Globalizzazione e stati nazionali, di Giuseppe Germinario
PROLOGO
Questo intervento si prefigge di approfondire due tematiche: di tracciare approssimativamente le basi teoriche ed evidenziare i limiti di analisi e la sterilità dell’azione politica derivata da una di una di esse, la globalizzazione; di evidenziare, al contrario, la persistente vitalità di quello strumento e luogo di azione politica che è lo Stato e più in generale di sottolineare, forse sarebbe più corretto dire tentare di sottolineare alcune delle potenzialità offerte dalla teoria del conflitto tra agenti strategici; una chiave di lettura che consente analisi più complesse ed efficaci dei contesti e potrebbe offrire strumenti idonei a comprendere nei vari ambiti le dinamiche e le logiche di conflitto tra centri strategici e a individuare alcuni dei luoghi e delle modalità di formazione di nuovi agenti
LA GLOBALIZZAZIONE
Il tema della globalizzazione (G) comincia ad affiorare dagli ambienti accademici negli anni ’80. I progressi tecnologici, una vera e propria rivoluzione, sono i fattori scatenanti questa rappresentazione; l’implosione del sistema sovietico, il conseguente crollo del sistema bipolare e la permanenza degli Stati Uniti come unica virtuale superpotenza regolatrice ne sanciscono la primazia nel dibattito e confronto politico e nella analisi teorica. Poggia quindi su un contesto politico inedito per le dimensioni dello scenario e la profondità del processo, anche se, inteso più limitativamente come internazionalizzazione, è una situazione che in realtà si verifica ciclicamente nella storia
Il processo di G implica una azione significativa sulle dimensioni del tempo e dello spazio. Il tempo di azione necessario all’azione tende ad azzerarsi; lo spazio operativo e di influenza degli attori tende invece ad estendersi all’intero pianeta. La detenzione e la capacità politica di sviluppo e utilizzo degli strumenti tecnologici moderni sono la condizione propedeutica indispensabile ad una azione efficace nelle due dimensioni.
Il processo di G consiste in un decisivo incremento delle correlazioni, delle interrelazioni, degli scambi, dei flussi di dati, prestazioni e merci su scala planetaria e tendenzialmente, almeno nelle interpretazioni primigenie senza la limitazione di particolari zone di influenza. Le decisioni politiche strategiche tendono quindi ad avere una valenza planetaria e il multilateralismo rappresenta la modalità di azione ideale a garantire la definitiva affermazione di tale processo. Il processo di G riguarda quindi l’ambito culturale, il sistema informativo e di trasmissioni dati, l’ambito economico, la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica e in maniera più controversa le rappresentazioni ideologiche e l’azione politica
La rappresentazione del processo di G offre due scenari guida principali con numerose varianti e gradazioni al loro interno:
Quello di impronta liberale-liberista. Un sistema reticolare i cui punti sono in grado di connettersi potenzialmente con tutti gli altri attraverso gli snodi senza particolari gerarchie o percorsi obbligati da terzi, specie politici. Il funzionamento ottimale del sistema prevede la presenza debole del sistema politico e dei suoi decisori, limitata per lo più alla regolamentazione esterna dell’insieme; i luoghi e gli strumenti operativi sono gli istituti sovranazionali sotto la supervisione e regolamentazione dei quali i singoli attori, in particolare gli stati, possono interagire tra loro; il criterio operativo diviene appunto il multilateralismo, il quale prevede la possibilità di relazione tra gli stati non strutturati in blocchi, sfere di influenza e alleanze predefinite ma all’interno di strutture e nel rispetto delle linee guida dettate dalle istituzioni internazionali. Parte integrante dello schema liberale, con alterne fortune, attualmente però in declino è la sua variabile progressista, ancora ostinatamente radicata nella sinistra con le seguenti linee guida: il rapporto tra attività politica ed attività economica è efficace e proficuo solo se le dimensioni delle istituzioni politiche corrispondono a quelle del mercato o siano almeno tali da poterne influenzare o regolamentare le dinamiche; attualmente la divaricazione tra il mercato globale e le istituzioni politiche troppo limitate territorialmente impedirebbero il controllo e l’indirizzo dei circuiti economici nonché la formazione di una società civile corrispondente alle dimensioni del mercato in grado di costruire formazioni politiche adeguate. Si