale di brigata (2S) Philippe DESROUSSEAUX di MEDRANO (treno), aria Generale di brigata (2S) Antoine MARTINEZ (Air Force), Generale di brigata aerea (2S) Daniel GROSMAIRE (Air Force), Generale di brigata (2S) Robert JEANNEROD (Cavalleria), Brigata generale (2S) Pierre Dominique AIGUEPERSE (fanteria) generale Brigade (2S) Roland DUBOIS (Trasmissioni), gBrigadier General (2S) Dominique DELAWARDE (Fanteria), Brigadier General (2S) Jean Claude GROLIER (Artiglieria), Brigadier General (2S) Norbert de CACQUERAY (Directorate General of Armament), Brigadier General (2S) Roger PRIGENT (ALAT), Brigadier Generale (2S) Alfred LEBRETON (CAT), Medico generale (2S) Guy DURAND (Servizio sanitario dell’esercito), Contrammiraglio (2S) Gérard BALASTRE (Marina).

Il documento ha una rilevanza intrinseca sia per la qualità che per il numero dei firmatari, tutti militari di vario ordine e grado dell’armée, che per il tono sorprendentemente ultimativo impresso. Un accento che non lascia troppi spazi a vie di mezzo e tempi lunghi. Può essere l’indizio di qualcosa di grosso e di risolutivo in via di preparazione, come di una prosopopea senza esito fattivo, ma che porterà di sicuro discredito e dileggio ai promotori pur mossi dalle migliori intenzioni. Sicuramente è un grido di allarme. La situazione in Francia, pur comune a gran parte dei paesi occidentali, in realtà è particolarmente grave se addirittura un politico dall’approccio globalista e cosmopolitico del calibro del Presidente Macron, coltivato certosinamente in quegli ambienti, ha dovuto assumere occasionalmente e artatamente le vesti del sovranista; vesti che non sono con ogni evidenza le sue.
Assume un peso ancora più significativo e interessante sia per il merito esplicito e sottinteso che per il contesto che l’appello ha smosso ed entro il quale sta agendo.
  • nel merito ci rivela in primo luogo quello che sul nascere avevamo prontamente sottolineato a suo tempo in vari articoli del sito: il movimento di massa dei “Gilet Gialli” per le sue modalità operative e per la contestuale diffusione territoriale presupponeva l’esistenza di addentellati se non proprio di una direzione e indirizzo veri e propri di importanti centri decisionali e politici presenti nelle istituzioni francesi. La sorprendente denuncia, per altro più che fondata, nel documento dell’utilizzo violento, strumentale e decisamente sproporzionato di settori delle forze dell’ordine sono una sorta di certificazione di quanto sottolineato. Stigmatizza giustamente e apertamente la funzione politica dell’antirazzismo e delle rivendicazioni antidiscriminatorie prevalenti odierni, capovolgendoli paradossalmente in forme subdole di razzismo, di frammentazione e separatismo identitari tali da erodere irreversibilmente le fondamenta della coesione sociale e della nazione. L’islamismo radicale in realtà è forse la forma più scoperta e radicale di queste manifestazioni, ma ne esistono altre, concomitanti, molto più subdole, perché espressione diretta della cultura occidentale e sostenute da buona parte delle élites dominanti; anche questi, aspetti più volte evidenziati nei nostri articoli.
  • Riguardo al contesto e alle dinamiche innescate il documento ci dice analogamente molto di più del significato letterale delle parole ivi contenute. Si rivolge correttamente di fatto a tutte le forze politiche e a tutti i rappresentanti delle istituzioni. I promotori infatti hanno stigmatizzato gelidamente l’invito inopportuno e intempestivo di Marine Le Pen ad aderire al suo partito, il RN ex Front National. Una conferma dei rapporti deteriorati e di sorda diffidenza già emersi dopo pochi mesi dalle elezioni europee e a pochi mesi dal loro ingresso con la fuoriuscita di importanti esponenti di questa area dal partito della Le Pen, ma anche della funzione di eterna oppositrice di comodo di quest’ultima nel panorama politico transalpino. Si inserisce in una vasta campagna politica portata avanti da organi di informazione conservatori in Francia ben consolidati ed affermati, tra i vari questo https://www.valeursactuelles.com/clubvaleurs/politique/philippe-de-villiers-jappelle-a-linsurrection/ Segue numerose vicende significative tra le quali la clamorosa defenestrazione per via giudiziaria di Fillon, personaggio per altro inadeguato, dalla candidatura alle ultime presidenziali e le rumorose dimissioni del popolare Pierre de Villiers, fratello di Philippe, da comandante delle forze armate nel luglio del 2017 e del quale per altro brilla l’assenza tra i firmatari.

Il dibattito e gli schieramenti politici in Francia sono certamente meno delineati rispetto alla situazione offerta dagli Stati Uniti, certamente più nitidi e chiari rispetto alla frivolezza e alla irrilevanza dei temi affrontati in Italia. Si avvicina a quella americana nella frammentazione geografica e socioeconomica e nel livello politico di ostilità. Può aiutare a decifrare ciò che in realtà si muove meno consapevolmente e in drammatico ritardo anche nel nostro paese. Rivela le intenzioni politiche e le prospettive di autonomia presenti in maniera strutturata in una parte rilevante della sua classe dirigente, ma evanescenti nella nostra. Prospettive ed intenzioni da realizzare però con una qualche possibilità di successo solo a patto di dosare l’azione politica e gli obbiettivi alla reale condizione di forza del paese, ormai strettamente integrato politicamente e ormai militarmente nel campo occidentale piuttosto che essere guidata dalla illusione di grandeur di tempi ormai passati. E’ il discrimine che passa tra la eventuale ripetizione del tentativo gaullista degli anni ’60 e una sua disastrosa parodia. In Francia non mancano espressioni e autorevoli pubblicazioni dotate dell’adeguata consapevolezza della posta in palio. L’intervista a de Villiers, citata in precedenza, fa invece parte della categoria dei velleitari, forse non a caso così ampiamente promossa. Parla di insurrezione, un atto politico forte ed estremo, necessario in delimitati momenti, contingenze e ambiti di azione; in realtà pensa ad una battaglia culturale conducibile in altri ambiti che prescindono tra l’altro dalla detenzione effettiva di potere. Parla di un nemico politico, in realtà lo confonde e lo assimila ad una componente e/o un avversario, il capitalista, in particolare il rentier, in posizione dominante in ambito economico, largamente influente in ambito sociale, ma dal punto di vista politico e nelle sue varie frazioni solo parte di centri decisionali cooperanti e in conflitto tra di essi; una figura alla quale le forze politiche, anche le più “antagonistiche”, non sanno che offrire modalità diverse di regolazione piuttosto che la sua estinzione vista la inesistenza di alternative. Un limite di impostazione che accomuna paradossalmente le componenti radicali dei due versanti opposti e contrapposti. Da qui l’omologazione fuorviante ad un’unica tendenza del radicalismo islamico che, per quanto settario, ha una funzione aggregante e alternativa e del particolarismo identitario e nichilista, legato alla rivendicazione del desiderio personale come diritto e della diversità come convivenza giustapposta di gruppi separati. Il richiamo alla patria, alla nazione, alla identità nazionale rischia di ridursi ad una sterile declamazione. L’avversario politico diventa indefinito, come regolarmente accaduto con i movimenti mondialisti antiglobalisti e il più delle volte quello sbagliato o quello meno rivelante, portando il più delle volte inavvertitamente la serpe in casa. Così per de Villiers, non solo per lui, sul podio di nemico numero uno assurge l’economista Klaus Schwab, il gruppo di Davos, la cupola globalista senza avvedersi che tali gruppi certamente esistono, perpetrano propositi di cambiamento della natura umana e di controllo totalitario globale, ma solo se compatibili con le mire di controllo e di potere politico di centri decisionali, di unità statali tanto totalitari nelle intenzioni quanto costretti a prendere atto dell’esistenza di altri centri contrapposti e potenzialmente dalle mire similari. Le implicazioni di tale rappresentazione sono molteplici: si può cadere nella tentazione velleitaria di un pedissequo ritorno al passato tipico dei reazionari, nel rifiuto della tecnologia piuttosto che nella valutazione del suo utilizzo e dei principi che ne informano gli sviluppi, fermo restando che la conoscenza e l’ambizione di controllo dei processi naturali sono parte integrante dello sviluppo scientifico quali che siano i rapporti sociali e a prescindere da come questi rapporti vi entrino; si possono proporre “sante alleanze” (ad esempio tra tutti gli stati) contro una cosiddetta cupola che è in realtà parte integrante del sistema di potere di qualcuno di essi; non si riesce a percepire l’esistenza di varie “cupole” anche finanziarie al servizio di centri e stati “amici” o ritenuti tali o esenti per natura da certi esercizi di potere. La lettera, forse al di là della valutazione e delle stesse intenzioni dei firmatari, assume quindi una importanza politica enorme, specie in una Europa addomesticata ormai da oltre settanta anni. Vedremo verso quale versante penderà la propensione dei promotori; quel declivio ne determinerà la sorte. In Italia ci guardiamo bene dal raggiungere quel crinale che obbligherebbe senza scampo ad una scelta. Potrebbe essere ancora una volta la nostra salvezza da tragedie immani ma anche successi che invece la Francia ha conosciuto; sicuramente, nel migliore dei casi, si tratterebbe di una sopravvivenza di una classe dirigente, meno di un popolo, costantemente con il cappello in mano. Giuseppe Germinario

