POLARIZZAZIONI, di Pierluigi Fagan

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.
Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.
Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.
La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.
I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.
Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.
Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.
Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.
In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.
Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.
L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.
Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.
Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.
In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.
La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.
Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.
Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.
I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.
Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.
Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.
Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.
La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.
Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.
Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.
IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA
Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.
Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.
Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.
Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.
La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:
di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;
di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;
di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;
di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;
di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.
Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.
Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.
Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.
Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:
la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana
la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.
Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.
NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo
Per la prima volta nella storia dei finanziamenti nazionali nessun PRIN (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) è stato finanziato per l’area filosofica. I progetti di quest’area rappresentavano il 10% dei progetti presentati, ma sono stati bocciati tutti.
Al netto del dispiacere per i mancati finanziamenti, credo che ci si possa compiacere di questo evento almeno per il suo contributo a fare chiarezza.
Si tratta di una scelta che si inquadra perfettamente nell’atmosfera del nuovo pragmatismo emergenziale, che non ha più tanto tempo da perdere con le apparenze.
Dopo tutto, come ha detto il ministro Cingolani, basta studiare quattro volte le guerre puniche. Ci vogliono più conoscenze tecniche.
Questo nuovo “pragmatismo” sta rapidamente dismettendo tutti gli orpelli, tutti i passati omaggi alla Costituzione, ai diritti, alla libertà di pensiero ed espressione, e sta andando rapidamente al cuore del progetto tecnocratico contemporaneo, senza più infingimenti. L’imperativo è la rapidità d’esecuzione previa cancellazione di controlli, pratiche di mediazione, tempi di riflessione.
In questo senso si tratta di un evento chiarificatore, molto meglio della strategia adottata sui finanziamenti alla ricerca a livello europeo, dove vige ancora (ma vediamo per quanto) un altro stile d’azione, quello per cui si finanziano progetti “trendy”. Adesso è il momento del Greenwashing e dunque i finanziamenti alla libera ricerca cadono e cadranno su progetti che si raccomandano per la capacità di sostenere l’attuale narrazione sull’emergenza climatica.
Beninteso, naturalmente non c’è niente di male a svolgere ricerca su questo importante tema.
Il problema – non proprio marginale per la libertà di ricerca – è che il finanziatore stabilisca i temi degni di essere ricercati a monte (e, in effetti, scelga anche le linee di fondo delle tesi che si andranno a testare). Questo qualche problema direi che lo genera, visto che l’agenda del finanziatore è eminentemente politica, mentre quella del ricercatore dovrebbe essere il perseguimento della verità.
In attesa di vedere come verranno valutati in futuro progetti filosofici su “Spinoza e la Piccola Era Glaciale” e “La stufa di Cartesio e il Global Warming“, possiamo apprezzare la chiarezza fatta dalla scelta italiana.
Va detto che l’idea stessa di concepire i finanziamenti, specificamente per aree come quelle afferenti a forme di pensiero critico, nella modalità di pochi grandi finanziamenti, è parte del problema. Questo modello viene promosso come “altamente competitivo”, e il presunto “alto livello della competizione” rende l’esclusione anche di progetti manifestamente meritevoli del tutto normale. Dunque, che i meritevoli, anche gli assai meritevoli, restino fuori è un’idea cui il modello ci abitua.
In questa idea di “alta competizione” c’è qualcosa di profondamente fuorviante. Qui non siamo in una gara di corsa in cui il più veloce arriva primo, o in un incontro di boxe in cui il più forte resta in piedi. Qui siamo in un ambito più simile a un concorso di bellezza, dove si mettono in mostra i propri punti di forza sperando di convincere la giuria. E siccome “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, questo modello conferisce alle “giurie” un totale controllo su quali linee di ricerca promuovere. Questo fatto stesso, a prescindere dall’obiettività e buona fede delle giurie che può essere adamantina, limita la libertà di ricerca, in quanto promuove implicitamente un gioco di anticipazione dei desiderata dei giudici. Progetti ambiziosi, fondati, ma “strani” tendono a scomparire per autocensura.
Detto questo, che la filosofia debba riciclarsi in un formato disciplinare “self-contained“, in un campo ben delimitato e dunque “tecnicizzabile”, è qualcosa di promosso e incentivato da tempo. Tuttavia la riflessione filosofica – finché esiste e non sono ottimista sul suo stato di salute – è intrinsecamente refrattaria alla chiusura in un campo.
Con qualche semplificazione, si potrebbe dire che mentre tutte le altre scienze possono di principio (magari malvolentieri) concepirsi come studio di “mezzi”, di “tecniche”, la filosofia perde completamente la sua natura se non è sempre insieme indagine sui “mezzi” e sui “fini”, sui mezzi in rapporto ai fini, sui fini in rapporto ai mezzi. E ogni discussione che chiami in campo i fini tende ad avere carattere olistico, non settoriale.
Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che, per il potere – chiunque lo gestisca di volta in volta – un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potenza; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, ma tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema.
La filosofia in questo senso, nella misura in cui esiste ancora in forme tradizionali, rappresenta un piccolo scandalo, una sorta di atavismo, il residuo di epoche al tramonto. In filosofia porsi domande intorno all’intero, alla storia e alla società in cui si è collocati, alla propria posizione nel cosmo, e farlo sulla base della critica radicale, del dubbio verso l’opinione maggioritaria, dell’uscita dallo schema pregresso, è precisamente la base, il cuore da cui tutto parte.
Per questo motivo la filosofia – finché esiste e nella misura in cui ancora esiste – esige innanzitutto libertà di pensiero ed espressione, e se c’è una battaglia rispetto a cui nessun filosofo che voglia dirsi tale può arretrare è una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.
Per far capire alla fine di che cosa ne va al momento, è utile riportare un breve passo da l’Avvenire; qui, proprio all’inizio di un articolo in cui si discute della mancata erogazione dei PRIN al settore filosofico, troviamo scritto:
“Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofica ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.”
