Questa volta i riflettori puntano a illuminare un altro angolo del palcoscenico a stelle e strisce; quello sino ad ora riservato ai Clinton. Protagonisti, nell’ombra e in primo piano, in questi ultimi venti anni, ma con una pesante ipoteca riguardo al loro futuro politico segnato dalla drammatica sconfitta elettorale alle presidenziali americane. Gli attacchi forsennati a Trump dell’intero vecchio establishment hanno impedito la resa dei conti postelettorale nel Partito Democratico. La sua progressiva normalizzazione tranquillizzerà probabilmente la vecchia classe dirigente e la spingerà a regolare i conti al proprio interno e a gestire in qualche maniera il ricambio. Il contesto geopolitico e sociopolitico è, però, radicalmente mutato rispetto ad appena dieci anni fa. Gli Stati Uniti in qualche maniera devono prendere atto della presenza di altri attori di peso nello scacchiere internazionale; all’interno le basi di consenso dei due partiti tradizionali sono cambiate con una erosione delle basi elettorali e un significativo spostamento di opinione di importanti settori di ceto popolare e medio, come per altro sta avvenendo in maniera più confusa anche in Europa. Sullo sfondo una radicale polarizzazione che impedisce a tutte le forze di assumere il ruolo di forza politica in grado di garantire la coesione del paese. Le emergenti non riescono ancora a sedurre almeno una parte significativa dei settori di punta e più avanzati del paese; le altre sembrano ancora del tutto sorde ai richiami del loro elettorato tradizionale.La paralisi programmatica e progettuale di queste ultime appare sempre più evidente. Come se non bastasse, la possibile formazione autonoma di un nuovo movimento politico, come conseguenza della defenestrazione dei sostenitori originari dallo staff presidenziale, potrebbe catalizzare definitivamente questi settori ed avviare ad una crisi profonda se non irreversibile prima il Partito Repubblicano e poi quello Democratico. Non a caso la componente radicale, più legata ai ceti professionali, del Partito Democratico stesso si è rivelata molto più cauta e sconcertata nei confronti di Trump. Nelle intenzioni della famiglia Clinton questa dovrebbe essere una fase di transizione generazionale, ma con le stesse dinastie come protagoniste; nei fatti Hillary Clinton potrebbe rivelarsi il capro espiatorio perfetto da offrire in cambio della definitiva defenestrazione di Trump e con questo pregiudicare le ambizioni della progenie e di qualche adepto rimasto impigliato in qualche parte del mondo. Fantapolitica? Molto probabile! Questi due anni sono stati però effervescenti e sorprendenti. Le trappole disseminate nello scacchiere internazionale iniziano a stringersi e gli armadi di gran parte di questi esponenti politici, cresciuti e formatisi in altri contesti, sono ricolmi di scheletri pronti alla riesumazione. Lo scontro è apertissimo _ Giuseppe Germinario
Qui sotto il testo apparso sulla rivista “Difesa Online” con una valutazione molto critica dei contenuti dell’accordo che si va profilando tra l’italiana Fincantieri e la francese STX riguardo al settore della cantieristica navale. Già quattro anni fa in un paio di articoli avevo trattato di un “misterioso documento”, redatto da una inesistente Lisa Jeanne, riguardante le problematiche e il futuro di Finmeccanica, compresa la divisione cantieristica navale. ( https://italiaeilmondo.com/2017/09/13/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-pubblicato-sul-sito-conflittiestrategie-it-il-28112013/ in particolare il paragrafo “LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE”). Già da allora si paventava il declino inesorabile e il rischio della perdita di controllo della gestione di una azienda strategica; una delle poche capaci di sviluppare tecnologia, di garantire un minimo di autonomia produttiva nel sistema della difesa e di trasferire nel produzione civile le competenze acquisite. Da allora sono stati compiuti ulteriori decisivi passi indietro nella cessione di queste competenze tecniche e nel controllo delle produzioni del complesso militare. Una scelta colpevole già anni fa, addirittura masochistica e criminale in una fase di incipiente multipolarismo nella quale l’ambito della produzione militare strategica, compreso quello navale, non solo viene sempre più tutelato dagli stati decisi a salvaguardare in qualche maniera la propria autonomia decisionale, ma risulta decisivo, grazie alle crescenti commesse e ai maggiori margini economici, al mantenimento della stessa cantieristica civile e delle stesse produzioni civili ad alto contenuto tecnologico. L’Italia, al contrario, con la cessione della Avio, del Nuovo Pignone, con l’assorbimento di Selenia era già sulla strada di un inesorabile declino e una inevitabile sudditanza. Altri settori apparentemente estranei a questi ambiti, come quello della ceramica e della siderurgia specializzata, seguivano la stessa strada. Da allora il cammino è apparso inarrestabile. Ad esso si aggiunge, in conclusione, l’intenzione di Leonardo di concentrarsi sulla sola elicotteristica civile ed ora di Fincantieri nella costruzione di navi commerciali, settori i quali consentono produzioni dai margini ben più ridotti, poco compatibili con livelli elevati di ricerca. Con il rischio sempre più tangibile di vedere ridimensionati, nel medio termine, anche questi settori. Questo dovrebbe essere uno dei temi fondamentali da trattare per chi volesse realmente costruire una forza politica di interesse nazionale, contrapposta alla palude crescente del nostro scenario politico. Altri temi, come quello dell’immigrazione, pur importanti, dovrebbero fungere da corollario. Sarebbe finalmente il discrimine qualificante tra una forza politica in grado di formare una classe dirigente seria, capace di governare e indirizzare un paese ed una invece esposta e vittima di facili demagogie. Qui sotto il testo e il link di riferimento:
FINCANTIERI: THE FRENCH CONNECTION E L’ITALIAN JOB
L’accordo è ormai cosa fatta. I titoli Fincantieri sono infatti in salita da alcuni giorni ed è ricominciato il mantra celebrativo della nascita del polo franco-italiano della cantieristica militare. Il compito è convincere gli italiani che quella che promette di essere una sonora sconfitta in realtà sarà una luminosa vittoria del nostro capitalismo di Stato. I dettagli non sono ancora noti. Ci avventuriamo però in un’ipotesi (sperando di essere in errore), basata sul pessimismo che la storia recente del nostro Paese e dei suoi centri di potere impone. La nostra sfera di cristallo dice che la soluzione adottata, dopo i proclami indignati dei nostri governanti come reazione per la rimessa in discussione da parte di Macron degli accordi già sottoscritti, privilegerà la Francia a scapito l’Italia, nel senso, per essere concreti, del nostro Pil, dei livelli occupazionali, etc..
Ecco quindi la mossa del cavallo con cui Macron farà scacco matto all’Italia (magari con lo zampino di qualche “fraterno” amico italiano): dare vita a un Polo europeo della cantieristica, suddiviso in due rami. A Fincantieri la gestione, ancorché sotto tutela del governo francese (che non cede la maggioranza della proprietà), del nuovo gruppo industriale Saint Nazaire-Fincantieri per il mercantile; alla francese Naval Groups il controllo del ramo militare di Fincantieri (quello redditizio).
L’impresa che tanto ci aveva inorgogliti, finalizzata alla conquista di un pericoloso concorrente francese, si sta trasformando nel soccorso, con fondi pubblici, ai cantieri di Saint Nazaire per non farli fallire e nella cessione al gruppo francese Naval Groups del controllo della nostra Industria Navalmeccanica militare, con conseguenze pesanti anche per Leonardo. Un bel colpo di scena, non c’è che dire.