assisterebbe quindi al primato assoluto dell’economico sul politico, al meglio ad una sorta di convivenza parallela tra i due ambiti. L’obbiettivo, in realtà l’aspirazione, diventerebbe quindi la “governance” e possibilmente l’istituzione del governo mondiale. Tra gli ispiratori più in auge di tale concezione, ma con un ascendente in declino, troviamo Habermas il quale in particolare individua nella storia una chiara tendenza alla giuridificazione dei rapporti umani e politici tra i paesi a scapito dell’uso diretto della violenza; la detta giuridificazione trae alimento dal riconoscimento di legittimità fondato attraverso la formazione di un “mondo vitale” comune imperniato su un linguaggio, un patrimonio culturale e valori comprensibili e condivisi tendenzialmente da tutti; l’insieme dell’attività degli uomini, con la significativa eccezione di quella economica, categoricamente separata dall’autore, è impregnata da questa prassi discorsiva. In realtà Habermas si rende conto del carattere utopico e larvatamente totalitario, nella fase conclusiva, della propria visione proprio perché tende a ridurre al mero diritto l’intero ambito d’azione del politico e questo all’azione dello Stato. Il rischio consisterebbe nel favorire il predominio per via istituzionale di una cerchia tecnocratica analoga a quella che prevarrebbe grazie all’attuale predominio dell’economico. La “soluzione” individuata da Habermas consiste nella formazione di istituti di governo mondiale laschi fondati sui principi minimi comuni presenti nelle grandi rappresentazioni ideologiche e morali prevalenti, in particolare le religioni.
Quello di impronta sistemica. Anche questo un sistema reticolare, ma diretto ed egemonizzato da un centro di comando particolare (er i puù la grande finanza) oppure da un sistema centralizzato e pervasivo (il capitalismo). La scuola degli Annales, a partire da Braudel per arrivare a Wallerstein e tanti altri, ha inaugurato uno dei filoni originari da cui traggono alimento queste concezioni. Secondo costoro la storia si sviluppa per cicli di varia estensione a loro volta all’interno di cicli di lunga durata (cicli di Kondratief) inframezzati da fasi di transizione; ad ogni ciclo di lunga durata corrisponde l’affermazione di particolari sistemi-mondo, di sistemi interconnessi, dotati di centro e periferia con particolari regole interne di funzionamento in grado di garantire stabilità, efficacia e continuità. In passato i sistemi mondo erano costituiti da imperi e dal predominio del politico e della funzione diretta di comando, di controllo e di esercizio della forza nel conflitto. L’ultimo sistema-mondo caratterizzante l’epoca moderna, è in realtà una economia-mondo; un mercato tendenzialmente globale dominato dal capitalismo all’interno del quale la dimensione politica assume il carattere di una funzione egemonica piuttosto che di esercizio diretto di decisione e comando. La finalità del capitalismo, però, si riduce al profitto e all’accumulazione. Il capitalismo deve la propria esistenza e la propria fortuna al regime di oligopolio sui prodotti di punta coltivati nel centro del sistema e sullo sfruttamento conseguente dei prodotti concorrenziali predominanti invece nella periferia. I centri del sistema si avvicendano seguendo la capacità di detenzione dei prodotti di punta; cercano di contrastare il proprio declino ed il proprio collasso legato alla crescita dei costi di produzione attingendo dal serbatoio delle masse contadine per altro ormai in via di esaurimento e cercando di eludere i costi sociali, infrastrutturali e ambientali delle proprie attività ma con crescente difficoltà. La pretesa prioritaria del “capitalismo” rivolta al Politico è quella di alimentare quella frammentazione degli Stati tale da consentire di sfuggire al loro eventuale stretto controllo; l’impegno subordinato degli Stati consiste nel conquistare la posizione egemonica centrale garantendosi l’allocazione ed il controllo delle produzioni oligopolistiche rispetto alle posizioni periferiche e semiperiferiche, queste ultime le più impegnate nelle posizioni precarie e acute di conflitto. Come in a), anche in b) si ramificano dallo schema originario numerosi varianti (Baumann, Negri, Badie e tanti altri ancora ben inseriti nel mondo accademico anglosassone anche se in funzione ancillare rispetto alla componente ben più autorevole del “realismo politico”) le quali esercitano ancora una potente influenza sui fatui fuochi di opposizione movimentista planetaria che qua e là si accendono improvvisamente.