Traduzione informale:
“Non lo dico io, naturalmente, mai mi permetterei; è solo una voce maligna, però, però, pensateci sopra, non sarà mica che il sostenere tesi eterodosse da parte di qualcuno che si fregia del nome di filosofo (Agamben? Cacciari?) abbia attratto sull’intera comunità filosofica l’ira funesta dei Giudici? No, no, cosa vado mai a pensare! Infatti – e per fortuna, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere – c’è stata una reazione pronta che ha riportato la nave sulla giusta rotta.”
Ecco, questa, per chi non lo avesse colto, è una garbata forma di intimidazione, ed è esattamente ciò che si desidera diventi la filosofia – altrimenti poi non ci si lamenti se non verrà finanziata: un amplificatore colto di tesi ortodosse, con bollinatura governativa.
Insomma veniamo lasciati scegliere come morire, se per soffocamento, senza soldi, o per snaturamento, senza critica.
Seguono alcuni dei commenti apparsi su facebook:
In tempo di guerra, l’energia è sia un fattore di guerra che una determinante della guerra. Per quanto riguarda il tempo di pace, cinque elementi stanno oggi riconfigurando la geopolitica globale dell’energia. Sono questi i vincoli dell’imperativo climatico, l’importanza assunta oggi dal gas, il peso assunto da Cina e India nel consumo energetico mondiale, il riemergere degli Stati Uniti come primo produttore mondiale di energia, il continuo peso energetico del Golfo paesi e Russia, nonché l’arrivo sul mercato di nuovi attori statali.
La geopolitica dell’energia in tempo di guerra: guerra ed energia
Dalla prima guerra mondiale, l’energia è stata tanto un fattore nella guerra quanto una determinante della guerra. L’energia infatti è diventata una determinante della guerra quando la meccanizzazione delle forze armate ha reso il peso dell’accesso al petrolio una costante nelle operazioni militari. A questo proposito, la seconda guerra mondiale ha consumato quasi 350 volte più petrolio della prima guerra mondiale. Come determinante, la supremazia della flotta britannica sulla flotta tedesca durante la seconda guerra mondiale è dovuta a una decisione di W. Churchill prima della prima guerra mondiale per dotare la flotta di propulsione a petrolio e non più a carbone. La dottrina tedesca Blitzkrieg basata sulla mobilità del carro armato, la sua azione combinata nell’aviazione, le scoperte tecnologiche nel campo dei segnali e la ricerca dell’elemento sorpresa è fondamentalmente una dottrina volta ad ottenere una rapida decisione militare perché la configurazione geopolitica di La Germania ha limitato le sue possibilità di fornire petrolio e materie prime per una lunga guerra. In fin dei conti, la decisione del 1942 che portò alla sconfitta tedesca a Stalingrado distolse la Germania dall’obiettivo di prendere Mosca in favore di un’azione militare nel Caucaso al fine di impossessarsi del petrolio di Baku per l’uso delle sue forze e per bloccare l’approvvigionamento di petrolio delle forze sovietiche.
L’energia è stata anche un fattore nella guerra quando, nel 1941, il Giappone ha lanciato la sua guerra preventiva contro gli Stati Uniti a Pearl Harbor per sfuggire al soffocamento economico prodotto dall’embargo petrolifero americano. All’indomani della seconda guerra mondiale, l’intervento franco-britannico a Suez nel 1956 fu una risposta alla nazionalizzazione del Canale di Suez attraverso il quale passava la maggior parte del petrolio importato dagli europei. Il primo shock petrolifero del 1973 fu anche una risposta diretta al sostegno occidentale a Israele attaccato nel 1973 da una coalizione guidata da Egitto e Siria. La guerra Iran-Iraq dal 1980 al 1988 tra due paesi che da soli hanno prodotto un terzo del petrolio del Golfo e che hanno prodotto 1, 2 milioni di morti sono in parte dovuti a una disputa di confine sul possesso di petrolio dallo Shatt-el-Arab allo sbocco del Golfo Persico. La prima guerra del Golfo del 1990/1991 segue l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq per il possesso delle riserve energetiche della seconda. La seconda guerra del Golfo del 2003 per il rovesciamento di Saddam Hussein è stata in gran parte motivata dal desiderio americano di prendere il controllo del petrolio iracheno. L’embargo petrolifero è ancora un’arma anche nelle controversie interstatali, compresa quella contro l’Iran, perché il suo possesso di armi nucleari rappresenterebbe un grande rischio per lo Stretto di Hormuz e per Israele. Infine, è probabile che la recente autosufficienza energetica degli Stati Uniti dovuta allo sfruttamento degli idrocarburi di roccia li porti a ritirarsi dal Medio Oriente per concentrarsi sulla Cina, divenuta nel frattempo il suo principale avversario strategico. Nei conflitti intra-statali, anche la risorsa petrolifera svolge un ruolo importante in quanto alimenta rivolte e guerre interne per il controllo della sua rendita, come avviene oggi in Libia, Ciad e Sudan, così come intorno al Golfo di Guinea.
