Mondo senza pace, la responsabilità delle grandi potenze e la necessità di un nuovo equilibrio economico_Di Pier Giorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini

La guerra in Ucraina rappresenta un evento epocale nella nostra vita, uno spartiacque che segna il prima e il dopo. Per inquadrare il conflitto ci facciamo guidare da quattro illustri studiosi (nei link si vedano le referenze). L’economista Jeffrey Sachs, direttore del Centro di sviluppo sostenibile della Columbia University, consulente economico per i governi dell’America Latina, dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica, ha recentemente tenuto la lezione “The Geopolitics of a Changing World” all’università di Oxford. John Mearsheimer, politologo e studioso di relazioni internazionali americano, professore all’Università di Chicago è il principale rappresentante della scuola di pensiero nota come realismo offensivo (qui un suo intervento del 2014). Emmanuel Todd storico, sociologo e antropologo francese, ricercatore presso l’Institut national d’études démographiques di Parigi, ha scritto numerosi saggi, tra cui Il crollo finale (1976), in cui ha preconizzato la fine dell’Unione Sovietica, e Dopo l’impero (2003), in cui profetizza la «disgregazione del sistema americano» e la rinascita dell’Europa (qui una sua intervista del 21 gennaio 2023). Infine, Wolfgang Streeck è un sociologo ed economista tedesco e direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società (qui un suo intervento dell’agosto 2022). La fine dell’Unione Sovietica ha chiuso l’epoca della guerra fredda iniziata nel dopoguerra. La grande crescita economica della Cina e la ripresa della Russia dopo la catastrofe degli anni Novanta sono le realtà emergenti che stanno cambiando gli equilibri globali e sono alla radice dell’instabilità del mondo “unipolare” in cui gli Stati Uniti sono stati egemoni per un trentennio.

La crescita della Cina
Per valutare la crescita di un’economia e confrontarla con altri Paesi, è importante considerare i dati a prezzi costanti (ovvero depurandoli dall’effetto inflazione), utilizzando i tassi di cambio internazionali a parità di potere d’acquisto. In questo modo si prende in esame la crescita in termini reali. Consideriamo qui i dati del World Development Indicators database della World Bank.
La crescita della Cina negli ultimi 30 anni è stata fenomenale: il Pil pro capite (ovvero per persona) è passato dai 1429 dollari del 1990 ai 17.603 del 2021, cioè è aumentato di 12 volte. Nello stesso periodo il Pil per persona negli Stati Uniti è cresciuto di poco più della metà, passando da 40.456 dollari a 63.670. La Cina, però, ha oggi una popolazione di 1,4 miliardi di persone, cioè 4,6 volte quella degli Stati Uniti, tanto che il Pil totale della Cina è oggi maggiore di quello americano (in termini reali, valutato a parità di potere d’acquisto): nel 2021 il Pil cinese è stato di 24.860.000 miliardi di dollari, contro i 21.130.000 miliardi degli Usa e i 19.740.000 dell’insieme della Ue. Nel 1990, il Pil totale cinese era di 1.620.000 miliardi, mentre quello di Stati Uniti e Ue erano, rispettivamente, di 10.100.000 e  11.990.000 miliardi di dollari. L’impressionante crescita dell’economia cinese è corrisposta ad aumento del Pil che si è generalmente mantenuto sempre superiore al 5% annuo per ormai più di quarant’anni, contro a valori ben più bassi dell’economia americana (o europea).

Figura 1. A sinistra il Pil pro capite e a destra il Pil totale
(dollari internazionali a prezzi costanti del 2017 a parità di potere d’acquisto)

 

 

 

 

Se la distanza tra economia cinese e americana si è ridotta, è comunque rimasta considerevole in termini di Pil pro-capite: nel 1990 un cittadino americano aveva un reddito superiore a quello di un cittadino cinese di 39mila dollari, mentre oggi il divario è di 46mila dollari. Tuttavia, il dato rilevante è che il Pil della Cina ha superato quello degli Stati Uniti.