ORA E SEMPRE, RESILIENZA_di Andrea Zhok

ORA E SEMPRE, RESILIENZA.
Insomma, per farla breve, stiamo approvando un piano che impegnerà la politica nazionale per i prossimi dieci anni almeno.
Nel piano, oltre ai fondi, ci sono le condizionalità, di cui alcune riecheggiano temi ben noti: riforma delle pensioni, ripianamento del debito, privatizzazioni.
Il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” viene approvato senza alcun dibattito parlamentare degno di nota.
Di dibattito pubblico e democratico non parliamo proprio, che per la comicità ci sono spazi appositi.
In compenso a babbo morto nei prossimi mesi ce ne illustreranno i contenuti, con particolare riferimento ai nostri doveri.
Dopo tutto mica pretenderemo che sia senza contraccambi siffatta epocale munificenza? (750 miliardi per 450 milioni di cittadini, versus 1900 miliardi per 330 milioni di cittadini negli USA).
Quel che non possiamo non apprezzare è la sincerità del nome, dove campeggia il sostantivo che definisce la nuova epoca: RESILIENZA.
Non più la Resistenza, che è una tipica azione ostile e poco costruttiva, nutrita di linguaggio d’odio.
No, la nuova parola d’ordine è Resilienza, ovvero la capacità di un ente di subire traumi, urti, stress, torsioni e bastonature varie tornando monotonamente in piedi.
Praticamente un programma politico.
Vi passeremo sopra con qualche autoblindo, però poi voi non fate le vittime che non tira aria: rimettetevi in piedi, che a portare il basto ci servite pimpanti e collaborativi.

Stati Uniti, enigmi strategici_conversazione con Gianfranco Campa

Biden ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan dopo vent’anni di ostilità. Trump cacciato dalla porta, ma che entra dalla finestra. Per un fronte che dovrebbe chiudersi, se ne riaprono almeno due ancora più pericolosi. Intanto opzioni che durante la guerra fredda erano un tabù, strumenti di deterrenza con un semplice tweet appaiono ora fruibili con agghiacciante indifferenza. Ma negli States chi detiene il controllo delle leve?Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vg2nxl-stati-uniti-enigmi-strategici-conversazione-con-gianfranco-campa.html