Russia: la geopolitica dell’energia
Geopolitica dell’energia in tempo di pace: l’attuale riconfigurazione
In termini di clima, è stato calcolato che il riscaldamento globale potrebbe essere limitato a 1,5°C. in caso di neutralità carbonica raggiunta nel 2050, a 2°C. se questo tappo fosse stato ottenuto nel 2070 e a 2,5°C. se fosse ottenuto nel 2100. La questione è dunque quella dei mezzi necessari per raggiungere questa carbon neutrality in un contesto internazionale segnato da una grande divergenza degli interessi economici e delle risorse ambientali dei paesi come recentemente dimostrato. Glasgow. In termini energetici, questo obiettivo prevede la riduzione del consumo di carbone e idrocarburi a favore del nucleare e delle rinnovabili. Per quanto riguarda il consumo mondiale di energia è previsto un aumento di un altro 50% nel 2030 rispetto al 2005 e la produzione annua di gas naturale che era di 3, 9 miliardi di m3 nel 2018 prima della crisi covid dovrebbero continuare ad aumentare entro il 2030/2040. Questo perché è un’energia alternativa meno inquinante del carbone in un contesto globale di tentativi di ridurre le emissioni di gas serra. All’interno di questa produzione di gas naturale, dovrebbe aumentare significativamente anche la quota di gas di base, in particolare dagli Stati Uniti.
La Cina oggi concentra il 24% del consumo mondiale di energia primaria e il 18,5% della sua produzione mondiale. È il primo produttore mondiale di carbone con una produzione di 3,8 miliardi di tonnellate, il 4 ° produttore di gas con una produzione di 191 Gm 3 e il 6 ° produttore di petrolio con una produzione di 195 milioni di tonnellate. È anche il primo importatore mondiale di energia con volumi rispettivamente di 505 milioni di tonnellate di petrolio, 125 miliardi di m 3 di gas e 306 milioni di tonnellate di carbone. Questa situazione non può che peggiorare entro il 2030 mentre, sulla sua scia, cresce anche il consumo energetico indiano. Si trova a 3 eclassifica mondiale per consumo dietro a Stati Uniti e Cina con, tuttavia, un basso livello di consumo pro capite. E ‘il 5 ° rango per le sue riserve di carbone, che corrispondono al 10% delle riserve mondiali e 2 e la produzione di rango dopo la Cina. Le sue riserve di petrolio e gas sono meno dell’1% delle riserve mondiali con produzioni che coprono solo il 16% del suo consumo di petrolio e il 45% di gas. Ha finalmente localizzato a 2 E in tutto il mondo per le sue importazioni di petrolio e carbone. Tuttavia, le sue energie rinnovabili coprono il 23% del suo consumo di energia primaria.
Grazie agli idrocarburi di roccia, gli Stati Uniti, che all’epoca erano il maggior importatore mondiale di petrolio e gas, sono diventati il maggior produttore mondiale. La sua produzione di petrolio è così aumentata da 333 a 747 milioni di tonnellate tra il 2010 e il 2019 e la sua produzione di gas da circa 230 milioni di m3 nel 2010 a oltre 600 milioni di m3 nel 2019. Il tutto non dovrebbe raggiungere il suo picco prima del 2030 sebbene la caratteristica del substrato roccioso depositi è che si esauriscono più rapidamente rispetto ai depositi convenzionali. Per quanto li riguarda, Russia e Arabia Saudita sono il 2 ° e il 3 °produttori di petrolio con una produzione rispettivamente di 568 e 560 milioni di tonnellate nel 2019. La Russia è anche il primo esportatore di gas naturale in Europa e ora in Cina con una produzione annua di circa 650 miliardi di m 3. Infine, la geografia globale della produzione di energia si è arricchita di nuovi attori. Il Canada oggi beneficia delle sue immense riserve di petrolio e gas di base. La sua produzione annuale di petrolio oggi è di 275 milioni di tonnellate di petrolio. Il Brasile è diventato un importante produttore di petrolio con una produzione annua di 150 milioni di tonnellate grazie alla recente scoperta di grandi giacimenti di acque profonde al largo delle sue coste. Infine, molto importanti sono anche le riserve energetiche dell’Africa, soprattutto offshore, che offrono un forte potenziale di crescita anche se la produzione del continente è ancora di soli 400 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. I principali giacimenti sono nel Golfo di Guinea, Nigeria, Angola, Gabon, Ghana, Niger e Mozambico.
In un’economia di mercato, la geopolitica dell’energia è essenzialmente condizionata dalla struttura dei mercati e dalla determinazione dei prezzi. Nell’economia liberale, entrambi sono determinati dall’esistenza o meno di ostacoli alla libertà di mercato. Questi prendono la forma di nazionalizzazione, cartello, potere di mercato e contratti a lungo termine.
La struttura dei mercati energetici
In termini di produzione, l’energia è prima di tutto un settore fortemente capital-intensive per l’importanza dei suoi costi fissi e per la concentrazione della produzione nelle mani di poche grandi aziende attorno alle quali ruotano una miriade di società di servizi. Accanto alle compagnie statali che oggi controllano l’83% e l’85% delle riserve di petrolio e gas, le compagnie private continuano a svolgere un ruolo fondamentale nell’esplorazione e nello sfruttamento delle risorse energetiche del pianeta, investendo circa il 30% del totale mondiale. Sul primo elemento, l’attaccamento al principio di sovranità sulle risorse naturali ha portato a numerosi Stati produttori di energia in Medio Oriente, L’Africa e l’America Latina hanno nazionalizzato la loro produzione energetica tra il 1960 e il 1980 quando le risorse dell’URSS e della Cina erano già state nazionalizzate dalle rivoluzioni del 1917 e del 1949. Ciò ha portato in particolare alla creazione di società nazionali come Saudi Aramco per l’Arabia Saudita, Nioc per Iran, Sonatrach per l’Algeria e PEMEX per il Messico. Infine, le principali società cinesi sono Sinopec, CPC e CNOOC. Sul secondo elemento degli interessi privati, le risorse energetiche della Russia sono state parzialmente privatizzate negli anni ’90 dando vita ai colossi Gazprom e Lukoil mentre Saudi Aramco è stata parzialmente quotata in borsa nel 2019. In Occidente, lo smembramento nel 1911 della Standard Oil creata da Rockefeller in base alla legge antitrust americana aveva dato vita a 6 società private tra cui Chevron, Exxon e Mobil. Oggi, tra le major mondiali in ordine di importanza in termini di fatturato, la Royal Dutch Shell dei Paesi Bassi, ExxonMobil derivante dalla fusione delle due società nel 1998,British Petroleum (BP) per il Regno Unito, Total per la Francia che si è fusa con Elf nel 2000 e Gulf-Chevron.