Perché la Cina cresce
La competitività economica di una nazione si può misurare quantificando il livello di diversificazione del sistema industriale e dei servizi, cioè la diversità nel tipo di prodotti realizzati, e la loro complessità, ovvero il grado di sofisticazione tecnologica. In tal modo si riesce a estrarre da un complesso sistema economico, come quello di un Paese industrializzato, un’informazione globale che ne descrive la sua qualità. Non è sorprendente che da un’analisi di questo tipo si desuma che i Paesi che cresceranno di più domani sono quelli che si sono occupati di meglio rafforzare oggi il proprio sistema industriale, della ricerca e dell’innovazione che si avvicina così a quello dei Paesi tecnologicamente e industrialmente più avanzati senza aver però ancora raggiunto un livello di Pil pro capite comparabile a quest’ultimi. In ultima analisi questa è la spinta della crescita di alcune economie come quelle di Cina e in maniera meno accentuata dell’India.
Nella figura che segue è mostrata la spesa in ricerca e sviluppo della Cina in confronto ad altri Paesi occidentali: la veloce crescita avvenuta dal 2000 in poi è alla base della trasformazione dell’economia cinese attuale. Nel 2014 la stessa spesa in ricerca e sviluppo della Cina era del 2%, una percentuale maggiore dell’Europa, con una tendenza a raggiungere il 2,5% in questi anni. La combinazione tra la grande spesa in ricerca e sviluppo e i bassi salari hanno reso possibile il veloce sviluppo economico della Cina.

Figura 2. Andamento della spesa in ricerca e sviluppo in miliardi di dollari (Nature)

Un’altra rappresentazione dell’impressionante sviluppo cinese è fornita da quest’altra figura che mostra la crescita della quota del Valore aggiunto totale mondiale dell’attività manifatturiera per paese, che ha ora superato il combinato tra Europa e Stati Uniti, mentre fino a 15 anni fa era minore di entrambi.

Figura 3. Quota del Valore Aggiunto totale mondiale dell’attività manifatturiera per alcuni Paesi (Financial Times)

L’età della convergenza
La Cina ha superato gli Stati Uniti in termini di produzione totale in termini di Pil. Questo non deve sorprendere più di tanto in quanto la Cina ha quattro volte la popolazione degli Stati Uniti, e per questo c’è da aspettarsi che diventerà nel prossimo futuro un’economia ancora più grande. Come abbiamo visto sopra, attualmente il reddito pro capite cinese è ancora poco più di un quarto di quello americano. Il divario è ancora molto grande, anche perché le economie americana ed europea restano ancora quelle più avanzate dal punto di vista finanziario e tecnologico: le corporation dove sono concentrati i grandi capitali sono ancora americane (e qualche europea). Tuttavia, la Cina è un Paese enormemente produttivo, creativo, innovativo e laborioso, con un sistema educativo eccellente, e dunque è ragionevole aspettarsi che cresca ancora in termini economici relativi e tutto lascia pensare che la sua economia e quelle americane ed europee stiano “convergendo” in termini di reddito per persona. Tra l’altro, l’insieme dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha un’economia la cui dimensione ha superato quella dei Paesi del G7 (Figura 4), che indica che la convergenza è in atto per un più ampio numero di Paesi.

Figura 4. Percentuale del Pil mondiale dei Paesi del G7 e dei Brics

Tuttavia, è vero che l’economia cinese è “grande” e sta crescendo ad un passo più veloce di quello dei paesi capitalistici avanzati (Pca) – e con essa anche quella degli altri Brics – ma ha ancora un basso Pil pro-capite il che implica che il Paese ha ancora un lungo cammino da percorrere per raggiungere gli standard dei Pca in termini di tenore di vita, servizi, etc. Inoltre, la distribuzione del reddito in Cina è più iniqua che non in Europa e simile a quella degli Usa (Figura 5).

Figura 5. Quota del reddito nazionale del 10% più ricco in Cina, Stati Uniti ed Ue (fonte World Inequality Database)

Il vantaggio dei Paesi capitalistici avanzati
I Pca hanno un vantaggio sugli altri che è tecnologico e finanziario e che durerà ancora per qualche tempo. È vero che la guerra in Ucraina ha evidenziato una “rottura” tra l’Occidente e il resto del mondo che va ben oltre il piano strategico-militare, creando una frattura vieppiù apparente anche sul piano economico. L’Africa, l’Asia e anche l’America Latina hanno rapporti economici sempre più stretti con Cina e India ma anche con la Russia. La leadership dei Pca è ancora assicurata ma potrebbe essere in un futuro non troppo lontana messa in discussione. Tuttavia, il capitalismo della globalizzazione si è evoluto oltre i confini nazionali e i suoi interessi non coincidono più necessariamente, con quelli nazionali: la dinamica capitalistica è sovra-nazionale.
La lista delle 100 principali aziende per capitalizzazione mostra che 59 hanno base negli Usa, 18 in Europa e 14 in Cina. Le compagnie americane totalizzano il 65% del valore totale di mercato in termini di capitalizzazione, pari a 20.550.000 miliardi di dollari, quelle cinesi 4.190.000 miliardi e quelle europee 3.460.000 miliardi. La competitività cinese si è quindi fatta valere, non solo nei settori dell’high-tech e dei beni di consumo, ma anche in campi come quello della finanza. Nelle prime 500 società, nel 2022, secondo Fortune, 124 sono americane, 136 cinesi, 47 giapponesi, 28 tedesche, 18 britanniche e 31 francesi (Figura 6). Il numero di società cinesi, in questa lista, è costantemente aumentato dal 2000. Tra le prime 500 compagnie, tra l’altro, 7 sono russe (e 5 sono nel settore dell’energia).