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE, di Pierluigi Fagan

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE. Il 20 gennaio, Joe Biden prende ufficialmente possesso della Casa Bianca, sei giorni dopo cade il Governo Conte, tre settimane dopo, entra in carica il Governo Draghi. Tre settimane dopo si dimette da segretario PD Zingaretti e pochi giorni dopo torna dalla legione straniera francese lo sbiadito Letta. Molinari a nomina Exor quindi casa Agnelli, è già direttore di Repubblica da un anno. I primi di Aprile, il nuovo ed indaffarato Presidente del Consiglio italiano trova il tempo per far la sua prima visita estera in Libia dove si sta tentando una via di stabilizzazione ancora incerta basata su un governo di origine affaristico-tripolitana, ovvero la parte salvata dalla capitolazione contro le armate di Haftar (Egitto, Russia, Emirati Arabi, Francia), dalla Turchia. Ma qualche giorno dopo, il cauto e diplomatico Draghi dà del dittatore a Erdogan nel mentre il capo del governo libico e con lui mezzo governo si reca in Turchia a portare omaggi e prender ordini. Nel mentre, un ragazzo campano già quasi leader di un movimento politico dai contorni imprecisi, già Ministro degli Esteri di un governo che guardava con amicizia alla Russia e viepiù alla Cina, diventa il primo straniero ricevuto ufficialmente a Washington dal piccolo ma coriaceo Blinken. Il crash course atlantista di Di Maio è spettacolare: German Marshall Fund, Brooking Institute, Atlantic Council, tra quelli che si possono citare, ma -in questi casi- è norma vi siano anche incontri più riservati, brevi, chiari e precisi. NYT, infine, incorona pubblicamente Draghi come nuovo perno di una Europa rinascente ora che Merkel tramonta, la Germania diventerà oggetto di instabilità dilaniata da crisi di leadership, mentalità inadeguata ai tempi (sotto il profilo economico e monetario), capitolo Nord Stream, ambiguità filo-russe e filo-cinesi. Draghi serve anche a contenere, ma con persuasione, Macron e la strana coppia (che in verità non si ama affatto sul piano personale), oltreatlantico è già brandizzata “Dracon”. Macron viene per secondo come si vede, per esigenze di sonorità del neologismo forse, perché a sua volta indebolito dalla perdita dell’asse con Merkel e dalla prossima resa dei conti elettorali tra un anno verso la quale Le Pen sta assumendo un peso sempre più solido e potenzialmente convincente.
Se Mattarella è, per via di ordinamento giuridico, il perno condizionante ogni evoluzione di quadro politico italiano commissariato dagli Stati Uniti negli ultimi settanta a passa anni e se Draghi è il nuovo statista italiano quale l’Italia non ha più dai tempi del centro-sinistra (Andreotti, Moro, Craxi), ma con più prestigio internazionale non certo politico ma economico-bancario che conta anche di più, vorrei dire due cose su Letta, ma appena accennate.
Saprete che Letta dopo esser stato uno dei tanti vuoti a perdere delle eterne baruffe chiozzotte italiche in cui governi senza potere si alternano come in una eterna commedia dell’arte che l’Autore non sa più come terminare dilatando finti colpi di scena che ormai non hanno alcun senso, da decenni e decenni, deve aver ricevuto il saggio consiglio di andar a fare l’Erasmus della Grande Politica in Francia, diventando addirittura direttore della più prestigiosa scuola di affari politici internazionali Sciences-Po (1872). Sebbene, l’ultima versione ufficiale on line dei membri della Commissione Trilaterale, non lo riporti, fino ad un mese fa risultava attivo membro del think tank atlantista fondato nel 1973 da Rockefeller, Kissinger e Brzezinsky. Nel Comitato esecutivo, siedono Mario Monti e Paolo Magri dell’ISPI. Altri italiani sono: Dassù (vice-Ministro affari esteri governi Monti e Letta, Aspenia, Aspen Institute, Fondazione Italia USA, LUISS), Vittorio Grilli ora JP Morgan ma ai tempi di Ciampi braccio operativo di Draghi al Tesoro, l’ex ignota giornalista RAI Monica Maggioni che dopo una lunga visita negli Stati Uniti divenne uno dei pochi giornalisti autorizzati a seguire dal di dentro (embedded) l’invasione Bush dell’Iraq fino a diventare magicamente presidente della RAI sotto il governo Renzi. Abbiamo poi manager, banchieri e Tronchetti Provera e fino a poco tempo fa c’era anche Maurizio Molinari.
A due anni dalla fondazione, nel pieno della crisi degli anni ’70, la Trilateral che do per nota ai lettori nella sua essenza, ispirazione e ruolo, dà mandato a tre studiosi di fare una analisi strategica sul momento occidentale. Ne esce il famoso rapporto “La crisi della democrazia” di Cozier, Watanuki e l’ineffabile Huntington (quello dello “Scontro delle Civiltà” Garzanti, 1996), edito in Italia con prefazione di Gianni Agnelli. In sostanza, il rapporto avvertiva i committenti che per il sistema occidentale le cose andavano a mettersi in sempre più complicata prospettiva e se non si poneva rimedio alle vampate democratiche generate dai processi politici degli anni ’60 e ’70 ritenuti eccessivamente politicizzati, cioè “democratici”, gli ordini di sistema sarebbero inevitabilmente collassati. Tradotto, non era la democrazia ed esser in crisi era la crisi ad esser generata dalla democrazia o meglio se non generata, peggiorata sino alle più estreme conseguenze. Inizia così un movimento di pensiero poco noto agli studiosi che si sveglieranno solo ad anni Novanta inoltrati quando si cominciò a parlare di “post-democrazia”. Per via delle magiche sincronie tra immagini di mondo – think tank – mondo dei saperi e delle conoscenze ufficiali, l’anno dopo il rapporto Trilateral, a Stoccolma riscoprono un dimenticato economista austriaco tale Friedrich von Hayek e gli danno addirittura un Nobel (1974). Ma per esser più chiari, due anni dopo lo danno anche a Milton Friedman. Così inizia la temperie neoliberista, da analisi, strategie, narrazioni, simboli, che fertilizzano menti e consessi da cui nascono processi poi concretizzati da Thatcher prima e Reagan poi, fino al Washington Consensus (1989) e poi al WTO (1994). Analizzati dagli economisti, questi quadri teorici sono in realtà di natura politica e geopolitica.
Sul piano della teoria, possiamo farla semplice: da metà anni ’70 inizia un teorizzato processo di costante diminuzione della democrazia occidentale poiché la società politica va in conflitto con la società di mercato e la società di mercato è l’ordinatore degli Stati Uniti d’America che è l’ordinante del sistema occidentale. In Italia c’è un partito che si chiama Partito Democratico che ha oggi un segretario che va in giro a parlare di giovani, donne, diritti umani, erasmi e nuovi mondi sostenibili, il quale è membro storico di un think tank che da decenni pilota la de-democratizzazione occidentale.
Ma chi se ne frega. Tutti presi dalla critica neoliberale, anticapitalista, dai sovranismi, dai populismi, dalla critica culturale del politicamente corretto, dalla settimana di “poltrone e sofà” o da quella omofoba, dalla moneta sovrana o come fosse Antani con la scappellamento a destra (lo scappellamento è sempre “a destra”), dai palpitamenti per Putin con brividini euro-asiatici, o il fiero Johnson o il divino Trump, a nessuno viene in mente di fare una serie riflessione politica sulla democrazia. A volte si avverte un vasto a diffuso disagio sul termine, parlo di gente normale, tra noi stessi.
La democrazia è una entità concettuale sconosciuta in teoria politica. Non c’è nel pensiero liberale se non come democrazia delle élite così come nacque più di tre secoli fa in Inghilterra, non c’è nella teoria marxista (neo-post, cinquanta sfumature di Marx), è appena trainata in secondo piano da quella socialista, è aborrita da tutti gli elitisti, odiata dai conservatori, dai fascisti, dai nazionalisti, dai vari mélange di rossobrunisti, financo dai progressisti, dai né di destra-né di sinistra, seppellita dalle ambigue nebbiosità mentali dei post moderni e dei biopolitici fino ai chierici dei tre monoteismi ed i sacerdoti scientisti e gli intelligenti artificiali. Se ne occupano attivamente solo gli americani ed il loro giro largo di affiliati e se ne occupano per svuotarla sistematicamente di senso reale per usarne il brillante simulacro che è un “sotto il vestito niente”, un caso paradigmatico di conflitto schizoide tra parola e cosa.
Sovrano è chi decide in auto-nomia, cioè di chi è in grado di darsi la legge (nomos) da sé (auto) altro che Schmitt. E se ne non sei in grado, arruolati in una delle tante offerte di vociante servitù volontaria, anche quella critica, l’importante è parlar d’altro, lascia fare, lascia passare, lascia pensare, non ti preoccupare, puoi anche lamentarti tanto se non hai una teoria forte a riguardo, non capirai neanche di cosa si sta parlando.

Il Maghreb e le sue sfide per l’Europa, di Antonia Colibasanu

Proseguiamo con l’analisi dell’area mediterranea che ha per perno principale gli interventi di Antonio de Martini, ma che si avvale del contributo di altri analisti. E’ un’area cruciale per l’Italia anche se la sua classe dirigente, negli ultimi due decenni, non riesce che andare a rimorchio spesso e volentieri di uno o l’altro degli attori più intraprendenti protagonisti in quella zona_Giuseppe Germinario

Il Maghreb e le sue sfide per l’Europa

I paesi della regione hanno un passato complicato con le potenze europee e tra di loro.

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È in corso una battaglia per l’influenza sul Mediterraneo. Il suo fronte più contestato è a est, dove i progetti turchi sui giacimenti petroliferi hanno messo Ankara direttamente contro Grecia e Cipro e indirettamente contro il loro benefattore, la Francia. A volare sotto l’orizzonte dei radar, tuttavia, è un’altra gara tra Turchia e Francia sul confine più meridionale del Mediterraneo: il Maghreb.

La Francia è la principale potenza europea nella regione. Per i paesi del Maghreb, i rapporti con Parigi erano una necessità politica ed economica; il commercio, gli investimenti e l’influenza francesi, alcuni dei quali residui del colonialismo, erano troppo importanti da rinunciarvi. Ma da allora le cose sono leggermente cambiate. La Francia non dispone più del potere di una volta e lo sconvolgimento politico provocato dalle rivolte della Primavera araba ha inaugurato diversi nuovi governi. La Francia considera la regione importante per la sua sicurezza, ma ha bisogno di riequilibrare la sua posizione alla luce di queste nuove sfide.

