Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea, di Davide Gionco

Tutti i danni ambientali dell’Unione Europea

di Davide Gionco

Le ipocrisie ambientali dell’Unione Europea

In Europa siamo tutti ecologisti, da Ursula Von der Leyen e Greta Thunberg in giù.
Ce lo dicono tv e giornali: siamo tutti ecologisti, le politiche ambientali davanti ogni cosa.
E’ giusto: abbiamo un solo pianeta in cui vivere e non possiamo permetterci di rovinarlo, per rispetto delle generazioni future.
Ma i politici “europei”, supportati dal coro unico dei mezzi di informazione, però, ci dicono un’altra cosa.
Ambiente significa unicamente fare politiche e informazione per contrastare il cambiamento climatico causato dalle emissioni di CO2. Ogni disastro naturale serve a giustificare questo assioma, che si tratti di siccità, di piogge eccessive, di temperature troppo elevate.
TV e giornali ci martellano in tal senso ogni giorno.

Altri motivi di danneggiamento dell’ambiente, come la gestione delle scorie nucleari, l’immissione in ambiente di sostanze chimiche cancerogene (come i famigerati PFAS, sostanze perfluoroalchiliche), l’uso eccessivo di additivi artificiali nell’industria alimentare, la dispersione delle microplastiche nelle acque, al punto che sono entrate a far parte della catena alimentare, fino agli esseri umani… Tutti questi veri problemi ambientali è come se non esistessero nella narrativa del potere politico e mediatico.
Per loro essere ambientalisti significa unicamente ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera.

Non intendo entrare nel dibattito sulla fondatezza o meno delle teorie per cui l’aumento di temperatura del pianeta Terra sia causato dalle emissioni di CO2 e che l’aumento della temperatura sarà certamente causa di cambiamenti gravissimi per il genere umano.
Chiediamoci invece se siano dei motivi scientifici a portare i politici di non occuparsi di tutti gli altri problemi ambientali, ma solo delle emissioni di gas serra.
Quali sono i problemi ambientali più gravi che affliggono l’umanità, misurati in termini di rischi per la salute e la stessa vita delle persone?
Davvero siamo sicuri che la questione più importante sia il cambiamento climatico?

Ciascuno si informi e sia delle risposte su base scientifica, senza accodarsi alla narrativa a senso unico dei mezzi di informazione.

 

Il modello economico europeo è incompatibile con l’ambiente

Ma diamo per assunto che il cambiamento climatico sia il problema prioritario.
Davvero l’Europa porta avanti delle politiche in favore dell’ambiente, al di là dei proclami ufficiali?

Il problema di fondo dell’Unione Europea è l’assoluta inconciliabilità fra il modello economico adottato e le politiche ambientali.
L’Unione Europea è fondata prima di tutto su 3 principi neoliberisti:
1) Il libero commercio senza barriere
2) La competitività
3) Il settore pubblico che non interviene nell’economia

Il libero commercio senza frontiere mette in concorrenza i produttori sulla base dei prezzi dei prodotti commercializzati. Siccome produrre merci riducendo l’impatto ambientale costa di più che produrre merci senza preoccuparsi delle conseguenze ambientali, l’eliminazione delle barriere doganali favorisce le imprese che producono in paesi nei quali esistono meno controlli ambientali e le imprese che meno di altre si curano di rispettare l’ambiente.
Questo avviene a livello c0ntinentale, dove non a caso molti siti produttivi sono stati delocalizzati dai paesi in cui si usa energia più pulita e vi sono maggiori controlli ambientali ai paesi dell’Europa dell’Est, dove si usa energia a maggiori emissioni di CO2 (carbone) e dove i controlli ambientali sono più blandi.
Ovviamente il fenomeno è ancora più marcato a livello mondiale, con l’adesione di tutti i paesi dell’Unione Europea ai trattati di libero scambio come il WTO, tramite i quali si sono aperte le porte a prodotti provenienti da paesi di quasi tutto il mondo, nei quali i controlli ambientali sono sostanzialmente inesistenti.
Si pensi non solo all’impatto ambientale dei paesi dell’Est Asiatico come la Cina o l’India, ma anche alle condizioni in cui le imprese europee si procurano le materie prime nei paesi del Terzo Mondo, senza il minimo rispetto dell’ambiente, della salute umana, dello sfruttamento del lavoro minorile, eccetera.

Nel mondo del libero commercio e della competizione globale prevale sempre chi è più “economicamente più efficiente” ovvero chi riesce più di altri a non farsi carico delle ricadute ambientali delle attività economiche.
L’Europa avrebbe potuto creare un grande mercato interno continentale con le stesse regole di rispetto dell’ambiente uguali per tutti, nel quale chiunque avesse voluto produrre doveva prima di tutto rispettare queste regole e nel quale chiunque avesse voluto importare merci dall’esterno avrebbe dovuto imporre ai propri fornitori il rispeto di tali regole.
Un mercato ricco di 500 milioni di consumatori, con un prodotto interno lordo pari al 20% di quello mondiale, avrebbe avuto la forza di imporre questi standard a livello mondiale o comunque di preservare l’ambiente quantomeno sul territorio europeo.

Invece si è preferito dare spazio. all’unico dogma che conta, quello del libero mercato senza regole, quello della competizione fra imprese ad ogni costo, senza riguardi per le conseguenze ambientali.
Dietro a tutta la retorica sul cambiamento climatico la realtà è che l’Europa è fra i principali devastatori dell’ambiente a livello mondiale, in quanto si occupa solo, a parole, della riduzione delle emissioni di CO2, mentre nel contempo porta avanti politiche economiche che generano inquinamento nella stessa Europa, ma soprattutto  in altre aree del pianeta.

I principi del libero mercato e della competitività non sono per nulla compatibili con il rispetto dell’ambiente, se guardiamo oltre la propaganda martellante dei mezzi di informazione.

 

L’ipocrisia europea sulle emissioni di gas a effetto serra

Dando per assunto, sulla base della narrativa mediatica e non della scienza, che il problema principale da affrontare sia la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, proviamo a valutare l’efficacia delle politiche europee per la riduzione delle emissioni di CO2.

Attualmente le emissioni annuali di gas serra (CO2 equivalente) a livello mondiale sono dell’ordine di 35 miliardi di tonnellate, mentre l’insieme dei paesi dell’Unione Europea emette circa 1 miliardo di tonnellate l’anno- Ovvero le emissioni europee contano il 2,8% delle emissioni annue globali.
Quando Ursula Von der Leyen annuncia nel 2021 il piano europeo “Fit for 55” che prevede la riduzione del 55% delle emissioni europee di CO2 entro il 2030 non ci dice che questo sforzo consentirebbe di ridurre le emissioni globali dell’1,6% in 9 anni, a patto che tutti gli altri paesi del mondo nel contempo mantengano invariate le proprie emissioni di gas ad effetto serra.
Con ogni evidenza la riduzione mondiale dell’1,6% risulterà sostanzialmente irrilevante sull’eventuale effetto serra globale, mentre la riduzione del 55% delle emissioni europee  in soli 7 anni, causerà certamente una gravissima crisi economica in Europa.
Questo perché, pur realizzando impianti per la produzione di energia da fonti rinnovaili e mettendo in atto interventi di risparmio energetico, è del tutto irrealistico riuscire a ridurre le emissioni di CO2 addirittura del 7,9% all’anno, senza avere avuto il tempo di quadruplicare (come minimo) il numero di lavoratori nel settore (ingegneri, operai specializzati, ecc.). Di conseguenza una tale riduzione delle emissioni potrà essere conseguita solamente riducendo in modo molto rilevate le attività produttive e mantenendo gli edifici al freddo in inverno.
E questo significherà disoccupazione e impoverimento.
Tutto questo per conseguire una misera riduzione a livello mondiale del solo 1,6% delle emissioni di CO2, senza alcun effetto rilevante sul cambiamento climatico.

Ovviamente, in un regime di libero commercio, i concorrenti extraeuropei delle nostre imprese continueranno a produrre emettendo CO2. Anzi, lo faranno di più, perché i cittadini europei saranno obbligati ad importare da fuori Europa ciò che in Europa, per le restrizioni ambientali, non potrà più essere prodotto.
L’Unione Europea avrebbe potuto ottenere molto di più esigendo dai fornitori internazionali del mercato europeo degli standard ambientali più adeguati. Ma non lo ha fatto, per non andare contro i principi fondanti del libero mercato e della competitività ad ogni costo.

 

L’ipocrisia europea nell’attuale crisi energetica

Nel rispetto dei soliti principi neoliberisti l’UE ha privatizzato e liberalizzato il mercato europeo dell’energia, istituendo la borsa del gas naturale TTF di Amsterdam e la borsa dell’energia elettrica EER di Lipsia.
Le regole di quotazione dei prezzi sono state scritte in modo da favorire i massimi guadagni agli speculatori. Ci riferiamo alla regola dei
prezzi marginali ed alla possibilità di scambiare in borsa quote virtuali di energia ovvero energia non realmente posseduta da chi la vende, che hanno fatto salire di 10 volte la quantità di energia quotata, con quantità pari a 10-15 volte le quantità reali di energia disponibile presso i produttori.

Queste regole tipiche della speculazione finanziaria hanno esasperato le conseguenze di situazioni “negative” per il mercato dell’energia.
La prima situazione negativa è stato proprio il piano europeo “Fit for 55”, che per limitare le emissioni di CO2 ha previsto la vendita all’asta delle quote di emissioni di CO2 consentite (il 45% restante).
Essendo concretamente impossibile ridurre di così tanto le emissioni di CO2 in soli 6 anni, gli investitori hanno anticipato gli effetti del razionamento delle quote di emissioni di CO2, che porteranno ad un aumento dei combustibili fossili.
Questa è stata la principale ragione degli aumenti dell’energia che già si erano registrati lo scorso autunno 2021.
La seconda situazione negativa sono state le sanzioni imposte alla Russia, conseguenti del conflitto in Ucraina.
L’obiettivo irrealistico di affrancarsi nel giro di pochi mesi dal fabbisogno di gas naturale russo, che rappresentava fino ad un anno fa circa il 40% del fabbisogno europeo, essendo noto, a chi conosce i dati reali, che tutti gli altri paesi produttori di gas naturale al mondo sono in grado, con le infrastrutture disponibili attualmente e nei prossimi 3-4- anni,  di sostituire la fornitura di gas russo. Quindi questo significa a priori la decisione di ridurre la disponibilità di gas in Europa, portando a razionamenti certi (tagli alle attività produttive, famiglie al freddo) e far salire i prezzi del gas alle stelle, in quanto si tratta di un bene primario a cui imprese e famiglie non possono rinunciare tanto facilmente.

Una conseguenza di queste decisioni è che ora molte auto che viaggiavano a gas metano, meno inquinante, ora inquinano di più viaggiando a benzina, che costa meno del gas.

Una seconda conseguenza deriva dal legame fra il prezzo dell’energia elettrica al prezzo del gas.
L’Unione Europea ha deciso che ci debba essere un unico mercato non solo del gas (borsa TTF di Amsterdam), ma anche dell’energia elettrica (borsa EER di Lipsia), con le regole per le quali il prezzo dell’energia elettrica viene determinato dalla fonte produttiva più costosa in circolazione, che attualmente è la produzione di energia elettrica mediante combustione di gas naturale. Sul mercato dell’energia elettrica non si fa più distinzione fra energia da fonti rinnovabili ed energia da fonti fossili. Tutta l’energia viene venduta allo stesso prezzo.
In una logica di politiche ambientali, invece, dovrebbe essere favorita la vendita di energia da fonti rinnovabili rispetto a quella prodotta da fonti fossili.
La conseguenza di queste dinamiche è che attualmente molti paesi si stanno orientando, sia per la carenza di gas che per questioni di prezzo, a produrre energia elettrica bruciando petrolio o carbone, emettendo molta più anidride carbonica di quanta se ne emetterebbe usando il gas naturale e senza incentivare lo sviluppo delle fonti rinnovabili.

Una terza conseguenza derivante dalle sanzioni alla Russia è che i russi sono obbligati a bruciare il gas metano preveniente dai loro giacimenti, dato che non può più essere venduto in Europa e date che, per motivi tecnici, è molto complesso “chiudere i rubinetti” del gas estratto dai giacimenti.
Per questo motivo, in passato, i contratti fra ENI e Gazprom prevedevano la fornitura di un flusso costante di gas per 20-30 anni e procedure obbligatorie di stoccaggio in Italia, il che consentiva nel contempo di minimizzare i costi per entrambe le parti e assicurare rifornimenti certi di energia per imprese e famiglie italiane.
Oggi, purtroppo, le esigenze della finanza europea e della geopolitica americana hanno prevalso sulle esigenze tecniche, portando Gazprom a bruciare il gaz metano che non viene venduto in Europa.
Il risultato di tutto questo è che vengono aumentate le emissioni di CO2 in Europa per la combustione di petrolio e di carbone in sostituzione del gas, mentre restano le emissioni di CO2 causate dalla combustione del gas russo che non può essere venduto dopo essere stato estratto.
Se a livello italiano siamo governati da incapaci, a livello europeo siamo governati da geni dell’inefficienza.
E ringraziamo che i russi brucino il gas naturale invenduto, perché se lo emettessero direttamente in atmosfera l’effetto serra del gas metano sarebbe di 25 volte superiore a quello della stessa CO2. Bruciando il gas l’effetto serra potenziale viene per fortuna ridotto di 24 volte.

Le attuali politiche europee stanno quindi caricando su cittadini e imprese europei tutti i costi derivanti dall’ideologia della riduzione delle emissioni di CO2 ad ogni costo e tutti i costi di scelte geopolitiche, pur se ufficialmente dipendenti dalla guerra in Ucraina, molto mal ponderate nelle loro conseguenze.

Personalmente mi chiedo come sarebbe andata a finire se i 1200 miliardi di euro di extracosti energetici che l’Unione Europea ha già dovuto subire negli ultimi 12 mesi fossero stati messi, come piano di accordi commerciali, sul tavolo delle trattative di pace fra Russia ed Ucraina. Probabilmente sarebbero stati un argomento sufficientemente convincente per mettere a tacere le armi, trovare una soluzione pacifica ed evitare decine di migliaia di morti.


L’insostenibilità del “meno stato più mercato”

Il terzo principio neoliberista fondante dell’Unione Europea , sopra citato, prevede la riduzione dell’intervento dello stato nell’economia, se non come strumento per tassare sempre di più cittadini e imprese, e per favorire lo strapotere delle multinazionali con regole truccate.
Per questo obiettivo l’Unione Europea continua, fin dalla sua costituzione nel 1992, a comprimere i bilanci degli stati, imponendo rigore di bilancio e tagli agli investimenti pubblici.
In questo modo molti paesi, soprattutto quelli meno ricchi e più indebitati, non hanno la possibilità di fare investimenti pubblici e strategici per ridurre l’impatto ambientale.
Il primo investimento da fare sarebbero i controlli sulle attività produttive inquinanti.
Ma i controlli costano. Meno spesa pubblica = più attività inquinanti.