Figura 6. Le principali società per capitalizzazione, suddivise per Paese, tra le prime 500

La tragedia delle grandi potenze
John Mearsheimer nel 2002 ha scritto un libro di relazioni internazionali di grande impatto intitolato La tragedia delle grandi potenze (The tragedy of Great Power Politics). Mearsheimer sostiene che la politica internazionale è sempre stata un affare spietato e pericoloso e che probabilmente continuerà ad esserlo. L’intensità della competizione si alterna, le grandi potenze si temono l’una dell’altra e sempre competono tra loro per il potere: l’obiettivo primario di ogni Stato è quello di massimizzare la propria quota di potere mondiale, il che significa acquisire potere a scapito di altri Stati. Le grandi potenze non si limitano a cercare di essere le più forti tra tutte le grandi potenze, anche se questo è un risultato loro gradito; il loro obiettivo finale è quello di diventare la potenza egemone, cioè l’unica grande potenza del sistema.
Ci sono tre fattori alla base di questa dinamica: il primo consiste nell’assenza di un’autorità centrale così che gli Stati si contendono il potere all’interno di un sistema internazionale che è fondamentalmente anarchico. Questa anarchia si origina dal disprezzo delle superpotenze per il quadro giuridico internazionale: le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu vengono troppo frequentemente ignorate o bloccate dai veti dei membri permanenti. Il secondo, che gli Stati abbiano capacità militare offensiva: in questo modo ognuno deve essere consapevole che qualcun altro può sferrare un attacco a sorpresa – il primo attacco – e che questo è un fatto devastante. Il terzo, che gli Stati non possono mai essere certi delle intenzioni dell’altro quindi la migliore garanzia di sopravvivenza è quella di essere un egemone, così che non si possa essere minacciati seriamente da nessun altro Stato.
La tragedia della politica delle grandi potenze consiste nel fatto che, siccome nessuno Stato è in grado di raggiungere l’egemonia globale, il mondo è condannato a una grande e perpetua competizione. Questa è, in grande sintesi, la teoria del realismo nelle relazioni internazionali. Mearsheimer ha scritto questo libro nel 2002 in un momento in cui gli Stati Uniti avevano normali relazioni sia con la Cina e sia con la Russia, ma aveva già compreso che non c’è modo in cui la Cina possa crescere senza che un conflitto tra Stati Uniti e Cina diventi probabile se non inevitabile. Mearsheimer aveva previsto tutto questo in modo corretto: queste idee, sono al contempo molto efficaci, perché permettono di inquadrare le relazioni internazionali e prevedere quello che succederà, e nello stesso tempo sono però tragiche, perché non sono abbastanza efficaci da permettere di superare la tragedia, che invece è quello di cui abbiamo bisogno.

