Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, _ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri Macerata, pp. 240, € 17,00.

L’amministrazione, scriveva Weber, è quel “potere quotidiano” il quale, anche se quasi sempre non provvede con atti normativi primari, condiziona di più l’esistenza individuale (e collettiva). Ciò non è per lo più compreso dall’opinione pubblica – e dai soggetti che la guidano o almeno la condizionano come i media – i quali focalizzano l’attenzione sugli atti degli altri poteri (intesi à la Montesquieu): sul decreto-legge, sul D.P.C.M. (atto governativo) o sul mandato di cattura per il Sindaco o il Ministro.

Ne consegue che non è percepito come l’assetto del potere amministrativo – teoricamente servente di quelli governativo e, mediatamente, legislativo – condiziona la forma politica cioè l’assetto costituzionale. Questo libro parte da una considerazione diversa: che “Il principio di competenza ha eroso gli spazi e le responsabilità recati dal principio democratico; la tecnica e la politica si sono progressivamente sovrapposte; le comunità sono state spodestate da istituzioni lontane e burocratiche”; e prosegue “Come scrisse Carl Schmitt in Dialogo sul potere «anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri […] Davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio». Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere”.

La tecnocrazia sia nella sua “branca” pubblica (la P.A.) sia in quella privata (che accede o influenza le funzioni pubbliche) fonda il proprio ruolo e potere sul “sapere specializzato” ossia sulla competenza “tecnica”; così la democrazia, fondandosi anche sulla competenza specialistica degli “esecutori-consiglieri” si trasforma in una tecno-democrazia, la quale da un lato si basa sulla legittimità del principio democratico, dall’altro sul possesso del sapere, cioè su un’aristocrazia non di spada, ma di penna. “La tesi di questo libro è, dunque, semplice: nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere… Questo principio aristocratico-gerarchico convive con il principio democratico-rappresentativo di cui, negli ultimi decenni, ha progressivamente eroso significativi spazi. Di conseguenza i poteri non elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non fosse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Pertanto “lo sviluppo di questo potere parallelo, tuttavia, può essere compreso solo tenendo insieme i due demoni della vita politica moderna: lo Stato e il capitalismo”. Così “lo Stato-Leviatano e il capitalismo-Behemoth si corrompono a vicenda, ed in questo legame di reciproco clientelismo mirano a edificare uno stabile apparato di potere, un sistema di élites, che proprio per mantenere la sua stabilità tende a limitare la libertà di individui e comunità” e “l’osmosi tra burocrazia pubblica e grande capitalismo produce tecnocrazia, che non a caso sul piano storico si è sviluppata pienamente con l’avvento della società industriale, ma affonda le sue radici nello Stato moderno”.

Il saggio prosegue poi analizzando i vari aspetti del problema del nichilismo politico, la mentalità tecnocratica, la razionalità, spirito della politica e della burocrazia, le prospettive future. Tutti aspetti considerati con attenzione dall’autore ma non esaminati perché esulano dalla dimensione di una recensione. Ma su due punti è il caso di intervenire. Il primo è che tra le leggi (la regolarità della politica) c’è quella della classe politica (dell’aiutantato come scriveva Miglio), per cui non c’è governo senza “classe” politica. Talvolta non professionale, in altre si. Spesso riservata per nascita (in un ceto privilegiato); in altri casi dalla considerazione sociale (come per le democrazie classiche) e dall’elezione; in altri, come in molte “società idrauliche” favorita dalle mutilazioni sessuali (gli eunuchi in Cina, e nel tardo impero romano). Ma accanto a quella c’è il rapporto tra vertice e base, tra capo/i e governati, anch’esso necessario. Il problema, uno dei principali che si presentano all’uomo politico è come tener in equilibrio questi due “circuiti”. Perché a squilibrarli il rischio è che si mandi in rovina l’istituzione politica (e, spesso, la stessa comunità): come avvenne nel tardo impero romano d’occidente, la cui caduta fu co-determinata, o grandemente favorita dallo squilibrio a favore della “classe” burocratica. Dall’altro che la democrazia moderna è uno status mixtus: Schmitt la considerava tale sia per la compresenza di organi risalenti a principi politici diversi: democratico (per la nomina/elezione dei componenti dei maggiori organi di direzione politica); aristocratico (per il carattere del parlamento); monarchico (per il ruolo del capo dello Stato). E inoltre per l’equilibrio tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese. Nell’analisi di Castellani si aggiunge la compresenza di elementi democratici e tecnocratici: un’altra antitesi da sussumere nella concezione dello Status mixtus, e da addizionare alle altre. Spesso identificata come opposizione tra politica ed economia (ma non è solo questo), specie in momenti d’emergenza come l’attuale. Resta comunque il fatto che negli stati di crisi il problema si presenta nella risposta al quis judicabit: cioè chi decide come superare la crisi?

E chi ha la forza di rispondere efficacemente è il (reale) sovrano. Che diventi poi legittimo è, come scrivevano Hauriou e Santi Romano, solo la durata a poterlo dire.

Teodoro Klitsche de la Grange

AFRICA 2021…come il 2020, di Bernard Lugan

In Africa, l’anno 2020 è finito come era iniziato, con diverse ampie aree di conflittualità:
– In Libia, paese tagliato in due entità, Tripolitania in Occidente e Cirenaica nell’est, Turchia attraverso il governo di Tripoli e L’Egitto, tramite il marescialloHaftar hanno la pistola ai piedi. Il maresciallo Haftar controlla i terminali petroliferi del Golfo di Syrtes che la Turchia vuole conquistare. Per l’Egitto sarebbe un casus belli e ha avvertito che, in questo caso, il suo esercito sarebbe intervenuto.
– Nella BSS (Sahelosaharan Band), la grande novità è una guerra aperta tra Daesh
il cui obiettivo è stabilire un califfato transetnico e transnazionale, e Aqmi che si è evoluto verso un etno-jihadismo territoriale.
– Nel corno, la principale la domanda è se l’Etiopia è sì o no alla vigilia di uno sviluppo di tipo jugoslavo, o al contrario in fase di ricomposizione attorno all’Oromo che emarginò l’Amhara e schiacciò il Tigrayans.
– In Africa centrale, dalla CAR alla regione del Lago Albert, il buco nero non è pronto per essere riempito. Quanto al Mozambico, il jihadismo sembra mettere radici nel gioco della
parte settentrionale del paese vicino alla Tanzania.

Alla fine del 2020, il conflitto “vecchio” cincischiava nel Sahara occidentale dove in agonia il Polisario ha tentato senza successo di tagliare la strada che collega il Senegal al
Mediterraneo, strada che attraversa il Sahara marocchino. Ora la domanda è se l’Algeria ha ancora interesse a sostenere a distanza di un braccio un Polisario, una sorta di testimone delle guerre del tempo della “guerra fredda” prima del 1990, e del quale alcuni degli ultimi
membri si sono uniti allo Stato islamico (Daesh), nemico mortale di Algeri.
Politicamente, l’anno 2020 ha visto tenere una serie di elezioni le quali, nella quasi totalità,
hanno solo consolidato e confermato i rapporti etnodemografici, grazie ai quali i più numerosi matematicamente sovrastano i meno numerosi. Tuttavia, questa etnomatematica elettorale è la chiave della questione politica africana.
Nel 2020, dieci anni dopo l’inizio dell’ondata disastrosa di “Primavera araba”, l’Africa
del Nord è tornata al punto di partenza, ovvero al suo principale problema, quello demografico.
Mentre le nascite procedono più veloci dello sviluppo, dall’Egitto al Marocco, i problemi sociali costituiscono tante bombe a orologeria. A questo si aggiungono problemi specifici. Così la questione delle acque del Nilo che ha creato una situazione quasi conflittuale tra l’Egitto e l’Etiopia, i disperati tentativi del “sistema” algerino di sopravvivere a se stesso.

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

QI al ribasso, di Christophe Lavé

Ci sono tanti altri fattori collaterali, ma questo è importante_Giuseppe Germinario
′′ Il QI medio della popolazione mondiale, che è sempre cresciuto dal dopoguerra alla fine degli anni ‘ 90, è in calo negli ultimi venti anni…
È il rovesciamento dell’effetto Flynn.
Sembra che il livello di intelligenza misurato dai test stia diminuendo nei paesi più sviluppati.
Molti possono essere le cause di questo fenomeno.
Una potrebbe essere l’impoverimento del linguaggio.
Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso.
La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte dal futuro, partecipante passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, attualmente limitato: incapace di proiezioni nel tempo.
La semplificazione dei tutori, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di ′′ colpi mortali ′′ alla precisione e alla varietà dell’espressione.
Solo un esempio: cancellare la parola ′′ fanciulla ′′ (ormai desuetto) non significa solo abbandonare l’estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l’idea che non ci siano fasi intermedie tra una bambina e una donna.
Meno parole e meno verbi coniugati coinvolgono meno capacità di esprimere emozioni e meno possibilità di elaborazione di un pensiero.
Gli studi hanno dimostrato che la violenza nelle sfere pubbliche e private deriva direttamente dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole.
Non ci sono parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile.
Più povero è il linguaggio, più scompare il pensiero.
La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell – ′′ 1984 “; Ray Bradbury – ′′ Fahrenheit 451 ′′) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari abbiano sempre ostacolato il pensiero, riducendo il numero e del numero significato delle parole.
Se non ci sono pensieri, non ci sono pensieri critici. E non c’è pensiero senza parole.
Come si può costruire un pensiero ipotetico deduttivo senza condizionale?
Come si può considerare il futuro senza coniugare il futuro?
Come si può catturare una tempesta, una successione di elementi nel tempo, che siano passati o futuri, e la loro durata relativa, senza una lingua che distingue ciò che avrebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che è potrebbe essere, e ciò che sarà dopo che ciò che sarebbe potuto accadere, è davvero accaduto?
Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri alunni. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicato. Specialmente se è complicato.
Perché in questo sforzo c’è la libertà.
Coloro che affermano la necessità di semplificare l’ortografia, di scontare la lingua dei suoi ′′ difetti “, di abolire generi, tempi, sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana ..
Non esiste libertà senza necessità.
Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza
Fonti
Christophe Clavé
Laureato a Sciences-Po Paris, titolare di un MBA, allenatore professionista, Christophe Clavé ha trascorso 25 anni in azienda, come DRH e poi Direttore Generale. È stato anche incaricato del corso Strategia e Politiche d’Impresa a HEC Parigi per 5 anni.
Tratto da facebook

  