Considerato il rapporto di forza fra Naval Groups e Fincantieri militare, la prima capacità a essere anemizzata (come sempre è accaduto nei casi precedenti di merger fra aziende italiane e gruppi francesi) sarà quella progettuale, per ridurci al ruolo di semplici subfornitori. Poi seguirà la dismissione di alcuni cantieri italiani destinati a costruire navi militari, considerati esuberanti rispetto a quelli del nuovo gruppo franco-italiano. Il primo a cadere sarà lo storico cantiere di Castellammare di Stabia, su cui peraltro Fincantieri non ha investito da tempo, seguiranno gli altri. Con buona pace dei Sindacati e dell’indotto industriale italiano, Fincantieri non solo continuerà a trasferire ai cantieri Vaard in Romania carichi di lavoro da Riva Trigoso e dal Muggiano, ma si avvarrà anche dei cantieri francesi, a scapito di quelli italiani, per onorare gli impegni sottoscritti per il mantenimento dei livelli occupazionali di Saint Nazaire. Si prepari quindi Monfalcone, Ancona e poi Palermo (che possiede il più grande bacino in muratura del Mediterraneo in grado di ospitare navi da 350.000 tonnellate – foto).
Sul fronte militare, oltre alle conseguenze negative per l’occupazione nella cantieristica e dell’indotto, fra i danni collaterali ci saranno anche i livelli occupazionali delle aziende di Leonardo. Visto che Thales, il suo principale concorrente possiede il 15% di Naval Groups, è evidente che come conseguenza della leadership francese sul ramo militare, i sistemi d’arma e di comando e controllo di Thales saranno privilegiati sulle nuove navi, rispetto a quelli di Leonardo. Considerato che quasi il 50% del valore economico di una nave militare è rappresentato dai suoi equipaggiamenti, il danno in termini di Pil e di occupazione per l’Italia è evidente. Ancora peggiore potrebbe essere lo scenario se il Governo avesse offerto anche Finmeccanica nel pacco dono ai francesi. In questo caso anche Leonardo verrebbe ridotta progressivamente al ruolo di sub-fornitrice dell’Industria francese.
Il Governo italiano riducendo sempre più il bilancio della Difesa ha demolito non solo le potenzialità operative delle Forze Armate, ma con loro ha impoverito la capacità d’innovazione e più in generale la forza dell’industria ad alta tecnologia della Difesa, rendendola sempre più vulnerabile e meno competitiva sui mercati esteri. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto la Francia, che ora si appresta ad assorbire anche le nostre ultime capacità autonome nel settore della Difesa.
È inoltre opportuno chiarire che nonostante i proclami per la creazione di un nuovo Airbus Navale, in grado di accelerare l’integrazione della Difesa Europea, Macron non metterà a sistema Europa tutti i suoi cantieri, ma solo quelli in difficoltà di Saint Nazaire, tenendo per la Francia i cantieri navali a più alto contenuto tecnologico, ovvero quelli in grado di costruire le unità militari più sofisticate fra cui i sottomarini, esattamente come già accaduto con l’Airbus Aeronautico. Anche in il quel caso la Francia tenne separati da Airbus, in mani esclusivamente francesi, gli stabilimenti della Dassault, da cui provengono gli ottimi caccia multiruolo Rafale (foto), con cui la Francia ha fatto, spesso con successo, concorrenza al consorzio europeo Eurofighter.
Una volta di più la Francia accorperà sotto la sua leadership un fastidioso concorrente europeo, mantenendo tuttavia nelle sue mani i gioielli di famiglia. Quindi Europa si, ma a guida francese.
Per il settore mercantile, la mancanza della maggioranza della proprietà non consentirà a Fincantieri, probabilmente con suo grande sollievo, di adottare piani industriali aggressivi per rilanciare Saint Nazaire, potendo scaricare sul suo maggior azionista (lo Stato Italiano) i debiti del cantiere francese, che devono essere davvero poderosi, considerato il prezzo irrisorio di 80 milioni di euro a cui sono stati acquistati. Un prezzo fantastico per un affare convenientissimo. Strano che all’asta si sia presentata, unica fra tutti i grandi gruppi cantieristici del mondo, fra cui il colosso tedesco ThyssenKrupp, solo Fincantieri. Possibile che Bono sia stato l’unico a fiutare l’affare?
Ai meno ingenui tutta l’operazione appariva sin dall’inizio come il salvataggio di Saint Nazaire e non un’acquisizione per eliminare un pericoloso concorrente nel segmento delle grandi navi passeggeri, come veniva raccontato al pubblico italiano. Sarebbe stato assai più vantaggioso per Fincantieri lasciare che i cantieri di Saint Nazaire fallissero, senza accollare alla nostra finanza pubblica anche questo fardello. Anche la giustificazione addotta in merito alla mancanza di spazi per costruire navi passeggeri da 200.000 tonnellate non ha senso, visto che Fincantieri possiede a Palermo (foto) un bacino in muratura in grado di contenere navi di grandissimo tonnellaggio (300.000 tons.) molto superiore a quello richiesto per le nuove pur grandi navi passeggeri. Sarebbe bastato investire risorse nel cantiere siciliano invece che all’estero, per disporre di uno stabilimento in grado di reggere la concorrenza sulle navi passeggeri di grande taglia , sempre più richieste dagli armatori internazionali.
Del resto anche la proposta fatta dal ministro dell’economia francese La Maire di dare vita a un Airbus nel settore navale, per vincere le resistenze del governo italiano, è farina del sacco di Bono (facile la verifica sul web), sinora non decollata per le conseguenze negative sull’insieme delle aziende della Difesa italiana. Perché allora è la Francia a proporla e non il nostro Governo, se l’idea era dell’amministratore delegato del gruppo italiano? Un fatto è sicuro, dopo che La Maire ha garantito che l’amministratore delegato e il presidente del nuovo gruppo Franco Italiano nel settore passeggeri sarebbero stati espressione di Fincantieri, anche senza la maggioranza della proprietà, l’atteggiamento di Fincantieri è tornato estremamente collaborativo. Dopo tale annuncio si sono ritrovati Francia e Fincantieri alleati a spingere per far accettare la proposta francese e dall’altra, il Ministro Calenda e Padoan che cercavano di resistere per ottenere maggiori tutele per l’interesse italiano. Ma Fincantieri non era di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, cioè dello Stato Italiano?
Che le conseguenze dell’accordo possano essere nefaste per l’interesse dei cittadini italiani, qualora dovesse essere configurato come anticipato da noi (nella speranza di aver sbagliato), lo dimostrano i precedenti delle fusioni industriali con i francesi, nello spazio e nella missilistica. La Selenia Spazio ad esempio era un’eccellenza mondiale nella costruzione dei satelliti. Da quando è entrata in gioco Thales come sua partner di maggioranza, l’azienda italiana è scomparsa dai radar.
Alla fine dei conti, per la politica italiana la scelta sarà combattere il blocco Francia/Fincantieri o piegarsi, evitando il conflitto con avversari potenti, cercando di salvare la faccia con il racconto dell’Airbus Navale. Si tratta in fondo di arrivare all’elezioni d’Aprile. Si potrà comunque raccontare la favola della vittoria Italiana, perché avremmo ottenuto dai francesi (anche se su proposta francese, ma questa è una sottigliezza) di dare vita al polo industriale europeo per la difesa comune. Diremo anche che non conta chi comanda, ma è lo spirito europeo che miriamo a rafforzare. E poi meglio avere Fincantieri come amica in tempi di elezioni che come nemica. D’altra parte i danni li subiranno gli italiani, ma non subito, fra qualche tempo, a elezioni passate. Un altro settore produttivo strategico sembra quindi destinato a cadere in mani straniere, nell’indifferenza complice dell’opposizione e dei Sindacati.
Se dovesse finire così, Macron avrebbe vinto alla grande. Sarebbe riuscito a non dare agli italiani la proprietà di Saint Nazaire e a prendere il controllo tramite Naval Groups del comparto industriale italiano dedicato alla costruzione di navi militari. Se ciò non fosse già abbastanza, tramite Thales potrebbe assorbire in un abbraccio mortale anche le aziende di Leonardo. In sintesi tutto il settore dell’industria della difesa italiana passerebbe sotto leadership francese. Macron avrebbe fatto il suo dovere nei confronti del popolo che l’ha eletto, quello di difendere gli interessi nazionali francesi. Ma anche noi italiani abbiamo un vincitore: il Dott. Giuseppe Bono. Invece di andare in pensione, dopo 12 anni di regno su Fincantieri, a cui era approdato dopo un periodo a Finmeccanica e prima ancora in Efim, a 73 anni conquisterà un’altra prestigiosa poltrona che gli consentirà di rimanere in sella, con tutti gli annessi e connessi del caso, almeno sino a 77 anni. Vassallo del Re di Francia e non più monarca assoluto di Fincantieri, è vero, ma a 73 anni, quando la maggioranza dei coetanei è in pensione da tempo, si può senz’altro accontentare.