Sul fronte dei trasporti, la geopolitica dei flussi energetici corrisponde prima di tutto a quella delle rotte marittime per il petrolio e ora per il gas. Le principali strozzature che richiedono un controllo sono lo Stretto di Hormuz attraverso il quale passa il 20% della produzione mondiale di petrolio, i canali di Suez e Mozambico, il Capo di Buona Speranza e gli Stretti di Gibilterra e Malacca e la Sonda. Le principali aree marittime interessate sono l’Oceano Indiano e l’Oceano Atlantico, nonché il Mar Mediterraneo, il Mar Nero e il Mare del Nord. Così, metà della produzione mondiale di petrolio e gas naturale liquefatto passa attraverso l’Oceano Indiano verso l’Asia. Infine, i golfi di Aden e Guinea sono aree marittime a rischio per l’ondata di pirateria marittima e l’Oceano Artico è proiettato nel futuro come una nuova frontiera marittima ed energetica su scala globale. Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella dei tubi e delle reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella di tubi e reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella dei tubi e delle reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdottiBlue Stream e Turkish Stream , nonché un progetto di costruzione di South Stream . Sotto il Mar Baltico, ciò ha portato alla costruzione del Nord-Stream1 e 2 verso la Germania. In Asia esiste una vasta rete di oleodotti e gasdotti tra Cina e Russia e tra Cina e Asia centrale Uno degli obiettivi energetici delle nuove Vie della Seta è quello di aggirare finalmente lo Stretto di Malacca attraverso il quale passa l’80% dell’energia cinese importazioni, ma che la Cina non controlla. Questa è in particolare la funzione degli oleodotti progettati tra la costa meridionale del Pakistan e lo Xinjiang per trasportare 1 milione di barili al giorno, ovvero il 15% del consumo cinese. Infine, esistono anche progetti per realizzare collegamenti elettrici tra Europa e Cina in modo da far fronte all’aumento del 70% dei consumi cinesi previsto entro il 2040.
In termini di commercio, le risorse energetiche prima competono strutturalmente tra loro. La prima funzione del petrolio era quindi quella di sostituire l’olio di balena per l’illuminazione individuale prima di raggiungere gradualmente tutti i settori dell’economia, in particolare a scapito del carbone. Il petrolio ha così conquistato la sua quota di mercato perché è una risorsa di grande flessibilità di utilizzo e di costo di produzione altamente competitivo e la strategia delle compagnie petrolifere è stata sin dall’inizio molto aggressiva in ottica di controllo delle quote di mercato dell’energia. Ha anche beneficiato per lungo tempo del mercato vincolato del trasporto su strada. Il gas è anche un sostituto del carbone, in particolare per il riscaldamento in concorrenza con l’elettricità prodotta dal nucleare e dalle energie rinnovabili. Le ragioni del commercio energetico sono poi dominate da un’altissima concentrazione di aree di produzione di petrolio e gas e una relativa dispersione per il carbone. Il grosso della produzione petrolifera è infatti concentrato nei paesi OPEC più che sono i paesi OPEC (Arabia Saudita, Venezuela, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. Iran, Algeria, Libia, Angola, Gabon, Nigeria, Guinea Equatoriale e Repubblica di Congo.) E i nuovi arrivati all’OPEC Plus che sono Russia, Azerbaigian, Kazakistan e Messico, nonché Bahrain, Brunei, Malesia, Oman e Sudan. Tre paesi infine condividono il 48% delle riserve di gas convenzionale che sono la Russia, Iran e Qatar a cui si aggiungono oggi i nuovi paesi produttori di idrocarburi di roccia, ancora principalmente gli Stati Uniti. Infine, le ragioni di scambio sono dominate dalla concorrenza dei contratti a lungo termine e dei mercati a pronti a breve termine in rapido sviluppo, i cui termini e prezzi non obbediscono alle stesse regole. A parte il GNL, la maggior parte delle consegne di gas naturale e due terzi delle consegne di petrolio per lungo tempo sono passate attraverso contratti a lungo termine. In tema di gas, la tendenza degli europei è stata comunque negli anni 2010 a rimettere in discussione i contratti a lungo termine a favore delle consegne al mercato spot. In parallelo,
Nuovo numero speciale: Army, il salto verso l’alta intensità
Determinazione dei prezzi dell’energia
Innanzitutto, i costi fissi sono inclusi nel calcolo del prezzo dell’energia. Si tratta di costi di esplorazione tanto più elevati quanto più difficili sono le condizioni di esplorazione, come nell’Artico o in acque profonde, e più incerto il risultato. In media, si ritiene che una campagna esplorativa su quattro porti a una start-up. Si tratta, invece, di costi operativi che si suddividono in spese infrastrutturali e spese operative. Nel primo caso si tratta in particolare del costo di installazione o noleggio di piattaforme di produzione, in particolare offshore. Il tutto induce costi di accesso che variano da 8 dollari al barile per il greggio onshore del Vicino Oriente a 45 dollari al barile per il deep offshore del Mare del Nord o del Golfo di Guinea. Nel calcolo del prezzo sono comprese anche le spese di trasporto che variano in base alle distanze e alla natura dell’energia trasportata. Poiché è pesante e costoso da trasportare e poiché i siti di produzione sono relativamente sparsi, il carbone è sempre stato consumato vicino ai siti di estrazione o nei paesi limitrofi. È quindi solo quando il prezzo di altre energie alternative aumenta che diventa interessante trasportarlo, come dimostra l’attuale importazione di carbone americano in Europa come sostituto dell’impennata del prezzo del gas. Al contrario, il prezzo del trasporto è basso per il petrolio, da uno a due dollari al barile, ma cinque volte più alto per il trasporto di gas naturale a potere calorifico equivalente. Per quanto lo riguarda, il costo del trasporto GNL è dell’ordine di 4-6 volte il costo del trasporto terrestre via metanodotto con un andamento comunque decrescente dovuto al progresso tecnologico e all’ammortamento degli investimenti già effettuati. Infine, l’importanza degli investimenti in queste ultime infrastrutture spiega perché i contratti per la fornitura di GNL siano contratti a lungo termine dell’ordine di un decennio.