La svolta realistica dell’ecologia politica, di Pierre Charbonnier

Proseguiamo con la pubblicazione di questo terzo articolo, il primo e il secondo hanno trattato delle posizioni politiche di Trump e Biden, il dibattito sui nuovi temi e sui nuovi oggetti di scontro nel confronto geopolitico. Il tema dell’ambientalismo è e sarà sempre più uno dei fili di conduzione che disegneranno gli scenari prossimi venturi. Già il Forum Economico Mondiale di tre anni fa e quello del 2019 hanno iniziato a porre ed imporre il tema. Abbiamo visto la loro versione dozzinale, popolare e manipolatoria nel fenomeno Greta Turnberg e quella culturale divulgativa, ma di basso livello espressa da autori, tali Hariri e Schwab. Il Forum e la musa ispiratrice di questo lancio, tale George Soros, non sono però che due degli attori e agenti di influenza e nemmeno i più importanti. L’articolo qui sotto lo dice chiaramente: l’ambientalismo è diventato un tema, uno strumento e una linea di ispirazione di centri decisionali strategici e di stati nazionali. L’impostazione offerta però da Charbonnier pecca, a mio avviso, su diversi punti. Il confronto geopolitico non può essere ridotto ad uno scontro tra capitalismo fossile, rappresentato dagli Stati Uniti e centro decisionale politico-statale rappresentato dalla Cina. Primo perché la forma capitalistica americana non ha più prevalentemente questo aspetto e ne sta pagando pesantemente le conseguenze in termini di coesione sociale della propria formazione sociale e di vulnerabilità geopolitica, semplicemente perché Ha trasferito all’estero, soprattutto beffardamente in Cina queste attività; né la Cina potrà facilmente sganciarsi dal sistema di predazione ed estrazione intensiva di materie prime e minerali che sostengono la sua economia, parte integrante queste ultime dei problemi ecologico-ambientali. Del resto la questione è mal posta se i contendenti da una parte risultano essere un centro politico-statuale, la Cina e dall’altro un centro di potere capitalistico, gli Stati Uniti. Questo solo perché si tende a rimuovere, si fatica a riconoscere nella Cina l’esistenza di un modo di produzione prettamente capitalistico, anche se dalle caratteristiche diverse plasmate dal regime politico, dalla particolare formazione sociale e dal passato sociopolitico dalle cui ceneri è sorto. Ma anche perché si tende troppo ad assimilare ed indentificare pedissequamente l’appartenenza e la condotta dei centri decisionali strategici politici statunitensi con il business se non addirittura con la sola finanza; questi ultimi in realtà sono solo parte dei primi e non è detto che siano il più delle volte componente determinante. Secondo perché è ancora tutta da dimostrare l’incapacità del rapporto sociale di produzione capitalistico di adattarsi agli imput ambientali, se non addirittura l’improbabilità a farne occasione di business sistematico attraverso anche lo sviluppo tecnologico. Del resto l’umanità ha vissuto altre fasi di crisi ambientale e la fase capitalistica ne ha vissute già almeno tre nella sua breve vita. Chi si ricorda della letteratura legata al famoso “fumo di Londra”? Sono temi che ci troveremo ad affrontare ed imposti nel prossimo futuro. Una dinamica che ci dice che la forma capitalistica è tutt’altro che morta, che i centri decisionali strategici si sono già posti il problema di assumere una postura positiva e creativa nel proporre ed imporre i propri punti di vista e su questi ci si dovrà confrontare in futuro. Giusto l’appello dell’autore, quindi, a superare l’atteggiamento ecumenico ed accomodante del movimento ambientalista sinistrorso. Non vedo proprio come nelle attuali condizioni possa assumere una postura alternativa e, forse nelle aspirazioni dell’autore, antisistemica; tanto più che il livello di confronto e scontro tra movimenti è diverso da quello tra stati e centri decisionali strategici. La netta impressione è che, volenti o nolenti, i primi siano al momento parte integrante ed integrata delle dinamiche tra i secondi. Non solo! Allo stato rischiano di cadere nell’infatuazione globalista funzionale alla creazione di un nuovo mondo unipolare o più realisticamente ad egemonia prevalente, magari con cambio della guardia annesso. Si tratta comunque di una dinamica di confronto da osservare con estrema attenzione; una dinamica che non a caso sta interessando oltre alla Cina, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna dando ad essa un titolo ben più impegnativo: il Grande Reset_Buona lettura, Giuseppe Germinario

La svolta realistica dell’ecologia politica

Perché gli ambientalisti devono imparare a parlare la lingua della geopolitica.

Il 22 settembre, il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha annunciato un piano per ridurre le emissioni di gas a effetto serra mirato a raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2060. Questo paese a volte è considerato il “camino del mondo”, il primo emettitore di CO 2 , la prima potenza industriale planetaria, sembra dunque intraprendere un percorso di sviluppo fino ad ora sconosciuto. Perché è davvero una scelta di sviluppo, e in nessun caso di rinuncia; e anche se si tratta davvero di attuare gli impegni presi nell’Accordo di Parigi del 2015, essi assumono un significato politico inaspettato nel contesto attuale.

In un testo pubblicato pochi giorni dopo, lo storico Adam Tooze ha spiegato i diversi significati geopolitici di questo annuncio, che considera un punto di svolta importante nell’ordine internazionale. Il peso economico, ecologico e strategico di questo Paese è infatti sufficiente a fare di questo annuncio – anche indipendentemente dalla sua successiva attuazione – una leva archimedea che dovrebbe provocare un profondo riallineamento delle politiche industriali e commerciali contemporanee.

In Europa, e ancor di più in Francia, questi annunci sono stati accolti con la massima cautela, anche in un certo silenzio. Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare. Vorrei qui cercare di andare oltre la riluttanza a vedere tutta la portata di questi annunci, per considerare come possono trasformare il rapporto tra ecologia e potere, così come è stato concepito finora nelle nostre province occidentali. .

Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare.

PIETRA DI CARBONE

Il primo punto che va sottolineato, e che è solo implicitamente esposto da Adam Tooze, è il monumentale paradosso storico che consiste nel portare avanti nel 2020 una dimostrazione di potere politico intraprendendo un programma di disarmo fossile. Dall’avvento delle società industriali, e ancor più dall’era post-seconda guerra mondiale, la capacità di mobilitare risorse , e ancor più risorse energetiche, è stata identificata quasi perfettamente con l’influenza sulla scena politica globale. Carbone e petrolio non sono solo i primi motori di una capacità produttiva che deve generare alti livelli di consumo e una relativa pacificazione dei rapporti di classe, ma anche le sfide delle proiezioni transfrontaliere di potenza destinate a garantire una fornitura continua a prezzi bassi. L’ordine politico derivante dalla seconda guerra mondiale, totalmente ossessionato dalla ricerca di stabilità (in assenza di vera pace) dopo l’episodio del fascismo, ha trovato nello schieramento delle forze produttive uno strumento di ineguagliabile potere che consente sia di calmare le tensioni interne nelle società industriali, sia di mantenere lo status quo tra queste nazioni e i nuovi attori derivanti dalla decolonizzazione.

È questa dinamica storica che spiega la riluttanza a seguire il percorso di una rivoluzione ecologica. Se l’imperativo climatico è stato esposto in dettaglio dalle scienze del sistema Terra, l’inerzia del paradigma evoluzionista e il suo effetto macchia sulle relazioni internazionali così come sulle relazioni di classe hanno a lungo paralizzato la biforcazione verde. Ci si chiede come si possa salvaguardare il “modello sociale”, francese o no, se ci si priva di un motore essenziale di crescita, e dall’altra parte del mondo ci si chiede come potranno essere capaci le richieste di sviluppo di accontentarsi di un pianeta che mostra i suoi limiti.

Di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, davanti alle ambiguità del piano europeo di ripresa ecologica, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica di potere senza il supporto di combustibili fossili.

PIETRA DI CARBONE

L’annuncio del presidente cinese rompe questa logica, ed è per questo che riveste un’importanza storica: di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, di fronte alle ambiguità del piano di ripresa ecologica europea, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica energetica senza il supporto dei combustibili fossili. In questo contesto ovviamente il piano per finanziare un’infrastruttura produttiva a basse emissioni di carbonio non significa che la Cina stia abbandonando il suo sogno di sviluppo e influenza geostrategica. Sta semplicemente annunciando che ora baserà il suo potere – sia il suo motore economico che la sua base strategica – su altre possibilità materiali. Questi sono ancora poco conosciuti e ovviamente lasceranno gran parte al nucleare1, ma contengono i semi di un cambiamento nelle relazioni di potere tra la Cina e il mondo.

La Cina sta così facendo un doppio colpo. Risponde prima alla scienza e immagina un futuro in cui il riscaldamento globale è limitato, e allo stesso tempo consolida la sua legittimità interna ed esterna apparendo come un attore responsabile, in linea con gli obiettivi annunciati durante l’Accordo di Parigi. . Adam Tooze, storico delle economie di guerra, ha perfettamente gettato luce sul carattere sia realistico che morale di questo annuncio: non possiamo accontentarci di un dibattito che si opponga a intenzioni egoistiche orientate al guadagno di potere e altro puro, finalizzato a un bene comune globale. Entrambe le dimensioni sono presenti nell’annuncio della Cina e dobbiamo prepararci affinché siano costantemente intrecciate l’una con l’altra negli anni a venire.

Ma ha anche senso in termini di filosofia politica, ed è senza dubbio quello che ci è mancato in Europa. Se, come ho suggerito in Abbondanza e libertà, la composizione degli interessi umani nella sfera politica è sempre sostenuta da possibilità materiali, allora dobbiamo ammettere che stiamo attraversando un cambiamento fondamentale in questi assemblaggi geo-ecologici. Mentre da tempo ci siamo posti la questione della perpetuazione di un potere politico legittimo, vale a dire di una democratizzazione del capitalismo, nel contesto di un cambiamento energetico ed ecologico percepito come necessario senza sapere esattamente come attuarlo, dobbiamo ora accettare l’idea che questi cambiamenti alimenteranno piuttosto processi di relegittimazione e consolidamento del potere. Questo rovesciamento assolutamente cruciale della materialità delle politiche moderne si sta verificando davanti ai nostri occhi: dare forma a politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo degli interessi condivisi., ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra. Se l’escalation delle politiche di produttività basate sui combustibili fossili, soprattutto tra Stati Uniti e Cina, potesse essere paragonata a una guerra latente, anche il processo di disarmo e smantellamento di questa infrastruttura sarà profondamente conflittuale.

La formazione di politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo di interessi condivisi, ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra.

PIERRE CHARBONNIER

Il secondo punto da sottolineare riguarda più direttamente il movimento per il clima e l’ecologia, l’universo rosso-verde o rosa-verde, così come esiste in Europa e negli Stati Uniti. Negli ultimi anni si è assistito al riavvicinamento tra l’immaginario politico della sinistra sociale classica, erede del movimento operaio, e quello dell’ecologia politica, spinto dal potere crescente dell’imperativo climatico. Se il compromesso intellettuale tra questi due mondi rimane piuttosto fragile, visto che si può discutere l’allineamento tra lo sfruttamento dell’uomo e la natura, sta prendendo forma un patto strategico attorno alla riattivazione dell’interventismo economico, in una serie di riferimenti al dopoguerra. Il Green New Deal, nelle sue versioni americana ed europea, è oggetto di significative variazioni, terreno comune delle sinistre occidentali.

Ma la forza del Green New Deal è anche la sua debolezza. Questo piano di ricostruzione economica e sociale intende superare l’ostacolo che la questione occupazionale costituiva subordinando la transizione energetica a un’esigenza di ridistribuzione, controllo dei canali di investimento e perfino garanzia di occupazione. Così definito, questo progetto corre il rischio di perpetuare le disuguaglianze strutturali tra Nord e Sud, poiché i paesi cosiddetti “in via di sviluppo” saranno probabilmente privati ​​dei mezzi per finanziare tali piani, quando i loro partner del Nord potranno reinvestire il loro capitale tecnologico e scientifico in una ristrutturazione che aumenterà il loro “vantaggio” e la loro sicurezza. Questo è un paradosso, peraltro, sottolineato di recente da Tooze,

Almeno dagli anni ’90, l’ambientalismo occidentale è stato oggetto di aspre critiche, in particolare dall’India. Ramachandra Guha, ad esempio, ha svelato le radici razziste e coloniali dell’immaginazione Wilderness ., che ha permesso ai nordamericani di lavare via la loro cattiva coscienza urbana e industriale nei parchi naturali creati dallo sgombero delle comunità indigene. Questo tumulto coloniale, che accompagna le politiche ambientali dei ricchi, continua in un modo con il paradosso del Green New Deal. Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare e compensare. Sappiamo quindi che la superiorità morale dell’ecologia dipende da poco e che è da costruire piuttosto che da postulare, perché molto spesso si tratta di idee pacifiche forgiate in un mondo violento.

Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare. compensare.

PIERRE CHARBONNIER

E anche qui la decisione cinese capovolge il gioco. Infatti, il piano di uscita dai combustibili fossili annunciato da Xi Jinping non si basa su un argomento morale riguardante i depredamenti ambientali causati dal regime estrattivo e industriale, né una risposta alle manifestazioni della società civile o il desiderio di inquadrare o abolire il regime di sfruttamento del capitalismo. Cerca solo di modificare la base materiale, in una prospettiva che si potrebbe dire eco-modernista, non contraddittoria con il mantenimento delle ambizioni di potere. Risulta, a causa del peso dell’economia cinese su scala globale, che questo piano deciso verticalmente avrebbe conseguenze benefiche per il clima globale, e quindi per tutta l’umanità (questo è ciò che la differenzia da un piano simile che verrebbe deciso, ad esempio, in Francia), ma è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con cui il presidente e i cinesi possono giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale – più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euro-americano. In altre parole, mentre la Cina è desiderosa di presentarsi nelle arene internazionali nel campo dei paesi “in via di sviluppo”, e quindi legittimata a rivendicare un recupero economico rispetto al Nord, è davvero in una posizione di leader mondiale quale è quando assume posture attraverso questi annunci; in realtà è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con le quali il presidente cinese sa giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale, più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euroamericano.

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In Europa siamo abituati a pensare, ed è così anche per me, che la questione ecologica stia subentrando a un movimento di emancipazione senza fiato. In altre parole, ritradurrebbe le richieste sociali di uguaglianza e libertà inserendole in un nuovo sistema di produzione e consumo che offrirebbe minori opportunità di sfruttamento economico e anomia individualista. Si tratta, insomma, di favorire l’emergere di una nuova tipologia sociale, rompendo con quella che ha accompagnato il periodo di rapida crescita, e affidandosi ad essa per riattivare un processo di democratizzazione e inclusione sociale ormai impantanato. Questo progetto può essere utilizzato per squalificare gli annunci cinesi, sostenendo che non sono all’altezza del lavoro, o che risolvono il problema con mezzi autoritari. Forse. Ma adottando questa strategia (e credo che sia la mentalità dominante in questi ambiti), rischiamo di non comprendere appieno in quali acque geopolitiche e ideologiche stiamo navigando, che lo vogliamo o no, e quindi non riescono a cogliere il significato storico del nostro progetto.

Sarebbe infatti riduttivo immaginare che il conflitto in cui siamo presi si opponga da un lato a un capitalismo sfruttatore, alienante ed estrattivo, e dall’altro a un’ecologia politica di riconciliazione tra umani e tra umani e non umani. . Questa sarebbe la conseguenza della fusione del lessico controculturale dell’ambientalismo e del lessico della critica sociale nell’universo rosso-verde: un’alternativa semplicistica tra ecologia e barbarie. Piuttosto, ora ci troviamo in una situazione in cui coesiste un capitalismo fossile che invecchia, impigliato nelle sue contraddizioni sociali e materiali, un capitalismo di stato nel processo di decarbonizzazione accelerata e, forse, un percorso più impegnativo e radicale, che sarebbe la reinvenzione del senso di progresso e del valore sociale della produzione. Se accettiamo di descrivere la situazione in questi termini, ovviamente ancora molto rudimentali, la sinistra rossoverde europea assume un altro significato. Perché non è più intrappolato in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto all’interno del quale incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico.

L’ecologia politica perde il proprio statuto di contro-modello unico; perde la capacità di imporsi nel dibattito come forma politica antiegemonica. Le conseguenze sono di due ordini. Perché non è più preso in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto in cui incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico, investito di una missione universale.

L’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica.

PIERRE CHARBONNIER

In altre parole, l’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica. E le conseguenze sono duplici. Innanzitutto, che tipo di alleanza stringerà con il modello cinese per salvaguardare almeno l’essenziale sul rigoroso livello climatico – a rischio di non avere più “mani pulite”? E simmetricamente, come farà sentire la sua specificità rispetto a questo nuovo paradigma?

Per la sinistra socio-ecologica europea la posta in gioco è sapere se gli annunci cinesi hanno in qualche modo “rubato la scena”, incarnando ormai la via centrale per uscire dalla situazione di stallo climatico, o se per gioco a tre bande più complesse e che impegna anche il rapporto di Trump con gli Stati Uniti, aprono una breccia in cui bisogna precipitarsi senza indugio. Questa rottura è semplicemente il definitivo indebolimento sulla scena economica e politica globale del capitalismo fossile, dello stile di vita americano, che risulta essere l’attore più fragile tra i tre sopra descritti, e quindi l’apertura di un dibattito più diretto tra Cina e noi. Per dirla più semplicemente: quali forme politiche sostenere contro la biforcazione ecologica? Perché se teniamo presente il carattere autoritario e verticale del percorso di decarbonizzazione cinese, dunque che il suo focus per il momento esclusivamente sulla dimensione climatica dei temi a scapito delle altre dimensioni dell’imperativo ecologico globale (biodiversità, salute, inquinamento dell’acqua e del suolo), resta aperto un ampio spazio politico. L’integrazione delle rivendicazioni democratiche nella biforcazione ecologica e la volontà di imporre una frenata d’emergenza sull’illimitatezza economica possono essere i due supporti di un’escalation che lungi dall’essere moralizzante, sarà pienamente politica.

L’ecologia europea deve fare la sua svolta realistica. Deve abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su una scena politica complessa.

PIERRE CHARBONNIER

L’ecologia europea deve quindi fare la sua svolta realistica. Ciò non significa che debba entrare in un dibattito aggressivo e marziale con altri attori geopolitici, ma che debba abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su un scena politica complessa.

Dopo tutto, questa dimensione è sempre esistita nella storia della questione sociale. Anche se queste sono cose che non sempre ci piace ricordare, la costruzione di sistemi di protezione è iniziata in Prussia – e in un certo senso Xi Jinping è una sorta di Bismarck dell’ecologia: non non era così ansioso di ascoltare e sostenere le richieste di giustizia ambientale per metterle a tacere. Dopo la guerra, i progressi del diritto sociale in Europa sono incomprensibili se non parte del gioco geopolitico che combina lo spettro del fascismo, la guerra da estinguere, la possibilità bolscevica e l’influenza americana. Come disse un rappresentante laburista britannico nel 1952, il servizio sanitario nazionale è un sottoprodotto del Blitz2. Insomma, l’emancipazione non si conquista sempre, e nemmeno principalmente, con espressioni di generosità morale: è anche questione di potere. La figura di Lenin sembra in questi anni essere oggetto di un ritorno nel pensiero critico, forse proprio perché l’ecologia non ha ancora trovato il suo Lenin.

In un certo senso Xi Jinping è un po ‘il Bismarck dell’ecologia: non desiderava tanto ascoltare le richieste di giustizia ambientale, perché le mettesse a tacere.

PIERRE CHARBONNIER

L’ecologia può quindi accettare abbastanza di parlare di strategia, conflitto, sicurezza, può presentarsi come una dinamica di costruzione di una forma politica che assume l’idea di potere, senza ricadere sulle sue esigenze democratiche e sociali e senza perdere di vista il suo ideale di limitazione della sfera economica – al di là dello stretto problema delle emissioni di gas serra. Al contrario: è probabile che queste richieste vengano realizzate solo se investite in riflessioni e pratiche specificamente politiche. Ma affinché ciò sia possibile, dobbiamo lasciarci alle spalle la tendenza a invocare valori più elevati, perché non abbiamo il monopolio sulla critica del paradigma dello sviluppo fossile, né abbiamo la massa economica critica che ci consente di affermarci come attori di portata universale. Si sta formando una nuova arena in cui non abbiamo altra scelta che entrare.

Tre piani a confronto….e il bluff, di Giuseppe Germinario

Ad una rilettura il mio articolo del 23 dicembre scorso “tre piani a confronto…” http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ mi era apparso eccessivamente livoroso. I contenuti li ho ritenuti validi, ma il tono troppo spietato per una partita tutto sommato ancora in buona parte da giocare. Colpa probabilmente della claustrofobia sedimentata in settimane di reclusione in una stanza d’ospedale.

Devo ricredermi! La realtà delle cose sta assumendo aspetti ancora più irrealistici e prosaici, mi si perdoni il gioco di parole.

Un giallo che sta assumendo i tratti multicolori di una farsa, elevando con ciò la compagine di governo, in particolare la triade Conte, Gualtieri, Di Maio e con un paio di rare eccezioni ridotte ormai al ruolo di mera testimonianza, la stessa riservata nel Conte I a Luciano Barra Caracciolo, al rango di giocatori delle tre carte.

In quell’articolo avevo sottolineato con forza che il piano di investimenti, il pezzo forte del PNNR (NGEU) italiano, sarebbe rifluito progressivamente in un recupero di investimenti in realtà già programmati e finanziati. Avevo specificato per altro che il documento prevedeva questa possibilità, ma di fatto avevo attribuito ai condizionamenti politici esterni, in particolare quelli dei ventriloqui della Commissione Europea, alla mancanza di ambizione e strategia del piano, al dissesto istituzionale e alla inadeguatezza dell’apparato tecnico-amministrativo centrale l’inesorabilità di quell’inerzia. Invito chi non lo avesse fatto, a leggerlo con una buona dose di pazienza.

Le fibrillazioni politiche interne allo schieramento politico che sostiene il governo hanno portato alla luce intanto uno degli aspetti cruciali di un piano mantenuto nella riservatezza e nel mistero, possibilmente sino al suo varo: i 4/5 di quel piano di investimenti sono già il recupero di opere già programmate e finanziate.

https://www.agi.it/estero/news/2020-12-31/discorso-fine-anno-angela-merkel-10867389/

Così recita il Ministro Gualtieri: “L’unico momento in cui la discussione si e’ accesa e’ stato quando il ministro Gualtieri ha ribadito che l’Italia non si puo’ permettere di puntare tutti i prestiti europei su progetti aggiuntivi perche’ questo farebbe schizzare il debito e rischierebbe di far saltare il percorso di rientro approvato in Parlamento. “

Quello che sarebbe stato l’esito di una inerzia delle cose, è in realtà una scelta politica ex ante del Governo.

Se si aggiunge il fatto che già dal 2023, non alla scadenza decennale del piano di azione, è già previsto un programma di rientro del deficit pubblico intorno al 2,5% medio annuo, di fatto una massa finanziaria all’incirca equivalente ai finanziamenti europei, il quadro diventa leggibile e trasparente, non ostante l’evasività mistificatoria dei nostri saltimbanchi; il Recovery Fund (NGEU-PNNR), almeno per l’Italia, si sta rivelando una mera partita di giro o poco più.

È l’evidenza che un accordo politico, magari di massima, con i ventriloqui della Commissione Europea c’è già, di fatto se non ancora formalizzato; un accordo frutto di una presa d’atto piuttosto che di una trattativa vera e propria.