E all’interesse nazionale? Ci penserà qualcun altro.
Oppure no.
(foto: Présidence de la République française / Fincantieri / U.S. Air Force)
Considerazioni di Massimo Morigi sul recente podcast di Gianfranco Campa https://italiaeilmondo.com/2017/09/02/11-podcast_la-fortezza-assediata-di-gianfranco-campa/
«lo spazio esteriore – svuotato – della sovranità territoriale rimane intatto, mentre il contenuto reale di questa sovranità viene modificato in quanto vincolato alla protezione del grande spazio economico della potenza esercente il controllo. Il controllo e il dominio politico si fondano qui sull’intervento, mentre lo status quo territoriale rimane garantito. […] la sovranità territoriale si trasforma in un vuoto spazio di eventi economico-sociali. Viene garantita l’integrità territoriale esteriore, con i suoi confini lineari, non già il contenuto sociale ed economico della stessa integrità, ovvero la sua sostanza. Lo spazio del potere economico determina l’ambito giuridico internazionale. » (Schmitt, 2003, pp.324-325)
La guerra dell’establishment politico americano contro Trump (repubblicani e democratici indifferentemente, grandi mezzi di comunicazione, complesso militare-industriale) descritta e analizzata con acutezza da Gianfranco Campa nei suoi podcast ed in particolare nell’ultimo “La fortezza assediata”, l’undicesimo, dove viene freddamente rappresentata quella che sembra essere la resa finale dei conti contro coloro che hanno costruito l’ascesa alla presidenza dell’erratico e manovriero (purtroppo solo pro domo sua) nuovo presidente statunitense, al di là delle peculiarità caratteriali e politiche (ripetiamo, totalmente negative) del neoeletto presidente ed al di là anche degli errori segnalati da Campa che possono (o meglio, che sicuramente hanno) commesso gli “ingegneri” della costruzione di questa singolare presidenza (Sebastian Gorka, Roger Stone, Steve Bannon), certamente abili, per non dire geniali, nell’ avere compreso il malessere profondo dell’America contro un’ establishment dirittoumanista e pro globalizzazione e del tutto insensibile verso gli interessi dei ceti medio-bassi dei lavoratori statunitensi ma anche ingenui nello scegliere un burattino, Donald Trump, che pensavano di poter dirigere a piacimento ma che alla fine si è dimostrato una sorta di maligno e stregato simulacro dotato di vita propria e a tutto disposto per protrarre ad ogni costo e con ogni compromesso non solo la sua vita politica ma, soprattutto, anche la sua incolumità personale, una cosa dimostra e ci consegna pure un insegnamento per coloro che in Italia puntano ad un rivoluzionamento concreto ed integrale del nostro paese. E quello che la vicenda Trump dimostra è che il vero arcanum imperii della politica internazionale emerso dopo il secondo conflitto mondiale è che le potenze vincitrici mentre si ergono più o meno custodi dell’integrità territoriale degli stati sono al medesimo tempo le più occhiute sorveglianti a che questi confini territoriali delimitano sì un territorio ma un territorio privato di ogni autonomia politica ed economica. Stiamo parlando, in altre termini, della morte sostanziale della sovranità statale, o, meglio, della morte della sovranità di quegli stati che hanno perso la seconda guerra mondiale o, pur avendola vinta militarmente, l’hanno persa politicamente. Per rimanere alla vicenda Trump, accanto al fatto che questa nuova amministrazione intende de facto proseguire nella strategia del caos di obamiana memoria, semmai con qualche retorica correzione anti ideologia dei diritti umani e di esportazione della democrazia, è ancora più chiaro che strategia del caos o no oppure, in via ipotetica, la faticosa ricerca di una sua sostituzione attraverso strategie alternative (faticosa ed in via ipotetica perché i revirement trumpiani tarpano le ali a qualsiasi alternativa all’impostazione caotica e dirittoumanistica obamiana ), è ancor più chiaro che quello che in alcun modo non potrà essere cambiato è la politica statunitense volta a mantenere del tutto vuota ed insignificante la sovranità statale degli stati appartenenti alla sua sfera d’influenza. E non solo di questi ma anche di quelli che mai appartenuti al perimetro dell’alleanza occidentale, si ostinano a volere mantenere ben salda ed efficace la propria sovranità. Come dimostra la vicenda nord coreana in cui, al di là del giudizio che si possa dare di quel regime politico, la volontà di voler costruire una propria “force de frappe” nucleare altro non segnala che la sua volontà di tener cara e ben vitale la propria sovranità statale. Trump parla della Corea del nord come di uno stato terrorista: in realtà il suo rapporto col terrore è da invertire perché se questo stato terrorizza è per il semplice motivo che rifiuta di farsi terrorizzare e conseguentemente, e su questo possiamo anche convenire con l’establishment politico-militare statunitense, colui che rifiuta pervicacemente di farsi terrorizzare può suscitare profonde inquietudini ed apprensioni. L’insegnamento che consegna per l’Italia la vicenda Trump. Si tratta di un insegnamento molto semplice che deve partire dalla comprensione ed accettazione del dato di fatto da parte dell’opinione pubblica e da parte di quelle forze politiche che dall’attuale establishment vengono definite antisistema e populiste (qualità per noi positive ma che, purtroppo, allo stato attuale sono tutte da dimostrare: un ribaltone alla Trump da parte di queste forze una volta che abbiano eventualmente assunto il potere è quasi, allo stato attuale dell’arte, una matematica certezza) che un cambiamento reale della nostra vita politica ed economica non può che venire dal consapevole sovvertimento dell’annullamento della nostra sovranità consegnataci dall’esito disastroso del secondo conflitto mondiale ma protratto per più di settant’anni non da ineluttabili leggi storiche ma dalla consapevole e costante azione politica internazionale degli Stati uniti (e per rovesciare non questa “legge di natura” dell’annullamento della sovranità statale italiana ma, invece, il preciso risultato della precisa e conseguente volontà politica della potenza egemone, valgono i percorsi che già su “L’Italia e il Mondo” si sono indicati: processo di progressiva neutralità dell’Italia – con, mi permetto di aggiungere, un occhio a quanto sta facendo la Corea del nord: per dirla tutta, un’Italia neutrale non può non dotarsi di un suo arsenale nucleare – , completo cambiamento della prospettiva politico-culturale, un vero e proprio riorientamento gestaltico della mentalità comune e politica dove vengano spodestati i fantomatici diritti umani e le retoriche democraticistiche per sostituirli con una decisa e spietata difesa e rafforzamento della cultura italiana, intesa questa come l’inestricabile e dialettico portato storico di tutti quegli elementi politici, culturali, economici, religiosi e linguistici che hanno formato l’identità italiana (e qui mi fermo perché, come già detto, è urgente iniziare il dibattito e vi debbono essere anche altri contributi, l’importante è la consapevolezza della direzione da assumere). Insomma, se sapremo contribuire alla formazione di una pubblica consapevolezza politica lungo l’interpretazione espressa dalle parole di Carl Schmitt poste ad incipit di queste brevi considerazioni sarà molto difficile, per non dire impossibile, che si ripetano sul suolo italico le deludenti vicende che stanno oggi accadendo negli USA. Se invece si permetterà alle c.d. forze antisistema di continuare a praticare la loro interessata somaraggine politico-culturale (tanto per fare un esempio: se permetteremo che queste c.d. forze antisistema continuino a blaterare il loro loffio slogan “aiutiamo gli immigrati a casa loro” anziché, come in osservanza ad un elementare buon senso di realismo politico deve essere pubblicamente affermato, comincino ad impegnarsi con un ben più sostanzioso e vincolante: «pur mantenendo intatte e rispettando rigorosamente le disposizioni e consuetudini di civiltà e del diritto internazionale che impongono di soccorrere in terra ed in mare chi si trova in pericolo di vita, noi permettiamo di circolare e lavorare sul nostro territorio solo a chi economicamente e culturalmente – cioè chi è funzionale alla nostra Kultur, come avrebbe detto l’infamata geopolitica tedesca del secolo scorso ma infamata perché gli sconfitti non potessero più praticarla contro i vincitori della guerra – fa i nostri interessi e dei rimanenti che non soddisfano questi requisiti, per dirla in tutta franchezza, nun ce ne pò fregà de meno» … ), il cambiamento sarà solo quello del personale che governerà il paese. E tutto rimarrà come prima, come puntualmente è accaduto negli Stati uniti con la nuova – ma vecchissima nella sostanza – presidenza di Donald Trump. Massimo Morigi – 3 settembre 2017
Questa volta ci troviamo in Donbass (Ucraina), grazie al prezioso contributo di Max Bonelli. Il Donbass è uno dei tanti focolai di guerra pronti a riesplodere in funzione delle strategie conflittuali ai danni della Russia. Ha la peculiarità di essere a poche centinaia di chilometri da Mosca. L’occasione del conflitto scatta con il colpo di mano in Ucraina di quattro anni fa con il quale si è voluto spostare quel paese da una condizione di neutralità e di forte legame con la Russia ad una di vera e propria sudditanza occidentale e nel contempo si è proceduto ad una politica di forte discriminazione della popolazione russa e russofona, ancora più accentuata e violenta di quella dei paesi baltici. Sull’Ucraina si sono concentrate, oltre a quelle strategiche e più prosaiche americane, anche le ambizioni egemoniche dei paesi europei centrali e nordorientali sino a creare un guazzabuglio dal quale è scaturito un regime fantoccio nemmeno in grado di attingere dal proprio paese i componenti del governo. Su tutto ha brillato l’Unione Europea, pronta ad accettare nel proprio seno, un paese in piena guerra civile contrariamente alla prassi ultradecennale. La massima aspirazione possibile, al momento, risulta un congelamento delle posizioni acquisite_ Germinario Giuseppe
Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk.