Questo spiega in parte perché il primo ministro francese ha annullato il suo viaggio in Algeria il 9 aprile. Ha detto che la cancellazione era dovuta alle preoccupazioni per la pandemia, ma è difficile ignorare quanto si siano deteriorate le relazioni tra i due paesi. Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da tensioni diplomatiche. A gennaio, ad esempio, il presidente francese Emmanuel Macron si è rifiutato di scusarsi ufficialmente per l’occupazione francese dell’Algeria. Ad aprile, il capo dell’esercito algerino ha invitato pubblicamente la sua controparte francese, che pensava di essere venuta per discutere di cooperazione militare, a consegnare le mappe dei siti di test nucleari abbandonati.

Ma le questioni franco-algerine non sono solo questioni franco-algerine. Svolgono un ruolo negli affari di quasi tutte le aree del Maghreb – in particolare il Sahara occidentale , il territorio conteso nel vicino Marocco – che confliggono con le ambizioni turche in Nord Africa.

Una questione divisiva

L’8 aprile, il partito di Macron ha annunciato che avrebbe aperto un ufficio nella città marocchina meridionale di Dakhla, situata nel Sahara occidentale. La dichiarazione è arrivata pochi giorni dopo che CMA CGM, la principale società di trasporti e logistica francese, ha aperto una filiale in tutti i porti marocchini, compreso Dakhla. Gli sforzi di Parigi per rafforzare l’influenza nel Sahara occidentale hanno portato molti a sospettare che il governo si stia preparando a riconoscere la sovranità del Marocco sul territorio.

La regione è una questione divisiva all’interno della politica marocchina. Il Sahara occidentale è stato sotto il controllo spagnolo fino al 1974 ed è stato annesso dal Marocco nel 1975. Ciò ha portato a un conflitto armato di 16 anni tra il governo marocchino e il Polisario, un gruppo politico composto dal popolo saharawi della regione e sostenuto dal rivale regionale, l’Algeria. Nel 1991 è stato raggiunto un cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite e il Marocco si è impegnato a indire un referendum sull’indipendenza. Il referendum non è mai avvenuto e il Polisario prosegue la sua battaglia.

L’etnia saharawi considera come propria patria il territorio occupato del Sahara occidentale. I nordici credono che sia semplicemente un’altra parte del regno marocchino.

La regione rimane sotto il controllo del Marocco. L’ONU la considera un’area di conflitto, mentre l’Algeria sostiene la sua indipendenza. Da quando il Marocco e l’Algeria hanno ottenuto l’indipendenza, sono stati in conflitto al loro confine, che rimane chiuso e contestato anche oggi.

Per l’Algeria, la priorità strategica fondamentale è il controllo dei territori meridionali che ne minacciano la sicurezza. L’economia algerina dipende dalla produzione di energia e la maggior parte delle sue riserve e dei suoi impianti di produzione si trovano nel sud. Le porose frontiere del deserto e l’attività militante hanno costretto l’Algeria a stabilire un sistema di forte sicurezza su due fronti separati: il Mali a sud-ovest e la Tunisia e la Libia a est. Per proteggere il sud-ovest, l’Algeria ha stabilito una partnership strategica con la Mauritania, che confina con la maggior parte del Sahara occidentale, rendendo il Marocco l’unico vicino sfidante per l’Algeria nel Maghreb.


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Il Marocco, d’altra parte, non ha le risorse di idrocarburi dei suoi vicini per sostenere le spese per la difesa. Ha invece investito nelle sue relazioni con gli Stati Uniti e i regni arabi del Golfo e con la Francia.

L’immagine più ampia

Il Marocco e l’Algeria sono i paesi più sviluppati della regione del Maghreb. L’area è unita dalle montagne dell’Atlante e dalla sua storia condivisa di dominazione ottomana ed europea. L’Algeria era una colonia francese mentre il Marocco era un protettorato spagnolo e francese e la Tunisia un protettorato francese. Gli ottomani cercarono di raggiungere Gibilterra, ma nessuna delle province del Maghreb era sotto il loro stretto controllo. Tutto questo può essere spiegato dalla geografia: mentre il Marocco si affaccia sull’Oceano Atlantico, che lo rende più difficile da dominare, gli altri due sono stati del Mediterraneo. Strategicamente, però, sia la Francia che gli ottomani volevano raggiungere Gibilterra, quindi dovevano mantenere un attento rapporto con il Marocco.

Laddove le relazioni franco-marocchine sono sempre state relativamente buone, Parigi ha lentamente perso terreno in Algeria e Tunisia dal 2011. La crisi economica europea ha indebolito l’economia francese, quindi le ex colonie hanno iniziato a vedere meno commercio e investimenti francesi in arrivo. Entrambi sono diventati sempre più instabili, ma l’Algeria è stata duramente colpita a partire dalla metà del 2014, quando i prezzi del petrolio hanno iniziato a diminuire. Senza riforme economiche in atto e senza investimenti e aiuti francesi, entrambi i paesi hanno assistito a un aumento delle proteste che hanno innescato un cambiamento politico. Naturalmente è cresciuto anche il sentimento antifrancese.


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Molti nel Maghreb hanno dovuto cercare un sostituto della Francia. Si inserisce la Turchia che vuole rivendicare l’influenza persa dalla caduta dell’Impero Ottomano. Dal 2011, la Turchia ha sostenuto le rivolte popolari che hanno rovesciato gli autocrati della regione, ha sostenuto i movimenti islamici e ha promosso l’immagine della Turchia come difensore del mondo musulmano.

In termini pratici, la Turchia ha concentrato la sua strategia sul commercio e sugli investimenti. L’approccio ha funzionato meglio in Algeria, dove più di 1.200 aziende turche hanno aperto un’attività. Mentre l’Algeria è diventata il quarto fornitore di gas della Turchia negli ultimi dieci anni, la Turchia è diventata il terzo importatore di prodotti algerini. La Turchia ottiene una fonte affidabile di energia a basso costo e l’Algeria ottiene un successo economico nel contenzioso.


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Per la Tunisia, le aperture turche sono state una fonte sia di progresso che di attrito. Gli sforzi di Ankara per far rivivere i siti e le comunità musulmane non si sono tradotti in gran parte in una partnership commerciale e di investimento. Il commercio è cresciuto notevolmente dopo il 2011, soprattutto a vantaggio della Turchia, poiché le imprese tunisine locali, in particolare quelle che lavorano nel settore tessile, sono state colpite dai prodotti turchi a basso costo. Ciò ha costretto il governo di Tunisi a reimporre alcuni dazi all’importazione nel 2018.

Da allora Tunisi si è rivolta a Parigi per chiedere aiuto. Nel 2020, i due hanno firmato un accordo quadro triennale del valore di 350 milioni di euro (420 milioni di dollari) per “sostenere le politiche pubbliche tunisine in vari campi” e Parigi ha anche inviato supporto medico nella lotta contro il COVID-19. In cambio, Parigi preme sull’attuale leadership tunisina per organizzare il 50 ° anniversario dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia, una mossa simbolica per una società che rimane divisa. Tuttavia, il sostegno locale al modello culturale turco sfida il governo a estendere i legami con la Francia.

Il Marocco è stato il paese più difficile da corteggiare per la Turchia. L’accordo di libero scambio che hanno firmato nel 2004 è stato rivisto nell’ottobre 2020, aumentando le tasse sui beni turchi importati fino al 90%. Per il Marocco, la motivazione alla base era tanto politica quanto economica. Non solo le merci turche a buon mercato stavano invadendo il suo mercato, ma i funzionari volevano placare altri alleati come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che sono concorrenti naturali della Turchia. La mossa è giustamente vista come supporto per il boicottaggio informale dei prodotti turchi guidato dai sauditi.