Le fibrillazioni politiche non devono ingannare. I sussulti che scuotono il governo sono tutti interni a questa logica e se la tentazione di esasperare una strumentalizzazione a fini di bottega dovesse alla fine prevalere, gli efficaci strumenti di persuasione, trasformismo o di annichilimento non mancheranno di certo. Né del resto dalla parte dell’opposizione politica appaiono forze credibili, di una certa consistenza, capaci ed realmente intenzionate a sostenere uno scontro ed un confronto politico così arduo.

https://www.facebook.com/watch/?ref=search&v=394576961851749&external_log_id=0989f68c-cfe2-4d54-8bf2-12a64db07927&q=matteo%20renzi

I portatori di questa dinamica sono nel PD, le mosche nocchiere sono in Italia Viva, gli insulsi, gli inconsapevoli e gli opportunisti di basso rango nel M5S.

Forze che trovano lì, a Parigi, a Bruxelles, a Berlino, dire anche a Washington sarebbe forse una sopravalutazione, la propria legittimazione e la propria ragione d’esistenza.

Qualche beneficio d’inventario, con qualche buona volontà, lo si potrà pur concedere: il trasferimento possibile dalle spese ordinarie agli investimenti, sia pure sempre meno strategici, può rientrare nel ventaglio dei margini operativi; gli stessi investimenti già previsti, programmati e finanziati, senza il Recovery Fund rischierebbero di essere quantomeno dilazionate; la stessa consistenza effettiva dei piani di rientro del deficit dipendono molto dall’accondiscendenza politica verso i ventriloqui della C.E., dalle dinamiche geopolitiche ad essa legate e dai rischi politici interni al paese. Tutti fattori che potrebbero agire quantomeno nella funzione di moltiplicatore keynesiano del piano, almeno nell’immediato; non nella futura posizione strategica del paese.

Qualche beneficio d’inventario in meno, in verità uno spreco criminale alla luce del futuro che si sta profilando, si stanno rivelando la pletora di bonus elargiti allegramente e meschinamente nella fase iniziale di emergenza.

Ma ormai nelle dinamiche della UE le opzioni di politica economica dell’Italia sono strette non in una, bensì in due morse: quello del principio di austerità che deve regolare il rientro del deficit pubblico; quello della rimessa in discussione, per inadeguatezza del piano, dello stanziamento dei fondi di NGEU. Due ganasce che sottendono dinamiche geoeconomiche e geopolitiche interne alla UE e soprattutto esterne ad essa che vanno bel oltre le capacità di comprensione e di azione del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente; limiti che stanno portando questi ultimi ad un livello di connivenza e complicità a titolo sempre più gratuito.

Lo stellone, le competenze sempre più disperse e il genio italico, sia pure appannati, purtuttavia rimangono e covano sotto le ceneri; emergono qua e là, capaci di disegnare gioielli come l’ultima portaerei varata a Trieste. Sono strumenti però utili, tra i tanti possibili, a chi li sa e li vuole utilizzare.

Già in altre fasi storiche il genio e lo stellone italici hanno tratto il classico coniglio dal cappello nelle situazioni più complicate e disperate, a partire dal conseguimento stesso dell’Unità d’Italia e dalla fondazione della Repubblica. Lo hanno potuto fare nei momenti più traumatici e drammatici. Oggi la situazione è, almeno per il momento, diversa. Viviamo in una fase nella quale la rana, cioè noi, si trova immersa ancora in una pentola ravvivata a fuoco lento. Più sarà lenta la fase di ebollizione, meno la rana capirà in tempo utile o in extremis in quale gioco nefasto, ma inizialmente confortevole è andata a cacciarsi.

COMPITI PER IL PENSIERO, di Pierluigi Fagan

COMPITI PER IL PENSIERO. (Lungo, ma l’argomento è vasto e complicato). Da un paio di giorni, nei titoli dei giornali, gira l’annuncio che -causa COVID-, la Cina dovrebbe raggiungere il vertice della classifica mondiale dei Pil assoluti con cinque anni di anticipo, dal precedentemente previsto 2033 all’attualizzato 2028 (fonte: Centre for Economics and Business Research nel Rapporto rilasciato lo scorso 26.12).
La “Cina” è un vero e proprio caso cruciale della distorsione della nostra immagine di mondo. La Cina non gioca secondo le regole, la Cina performa meglio perché ha un governo autoritario, no performa meglio perché è “socialista”, la Cina non è una democrazia, forse addirittura ha lei diffuso il coronavirus apposta per mettere in difficoltà i suoi principali competitors. Tutti questi giudizi possono esser dati ed argomentati, ma non si capisce cosa c’entrino a commento del fatto in questione.
Il fatto in questione, che la Cina si avvia in tempi storici brevi a diventare la prima potenza economica del mondo (se tra otto o dodici anni mi pare l’ultimo dei problemi), è noto da anni solo che non è preso in consapevolezza obiettiva dalla nostra immagine di mondo. Due e molto semplici le ragioni: la prima è che sono 1,4 miliardi di persone, la seconda è che dagli anni ’80 hanno abbracciato i principi dell’economia moderna iniziando così una traiettoria che porta dal sottosviluppo all’ipersviluppo, come è accaduto a noi in tre secoli. Applichi la formula del successo moderno ad 1,4 mld di persone, ne viene fuori una ipergigante rossa, l’oggetto stellare di maggior massa dell’Universo (dopo le stelle a neutroni).
Tali ragioni obiettive e per altro abbastanza semplici da comprendere, portano due angosce a noi occidentali. La prima è che il mondo si va ad equalizzare per dimensioni, paesi più grandi –a parità (circa) di modo economico-, avranno volume economico più grande. Qui l’angoscia è soprattutto europea poiché l’Europa eredita una forma stato-nazionale che origina dal ‘500, quando per gli europei, il “mondo” era appunto il loro subcontinente. Quindi, il fenomeno storico stato-nazionale che comincia dalla Francia del ‘400, aveva a contesto i rapporti con l’Inghilterra e viceversa, la Spagna aveva a contesto di riferimento ciò che avveniva in Francia ed il Portogallo ciò che avveniva in Spagna. Così, il fenomeno stato-nazionale è andato avanti sino alla seconda metà del XIX secolo, quando sono arrivati gli ultimi Stato-nazione, l’Italia e la Germania. S’intenda, le forze che portarono allo Stato-nazione non riguardavano solo l’esterno ma come per tutti gli enti, la relazione tra le loro condizioni di possibilità interne (territorio e confini “naturali” che nel tempo hanno sedimentato lingue ed habitus più o meno comuni in una dato “popolo”, tipo lingua, tradizioni religiose, cultura materiale etc.) ed appunto l’esterno ovvero pari dinamiche per l’ente o gli enti vicini in competizione per risorse e territori. Infatti, la nascita dei primi Stato-nazione (F-I-S-P) fu -più o meno- sincronica in termini di tempo storico.
Così, nel 2035 rispetto anche al solo 2005, tra le prime dieci economie del mondo, irrompono i cinesi (1,4 miliardi), gli indiani (1,3 mld), l’Indonesia (0.270-0.300 mld), il Brasile (0.210-0.240 mld) e financo la Russia (0.150 mld) mentre Italia, Canada e Spagna escono dalla top ten ed USA, Giappone, Germania, UK e Francia scalano di qualche posizione. Ovviamente non è una legge meccanica (cioè “precisa” e quando le “leggi” non sono precise si chiamano “regole”), UK, Francia ed Italia non hanno popolazioni molto diverse per volume, ma performance economiche sì. Questo nuova regola del volume è inquietante per gli occidentali poiché -in prospettiva- dopo gli USA che hanno comunque la terza popolazione mondiale per volume, i campioni occidentali Germania-UK-Francia, sono solo al 19°-20°-21° posto per popolazione, ed in prospettiva perderanno posizioni per ragioni di curva demografica. In più è inquietante perché introduce un elemento di materialismo volgare che limita la nostra innata foga idealistica concettuale quasi che i concetti che riflettono il mondo, non debbano fare i conti con la sottostante consistenza di “numero-peso-misura”.
La seconda ragione obiettiva dice che i pesi delle potenze del mondo vanno a modificarsi in ragione del fatto che il modo economico moderno (che tu ti ostini a chiamare “capitalismo” infilandoti in una foreste di inestricabili aporie concettuali di cui “ma la Cina è capitalista o no?” è il più frequentato luogo comune del dibattito colto) ormai è applicato ovunque, una specialità che ha segnato la potenza occidentale degli ultimi tre-quattro secoli non è più una differenza. Per “modo economico moderno” intendiamo la formula: IDEE (scienza e tecnica) + ENERGIA e MATERIA + CAPITALI + ATTIVITA’ ECONOMIA (produzione e commercio) + MERCATO, con alcune varianti di interpretazione e peso, ma nella sostanza con partitura sostanzialmente simile. Poi c’è il rapporto tra economia e politica ma questo è un altro tema. Se quindi, non c’è più una vantaggio comparato di modo, allora il peso volumetrico del Paese-economia, farà la differenza.
Ma poi l’angoscia aumenta perché si va scoprendo anche un’altra legge naturale assai semplice e volgare ovvero che essere all’inizio o alla fine del ciclo di sviluppo, fa la differenza. All’inizio è tutto molto semplice, serve tutto, c’è domanda potenziale che traina senza problemi. Alla fine, non sai più cosa inventarti per trainare il fatto economico. Hai già fatto la rivoluzione energetica, meccanica, elettrica, chimica, dopo la guerra euro-mondiale dei trenta anni hai ricostruito quello che ti eri buttato giù da solo, hai inventato il consumismo, ma negli ultimi decenni hai inventato solo il digitale e cominciato ad applicare la tecno-scienza al biologico. Per carità, strade interessanti ma non del volume ed intensità economica della quadruplice rivoluzione a cavallo tra XIX-XX secolo o della ripresa post bellica. Pensi di tenere in piedi la tua complessa società del “benessere per il maggior numero” con le app? Auguri!
Ecco dunque che improvvisamente (“improvvisamente” perché la tua idm era impostata per leggere altre cose del mondo ed i segnali obiettivi, del tutto concreti e palesi, non sei stato in grado di leggerli per tempo) scopri che sei diventato un peso medio in un mondo di pesi massimi, che tali pesi massimi diventeranno demograficamente sempre più voluminosi e tu sempre meno, che non ti protegge più alcuna specialità competitiva, che sei alla fine del ciclo di sviluppo ed arranchi ad inventarti cose che ti ridiano la potenza della giovinezza mentre la megafauna demografica ha davanti a sé decenni di case, auto, strade, porti, aeroporti, televisioni, telefoni e computer da poter produrre per saziare la fame di benessere delle loro giovani e voluminose popolazioni.
In termini di geoeconomia poi, ti accorgi che 7+1 delle prime dieci posizioni del 2005 erano occidentali mentre nel 2035 saranno solo 4 ed il Giappone che prima potevi contare come del tutto “occidentale”, ora rischia di dover esser contato come asiatico. Su le prime 11 posizioni, 5 saranno asiatiche sempre che tu non voglia contare anche la Russia che stai ostracizzando e spingendo in tutti i modi lì dove non sembra ti convenga poi così tanto, così saranno 6, saranno un “sistema”, un sistema basato su un contesto che conterà il 60% della popolazione mondiale, che con un 20% di Africa farà l’80% del mondo. Quel mondo di cui solo un secolo fa eri un terzo. E che tu potrai continuare a contare USA-UK-Germania e Francia come appartenenti ad un unico sistema è anche molto dubbio. Poiché dalla geoeconomia alla geopolitica il passo è breve, ne dovresti dedurre la auto-evidenza del nuovo formato multipolare ed il problema del “con”-“dominio” sul mondo, ma l’argomento non ti piace e quindi fai finta di niente. Oppure sbraiti contro il Nuovo Ordine Mondiale perché hai letto o fai finta di aver letto qualche romanzo distopico che ti ha turbato.
Tutto questo dice già abbastanza cose da meritare una riflessione ponderata. Devi solo aggiungere altre tre cose. La prima è il tempo estremamente breve in cui questi potenti fenomeni si sono prodotti. Forse meno brevi di quanto tu ti sia accorto visto che non vedevi certe cose perché la polarizzazione dei tuoi occhiali non permetteva ai fotoni di quei fenomeni in atto di raggiungere la tua cornea e poi la tua corteccia prefrontale (La regione implicata nella interpretazione del mondo attorno, nella pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità, nella presa delle decisioni e nella condotta sociale). Inoltre, chi domina il tuo mondo, s’è votato al “buying time” (guadagnar tempo) perché non trovava soluzioni secondo lui “idonee” a risolvere la brutta equazione e quindi ha evitato si tematizzasse il tema. La seconda cosa è che è molto dubbio che il modo economico moderno nato in Europa da quattro secoli fa quando sul pianeta si era 650 milioni in tutto, possa funzionare in un mondo di 8-9 e passa miliardi di persone. A cominciare dal punto di vista ambientale. La terza è riflettere sul perché tu ti ostini a parlare soprattutto di economia, ma anche di società, politica e geopolitica con categorie e giudizi forgiati almeno due secoli fa, il pensiero riflette il suo tempo, cambia il tempo dovresti cambiare anche le forme del pensiero, o no?
Non ti sembra quindi opportuno e prioritario cominciar dal fare una riflessione su come rifletti? Se perdi la facoltà di comprendere il mondo, come potrai darti un futuro?