Mi trovo al museo della Grande Guerra Patriottica di Donetsk, appena di fianco all’enorme stadio dello Shakhtar Donetsk, che doveva ospitare i successi della squadra del miliardario Rinat Akhmetov. L’uomo che più di tutti in Donbass aveva saputo sfruttare la rottamazione dell’URSS e che in venti anni aveva costruito un impero finanziario con capitale Donetsk. Accanto a questo simbolo oggi nazionalizzato dalla Repubblica, lavora Vladimir Vladimirovic Savelov veterano dell’Afganistan e dell’ultima guerra in Est ucraina. Un età indefinita tra i 50 ed i 60 bruno dal volto affilato, la tradizionale maglietta a righe dei fanti di marina, si intona con un busto sorprendentemente atletico per la sua età.
Un uomo simbolo che aveva perduto una patria, ideali in quella rottamazione ma che nella ribellione del 2014 ha ridato corpo ad una speranza di un ritorno alla Russia ed ad una società più giusta.
D: Prima della guerra in Donbass, che attività lavorativa svolgevi?
R:Ho iniziato a servire il mio paese in Afganistan, ho ancora in ricordo parecchie schegge in entrambe le gambe, ero giovane al ritorno ho fatto tanti lavori. Minatore, metalmeccanico, prima della fine dell’Urss ero responsabile dell’educazione ideologica dei giovani di un grande quartiere Kievski di Donetsk. Poi dopo la caduta dell’Unione Sovietica è caduto tutto un mondo ed anche qui a Donetsk i dollari hanno comprato l’anima della gente.
D:Quindi la sua collocazione politica era ben chiara prima della guerra?
R: Si certo, ero membro del partito.
D: L’unione delle repubbliche sovietiche è caduta con uno strano voto democratico, possiamo dire che la prima votazione veramente democratica in Unione sovietica (il referendum del 1991), vede la volontà popolare della maggioranza dei cittadini esprimersi a favore dell’unione ed invece i vertici politici (Eltsin, Kravciuk) decidono di non rispettare questa volontà popolare e lo stato si divide in tante repubbliche, il Donbass a maggioranza russa finisce sotto l’Ucraina. Come ha vissuto personalmente questi 20 anni di indipendenza ucraina?
R:
Vorrei fare una premessa partendo dalla fine della guerra patriottica. L’Urss con tutti i paesi con cui collaborava od aveva alleanze non si comportava come un alleato che depredava le nazioni ma anzi le aiutava in maniera tangibile. Faccio l’esempio di Cuba e del Vietnam che hanno avuto più volte i loro debiti condonati. A differenza degli Usa che ha saccheggiato con le sue multinazionali ed i governi fantoccio l’Africa ed il Medio Oriente. Questa e’ stata una delle concause della cattiva situazione economica dell’URSS negli anni anni 80. Inoltre sono stati sempre fomentati e foraggiati i nazionalismi all’interno dell’Urss dai servizi segreti occidentali per mettere in atto un processo di disgregazione.
Nonostante questo votammo a favore per tenere l’URSS unita oltre il 60% complessivo della popolazione, ma i dirigenti politici se ne fregarono ed preferirono seguire i desideri delle minoranze nazionalistiche dividendo la Russia dalla Ucraina. Riscontrammo con i fatti che proprio le persone che sventolavano la bandiera della democrazia erano i primi ad ignorarla quando non gli faceva comodo.
Una manovra che ebbe sicuramente come regia la CIA e l’ambasciata americana. Io come tutto l’Est ucraina da Karkov ad Odessa che aveva votato per rimanere uniti mi ritrovai in uno stato non mio sotto una bandiera che non mi apparteneva.
D: Trovo molto interessante questa tua riflessione. Nello specifico il Donbass vede la sua volontà democratica violentata non solo in quella occasione, ma anche con il golpe a Maidan. Yanukovych era stato eletto nel 2012 con la stragrande maggioranza dei voti della Crimea e del Donbass. Cosi come non venne rispettato il voto dei Crimeani per annettersi alla Russia e quello interno dell’11 maggio 2014 a Donetsk e Lugansk con lo stesso proposito.
Concorda con questa mia analisi?
R: Certo la volontà del popolo di Donetsk è stata calpestata sistematicamente, con il golpe di maidan dove un legittimo governo è stato rovesciato e l’11 maggio 2014 quando volevamo rispondere con un atto democratico al golpe pagato dagli americani. Ma la SBU i servizi speciali ucraini fecero male i loro calcoli quando attuarono il massacro del 2 maggio 2014 ad Odessa e quello del 9 maggio a Mariupoli dove nel giorno della vittoria spararono alla gente che manifestava pacificamente. Cinquanta morti ad Odessa e venti a Mariupoli. La faccia della democrazia americana venne allo scoperto per tutti e l’11 maggio l’80% voto per l’annessione alla Russia.
Eravamo gente che non aveva votato giusto, da reprimere con la violenza più brutale esattamente come facevano i nazisti tedeschi. Per questo in questo museo abbiamo aperto una sezione dedicata agli eroi morti nella guerra in Donbass Givi, Motorola e tanti altra gente nata qui, russi da tutte le Russie ma anche ucraini che non si riconoscevano nel nazismo di Kiev. In tanti sono morti in questa ribellione. Non potevamo fare altro che ribellarci al sistematico sopruso della nostra volontà.
D:Parliamo dell’inizio della guerra civile, possiamo dire che è partita da Slaviansk?
R: No,tutto è partito dalla strage di Odessa e Mariupoli, intendo la mobilitazione generale. Io penso che questi processi storici avvengono come una reazione a catena. Il golpe a maidan è stato preparato con un lavoro di anni, sia e livello di addestramento che sul piano della propaganda antirussa. Poi i servizi Nato-ucraini preparano le stragi Odessa e Mariupoli, stragi che soprattutto ad Odessa possono essere sfuggite di mano anche a loro e che si sono presentate in una brutalità imbarazzante.