Poiché sono soggetti alla legge della domanda e dell’offerta, il prezzo dell’energia oscilla in base ai capricci del mercato e alla politica dei prezzi dei produttori. A livello internazionale, la maggior parte del diritto internazionale applicabile, sia esso prodotto dall’OMC o dalle diverse leggi regionali, converge da tempo sul principio della rimozione degli ostacoli alla libertà di mercato. Il risultato è una tendenza alla veridicità dei prezzi e all’aumento dei mercati spot a breve termine. Tuttavia, ciò non impedisce l’uso continuato di contratti a lungo termine da 10 a 25 anni, come tradizionalmente avviene per la fornitura di gas russo all’Europa. Questo è il caso quando il peso degli investimenti necessari per la produzione e il trasporto richiede di assicurarsi gli investitori attraverso questo tipo di contratto. La verità dei prezzi può anche essere minata da politiche di prezzo aggressive delle aziende produttrici nazionali. Così, dal 2014 al 2016, in un contesto di rallentamento della domanda cinese di petrolio e di concomitante consolidamento della produzione americana di shale oil, l’Arabia Saudita e i paesi OPEC hanno intrapreso una politica di liberalizzazione dell’offerta a 30 $ al barile destinata, da un lato da un lato, per guadagnare quote di mercato attraverso prezzi più bassi e, dall’altro, per indebolire la situazione finanziaria dei produttori americani di idrocarburi di roccia madre che competono con loro e la cui sopravvivenza richiede un prezzo al barile superiore a $ 40.
Su questa base, la struttura dei prezzi del petrolio mostra da diversi decenni una curva al rialzo con periodi di elevata volatilità. Il prezzo medio del petrolio era quindi di 2 dollari al barile prima del primo shock petrolifero del 1973, di 12 dollari il giorno successivo e di 40 dollari dopo il secondo shock petrolifero del 1979. È sceso a 10 dollari al barile con il controshock del 1986. poi di nuovo al tempo della crisi asiatica del 1998. Dall’inizio degli anni 2000 al suo crollo nel 2014/2016, il prezzo del petrolio non ha smesso di salire fino a raggiungere i 100 $ all’inizio del 2008 per poi crollare nuovamente a 40 $ durante la crisi finanziaria del 2008 per poi risalire a 100 dollari tra il 2010 e il 2014 e crollare nuovamente a 30 dollari nel 2016. È poi risalito a 65 dollari all’inizio del 2019 e raggiunge oggi il livello di 80 dollari al barile. Per quanto la riguarda, la struttura dei prezzi del gas è distinta da quella del petrolio anche se ad esso è in tutto o in parte indicizzata. Si distingue perché, a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL costituisce un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL costituisce un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi.
Infine, il potere di mercato dei produttori ha a lungo giocato un ruolo nella determinazione dei prezzi degli idrocarburi. Negli Stati Uniti, prima del suo smantellamento nel 1911, la Standard Oil di D. Rockefeller era il prezzo del petrolio perché monopolizzava l’80% del trasporto del petrolio americano e il 90% della sua raffinazione. A livello internazionale e fino alla creazione dell’OPEC, le Sette Sorelle americane che monopolizzavano il 90% del commercio petrolifero internazionale formarono un cartello che istituì un sistema noto come prezzo unico Gulf Plus ritenuto proveniente dalla costa orientale degli Stati Uniti. Oggi, però, le cinque major private rappresentano solo il 12% del mercato petrolifero dalla nazionalizzazione della produzione petrolifera e vedono quindi il loro potere di mercato notevolmente ridotto. La nazionalizzazione dell’83% delle riserve mondiali di petrolio in tutto il mondo e la corrispondente creazione dell’OPEC nel 1960 hanno quindi stabilito un potente potere di mercato per i paesi dell’OPEC. L’affermazione di quest’ultimo potere di mercato è stata tuttavia graduale. In un primo momento, l’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro il calo dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana. L’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro la caduta dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana. L’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro la caduta dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana.
In termini di struttura dei prezzi, il primo shock petrolifero mirava a introdurre una rendita di scarsità nel prezzo del petrolio anticipando un probabile aumento dei prezzi del petrolio dovuto all’aumento della domanda internazionale in quel momento. Successivamente, il secondo shock petrolifero mirava a introdurre nel mercato una rendita di monopolio. Tuttavia, il potere di mercato dell’OPECtendeva rapidamente a erodere dal 54% della produzione mondiale di petrolio nel 1973 al 30% nei primi anni 1980. Di conseguenza, l’OPEC ha dovuto scegliere tra due tipi di strategie di prezzo di mercato. La prima strategia è una strategia di difesa delle proprie quote di mercato attraverso un aumento della produzione e una diminuzione dei prezzi in modo da escludere dal mercato i concorrenti con costi di produzione più elevati. Questo è stato il caso negli anni ’80 così come nella seconda metà degli anni 2010. La seconda strategia mira a mantenere il potere d’acquisto dei paesi produttori riducendo l’offerta di petrolio per aumentare i prezzi. Infine, si scopre oggi che, a parte il ruolo di bilanciamento che l’Arabia Saudita svolge nell’OPEC, quest’ultimo ha dovuto espandersi nel 2016 in un’OPEC Plus che includeva la Russia ei paesi dell’Asia centrale per garantire il potere di mercato di fronte all’ascesa dello shale oil americano. Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare). Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare). Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare).