Implicazioni

Il conflitto diplomatico tra Francia e Turchia non è nuovo. Tuttavia, la crescente guerra di parole tra i presidenti turco e francese sta acuendo le tensioni tra la Turchia e i suoi alleati del Golfo come il Qatar da una parte, e tra la Francia e gli alleati del Golfo come gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita dall’altra. Potrebbe avere lo stesso effetto nel Maghreb, dove gli schieramenti stanno diventando sempre più chiari. Le cose saranno probabilmente più complicate per la Tunisia, dove Francia e Turchia stanno spingendo per ottenere maggiore influenza.

La religione, in particolare l’Islam, è diventata sempre più una questione controversa in Francia. Quasi il 10 per cento della popolazione francese si identifica come musulmana e, secondo quanto riportato dai media, la maggior parte dei quartieri più poveri conosciuti come “banlieues” sono abitati da immigrati ritenuti appartenenti, nella loro maggioranza, alla fede islamica. Molti immigrati in Francia provengono dal Maghreb: un terzo del totale e circa 100.000 in più di quanto ha ricevuto da altri paesi dell’Unione europea. Nel 2019, la comunità di immigrati algerini in Francia era di circa 850.000 unità. Circa 300.000 della popolazione francese sono tunisini. Poiché la Turchia sta influenzando la politica di entrambe le ex colonie francesi, è probabile che le loro popolazioni, comprese quelle che entrano in Francia da questi paesi in cerca di opportunità economiche, siano ugualmente influenzate dalla diplomazia culturale turca.


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Nel Maghreb, più paesi riconoscono la regione del Sahara occidentale come parte del Marocco (anche in modo non ufficiale), più tutto ciò potrebbe alimentare le tensioni con l’Algeria. Considerando l’attuale contesto economico, né il Marocco né l’Algeria vogliono un conflitto in piena regola. Tuttavia, la storia mostra che i paesi non possono sempre controllare l’entità delle tensioni, in particolare nelle aree montuose e desertiche dove le escalation apparentemente minori possono intensificarsi rapidamente. La situazione non è agevolata dal fatto che Algeri e Rabat hanno intrapreso una corsa agli armamenti circa 15 anni fa, con entrambi i paesi che accumulavano le loro scorte per un potenziale conflitto. Il confine – e il Maghreb in generale – necessita di una sorveglianza ravvicinata poiché qualsiasi conflitto tra i due paesi coinvolgerebbe la Turchia e la Francia, con ripercussioni sulla sicurezza e stabilità dell’Europa nel suo insieme.

https://geopoliticalfutures.com/the-maghreb-and-its-challenges-for-europe/

Perché è illusorio persistere nel continuare a credere che sia possibile una “pacificazione dei ricordi” con Algeria e Ruanda, di Bernard Lugan

Esistono e sono  esistiti i processi di decolonizzazione e le guerre di liberazione, esiste il neocolonialismo, esistono l’utilizzo delle ricostruzioni storiche e la retorica della liberazione per determinare le dinamiche geopolitiche e per giustificare la sopravvivenza di regimi che hanno tradito le aspettative di indipendenza e di sviluppo o che si sono rivelati fallimentari nel perseguirle_Giuseppe Germinario

Emmanuel Macron si ostina a rifiutare di vedere che Francia, Algeria e Ruanda non parlano della stessa cosa quando viene sollevata la questione della memoria. Per Parigi, la storia è una scienza che permette di conoscere e comprendere il passato. Per Algeri e per Kigali, è un mezzo per legittimare i regimi in atto attraverso una storia “organizzata”. Essendo l’incomunicabilità totale, i dadi vengono quindi caricati dall’inizio. Da qui l’affondamento del “Rapporto Stora” e del “Rapporto Duclert”.

Algeria e Rwanda non vogliono una “pacificazione della memoria” nel senso in cui la intende la Francia, poiché ogni normalizzazione passerebbe necessariamente per concessioni di memoria che farebbero esplodere le false storie su cui poggia la “legittimità” del popolo. Due regimi. Il presidente algerino Tebboune, inoltre, lo ha più che chiaramente riconosciuto quando ha dichiarato che “la memoria nazionale non può essere oggetto di rinuncia o di contrattazione”.
In definitiva, la Francia cerca una pace commemorativa basata sulla conoscenza scientifica degli eventi passati quando l’Algeria e il Ruanda chiedono il suo allineamento con le proprie storie inventate.

Prima di imbarcarsi in modo evaporato nel processo di appiattimento dei ricordi, Emmanuel Macron avrebbe potuto prevedere la notevole differenza di approccio dei paesi interessati, il che gli avrebbe poi permesso di capire che il suo approccio era destinato al fallimento. Ma, per questo, avrebbe dovuto chiedere consiglio a veri specialisti di storia dell’Algeria e del Ruanda, a conoscitori delle mentalità dei loro leader. Tuttavia, e al contrario, per il fascicolo algerino, il presidente francese ha scelto di rivolgersi a uno storico militante che ha firmato una petizione a sostegno degli abusi di sinistra islamo dell’UNEF, e, per il fascicolo ruandese, a uno storico totalmente incompetente nel la questione. Benjamin Stora è in linea con la storia ufficiale algerina scritta dall’FLN quando la tesi di Vincent Duclert su “Il coinvolgimento degli scienziati nell’affare Dreyfus” non lo rende un conoscitore della complessa alchimia etno-storica del Ruanda… e non lo consente osare parlare, contro tutta la cultura regionale, di “assenza di antagonismi etnici nella società tradizionale ruandese” (!!!).

Come poteva Emmanuel Macron aspettarsi un “avanzamento” dal “Sistema” vampirico che pompa la sostanza dell’Algeria dal 1962, quando osserva con più che gelosa cura che la storia legittima il suo dominio sul paese non è messa in discussione? È davvero una questione di sopravvivenza. L’omologo algerino di Benjamin Stora non ha quindi proposto una revisione storica, lasciando il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Saïd Chengriha, ad alzare la posta in gioco con la Francia evocando, contro lo stato delle conoscenze, i “milioni di martiri di la guerra d’indipendenza ”… In una frase, il tentativo dei poveri Elisiani di conciliare i punti di vista tra Francia e Algeria è stato così polverizzato. Inoltre, pur rafforzando il rapporto di fiducia instaurato tra i presidenti Macron e Tebboune, il generale Chengriha ha mostrato chiaramente che il presidente algerino è solo un fantoccio e che è l’istituzione militare che governa e impone la sua legge.

Padroni del tempo, i generali algerini ora metteranno pressione su Emmanuel Macron, chiedendogli di consegnare o di espellere alcuni grandi personaggi dell’opposizione attualmente profughi in Francia … La ricerca eterea e ideologica di un consenso storico avrà quindi portato una disfatta francese.

Nel caso del Ruanda la situazione è decisamente caricaturale perché il “Rapporto Duclert” va anche oltre il “Rapporto Stora” in quanto si allinea quasi del tutto con le posizioni di Kigali, legittimando così la falsa storia su cui poggia la legittimità “del regime del generale Kagame. Una storia radicata in tre postulati principali:
– La Francia ha sostenuto ciecamente il regime del presidente Habyarimana.
– Sono stati gli hutu che, il 6 aprile 1994, hanno abbattuto l’aereo del presidente Habyrarimana per compiere un colpo di stato che avrebbe innescato il genocidio.
– Era programmato il genocidio dei Tutsi.