Tutto ciò ha portato ad una reazione ancora più forte e da li la guerra civile.
D: Nel mio libro Antimaidan riporto un video apparso su You
Tube dove cittadini di Donetsk che vivevano al confine con l’aeroporto vedevano arrivare un centinaio di soldati con uniformi ed equipaggiamento non ucraino. Parliamo di marzo, aprile 2014
Cosa ricordi dei combattimenti a cui hai partecipato nel 2014?
Hai avuto la sensazione che l’aeroporto a Donetsk fosse
tenuto da militari non ucraini, intendo uomini di paesi Nato nella primavera di quell’anno?
R: Ho partecipato al primo attacco all’aeroporto il 26 maggio eravamo divisi in tre gruppi. Due coprivano dai grandi magazzini Metro e dall’edificio Volvo ed il terzo penetrò nel nuovo terminale. Li e sul perimetro trovammo una resistenza ben organizzata, erano professionisti non sembravano ucraini, certo la sicurezza al 100% non la ho.
Erano ben vestiti ed addestrati, interagivano bene con gli elicotteri di attacco che fecero il grosso delle nostre vittime.
Noi invece eravamo armati di AK con tre caricatori a testa una autonomia di cinque minuti di fuoco, qualche mitragliatrice e qualche RPG7. Nulla avevamo contro gli elicotteri, abbiamo avuto molti morti al nuovo terminale, una settantina almeno. Mi ricordo che arrivò un cittadino, un camionista, che aveva sentito dei combattimenti con tanti morti e feriti e venne in pantofole con il suo camion ad evacuare i feriti ed i corpi dei morti, sotto il fuoco degli elicotteri. Noi che coprivamo provammo ad attirare il fuoco degli avversari su di noi. Ma alla fine anche dopo l’evacuazione del nuovo terminale la situazione era difficile anche per i gruppi di copertura. Arrivò un anziano, forse accompagnato con la macchina non so, gli mancava una parte di gamba era un veterano della Guerra Patriottica. Ci disse “andate, vi copro io con la mitragliatrice”, non ci fu verso di levargli la mitragliatrice e noi andammo. Fu trovato il giorno dopo morto accanto alla mitragliatrice. Ecco questo ho visto dei combattimenti a maggio. Eravamo quasi tutti di Donetsk, qualche volontario russo ma non erano professionisti, gente normale.
Il momento è umanamente pesante, cade il silenzio, mi viene in mente che alla prima tregua quella fatta per le feste natalizie del dicembre 2014, si affrettarono gli ucraini ad avvicendare gli uomini. Ufficialmente il motivo era che non avevano equipaggiamento adatto all’inverno ma tanti osservatori ritenevano che l’avvicendamento riguardava mercenari stranieri sostituiti da reparti scelti ucraini, quelli che persero l’aeroporto nel febbraio del 2015. Chiudo l’intervista con una domanda più leggera.
D: Come vedi da cittadino della Repubblica, lo sviluppo economico dell’ultimo anno? La gente ritorna , si riaprono attività produttive, le strade vengono riparate, qual’è la tua opinione?
R: Tutto sta andando per il meglio, Zakarchenko il nostro presidente, lavora bene, incomincia la gente a tornare. A fine 2014 questa era una città fantasma abitata da 200.000 persone ma adesso stanno tornando, si parla di 600.000 che risiedono stabilmente, si arriva a 900.000 compresi quelli che fanno lavori negli altri paesi. I cannoni sparano raramente e la gente torna alle proprie attività, non possiamo condannare la paura della gente. In guerra tutti hanno paura, non credere a chi dice il contrario.
Saluto Vladimir con una stretta di mano ed il dono del mio libro Antimaidan al museo con una piccola dedica. Capisce che il libro è stato scritto per amore di verità, ed oggi in questo momento storico basta raccontare i semplici fatti per essere considerato un amico della Repubblica Popolare di Donetsk.
Gianfranco Campa, dalla sua postazione particolare, ci introduce amabilmente ormai da alcuni anni tra i retroscena e nei meandri della politica americana attraverso affreschi ( https://italiaeilmondo.com/2016/11/03/crepe-nellimpero-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-il-19-marzo-2012-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/ ) e rapidi flash ( https://italiaeilmondo.com/2016/11/03/la-rivolta-degli-sceriffi-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-su-www-conflittiestrategie-it-il-18-giugno-2016/ ). Adesso tocca ad uno dei dinosauri di quello scenario, pur pesantemente acciaccato ormai, ad essere oggetto di attenzioni: Hillary Clinton. Se la rappresentazione offerta dalla CNN dovesse essere corretta, c’è da rimanere esterrefatti. Possibile che un politico di quel livello, dal curriculum così impressionante, sia capace di una analisi ed una interpretazione così rozza e squinternata dell’esito delle recenti elezioni presidenziali? Ad un politico ancora in attività, seppure sulla via del tramonto, non è possibile pretendere un giudizio obbiettivo, indipendente dalle conseguenze politiche. Colpisce, però, la rozza strumentalità delle accuse e l’incapacità di cogliere la novità e l’efficacia della conduzione della campagna elettorale del suo acerrimo avversario; il mix di raccolta di dati, gestione, intervento mirato sul territorio, uso combinato di tecniche tradizionali e innovative. Un errore imperdonabile , per una professionista della politica. Ci sarebbe da prendere atto di un fallimento quasi esistenziale di questa classe dirigente formatasi negli anni ’90 e successivi in un agone senza veri competitori e avversari politici, se avversari possono chiamarsi i vari Boris Eltsin, Scalfaro, Letta, D’Alema, Ciampi, Merkel, Sarkozy. Una classe dirigente abituata evidentemente a vincere facile e poco avvezza allo scontro duro con competitori reali. Una classe dirigente che ha infatti dilapidato in pochissimi anni un potenziale egemonico apparentemente superiore a quello dell’Inghilterra del secolo XIX. Lascio al più autorevole Campa il compito di discettare in futuro della condizione del suo paese. Preme sottolineare, piuttosto, la conferma della condizione peregrina della nostra classe dirigente, in particolare della cosiddetta sinistra. Abbiamo visto, in questi anni recenti, dirigenti qualificati, come Massimo d’Alema, gonfiare talmente di compiacimento il proprio gracile corpo da insufflare persino le proprie gote al cospetto e nelle grazie ostentate di Hillary Clinton; abbiamo visto i suoi numerosi epigoni, in particolare di genere femminile, tra questi la Dassù, la Pinotti, la Mogherini, accorrere affannosamente e senza ritegno, al momento dell’assegnazione del loro incarico istituzionale, nemmeno dai diretti referenti istituzionali americani, ma attraverso i sensali, capaci di aprire loro almeno le porte di servizio ( https://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/giuseppe-germinario/. ) Una progenie politica che, evidentemente, ha evitato di analizzare seriamente gli errori e i meriti del proprio passato; ha semplicemente rimosso gli antefatti e, con questo, pronto a assorbire dai più potenti il peggio, trascinando il paese lentamente nella attuale disastrosa condizione, pur di sopravvivere a se stessi. Sembrano ormai destinati a soccombere; ma non è detto che il paese, pur liberatosi dal fardello, riesca ugualmente ad emergere. Germinario Giuseppe
Il libro di Hillary Clinton sulla campagna presidenziale dell’anno scorso, uscirà nelle librerie degli Stati Uniti il 12 Settembre, ma già si conoscono importanti passaggi dei suoi contenuti del testo dal titolo “What Happened” (Cosa e` Successo). Potrei spiegare tranquillamente io alla Signora Clinton cose è successo; ma la Clinton nel libro si ostina ad elaborare una serie di teorie che hanno contribuito secondo lei alla sconfitta della sua campagna elettorale e di conseguenza alla vittoria del presidente Donald Trump.