LE INCONGRUENZE DI QUESTE RAPPRESENTAZIONI
Più volte abbiamo denunciato la sterilità e la inadeguatezza di queste rappresentazioni. Le incongruenze di queste rappresentazioni riguardano rispettivamente il merito del processo di globalizzazione, la sua immagine sacralizzata e assolutizzata che obnubilano le diverse e diseguali dinamiche interne, l’attribuzione di una intelligenza e volontà proprie ai sistemi reticolari e alla relazione piuttosto che agli agenti operanti in quelli; ineriscono in particolare la riduzione al dominio dell’economico o al meglio degli agenti economici sugli altri ambiti delle diverse possibilità di relazione e influenza tra gli ambiti vari dell’attività umana con il ruolo connettivo e dinamico del politico secondo i vari contesti, alla separazione dell’azione politica rispetto agli altri ambiti di attività, la riduzione dell’attività politica stessa all’attività statale e nell’ambito dello stato, il disconoscimento e il travisamento della funzione dei centri strategici e delle dinamiche del conflitto e della cooperazione tra di essi. Tutti ambiti sui quali il professor La Grassa ha offerto spunti e chiavi di interpretazione tali da poter sviluppare proficuamente il lavoro di ricerca teorica ed analisi politica.
Le conseguenze di queste discrasie sono particolarmente pesanti e influiscono negativamente nell’azione politica.
Comincio dalle incongruenze:
La G non è un processo che investe uniformemente tutti gli ambiti. Vi sono settori investiti più pesantemente (parte del finanziario, trasmissione e gestione dei dati), altri con minore intensità; nemmeno investe uniformemente i territori ed i paesi; le limitazioni sono presenti spesso e volentieri anche negli stessi paesi centrali paladini della libera circolazione. La stessa intensità del processo è sovrastimata dalla ulteriore frammentazione politica del pianeta e dal cambiamento di regime economico di gran parte dei paesi del blocco sovietico, fattori che ad esempio hanno trasformato in internazionali gli scambi economici interni ai paesi originari e alle unità produttive stesse. In realtà si parte da un presupposto invece tutto da dimostrare (stati in dissolvimento e/o ridotti a mero strumento del capitale e delle sue esigenze di accumulazione e profitto), si individua l’ambito di maggior evidenza come dominus e regolatore esclusivo del sistema (finanza), capaci di autoalimentare potere e ricchezza addirittura senza rapporto con i poveri e i diseredati nella versione estrema (Baumann). La conseguenza è che il conflitto diventa planetario ma riguarda la semplice redistribuzione tra l’1% della popolazione ed il restante ridotto a plebe nella rappresentazione più estrema, tutt’al più nella versione più “novecentesca” tra capitale e sfruttati questi ultimi a loro volta uniti nella rivendicazione contestuale di diritti sociali classici e dei diritti civili ed individuali (Wallerstein). Il ruolo degli Stati non è più centrale, ridotti come sono a meri esecutori e agenti di repressione e spesso nella condizione di ostaggi del mondo finanziario. In sostanza l’aspetto e il punto di vista economico, in particolare quello distributivo e commerciale, pervadono tutti gli ambiti, da quello politico (denaro corruttore) a quello ideologico-esistenziale (consumismo, l’alienazione). Tutte chiavi di interpretazione che tanto semplificano indubbiamente le analisi quanto distorcono e rendono sterili e subordinati i propositi di opposizione riducendoli spesso a denunce moralistiche e rivendicazioni dogmatiche o fuorvianti.
La rappresentazione reticolare, nel suo aspetto più appariscente, offre una visione di flussi frenetici secondo una logica propria e autonoma, praticamente spontanea, di quella trama; al sistema e alla rete di relazioni vengono attribuite una volontà ed una intelligenza proprie dal sapore spesso deterministico. Tale rappresentazione nasconde in realtà la valenza della gerarchia degli snodi dove i flussi si incrociano, si mischiano e si scontrano e soprattutto l’elemento fondamentale che gli impulsi partono da agenti e da loro gruppi di diverso peso e composizione presenti nella trama in rapporto non univoco tra di essi
L’azione politica anziché essere pervasiva a determinate condizioni dei vari ambiti dell’azione, subisce di conseguenza una sorta di dissociazione e separazione dal contesto. Da una parte, dalle componenti politiche apertamente integrate nel sistema viene relegata negli ambienti e nelle dinamiche istituzionali, per lo più rappresentative o al meglio di solo governo ma svuotate in realtà sempre più di potere e di competenze; dall’altra assume nella sua componente radicale connotati esistenziali che investono la salvaguardia della natura umana oppure la sua mera riduzione ed alienazione ad un unico aspetto (economico, consumistico). In pratica lo scontro politico si riduce al conflitto assoluto tra bene e male, alla salvaguardia o meno dell’integrità della natura umana. I soggetti in opposizione si riducono a pletore e masse indistinte dai bisogni insoddisfatti.