Il debito buono e il debito cattivo, di Davide Gionco

riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Il debito buono e il debito cattivo

di Davide Gionco

L’antropologo David Graeber aveva dedicato un intero saggio (Debito. I primi 5000 anni) al ruolo del debito nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà mesopotamiche di cui abbiamo notizia fino alla crisi della Lehman Brothers del 2008.
Il debito è il principale motore dell’economia e, probabilmente, anche della storia dell’umanità. Per fare un esempio, ci eravamo già occupati dell’importanza fondamentale dei prestiti delle banche estere nella storia dell’unificazione dell’Italia sotto la corona dei Savoia. Senza i debiti contratti dal Regno di Sardegna verso le banche, non ci sarebbero stati i fondi per finanziare le guerre di indipendenza ed il corso della storia d’Italia sarebbe stato differente da quello che conosciamo.
Senza il debito gran parte delle case in cui abitiamo non sarebbe stata costruita.
Ma è anche vero che senza il debito molti paesi del Terzo Mondo non sarebbero ridotti in povertà e probabilmente non ci sarebbero i flussi migratori dal Sud del mondo verso il Nord del mondo.
Ci sono persone rovinate dai debiti, ma anche persone che sui debiti hanno costruito la loro fortuna.

Quando un debito è “buono” e quando un debito è “cattivo”?

Il debito non è qualche cosa che esiste in natura, è qualche cosa che nasce dalle relazioni umane. Il concetto di debito, evidentemente, precede l’economia. Ogni volta che diamo la nostra parola promettendo qualche cosa, ci indebitiamo verso l’altra persona, nel senso che ci impegniamo a dare a quella persona quanto pattuito: un oggetto che possediamo, un po’ del nostro tempo e del nostro lavoro o il nostro amore eterno.

Il giudizio sulla bontà del debito lo si dà a partire dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Ho fatto bene a promettere amore eterno a quella persona? Che cosa ci ho guadagnato?
Ho fatto bene a farmi prestare del denaro per acquistare quel macchinario o per prendere casa in centro città?

Il debito economico, di per sé, è solo una registrazione contabile astratta, derivante da un contratto economico, l’impegno a restituire una certa somma denaro in cambio di un bene reale ricevuto (acquisto) o di un prestito ricevuto. Sono pezzi di carta, numeri su dei computers.
Se il debito contratto sia cosa buona o cattiva lo si può giudicare solo dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Non è corretto un approccio etico del tipo “mai indebitarsi”, perché senza indebitamento si fermerebbe il mondo.
Non si potrebbe, ad esempio, ordinare un’automobile: io sono debitore di 20 mila euro verso concessionario, ma il concessionario è debitore verso di me di un’automobile.
Non si potrebbe stipulare un contratto di affitto: io sono debitore mensilmente dell’importo dell’affitto, il proprietario è debitore verso di me nel concedere l’uso del suo appartamento per un mese.
Non si potrebbe stipulare un contratto di lavoro: io sono debitore di 21 giorni al mese del mio lavoro verso l’impresa che mi ha assunto, l’impresa è debitrice verso di me dello stipendio mensile.

Si potrebbe discutere dell’opportunità di indebitarsi prendendo del denaro in prestito, ad esempio da una banca. Se prendo in prestito un credito da 150 mila euro per l’acquisto della casa in cui vivo, che comporta l’esborso di una rata mensile di 400 euro ed il mio lavoro mi consente agevolmente di vivere e di pagare le rate del mutuo, il debito contratto è una cosa buona, in quanto mi consente di acquistare una casa in cui vivere, la quale ha un valore reale. In sostanza quel debito è stato lo strumento per barattare la mia capacità lavorativa con la casa che ho acquistato.
Ovviamente se la casa che ho acquistato non è stato un buon affare, nel senso che era in pessimo stato, da ristrutturare, in un quartiere pieno di criminalità e privo di servizi, non si è trattato di un buon affare. In questo caso, però, la colpa non è dello strumento-debito, ma del mio errore di scelta della casa da acquistare.

I problemi legati alla contrazione del debito li si hanno quando il debito risulta non sostenibile, per cui l’impegno di restituzione ci porta a doverci privare di cose vitali. Il debito inizia ad essere un problema se per mettere insieme i 400 euro al mese della rata del mutuo mi trovo obbligato a rinunciare alle spese non essenziali che costituiscono il mio benessere. Ma il debito diventa un vero problema (“cattivo”) quando per rimborsarlo devo privarmi di beni essenziali per la mima esistenza, quali la casa in cui vivere, i vestiti, il cibo e, magari, il debito impagabile mi precipita in una situazione umana che mi fa perdere anche gli affetti più cari.
Nell’antichità la mancata restituzione del debito poteva portare non solo alla perdita di tutti i propri beni, ma anche alla riduzione in schiavitù del debitore, con moglie e figli, fino a che, lavorando, non avessero restituito quanto dovuto. Oggi le conseguenze del non pagamento del debito non arrivato a questi livelli. Il tutto dipende da come la questione viene gestita a livello giuridico.

La questione centrale del debito è dunque la sostenibilità.
Quando il debito non è sostenibile, porta sempre il debitore a cadere in situazioni umanamente inaccettabili: povertà, anche estrema, e forme di schiavitù.
Per quanto riguarda il creditore, in alcuni casi subirà anch’esso delle conseguenze a causa del mancato rimborso, che gli comporterà come minimo delle perdite finanziarie (denaro prestato e non restituito), ma anche conseguenze più gravi se quel denaro prestato doveva a sua volta essere restituito ad altri. In questi casi l’insolvenza del debitore si propaga coinvolgendo la catena dei creditori.

Ci sono anche casi nei quali il creditore non teme il mancato rimborso, vuoi perché dispone di ampie riserve di ricchezza, vuoi perché dispone del diritto giuridico di creare dal nulla, a certe condizioni, il denaro che presta ai debitori.
Un caso classico è quello degli usurai, degli strozzini, i quali dispongono di molto denaro, che prestano ai debitori a condizioni particolarmente vantaggiose per il creditore e svantaggiose per il debitore, il quale non dispone di sufficiente potere contrattuale per esigere delle condizioni più accettabili.
Una persona che abbia assoluto bisogno di denaro per sopravvivere sarà sempre disposta ad accettare delle condizioni capestro ed anche a rivolgersi a prestatori che operano al di fuori dal quadro giuridico ovvero dalle tutele che la legge riconosce ai debitori nei confronti dei creditori. Sono situazioni in cui chi dispone del denaro da prestare ha il potere contrattuale di imporre condizioni legalmente e umanamente non accettabili. Ad esempio la condizione per cui se il debito non viene ripagato sono previsti danni fisici al debitore ed ai suoi famigliari.
Una situazione simile la si ha anche quando i prestatori sono le banche che operano (almeno dovrebbero farlo) dentro il quadro giuridico vigente. Se il debitore è un piccolo artigiano che ha bisogno di credito per pagare le troppe tasse impostegli dal Fisco, è molto probabile che anche la banca approfitti della situazione per quanto le è possibile, dato che quel debitore ha un basso potere contrattuale.
Se, invece, colui che chiede credito è una grande azienda di livello nazionale o internazionale, di cui magari la banca dispone della proprietà di quote ingenti del pacchetto azionario, state certi che le condizioni del credito saranno molto più agevolate, in quanto il debitore ha un forte potere contrattuale.

Da che mondo è mondo, i piccoli debiti sono sempre stati rimborsati o hanno a portato a situazioni di sfruttamento, mentre i grandi debiti sono sempre stati rinegoziati, rifinanziati, eventualmente scaricati su soggetti più deboli (piccoli risparmiatori, si pensi al caso dei Tango Bonds) o eventualmente scaricati nel calderone del debito pubblico (si pensi al caso del Monte dei Paschi di Siena).

Quando un debito a carico di soggetti deboli, a basso potere contrattuale, risulta impagabile ed il soggetto creditore non ha la necessità di essere rimborsato (perché non ha bisogno di denaro), il creditore userà il proprio potere contrattuale per trarre altri vantaggi economici, tentando di trasformare una momentanea situazione di insolvenza in una permanente e perpetua situazione di potere sul debitore, imponendo su di esso delle condizioni per il rinnovo del debito. Il debitore non avrà scelta, non essendo in grado di rimborsare il debito contratto
Il caso tipico è quello di molti paesi de Terzo Mondo, i quali hanno nei decenni passati ricevuto prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o da parte di gestori di grandi fondi di investimento internazionali. Quando il debito arrivato in scadenza non può essere rimborsato, i creditori lo rinnovano alle seguenti condizioni:
1) Che alla prossima scadenza il debito sia certamente non ripagabile, obiettivo che viene raggiunto imponendo tassi di interesse sufficientemente alti.
2) Che il debitore metta in atto delle azioni che consentiranno ai creditori di trarre altri tipi di profitti, azioni del tipo: privatizzazioni di servizi pubblici e concessioni esclusive su risorse naturali (minerarie, agricole, turistiche, ecc.)
In questo mondo il rapporto creditore-debitore cessa di essere un rapporto di cooperazione economica (caso del debito “buono” in cui il prestito porta sviluppo) e diventa un meccanismo di sfruttamento perenne da parte dei (pochi) creditori nei confronti dei (molti) debitori.