Il libro è stato acquistato in Florida dalla CNN una settimana prima del previsto lancio. Grazie alla sua tempestività si possono apprezzare alcuni passaggi dell’opera.
“Puoi biasimare i dati, incolpare il messaggio, incolpare tutto quello che vuoi – ma io ero il candidato” scrive. “Era la mia campagna, quelle sono le mie decisioni“. La Clinton ammette di aver anche sottovalutato Trump.
“Penso che sia giusto dire che non ho capito quanto velocemente il terreno si stava spostando sotto i nostri piedi“, scrive. “Stavo correndo una tradizionale campagna presidenziale con politiche accuratamente pensate e coalizioni costruite minuziosamente, mentre Trump stava gestendo un reality show televisivo che ha saputo coltivare in modo irresistibile facendo leva sulla rabbia degli americani“.
Poi la Clinton punta il dito contro il direttore dell’FBI James Comey quando ha riaperto l’inchiesta sullo scandalo delle emails classificate.”La lettera di Comey ha sconvolto la campagna presidenziale” scrive Clinton.
Nel libro, Clinton parla anche del suo matrimonio con l’ex presidente Bill Clinton e osserva che “Ci sono stati momenti in cui ero profondamente incerta se il nostro matrimonio doveva continuare o meno, ma in quei giorni mi sono fatta le domande importanti: lo amo ancora? Posso rimanere in questo matrimonio senza diventare irriconoscibile a me stessa- contorta dalla rabbia, dal risentimento o dalla solitudine? Le risposte erano sempre affermative”.
Ha anche affrontato l’intromissione della Russia nelle elezioni del 2016 e si chiede se una risposta più forte da parte del presidente Barack Obama avrebbe aiutato. Su Vladimir Putin, Clinton sostiene di aver meditato una vendetta; “non avrei mai immaginato che Putin avesse l’audacia di lanciare un massiccio attacco contro la nostra democrazia, proprio sotto i nostri nasi – e di averla fatta anche franca”. Personalmente su questo passaggio non saprei se ridere o piangere talmente ridicola risalta la affermazione di Clinton. HC si rammarica per non avere potuto fargliela pagare, a Putin. “Non aspettavo altro che mostrare a Putin come i suoi sforzi per influenzare le nostre elezione, installando un amichevole burattino (Trump), erano falliti”, scrive. “So che Putin gode di tutto quello che è successo, ma ride bene chi ride ultimo…“.
Inoltre Clinton afferma che “Ci sono molte persone che speravano che anche io scomparissi, ma sono ancora qui.”
Apparentemente la Clinton nel libro attribuisce anche molte colpe della perdita delle elezioni anche a Bernie Sanders, Joe Biden, Barack Obama e altri.
L’uscita del libro di Clinton avviene nel momento in cui il libro della sua guida spirituale, il pastore Metodista; Bill Shillady è stato ritirato dagli scaffali delle Librerie con l’accusa di Plagio. Il libro intitolato: “The Daily Devotions of Hillary Rodham Clinton” (Le devozioni quotidiane di Hillary Rodham Clinton), è una raccolta delle e-mails che lui e altri ministri hanno inviato all’ex Segretario di Stato ogni quotidianamente durante la campagna presidenziale del 2016. Ogni e-mails devotamente composta ogni mattina alle 4 in punto, conteneva un brano della Scrittura, un breve sermone e una preghiera per lei da recitare quel giorno.
Alla fine sulla domanda della Clinton; Cosa e Successo? La risposta è più semplice di quello che sembra: E` successo che Trump ha vinto e la Clinton ha perso. Quello che invece continuiamo a non sapere e che fine hanno fatto le 33.000 emails che la signora Clinton ha eliminato dal suo server…Quello si richiede una risposta che ancora non è arrivata e forse mai arriverà…
Penso che ogni analisi sia superflua. Ogni volta che sento la Clinton parlare, scrivere o semplicemente respirare, mi rendo conto che con tutte le sue debolezze, le sue incertezze, la sua approssimazione, Trump a suo modo e` stata una salvezza.
Pubblichiamo, autorizzati, la lettera di un professore italo-americano, insegnante di liceo a San Francisco. Dal testo si comprende come il dibattito ormai del tutto distorto sull’antifascismo, sui diritti umani, sul politicamente corretto non sia una prerogativa italiana. Si può affermare con certezza, al contrario, che le campagne orchestrate dai grandi organi di informazione siano solo un aspetto di una pratica certosina pluridecennale che ha messo le prime radici negli Stati Uniti sino alle sue ultime degenerazioni moralistiche ed inquisitorie pervasive dei diversi ambiti della società, a cominciare dal settore dell’istruzione, denunciate dalla lettera. In Italia, quello che ci appare una novità, a cominciare dall’impegno messianico e ottuso della nostra Presidente della Camera, Laura Boldrini, non è altro che il rimasuglio ripetitivo, nemmeno troppo convinto, di una violenta battaglia politica il cui epicentro è localizzato di là dell’Atlantico
«Fino a pochi giorni fa i neo-nazisti in America erano quattro gatti,
psicopatici, buoni al massimo ad essere messi alla berlina dai Blues
Brothers. Qualche settimana fa, sono andati a Charlottesville in cerca
di attenzione. La Cnn si è occupata di loro con una diretta non stop. La
presenza delle telecamere ha galvanizzato la protesta e la
contro-protesta, così ora i nazisti, da quella caccola che erano, si
sentono importanti. La diretta televisiva a Charlottesville ha aperto
una lattina piena di vermi e ora non c’è più modo di rimettere i vermi
nella lattina.
Tutto questo è il risultato di una mentalità che nasce nelle high
schools, forse anche middle schools, dove tutti i temi politicamente
corretti costituiscono una specie di dogma e dove si sviluppa la
retorica del “safe space”, lo “spazio sicuro”. Gli insegnanti sono
invitati a mettere sulla porta della loro aula un adesivo che dice
“questo spazio è sicuro”, cioè è uno spazio dove non si mette in
discussione la teoria gender, non si parla di diritto alla vita dei
nascituri, nessun comportamento sessuale è criticato. Sono incluse in
questa retorica anche tutte le teorie pseudo scientifiche su come
l’apprendimento, e perciò la conoscenza, dipenda dal soggetto e non
dall’oggetto che viene studiato. Non è un caso che l’oggettività del
metodo di conoscenza è sotto attacco.
Un altro grande dogma indimostrato che comincia dai livelli scolastici
inferiori è quello di tutta una serie di “disordini”, il più famoso dei
quali è l’Add, Attention Deficit Disorder, o il suo fratellino Adhd,
Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. Ce ne sono molti altri e,
anche se la definizione di disordine enuncia chiaramente che non sono
patologie, vengono di fatto trattate come tali, in molti casi con
psicofarmaci. La conseguenza è che un numero sempre crescente di
ragazzini è considerato non responsabile delle proprie azioni (il ché
potrebbe essere vero nel caso di una patologia), in quanto ha un
“disordine”.
*Il cestino dei deplorevoli
*Qualunque tentativo di discutere seriamente “dogmi”, è presentato ai
ragazzini come una forma di attacco a loro stessi. Questo li educa a
considerare qualunque sfida alla versione corrente del politicamente
corretto come un’offesa inaccettabile, un attacco che provoca loro una
sorta di dolore mentale. Da qui si capisce come, arrivati
all’università, questi ragazzi considerino non solo un loro diritto, ma
quasi un dovere impedire di parlare a chiunque dica una cosa diversa dal
sistema di pensiero dello “spazio sicuro”.
Si potrebbero citare molti episodi, mi limiterò a quanto accaduto al
Middlebury College a fine febbraio. Alison Stanger, una professoressa di
sinistra, aveva invitato Charles Murray, un sociologo conservatore, a un
dibattito pubblico. Gli studenti erano così infuriati che li hanno
attaccati fisicamente e la professoressa ha subìto una contusione. La
presenza di un conservatore nel campus non li faceva sentire sicuri, in
quanto i conservatori sono tutti per definizione intolleranti. Questione
di “feeling”.