La guerra in Ucraina
La guerra in Ucraina va dunque inquadrata nel più grande scenario di tensione tra forze in competizione a livello mondiale. È un fatto che gli Stati Uniti hanno cercato di ostacolare l’integrazione della Russia in Europa. L’economia russa è rimasta sotto il controllo degli “oligarchi”, una casta che si è creata negli anni Novanta con la transizione al mercato dell’economia sovietica, ed è divenuta capitalistica a tutti gli effetti: tuttavia essa è rimasta fuori dal “circolo capitalista”. Questo poiché la Russia è considerata come “una pompa di benzina” cioè un produttore di materie prime: la Russia ha enormi risorse energetiche di cui l’Europa ha necessità; sin dagli anni Ottanta è stato ipotizzato di sviluppare il gasdotto Trans-Siberiano per portare il gas estratto dai giacimenti siberiano all’Europa, progetto che già allora aveva suscitato l’ostilità degli Stati Uniti. Si è dunque cercata l’integrazione economica della Russia in Europa attraverso lo scambio energia a basso costo per tecnologia, e questo era l’obiettivo dei gasdotti Nord Stream, ma gli Stati Uniti si sono sempre opposti anche a questo progetto. Questa ostilità, secondo l’antropologo francese Emmanuel Todd, si spiega considerando che:
«Per quanto terribile sia per il popolo ucraino, la guerra in Ucraina non è che una questione secondaria in una storia molto più grande: quella della battaglia in corso tra una potenza egemonica globale in declino, gli Stati Uniti e con loro gli altri Paesi occidentali del G7, e una in ascesa, la Cina e con essa i Brics. Un’importante funzione dell’attuale guerra è il consolidamento del controllo degli Stati Uniti sugli alleati europei, necessari per sostenere il “perno verso l’Asia” della potenza statunitense. Il compito dell’Europa è quello di impedire alla Russia di approfittare del fatto che gli Stati Uniti rivolgono la loro attenzione armata altrove e, se necessario, di unirsi alla potenza statunitense nella sua spedizione asiatica (cosa a cui il Regno Unito si sta già attivamente preparando)».

Il Pil della Russia e le sanzioni
Il Pil totale della Federazione Russa, valutato in termini reali a prezzi 2017 a parità di potere d’acquisto come sopra, tra il 1990 e il 2021 è cresciuto di pochissimo, passando dai 3.180.000 ai 4.080.000 miliardi di dollari. Il Pil pro capite, dopo il crollo degli anni Novanta, è invece passato dai 12.358 dollari del 1998 ai 27.960 del 2021, a metà circa tra quello cinese e quello europeo, quindi. Il Pil totale di Russia e Bielorussia, però, rappresenta appena il 3,3% del Pil occidentale o dei Pca (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud). Inoltre, una delle maggiori entrate per la Russia era rappresentata dall’esportazione di gas e petrolio verso l’Europa. Per questo motivo, allo scoppiare della guerra, si era convinti che la Russia, con l’imposizione delle sanzioni, sarebbe stata schiacciata economicamente. Tuttavia, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra. L’economia russa non solo ha retto bene il peso delle sanzioni, ma è stata capace di rivolgersi verso altri Paesi per l’esportazione di materie prima e l’importazione di tecnologia (quello che era un tempo l’accordo con la Germania, energia a basso costo in cambio di tecnologia) mentre l’industria bellica, fino ad ora, è riuscita a rifornire l’esercito. Come spiegare questa dinamicità economica se il Pil è così modesto?

Neoliberismo e guerra
La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore: ci si chiede come questo Pil insignificante possa affrontare la guerra e continuare a produrre missili. Todd fa notare che il motivo è che il Pil è una misura fittizia della produzione, soprattutto per un Paese con grandi risorse di materie prime come la Russia:
«Se si sottrae dal Pil americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo Pil è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici. La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello Stato. E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari».

Sulla produzione di armi Todd aggiunge:
«Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La Cnn, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi saranno in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti».

Le forze in campo
Per comprendere quello che è avvenuto nell’ultimo anno sul terreno di battaglia bisogna comprendere le forze in campo degli eserciti all’inizio del conflitto e come queste sono poi cambiate. Scrive il sociologo tedesco Wolfgang Streeck:
«Nel 2021, l’anno precedente all’invasione dell’Ucraina, la Russia ha speso 65,9 miliardi di dollari (a prezzi costanti 2020) per le sue forze armate, pari al 4,1% del suo Pil. La Germania, con una popolazione pari a poco più della metà di quella russa, ha speso 56 miliardi di dollari, pari all’1,3% del suo Pil. Le cifre rispettive per Regno Unito, Francia e Italia sono state di 68,4 miliardi (2,2 per cento del Pil), 56,6 miliardi (1,9 per cento del Pil) e 32 miliardi (1,5 per cento del Pil). Insieme, i quattro maggiori Stati membri dell’Ue hanno speso per la difesa poco più del triplo della Russia. La spesa militare statunitense, pari al 38% del totale mondiale, supera di dodici volte quella russa e, se combinata con quella dei quattro grandi Paesi europei della Nato, di quindici volte».