https://www.revueconflits.com/geopolitique-de-lenergie-francois-campagnola/
Due leader in difficoltà ai due lati del Pacifico, ma uno di essi messo decisamente peggio. Un ceto politico che si dimena con sprezzo del ridicolo riuscendo a trasformare le proprie vittime designate in martiri al culmine della popolarità. Un tentativo di recupero dei consensi nella vecchia base elettorale con il rilancio di una politica estera della “working class” che pare una riproposizione in un contesto inidoneo della geopolitica degli anni ’90. Una classe dirigente tentata a contrabbandare qualche concessione nell’immediato con la rinuncia strategica in un contesto multipolare, specie quello indo-pacifico, nel quale sono numerosi e potenti gli attori in grado di condizionare le scelte. Una crisi interna che è prossima a rinunciare anche alle ultime certezze, come nella gestione della pandemia. Nel mezzo alcuni giochi inquietanti e pericolosi, difficilmente controllabili, in corso nei laboratori americani. Rischiamo un’altra Wuhan, questa volta a stelle e strisce? Buon ascolto_Giuseppe Germinario
https://rumble.com/vpgzxt-stati-uniti-biden-e-gli-azzardi-pericolosi.html
PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA
a cura di Luigi Longo
Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.
Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.
Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.
Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).
Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?
L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.
In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).
CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?
di Gianfranco La Grassa
1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.
Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).
Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.
In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.
Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.
Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.
2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.
Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).
Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.
I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.
In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.
3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.
Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.
Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.
In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.
Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.
Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.
4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.
In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.
Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.
Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.
Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.
Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.
5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.
Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).
I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.
Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.
E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.
Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e
l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.
Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.
E con questo fervorino finale, veramente Amen.
http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche
Il termine atlantismo significa che una stretta solidarietà unisce le due sponde dell’Atlantico, il Nord America e l’Europa occidentale.
Questa solidarietà era umana e culturale all’indomani della seconda guerra mondiale, quando i popoli dei due sub-continenti erano principalmente di origine europea, con la notevole eccezione dei neri americani; parlavano le stesse lingue e condividevano le stesse religioni cristiane. Hanno aderito allo stesso modello democratico, liberale e capitalista contro l’URSS comunista e atea. Proclamavano gli stessi principi provati nel 1941 dalla Carta Atlantica avviata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Significativamente, tuttavia, questo documento non è stato ufficialmente firmato e Churchill ha rivelato che solo Roosevelt ne aveva una copia siglata dal presidente degli Stati Uniti che aveva firmato anche per il primo ministro britannico. Sul piano simbolico era già stato detto tutto.
Fortunatamente per lui, l’atlantismo aveva basi più tangibili. Primo, la paura dell’URSS. Non dobbiamo dimenticare che furono gli europei a pregare gli americani di restare in patria e a volere la creazione della NATO nel 1949. L’idea atlantista faceva parte anche della geografia del secondo oceano mondiale, attraversato da potenti rotte commerciali e delimitato da porti, i più importanti al mondo in quel momento. Il North Atlantic Track era allora la rotta marittima più importante del mondo (il 20% del commercio mondiale in valore alla fine degli anni ’60, quando gli Stati Uniti inviavano un terzo delle proprie esportazioni verso l’Europa occidentale). Non sono solo le idee nella vita, c’è anche il dollaro.
Questo atlantismo non è più di stagione. Il legame tra le due sponde del grande oceano si è indebolito. La scomparsa dell’URSS ha scosso la dimensione strategica dell’Alleanza. Potremmo persino credere in un disaccoppiamento tra Stati Uniti ed Europa durante la guerra in Iraq, quando fu delineato un asse Parigi-Berlino-Mosca. Ma questo asse si è rotto sull’opposizione di Polonia e Lituania, poi sugli affari ucraini e georgiani che Mosca ha interpretato come un tentativo di portare questi due paesi nella NATO. Nel frattempo, Washington ha martellato la sua opposizione alla creazione di una difesa europea che avrebbe potuto competere con la NATO – Madeleine Albright , segretario di Stato di Bill Clinton, è stato categorico su questo argomento. Le divisioni dell’Europa, la sua dipendenza militare, soprattutto la sua incapacità di definire una strategia alternativa a quella propugnata dagli Stati Uniti hanno portato all’incapacità degli europei di affermarsi come l’altro polo dell’atlantismo. Lo abbiamo visto durante la visita di Biden in Europa durante la quale le cancellerie europee si sono accontentate di elogiare il nuovo presidente, Londra che ha abbassato la testa sotto le critiche alla Brexit, la Francia che ha piegato le spalle alla volontà americana di riallacciarsi con una Turchia che ci aveva provocato da poco fa. Gli europei avevano paura delle minacce di Trump di far saltare la Nato, minacce che avevano risvegliato le paure del 1945: i paesi europei temono di essere abbandonati dal fratello maggiore, accolgono con favore il suo ritorno. Di servitù volontaria.
Da leggere anche: La Francia atlantista o il naufragio della diplomazia. La Francia è di nuovo in riga!
Sono quindi costretti ad accettare i cambiamenti dell’Alleanza nella direzione voluta da Washington. L’Alleanza Atlantica è sempre meno atlantica, è intervenuta in Afghanistan (che non faceva parte del suo campo di intervento come mostra una semplice mappa), ha assistito ai trasferimenti di truppe dall’Europa all’Asia, sotto Obama e lei approva Biden quando spiega che il vero pericolo oggi è la Cina. Si è capito che si trattava della Russia governata da un “killer” secondo la formula meno diplomatica usata da Biden (alla quale Putin aveva risposto ironicamente augurando “buona salute” al suo omologo). In effetti, gli Stati Uniti stanno riattivando vecchie paure mentre ne suscitano di nuove per rimanere gli stessi.“Leader delle democrazie” come li hanno chiamati i media occidentali.