Il problema è noto fin dagli albori delle società umane. Se ne era già occupato intorno al 1’700 a.C. il re sumero di Lagash con la legge AMA-GI che affrancava tutti i debitori dai creditori, restituendo loro la libertà. Se ne erano già occupati gli antichi Israeliti, le cui leggi prevedevano ogni 50 anni il Giubileo ovvero la cancellazione di tutti i debiti. Se ne era occupato, nell’antica Repubblica di Roma, anche il tribuno della plebe Licinio Sextio, quando il meccanismo dei debiti era quello che consentiva ai ricchi patrizi di imporre costantemente i loro interessi sopra quelli dei poveri plebei.
Sarebbe bene che anche oggi ci si occupasse della questione in modo umano e intelligente, ricordandosi che il denaro prestato non è un valore in sé, mentre un valore in sé è la vita delle persone. La cancellazione dei debiti, a determinate condizioni, è una soluzione da prendere in considerazione, se questi sono diventati un meccanismo di sfruttamento di pochi nei confronti di molti, sapendo che quei pochi non hanno affatto bisogno di quel denaro per vivere.
Non stiamo parlando di “giustizia sociale”, ma stiamo parlando di umanità nei rapporti sociali, nei quali lo sfruttamento non deve mai essere consentito, neppure se il creditore ha delle ragioni giuridiche, in quanto il diritto alla vita delle persone è più importante (anche economicamente parlando) dei diritti dei creditori nei confronti dei debitori.

Abbiamo accennato sopra ai creditori che hanno il potere, a certe condizioni, di creare da nulla il denaro che prestano. Questo è il caso delle banche commerciali che, oggi, possono creare il denaro che prestano a fronte di certe garanzie presentate alla banca centrale e, naturalmente, a fronte di certe garanzie che il denaro prestato venga restituito. Se il denaro creato viene restituito, scompare dal bilancio, lasciando al prestatore solo gli utili, che sono gli interessi. Si tratta di un meccanismo simile a quello rappresentato dal comico Erminio Macario in un suo famoso sketch.
La cosa importante è che la restituzione del prestito sia garantita. O, se non è garantita in modo totale, che l’imposizione delle successive condizioni di rinnovo del debito (ad esempio lo sfruttamento a proprio vantaggio di risorse minerarie) consentano al prestatore di far rientrare i capitali prestati insieme a degli utili.

Questo meccanismo del debito perenne sta alla base delle maggiori forme di sfruttamento oggi esistenti nel Pianeta, sia nei confronti della fasce povere della popolazione (i ricchi sfruttano i poveri, dai tempi del re di Lagash ad oggi), sia nei confronti delle nazioni povere del mondo.

In questo articolo non ci siamo occupati delle questione relative al debito pubblico, ne parleremo in un prossimo articolo.

IL REICH DEL DECENNIO VENTURO, di Antonio de Martini

Guardiamo in faccia la realtà: non abbiamo programmi per il nuovo anno.
L’incertezza prevale.
Gennaio incombe e tra i pochi che hanno progetti, troneggia Urbano Cairo.
Si tratta di un imprenditore-venditore di spazi e tempi pubblicitari che speculando sul cash-flow e l’ignavia generale, si è appropriato prima della catena TV “ La7” (creata come “ la uomo TV “ da Carlo Puri negli anni 70 ) di cui Telecom era ansiosa di sbarazzarsi e poi de “ Il Corriere della sera”.
Due suoi clienti che non macinavano utili per gli azionisti, ma fatturato per lui.
Sapeva che prima o poi gli strumenti sarebbero tornati utili a qualcuno.
E così è stato, evidentemente.
Entro gennaio il “ Corriere della sera” cambierà direttore editoriale e direttore responsabile.
La novità consiste nei nomi dei personaggi che qualcuno ha designato a quesi posti:
Valter Veltroni, il becchino de “l’Unita” ( e di Roma, nonché del PDS) sarà il direttore editoriale e Aldo Cazzullo occuperà il posto che fu di Albertini e Spadolini.
Con questi nomi, è evidente che non si punta sulla diffusione e il rilancio, ma si cerca di patrocinare una operazione politica di quelle che piacevano a Eugenio Scalfari.
A Scalfari non riuscì di creare connubi, figuriamoci a Cairo.
Vogliono fare una fusione tra il movimento 5 stelle e il PD che nelle menti degli architetti dovrebbe creare il reich del decennio prossimo venturo.
Naturalmente si dovrebbe cominciare col sacrificio di Conte – come tutti i mezzani non piu necessario- e si baserebbe sull’utilizzo degli avanzi come sempre accade dopo le feste.
Per timore che Conte impegni rapidamente il malloppo, l’operazione é stata anticipata a gennaio.
Gli unici effetti che certamente produrrà , saranno la fine della carriera di Paolo Mieli ( che non è un male, anzi) e la consapevolezza generale, anche tra i sordo-ciechi, che in Italia vige un regime slabbrato, indecente e privo di senso della realtà ( e anche questo non è un male, anzi).
Il vantaggio principe è rappresentato comunque dal fatto che nel paese dell’ambiguità ci sarà qualche equivoco in meno e qualche spazio in più.
Utilizziamolo per abbattere il regime che, dopo questa brillante pensata, sarà evidente agli occhi di tutti.
NB_ con due piccole chiose: la forza finanziaria di Cairo non è così solida come appare. Dietro c’è Soros; nel disegno entra anche l’acquisizione del Sole 24 ore. Lee trattative sono in corso_Giuseppe Germinario

 

La risposta democratica alla dottrina Trump 2a parte, di Maya Kandel

La prima parte di questo sondaggio in due parti può essere trovata qui .

Trump ha aperto il più grande dibattito di politica estera negli Stati Uniti da decenni, dopo essere stato eletto nel 2016 sulla sua promessa di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo. La sua risposta, “America First”, ha sfidato alcuni postulati dell’azione estera del paese e ha posto la questione del legame tra politica estera e politica interna al centro del dibattito democratico. Dopo una prima sezione dedicata alla  dottrina Trump , questa seconda sezione si concentra sulla visione, o più precisamente sulle visioni democratiche in politica estera: la dottrina Biden non esiste ancora, e si cristallizzerà solo sotto la prova di potere ed eventi dei prossimi anni. Ma è stato costruito da un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

Ricostruisci dopo Trump

Il campo democratico condivide la diagnosi trumpiana di una crisi nella politica estera americana. La specificità del 2016, al di là di Trump, era legata alla specificità del momento per la politica estera, cristallizzando una doppia crisi, e in particolare una crisi interna di legittimità della politica estera: il fatto che gli americani non sostenessero più, e non capiva più l’azione esterna del Paese. Le élite democratiche specializzate in politica estera hanno visto questa crisi e hanno trascorso quattro anni cercando di trarne le conseguenze. 

Così va inteso lo slogan “  Build back better  ” della campagna Biden: ricostruire meglio e in modo diverso, come dopo un disastro naturale. La frase è il filo conduttore del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che lo ha già assunto nel gennaio 2019. Non è un promemoria del truismo democratico che da tempo ripete che il potere esterno deve basarsi sul potere interno: l’ondata populista è passata da qui, ed è una riflessione sul 2016 e sul voto di Trump che lasciano i Democratici di oggi.

La dottrina Biden non esiste ancora e si cristallizzerà solo sotto la prova del potere e gli eventi dei prossimi anni. Ma si basa su un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

MAYA KANDEL

Al centro della formula, portata dallo stesso Sullivan, troviamo questa  diagnosi  secondo la quale gli americani non sostengono più la politica estera perché sentono che non serve più i loro interessi: il che porta al secondo slogan del E ‘l’era Biden, già indossata da  Elizabeth Warren  durante le primarie, ovvero la volontà di fare “una politica estera per la borghesia” (americana, ovviamente). Questo è anche il titolo di un rapporto del think tank Carnegie, pubblicato a fine settembre ma frutto di un lavoro durato diversi anni lontano da Washington, per sondare gli americani nel “cuore del Paese” sulla loro visione e sulle loro aspettative. -politica estera visibile: questo rapporto, giustamente intitolato ”   Far funzionare la politica estera per la classe media  »Chiede di ripensare il ruolo internazionale del paese; tra i suoi coautori troviamo Jake Sullivan.

La nuova amministrazione democratica eredita altri elementi, grazie ancora a Trump, che lo ha reso possibile, proprio perché non era un esperto (eufemismo) e voleva scuotere il sistema, per mettere in discussione alcuni presupposti: esso È qui che troviamo l’altro slogan comune a entrambe le parti, la “fine delle guerre infinite” in Medio Oriente, un altro modo per porre fine al periodo successivo all’11 settembre 2001 (l’accelerazione degli annunci di ritiro – Afghanistan , Iraq, Somalia – dal momento che la sconfitta di Trump è adatta ai Democratici, che hanno protestato meno dei loro omologhi repubblicani). Vale anche la pena menzionare qui la messa in discussione del libero scambio su uno sfondo di critiche populiste sia da destra che da sinistra, considerando che la globalizzazioneavvantaggiavano le multinazionali e i loro profitti molto più degli interessi dei cittadini (anche se i consumatori potevano comprare a meno). Aggiunto alla fine del ruolo americano di “poliziotto del mondo”, già respinto da Obama con il pretesto di diminuire i mezzi, è infatti il ​​periodo del dopo Guerra Fredda che si chiude anche per i Democratici, con la comune constatazione del fallimento. del principio guida della politica estera americana dal 1990 che postulava l’idea che l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li avrebbe resi partner responsabili (anche, idealmente, democrazie liberali): Cina e Russia non sono diventate nessuno dei due, mentre la relativa potenza americana è diminuita di fronte all’ascesa dei paesi emergenti, a cominciare dalla Cina.di un “realismo” a lungo diffamato nell’intellighenzia di politica estera: ”   realismo con principi   ” nella dottrina Trump (una formula usata nella strategia di sicurezza nazionale del 2017), ”   realismo progressista   ” per la sinistra del partito democratico, il che suona in entrambi i casi come ammettere i limiti del potere americano.

La visione democratica differisce dalla dottrina Trump su due caratteristiche centrali: minacce e mezzi (il punto di partenza e il cuore della strategia). La prima divergenza strategica riguarda non solo la gerarchia delle minacce, ma anche più profondamente la loro natura. L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, ampiamente ignorate dai repubblicani, e si colloca persino ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la guerra fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico. La divergenza sui mezzi deriva principalmente da questa visione più ampia delle minacce, poiché la cooperazione internazionale diventa una condizione necessaria per affrontarle laddove l’amministrazione Trump aveva fatto dell’unilateralismo (o bilateralismo) il suo approccio unico alle relazioni internazionali. . Riscopre la tradizionale insistenza democratica sulla diplomazia e contro l’eccessiva militarizzazione della politica estera americana. Il multilateralismo nasce da questo per i Democratici, come metodo ma anche come principio, quello basato sulla convinzione che alleati e partner siano ancora il principale moltiplicatore di potere degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Questa prospettiva non contraddice in alcun modo il fatto che un presidente americano abbia come priorità la difesa degli interessi americani, e non impedirà un approccio più nazionalista o patriottico alla definizione di questi stessi interessi; ma implica l’esistenza di una comunità internazionale, un’esistenza che il team di Trump aveva negato fin dall’inizio attraverso la voce del suo secondo segretario alla sicurezza nazionale, HR McMaster. Anche un simile approccio si opponela visione hobbesiana di uomo Trump affare , per i quali le relazioni internazionali non può essere un gioco a somma zero: i democratici ritengono che siamo in grado di proporre i propri interessi senza necessariamente danneggiare degli altri, anche spostandoli anche in avanti. Infine, Biden e la sua cerchia ristretta vogliono anche ricostruire una base bipartisan per la politica estera, al fine di garantire la stabilità dei principali orientamenti esterni del Paese: questo risponde a una preoccupazione di efficienza, ma anche al fatto che il principale  pericolo di polarizzazione  della politica estera è la perdita di fiducia dei partner di fronte alla cronica instabilità degli impegni internazionali degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda.

L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, largamente ignorate dai repubblicani, e pone addirittura ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la Guerra Fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico.