Oltre a questo, per le stesse ragioni, lo Stato non ha i soldi per realizzare, ad esempio, impianti solari o interventi di risparmio energetico negli edifici pubblici.

Lo stato non hanno neppure la possibilità di intervenire sul mercato dell’energia, razionalizzando e rendendolo più funzionale alla sostenibilità ambientale, evitando i fenomeni illustrati nei paragrafi precedenti.
E’ del tutto evidente che per poter rendere disponibile per un grande paese come l’Italia energia da fonti rinnovabili per tutti serva un soggetto che sia in grado di fare investimenti al di là delle dinamiche dei mercati, in grado di realizzare interventi strategici a beneficio di tutti e dell’ambiente e che abbia tutto l’interesse a ridurre i consumi complessivi di energia, non avendo da guadagnarci sulla vendita, cosa che non succede per gli operatori privati che lucrano sulla vendita di energia.
Ad esempio interventi come l’adeguamento della rete elettrica, oggi strutturatsa con “grossi cavi” (mi scusino i colleghi ingegneri elettrici, ma è per rendere il concetto elettrotecnico facilmente comprensibile) in prossimità delle poche centrli di produzione e con “piccoli cavi” in prossimità degli utilizzatori. Per poter immettere in rete e redistribuire l’energia prodotta sugli edifici dagli impianti fotovoltaici serve installare dei nuovi cavi “più grossi” in prossimità degli utilizzatori-produttori, in modo che l’energia non si disperda per effetto Joule.
E serve realizzare delle “smart grid”, sistemi intelligenti che consentano di coordinare prevalentemente il consumo di energia elettrica nelle ore in cui il sole ci consente di produrne di più, dato che l’energia elettrica è difficile da immagazzinare in grandi quantità.
Tutto questo in Italia non lo si è ancora fatto, proprio perché lo Stato non dispone della libertà finanziaria per farlo (oltre alla mancanza di volontà politica, per incompetenza di chi ci governa).

Tutto questo, che sarebbe logico nell’ottica di politiche ambientali, è irreliazzabile restando nelle regole dell’Unione Europea e restando nella politica di mercato.

 

L’irreformabilità dell’Unione Europea
A questo punto gli amici ecologisti, sostenitori dell’Unione Europea, perché convinti che i problemi ambientali sono globali e non possono essere risolti su scala nazionale, mi diranno di essere d’accordo con le considerazioni sopra espresse, per cui l’unica cosa fa fare è perseguire una vera riforma dell’Unione Europea in chiave ambientalista, liberandola dalle logiche di mercato.

A questi amici io rispondo con un’altra domanda:
In quale modo noi potremmo oggi determinare una totale riscrittura dei trattati europei mettendo d’accordo 27 paesi, senza che nessuno ponga il veto, compresi quelli che lucrano dall’attuale situazione di speculazione finanziaria selvaggia sul mercato dell’energia, compresi quelli che lucrano sulla combustione del carbone e compresi quelli che lucrano sulle importazioni di merci dai paesi più inquinanti del mondo?
E mai ci dovessimo riuscire, quanti anni ci vorrebbero per convincere 450 milioni di cittadini europei?
Ma soprattutto per convicere i loro governanti, sempre attenti agli interessi delle lobbies economiche e molto poco a quelli dei cittadini.

E chiedo ancora:
In quale modo potremmo noi concretamente sfiduciare la Ursula Von der Leyen di turno nel caso in cui portasse avanti politiche che si dimostrino opposte agli interessi ambientali?
Abbiamo forse la possibilità concreta di votare la caduta della Commissione Europea persostituirla con un’altra di altra linea politica?

Oppure è più realistico pensare riformare questo sistema politico-economico iniziando, dal basso, a boicottare sistematicamente le attività economiche inquinanti e a favorire le attività economiche non inquinanti?

L’attuale Unione Europea, al di là dei proclami di facciata, è di fatto una vera e propria calamità per le questioni ambientali, in quanto gli unici veri obiettivi perseguiti sono gli interessi finanziari dei mercati, scaricando sui cittadini i costi e i danni causati dalle conseguenze ambientali delle loro attività.
E sono una calamità tutti coloro che sostengono questa istituzione sovranazionale.
Non è possibile coniungare ambientalismo ed ecologia.
Se ci dicono di volerlo fare, ci stanno solo ingannando, per darsi una facciata più credibile mentre perseguono obiettivi ben di altro tipo.

Abbiamo la possibilità di costruire una società diversa, a misura d’uomo e di ambiente, ma solo a patto di rifiutare in blocco meccanismi del mercato libero, della competitività e della non ingerenza dello stato nell’economia. E, quindi, l’Unione Europea.

Elezioni politiche 2022! Una mappa, di Giuseppe Germinario

Partito Democratico

Cala ulteriormente nei consensi, scricchiola anche nelle sue roccaforti, ormai ridotte a due e ½. Non riesce a mantenere integralmente nemmeno il proprio elettorato europeista. Non potendo schierare i propri pezzi da novanta, vale a dire Blinken, von der Leyen, Borrell e Michel. ha dovuto accontentarsi di candidare loro ventriloqui, a partire dal perdente senza successo Enrico Letta. Tutto sommato per il momento ha limitato i danni, sperando in una riedizione di governo istituzionale nel caso Meloni non sia in grado di reggere il fardello. Il tempo, per il PD, è la determinante fondamentale. Per un po’, ma non troppo, potrà reggere l’astinenza. Nel frattempo dovrà risolvere il suo vero dilemma: legarsi mani e piedi, con la prossima nuova dirigenza, alla parodia della sinistra democratica statunitense, nella persona di Elly Schlein e decretare la propria marginalità oppure lasciare la gestione allo zoccolo duro ed arroccato degli amministratori e tentare di trattenere i radicali al proprio interno e tra i collaterali. In caso di fallimento ritornerebbe l’alternativa di Calenda e soci interni ed esterni con conseguente scissione. Il colpo più duro subito, è anche il meno visibile. Come si sa, gli ambienti del Vaticano hanno rinunciato da anni alla costruzione di un partito cattolico collaterale o d’ispirazione; hanno distribuito le attenzioni in più parti. Al momento, specie con la guerra in Ucraina in corso, il Partito Democratico non è più il principale interlocutore del Vaticano.

Assieme a Fratelli d’Italia è rimasto, comunque l’unico partito nazionale; il partito, cioè, che nel suo declino ha mantenuto la forbice più stretta di consensi tra le varie parti del paese

Movimento 5 Stelle

Le elezioni hanno consacrato la costituzione e l’affermazione del partito del progressismo compassionevole. Il de profundis dei partiti del lavoro di antica e gloriosa tradizione. Non è un processo compiuto, ma è sulla buona strada. Non potrà fare a meno di trattare di politica economica. Affronterà in modo pasticciato e disastroso il tema, così come incubato con il bonus 110% in edilizia, con la pletora di bonus estemporanei come durante la crisi pandemica e con la sindrome da catastrofismo ambientale e da conversione energetica affrettata e prematura. Una ottima base per alimentare l’assistenzialismo possibile entro il quadro del prossimo disastro economico a venire e per lasciare mani libere alla dirigenza in formazione, senza mettere in discussione i processi fondamentali. Gode del supporto e della ispirazione fondamentali di settori importanti del Vaticano e rappresenta l’unico spiraglio ad una posizione meno partigiana ed oltranzista nella crisi ucraina. La solidità del sodalizio dipenderà dalla sua capacità di strutturarsi e dalla continuità dell’attuale politica del Vaticano. Nel caso non mancheranno i punti di appoggio nelle varie lande del paese.

Lega

Un risultato disastroso per due motivi:

  • sbiadisce drammaticamente la già pallida prospettiva di costruzione di un partito nazionale

  • rimane, ma fortemente ridimensionato, lo zoccolo duro della Lega Nord e con esso l’ossatura di amministratori e quadri che hanno mantenuto in piedi il partito. La novità più allarmante è che questi ultimi hanno cominciato a guardare e in parte ad approdare verso nuovi lidi. Come numeri non è arrivata ancora alla dimensione della crisi terminale della gestione Bossi; nella progressione e profondità della crisi la situazione è ancora più perniciosa, essendo meno credibili svolte estemporanee alla Salvini. È sufficiente dare un’occhiata al programma elettorale specifico della Lega per comprenderne la gravità dei dilemmi e la scarsa credibilità del tentativo di far quadrare il cerchio. Ne parleremo meglio in seguito.

Fratelli d’Italia

Rappresenta la grande scommessa, per meglio dire l’azzardo, del quadro politico nazionale. Troppa frenesia nel farsi accogliere e legittimare dall’attuale leadership statunitense. La condizione del suo iniziale successo, visti i tempi ormai sempre più brevi delle parabole dei politici emergenti in questo ventennio, è la permanenza dell’attuale leadership statunitense oppure il successo nel movimento trumpiano di una nuova versione delle politiche neocon, specie in politica estera. Troppo euforico appiattimento alle politiche più oltranziste degli Stati Uniti che la avvicinano più al nazionalismo suicida e fantoccio di stampo polacco che alla disinvoltura politica di Orban, Un atteggiamento del quale già Salvini, a suo tempo, ha pagato un prezzo salato, anche se determinato da altri motivi e contingenze. La lezione non pare essere servita. I margini operativi della Meloni e la qualità della sua dirigenza sono stretti ed inversamente proporzionali alla sete di governo e di occupazione dei posti. Mario Draghi le ha già preparato la polpetta avvelenata dei “poteri speciali” e Berlusconi provvederà, a tempo debito, ad organizzare la giostra delle migrazioni parlamentari per condizionare le sue scelte ed eventualmente portare alla sua defenestrazione. L’interrogativo fondamentale è questo: sino a quando gli Stati Uniti riterranno di qualche importanza sostenere l’Unione Europea e che ruolo potrà giocare la Meloni in questa riconsiderazione? La figura antitetico-polare a Mario Draghi?

Le liste “antisistema”

Il flop dovrebbe parlare da solo e insinuare dei dubbi anche tra i più ferventi adepti. È la conferma di una concezione della battaglia politica maturata nel ‘68 e che viene riproposta in maniera imperterrita non ostante le sconfitte parodistiche in Italia e dalle conseguenze ben più drammatiche in altre aree del mondo, come l’America Latina.

Mancano troppi fattori e condizioni necessari a costruire un partito e un movimento politico serio; in nome dell’emergenza, rimandandole, non si fa niente per costruirle:

  • una base culturale solida inesistente e, quando abbozzata, sempre piegata alla comoda individuazione e riproposizione di un fattore unico determinante in ultima istanza le strutture e le dinamiche di potere, nella fattispecie il ruolo del capitale finanziario. Una base culturale che comporta la capacità di creazione e penetrazione di strutture appropriate e di finanziamenti sufficienti;

  • la necessità di acquisire referenti nei centri e nelle strutture di potere ed amministrative;

  • l’individuazione dei soggetti sociali portanti di un rivolgimento sociale e politico, i quali non possono essere di certo gli strati marginali e periferici di una formazione sociale.

Lenin, a suo tempo, imprigionato dallo schema teorico dell’utopia marxista, ma da grande stratega e tattico che era, aveva riservato sì alle casalinghe la funzione di governo, ma nella fase compiuta di realizzazione del comunismo. Ancora si fatica a cogliere questo particolare tutt’altro che insignificante.

Se ne parlerà più approfonditamente una volta smaltita la sbornia postelettorale, giusto per non entrare nel calderone delle polemiche sulla responsabilità di sconfitte preannunciate e cercate.

Mi scuso per l’omissione delle altre formazioni sul campo.

Da Putin via libera al richiamo dei riservisti e ai referendum nei territori ucraini conquistati,

Da Putin via libera al richiamo dei riservisti e ai referendum nei territori ucraini conquistati

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Il presidente russo Vladimir Putin e il ministro della Difesa, Sergey Shoigu, imprimono una svolta al conflitto in Ucraina lanciando chiari messaggii all’opinione pubblica nazionale ma anche all’Ucraina e soprattutto all’Occidente.

Analisi Difesa riporta ampie parti degli interventi ma anche del discorso tenuto ieri da Putin ai vertici dell’industria della Difesa, testo che aiuta ulteriormente a comprendere il clima con cui Mosca sta affrontando gli sviluppi del conflitto.

 

Il discorso di Putin

Con un videomessaggio atteso già nella serata di ieri, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato questa mattina (qui il discorso integrale) la mobilitazione parziale di riservisti ma non ha utilizzato la parola “guerra” continuando a parlare di “un’operazione militare speciale per smilitarizzare e denazificare l’Ucraina e liberare il Donbass” e di “misure per proteggere la sovranità e l’integrità della Russia”.

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“Per proteggere la nostra Patria, la sua sovranità e integrità territoriale, per garantire la sicurezza del nostro popolo e del popolo nei territori liberati, ritengo necessario sostenere la proposta del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore Generale di condurre una mobilitazione parziale nella Federazione Russa”, ha detto.

Putin ha sottolineato che “l’obiettivo dell’Occidente è indebolire e distruggere la Russia” attribuendo a USA e NATO il fallimento di un accordo tra Mosca e Kiev per negoziare la fine delle ostilità.

“Pur agendo per raggiungere gli obiettivi principali della difesa del Donbass in conformità con i piani e le decisioni del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore Generale, le nostre truppe hanno liberato aree considerevoli nelle regioni di Kherson e Zaporozhye e un certo numero di altre aree. Ciò ha creato una lunga linea di contatto lunga oltre 1.000 chilometri.

Questo è ciò che vorrei rendere pubblico per la prima volta oggi. Dopo l’inizio dell’operazione militare speciale, in particolare dopo i colloqui di Istanbul, i rappresentanti di Kiev hanno espresso una risposta piuttosto positiva alle nostre proposte. Queste proposte riguardavano soprattutto la sicurezza e gli interessi della Russia. Ma un accordo pacifico ovviamente non si addiceva all’Occidente, motivo per cui, dopo che alcuni compromessi furono coordinati, a Kiev fu effettivamente ordinato di far fallire tutti questi accordi. Altre armi sono state pompate in Ucraina. Il regime di Kiev ha messo in gioco nuovi gruppi di mercenari e nazionalisti stranieri, unità militari addestrate secondo gli standard NATO e che hanno ricevuto ordini da consiglieri occidentali”.

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Nel suo discorso Putin ha evidenziato che “la Repubblica popolare di Luhansk è già stata quasi completamente ripulita dai neonazisti. Continuano i combattimenti nella Repubblica popolare di Donetsk. Qui, per otto anni, il regime di occupazione di Kiev ha creato una linea profondamente scaglionata di fortificazioni a lungo termine. Il loro assalto frontale avrebbe provocato pesanti perdite, quindi le nostre unità, così come le unità militari delle repubbliche del Donbass, agiscono sistematicamente, con competenza, usano attrezzature, proteggono il personale e liberano la terra di Donetsk passo dopo passo”.