COME DON CHISCIOTTE. UNO SPRECO IMMANE DI ENERGIE
Le rappresentazioni così enunciate inibiscono una comprensione adeguata del contesto, conducono ad una sottovalutazione della complessità dei sistemi, della identità, della natura e della capacità operativa e attrattiva dei decisori dominanti, delle motivazioni complesse della loro azione politica e al contrario ad una sopravvalutazione moralistica della forza degli oppositori e dei centri minori in conflitto e competizione. Con esse si tende ad ignorare la complessità delle stratificazioni sociali e geopolitiche e l’effettiva forza ed omogeneità delle forze interagenti e in contrapposizione.
In particolare:
il dominio occidentale viene assimilato al dominio capitalistico e quest’ultimo surrettiziamente al dominio finanziario. Una rappresentazione resa verosimile dalla attuale fase di approssimativo dominio unipolare pur in degrado, laddove lo strumento militare esercita soprattutto una pressione latente e la gerarchia degli stati e la progressiva disgregazione o assoggettamento di quelli autonomi più deboli può offrire una parvenza di sistema unico nel quale il dominio politico rimane in ombra e sembra concedere a forze più appariscenti, più mobili e liquide (finanza, ect) quel predominio cui contrapporre masse informi o richiedenti al meglio una costellazione di diritti. L’emergere di centri politici alternativi e progressivamente contrapposti al dominante, radicati in alcuni stati emergenti ha infatti disorientato la leadership della contestazione mondialista al dominio mondialista. Da una parte questa li assimila forzatamente ai dominanti storici denunciandone la collusione e la condivisione di interessi e di dominio. Un’altra parte di costoro investe i nuovi arrivati dell’aura di paladini della ricostruzione dell’integrità umana antitetica al nichilismo e materialismo occidentale. Assegnano loro una funzione salvifica e di creazione di un sodalizio strategico millenaristico (lotta tra impero terrestre e potenze marittime, tra spiritualità e gretto materialismo, ect). Tutti ingredienti atti a sostituire una nuova subordinazione alla precedente o a indurre al rifugio verso soluzioni localistiche e comunitaristiche.
il preteso dominio assoluto della finanza impedisce di individuare la complessità della struttura finanziaria, la stessa conflittualità presente tra i centri finanziari stessi, la funzione non solo parassitaria ma positiva ultima di drenaggio, convogliamento e destinazione delle risorse, la caratteristica prevalente di strumento politico-strategico dovuta alla sua facilità e flessibilità di utilizzo; strumento soggetto quindi alle fasi difensive e di attacco delle azioni politiche. Un preteso predominio che impedisce inoltre di vedere la finanza come un ambito particolare e consustanziale del capitalismo, inteso come un sistema di relazioni sociali in ambito economico molto più pervasivo, più potente ma meno volubile e mobile del suo particolare ambito finanziario, certamente più determinante nei tempi lunghi
il capitalismo può definirsi “assoluto” solo perché ormai pervade, come “rapporto sociale di produzione” l’intero pianeta soprattutto per le caratteristiche superiori di organizzazione e di dinamicità grazie alla sua capacità attrattiva, non perché determini in esclusiva ogni aspetto della vita umana. Questo rapporto implica anche e soprattutto il conflitto tra agenti capitalistici; implica comunque, sempre più, caratteristiche intanto di gestione politica strategica delle dinamiche interne delle sue attività; dalla gestione dei gruppi interni alle imprese, ai rapporti tra i vari ambiti e i vari agenti in conflitto e cooperazione, alla creazione e gestione di aree di influenza nella verticale della struttura di produzione e nella competizione orizzontale. Altrettanto, però, comporta dinamiche politiche esterne all’attività economica che riguardano gli altri ambiti delle attività umane nelle loro interazioni ed influenze reciproche. I suoi agenti diventano parte integrante dei centri strategici, partecipano ma sono anche costretti ed indirizzati da logiche politiche di dominio e conflitto che costringono il rapporto capitalistico stesso ad adattarsi e conformarsi dinamicamente alle diverse formazioni sociali e alle strutture politiche. I capitalismi stessi, gli agenti delle varie formazioni, hanno bisogno di essere normati, sostenuti, indirizzati formalmente ed informalmente nei rapporti interni, nella competizione interna e in quella esterna, inseriti in una base sociale sufficientemente solida che le dinamiche capitalistiche stesse contribuiscono continuamente a sconvolgere. Tutti requisiti che svelano finalmente che il conflitto politico, con il capitalismo, pervade la stessa funzione economica. Tali requisiti richiedono inoltre l’esistenza di una struttura particolare deputata ad alcune specifiche e particolari attività politiche le quali, però, hanno uno spettro e finalità di azioni diverse e più ampie e offrono una rappresentazione tendenzialmente organica degli obbiettivi e delle finalità di azione: lo Stato. Gli stessi capitalisti delle varie formazioni dette capitaliste devono tener conto, agire all’interno e il più delle volte obbedire alle indicazioni e alle esigenze dei centri strategici dello Stato anche nelle loro attività internazionali, quelle che apparentemente dovrebbero garantire maggiore autonomia di azione nelle utopie liberali e movimentistiche.