Tuttavia, al contrario:

– Mentre la tragedia in Ruanda è stata causata dall’attacco lanciato dall’Uganda nell’ottobre 1990 da rifugiati tutsi o disertori dell’esercito ugandese, il “Rapporto Duclert” afferma, così come Kigali, che tra il 1990 e il 1993 la Francia ha appoggiato ciecamente il regime ruandese . Tuttavia, ogni intervento militare francese era subordinato a un’anticipazione ottenuta dal presidente Habyarimana nella condivisione del potere con coloro che gli avevano dichiarato guerra nell’ottobre 1990 … La differenza è significativa.

– Voltando le spalle allo stato delle conoscenze e allineandosi nuovamente con la tesi ufficiale di Kigali, il “Rapporto Duclert” suggerisce che sarebbero stati i suoi stessi sostenitori ad abbattere, il 6 aprile 1994, l’aereo del presidente Habyarimana. Un’ipotesi che anche i giudici Jean-Marc Herbaut e Nathalie Poux, incaricati del caso dell’attentato, hanno ritenuto non essere supportati da nessuno degli elementi del fascicolo. Inoltre, se si fossero presi la briga di interessarsi concretamente all’operato del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR), e di non parlarne attraverso letture di seconda o terza mano, gli autori del “Report Duclert” avrebbero appreso che questo tribunale, che lavora sulla questione da più di vent’anni, ha chiaramente escluso ogni responsabilità per gli hutu nell’attacco che ha scatenato il genocidio.

– Per gli editori del “Rapporto Duclert” tutto questo non ha importanza perché, secondo loro, e ancora come sostiene Kigali, poiché il genocidio era programmato, sarebbe comunque avvenuto, anche senza l’attacco … Ora, ancora una volta, è stato più che chiaramente stabilito dinanzi all’ICTR che il genocidio era la conseguenza dell’assassinio del presidente Habyarimana …

Grazie al “Rapporto Duclert”, Kigali è ora in una posizione di forza per chiedere alla Francia delle scuse ufficiali che dovranno essere supportate dal pagamento di contanti “forti e morbidi” … E se Parigi si dimostrasse ribelle, come il “Rapporto Duclert” ha, contro ogni verità storica, riconosciuto una parte della responsabilità francese nella genesi del genocidio, consigliato dall’uno o dall’altro studio legale dall’altra parte dell’Atlantico, il Ruanda potrebbe quindi decidere di citare in giudizio la Francia in tribunale internazionale… Si potrebbe quindi annunciare un nuovo ricatto. Frutto della debolezza francese e della volontà del presidente Macron di risolvere la controversia con il Rwanda, ora è la Francia che è a pancia in giù …

Bibliografia
– Per tutto ciò che riguarda la critica alla storia ufficiale dell’Algeria resa popolare in Francia da Benjamin Stora, rimandiamo al mio libro Algeria, History in the place .
– Per tutto ciò che concerne le critiche alla storia ufficiale del genocidio in Ruanda, riprese nel “Rapporto Duclert”, rimandiamo al mio libro Rwanda, un genocide en questions e alle mie relazioni di esperti dinanzi all’ICTR dal titolo Dieci anni di esperienza prima del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR)
– Per tutto ciò che riguarda il pentimento in generale, rimandiamo al mio libro Responding to decolonials, islamo-leftists and terrorists of pentance .
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

Multinazionali e politica_un seminario organizzato da Socint e Unical con Dario Fabbri e Mario Caligiuri

“Multinazionali e politica” è il titolo assegnato ad un seminario organizzato da Unical (Università della Calabria) e Socint (Società di intelligence) tenutosi lunedì 12 aprile. Il titolo richiama un tema ricorrente e ampiamente dibattuto negli ambienti accademici, tra gli analisti e negli ambienti politici, compresi quelli più radicali. Le chiavi di interpretazione delle dinamiche che intercorrono tra i due ambiti, offerte dai due relatori, in particolare da Dario Fabbri, sono molto meno scontate in particolare nel panorama politico italiano.

Dario Fabbri di fatto riconosce al Politico, nella accezione di ambito, una funzione prevalente la cui prerogativa è la pervasività nei vari ambiti delle attività umane, compresa quella economica, piuttosto che la sua delimitazione comprendente in pratica l’intero spazio pubblico alternativo a quello privato e nella vulgata rispetto alle imprese. Da qui la subordinazione dei soggetti economici e delle loro logiche, comprese quelle delle multinazionali, agli indirizzi e alle manifestazioni di potere politici dei quali gli apparati statali sono la più grande espressione. Non è il capitalismo, né sono i capitalisti a determinare in assoluto le scelte politiche. I loro soggetti fanno certamente parte a pieno titolo dei vari centri decisionali in cooperazione e conflitto tra di loro, capaci di innervare i gangli istituzionali pubblici e privati; ma ne sono solo una parte. Per agire in quanto capitalisti, però, necessitano di regole, norme, strumenti persuasivi e coercitivi dei quali altri sono titolari.

Sulla base di queste chiavi interpretative viene meno quella sovradeterminazione del capitalismo, tanto più dei singoli capitalisti, siano essi proprietari o manager, rispetto all’azione dei politici, specie di quelli detentori delle leve istituzionali. Laddove questa sovradeterminazione dovesse apparire si tratterebbe più che altro di un inganno e tuttalpiù della manifestazione di debolezza e dipendenza politica e geopolitica di determinate formazioni sociali rispetto alle altre. L’Unione Europea ne è l’esempio più manifesto.

Non si tratta di negare l’importanza cruciale dell’affermazione di questo rapporto sociale di produzione, come definito da Marx meglio di altri, quanto piuttosto di ricollocarlo rispetto all’essenza del politico. Il rapporto capitalistico costituisce una delle basi fondamentali sulle quali si conformano i ceti sociali e quindi le classi dirigenti e poi ancora i centri decisionali; contribuisce significativamente ad alimentarne la dinamicità e il ricambio. Tutte prerogative ampiamente riconosciute da tutti, nel bene e nel male e in grado di garantire ad esso un futuro ancora senza scadenze; riconosciute di fatto anche da coloro i quali continuano a definirsi “anticapitalisti” quando in realtà essi stessi, al pari degli avversari/nemici, propugnano di fatto la regolazione di quel modo di produzione senza per altro riuscire a ridefinire sino in fondo il legame culturale e soprattutto “sentimentale” con i propri padri, che si chiamino Marx, Lenin, Mao e così via. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_ Non è stato possibile fornire una versione “You tube” della registrazione, probabilmente per la dimensione del file o per mia imperizia. La registrazione su “rumble” comprende sia l’intervento di Dario Fabbri di circa 80 minuti che il successivo di Mario Caligiuri. Per l’ascolto, premere sul link qui sotto

https://rumble.com/vfnm5n-multinazionali-e-politica-con-dario-fabbri-e-mario-caligiuri.html

Mediterraneo! La Turchia nel quadrante orientale_con Antonio de Martini

Proseguiamo con la nostra conversazione a tappe con Antonio de Martini. Il focus rimane il Mediterraneo, l’attenzione si incentra sulla Turchia. Un paese emergente che pretende l’ingresso a pieno titolo tra le potenze regionali protagoniste; quanto per merito proprio, quanto per le debolezze altrui? Uno scacchiere intricato dove le potenze regionali avranno sempre più nuove carte da giocare. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Türkische Kavallerie auf der Heeresstrasse südlich von Jerusalem.
April 1917

https://rumble.com/vfhcz3-mediterraneo-la-turchia-nel-quadrante-orientale-con-antonio-de-martini.html

 

 

La Cina come Paese del Terzo Mondo, Di George Friedman

La Cina come Paese del Terzo Mondo

Di: George Friedman

Si discute molto sulla crescita dell’economia cinese e sull’espansione dell’influenza internazionale della Cina. Non c’è dubbio che l’economia cinese si sia costantemente espansa negli ultimi 40 anni, dalla morte di Mao Zedong. Ma Mao aveva creato una Cina straordinariamente povera, basata sull’ideologia e sul desiderio di eliminare il potere della vecchia élite economica concentrata lungo la costa. Mao li temeva come una minaccia alla rivoluzione. In effetti, temeva la tendenza borghese verso la ricchezza e il comfort come sfida alla rivoluzione. Ha soffocato l’economia cinese e, di conseguenza, praticamente qualsiasi comportamento razionale da parte dei governanti cinesi avrebbe generato una crescita drammatica. La Cina, con una vasta forza lavoro potenziale e una cultura fondamentalmente sofisticata, inevitabilmente si sollevò perdendo la strana e malevola morsa di Mao.