Figura 7. Spesa militare – Dati Sipri Fact Sheets, aprile 2020 (nella seconda colonna è riportata variazione percentuale rispetto al 2019)

«Il fatto che la Russia abbia attaccato da una posizione di debolezza è confermato anche dal fatto che, secondo l’opinione degli esperti militari, la sua forza d’invasione, stimata in 190.000 uomini nel febbraio 2022, era troppo esigua per raggiungere il suo presunto obiettivo, la conquista dell’Ucraina, un Paese di 40 milioni di persone con una massa territoriale quasi doppia rispetto a quella della Germania, il cui raggiungimento avrebbe richiesto, secondo la maggioranza delle stime, un raddoppio del contingente impiegato. Sebbene il bilancio della difesa ucraino nel 2021 ammontasse a meno di sei miliardi di dollari (pari al 3,2% del Pil di uno dei Paesi più poveri d’Europa), ciò rappresentava un impressionante aumento del 142% della spesa militare ucraina rispetto al 2012, che era di gran lunga il più alto tasso di crescita tra i primi quaranta Paesi al mondo per spesa militare. È un segreto solo per i media europei cosiddetti di qualità che questo aumento è stato dovuto ad ampi aiuti militari statunitensi, finalizzati a raggiungere la “interoperabilità” dell’esercito ucraino con le forze armate statunitensi. Secondo fonti della Nato, l’interoperabilità è stata raggiunta nel 2020, rendendo di fatto l’Ucraina un membro della Nato de facto, se non de jure».
L’antropologo francese Emmanuel Todd concorda con l’analisi di Streeck e sottolinea un punto importante che chiarisce meglio la prospettiva russa:
«Oggi condivido l’analisi del geopolitico “realista” americano John Mearsheimer. Quest’ultimo ha fatto la seguente osservazione: ci dicevano che l’Ucraina, il cui esercito era stato preso in mano dai soldati della Nato (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi membro di fatto della Nato e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato un’Ucraina membro della Nato. Questi russi fanno quindi, (come Putin ci ha spiegato il giorno prima dell’attacco) una guerra che dal loro punto di vista è difensiva e preventiva. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata».
Vari analisti militari sostengono che la strategia militare della Russia è cambiata durante il conflitto: mentre la prima forza d’invasione serviva essenzialmente per mostrare la serietà delle intenzioni russe, dopo l’estate la Russia ha capito che non ci sono margini di trattativa e che la guerra era inevitabile. Per questo è stata formata una armata tra 500 e 700 mila uomini che in parte è già stata utilizzata ed in parte è pronta all’intervento. La Russia ha mobilitato le sue riserve di uomini ed equipaggiamenti per introdurre una forza di grande dimensione e significativamente più letale di quella di un anno fa.

Una guerra esistenziale
Mearsheimer nel 2014 ha scritto un importante articolo dal titolo esplicito, “Perché la crisi ucraina è colpa dell’Occidente”, in cui ha anticipato gli eventi spiegandone in dettaglio le ragioni: «Gli Stati Uniti e i loro alleati europei condividono la maggior parte della responsabilità della crisi [ucraina]. La radice del problema è l’allargamento della Nato». E «i leader russi hanno ripetutamente detto che vedono l’adesione dell’Ucraina alla Nato come una minaccia esistenziale che deve essere impedita». Le ragioni per questa posizione sono varie: dalle radici storiche che legano la Russia all’Ucraina, al fatto che la Crimea, da sempre appartenuta alla Russia che lì ha una importante base navale, rappresenta l’imprescindibile sbocco sul Mar Nero.
Come nota Todd, per una sorta di eterogenesi dei fini, la guerra sta diventando un pericolo esistenziale per gli Stati Uniti:
«Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo Paese. Ritiene che, se per i russi la guerra ucraina è esistenziale, per gli americani è fondamentalmente solo un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una disfatta in più o in meno…. Cosa importa? L’assioma di base della geopolitica americana è: “Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al sicuro, lontani, tra due oceani, non ci succederà mai nulla”. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Analisi insufficiente che ora porta Biden a una fuga in avanti. L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della Nato. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato. Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Così come la Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui ora siamo in una guerra infinita, in uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro. Cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, esultano.»
E aggiunge:
«Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui stiamo ormai dentro una guerra infinita, dentro uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.»
In breve, la strategia militare di Washington per indebolire, isolare o addirittura distruggere la Russia è un colossale fallimento e il fallimento mette la guerra per procura di Washington con la Russia su un percorso davvero pericoloso caratterizzato dal persistere di un’inflazione elevata e l’aumento dei tassi di interesse che segnalano la debolezza economica. A questo si aggiunga la minaccia alla stabilità e alla prosperità delle società europee, già provate da diverse ondate di rifugiati/migranti indesiderati e la minaccia di una guerra europea più ampia.