In realtà il processo di globalizzazione non fa che riconfigurare il ruolo di centri e realtà politiche comunque delimitate territorialmente e funzionalmente, accentuando spesso tali caratteristiche piuttosto che annullandole. Tale consapevolezza sembra acquisita ormai nei paesi e nelle formazioni dalla identità politica più forte. L’affermazione, tutt’altro che consolidata però, di Trump negli Stati Uniti e del Front National in Francia, il consolidamento del potere di Putin in Russia sono alcuni esempi significativi. L’annaspamento dell’Italia lo è altrettanto, ma in senso opposto.
IL RITORNO DELLO STATO (DALLA FINESTRA)
Quello che nelle rappresentazioni “creative” si è fatto uscire dalla porta, sta rientrando a volte alla chetichella dalle finestre più spesso di forza dalle entrate principali in quelle stesse rappresentazioni: lo Stato
In realtà pur in una visione economicista, specie nei paesi dominanti sono sempre rimaste bel salde, anche se in ombra sino a pochi anni fa, correnti di economisti che riconoscono un ruolo decisivo dello Stato non solo in termini di regolazione keynesiana dei cicli, ma anche di regolazione normativa, intervento diretto strategico anche nelle relazioni internazionali ma anche l’influsso dei costumi, della cultura e dell’ideologia nelle dinamiche economiche (Rodrick, Stiglitz, Aghion, Krugman, Foglietta).
A maggior ragione le correnti del realismo politico, compresa quella liberale, hanno sempre avuto un peso determinante, predominante anche se discreto, nei centri decisionali delle potenze egemoni. In Europa e nelle regioni periferiche con scarse ambizioni e capacità di autonomia politica hanno prevalso nettamente al contrario le tesi sovranazionali, del declino degli stati, della legittimità e della forza intrinseca della legge senza il corredo della forza, del potere autonomo degli organismi internazionali. Nel paese dominante ed egemone ha prevalso tutt’al più la rappresentazione falsamente egualitaria del multilateralismo tra gli stati all’ombra di organizzazioni internazionali (FMI, BM, UE, ect) senza effettivo potere diretto ma condizionate e orientate dal paese vincitore; quella stessa rappresentazione egualitaria dei ventisette paesi europei dell’ UE propinata dai paesi più eterodiretti, tra i quali ovviamente l’Italia i quali tendono ad attribuire alla Commissione e al Parlamento Europei poteri ben radicati in realtà altrove. Sarebbe sufficiente ripercorrere la genesi storica delle varie istituzione per intuire la reale fonte ed origine del loro potere. L’aura pacificatrice, democratica ed egualitaria del multilateralismo in realtà presuppone l’esistenza e l’affermazione di una potenza regolatrice indiscussa. Un modello di azione teso ad impedire o ritardare la nascita e lo sviluppo di aree di influenza alternative e potenzialmente contrapposte. Tant’è che, al sorgere di queste realtà politiche, l’iniziativa americana ha mutato registro, sta abbandonando progressivamente l’approccio multilaterale e sta concentrando le energie soprattutto alla stipula di trattati di area internazionali (TTP, TTIP, ect) con gli Stati Uniti come cerniera e baricentro tra questi gruppi. Una impresa, per altro, dall’esito non scontato; anch’essa probabilmente destinata a fallire oppure ad essere significativamente ridimensionata.