Quarant’anni dopo, con una struttura politica ragionevolmente razionale, la Cina è diventata una delle più grandi economie del mondo, seconda solo agli Stati Uniti. Il divario tra Stati Uniti e Cina è ancora sostanziale, con il prodotto interno lordo cinese solo al 70% degli Stati Uniti. Questo è ovviamente molto più stretto di 40 o addirittura 20 anni fa. Tuttavia, è un divario sostanziale. Ma il PIL rappresenta la produzione aggregata di una nazione e, da un punto di vista aggregato, l’economia cinese di 14 trilioni di dollari è un miracolo.

Ma semplicemente non è il miracolo che sembra essere. Una misura di un’economia tra le tante è il PIL, l’economia nel suo insieme. Un altro modo di guardare a un’economia è il PIL pro capite, l’aggregato diviso per la popolazione. Questo dà un senso, imperfetto ma utile, di come stanno i cittadini cinesi rispetto ai cittadini di altri paesi. Guardando l’economia nel suo insieme, la Cina è impressionante. Nel PIL pro capite, è un’altra questione.

Ci sono due modi per misurare queste cose. Uno è il PIL nominale, misurato rispetto al dollaro USA, la valuta di riserva mondiale. L’altro modo per misurare è la parità del potere d’acquisto (PPP). Questo esamina la quantità di alloggio o cibo che può essere acquistato per un importo fisso di denaro. In apparenza questo è il modo migliore, ma soffre di due difetti. Uno è che in un paese vasto come gli Stati Uniti o la Cina, il costo degli alloggi o di altri beni varia notevolmente. Trovare un unico valore per l’alloggio – e la miriade di altri punti dati – che include San Francisco e Little Rock, Arkansas, può essere fatto, se accetti di essere lontano molte volte. Inoltre, questi sono ovviamente manipolati per ragioni politiche. Tuttavia, il PIL nominale e il PPA insieme danno un buon senso della realtà. Nel PIL nominale pro capite, la Cina è al 59 ° posto nel mondo, dietro Costa Rica, Seychelles e Maldive. In termini di PPP, la Cina è classificata 73, subito dietro Guyana e Guinea Equatoriale.

In confronto, gli Stati Uniti sono al quinto posto nominalmente, dietro a Lussemburgo, Svizzera, Irlanda e Norvegia. Gli Stati Uniti sono settimi in termini di PPP. Il PIL pro capite tende ad essere più elevato nei paesi relativamente piccoli, socialmente ed etnicamente omogenei, costruiti attorno alla finanza o ad una singola merce di alto valore. Gli Stati Uniti sono grandi e socialmente ed etnicamente diversi, con un’economia molto diversificata. Date le circostanze, classificarsi al quinto posto nel mondo è un risultato significativo.

Le classifiche della Cina di 59 e 73, e dei paesi a cui si colloca accanto, offrono un’immagine molto diversa dello status della Cina. Su base aggregata, è battuto solo dagli Stati Uniti. Su base pro capite, si colloca tra i paesi del Terzo mondo molto più poveri. Quindi ci sono almeno due modi per guardare alla Cina: come potenza economica di livello mondiale e come paese del Terzo Mondo.

È possibile essere entrambi. Quando aggreghiamo la ricchezza della Cina, ha la capacità di plasmare parti dell’economia globale e di costruire una capacità militare significativa, ma quando aggrega valore economico, può farlo solo trasferendo ricchezza ad alcuni settori della società e lontano da altri settori. In altre parole, coloro che beneficiano della strategia cinese controllano e consumano una ricchezza molto maggiore rispetto al PIL medio. Per estensione, coloro che non fanno parte di questo gruppo possiedono una quota sostanzialmente inferiore. In termini comparativi, i cinesi più ricchi godono di uno status alla pari degli americani più ricchi; la maggior parte degli altri vive peggio di qualcuno in Guyana o in Guinea Equatoriale.


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Tutti i paesi hanno la disuguaglianza. A volte può non avere alcun effetto, altre volte può destabilizzare il paese. La Cina è cresciuta creando un’economia vasta e significativa. La maggioranza della società che non fa parte dell’élite costiera che gestisce il commercio internazionale, le banche e gli investimenti, o che fa parte della struttura militare-industriale, vive vite almeno paragonabili ai loro equivalenti negli Stati Uniti. La grande maggioranza all’interno del paese vive nell’ordine della Guinea Equatoriale. Pochi americani vivono vite in quest’ordine, anche se indubbiamente alcuni possono essere trovati.

Il PIL pro capite fornisce un numero irreale. Ma ti permette di vedere come una nazione si confronta con i suoi pari. Ma poi devi immaginare il grado di disuguaglianza richiesto per mantenere il PIL aggregato e il modo in cui si concentra la ricchezza, e quindi considerare le conseguenze di vivere ben al di sotto del reddito pro capite. Nel caso della Cina, crea una vita di massa vasta ma a volte difficile da vedere come il Terzo Mondo. Negli Stati Uniti, anch’essi pieni di disuguaglianze, gli esclusi vivono ancora nel contesto delle aspettative euro-americane. Con le eccezioni, non vivono al di sotto delle vite di quelli della Guinea Equatoriale.

Il PIL aggregato concentrato per l’alta tecnologia o la finanza può avere un potere significativo nel mondo. Il rischio è il malcontento sociale degli esclusi. Va ricordato che quando Mao fallì in una rivolta a Shanghai, portò la Lunga Marcia verso l’interno per radunare un esercito di contadini tra quelli esclusi dalla ricchezza accumulata tra alcuni impegnati nel commercio internazionale lungo la costa, e usò quell’esercito per rovesciare il regime che hanno accusato della loro miseria. Xi Jinping ovviamente conosce bene la storia e il giro di vite su alcuni dei più ricchi in Cina, fatto in modo molto visibile, credo sia inteso a dimostrare l’impegno del Partito Comunista Cinese nei confronti dei poveri. La domanda è se può fare di più senza danneggiare la macchina che ha creato il PIL aggregato del suo paese. Potrei sbagliarmi nella mia speculazione sulla natura delle sue azioni, ma il fatto è che lo status della Cina, sotto ogni punto di vista, ha generato una ricchezza pari alla migliore del mondo e una povertà pari alla peggiore.