Sul piano delle forze militari schierate sul campo Putin ha precisato che “come sapete, all’operazione militare speciale partecipano militari professionisti in servizio sotto contratto. Combattono fianco a fianco con loro unità di volontari: persone di diverse etnie, professioni ed età che sono veri patrioti. Hanno risposto alla chiamata dei loro cuori di sollevarsi in difesa della Russia e del Donbass.

 

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A questo proposito, ho già impartito istruzioni al governo e al ministero della Difesa di determinare lo status giuridico dei volontari e del personale delle unità militari delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Deve essere lo stesso dello status dei professionisti militari dell’esercito russo, compresi i benefici materiali, medici e sociali. Particolare attenzione deve essere prestata all’organizzazione della fornitura di attrezzature militari e di altro tipo per le unità di volontari e la milizia popolare del Donbass”.

Il presidente ha spiegato che “la Russia sosterrà la decisione dei residenti del Donbass e dei territori liberati sul loro futuro” di entrare a far parte della Federazione Russa confermando i referendum per l’annessione già preannunciati tra il 23 e il 27 settembre nelle regioni (oblast) di Donetsk, Luhansk, Zaporozhye e Kherson. “Non possiamo, non abbiamo il diritto morale di consegnare le persone a noi vicine affinché vengano fatte a pezzi dai carnefici non possiamo che rispondere al loro sincero desiderio di determinare la propria sorte, i parlamenti delle Repubbliche popolari del Donbass, nonché le amministrazioni militare-civili delle regioni di Kherson e Zaporizhia, hanno deciso di indire un referendum sul futuro di questi territori e si sono rivolti a noi, alla Russia, con la richiesta di sostenere un simile passo”.

Circa il ruolo di Stati Uniti e NATO Putin ha denunciato “la politica aggressiva di alcune élite occidentali”.

“L’obiettivo di quella parte dell’Occidente è indebolire, dividere e infine distruggere il nostro Paese. Ora stanno dicendo apertamente che nel 1991 sono riusciti a dividere l’Unione Sovietica e ora è il momento di fare lo stesso con la Russia, che deve essere divisa in numerose regioni che sarebbero in mortale faida tra loro.

Hanno ideato questi piani molto tempo fa. Hanno incoraggiato gruppi di terroristi internazionali nel Caucaso e spostato l’infrastruttura offensiva della NATO vicino ai nostri confini. Hanno usato la russofobia indiscriminata come arma, anche alimentando l’odio per la Russia per decenni, principalmente in Ucraina, che era stata progettata per diventare una testa di ponte anti-russa. Hanno trasformato il popolo ucraino in carne da cannone e lo hanno spinto in una guerra con la Russia, che hanno scatenato nel 2014”.

 

L’intervento di Shoigu

il ministro della Difesa Shoigu ha concretizzato, fornendo numerosi dati ed elementi di valutazione, le misure di mobilitazione parziale disposte dal decreto presidenziale pubblicato sul sito del Cremlino e che riportiamo più avanti.

Shoigu ha precisato che i riservisti mobilitati saranno fino a 300mila precisando che si tratterà di uomini che hanno già servito nell’esercito, con esperienza di combattimento e specializzazioni militari. Ha aggiunto che sono esclusi i militari di leva e che lo scopo della mobilitazione è “controllare i territori liberati” in Ucraina. “Abbiamo un’enorme risorsa di mobilitazione che comprende coloro che hanno prestato servizio nell’esercito, coloro che hanno esperienza di combattimento e specialità militari”.

”збекистан. “ашкент. ћинистр обороны –‘ —ергей Ўойгу во врем€ совещани€ министров обороны государств-членов Ўанхайской организации сотрудничества (Ўќ—). ¬ меропри€тии принимают участие военные делегации »ндии,  азахстана,  ита€,  иргизии, ѕакистана, –оссии, “аджикистана и ”збекистана, а также Ѕелоруссии как страны наблюдател€ при Ўќ—. ѕресс-служба ћинобороны –‘/“ј—— ѕ–≈ƒќ—“ј¬Ћ≈Ќќ “–≈“№≈… —“ќ–ќЌќ… 24 ј¬√”—“ј 2022. “ќЋ№ ќ ƒЋя –≈ƒј ÷»ќЌЌќ√ќ »—ѕќЋ№«ќ¬јЌ»я

Il ministro ha evidenziato tra le righe ulteriori mobilitazioni potranno venire effettuate. La Russia può mobilitare quasi 25 milioni di persone, i 300.000 riservisti rappresentano poco più dell’1,1 per cento di tali forze e verranno sottoposti ad un addestramento aggiornato rispetto al contesto bellico ucraino e alle lezioni apprese in sette mesi di operazioni.

Shoigu ha poi fornito altri dati numerici importanti anche se da prendere come sempre con le molle tenuto conto che entrambi i belligeranti utilizzano le perdite subite e inflitte come strumenti di propaganda.

Mosca non riportava da marzo dati circa le perdite subite, all’epoca poco più di un migliaio, ma oggi Shoigu ha ammesso che del tema “non abbiamo parlato da molto tempo. Non posso non menzionare le perdite che ammontano a 5.937 persone. E qui ancora e ancora non posso non menzionare i nostri ragazzi che fanno coraggiosamente il loro dovere” ha detto il ministro elogiando il lavoro dei medici grazie ai quali “più del 90% dei feriti sono tornati ai loro incarichi”.

Le perdite ammesse dai russi sono quasi un decimo di quelle rivendicate dagli ucraini (circa 55mila i soldati russi uccisi secondo Kiev) anche se ai caduti russi dall’inizio delle operazioni, il 24 febbraio scorso, vanno aggiunte le perdite sofferte dalle milizie del Donbass (circa 3.100 solo nella Repubblica popolare di Donetsk) e dai contractors del Gruppo Wagner che potrebbero portare facilmente il totale a circa 11 mila caduti.

Secondo il ministro 61.207 militari ucraini sono morti e 49.368 sono rimasti feriti.

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“Le Forze Armate ucraine avevano tra le 201.000 e le 202.000 persone, ma hanno subito più di 100.000 perdite”, ha detto aggiungendo che circa 7mila soldati ucraini sono stati uccisi nelle ultime settimane (nelle controffensive a Kherson e Kharkiv dove gli ucraini avrebbero perso anche 208 carri armati, 245 veicoli da combattimento, 186 blindati, 15 aerei e 4 elicotteri) e che in Ucraina “sono rimasti poco più di mille mercenari stranieri, più di 2.000 che hanno combattuto per l’Ucraina sono già morti”.

Secondo Shoigu il supporto militare di USA e NATO a Kiev vede la presenza di un comando con 150 specialisti militari occidentali effettivamente a Kiev” che rappresentano “il vero” comando delle forze armate ucraine. L’ultimo gruppo che è arrivato, composto sia da ex militari che da personale in servizio attivo, è composto da 150 persone. Questo è in realtà il vero comando. Il comando occidentale è a Kiev e gestisce tutte le operazioni”.

Shoigu ha poi confermato gli ingenti quantitativi di armi occidentali “che la Russia sta trovando il modo di contrastare”.

“Non ci riferiamo solo alle armi che vengono fornite in un volume enorme, ma anche ai sistemi di comunicazione e di elaborazione delle informazioni dispiegati lì”.

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Secondo Shoigu “l’Ucraina ha già esaurito tutte le armi che aveva, stiamo parlando delle vecchie armi sovietiche. Molti nuovi membri dell’Unione Europea, che sono particolarmente zelanti, stanno facendo del loro meglio” ha detto riferendosi ai membri di NATO e UE dell’Europa Orientale. “Dal mio punto di vista hanno svuotato tutti i magazzini, li hanno ripuliti con attenzione per poter dare tutto all’Ucraina. E’ giunto il momento in cui stiamo di fatto combattendo contro l’Occidente collettivo più la NATO”, ha detto ancora Shoigu,

“La verità è che l’intera galassia di satelliti della NATO sta lavorando contro di noi”, ha concluso Shoigu, “secondo le nostre stime, oltre 70 satelliti militari e più di 200 satelliti civili stanno lavorando per localizzare i siti dove sono di stanza le nostre unità”.

 

L’Ordine esecutivo per la mobilitazione

Questo il testo dell’Ordine Esecutivo:

Il Presidente ha dichiarato una mobilitazione parziale nella Federazione Russa a partire dal 21 settembre 2022.

L’ordine esecutivo prevede la chiamata dei cittadini della Federazione Russa al servizio nelle forze armate nell’ambito dello sforzo di mobilitazione. I cittadini chiamati al servizio militare nell’ambito della mobilitazione godranno dello status di personale militare in servizio nelle forze armate della Federazione Russa sotto contratto.

L’ordine esecutivo prevede indennità in denaro per i cittadini della Federazione Russa chiamati al servizio militare nell’ambito della mobilitazione, nonché la durata dei contratti di servizio militare firmati dal personale militare, motivi per il congedo del personale militare in servizio sotto contratto, in quanto così come i cittadini chiamati al servizio militare nelle forze armate della Federazione Russa nell’ambito della mobilitazione.

Istruzioni corrispondenti sono state impartite al governo della Federazione Russa e agli alti funzionari governativi nelle entità costituenti della Federazione Russa.

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In base all’Ordine Esecutivo, i cittadini della Federazione impiegati dalle società del settore difesa (defence companies, l’industria della Difesa – NDR) beneficeranno di un’esenzione dalla mobilitazione per il periodo del loro impiego da parte di queste organizzazioni. Il governo della Federazione Russa definirà le categorie di cittadini della Federazione Russa che hanno il diritto di godere di esenzioni e il modo in cui tali esenzioni devono essere previste.

Del resto Mosca ha preparato il terreno a questo salto di qualità nell’impegno militare in Ucraina. Ieri la Duma ha approvato emendamenti per modificare il codice penale in tema di diserzione, mobilitazione, legge marziale, tempo di guerra e resa come prigioniero di guerra.

Come ha riferito l’agenzia RIA Novosti i legislatori russi hanno aumentato le pene ai soldati per “la resa volontaria” e per il saccheggio (rispettivamente a 10 e 15 anni di carcere); e hanno anche definito legalmente i termini “mobilitazione”, “legge marziale” e “tempo di guerra” nel codice penale della Federazione Russa.

 

Putin chiede maggiori sforzi all’industria della Difesa

Il 20 settembre Putin ha inoltre incontrato i vertici delle aziende dell’industria della difesa discutendo le misure attuali per soddisfare le esigenze del Ministero della Difesa e per attuare programmi di sostituzione delle importazioni in seguito alle sanzioni occidentali.

Putin ha rivelato e omaggiato il ruolo ricoperto dal comparto industriale anche in prima linea sui fronti ucraini. “Date le circostanze, le sfide e le minacce che il nostro Paese sta affrontando, le compagnie di difesa stanno operando intensamente e i loro dipendenti stanno agendo rapidamente per affrontare sfide non convenzionali, riorganizzare i processi di produzione e migliorare la qualità sulla base dell’effettiva esperienza di combattimento. I vostri rappresentanti vanno in prima linea – voglio prenderne atto e ringraziarli per questo. Questo trascende la responsabilità professionale ed è, in una certa misura, eroismo, che sta dando un grande contributo al miglioramento dell’equipaggiamento militare utilizzato nelle operazioni di combattimento”.

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Putin ha poi sottolineato che “le armi russe utilizzate nell’operazione si sono dimostrate altamente efficaci. Ciò riguarda principalmente l’aviazione, i missili a lungo raggio ad alta precisione, le armi aeronautiche, i razzi e l’artiglieria e l’arsenale di veicoli corazzati, solo per citarne alcuni. Sono usati per distruggere le infrastrutture militari, i posti di comando e il materiale nemico e per attaccare le unità nazionaliste, riducendo al minimo le perdite tra il personale”.

Nel suo intervento il presidente ha posto l’attenzione anche sugli armamenti occidentali sottolineando che “dobbiamo e possiamo studiare l’equipaggiamento che viene utilizzato contro di noi e aprire nuovi orizzonti nello sviluppo delle nostre capacità e, sulla base della nostra esperienza, migliorare, ove necessario, il nostro equipaggiamento e le nostre armi “.

Putin ha inoltre aggiunto: “Quest’anno ho deciso di fornire armi ed equipaggiamenti aggiuntivi alle forze armate e, di conseguenza, di stanziare fondi per l’acquisizione e la manutenzione. Le capacità di produzione devono essere aumentate e, se necessario, modernizzate in diverse imprese della difesa. Molto è stato fatto per raggiungere questo obiettivo.

Ad esempio, sono state prese le seguenti decisioni per garantire la produzione e la riparazione senza interruzioni di armi e attrezzature: le procedure contrattuali e precontrattuali sono state notevolmente semplificate, i tempi per la firma dei contratti statali con un unico fornitore e la relativa procedura di tariffazione sono stati ridotti e l’importo del pagamento anticipato ed aumentato.

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Vorrei sottolineare che Promsvyazbank ha riaffermato i termini per i prestiti a basso interesse per la consegna pre-programmata delle armi. Inoltre, le leggi sul lavoro sono state modificate per consentire ai capi delle imprese della Difesa e agli uffici di progettazione di autorizzare il pagamento degli straordinari per progettisti, ingegneri e lavoratori.

Sono state adottate misure in relazione all’ottimizzazione della produzione. Le organizzazioni dell’industria della difesa devono garantire la fornitura delle armi, dell’equipaggiamento e delle munizioni necessarie alle forze armate il prima possibile.

Dobbiamo inoltre garantire la fornitura tempestiva e completa di componenti, parti, unità e materiali moderni di fabbricazione russa alle società del settore della difesa. L’industria della difesa è la sfera in cui tutti i programmi di sostituzione delle importazioni devono essere attuati senza errori.

Questo potrebbe non essere così importante o addirittura necessario in altre aree, perché non abbiamo bisogno di una sostituzione delle importazioni al cento per cento.

Ma dobbiamo farlo in questo campo. Pertanto, le capacità produttive devono essere aumentate senza indugio, le attrezzature devono essere utilizzate al massimo, i cicli tecnologici devono essere snelliti e le tempistiche di produzione devono essere ridotte senza pregiudicare la qualità.

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Vorrei chiedere ai vertici delle imprese del settore della difesa di riferire sulle misure che stanno adottando per soddisfare i requisiti del ministero della Difesa. Naturalmente, mi aspetto anche che facciate proposte pratiche, come avete fatto nei nostri precedenti incontri sullo sviluppo dell’industria della difesa nel suo insieme.

Considerazioni a cui ha risposto indirettamente oggi il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, rilevando in un’intervista alla Reuters che “noi stiamo parlando con i nostri alleati ma anche con l’industria della Difesa per aumentare la produzione militare, di armi e munizioni, perché dobbiamo rimpiazzare i nostri stock per assicurare la difesa dei territori NATO ma anche per continuare a sostenere l’Ucraina”. Stoltenberg ha aggiunto che presto ci sarà un summit su questo dossier a Bruxelles paragonando l’aumento di produzione militare richiesto a quello dei vaccini nella crisi Covid.