MAYA KANDEL

Ripoliticizzare la politica estera

Il filo conduttore del pensiero democratico, logica conseguenza della polarizzazione della politica estera americana, è quello della ripoliticizzazione della politica estera nel suo insieme, anche nella definizione degli interessi nazionali. Sullivan ha menzionato, nel suo articolo del 2019, uno scambio sintomatico con l’economista Jennifer Harris che gli ha chiesto perché la sua amministrazione seguisse comunque esattamente la stessa politica economica internazionale, quando la politica estera di Obama doveva essere una rottura con quella di Bush. Questa critica evoca il grilletto per la critica populista della politica estera (rifiuto di TINA,  There Is No Alternative, un altro nome del consenso neoliberista prevalente dagli anni ’80 fino alle sue recenti critiche), ricorda la necessità di studiare la base elettorale della politica estera, perché le questioni interne ed esterne sono intrecciate – ciò che i cittadini sanno. Si pone la necessità di ripensare la natura e il posto della politica economica internazionale al centro della strategia, argomento su cui hanno lavorato anche gli stessi Sullivan e Harris   in un articolo dal titolo originale premonitore ( Neoliberalism is done ), mettendo in discussione il postulati neoliberisti che hanno guidato la politica economica dall’era Reagan-Thatcher.

L’ ambizione di spazzare via quello che altri chiamano il “Washington consensus” sopravviverà ai vincoli politici americani? La domanda può essere posta, sia alla luce delle attuali condizioni politiche a Washington, sia per la molteplicità dei punti di vista democratici. Thomas Wright, analista presso la Brookings Institution di Washington, ha  proposto una dicotomia tra restaurazione o riforma come griglia per interpretare la politica estera di Biden, visto che il dibattito principale si svolge all’interno di circoli centristi, tra lealisti della linea Obama (restaurazione) e desiderio di diritti di inventario (riforma) . Siamo tentati di aggiungere “rivoluzione” per tener conto del peso dei progressisti della tendenza AOC-Sanders (i Warrenisti sono più dalla parte dei riformatori della griglia di Wright) nel dibattito di politica estera. Il fatto che la sinistra della sinistra democratica intenda influenzare il dibattito di politica estera è già un fatto nuovo che guida le scelte della prossima amministrazione. La differenza si giocherà, per il mondo come per gli americani, sulla politica economica internazionale, soprattutto sul commercio, in particolare nelle sue variazioni sulla tecnologia e sul clima. Con speronela questione cinese , come per la dottrina Trump – uno sprone che potrebbe diventare il motore o addirittura la principale continuità, a causa  delle condizioni politiche degli Stati Uniti contemporanei evidenziati dalle elezioni del 2020: una vittoria democratica molto netta a livello nazionale, ma una base elettorale trumpista consolidata e ampliata, risultante in termini politici da un equilibrio di potere quasi uguale, con forse il mantenimento di un Senato repubblicano (risposta dopo il 5 gennaio 2021 e risultati dei due secondi turni delle elezioni senatoriali in Georgia). Ma l’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

Se il suo margine di manovra fosse limitato a livello nazionale da un Senato repubblicano, Biden potrebbe essere spinto ad agire più a livello internazionale dove l’azione del Presidente è meno vincolata dal Congresso. Tuttavia, l’amministrazione dovrà fare i conti da un lato con i due poli di un partito repubblicano diviso tra tendenze trumpiste all’isolazionismo e fautori di un internazionalismo militarista ora anti-cinese, e dall’altro si scontrerà con le divisioni del Campo democratico sulla politica estera. La ricerca di un sostegno bipartisan potrebbe in particolare irrigidire la politica cinese dell’amministrazione Biden, con conseguenze per il posizionamento europeo e lo sviluppo delle relazioni transatlantiche .

L’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

MAYA KANDEL

Ridefinire la sicurezza nazionale: l’offensiva progressiva

La pandemia e l’anno 2020 hanno fatto luce sulla  portata dei movimenti  nati o decollati dall’inizio della presidenza Trump, e soprattutto hanno permesso la loro cristallizzazione in una mobilitazione di massa popolare dopo la diffusione dell’assassinio di George Floyd. Sono infatti la reclusione, la disoccupazione forzata e gli effetti della pandemia che non solo hanno alimentato la frustrazione, ma hanno anche permesso la consapevolezza e le manifestazioni massicce, insolite e storiche della popolazione americana. Le mobilitazioni riunite ben oltre gli attivisti di  Black Lives Matter , hanno illustrato i legami e le convergenze di questi movimenti (dal  Sunrise Movement  al  Working Families Party attraverso i  Justice Democrats e molti gruppi femministi, etnici, LGBTQA +, ecc.), e hanno mostrato la forza dei “nuovi attivisti” – per citare l’espressione  nell’eccellente libro di  Mathieu Magnaudeix, movimenti nati o che hanno ha acquisito uno slancio notevole durante i quattro anni di presidenza di Trump. Questi sviluppi hanno trasformato la candidatura di Biden, costringendo il candidato a coinvolgere da vicino i progressisti nello sviluppo del suo progetto, con la costituzione di gruppi di lavoro tra il suo team e quello di Sanders, e più in generale alla sua futura amministrazione, con il  reclutamento all’interno del suo stretto staff di personalità appartenenti a minoranze etnico-razziali. Senza la fine delle primarie e la rinuncia e il chiaro raduno di Sanders da marzo 2020, possiamo immaginare che il campo democratico non si sarebbe avvicinato alla campagna generale nello stesso stato, e probabilmente non avremmo conosciuto una tale collaborazione. durante la campagna tra le due ali nemiche. Questa trasformazione ha colpito per la prima volta il clima economico del  programma , incluso Biden, a metà luglio dal programma soprannominato  Sunrise Movement , che era molto critico nei confronti del piano Biden di pochi mesi fa.

La progressiva offensiva per realizzare un vero cambiamento sistemico si è manifestata anche in politica estera. Questo aspetto segna una rottura con i Democratici – un segno della fine dell’era post-Guerra Fredda – al di là anche della messa in discussione di ciò che aveva guidato l’atteggiamento della sinistra durante la Guerra Fredda almeno fino a «la guerra del Vietnam: l’accettazione di un accantonamento nella politica interna, lasciando agli esperti di strateghi la conduzione degli affari esteri a causa dell’imperativo imperativo di lottare contro l’Unione Sovietica; a quel tempo, la politica estera era destinata anche a servire le classi medie perché garantiva la crescita economica (che in genere era il caso all’epoca). Dopo il Vietnam, la sinistra di sinistra si è poi trovata in una posizione pacifista e antimilitarista, senza però investire in politica estera al di là dell’opposizione aperta. Dopo la Guerra Fredda, alcuni pacifisti storici, come il rappresentante Ron Dellums, si erano persino uniti ai sostenitori degli interventi umanitari, in particolare negli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per affascinanti dibattiti sulla definizione di a in particolare durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a soprattutto durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a politica estera di sinistra . Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema. Dopo ulteriori vittorie progressiste alle primarie del 2020, la sconfitta a New York del rappresentante Elliot Engel (presidente della commissione per gli affari esteri della Camera) ha portato a una lettera di quasi  70 organizzazioni progressiste, di solito incentrato sulla politica interna, chiedendo alla presidenza di questa Commissione decisiva di tradurre le idee progressiste nella politica estera americana: “moderazione e realismo progressista”, rivalutazione degli strumenti di politica estera (diplomazia, interventi militari, sanzioni, ecc.) e ridefinizione degli obiettivi (lotta alla corruzione, tutela della biodiversità, trattamento di alleati e avversari, ecc.).

Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di una politica estera di sinistra. Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema.

MAYA KANDEL

Alla sua nomina, Jake Sullivan ha annunciato di voler ampliare la definizione del concetto di “sicurezza nazionale” che determina gli obiettivi dell’azione internazionale del Paese. Lo sviluppo più interessante finora è la scelta di John Kerry come inviato speciale per il clima e, soprattutto, la  decisione  di dargli un seggio e quindi una voce nel Consiglio di sicurezza nazionale alla Casa Bianca. , al centro dello sviluppo della politica estera. Il segnale è chiaro ed è stato richiamato sia da  Kerry  che da  Sullivan durante le rispettive nomine: il cambiamento climatico deve essere integrato nel pensiero della sicurezza nazionale e la diplomazia climatica sarà al centro della politica estera. Se c’è un argomento in cui europei e americani dovrebbero essere alleati naturali, è quello del clima; questa considerazione del clima si può trovare anche su tutte le questioni di politica interna, dall’agricoltura ai trasporti e alle infrastrutture,     essendo l ‘” ambizione climatica ” apparentemente un criterio per il reclutamento nel team di Biden. È anche un argomento su cui la conversazione deve includere la Cina, e apre orizzonti emozionanti (chiariti qui da  Pierre Charbonnier), per trasformare il pensiero geopolitico e geoeconomico, anche per l’Europa che dovrebbe coglierlo. È qui che si gioca anche una parte dell’ambizione dell’amministrazione Biden.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden. Il suo slogan sarà con tutta probabilità ereditato anche da Trump, che ha aggiornato i principi geoeconomici definiti da Edward Luttwak alla fine della Guerra Fredda: la sicurezza economica è sicurezza nazionale. Da questo punto di vista, la sicurezza economica ha la precedenza sulle alleanze geopolitiche, e non il contrario. Yellen giocherà anche un ruolo di primo piano nella politica cinese, dal momento che gli elementi più decisivi messi in campo dall’amministrazione Trump sono stati posti dal Tesoro (elenco di entità e sanzioni extraterritoriali in generale). fiscalità  nazionale e internazionale nel programma Biden. Avrà il controllo sul destino dei decreti e dei regolamenti messi in atto dall’amministrazione Trump dopo il voto sulla riforma fiscale da parte del Congresso repubblicano alla fine del 2017, in particolare per quanto riguarda la tassazione delle multinazionali. Il suo tandem con il nuovo capo del commercio della Casa Bianca, Katherine Tai, sarà sicuramente una parte fondamentale delle prossime relazioni transatlantiche.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden.

MAYA KANDEL

Ripensare le relazioni internazionali nel XXI °  secolo: la sfida cinese, l’emergenza clima

La Cina  divide i Democratici  (come i Repubblicani), e questo anche all’interno del campo progressista: tra chi rifiuta una nuova guerra fredda ma intende lottare contro un asse autoritario internazionale, e chi preferisce concentrarsi sui temi della cooperazione e un disimpegno militare americano. Ci sono molti intorno a Biden, tuttavia, soprattutto nella comunità strategica, che vedono la sfida cinese alla superpotenza statunitense come la principale sfida per la politica estera degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo   come l’unico modo per ricostruire una politica estera. solido e affidabile perchébipartisan . Alcuni vanno anche oltre, vedendo nella questione cinese il  modo migliore  per Biden, in caso di Senato repubblicano, di fare politica estera   politica interna: una forma di inversione dell’adagio del senatore Vandenberg ( politica si ferma al bordo dell’acqua, il che significava che l’interesse nazionale era superiore – e indipendente da – qualsiasi posizione politica interna e quindi di parte); La Cina, come unico punto di convergenza della politica interna, diventa così il pretesto per la politica interna (per il commercio, la tecnologia, le infrastrutture, ecc. Tutto sotto l’ombrello della concorrenza con la Cina). Ovviamente non sarebbe la prima volta nella storia americana che un evento esterno servisse da pretesto per la trasformazione interna, essendo numerosi gli esempi storici da Hamilton a Roosevelt e Reagan. Ma sarebbe anche un ritorno a una gestione “tecnocratica”, presumibilmente “politicamente neutrale” della politica estera e degli interessi nazionali – precisamente il cuore dell’attuale protesta.