Qualunque pensatore non in linea con l’ultima versione del politicamente
corretto è automaticamente immesso in quello che Hillary Clinton ha
definito “il cestino dei deplorevoli”. Nella mente dei ragazzi educati
alla retorica dello spazio sicuro, tutti quelli che sono al di fuori di
tale spazio sono i mostri che popolano il buio dei bambini: odiano i
gay, le donne, i neri e le minoranze; sono fascisti e nazisti. Neanche
essere gay li salva, infatti Milo Yiannopoulos ha ricevuto gli stessi
trattamenti. Questo dimostra che quelli che difendono non sono i gay
reali, ma solo quelli politicamente corretti; non i neri reali, ma solo
quelli politicamente corretti. Se un afro-americano esprime un punto di
vista “conservatore” diventa subito una legittima preda degli attacchi
verbali più feroci, senza tema di razzismo.
Allora si capisce l’enorme pubblicità data al fenomeno, fino a ieri
marginale, dei neo-nazisti. Infatti consente di dire alla generazione
dello “spazio sicuro”, cioè il terreno di coltura degli elettori liberal
del presente e del futuro: “Avete visto che avevamo ragione? Tutti
quelli che non sono d’accordo con noi sono in realtà dei mostri, dei
nazisti. Non esiste complessità di temi o di posizioni, il mondo si
divide in noi e loro. Noi siamo i buoni e loro i cattivi”. I cliché di
Hollywood avevano già preparato il terreno da tempo».
La Corea del Nord ha detonato il sesto ordigno Nucleare causando un terremoto del 6.3 della scala richter nella zona di Punggye-ri, sotto trovate le coordinate della mappa:
NORSAR ha calcolato che la potenza dell’ordigno sarebbe di circa 120 chilogrammi cioè circa otto volte la potenza della bomba caduta su Hiroshima nel 1945 e circa sei volte quella del quinto test condotto a Punggye-ri il 9 settembre 2016. La stampa nordcoreana l’ha definita una testata “termonucleare” per un missile balistico.
Qui la risposta del generale Mattis, segretario alla difesa del governo Trump:
“Un gruppo ristretto facente parte al Consiglio della Sicurezza Nazionale (I Generali…) si è incontrato col presidente e vice presidente, questo dovuto all’ultima provocazione nella penisola Coreana.
Noi abbiamo molte opzioni militari; il presidente ha voluto essere informato, personalmente, su ogni singola opzione. Gli abbiamo chiaramente detto che ci sono le capacità` di difendere noi stessi e i nostri alleati come Il Giappone e la Sud Corea.
Ogni minaccia al nostro paese e ai nostri territori, incluso quello di Guam, sarà` affrontato con una massiccia risposta militare che sarà efficace e travolgente.
Kim Jung Un dovrebbe ascoltare seriamente la voce unificata del consiglio delle Nazioni Unite, di cui tutti i membri hanno unanimemente concordato sul pericolo che la Nord Corea pone e rimangono fermi nella loro convinzione alla denuclearizzazione della penisola Coreana, questo perché non cerchiamo necessariamente l’annientamento totale di un paese, principalmente della Nord Corea, ma come ho detto, abbiamo tante opzioni per fare proprio quello (annientare la Corea appunto…)”
La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.
Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.
UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE
La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.
Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.
Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.
Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.
In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.
Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.
L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.
Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.
La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.
Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.
UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA
Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.
La Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.
Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.
La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.
Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.
Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.
L’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.
L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.
La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.
E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.
Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.
Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.
Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.
LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO
Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.
A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.
Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.
La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.
Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.
Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:
nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;
punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;
si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;
il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;
negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.
CONSUNTIVO
In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.
Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.
Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.
E L’ITALIA?
In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.
DIFFICILMENTE
In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.
Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.
Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.
Gianfranco Campa conferma con cognizione di causa ciò che lui stesso e questo sito avevano analizzato e previsto in tutti questi mesi. Il vecchio establishment è riuscito a riprendere il controllo integrale degli strumenti di governo. Gli strumenti di potere no, quelli li ha sempre detenuti, anche se profondamente intaccati nella loro efficacia e nella loro credibilità. Hanno ripreso il fortino, ma hanno dovuto scoprire gran parte dei loro sistemi di difesa e di attacco Lo scotto pagato per conseguire la vittoria è stato pesante. Hanno dovuto a malincuore includere Trump, il portabandiera e allontanato, ma non annientato i veri artefici dell’incursione alla Casa Bianca i quali intendono riprendere piena libertà di azione, forti degli strumenti e del consenso del nocciolo duro e compatto sul quale Trump ha basato la propria campagna elettorale. Hanno però messo a nudo l’artificiosità del gioco democratico di questi ultimi decenni evidenziando la sotterranea connivenza tra i vertici dei due partiti contendenti; infatti sia buona parte della dirigenza del Partito Democratico che la quasi totalità di quello Repubblicano ne escono screditati sino a veder minacciata, quest’ultima, la propria stessa sopravvivenza. Hanno compromesso in maniera duratura la credibilità e l’efficacia del sistema di informazione. Hanno dovuto vellicare i peggiori istinti del repertorio dirittoumanitarista e del politicamente corretto sino a legittimare la furia iconoclasta che sta alimentando a dismisura le profonde divisioni nel paese e provocare reazioni altrettanto retrograde, utili però a strumentalizzare e demonizzare il profondo movimento di dissenso che cova sotto le ceneri. Hanno dovuto mettere in campo, nella gestione dell’esecutivo, soprattutto un intero staff militare. Le implicazioni circa la credibilità di questa fondamentale istituzione dello Stato e le particolari modalità di conduzione del gioco politico non tarderanno a manifestarsi pesantemente. In sostanza, lo scontro politico nel merito non si è concluso, ma spostato su un altro terreno in modo altrettanto radicale. Se i vincitori attuali riusciranno a riportare nell’ombra i meccanismi veri del potere potranno vincere definitivamente; in caso contrario lo scontro si annuncerà ancora più duro e pesante. Buon ascolto, con tanta attenzione_ Giuseppe Germinario