 

Valutazioni

Le dichiarazioni e le iniziative di Putin delle ultime ore non solo rinnovano e rafforzano lo sforzo bellico in Ucraina con forze militari fresche ma rivelano la mobilitazione, non totale, degli apparati militare, politico e industriale in vista di un conflitto di lunga durata e contro un nemico allargato all’Occidente.

Non a caso Putin e Shoigu hanno definito Kiev quasi come un mero strumento dell’aggressione dell’Occidente alla Russia: messaggio che favorisce la mobilitazione nazionale e patriottica contro la minaccia portata dall’Occidente ai confini della Federazione.

Anche l’annuncio che i territori in mano a russi e ucraini filorussi verranno annessi alla Federazione Russa dopo i referendum punta a cementare l’identità nazionale con misure che definiscono a tutti gli effetti cittadini russi i combattenti e la popolazione di queste quattro regioni.

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Un aspetto poco considerato in Europa ma che assume una maggiore consistenza tenendo conto che oltre 2,5 milioni di ucraini del Donbass sono rifugiati (deportati secondo Kiev) nelle regioni russe di confine e che, nonostante i referendum vengano considerati illegittimi da tutto l’Occidente e da Kiev (come del resto quello del 2014 in Crimea), in seguito alle annessioni territoriali Mosca avrà gli strumenti per definire il conflitto “difensivo”, teso cioè a proteggere l’integrità territoriale e i confini della Federazione.

L’iniziativa referendaria infatti da un lato sembra sottrarre l’autonomia finora attribuita alle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (riconosciute da Mosca poche ore prima dell’avvio delle operazioni in Ucraina, il 24 febbraio scorso) ma dall’altro definirà i loro territori parte integrante della Federazione con tutte le implicazioni di escalation e rappresaglia previsti per le minacce portate al territorio nazionale, inclusa la deterrenza nucleare.

Di fatto Mosca minaccia di considerare un attacco degli ucraini o delle armi occidentali come se si trattasse di un attacco contro una città o una regione della Russia. Mosca alza l’asticella dell’escalation mostrando di avere ancora molte frecce al suo arco ma senza usare la parola “guerra” e limitando l’area del confronto militare alle quattro regioni oggetto. dei referendum.

Nessun riferimento nelle sue parole (e in quelle di Shoigu) alla riconquista dell’oblast di Kharkiv da cui i russi si sono ritirati dopo la controffensiva ucraina o alla conquista di Odessa che pure fanno parte della cosiddetta “Nuova Russia”.

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Un indizio che potrebbe indicare la disponibilità di Mosca a negoziare un accordo sulla base delle attuali conquiste territoriali, “limitate” alle quattro regioni oggetto dei referendum. Per queste ragioni il messaggio di Putin, pur se muscolare, sembra voler offrire possibilità a una trattativa che tenga inevitabilmente conto delle pretese territoriali russe.

Benché molti in Occidente abbiano definito l’intervento di Putin un segno di debolezza non si può escludere che il ritardo di 12 ore nella diffusione del discorso di Putin abbia visto nella notte tra il 20 e il 21 settembre telefonate e confronti con le controparti negli USA, a Kiev, forse in Europa e soprattutto ad Ankara, considerato che i turchi restano gli unici, almeno all’apparenza, in grado di imbastire un negoziato.

Le reazioni registrate pubblicamente in Occidente non sembrano al momento mostrare indicazioni in tal senso né consapevolezza circa gli sviluppi annunciati da Mosca.

il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, ha commentato le parole di Putin affermando che “lui ed il suo ministro della Difesa hanno mandato decine di migliaia dei loro concittadini a morte, male equipaggiati e mal comandati. In nessun modo minacce e propaganda possono nascondere il fatto che l’Ucraina sta vincendo la guerra, che la comunità internazionale è unita e che la Russia sta diventando un paria globale”.

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L’annuncio fatto oggi da Vladimir Putin era “atteso” ed è “un segnale che il presidente russo è in difficoltà” ha detto John Kirby, portavoce del National Security Council della Casa Bianca sottolineando che la consistenza del numero di riservisti mobilitati è “quasi il doppio delle forze destinate alla guerra a febbraio”. Per il portavoce “è un chiaro segno della difficoltà” in cui si trova Putin. “Sappiamo che ha subito decine di migliaia di perdite, c’è un pessimo morale tra le truppe sul campo e non sono stati ancora risolti i problemi di controllo del comando. Ci sono problemi di diserzione e sta costringendo i feriti a tornare a combattere. Così chiaramente la mancanza di forze è un problema per lui ha la sensazione di essere in arretramento, particolarmente nell’area nord orientale del Donbass”.

Più o meno sullo stesso tenore le reazioni in Europa mentre il ministero degli Esteri cinese ha esortato tutte le parti coinvolte nel conflitto in Ucraina a impegnarsi nel dialogo e nella consultazione e a trovare un modo per affrontare le preoccupazioni di sicurezza di tutti.

Sul piano militare è difficile non notare che l’annuncio della mobilitazione di un massimo di 300 mila riservisti aumenta il peso specifico delle forze di Mosca in un conflitto in cui hanno sempre patito un’inferiorità numerica nei confronti delle truppe ucraine che mediamente è nell’ordine di 3 a 1.

Una mobilitazione generale, da molti paventato, sarebbe stata esagerata rispetto alle esigenze russe e avrebbe avuto certamente un impatto più pesante sulla società e l’economia russa oltre che sulla percezione in Occidente che Mosca si preparasse alla guerra totale.

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Inoltre la mobilitazione di un gran numero di riservisti si aggiunge a quella di numerosi battaglioni di volontari arruolati in questi mesi su base regionale e il  cui arruolamento sembra aver subito un incremento dopo la ritirata russa dalla regione di Kharkiv, Nei giorni scorsi è circolata la notizia che 9 oblast abbiano mobilitato battaglioni di volontari: 1.200 combattenti dalla Crimea, 800 da Kursk, altri da Voronezh, Ciuvashia e Bashkiria, che hanno già inviato 1.000 uomini al fronte.  Gli oblast di Magadan e Kemenovo hanno reso noto di non poter organizzare reparti di volontari ma di essere disposta a equipaggiare e finanziare quelli delle altre regioni mentre Celyabinsk ha iniziato a organizzare la raccolta di volontari.

Il 17 settembre il leader ceceno, Ramzan Kadyrov, ha annunciato che altri due battaglioni hanno raggiunto il Donbass e altri 10 mila volontari sono in fase di arruolamento.

Il sindaco di Mosca, Serghiei Sobyanin, in un post su Telegram ripreso ieri dal Moscow Times, ha affermato che aprirà un centro “per assistere il ministero della Difesa russo nel reclutamento di cittadini stranieri nel servizio militare” dopo che la Duma ha approvato un progetto di legge per semplificare l’iter per l’ottenimento della cittadinanza russa per gli stranieri che firmano un contratto di un anno nell’esercito russo. Per diventare legge, il documento deve essere ancora approvato dal Senato e firmato dal presidente russo.

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Si tratta di una pratica non nuova, varata negli anni scorsi dagli Stati Uniti che hanno arruolato immigrati per l’impiego in Iraq e Afghanistan. Al termine di un anno di servizio oltremare la cittadinanza statunitense veniva attribuita con cerimonie che si tennero in diverse basi statunitensi nei teatri di guerra.

La presenza dei battaglioni di volontari non è però riuscita a evitare la mobilitazione su vasta scala di riservisti dei quali alcune migliaia erano già stati richiamati in servizio nei mesi scorsi.

I reparti costituiti da volontari inoltre hanno diversi standard di addestramento ed equipaggiamento e sembra abbiano registrato difficoltà di amalgama con le forze regolari russe e i miliziani di Donetsk e Luhansk. Anche per questo le nuove disposizioni di Mosca regolarizzeranno tutti i combattenti con uno standard comune alle forze regolari.

La mobilitazione dei riservisti, il loro addestramento e assegnazione ai reparti oltre alla costituzione di nuove unità insieme alla standardizzazione delle forze regolari russe con i battaglioni di volontari e le milizie del Donbass richiederà almeno alcuni mesi. Inoltre parte dei riservisti potrebbe venire impiegata per sostituire reparti in servizio effettivo in diverse aree della Russia consentendone l’impiego in Ucraina.

La nuova fase della guerra varata oggi dal Cremlino, potrebbe quindi vedere, almeno sul piano operativo, un periodo di stallo sui diversi fronti ucraini o comunque una vivacità limitata delle forze di Mosca anche se l’afflusso di rinforzi è iniziato da alcune settimane e ha già visto il trasferimento in Ucraina di reparti regolari dislocati in altre regioni e persino in Tagikistan.

Tempo prezioso per cercare di imbastire negoziati in grado di congelare o concludere il conflitto, complice anche la stagione invernale alle porte.

https://www.analisidifesa.it/2022/09/da-putin-via-libera-al-richiamo-dei-riservisti-e-ai-referendum-nei-territori-ucraini-conquistati/?fbclid=IwAR1BMkSjf3S-f5uwXoS5eYMpZEydUyFVaKGJ3aOgL6pu_N1hsUXL-mm6cZI

Discorso del Presidente della Federazione Russa

Il presidente della Russia Vladimir Putin: amici,

L’argomento di questo intervento è la situazione nel Donbass e il corso dell’operazione militare speciale per liberarlo dal regime neonazista, che ha preso il potere in Ucraina nel 2014 a seguito di un colpo di stato armato.

Oggi mi rivolgo a voi – a tutti i cittadini del nostro Paese, a persone di diverse generazioni, età ed etnie, al popolo della nostra grande Patria, a tutti coloro che sono uniti dalla grande Russia storica, soldati, ufficiali e volontari che stanno combattendo in prima linea e facendo il loro dovere di combattimento, i nostri fratelli e sorelle nelle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, nelle regioni di Kherson e Zaporozhye e in altre aree che sono state liberate dal regime neonazista.

La questione riguarda le misure necessarie e imperative per proteggere la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale della Russia e sostenere il desiderio e la volontà dei nostri compatrioti di scegliere il proprio futuro in modo indipendente, e la politica aggressiva di alcune élite occidentali, che stanno facendo tutto il possibile per preservare il loro dominio e con questo obiettivo in vista stanno cercando di bloccare e sopprimere qualsiasi centro di sviluppo sovrano e indipendente per continuare a imporre aggressivamente la loro volontà e pseudovalori su altri paesi e nazioni.

L’obiettivo di quella parte dell’Occidente è indebolire, dividere e infine distruggere il nostro Paese. Ora stanno dicendo apertamente che nel 1991 sono riusciti a dividere l’Unione Sovietica e ora è il momento di fare lo stesso con la Russia, che deve essere divisa in numerose regioni che sarebbero in mortale faida tra loro.

Hanno ideato questi piani molto tempo fa. Hanno incoraggiato gruppi di terroristi internazionali nel Caucaso e spostato l’infrastruttura offensiva della NATO vicino ai nostri confini. Hanno usato la russofobia indiscriminata come arma, anche alimentando l’odio per la Russia per decenni, principalmente in Ucraina, che era stata progettata per diventare una testa di ponte anti-russa. Hanno trasformato il popolo ucraino in carne da cannone e lo hanno spinto in una guerra con la Russia, che hanno scatenato nel 2014. Hanno usato l’esercito contro i civili e organizzato un genocidio, blocco e terrore contro coloro che si sono rifiutati di riconoscere il governo che è stato creato in Ucraina a seguito di un colpo di stato.

Dopo che il regime di Kiev ha rifiutato pubblicamente di risolvere pacificamente la questione del Donbass ed è arrivato al punto di annunciare la sua ambizione di possedere armi nucleari, è diventato chiaro che una nuova offensiva nel Donbass – ce n’erano due prima – era inevitabile e che sarebbe inevitabilmente seguito da un attacco alla Crimea russa, cioè alla Russia.

A questo proposito, la decisione di avviare un’operazione militare preventiva era necessaria e l’unica opzione. L’obiettivo principale di questa operazione, che è la liberazione dell’intero Donbass, rimane inalterato.

La Repubblica popolare di Lugansk è stata quasi completamente liberata dai neonazisti. Continuano i combattimenti nella Repubblica popolare di Donetsk. Negli otto anni precedenti, il regime di occupazione di Kiev ha creato una linea di difesa permanente profondamente scaglionata. Un attacco frontale contro di loro avrebbe portato a pesanti perdite, motivo per cui le nostre unità, così come le forze delle repubbliche del Donbass, stanno agendo in modo competente e sistematico, utilizzando attrezzature militari e salvando vite, muovendosi passo dopo passo per liberare il Donbass , epurare città e paesi dai neonazisti e aiutare le persone che il regime di Kiev ha trasformato in ostaggi e scudi umani.

Come sapete, all’operazione militare speciale partecipano militari professionisti in servizio sotto contratto. Combattono fianco a fianco con loro unità di volontari: persone di diverse etnie, professioni ed età che sono veri patrioti. Hanno risposto alla chiamata dei loro cuori di sollevarsi in difesa della Russia e del Donbass.

A questo proposito, ho già impartito istruzioni al governo e al ministero della Difesa di determinare lo status giuridico dei volontari e del personale delle unità militari delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Deve essere lo stesso dello status dei professionisti militari dell’esercito russo, compresi i benefici materiali, medici e sociali. Particolare attenzione deve essere prestata all’organizzazione della fornitura di attrezzature militari e di altro tipo per le unità di volontari e la milizia popolare del Donbass.

Pur agendo per raggiungere gli obiettivi principali della difesa del Donbass in conformità con i piani e le decisioni del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore Generale, le nostre truppe hanno liberato aree considerevoli nelle regioni di Kherson e Zaporozhye e un certo numero di altre aree. Ciò ha creato una lunga linea di contatto lunga oltre 1.000 chilometri.

Questo è ciò che vorrei rendere pubblico per la prima volta oggi. Dopo l’inizio dell’operazione militare speciale, in particolare dopo i colloqui di Istanbul, i rappresentanti di Kiev hanno espresso una risposta piuttosto positiva alle nostre proposte. Queste proposte riguardavano soprattutto la sicurezza e gli interessi della Russia. Ma un accordo pacifico ovviamente non si addiceva all’Occidente, motivo per cui, dopo che alcuni compromessi furono coordinati, a Kiev fu effettivamente ordinato di far fallire tutti questi accordi.

Altre armi sono state pompate in Ucraina. Il regime di Kiev ha messo in gioco nuovi gruppi di mercenari e nazionalisti stranieri, unità militari addestrate secondo gli standard NATO e che hanno ricevuto ordini da consiglieri occidentali.

Allo stesso tempo, il regime di rappresaglie in tutta l’Ucraina contro i propri cittadini, instaurato subito dopo il colpo di stato armato del 2014, è stato duramente intensificato. La politica dell’intimidazione, del terrore e della violenza sta assumendo forme sempre più massicce, orribili e barbare.