Il cambiamento geografico è accompagnato da un cambiamento ideologico, la democrazia auspicata dall’Alleanza si allinea agli sviluppi americani. Basta vedere come i paesi europei hanno accolto questo, dai Black Life Maters al neofemminismo e alla teoria del genere, dal ginocchio alla terra per cambiare i nomi delle strade e sfatare le statue. Le specificità nazionali vengono gradualmente cancellate, l’atlantismo diventa un blocco molto più allineato con gli Stati Uniti che nel 1945. Il cambiamento principale è strategico. Gli Stati Uniti hanno scelto il loro principale avversario, la Cina. Eppure l’avevano aiutata a raggiungere la vetta, il loro errore principale era la decisione di Clinton di portarla nel WTO senza altra garanzia che buone parole. Gli europei lo seguivano altrettanto spesso;[1] . Poi si riprendono, va detto che gli Stati Uniti di Trump li incoraggiano a farlo. Biden spinge nella stessa direzione.
Rimangono due problemi.
Innanzitutto, quale atteggiamento adottare nei confronti della Russia? La linea di Trump era chiara: cercare un alloggio con lei di fronte a Pechino; ma un’intera parte dell’establishment repubblicano era riluttante ei media democratici lo accusavano di compromesso. È per accontentare quest’ultimo che Biden ha adottato un tono più fermo, per non dire più brutale, anche se significa ritirarsi durante il suo incontro con Putin quando ha ammesso che quest’ultimo non voleva un ritorno alla Guerra Fredda. Allo stesso tempo, ha fatto una consistente concessione revocando l’embargo sul gasdotto North Stream 2 che collegherà la Russia alla Germania: consentirà a Mosca di raccogliere più valuta estera, priverà l’Ucraina di una parte delle entrate che ne derivano dal transito del gas russo, rafforzerà i legami, per non dire la dipendenza energetica di Berlino da Mosca. Un regalo alla Germania, unico Paese dell’Unione Europea che conta per la Casa Bianca, e ancor di più per la Russia. Capiamo che Putin abbia sorriso quando ha incontrato Biden. Quali altri doni avrà Biden da offrire per staccare Mosca da Pechino, se sarà ancora possibile?
Il confronto con il suo omologo americano potrebbe anche soddisfare il presidente russo. Biden ha mostrato una preoccupante debolezza fisica e intellettuale durante il suo tour europeo. Forse è per questo che ha rifiutato una conferenza stampa congiunta con Putin; Aveva paura che la sua lettura esitante del suo testo preparato e le sue risposte frettolose a un numero limitato di domande impallidissero in confronto a quella che deve essere definita la facilità di Putin? Non dovremmo vederci il simbolo di un Paese indebolito, diviso, che non sa più quale pericolo favorire o dove volgersi?
Questo è il secondo problema dell’Alleanza Atlantica. Come gli Stati Uniti, non ha più il vigore che possedeva nel 1949. Rivolgendosi al Pacifico, e persino al mondo intero, si espone alla sofferenza della sovraestensione imperiale. Fissandosi obiettivi troppo ambiziosi – estendendo la sua visione delle cose in tutto il mondo – rischia di moltiplicare i suoi nemici. Allineandosi sistematicamente con gli Stati Uniti, rischia di rafforzare la sua immagine di falso naso di questi ultimi.
Sino a pochi giorni fa si poteva parlare di una persistenza del movimento politico legato a Trump e di una situazione di stallo apparente. Le recenti elezioni in Virginia e in numerose realtà locali rivelano ormai una tendenza pressoché definita verso il successo di quest’area e la possibile deflagrazione del gruppo dirigente del Partito Democratico, ben lontano dall’aver risolto un confronto intestino distruttivo perché privo di indirizzo politico in grado di unire il paese pur poggiando paradossalmente sulle numerose identità reali ed artefatte annidate. I primi segni di cedimento e di abbandono della nave in piena navigazione sono evidenti; il tramonto di vecchie glorie, almeno così ritenute in Europa, ormai segnato. Si prospetta un rivoluzionamento degli equilibri politici, una conformazione inedita dell’azione destinata a rivoluzionare gli assetti statunitensi e ad influire pesantemente sul futuro delle classi dirigenti specie europee che si ostinano, per indole ed incapacità, ad abbarbicarsi e a baciare per la seconda volta le mani sbagliate; quelle che in pochi mesi potranno trasformarsi in ologrammi sfuggenti. La sicumera che attualmente li contraddistingue, nessuno escluso, nemmeno il nostro funzionario al vertice, difficilmente li metterà in condizione di attraversare impunemente le sabbie mobili dentro le quali si stanno avventurando e stanno trascinando i popoli di un intero continente. I pifferai che per pochi mesi hanno illuso di nuove speranze qui in Italia hanno dal canto loro rivelato la loro pochezza e il loro conseguente trasformismo di corto respiro, incapaci di cogliere le opportunità recenti e di presagire i cambiamenti in corso al di là del loro naso e delle loro spiagge. Bene hanno fatto, tre anni or sono, a concedere loro scarso credito Oltreatlantico. Mala tempora currunt. Buon ascolto! Ne vale la pena. Giuseppe Germinario
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TELLURICI O COSMOTERRORISTI
Ci si interroga sulle intenzioni dei talebani, ma senza particolare interesse al dubbio se cercheranno di esportare il conflitto oltre l’Afghanistan ovvero di rimanere nei confini del loro Stato. La domanda non è peregrina e coinvolge concetti, criteri e presupposti del pensiero politico e del diritto internazionale.