La condizione di uno Stato dipende dalla capacità di tenuta delle relazioni esterne e dal livello di controllo e dalla capacità di coesione della formazione sociale di appartenenza (Huntington: intensità ed estensione del potere). Uno Stato può quindi sorgere, fallire, rafforzarsi, indebolirsi, estendersi o ridimensionarsi. Esattamente quello che sta avvenendo in questa fase di fine del bipolarismo e di incertezza e volubilità degli schieramenti legata all’incipienza del multipolarismo; situazione che rende i centri strategici decisori di diverse formazioni sociali più esposti agli interventi esterni e più fragili rispetto alle mutazioni delle proprie formazioni sociali.
Al momento lo Stato rimane ancora l’unica istituzione e struttura organizzata in grado di pretendere e garantire in diversa misura quelle prerogative che consentono la tenuta della formazione sociale ed il confronto con e le interrelazioni esterne alla formazione: il controllo territoriale la cui estensione dipende dalle caratteristiche geografiche, dalla sedimentazione storica della popolazione, dalla capacità tecnologica e quindi in particolare dalla capacità dei centri dominanti di gestire i rapporti di cooperazione e conflitto; la pretesa di monopolio dell’uso della forza all’interno e la conseguente fondazione del diritto regolatore dei rapporti tra lo Stato e i cittadini e tra i cittadini nei suoi aspetti anche informali; la rappresentazione del bene comune, in una delle sue accezioni, fatta non solo di rappresentazioni ideologiche ma di composizione degli interessi più o meno mediati dalla dimensione del conflitto e dai retaggi culturali, indispensabile alla tenuta e alla motivazione dei vari componenti e dell’insieme della formazione sociale; aspetto importante per i fautori del conflitto strategico, la delimitazione dell’azione politica esterna allo stato negli aspetti formali ed informali, comprese le trasgressioni rispetto alle prassi e alle regole riconosciute.
Le prerogative, lo spazio e l’intensità degli interventi tendono piuttosto ad estendersi, intensificarsi e complicarsi: l’estensione delle pretese di controllo delle acque, la gestione e la manipolazione del flusso dei dati e degli snodi di transito, la relativamente nuova dimensione dello spazio aereo, la ricerca scientifica, l’integrazione delle piattaforme industriali, l’apparato militare sono tutti fattori tra gli altri che richiedono un utilizzo complesso delle strutture statali e che definiscono le gerarchie e le possibilità di sopravvivenza e autonomia decisionale degli stati. Le stesse organizzazioni internazionali sono il frutto di accordi diplomatici ed agiscono con il supporto fondamentale degli stati e della loro forza; non possono essere equiparate alla funzione degli stati stessi e quindi non si prestano a modello di superamento di essi se non nelle rappresentazioni ingannevoli. Se dovessero sorgere nuove istituzioni, non deriverebbero certamente da queste ultime; piuttosto trarrebbero ispirazione dalla loro forma più flessibile, lo Stato Democratico Rappresentativo o per meglio dire lo Stato Poliarchico (Charles Lindbloem) con la sua capacità superiore, allo stato attuale di regolare il conflitto tra centri strategici interni alla formazione sociale e il rapporto di questi con le varie componenti e i vari gruppi della formazione in continuo mutamento.
ARTICOLAZIONE DELLO STATO E AZIONE DEGLI AGENTI STRATEGICI
Ho già ribadito che una struttura, una rete, una relazione non sono un soggetto. Hanno una dinamica, ma non una volontà. Sono composte, mosse da soggetti che tutt’al più agiscono in nome e per conto.
Sono i soggetti, singoli o in gruppo che si muovono, utilizzano e mobilitano, non lo Stato. Costituiscono, mobilitano utilizzano parti di esso.
Lo Stato, campo e strumento di azione politica per eccellenza, nelle sue varie conformazioni, fondamentali nel delineare le modalità della cooperazione e del conflitto tra agenti strategici e della conformazione dei blocchi sociali, è comunque una struttura su base gerarchica. Una visione riduttiva e deterministica di questa base induce spesso a ridurre la competizione politica tra agenti in conflitto alla mera taumaturgica e semplicistica conquista del vertice e alla defenestrazione o inglobamento dell’avversario.