Voglio sottolineare quanto segue. Sappiamo che la maggior parte delle persone che vivono nei territori liberati dai neonazisti, e queste sono soprattutto le terre storiche della Novorossiya, non vogliono vivere sotto il giogo del regime neonazista. Le persone nelle regioni di Zaporozhye e Kherson, a Lugansk e Donetsk hanno visto e stanno assistendo alle atrocità perpetrate dai neonazisti nelle aree [ucraine] occupate della regione di Kharkov. I discendenti dei Banderiti ei membri delle spedizioni punitive naziste stanno uccidendo, torturando e imprigionando persone; stanno regolando i conti, picchiando e commettendo oltraggi a civili pacifici.

C’erano oltre 7,5 milioni di persone che vivevano nelle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e nelle regioni di Zaporozhye e Kherson prima dello scoppio delle ostilità. Molti di loro sono stati costretti a diventare profughi ea lasciare le loro case. Quelli che sono rimasti – sono circa cinque milioni – sono ora esposti agli attacchi di artiglieria e missili lanciati dai militanti neonazisti, che sparano su ospedali e scuole e inscenano attacchi terroristici contro civili pacifici.

Non possiamo, non abbiamo il diritto morale di lasciare che i nostri parenti e amici siano fatti a pezzi dai macellai; non possiamo che rispondere al loro sincero sforzo di decidere da soli il proprio destino.

I parlamenti delle repubbliche popolari del Donbass e le amministrazioni militare-civili delle regioni di Kherson e Zaporozhye hanno adottato decisioni per indire referendum sul futuro dei loro territori e si sono appellati alla Russia per sostenerla.

Vorrei sottolineare che faremo tutto il necessario per creare condizioni sicure per questi referendum in modo che le persone possano esprimere la propria volontà. E sosterremo la scelta del futuro fatta dalla maggioranza delle persone nelle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e nelle regioni di Zaporozhye e Kherson.

Gli amici,

Oggi le nostre forze armate, come ho accennato, stanno combattendo sulla linea di contatto lunga oltre 1.000 chilometri, combattendo non solo contro unità neonaziste ma in realtà l’intera macchina militare dell’Occidente collettivo.

In questa situazione, ritengo necessario prendere la seguente decisione, che è del tutto adeguata alle minacce che stiamo affrontando. Più precisamente, ritengo necessario sostenere la proposta del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore Generale sulla mobilitazione parziale nella Federazione Russa per difendere la nostra Patria e la sua sovranità e integrità territoriale, e per garantire la sicurezza del nostro popolo e del popolo liberato territori.

Come ho detto, stiamo parlando di mobilitazione parziale. In altre parole, saranno convocati solo i riservisti militari, principalmente quelli che hanno prestato servizio nelle forze armate e hanno specifiche specialità professionali militari e relativa esperienza.

Prima di essere inviati alle loro unità, i chiamati in servizio attivo saranno sottoposti a un addestramento militare aggiuntivo obbligatorio basato sull’esperienza dell’operazione militare speciale.

Ho già firmato l’Ordine Esecutivo di mobilitazione parziale.

Conformemente alla legislazione, le Camere dell’Assemblea federale – il Consiglio della Federazione e la Duma di Stato – ne saranno ufficialmente informate per iscritto oggi.

La mobilitazione comincerà oggi, 21 settembre. Insegno ai vertici delle regioni l’assistenza necessaria al lavoro degli uffici di reclutamento militare.

Vorrei sottolineare che i cittadini della Russia chiamati in base all’ordine di mobilitazione avranno lo status, i pagamenti e tutte le prestazioni sociali del personale militare in servizio sotto contratto.

Inoltre, l’Ordine esecutivo sulla mobilitazione parziale prevede anche misure aggiuntive per l’adempimento dell’ordine di difesa dello Stato. I capi delle imprese del settore della difesa saranno direttamente responsabili del raggiungimento degli obiettivi di aumentare la produzione di armi e attrezzature militari e di utilizzare strutture di produzione aggiuntive a tale scopo. Allo stesso tempo, il governo deve affrontare senza indugio tutti gli aspetti del sostegno materiale, delle risorse e finanziario alle nostre imprese della difesa.

Gli amici,

L’Occidente è andato troppo oltre nella sua politica aggressiva contro la Russia, minacciando senza fine il nostro paese e il nostro popolo. Alcuni politici occidentali irresponsabili stanno facendo molto di più che parlare dei loro piani per organizzare la consegna di armi offensive a lungo raggio all’Ucraina, che potrebbero essere utilizzate per sferrare attacchi in Crimea e in altre regioni russe.

Tali attacchi terroristici, anche con l’uso di armi occidentali, vengono sferrati nelle aree di confine delle regioni di Belgorod e Kursk. La NATO sta conducendo ricognizioni attraverso le regioni meridionali della Russia in tempo reale e con l’uso di sistemi moderni, aerei, navi, satelliti e droni strategici.

Washington, Londra e Bruxelles incoraggiano apertamente Kiev a spostare le ostilità sul nostro territorio. Dicono apertamente che la Russia deve essere sconfitta sul campo di battaglia con ogni mezzo, e successivamente privata della sovranità politica, economica, culturale e di qualsiasi altra cosa e saccheggiata.

Sono persino ricorsi al ricatto nucleare. Mi riferisco non solo al bombardamento, incoraggiato dall’Occidente, della centrale nucleare di Zaporozhye, che minaccia un disastro nucleare, ma anche alle dichiarazioni di alcuni alti rappresentanti dei principali paesi della NATO sulla possibilità e sull’ammissibilità di usando armi di distruzione di massa – armi nucleari – contro la Russia.

Vorrei ricordare a coloro che fanno tali affermazioni sulla Russia che anche il nostro paese ha diversi tipi di armi, e alcune di esse sono più moderne delle armi che hanno i paesi della NATO. In caso di minaccia all’integrità territoriale del nostro paese e per difendere la Russia e il nostro popolo, faremo sicuramente uso di tutti i sistemi d’arma a nostra disposizione. Questo non è un bluff.

I cittadini della Russia possono stare certi che l’integrità territoriale della nostra Patria, la nostra indipendenza e libertà saranno difese – lo ripeto – da tutti i sistemi a nostra disposizione. Coloro che stanno usando il ricatto nucleare contro di noi dovrebbero sapere che la rosa dei venti può tornare indietro.

È nostra tradizione storica e destino della nostra nazione fermare coloro che amano il dominio globale e minacciano di dividersi e rendere schiava la nostra Patria. Stai certo che lo faremo anche questa volta.

Credo nel tuo sostegno.

 

Come la mobilitazione annunciata da Putin riapre uno spiraglio per il negoziato, di Francesco Russo

Per Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, il Cremlino desidera congelare il conflitto, accontentandosi dei territori occupati finora e mostrando la sua determinazione a difenderli con ogni mezzo: “Putin vuole alzare la posta, non allargare il conflitto, ma il rischio di un’escalation c’è”

AGI – La mobilitazione parziale annunciata dal presidente russo Vladimir Putin può essere sicuramente il preludio di un’escalation ma offre anche la possibilità, se non di una tregua, di un congelamento del conflitto, purché Kiev si accontenti della riconquista dell’Oblast di Kharkiv e sia disposta a cedere a Mosca i territori persi finora nelle quattro regioni dove si svolgeranno i referendum per l’unificazione con la Russia. È la lettura offerta dal direttore di Analisi DifesaGianandrea Gaiani, in un’intervista all’Agi.

In che modo l’annuncio di una mobilitazione parziale dei riservisti russi, in seguito alla convocazione di referendum nelle quattro regioni ucraine occupate, segna un cambio di marcia del conflitto?

“Credo che il cambiamento sia a livello politico e strategico. Il riconoscimento da parte della Russia delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, il giorno prima dell’inizio dell’operazione in Ucraina, aveva rappresentato il riconoscimento di entità politico-territoriali di una parte dell’Ucraina abitata per lo più da popolazioni russofone e in certi casi russofile, considerando che due milioni di civili del Donbass sono fuggiti in Russia.
Finora si era parlato di referendum solo per le regioni di Kherson e Zaporizhzhia. Allargare le consultazioni ad aree già in mano ai filorussi dal 2014 significa lanciare un messaggio politico e alzare il livello dell’escalation sul piano politico e militare. Mosca conferma che fa sul serio e, se prima pensavamo volesse creare una zona cuscinetto che separasse la Nato dal territorio russo, ora fa sapere che ritiene quei territori Russia. Se i referendum avranno esito positivo, e certamente lo avranno perché la popolazione filo-Kiev è fuggita da quelle zone, sul piano militare la risposta a qualunque attacco rientrerebbe nella dottrina della difesa nazionale che, in tutti i Paesi del mondo, prevede qualunque tipo di risposta con qualunque tipo di arma di distruzione, non necessariamente nucleare. Penso ad esempio a bombardamenti dei siti nei Paesi Nato dove vengono stoccate le armi da consegnare all’Ucraina.
Ad ogni modo, l’obiettivo di Putin non è allargare il conflitto ma alzare la posta per la Nato e l’Occidente. L’iniziativa russa ha lo scopo di congelare il conflitto e, soprattutto, di lanciare un monito: ‘Noi siamo disposti a difendere queste aree in quanto territorio russo, voi siete disposti a fare la guerra alla Russia?’. È un monito rivolto a tutti i Paesi Nato, in particolare a quelli europei, che in questa guerra stanno perdendo tutto”.

In concreto, la mobilitazione come potrà mutare la situazione sul campo?

“I limiti dei russi stanno nell’aver impegnato solo parte delle loro forze armate e di aver combattuto in inferiorità numerica, il che è molto difficile in una situazione offensiva. Richiamare i riservisti potrebbe compensare il deficit nei numeri, una volta trascorso il paio di mesi necessario per l’addestramento e l’aggiornamento. Il fatto che i russi mobilitino così tante forze, pur con l’obiettivo di consolidare quanto conquistato, non esclude che i russi lancino azioni offensive per completare il controllo delle regioni occupate fino ai loro confini amministrativi”.

Quali sono gli scenari possibili? Cosa attendersi dall’inverno?

“Gli scenari sono tre: una guerra di attrito prolungata, un’escalation che potrebbe coinvolgere l’Occidente o un congelamento del fronte che apre uno spiraglio per avviare le trattative, fronte sul quale è molto attiva la Turchia. Se poi la guerra si allargasse, Kharkiv e Odessa potrebbero tornare nel mirino”.

Putin ha evocato nuovamente le armi nucleari…

“Putin ha ribadito di avere questa forma di deterrenza e ha chiarito la sua determinazione nel difendere i territori presi. Se il Donbass sarà completamente russificato, viene ricordato che chi attaccherà quel territorio attaccherà il territorio russo, esponendosi a una risposta che non esclude nessun tipo di arma. Ma nessuna potenza nucleare esclude l’utilizzo di armi atomiche, perché servono come deterrenza. Anche gli Stati Uniti non lo hanno mai escluso nella crisi con la Corea del Nord”.

L’intelligence militare britannica ha suggerito che l’urgenza con cui sono stati convocati i referendum tradisca il timore di una nuova offensiva ucraina. C’è però chi sostiene che Kiev al momento non abbia la possibilità materiale di sferrare un contrattacco paragonabile a quello che ha consentito la riconquista di parte della regione di Kharkiv, che sarebbe costata notevoli perdite umane…

“In realtà è costato molte più perdite il tentato contrattacco a Kherson e su certi aspetti dell’offensiva a Kharkiv ho posto degli interrogativi. Mi ha lasciato perplesso che i russi avessero lasciato in quella regione solo due battaglioni della Rosguardia, non si fossero accorti della concentrazione di sette brigate ucraine e, invece di chiudere il tappo, si fossero ritirati lasciando sul campo molti mezzi.
Non ne discutiamo mai ma dovremmo tenere conto del fatto che russi e americani non hanno mai smesso di parlarsi e che i tentativi di trovare un’intesa non sono mai finiti. I russi sono pronti a discutere su una base negoziale che consenta loro di tenersi parte dei territori che hanno già occupato; gli ucraini forse no. L’escalation di oggi serve ad alzare la posta e stabilire i i paletti sui quali poter avviare una trattativa. Il Cremlino ha segnato una linea: il messaggio è che non c’è l’intenzione di continuare a conquistare territorio ucraino ma quella di rafforzare le aree conquistate finora, dalle quale i russi non intendono spostarsi. Vedremo entro una settimana se su questo punto c’è la possibilità che l’Europa induca l’Ucraina ad accettare un negoziato”.

In sostanza, ritieni che il ritiro da Kharkiv possa essere stato una scelta precisa che ha l’obiettivo di porre le basi per trattare?

“I russi non hanno provato nemmeno a tappare la falla. Non sappiamo se sia stata una scelta precisa o sia stato dovuto a carenza di mezzi. Il risultato è che i russi hanno perso un terreno pari a due volte la Val d’Aosta ma hanno accorciato le loro linee di difesa. Si sono ritirati anche da posizioni difendibili, nell’area al confine settentrionale dove avevano linee di rifornimento garantite da Belgorod, in territorio russo. Non escluderei che il ritiro abbia potuto rispondere all’esigenza di creare condizioni favorevoli all’apertura di un negoziato, consentendo a Zelensky di vantare un successo militare mai visto finora e sedersi al tavolo del negoziato da una posizione più vantaggiosa”.

Da Podolyak a Kuleba, gli alti funzionari ucraini hanno chiarito che intendono perseverare nei tentativi di liberare le aree occupate ma ciò non può avvenire senza nuovi, massicci rifornimenti di armi occidentali. per quanto tempo l’Occidente potrà continuare a sostenere Kiev? La Germania ha già dichiarato da tempo di aver terminato le riserve…

“L’Ucraina ha fame di mezzi, munizioni e armamenti per sostenere le sue offensive. E mantenere la pressione sui russi ha un significato politico per Zelensky, che è stato molto criticato in patria per le fortissime perdite subite. Gli eserciti occidentali non hanno però quasi più nulla da dare perché, se questa guerra continua, c’è il rischio di un loro coinvolgimento. È una questione di numeri: le forze corazzate delle principali potenze europee hanno un’entità ridicola. L’Italia ha forse 200 carri armati di cui un terzo operativo, la Francia e la Germania ne hanno 250 e non tutti operativi. Nessun esercito occidentale avrebbe la possibilità di reggere un conflitto del genere per più di qualche settimana”.

Oggi Shoigu ha affermato che gli ucraini hanno esaurito le loro scorte di armamenti sovietici. È plausibile?

“Gli ucraini hanno perduto il loro arsenale originale: mezzi pesanti, artiglieria e corazzati ex sovietici che l’Ucraina produceva pure ma adesso la sua industria bellica è stata devastata dalla guerra, perché i russi hanno colpito tutti gli stabilimenti. Ora stanno esaurendo anche le riserve di mezzi forniti dai Paesi Nato e sono mesi che continuano a chiedere più armi. Kiev sta premendo sugli Usa per ottenere armi a lungo raggio che potrebbero arrivare a colpire in profondità. Il messaggio di Putin ha quindi anche lo scopo di scoraggiare la fornitura di questo tipo di armi e incoraggiare il negoziato. Oggi Putin e Shoigu hanno alzato l’asticella. Ciò solleva la preoccupazione per un’escalation ma offre anche l’opportunità di una mediazione”.