Scrive Schmitt nella “Teoria del partigiano” che il partigiano ha carattere tellurico “Tale caratteristica è importante per definire la posizione del partigiano la quale, a prescindere da ogni mobilità tattica, rimane fondamentalmente difensiva; ed egli deforma la sua natura quando fa propria un’ideologia di aggressività assoluta e tecnicizzata o vagheggia una rivoluzione mondiale…” e aggiunge relativamente a come distinguere il partigiano “è indispensabile fondarlo sul carattere tellurico, per rendere più evidente nello spazio la difensiva, cioè la limitatezza dell’ostilità e preservarla dalle pretese assolute di una giustizia astratta”. Questo lo differenzia da altre “categorie” di combattenti irregolari come il pirata o il corsaro, per necessità non-tellurici in quanto operano in un altro “spazio”, il mare. Tuttavia “Con l’ausilio della motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente. Nelle situazioni provocate dalla guerra fredda egli diventa un tecnico del combattimento clandestino, un sabotatore e una spia… La motorizzazione fa perdere dunque al partigiano la sua connotazione tellurica ed egli finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale”.
E con la “motorizzazione” e le possibilità che offre tende ad appannarsi il carattere difensivo del partigiano e della guerra partigiana.
Il connotato difensivo del partigiano non andò smarrito neanche dopo che la guerra partigiana divenne – per lo più – il mezzo di un’ostilità ideologica assoluta come durante la guerra fredda, specie da parte del blocco comunista. In effetti nessuna delle lotte partigiane, né dei capi, giunse a mutarne il carattere prevalentemente difensivo. Né Mao, né Ho Chi Min né il Fln algerino o l’Irgun hanno condotto operazioni offensive nel territorio del nemico.
Questo è cambiato con Al-Qaeda e con parte del terrorismo islamico contemporaneo: ormai è normale che ad un’occupazione militare da parte di una potenza (anche in mancanza) si risponda con attentati terroristici offensivi (dalle Torri gemelle al Bataclàn).
Vent’anni fa, in occasione dell’attentato alle Twin Towers mi capitò di scrivere che il successo dell’attentato era stato determinato: a) dalla sostanziale invulnerabilità di Al-Qaeda, gruppo terroristico senza popolazione e territorio, onde era quanto mai difficile organizzare una reazione b) il tutto lo distingueva dai movimenti partigiani, i quali, come insegna Santi Romano, hanno gli stessi elementi caratteristici dello Stato, solo in misura poco determinata e fluttuante.
Onde se era vero che ciò assicurava a Bin Laden un vantaggio militare, costituiva un handicap politico, impedendone o rinviando sine die la conversione in istituzione.
Non così sembra per i talebani, in questo assai più vicini ai movimenti partigiani “classici”. La prima volta che conquistarono il potere, la dinamica e il contesto sia della lotta contro l’occupante sovietico che della fase successiva per i talebani – come per gli altri movimenti afgani di resistenza, il rapporto con la popolazione e territorio era costituito almeno con i territori occupati dai gruppi etnici di riferimento (per i talebani i pastun).
Il fatto che i talebani avessero così compiuto il percorso “canonico”, diventando forza al governo dello Stato afgano, ne provocò la rovina. Dando protezione e asilo a Bin Laden e rifiutandosi di consegnarlo agli USA, si assunsero così la responsabilità politica, normale nel diritto internazionale, del territorio e di quando vi succedeva.
Da qui l’intervento americano, che, a quanto risulta dai mass-media – non riusciva a pacificare e a controllare (se non in parte) – il territorio del paese – né a consolidare il governo insediato dall’occupante.
Le zone “libere” (ossia controllate dai movimenti di resistenza), probabilmente la maggior parte del territorio, e la popolazione lì residente continuava ad essere il “santuario” dei partigiani. Santuario fluttuante, ma pur sempre accomunante il movimento partigiano all’istituzione statale.
Anche se la resistenza afgana – al contrario di Al-Qaeda così poteva fruire solo relativamente dei suggerimenti di Sun-Tzu. Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma… Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua” (i corsivi sono miei).
Quest’anno la situazione si è ripetuta: i talebani hanno ottenuto il governo dell’Afghanistan: sono così divenuti la classe dirigente dell’istituzione statale. Di conseguenza hanno riacquistato sia la responsabilità conseguente che l’obbligo politico di protezione della popolazione. A quanto risulta, pare abbiano capito la lezione del 1998-2001. Tutto sommato le azioni terroristiche compiute in occasione della sgombero delle forze occidentali e dei loro alleati locali sono state opera di altri gruppi di resistenza islamica, noti per averle praticate anche altrove.
Occorre trarre da ciò che l’insegnamento della teologia cristiana e controriformata, la quale tanto ha influenzato il diritto internazionale westphaliano ha ancora una sua validità: sia che bellum defensivum semper licitum, onde non si può tacciare di jniustus hostis chi difende il proprio territorio e la propria gente; e che fare guerra per violazione dei diritti (non dei propri sudditi o cittadini) ma degli altri (ad vindicandas iniurias totius orbis) è illecito: neque a deo data est necque ex ratione colligitur. E cioè un (aduso) pretesto che cerca di giustificare un intervento militare non meglio argomentabile. Di converso rispondere ad azioni aggressive è sempre consentito.
Così quando sentiamo in TV che i talebani avrebbero imposto il burqa o disposto che le scuole non siano miste, e se ne mena scandalo, mi rallegro. Personalmente sono convinto che facciano di peggio, ma se le malefatte fossero limitate a quelle non posso che riconoscere che condizione della pace è (da sempre) che ognuno decida di come vivere a casa propria.
Teodoro Klitsche de la Grange