In un  ottimo articolo elencando diversi lavori recenti, l’economista Adam Tooze ha ricordato che la fine del periodo post-Guerra Fredda ha chiuso anche il periodo in cui gli Stati Uniti credevano di poter considerare le sfere economiche e strategiche come separate artificialmente o indipendenti da una delle Un’altra: nella tesi di Fukuyama sulla fine della storia c’era proprio questa idea che la crescita economica grazie alla globalizzazione potesse essere “geopoliticamente neutra”. Si volta pagina su quella che non è mai stata una finzione basata sull’idea che la globalizzazione americana fosse, come l’egemonia americana, necessariamente “benevola”, e sull’euforia globalizzante legata alla fine del guerra fredda. Nella comunità strategica americana, è davvero la realtà e “l’enormità” (come la chiamava giustamente Fareed Zakaria ) del potere cinese che spiega la svolta strategica dell’era Trump, l’adozione di un atteggiamento ostile – molto più che la preoccupazione per il deficit commerciale o la scomparsa dei lavori non qualificati dei colletti blu del Rust Cintura. È così che dobbiamo intendere il rilancio del concetto di “geoeconomia”, che Luttwak  aveva avanzato  proprio alla fine della Guerra Fredda. Il Pentagono ne è consapevole da tempo e il legame tra sicurezza nazionale e sicurezza economica è onnipresente nella  Strategia di difesa 2018 . La questione della leadership tecnologica e del futuro di Internet è al centro di questo nuovo approccio.

Mentre i leader americani (ed europei) hanno appena ammesso il legame tra la globalizzazione delle democrazie di mercato guidata dalle amministrazioni Clinton e Bush e l’attuale regressione democratica nella stessa area euro-atlantica, il concorrente progetto cinese di Routes de La seta riguarda una parte crescente dell’umanità e il suo modello di governo tecno-autoritario viene esportato in tutto il mondo. Il risveglio americano è troppo tardi? Adam Tooze conclude sulla necessità di pensare e fare il passo successivo, immaginare una forma di rilassamento sullo sfondo di una nuova era segnata dalla consapevolezza della sfida esistenziale posta dall’Antropocene – la pandemia del 2020 è il segno che questa era è iniziato. La domanda quindi è se americani ed europei, che lì potrebbero svolgere un ruolo veramente geopolitico, si daranno i mezzi per diventare loro stessi quello che lui voleva dai cinesi: partner responsabili e competenti, impegnati a gestire – se non risolvere – i rischi e le sfide di questa nuova era.

Dottor Giletti, non è l’arena, ma solo perché manca uno dei contendenti_di Giuseppe Germinario

Al dottor Massimo Giletti

conduttore della trasmissione “Non è l’arena”

Dottor Giletti,

ho seguito con attenzione la puntata di “Non è l’arena” del 20 dicembre scorso. Guardo ormai di rado la televisione, ma capita spesso di osservare la sua produzione quasi sempre interessante, incalzante, il più delle volte con una rappresentazione sufficientemente completa della realtà, altre volte con una intensità ed una partecipazione drammatica talmente forte da spingere ad una visione unilaterale, distorta, deleteria e spesso tribunizia dei problemi posti. Nella fattispecie mi riferisco alla parte di trasmissione dedicata ai problemi di inquinamento e sanitari legati al complesso industriale dell’ILVA di Taranto. Sono originario di quelle parti, ne sono andato via ormai da più di trenta anni, ci torno comunque molto volentieri in vacanza quasi ogni anno, conosco la radicale e particolare combattività di quella popolazione ma osservo anche il progressivo degrado di quell’area, simile purtroppo ad altre del paese e in particolare del Mezzogiorno. Negli anni ‘70 ho esercitato funzioni pubbliche relativamente a margine di quell’area, ma sufficientemente prossime da poter conoscere e nel mio piccolo influenzare la situazione sociopolitica del tarantino. Ho conosciuto il fervore, le aspettative generate dall’insediamento dell’acciaieria, ma anche le enormi problematiche che avrebbe generato progressivamente, ma allora già incipienti se non adeguatamente affrontate. Oggi siamo certamente di fronte forse nemmeno ancora all’epilogo, ma di sicuro all’agonia di una tragedia sanitaria ed ambientale certamente, ma anche economica di quella zona e di tutto il paese, in particolare nella fattispecie nella capacità di controllo delle leve economiche. Un dramma che però deve essere risolto positivamente di pari passo con l’altro. Lascio perdere la narrazione a buon mercato e facilona di un paese intero, ma anche di un territorio così esteso e popolato che possa vivere di solo turismo ed agricoltura. Di quale turismo e di quale agricoltura ci sarebbe comunque da discutere, viste le luci e le ombre che caratterizzano quelle attività in quell’area, come in tante altre per la verità. Non è questo il cuore del problema. Ci sono ormai innumerevoli esperienze di paesi di una certa importanza e dimensione che hanno scelto questa strada e che sono finite velocemente nell’irrilevanza politica e nella tragedia economica e sociale. Un paese che abbia a cuore il proprio benessere, la propria autonomia, la propria indipendenza, la propria coesione e progressione sociale non può rinunciare all’industria.

Non voglio dilungarmi eccessivamente; ci sarebbe da scrivere interi tomi e il blog di Italiaeilmondo.com nel suo piccolo ritiene di aver dato un proprio contributo al tema.

In sintesi cerco di affrontare il tema e rispondere ad alcuni luoghi comuni ricorrenti ed apparsi in modo unilaterale e senza contraddittorio nella sua trasmissione:

  • L’ILVA di Taranto, ex Italsider, è una delle attività superstiti che fornisce il prodotto di base all’industria cantieristica, meccanica, di utensileria, mezzi di produzione e quant’altro in Italia. Rappresenta l’esito di una grande battaglia politica simboleggiata da personaggi come Mattei, condotta da vari esponenti degli schieramenti politici sin dagli anni ‘50 contro altri ben insinuati nei gangli vitali; battaglia che pose le basi dello sviluppo industriale del paese

  • il IV centro siderurgico di Taranto non è nato in una fase di sovrapproduzione dell’acciaio, precisando che quando si parla di acciaio non si parla di un prodotto di base indistinto buono per tutti gli usi. Esistono delle precise e finalizzate specializzazioni di prodotto. Fuori dal contesto economico apparvero invece in parte il V e soprattutto il VI centro, del resto mai sorto a Gioia Tauro non ostante la costruzione del porto ad esso finalizzata

  • il fatto che un paese disponga di una propria industria di base non è affatto un fattore irrilevante e lo sarà sempre meno in una fase di crescente multipolarismo e di incipiente costruzione di diverse e tendenzialmente contrapposte sfere di influenza politiche ed economiche. Il parametro di sovrapproduzione su cui hanno più volte insistito tutti i partecipanti alla trasmissione sottende un contesto geopolitico e geoeconomico del tutto sorpassato se mai esistito

  • il gruppo Arcelor-Mittal non è un gruppo indiano; è un gruppo franco-indiano. La sua attività, il suo comportamento predatorio e i condizionamenti posti in essere e subiti da esso rientrano a pieno titolo per altro nel sordido scontro tutto interno all’Europa, in particolare alla Francia, alla Germania e all’Italia riguardo alla ripartizione delle quote di produzione di acciaio che vedeva l’Italia nei tempi andati detenere ampiamente il primato di produzione ed ora subire pesantemente la riduzione proporzionalmente maggiore delle quote sino a posizionarsi nelle retrovie tra i produttori europei

  • sulle vicende dell’ILVA agiscono sotto traccia dinamiche geopolitiche e logiche di posizionamento militare legate alla presenza dell’Arsenale, del porto militare e delle vicine basi aeree e di osservazione

  • i problemi di ristrutturazione e risanamento dello stabilimento si sono cumulati, acuiti progressivamente e di fatto saturati con la dissennata privatizzazione, purtroppo nemmeno l’unica, in favore della famiglia Riva, con il discutibile nelle modalità e tardivo intervento della magistratura e con l’insipienza politica legata alla scelta dell’affidatario, alle clausole e alle modalità di affidamento dello stabilimento al gruppo Arcelor-Mittal, alla gestione da parte del Governo e dei vari pesci in barile della Regione Puglia a dir poco dilettantesca la quale ha offerto all’impresa numerosi pretesti per la sua condotta predatoria e dilatoria

  • i problemi ambientali e sanitari di Taranto sono legati, oltre alle attività predominanti dell’ILVA, alla combinazione delle attività prospicienti della raffineria, del tutto passate sotto silenzio anche dalla stampa e dai contestatori; sono problemi cumulativi che riguardano la responsabilità a vari livelli, diretta ed indiretta, dei vari imprenditori avvicendatisi, degli organi di controllo e delle autorità politiche

  • buona parte dei problemi sanitari ed ambientali sulle popolazioni sono determinate anche dalla criminale vicinanza di insediamenti urbani sviluppatisi successivamente a quello industriale, in particolare il quartiere Tamburi, più che prossimi, praticamente all’interno dello stabilimento e delle correnti d’aria metereologiche peculiari della zona. Su questa prospicienza si dovrebbe in realtà agire per cominciare quantomeno a ridurre gli effetti immediati dell’inquinamento

  • la chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe una sconfitta tragica del paese e della popolazione locale, per altro nient’affatto compatta nella richiesta di chiusura dello stabilimento e la conferma e consolidamento purtroppo duraturi nel tempo ai danni di una intera nazione di un ceto politico e di una classe dirigente miserabilmente ignavi

  • Ritengo non sia cinismo, ma realismo ed esperienza di chi in altri tempi qualche ruolo positivo pensa di averlo avuto. La chiusura dello stabilimento rappresenterebbe di fatto e purtroppo, mi duole il cuore dirlo, una sconfitta sonora anche dello stesso movimento ambientalista e di denuncia e contrasto dell’emergenza sanitaria che non è stato in grado nemmeno di pretendere con successo in questi anni la banale copertura dei depositi di minerali, figuriamoci di promuovere uno sviluppo alternativo e controllato dell’area, di un attivo processo di risanamento ambientale pur a spese degli interessi strategici di una nazione. Il miraggio della monocoltura del turismo e dell’agricoltura è l’ennesimo esempio dell’abitudine, purtroppo sempre più presente in quelle aree, ad affidare alle parole e agli slogan un valore taumaturgico destinato ad ingannare ed illudere in cambio del nulla o quasi

Dottor Giletti,

la concretezza e la verità, almeno a mio parere, è alla fine apparsa nella sua trasmissione, ma sul suo finire. Non la hanno proferita gli esperti, i giornalisti e i politici cosi animati, ben motivati ed animosi in quella trasmissione; l’ha espressa Vittorio, nel modo ingenuo, elementare e diretto proprio di un ragazzino: la salute, un ambiente vivibile ed una vita sociale serena devono convivere con l’esistenza ed il risanamento di quella industria. Evidentemente Vittorio ha saputo esprimere l’angoscia di una tragedia sanitaria ed ambientale che deve essere risolta con l’esistenza di una attività produttiva altrettanto indispensabile e propedeutica al benessere di una comunità e aggiungo io alla solidità di una nazione,

Giuseppe Germinario

https://www.la7.it/nonelarena/rivedila7/non-e-larena-puntata-del-20122020-21-12-2020-356659

NB_ l’intera trasmissione è interessante; l’argomento trattato parte dall’ora 1:45 della registrazione

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