L’Ucraina afferma però che i referendum cancellano ogni possibilita di soluzione diplomatica…

“Ci sono elementi di questa crisi che non vengono resi pubblici e che si cerca di offuscare con la propaganda da entrambe le parti. Basti pensare che l’Ucraina non ha tirato nemmeno una sassata contro il gasdotto. Tutte queste ambiguità suggeriscono che ci siano già trattative sotto banco. E lo slittamento della messa in onda del discorso di Putin significa che stanotte ci sono stati alcuni confronti con alcuni interlocutori per definire possibili scenari”.

CI sono quindi le condizioni per un accordo?

“Dipenderà dalla volontà degli europei di svolgere finalmente un ruolo da protagonisti in una guerra che minaccia la nostra sicurezza. Finora l’Europa è mancata come soggetto geopolitico e si è limitata a seguire la Nato e gli angloamericani. Quanto sta succedendo dovrebbe essere valutato anche alla luce degli interessi dell’Europa. Ci sono valutazioni di organizzazioni non certo filorusse che paventano che l’obiettivo vero della guerra sia la distruzione del primato dell’Europa come potenza economico-industriale. La Russia ne uscirà logorata ma l’Europa in primavera rischia una devastazione economico-industriale senza precedenti. Se questa è la realtà, dobbiamo venire a patti con la Russia o cessare di essere una potenza economica e industriale. E domandarci chi ci guadagnerà”.

@cicciorusso_agi

https://www.agi.it/estero/news/2022-09-21/ucraina-russia-discorso-putin-mobilitazione-18159479/

Da “operazione militare speciale” a guerra aperta, di Gilbert Doctorow

Da ‘operazione militare speciale’ a guerra aperta: significato dei referendum in Donbas, Kherson e Zaporozie

Il discorso televisivo di ieri mattina di Vladimir Putin e il successivo commento del suo ministro della Difesa Shoigu che annuncia la parziale mobilitazione delle riserve dell’esercito russo per aggiungere un totale di 300.000 uomini alla campagna militare in Ucraina sono stati ampiamente riportati dalla stampa occidentale. La stampa occidentale ha riportato anche i piani per indire referendum sull’adesione alla Federazione Russa nelle repubbliche del Donbas questo fine settimana e anche nelle oblast di Kherson e Zaporozie in un futuro molto prossimo. Tuttavia, come accade molto comunemente, l’interrelazione di questi due sviluppi non è stata vista o, se osservata, non è stata condivisa con il grande pubblico. Poiché proprio questa interrelazione è stata messa in evidenza nei talk show della televisione di stato russa negli ultimi due giorni,

L’idea stessa di referendum nel Donbas è stata ridicolizzata dai media mainstream negli Stati Uniti e in Europa. Vengono denunciati come ‘finzione’ e ci viene detto che i risultati non verranno riconosciuti. Al Cremlino, infatti, non interessa affatto se i risultati siano riconosciuti validi in Occidente. La loro logica è altrove. Per quanto riguarda il pubblico russo, l’unica osservazione critica sui referendum è stata sulla tempistica, con anche alcuni patrioti che hanno affermato apertamente che è troppo presto per votare dato che la Repubblica popolare di Donetsk, le oblast di Zaporozie e Kherson non hanno ancora stato completamente “liberato”. Anche qui la logica di queste votazioni sta altrove.

È una conclusione scontata che le repubbliche del Donbas e altri territori dell’Ucraina ora sotto l’occupazione russa voteranno per entrare a far parte della Federazione Russa. Nel caso di Donetsk e Lugansk, è stato solo sotto la pressione di Mosca che i loro referendum del 2014 riguardavano la dichiarazione di sovranità e non l’adesione alla Russia. Tale annessione o fusione non fu accolta allora dal Cremlino perché la Russia non era pronta ad affrontare il previsto massiccio attacco economico, politico e militare da parte dell’Occidente che sarebbe seguito. Oggi Mosca è più che pronta: infatti è sopravvissuta egregiamente a tutte le sanzioni economiche imposte dall’Occidente anche prima del 24 febbraio e alla fornitura sempre crescente all’Ucraina di materiale militare e ‘consiglieri’ dei paesi NATO.

Il voto sull’adesione alla Russia raggiungerà probabilmente il 90% o più a favore. E’ perfettamente chiaro anche ciò che seguirà immediatamente da parte russa: entro poche ore dalla dichiarazione dei risultati del referendum, la Duma di Stato russa approverà un disegno di legge sulla “riunificazione” di questi territori con la Russia e nel giro di un giorno sarà approvato dalla camera alta del parlamento e subito dopo il disegno di legge sarà firmato in legge dal presidente Putin.

Guardando oltre il suo servizio come agente dell’intelligence del KGB, che è tutto ciò di cui gli “specialisti russi” occidentali parlano all’infinito nei loro articoli e libri, ricordiamo anche la laurea in giurisprudenza di Vladimir Putin. In qualità di Presidente, è rimasto sistematicamente all’interno del diritto interno e internazionale. Lo farà ora. A differenza del suo predecessore, Boris Eltsin, Vladimir Putin non ha governato per decreto presidenziale; ha governato con leggi promulgate da un parlamento bicamerale costituito da più partiti. Ha deliberato in armonia con il diritto internazionale promulgato dalle Nazioni Unite. La legge delle Nazioni Unite parla della santità dell’integrità territoriale degli Stati membri; ma la legge dell’ONU parla anche della santità dell’autodeterminazione dei popoli.

Cosa deriva dalla fusione formale di questi territori con la Russia? Anche questo è perfettamente chiaro. In quanto parti integranti della Russia, qualsiasi attacco contro di loro, e sicuramente ci saranno tali attacchi provenienti dalle forze armate ucraine, è un casus belli. Ma ancor prima, i referendum sono stati preceduti dall’annuncio di mobilitazione, che indica direttamente ciò che la Russia farà ulteriormente se gli sviluppi sul campo di battaglia lo richiederanno. Le fasi progressive di mobilitazione saranno giustificate dall’opinione pubblica russa come necessarie per difendere i confini della Federazione Russa dagli attacchi della NATO.

La fusione dei territori ucraini occupati dalla Russia con la Federazione Russa segnerà la fine dell'”operazione militare speciale”. Un SMO non è qualcosa che conduci sul tuo territorio, come relatori alla serata con Vladimir Solovyovtalk show ha commentato un paio di giorni fa. Segna l’inizio di una guerra aperta contro l’Ucraina con l’obiettivo della capitolazione incondizionata del nemico. Ciò comporterà probabilmente la rimozione della leadership civile e militare e, molto probabilmente, lo smembramento dell’Ucraina. Dopotutto, il Cremlino ha avvertito più di un anno fa che il corso dettato dagli Stati Uniti per l’adesione alla NATO per l’Ucraina comporterà la sua perdita della statualità. Tuttavia, questi obiettivi particolari non sono stati finora dichiarati; la SMO riguardava la difesa del Donbas contro il genocidio e la de-nazificazione dell’Ucraina, un concetto di per sé piuttosto vago.

L’aggiunta di altri 300.000 uomini in armi alle forze dispiegate dalla Russia in Ucraina rappresenta un quasi raddoppio e sicuramente affronterà la carenza di numeri di fanteria che ha limitato la capacità della Russia di “conquistare” l’Ucraina. È stata proprio la mancanza di stivali a terra a spiegare il doloroso e imbarazzante ritiro della Russia dalla regione di Kharkov nelle ultime due settimane. Non hanno potuto resistere alla massiccia concentrazione di forze ucraine contro la loro stessa presa scarsamente sorvegliata sulla regione. Il valore strategico della vittoria ucraina è discutibile, ma ha notevolmente migliorato il loro morale, che è un fattore importante nell’esito di qualsiasi guerra. Il Cremlino non poteva ignorarlo.

Alla conferenza stampa a Samarcanda la scorsa settimana dopo la fine del raduno annuale dei capi di stato dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, a Vladimir Putin è stato chiesto perché ha mostrato così tanta moderazione di fronte alla controffensiva ucraina. Ha risposto che gli attacchi russi agli impianti di generazione di elettricità ucraini che hanno seguito la perdita del territorio di Kharkov erano solo “campi di avvertimento” e ci sarebbero state azioni molto più “di impatto” in arrivo. Di conseguenza, mentre la Russia passa dalla SMO alla guerra aperta, possiamo aspettarci una massiccia distruzione delle infrastrutture civili e militari ucraine per bloccare completamente tutti i movimenti di armi fornite dall’Occidente dai punti di consegna nella regione di Lvov e altri confini al fronte. Alla fine potremmo aspettarci bombardamenti e distruzione dei centri decisionali dell’Ucraina a Kiev.

Per quanto riguarda un ulteriore intervento occidentale, i media occidentali hanno raccolto la minaccia nucleare appena velata del presidente Putin ai potenziali cobelligeranti. La Russia ha dichiarato esplicitamente che qualsiasi aggressione contro la propria sicurezza e integrità territoriale, come quella sollevata dai generali in pensione negli Stati Uniti che hanno parlato alla televisione nazionale nelle ultime settimane dello scioglimento della Russia, sarà accolta da una risposta nucleare. Quando la minaccia nucleare russa è diretta a Washington, come è ora il caso, piuttosto che a Kiev oa Bruxelles, supposizione fino ad ora, è improbabile che i responsabili politici a Capitol Hill rimarranno a lungo sprezzanti riguardo alle capacità militari russe e perseguiranno un’ulteriore escalation.

Alla luce di tutti questi sviluppi, sono costretto a rivedere il mio apprezzamento per quanto è emerso alla riunione dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. I media occidentali hanno concentrato tutta l’attenzione su un solo problema: il presunto attrito tra la Russia ei suoi principali amici mondiali, India e Cina, sulla guerra in Ucraina. Mi è sembrato grossolanamente esagerato. Ora sembra essere una totale sciocchezza. È inconcepibile che Putin non abbia discusso con Xi e Modi di cosa sta per fare in Ucraina. Se la Russia ora fornisce al suo sforzo bellico una parte molto maggiore del suo potenziale militare, allora è del tutto ragionevole aspettarsi che la guerra finisca con la vittoria russa entro il 31 dicembre di quest’anno, poiché il Cremlino sembra aver promesso ai suoi fedeli sostenitori. 

Guardando oltre la possibile perdita della statualità dell’Ucraina, una vittoria russa significherà più di un naso sanguinante simile all’Afghanistan per Washington. Esporrà il basso valore dell’ombrello militare statunitense per gli Stati membri dell’UE e porterà necessariamente a una rivalutazione dell’architettura di sicurezza europea, che è ciò che i russi chiedevano prima che la loro incursione in Ucraina fosse lanciata a febbraio.

https://gilbertdoctorow.com/2022/09/22/from-special-military-operation-to-open-war/

L’esercito vuole raddoppiare o triplicare la produzione di armi mentre la guerra in Ucraina continua, di CAITLIN M. KENNEY

Una capacità da non sottovalutare, almeno sino a quando resisterà l’attuale sistema monetario, l’attuale presa sul mondo e l’attuale ordine politico interno. Giuseppe Germinario

GMLRS, HIMARS e colpi di artiglieria sono in cima alla lista.

I leader dell’esercito stanno lavorando per aumentare notevolmente la produzione di munizioni e attrezzature critiche prosciugate dagli arsenali di servizio per aiutare l’Ucraina negli ultimi mesi.

Con il supporto del Congresso, stanno lavorando per triplicare la produzione interna dei proiettili da 155 mm e almeno raddoppiare la produzione di sistemi di lancio di missili guidati a lancio multiplo e sistemi di lancio di missili di artiglieria ad alta mobilità nei prossimi anni, ha affermato Doug Bush, capo dell’acquisizione dell’esercito.

“Tutto ciò che è in corso e sarà fondamentale per sostenere l’Ucraina e il suo conflitto, ma anche per rifornirci e prepararci a sostenere i nostri alleati”, ha detto Bush ai giornalisti mercoledì.

Gli ucraini hanno combattuto l’invasione russa del loro paese per sei mesi e la loro controffensiva di successo nel nord-est ha recentemente visto analisti in Europa chiedere maggiore sostegno attraverso armi e aiuti. L’esercito ha risposto alla richiesta di armi, ha detto Bush, e si sta preparando a sostenere lo sforzo bellico in futuro.

“Non so quanto durerà il conflitto”, ha detto. “Stiamo facendo delle cose per assicurarci che, se va avanti a lungo, saremo in un posto per supportarlo sulla base delle migliori informazioni che abbiamo. La guerra come impresa incerta”.

Bush ha detto che di solito ci vogliono da diversi mesi a un anno per aumentare la produzione di qualcosa come un HIMARS da un tasso di cinque al mese a otto, motivo per cui i leader dell’esercito stanno lavorando a stretto contatto con gli appaltatori della difesa. Tuttavia, una maggiore produzione significa anche altri problemi da superare.

“A volte ci sono limitazioni, limitazioni fisiche, in cui puoi riempire una fabbrica, portarla a un tasso di produzione e poi se vuoi andare più in alto stai costruendo un’altra fabbrica, o stai trovando un’altra azienda per fare la stessa cosa da qualche altra parte, che non è nemmeno dall’oggi al domani”, ha detto. “Quindi direi che questi obiettivi sono più nell’alto numero di mesi o un anno per cercare di ottenere pienamente manifestati questi tassi di produzione aumentati”.

All’8 settembre, gli Stati Uniti hanno inviato 807.000 proiettili da 155 mm in Ucraina. Un anonimo funzionario della difesa ha dichiarato al Wall Street Journal il mese scorso che le azioni statunitensi sono ora “sgradevolmente basse”.

Bush ha respinto la caratterizzazione dei titoli da parte del funzionario, dicendo che solo i leader dell’esercito dovrebbero esprimere quei giudizi. Ha aggiunto che il servizio sta ancora producendo e accumulando scorte sufficienti per il normale addestramento e le missioni.

Bush ha detto che il rifornimento dei colpi sta ricevendo “la più grande attenzione in questo momento”.

I proiettili da 155 mm sono “la cosa su cui stiamo dedicando più sforzi e [su cui] abbiamo ricevuto un enorme sostegno dal Congresso, a causa dei tempi di consegna e della necessità di aumentare drasticamente quei tassi di produzione”, ha affermato.

Altre priorità principali sono GMLRS, missili anticarro Javelin e missili Stinger, quest’ultimo dei quali secondo Bush è “ben sotto controllo ora”.

Gli Stati Uniti hanno inviato “migliaia” di round GMLRS in Ucraina, ha affermato la scorsa settimana il generale Mark Milley, presidente del Joint Chiefs of Staff .

Ha anche inviato più di 8.500 giavellotti. Da allora il Congresso ha fornito ai militari oltre 1 miliardo di dollari per sostituire i missili. Martedì, l’esercito ha ordinato più di 1.800 giavellotti da consegnare entro il 30 novembre 2026, nell’ambito di un contratto da 311 milioni di dollari a Raytheon e Javelin Joint Venture di Lockheed Martin. Più di 1.800 di questi riforniranno le scorte statunitensi, ma il contratto copre anche un numero imprecisato di sistemi Javelin e supporto alla produzione per l’esercito americano e clienti internazionali Lituania e Giordania.