Con le dimissioni di Sebastian Gorka dallo staff presidenziale americano, la presenza del nucleo originario di sostegno che ha portato all’elezione e all’insediamento di Trump si riduce al solo Peter Navarro, rimasto per altro al di fuori del Consiglio Nazionale. Una funzione, praticamente, di mera testimonianza. La lettera ha evidenziato chiaramente i termini del dissenso, in aggiunta e in maniera più secca rispetto alla lettera di dimissioni di Bannon. La lotta all’islamismo radicale avrebbe dovuto essere la base su cui costruire un accordo di vicinato con l’attuale leadership russa. Una ambizione resa però chimerica dall’inclusione di Hamas, tra le organizzazioni terroristiche, in buona compagnia dei Fratelli Musulmani, sostenuti dalla Turchia; dall’elezione dell’Iran a principale avversario dichiarato nello scacchiere mediorientale. La revisione dell’accordo con l’Iran avrebbe dovuto riguardare soprattutto, nelle intenzioni iniziali, la parte economica, giudicata poco favorevole agli interessi americani; con il passare del tempo, grazie anche alla sommatoria di opzioni scaturite dal conflitto interno alla dirigenza americana, ha assunto sempre più un peso geopolitico. Una dinamica la cui inerzia sta risucchiando la politica estera americana verso il classico sodalizio israelo-saudita indebolito però dalla crisi della dinastia dei Saud. Una impostazione che sta ricacciando progressivamente gli Stati Uniti dalla posizione di arbitro-giocatore a quella di compartecipe pur essenziale. In questo il pragmatismo dichiarato di Trump e del nuovo staff di cui si è circondato, o per meglio dire che lo ha circondato e messo sotto tutela, sembra avere decisamente la meglio con il risultato di riportare in auge, su scala più ampia e coinvolgendo direttamente gli stati nazionali, l’interventismo “caotico” privo però, almeno al momento, della copertura ideologica dirittoumanitarista. Il coinvolgimento esplicito dell’India, l’inclusione possibile dei Talebani, di parte di essi, nella riorganizzazione dell’Afghanistan successiva al nuovo intervento americano, esplicitato per la prima volta in forma ufficiale, lasciano intravedere nuove articolazioni per altro già tracciate sul finire della Presidenza di Obama, ma anche nuovi spazi ai disegni geopolitici concorrenti. Non a caso, tra le varie cose, l’attuale Governo Afghano ha offerto proditoriamente ai russi il ruolo di mediatori e di forza di intermediazione. Una impostazione che sta riportando rapidamente la politica americana dall’intenzione di ridimensionare direttamente la Cina attraverso soprattutto l’induzione di una sua crisi finanziaria, come teorizzato dal gruppo ormai sconfitto all’interno della Casa Bianca al classico canovaccio che vede nella Russia l’avversario da battere e la Cina la potenza da contenere e da inglobare in qualche maniera. Con il tramontare, pur anche agli albori, di questa nuova strategia rimane comunque un ruolo più diretto ma più circoscritto degli Stati Uniti e della sua stessa diplomazia. Quest’ultima, spesso e volentieri, vedi anche l’Ucraina, rimaneva defilata salvo agire per vie traverse sabotando o reinterpretando accordi sottoscritti da altri. Fallisce, probabilmente, l’obbiettivo prioritario di ridare coesione alla formazione sociale americana attraverso una politica di massiccio reinsediamento industriale e produttivo a scapito dei tanti paesi economicamente emergenti sulla base del deficit commerciale americano da perseguire attraverso un rivoluzionamento del sistema di accordi commerciali e finanziari. Il punto di compromesso tra le forze originarie residue sostenitrici di Trump e la parte del vecchio establishment disponibile, almeno all’apparenza, ad un accordo sarà probabilmente un parziale riequilibrio delle compensazioni commerciali che non metta in discussione l’impianto delle relazioni economiche e finanziare e del sistema delle relazioni internazionali. Un compromesso che, probabilmente, risulterà insufficiente a ricomporre le divisioni e la disgregazione che sta colpendo quel paese, al pari di tanti altri soprattutto del blocco occidentale. Da qui la considerazione che la battaglia politica non sia affatto conclusa nei termini così aspri e cruenti manifestatisi ultimamente. Il rientro di Gorka a Breibart e il programma di rifondazione del sito sono lì a testimoniare la determinazione. Resta da vedere quanta parte delle élites dissidenti sono disposte a seguirli. Da lì si vedrà se lo scontro assumerà le forme di una riproposizione o assumerà tutt’altre conformazioni e chiamerà nuovi leader alla ribalta. Giuseppe Germinario
Sebastian Gorka • Trump Comrade
Le intenzioni e le dichiarazioni di Bannon e Gorka sono tutte lì a testimoniare, pur nel residuo ossequio formale al Presidente, come pure però le grandi contraddizioni irrisolte di quel movimento che meriteranno una riflessione a parte, soprattutto alla luce delle possibilità di azione politica nel nostro paese che si potranno creare.
Qui il link con il testo integrale delle dimissioni di Sebastian Gorka
Qui sotto la traduzione (utilizzando un traduttore)
Il dottor Sebastian Gorka, che da gennaio ha servito come vice assistente del presidente Donald Trump, si è dimesso dall’amministrazione della Casa Bianca venerdì sera, dicendo: “è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa di MAGA (Make America Great Again)sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca. “
Breitbart News ha ora ottenuto una copia completa della sua lettera di dimissioni:
Caro Signor Presidente,
È stato un mio grande onore servire nella Casa Bianca come uno dei tuoi Vice Assistenti e Strategisti.
Negli ultimi trent’anni la nostra grande nazione, e soprattutto le nostre élite politiche, mediatiche ed educative, si sono allontanate così lontano dai principi della Fondazione della nostra Repubblica, che abbiamo affrontato un futuro triste e ingiusto.
La tua vittoria dello scorso novembre era veramente un “passaggio di Ave Maria” sulla via per ristabilire l’America sui valori eterni sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza.
Per me è dunque più difficile sostenere le mie dimissioni con questa lettera.
La tua presidenza si dimostrerà uno degli eventi più significativi della politica moderna americana. L’8 novembre è il risultato di decenni durante i quali le élite politiche e mediatiche hanno ritenuto di sapere meglio di quelle che li hanno eletti in carica. Non lo fanno, e la piattaforma MAGA ha permesso di ascoltare finalmente le loro voci.
Purtroppo, al di fuori di te, gli individui che hanno più incarnato e rappresentato le politiche che “faranno di nuovo grande l’America” sono state contrastate internamente, rimosse sistematicamente o minacciate negli ultimi mesi. Questo è stato fatto chiaramente ovviamente mentre leggevo il testo del tuo discorso su Afghanistan questa settimana.
Il fatto che chi ha formulato e approvato il discorso abbia rimosso qualsiasi menzione di “islam radicale” o “terrorismo islamico radicale” dimostra che un elemento cruciale della vostra campagna presidenziale è stato perso.
Semplicemente preoccupante, quando discuteva le nostre azioni future nella regione, il discorso ha elencato gli obiettivi operativi senza definire mai le condizioni di vittoria strategiche per le quali stiamo lottando. Questa omissione dovrebbe disturbare seriamente ogni professionista della sicurezza nazionale e qualsiasi americano insoddisfatto degli ultimi 16 anni di decisioni politiche disastrose che hanno portato a migliaia di americani uccisi e trilioni di dollari dei contribuenti spesi in modi che non hanno portato sicurezza o vittoria.
L’America è una nazione incredibilmente resiliente, la più grande sulla Terra di Dio. Se non fosse così, non avremmo potuto sopravvivere attraverso gli anni incredibilmente divisivi dell’amministrazione Obama, né assistere al tuo messaggio per sconfiggere in modo sconfitto un candidato che ti ha spedito in modo significativo con il suo complesso industriale di Fakenews è al 100%.
Tuttavia, dato gli avvenimenti recenti, è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa MAGA sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca.
Di conseguenza, il modo migliore e più efficace per poterti sostenere, signor Presidente, è al di fuori della Casa del Popolo.
Milioni di americani credono nella visione di rendere l’America ancora grande. Essi contribuiranno a riequilibrare questa sfortunata realtà temporanea.
Nonostante il trattamento storicamente senza precedenti e scandaloso che hai ricevuto da parte di coloro che sono all’interno dell’istituzione e dei principali media che vedono perenne l’America come il problema e che vogliono re-ingegnerizzare la nostra nazione nella loro stessa immagine ideologica, so che tu resterai sicuramente per il bene di tutti i cittadini americani.
Quando ci siamo incontrati per la prima volta nei tuoi uffici a New York, nell’estate del 2015, è stato immediatamente chiaro che amate la Repubblica e a questo non dovrai mai rinunciare una volta che ti sei impegnato nella vittoria.
Quando si tratta dei nostri interessi vitali della sicurezza nazionale, la tua leadership garantisce che il terrorismo islamico radicale sarà eliminato, che la minaccia di un Iran nucleare sarà neutralizzata e che le ambizioni egemoniche della Cina comunista saranno contrastate in modo robusto.
I compatrioti ei stessi lavoreranno all’esterno per sostenere te e il tuo team ufficiale quando torniamo l’America al suo luogo giusto e glorioso come la splendida “città su una collina”.
Dio benedica l’America.
In gratitudine,
Sebastian Gorka
Qui sotto l’estratto di un interessante documento sulla possibile evoluzione del conflitto politico-sociale negli Stati Uniti (dovete però tradurvelo):
But such a conflict — physical or political — could, equally, lead to a victory for nationalism over globalism, and to the protection of currencies and values. We have seen this cycle repeated for millennia. It is the eternal battle. Footnotes: 1. See, Copley, Gregory R.: “The Lemming Syndrome and Modern Human Society”, in UnCivilization: Urban Geopolitics in a Time of Chaos. Alexandria, Virginia, USA, 2012: the International Strategic Studies Association.