Non è così in quanto:
Il rapporto gerarchico non implica una semplice relazione univoca dall’alto in basso; trattandosi inoltre di più livelli nella struttura, le figure intermedie svolgono funzioni di comando e di esecuzione. La posizione gerarchica superiore ha bisogno della competenza, della capacità e della disponibilità di quella inferiore, assegnando a questa comunque un potere di azione relativo. Gli stessi ordini hanno bisogno di interpretazione nella loro esecuzione e di rapporti orizzontali ai vari livelli tra le strutture ed i centri decisionali. La biunivocità o “multiunivocità” delle relazioni sono quindi determinate anche dai rapporti informali, dalle competenze, dall’impossibilità di controllo diretto, dall’interpretazione e da tanti altri fattori
Lo Stato moderno ha sviluppato una separazione di poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che implica una prima divisione di strutture e un rapporto di controllo, conflitto e cooperazione tra di essi; condizioni straordinarie ed eccezionali creano strutture ad hoc difficilmente revocabili le quali una volta sedimentate duplicano e sovrappongono le competenze; la stessa complessità della macchina spinge a rapporti formali ed informali orizzontali tra i livelli tra i vari settori; le strutture diventano di per sé centri relativamente autonomi di potere; con il decentramento spesso si tendono a sovrapporre stessi livelli di competenze e sovranità tra potere centrale e periferico. Nelle situazioni di crisi e di transizione si tende a sopperire alle carenze e al mancato controllo di un settore con l’attribuzione o l’usurpazione di competenze improprie ad altri ambiti (Althusser, Poulantzas) pagando lo scotto di carenze di gestione e situazioni croniche di instabilità, di raggiungimento del tutto parziale e distorto degli obbiettivi politici, di scarso consolidamento dei risultati, di riconfigurazione nefasta dei rapporti tra centri di potere. La vicenda di “mani pulite” in Italia rappresenta un esempio emblematico di tutto ciò. Il processo può essere manipolato direttamente, indirettamente o scaturire da dinamiche incontrollate.
Gli stessi componenti dei centri strategici tendono a creare una cerchia di fedeli, anche esterni ed estranei ai posti di comando formali (“cerchio magico”) come rifugio e consulenza informale e di azione coperta o di ultima istanza nello scontro politico
La rappresentazione della classe dirigente in regnante, governante e dominante (Poulantzas) rende ancora più difficile individuare e stabilizzare le gerarchie di potere per non parlare della funzione del cosiddetto “Stato Profondo” (Chauprade)
Nell’interazione agiscono a pieno titolo importanti centri esterni allo Stato autonomi oppure strettamente collegati a settori di esso. L’azione politica dello Stato e nello Stato assume quindi forme e funzioni particolari ma è solo un aspetto del conflitto strategico tra centri presenti nei vari ambiti delle formazioni sociali (La Grassa)
Sono tutte condizioni che agevolano le trame politiche, gli spazi agibili e la provvisorietà delle situazioni non ostante la parvenza di equilibrio e di definizione dei rapporti di forza.
Condizioni che allargano lo spettro di azione e le condizioni di conflitto. Non solo! Condizioni che moltiplicano le possibilità, le tattiche e le dinamiche del confronto politico e le possibilità di disarticolazione in particolari frangenti degli apparati di potere e soprattutto i luoghi di formazione e consolidamento di potenziali centri strategici e decisionali alternativi ai centri dominanti. Le recenti lotte anticolonialiste, la rifondazione degli stati dell’Europa Orientale seguita al dissolvimento del blocco sovietico sono gli ultimi esempi delle opportunità offerte allo scontro politico da strutture di potere sempre più articolate e complicate.
Quello che si riferisce allo Stato è, per di più, riproponibile con alcune varianti essenziali all’intero spazio del conflitto strategico.
Tutto questo rende molto più problematica e complicata una analisi politica, ma renderà sicuramente l’azione politica degli eventuali centri alternativi più efficace, realistica e meno soggetta alle manipolazioni distorsive.
Purtroppo siamo ancora alla fase propedeutica alla definizione di chiavi interpretative consolidate ed efficaci; tanto più ad una “analisi concreta della situazione concreta” adeguata alle opportunità che l’attuale contingenza politica potrebbe offrire.
Il che dice tanto sull’arretratezza della nostra condizione