Bush ha affermato che il loro obiettivo è quello di obbligare tutti i soldi per la produzione di Javelin entro la fine dell’anno fiscale 2023.

Il Pentagono sta lavorando con i paesi alleati anche per produrre più di queste munizioni e incoraggiarli a donare all’Ucraina per alleviare parte della pressione sugli Stati Uniti, ha affermato Bush.

https://www.defenseone.com/policy/2022/09/army-wants-double-or-triple-some-arms-production-ukraine-war-continues/377225/

Condividere i segreti è stato “efficace” contro la Russia, ma la tattica ha dei limiti, afferma il capo della CIA

È solo una delle nuove aree per un’agenzia di spionaggio alle prese con cambiamenti tecnologici.

La declassificazione dell’intelligence per disinnescare le narrazioni russe ha “svolto un ruolo molto efficace” nella guerra durata mesi in Ucraina, secondo il capo della Central Intelligence Agency, in particolare quando fa parte di una strategia più ampia. Ma la sua utilità ha dei limiti quando si tratta di intelligence sulle minacce informatiche.

“Le decisioni di declassificare l’intelligence sono sempre molto complicate, ma penso che quando il presidente [Joe] Biden ha deciso con molta attenzione e in modo molto selettivo di rendere pubblici alcuni dei nostri segreti, ha giocato un ruolo molto efficace nel corso degli ultimi sei mesi , e penso che possa continuare a farlo, ancora una volta, se ne facciamo l’eccezione, non la regola”, ha detto giovedì William Burns, direttore della CIA durante un keynote al Billington Cybersecurity Summit.

Burns ha affermato che la gestione sconsiderata delle informazioni era il “modo più sicuro” per perdere l’accesso a una buona intelligence, ma rispetto all’invasione russa dell’Ucraina, ha aiutato a contrastare le false narrazioni fuori dal Cremlino.

“Penso che sia stato un mezzo molto importante per negare a Vladimir Putin qualcosa che l’ho visto usare troppo spesso in passato, ovvero creare false narrazioni, cercare di incolpare gli ucraini, creare false provocazioni in vista della guerra ”, ha detto Burns.

“E penso che quello che siamo stati in grado di fare lavorando con i nostri alleati e partner sia esporre il fatto che anche la guerra di Putin è un’aggressione nuda e non provocata e penso che quella giocata, quella declassificazione molto selettiva e molto attenta, abbia giocato un ruolo perfetto .”

Ma la declassificazione dell’intelligence potrebbe non funzionare per tutti gli scenari, in particolare quando si tratta di declassificare l’intelligence sulle minacce informatiche, sottolineando che la declassificazione deve essere eseguita “con attenzione”.

“Penso che dovremo stare attenti ad altri casi, che si tratti di minacce informatiche o di altri tipi di sfide che gli Stati Uniti e i nostri alleati dovranno affrontare in futuro”, ha affermato Burns.

Adattarsi al mondo digitale

La CIA sta anche facendo i conti con i rapidi cambiamenti nella tecnologia e come potrebbero costringere l’agenzia a cambiare il suo approccio alla raccolta di informazioni umane.

“Certamente, la rivoluzione tecnologica nell’era della sorveglianza tecnica onnipresente e delle città intelligenti, ha trasformato il modo in cui i nostri funzionari conducono il nostro mestiere e lavorano all’estero”, ha affermato Burns.

Ha affermato che gli avversari ora possono utilizzare l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico per estrarre anni di dati passati e “riconoscere i modelli nelle nostre attività che rendono molto più complicato condurre il nostro mestiere e la nostra professione e l’intelligenza umana in particolare, nel modo in cui eravamo abituato a farlo da anni e anni prima”.

Nel tentativo di adattarsi , l’agenzia ha creato un centro di missione per contrastare la Cina e un altro, il Transnational and Technology Mission Center, che mira a comprendere meglio “modelli e innovazione” nelle tecnologie commerciali.

“Abbiamo un contributo da dare in concorrenza con la Cina e con altri rivali, e cercando di aiutare i responsabili politici a capire qual è il modo migliore per sostenere le vulnerabilità nella nostra catena di approvvigionamento. Come possiamo competere con successo nelle sfere critiche, come tutti voi sapete benissimo, dai semiconduttori all’informatica quantistica fino alla biologia sintetica. Quindi stiamo investendo molta energia e risorse in questi sforzi”, ha affermato Burns.

Ha affermato che circa un terzo degli ufficiali della CIA lavora su questioni relative alla tecnologia, dalla sicurezza informatica all’innovazione digitale.

Ad aprile, la CIA ha assunto il suo primo chief technology officer: Nand Mulchandani, che in precedenza guidava il centro di intelligenza artificiale del Pentagono. Mulchandani è incaricato di produrre la strategia tecnologica decennale dell’agenzia e di promuovere i collegamenti tra l’agenzia, il mondo accademico e il settore commerciale e pubblico.

Burns ha affermato che è importante che la CIA disponga di una strategia tecnologica che “attinga tutto il talento e tutte le risorse che abbiamo”, in particolare nelle catene di approvvigionamento dei semiconduttori.

“Il primo incarico di Mulchandani è di lavorare, ancora, con tutti i nostri colleghi della CIA per produrre per la prima volta una seria strategia tecnologica a livello di agenzia che guardi a lungo termine, quindi penso che ci siano molte opportunità qui”, Burns ha detto.

https://www.defenseone.com/policy/2022/09/sharing-secrets-has-been-effective-against-russia-tactic-has-limits-cia-chief-says/376882/

Mario Draghi, la parabola di un funzionario diligente e imperterrito_di Giuseppe Germinario

Per la prima volta mi è capitato di vedere Mario Draghi sorridente e rilassato.

L’eterno ghigno obliquo che segna il suo viso nei momenti solenni e in quelli più informali quasi del tutto raddrizzato; il viso pacioso e morbido; il passo non più lievemente strascicato, ma sciolto, persino nell’atto di scendere l’impervia scaletta di un aereo; l’abbigliamento composto ma informale, illuminato di bianco.

L’espressione del classico atteggiamento e senso di sicurezza di chi si sente finalmente a casa propria, protetto dalle mura domestiche e da un ambiente familiare da poter calpestare ad occhi chiusi.

Un’alea simile l’aveva mostrata al momento di offrire le proprie dimissioni irrevocabili al Senato. Non era, però, esattamente la stessa. Allora la giovialità era accompagnata da un senso di sollievo. L’altro giorno no; era serenità paciosa ed assoluta.

Mario Draghi non era giunto, però, nel suo rifugio in Umbria; era arrivato a New York con il sovrappiù, per giunta, dei fusi orari.

Con ogni evidenza era giunto in effetti a casa sua, nella sua vera casa.

Non poteva arrivarci come padrone di casa; per meglio dire come uno dei padroni di casa.

I quotidiani italici avrebbero voluto con tutto il cuore presentarlo così; nemmeno loro, però, cosi proni e adulanti, ci sono pienamente riusciti. Hanno sottolineato con enfasi le laudi e i riconoscimenti offerti solennemente e stucchevolmente da potenti lucidi, ma decisamente attempati; hanno enfatizzato il sostegno scontato e bonario, si direbbe paterno, di una amministrazione e di un Presidente, Biden, decadenti e decomposti; hanno precisato però con sufficienza la difficoltà di ottenere un formale incontro bilaterale, richiesto con cauta insistenza, che sancisca la solennità del riconoscimento alla persona; hanno persino premurosamente glissato sull’accoglienza piuttosto freddina ed indifferente all’assemblea dell’ONU riservata al nostro SuperMario, consistita in un malinconico deserto di sedie vuote. A confronto, l’accoglienza riservata al Presidente della Mongolia, paese incuneato tra Russia e Cina, ma sgomitante, è sembrata una apoteosi.

Una accoglienza solitamente riservata, quindi, quella a Mario Draghi, con fare benevolo e paterno, ma senza inutile spreco di energie e pathos, ai servitori utili, ma non indispensabili, ormai sulla via del tramonto.

Eppure a Mario Draghi quel tiepido calore, quella ospitalità nelle stanze di servizio sono bastati a infondergli serenità gioviale. Buon per lui e per il suo equilibrio psicologico; rammentando, però, che anche le oche giulive raggiungono così il loro equilibrio, a scapito però della considerazione che nel tempo i contemporanei ed i posteri avranno maturato nei loro confronti. Il fìo da pagare anche sull’offuscamento della sua aura efficientista, costruita i tre decenni, sarà salato, ma con ogni evidenza anch’esso sopportabile.

Il raffronto dei due discorsi all’assemblea generale dell’ONU tenuti dai due leader, rispettivamente Joe Biden e Mario Draghi, è impietoso e non fa che confermare la reale postura e statura del nostro.

Zio Joe, pur con tutte le nebbie che ormai da tempo attraversano il suo cervello, ha seguito a suo modo nella sua prolusione un filo arguto e proattivo, da vero decisore politico.

Ha cercato di insinuarsi nelle reali contraddizioni delle politiche estere di Russia e Cina, in particolare nella natura dei loro impegni economici, offrendo comunque ad una il ruolo di paria e all’altra di interlocutore ostile; ha cercato di incrinare con argomenti il sodalizio crescente tra i due paesi e di proporsi come paladino ed artefice della emancipazione dei restanti paesi nel mondo. Bontà sua, senza costrizioni e per libera scelta degli stessi e in competizione bonaria con gli altri giganti emergenti, quasi a riconoscere finalmente ed implicitamente il carattere multipolare della competizione geopolitica; si è erto a paladino del diritto internazionale e della sovranità intangibile degli stati nonché delle condizioni di vita e di lavoro.

Per rendere minimamente credibile le sue tesi, si è presentato come l’artefice di una svolta radicale rispetto alle politiche dei precedenti presidenti americani.

L’asino ha cominciato a cascare nel momento in cui Joe Biden è entrato nel merito.

Quando ha riproposto le politiche agricole e le tecnologie delle multinazionali agroalimentari, utili all’agricoltura intensiva necessaria a sollevare il mondo dalla fame, come pure al controllo e alla servitù delle masse contadine; quando ha “offerto” le proprie tecnologie e i propri parametri nell’affrontare il cambiamento climatico; quando si è offerto a garante della libertà di circolazione sui mari.

Buone intenzioni, condite con numerose bugie ed omissioni, che soffrono del retaggio del passato e del ritardo rispetto all’attivismo di Cina, Russia ed ormai anche India; fini reconditi che riaffiorano inesorabilmente grazie al disincanto e alla memoria degli oggetti di attenzione.

SuperMario è apparso al contrario nella veste di un ventriloquo dalla voce atona col cipiglio di un leone tramortito da ore di abbiocco sotto il sole cocente della savana. Non ha fatto altro che riproporre pedissequamente con piaggeria indirizzi e motivazioni della Casa Madre, in particolare sul conflitto ucraino, sorvolando con indifferenza sulle implicazioni disastrose di tali scelte per il paese che governa e per il continente che lo ospita.

Mario Draghi è stato invocato ed acclamato a capo di governo in quanto tecnocrate capace e competente ed uomo influente e di successo in grado di trascinare l’Italia in una postura e ruolo da protagonista.

Ha in effetti confermato la sua capacità e la sua influenza in un particolare ambito, la sua pochezza nell’altro.

In qualità di plenipotenziario, per meglio dire di luogotenente, ha contribuito a trascinare una popolazione inconsapevole delle implicazioni suicide ed una classe dirigente priva di ogni respiro strategico autonomo al carro delle scelte geopolitiche di una fazione dell’establishment statunitense; ha vigilato coscienziosamente sulle possibili intemperanze e riottosità degli alleati europei nei confronti delle scelte americane; con il PNRR e il suo corollario di leggi e norme ha contribuito attivamente a stringere ulteriormente al collo del paese il cappio dei vincoli e delle limitazioni in grado di pregiudicare per lunghi anni ogni possibilità di crescita e sviluppo autonomo e solido.

Su questo può vantare un più che discreto successo personale.

Come Capo del Governo ha operato nella pressoché completa vacuità e continuità, perfettamente in linea con i governi che lo hanno preceduto in questi trenta anni. Una vacuità la cui percezione delle tragiche conseguenze aleggia ormai con inquietudine nei corridoi e nelle strade, ma che diventerà evidente solo quando il nostro starà veleggiando in lidi più sicuri che tempestivamente sta individuando.

Con la eccezione della campagna vaccinale, efficace nelle modalità, molto meno nella risoluzione dei problemi, ha gestito in perfetta continuità l’emergenza pandemica, ingarbugliando un problema oggettivo in un groviglio di provvedimenti estemporanei, contraddittori e draconiani più confacenti ad una strumentalizzazione politica e ad una logica totalitaria di controllo che ad una gestione flessibile e ferrea, ma risolutiva o almeno contenutiva della crisi pandemica. Il risultato più evidente è stata la parziale defenestrazione della quota dalemiana di tecnici a corte con una dalle capacità simil dubbie.

Sul PNRR la strada è appena tracciata; una volta però esaurito l’effetto elementare del moltiplicatore keinesiano legato alla messa in opera degli investimenti, sempre che siano conclusi, emergerà la marginalità del moltiplicatore legato alla fase operativa delle strutture attuate. Del PNRR e più in generale dei Fondi Strutturali Europei ci siamo occupati in tre articoli di diversi mesi fa, confortati dal giudizio di una discreta letteratura europea cui risulta estranea il nostro paese. Non serve, quindi, dilungarsi più di tanto. Il dato politico ricalcherà le dinamiche e gli esiti del passato in assenza di una mole analoga di risorse nazionali, svincolate dalle normative europee e legate al perseguimento dell’interesse nazionale volto alla creazione e controllo di una capacità industriale strategica autonoma. Il recente decreto sui poteri speciali non deve ingannare. E’ rivolto a fronteggiare le mire e le collaborazioni con i paesi dichiarati ostili e tuttalpiù a parare qualche colpo troppo spregiudicato dei nostri fratelli, vicini di casa; non intende essere decisa rispetto alla capacità di controllo ed acquisizione dei fondi americani, quanto esserne compartecipi subordinati. In termini di controllo politico, il risultato certo sarà la ennesima sovrapposizione di un ulteriore apparato amministrativo, rispetto alla pletorica rete burocratica e al disordine istituzionale attualmente in atto.

Sul cambiamento climatico e sul catastrofismo ambientale il giudizio segue la falsariga. Nessuna riflessione sul realismo e la realizzabilità del piano di conversione energetica, sulle implicazioni sul residuo apparato industriae nazionale e sulla capacità di produzione e padroneggiamento delle nuove tecnologie. Uno sterile allarme sul catastrofismo ambientale di origine più o meno antropica che impedisce di agire localmente sulle cause e sugli effetti e di cogliere il nesso tra il popolamento delle aree e la loro possibilità di manutenzione e di coltivazione, riducendo di fatto i disastri a tragedie ineluttabili e il problema ambientale ad una saturazione di attività, quindi ad una necessaria ed implicita decrescita.