MONTESQUIEU A PECHINO, di Pierluigi Fagan

MONTESQUIEU A PECHINO. La notizia è la firma del Comprehensive Strategic Partnership con scadenza a 25 anni tra Iran e Cina, infrastrutture vs energia, un classico. A breve termine, l’Iran che sta sulla faglia Occidente – Oriente come Russia, Turchia, Siria, impedito di volgersi ad Ovest, si volta ad Est, la Cina ottiene alimentazione per il suo sviluppo. Ma le cose più interessanti si intravedono a medio-lungo termine.
Pechino ottiene una importante casella nella sua strategia di infrastruttura commerciale nota come Belt and Road Initiative. Come da cartina, l’Iran è cerniera fondamentale del progetto (infatti l’accordo giunge dopo cinque anni di trattative, qui non s’improvvisa nulla), vediamo perché:
1) La partnership con l’Iran permette alla via che dalla Cina passa nelle repubbliche centroasiatiche (tramite la Cina occidentale ovvero lo Xinjiang, da cui i problemi con gli Uiguri) di darsi una alternativa. Andare a nord verso la Russia o andare a Sud, appunto in Iran.
2) Un’altra via passa il confine col Pakistan. Arrivati in Pakistan potrete andare a sud e sfruttare i porti di costa come alternativa mista terra-mare per bypassare gli eventuali blocchi di Malacca o potrete andare ad ovest ed entrare, appunto, in Iran per proseguire la rotta est-ovest dove pure, come vedremo nel punto 5, si presentano nuove alternative portuali.
3) La strategia dei porti diretti sull’Oceano Indiano, dopo Malesia, Thailandia e soprattutto Myanmar (Sri Lanka, Maldive?), tutti per bypassare gli eventuali blocchi di Malacca o turbolenze nel mar della Cina, si dota di altre alternative con Pakistan ed Iran.
4) Il tutto ha effetti sulle contradditorie relazioni Cina-India. I due sono geo-storicamente condannati a convivere, ma l’India è due passi indietro la Cina quanto a sviluppo di tutti i fattori, quindi un po’ collabora ed un po’ vorrebbe competere. Su questa forbice si inseriscono gli Stati Uniti. La strategia di alternative accerchianti l’India, toglie potere negoziale all’India. Ma il CSP con l’Iran crea anche un problema in più perché l’India è in un altrettanto strategico accordo di collaborazione strategica con Russia e lo stesso Iran, una sorta di mini-via-del-cotone a cui gli indiani tengono molto. In più l’India importa energia dall’Iran.
5) Il grosso dei giochi ovviamente è in Iran. In Iran, nel sud-est, potrete avere un altro porto di sbocco. Potreste fare accordi ragionevoli che coinvolgono l’India per sfruttare il loro trilaterale con Russia ed Iran. Potreste sostituirvi all’India nel trilaterale se gli indiani vi fanno uno sgarbo indigeribile. Dal confine ovest dell’Iran, potrete andarvene in Iraq (6) e ricostruirlo, da qui in Siria (7) che significa Mediterraneo, mettere pressione alla Turchia (9) per spingerla ad entrare nel “piatto ricco mi ci ficco” ingoiando il rospo uiguro (gli Uiguri sono popoli turchici e sappiate che le ultime irriducibili bande armate jihadiste nel nord della Siria, sono uiguri sponsorizzati da Ankara), andare via Giordania in Israele (8), amico dei cinesi come i palestinesi. Tenete conto che sulla costa israeliana già c’è un porto amico che si raggiunge dal Golfo di Aqaba, alternativa se si blocca Suez.
10) Ma considerate che Voi avete anche ottime relazioni con gli arabi sunniti, tutti indistintamente (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait etc.). Però è sempre meglio avere alternative e quindi se avete i sunniti dovete avere anche gli sciti, così vi bilanciate. Magari vi mettete a fare il termine medio della complessa relazione, tanto per voi pari sono, in più siete “atei”.
Ottenete quindi la prima e più importante cosa utile in un mondo multipolare: amici. Amici non perché vi siete simpatici ovviamente, ma perché avete interessi in comune, interessi economici e commerciali, la più antica valuta delle relazioni internazionali. Il vantaggio geopolitico (armi, porti, basi militari da evitare ma un domani non si sa mai) consegue.
Il progetto BRI offre diversi vantaggi: A) crea un tessuto di accordi bilaterali strategici cioè multidimensionali; B) fatta su base prioritaria commerciale ed economica intona pacificamente le relazioni; C) è ridondante offre cioè alternative ad alternative, il che la rende “resiliente”; D) siccome ogni bilaterale non è essenziale avendo alternative parziali, le trattative future su nodi che si presenteranno da sé o perché spinti da avversari (USA) vi vede in posizione di relativa forza, voi le alternative le avete, il partner no; E) il che porta i partner in concorrenza potenziale tra loro, abbassandone le aspettative; F) infine, manda un messaggio a gli europei del tipo: se fosse stati liberi di sviluppare una vostra strategia geopolitica, oltre che coi Paesi Medio Orientali avremo dovuto trattare con voi visto che questa area avrebbe avuto la vostra influenza, ma siccome siete schiavi degli americani, noi riempiamo il vuoto creato dalla vostra inazione ed insipienza. Pensateci …
Quanto al partitone Cina vs USA, scrivevo ormai anni fa sul libro che ho pubblicato che alla fine la faccenda è molto semplice: i cinesi hanno i soldi, gli americani le armi. Un po’ il contrario della Guerra fredda vinta perché soldi batte armi, sempre. Ma giocare coi sovietici non è come giocare coi cinesi. Quindi a medio lungo tempo non c’è partita, i cinesi i soldi (tecnologie, prodotti, infrastrutture, know how, mercati di sbocco etc.) ne avranno sempre di più e nei paesi contesi, le armi non si mangiano, non rendono amati i leader locali, non danno stabilità, potere e sviluppo. Il pragmatismo cinese, inoltre, essendo appunto pragmatico e realista e non su basi valoriali “idealistiche”, mette tutti d’accordo, sciti e sunniti, indiani e pakistani, turchi e forse anche curdi. Ci sono curdi anche nel nord Iran dove si va per il confine coi turchi. Come ben sanno in Medio Oriente dove la tradizione mercantile è storia profonda (come in Cina), il migliore affare è quello in cui tutti ci guadagnano o quasi. Gli americani allora possono solo contenere, mettere attrito, rallentare, che è quello che giustamente faranno. (Il primo che cita la “Trappola di Tucidide” viene bannato 🙂 scherzo …)
Filosoficamente, nella “filosofia delle relazioni tra popoli sul pianeta Terra”, la strategia cinese allude al vecchio “doux commerce” di Montesquieu. Traducendo “doux” con “gentile”: “… è regola pressoché generale che dovunque vi siano costumi gentili, vi è commercio; e che dovunque vi sia commercio, vi siano costumi gentili” (Esprit des Lois) con finale contrapposizione tra “nazioni ingentilite” e nazioni “rozze e barbare”. In realtà pare che il concetto risalga a Montaigne ed abbia poi deliziato Voltaire, Smith, Hume, Kant. Se ne trova una, come sempre acuta, analisi in termini di storia delle idee in A. O. Hirschman – Le passioni e gli interessi – Feltrinelli (p. 47). Dove per altro si riportano anche considerazioni di dileggio da parte di Marx ed Engels.
Quindi abbiamo nazioni che si dichiarano quantomeno socialiste (Cina) che agiscono in base a principi criticati da Marx ma promossi dai liberali europei i cui eredi contemporanei (USA, UK) però sono d’accordo con Marx. Ehhh, che ci volete fare, l’era complessa è complicata.
Quello che posso dirvi è: fate attenzione. Quello che oggi nello spirito partigiano che vi faceva tifare per gli indiani contro i cowboy nei film americani anni Settanta, vi fa tifare per Davide contro Golia, domani quando Davide sarà Golia vi creerà una contraddizione. La Cina, da sola, è quasi un quinto dell’umanità. Pensateci …
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