Superfluo, al momento, parlare del prossimo disastroso dissesto economico legato alle politiche energetiche e alla accettazione supina delle attuali e future politiche sanzionatorie. La speranza recondita sarà di farlo apparire con il tempo una fatalità.

La smentita più clamorosa delle qualità taumaturgiche di Supermario è avvenuta proprio sul suo presunto punto di forza: il ruolo, la dignità e il rispetto dell’Italia all’interno della Unione Europea. Il recente accordo bilaterale tra Francia e Germania sugli scambi energetici rappresenta soltanto la ciliegina sulla torta. Un ruolo lo avrà certamente avuto la considerazione sempre più scarsa degli dirigenza degli Stati Uniti sulla utilità residua della costruzione unitaria europea e sul ruolo di capocordata assunto sino ad ora dalla Germania. La crescente importanza attribuita ai paesi dell’Europa Orientale nel ruolo guida della politica russofoba rappresenta l’esempio più tangibile di questa svolta strisciante; la qualità di emissario diretto degli Stati Uniti espressa da Mario Draghi ha certamente spinto, appena possibile, i due leader tedesco e francese, a spingere ulteriormente nell’angolo l’Italia.

L’elenco potrebbe arricchirsi di ulteriori elementi. Se ne parlerà nel tempo, appena saranno più evidenti le conseguenze di tali scelte. Servirà quantomeno a ravvivare la memoria troppo corta degli italiani riguardo ad un personaggio attivo in qualche maniera da quaranta anni nell’agone politico italiano e corresponsabile delle scelte che più hanno compromesso il futuro del nostro paese.

È utile, piuttosto, sottolineare un altro aspetto del personaggio.

Dalla contestazione Mario Draghi è stato spesso inserito nel nutrito pantheon liberal-progressista, un po’ snob e particolarmente scettico sulla capacità degli italiani di fare le scelte politiche giuste senza l’impulso e l’intervento esterno. Personaggi, per fare qualche nome, del calibro di Andreatta, Prodi, Letta, Ciampi, ma anche componenti di altri schieramenti.

Tutti personaggi con l’atteggiamento snobistico dei parvenu, desiderosi di riconoscimento all’estero e da questo soprattutto gratificati. Personaggi, tutto sommato, ancora italiani nella loro espressione e nei loro riferimenti, come potrebbe essere ancora un Mario Monti.

Mario Draghi è qualcosa di più e di diverso. Una mutazione definitiva di quella specie.

È un alieno piombato nel nostro universo, che appartiene e deve rendere conto ad un altro universo, senza brillare mai per altro di coraggio.

Come un paese, un popolo, una classe dirigente e un ceto politico abbia potuto accoglierlo senza per altro alcun accorgimento difensivo servirà a spiegare molto della condizione di immaturità politica del nostro paese e delle condizioni necessarie ad un suo risorgimento.

Al momento, il quadro politico desolante non fa che riprodurre sullo scenario suoi epigoni caricaturali destinati ad amministrare, con gaudio effimero, le macerie prodotte dai predecessori e a ritenere sufficiente a ciò il placet esterno.

Epigoni che serviranno ben poco, anche in caso di una svolta radicale favorevole negli Stati Uniti.

Giuseppe Conte e Matteo Salvini si sono fatti conoscere nel loro spessore durante l’epopea di Trump; il loro ritorno improbabile sarebbe un “déjà vu” stucchevole. Adesso toccherà ad altri. L’effetto sorpresa, come pure il momento di gloria, saranno ancora più effimeri.

Ogni ulteriore considerazione più approfondita sarà opportuna solo dopo il 26 settembre.

Questa volta lo stellone dovrà faticare parecchio per attraversare la coltre di nubi e trarre d’impaccio in qualche maniera il paese; sempre che non si sia spento discretamente, ahimè.

Ucraina, il conflitto_16a puntata. Equilibrio instabile_Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Il conflitto in Ucraina ha raggiunto una fase di relativo equilibrio. Lo slancio offensivo nella parte nord del fronte, presentato come una marcia trionfale, ha perso quasi completamente il proprio slancio. Quella che è apparsa una rotta dell’esercito russo, si è rivelato alla fine un ripiegamento ordinato, con scarsa perdita di mezzi, tranne che per la propaggine a nord, verso il confine russo di Belgorod. A sud le forze ucraine si sono dissanguate nei continui e sterili attacchi nella zona di Kherson. L’epicentro della battaglia, però, sembra
fissarsi nella zona di Kharkyv e, soprattutto, di Zhaporija, in una situazione però di crescente pressione su vari punti del migliaio di chilometri di linea. E’ una corsa contro il tempo, in attesa che il richiamo parziale della riserva, ordinato da Putin, possa manifestare i primi effetti determinanti sul campo.
Come in ogni conflitto, anche il più virulento, i canali riservati di comunicazione tra i contendenti non mancano e con esso qualche spiraglio di tregua. E’ una situazione sul campo pesantemente influenzata dalle dinamiche geopolitiche delle quali il recente vertice SCO a Samarcanda e l’assemblea generale dell’ONU hanno offerto una rappresentazione simbolica potente con qualche venatura patetica, quale si è dimostrata la prolusione di Mario Draghi. Il tempo lungo offrirà alla Russia le vie di uscita da una condizione critica, grazie alle dinamiche innescate assieme a Cina ed India. La contingenza, però, annuncia continui pericoli e focolai a ridosso dei suoi confini, suscettibili di destabilizzare il paese. Sono le carte che l’attuale leadership statunitense intende giocare ai limiti dell’azzardo e dell’avventurismo; impulsi nutriti da una smodata indole predatoria altrettanto nefasta, confermata dalla intenzione del Congresso Americano di stornare all’Ucraina i 300 miliardi di dollari di fondi sequestrati alla Russia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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DEMOCRAZIE LIBERALI, “ILLIBERALI” E IN VIA DI IMPLOSIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE LIBERALI, “ILLIBERALI” E IN VIA DI IMPLOSIONE

È un classico del pensiero politico liberale il discorso di Benjamin Constant su “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” dove il pensatore svizzero distingueva i due generi di libertà “le cui differenze sono passate sino ad ora inosservate, o per lo meno non sono state rimarcate a sufficienza. La prima libertà è quella il cui esercizio era così sentito presso i popoli antichi; l’altra è quella il cui godimento viene considerato particolarmente prezioso all’interno delle nazioni moderne”. La prima “libertà” “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace” ed aveva il grave difetto che gli antichi “ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme” di guisa che “In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Mentre “Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza” e nel mondo moderno “la libertà è il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge, il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui”, di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione, disporre dei propri beni, di andare dove si vuole, di culto religioso (e così via). Ed è anche il diritto “di influire sull’amministrazione del governo, sia nominando per intero o in parte certi funzionari, sia attraverso rappresentanze, petizioni, domande”.

Tale distinzione ha influito sul pensiero politico e giuridico moderno, tra gli altri su quello di I. Berlin e Carl Schmitt.

È interessante riprendere tale concezione in ispecie quando si riaccende il dibattito sullo “Stato di diritto” made UE e la concezione di Orban sulla “democrazia illiberale”; che tanto scandalizza la stampa mainstream. È vero che senza un certo rispetto di principi di libertà, lo stesso formarsi della volontà pubblica negli organi di governo viene ad essere falsata, se non in tutto, almeno in parte. Ma è anche vero che se poi questa una volta espressa ha un chiaro senso, ma viene corretta in senso contrario, come capitato in Italia nell’ultimo decennio (se non prima), è la democrazia ad essere mistificata. Prendersela con Orban perché controllerebbe buona parte della stampa e della televisione ungherese, avrebbe la mano pesante con gli immigrati e così via, può avere qualche ragione; resta il fatto che, con le elezioni della passata primavera, Orban ha ottenuto per la quarta volta la maggioranza. In quest’ultima, assoluta.

Scrivo questo perché Constant, pur avendo evidenziato la distinzione tra le due “libertà” e come potessero, in certi casi, contrapporsi (in particolare durante la Rivoluzione e la dittatura giacobina) non ebbe un concetto negativo della Rivoluzione, definendola provvida “malgrado i suoi eccessi perché guardo ai risultati”, ancor più trovava il punto di mediazione tra le due libertà nel governo rappresentativo.

Proprio per permettere ai cittadini di dedicarsi alle attività private, occorreva che avessero il diritto di delegare quelle pubbliche. Cioè il sistema rappresentativo. Il quale “altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da se”. Ma il pericolo che incombe, secondo Constant “è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”. Per cui occorreva che fosse garantito dalle istituzioni il diritto dei “cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni”.

Qual è la conclusione che si può ricavare da queste considerazioni del pensatore svizzero nell’attuale situazione italiana? Se è vero quanto dicono i sondaggi che, malgrado la crisi degli ultimi due anni, gli astensionisti domenica prossima saranno circa il 40% degli elettori, significa che la democrazia italiana non è né liberale né illiberale: semplicemente è in via di estinzione. Votare sarà pure un diritto, ma inutile: tanto poi le decisioni vengono prese altrove. È questo a costituire la maggiore preoccupazione per la tenuta del “sistema rappresentativo” (come, mutatis mutandis di ogni regime politico) assai più del “tasso di Stato di diritto”. Perché anche gli Stati di diritto possono finire per inedia, come il comunismo è cessato per implosione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

L’UCRAINA È IN MACERIE, MA LA UE RILANCIA L’ESCALATION, di Marco Giuliani

L’UCRAINA È IN MACERIE, MA LA UE RILANCIA L’ESCALATION

Nuovo massiccio invio di armi a Kiev. I russi soffrono, ma alla Von der Leyen non basta: “Zelensky deve vincere”. E l’Italia è ormai appaltata da Washington

La nuova, cervellotica campagna di guerra lanciata dalla sig.ra Ursula Von der Leyen sulla pelle degli ucraini, non lascia spiragli a una (eventuale) trattativa che possa condurre verso una tregua. Così, per la gioia di Blinken – al quale Draghi ha poche ore fa giurato fedeltà ribadendo, in sostanza, che l’Italia è un appalto della Nato – e per il riarmo di Zelensky, che è al riparo nel suo bunker di Kiev e continua a mandare in onda i suoi show televisivi, la UE dichiara ancora guerra a Mosca. «L’Ucraina vincerà», ha affermato la Presidente della Commissione europea a seguito di alcuni territori rioccupati da Kiev e da cui, per la verità, i militari russi hanno presumibilmente spostato le loro operazioni. Ipse dixit. Una Russia sconfitta sappiamo tutti che è un’evenienza che non potrà in alcun modo verificarsi, a meno di un ricorso all’arma nucleare e l’interessamento di paesi terzi. Europa che ha lasciato intendere, tra l’altro, di voler cacciare l’Ungheria di Orban perché non allineata al piano anti-Putin commissionato da Washington (la scusa dell’antiabortismo è una pagliacciata). Entriamo nel merito, riportando, come è nostro uso, fatti e riscontri.

La nuova escalation promossa dalla Casa Bianca, ratificata da Bruxelles e messa a punto dai singoli membri della UE (l’Italia, tanto per cambiare, è scattata sull’attenti), ha i suoi risvolti nei nuovi pacchetti di armi in partenza per Kiev e nella discriminante relativa alla messa al bando dall’Ungheria di Orban, rea di non seguire alla lettera le politiche militariste e sanzionatorie euroatlantiche. Per Budapest, si prospettano i tagli dei fondi del Pnrr e l’eventuale proposta di esclusione dall’unione, magari per lasciare spazio proprio all’Ucraina, che di diritti civili ha ancora molto da imparare. Ma veniamo al punto. Lascia un tantino perplessi, ancora una volta, la quasi totale inconsistenza di una iniziativa autonoma da parte dei singoli stati, a fronte di una situazione che va purtroppo peggiorando di giorno in giorno. La Germania si trova in difficoltà ed è oggetto di un crescente dissenso della sua opinione pubblica, con il quale dovrà prima o poi fare i conti; la Francia, salvo l’ipotesi di tagliare le forniture elettriche all’Italia per due anni, è tra i pochissimi superstiti a riuscire a confrontarsi (telefonicamente) ancora con Mosca, ma sembra piuttosto immobile e in balia degli eventi; abbiamo già detto di Draghi, per cui però bisogna apporre una postilla. Il 25 settembre in Italia ci saranno le elezioni, e ciò che si prospetta è solo un rimpasto che porterà a ricalcare in fotocopia la linea degli ultimi 6 mesi. Questa è la sensazione, nata da una serie di indizi derivati dai proclami e dalle politiche messe in atto dai partiti maggiori e dai loro consimili. L’ex Goldman Sachs ha soltanto preparato il terreno.

I movimenti di destra, centro e sinistra sono letteralmente appiattiti, salvo poche voci isolate, su posizioni che non fanno presagire un cambio di passo circa la diplomazia internazionale e le (enormi) difficoltà di undici milioni di italiani che Eurostat ha definito “in povertà”. Proprio in queste ore di campagna elettorale, infatti, stanno per essere inviati – si parla del decreto aiuti – altri settecento milioni di euro a Kiev, mentre nelle Marche si è verificata un’alluvione che ha messo in ginocchio interi paesi e località. Sarebbe curioso sapere quanto intende stanziare in merito il dimissionario governo, che evidentemente sembra di nuovo più concentrato su ciò che accade agli ucraini anziché ai suoi connazionali. Se queste sono le premesse, compreso l’acquisto di materiali energetici in ordine sparso (anche dall’Iran, dove poche ora fa è stata linciata un’altra ragazza perché con il velo in disordine), a prezzi maggiorati e non certo dalle più illuminate democrazie, l’autunno sarà sanguinoso. Ma tutto fa brodo, purché venga danneggiata Mosca. In questa maniera, ci si chiede, quale tipo di supporto potranno ricevere gli italiani di fronte alla dilatazione delle bollette, del caro-vita che non accenna a ridimensionarsi o di fronte all’aumento dei carburanti?

Ma stiano tutti tranquilli: il premier con valigie in mano, nel frattempo, tra economisti in doppiopetto e finanzieri ebrei con la kippah in grande sfoggio, si è guadagnato il World Statesman di New York, premio fedeltà ricevuto dai suoi padri putativi americani a seguito di iniziative partite dalla Casa Bianca e che lui si è solo limitato ad applicare. Per chi, come tanti commercianti, ha visto l’aumento della luce del 300% nel giro di poche settimane, magra, magrissima consolazione. Anzi, una vera e propria beffa. Ovviamente, in attesa degli ulteriori aumenti previsti a ottobre 2022.

 

MG

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Mario Draghi premiato come “World Statesman a New York, agenzia di Aska News uscita il 20 settembre 2022–

Sky TG24, edizione del 30 agosto 2022 –

Televideo Rai del 18/09/2022, p. 150 –

www.agi.it, pagina del 17/09/2022 consultata il 20/09/2022 –

www.europa.today.it, pagina del 17/09/2022 consultata il 19/09/2022 –

www.adnkronos.com, pagina del 16/09/2022 consultata il 19/09/2022 –

 

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