La fine della globalizzazione e il nuovo protezionismo
Uno degli effetti collaterali, non previsti né voluti, della deregolamentazione del sistema economico globale è stato rendere le tensioni geopolitiche estremamente più acute. Gli Stati Uniti, e con essi il Regno Unito e altri Paesi occidentali, hanno accumulato ingenti debiti verso l’estero, mentre la Cina, altri Paesi orientali, e in parte anche la Russia, sono in una posizione di credito verso l’estero. Un’implicazione di questo squilibrio è la tendenza a esportare capitale orientale verso l’Occidente, non più soltanto sotto forma di prestiti ma anche di acquisizioni: uno spostamento cioè del capitale in mani orientali. Gli Stati Uniti, che avevano un debito pubblico del 31% del Pil nel 1971, sono passati a uno del 132% oggi e un debito netto verso l’estero di oltre 14 mila miliardi di dollari pari al 65% del Pil.
Questo debito è sostenibile solo grazie al ruolo centrale che ha il dollaro negli scambi a livello internazionale ma rende l’economia statunitense sempre più fragile e condizionata dagli interessi dei creditori. Per questa ragione, sono oggi gli Stati Uniti, già promotori della globalizzazione, a richiedere una chiusura protezionista sempre più accentuata nei confronti delle merci e dei capitali provenienti da Cina, Russia e gran parte dell’Oriente non allineato. È questa criticità nell’equilibrio economico mondiale che rende pericoloso questo momento storico: la guerra è vista come una minaccia esistenziale non solo dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti: nessuno si può permettere di perderla.

Le condizioni economiche per la pace
Per avviare un realistico processo di pace, è oggi dunque necessario non solo ridisegnare un quadro di sicurezza europeo condiviso che tenga conto delle istanze della Russia, ma è necessaria anche una iniziativa di politica economica internazionale. Come recita l’appello promosso da promosso dagli economisti Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky e apparso sul Financial Times del 17 febbraio 2023:
«Occorre un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union. Lo sviluppo di questo meccanismo dovrebbe partire da una duplice rinuncia: gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero abbandonare il protezionismo unilaterale del “friend shoring”, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero abbandonare la loro adesione al libero scambio senza limiti. Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».

La dinamica capitalistica è sovranazionale e fino a prima della guerra stava andando nella direzione di includere, cooptare i capitalisti russi, cinesi, indiani e messicani e governare il mondo ora su una scala oltre le nazioni. Sembra che la guerra in Ucraina abbia interrotto questa tendenza sancendo l’isolamento del blocco occidentale, inteso in senso politico. Se il grande capitale di tutti i Paesi ne avrebbe fatto volentieri a meno continuando la via del business as usual, le ragioni delle tensioni internazionali, come abbiamo visto, sembrano essere più profonde della dinamica capitalistica globale che ha caratterizzato il trentennio dalla caduta del muro di Berlino ad oggi. Se pensiamo che anche le nostre imprese seguiranno i diktat della politica, il friend shoring e altre simili ingiunzioni, sarà la nostra scomparsa. In questo senso, anzi, stiamo facendo un favore a russi e cinesi, ci mettiamo in ginocchio da soli: più aumenta l’isolamento dei Paesi occidentali e più si rafforzano i legami e gli scambi internazionali tra i Paesi del resto del mondo. Non era mai successo e rischiamo un declino inarrestabile. Certo, molti Paesi poveri ed emergenti dipendono ancora molto dai Paesi occidentali, ma potrebbe non durare.

Per un nuovo equilibrio tra grandi potenze
La strategia dei neoconservatori americani, che hanno dominato la politica estera nel periodo “unipolare”, assume che la sicurezza per gli Stati Uniti dipenda dal fatto di essere la potenza globale egemone che ha il dominio assoluto. Questa potenza non ha interessi in termini assoluti di aumento del tenore di vita ma il suo obbiettivo è solo la differenza tra lo stato relativo con gli altri Paesi. È necessario per questo rimettere al centro l’utopia di un mondo aperto in cui prevalga l’interesse nel guadagno reciproco. A causa delle fratture che si sono create per la guerra in Ucraina, questo sarà necessariamente un processo lento che prenderà varie generazioni. Nel frattempo, si deve ritrovare un equilibrio tra grandi potenze, che sarà necessariamente fragile e basato sul reciproco timore l’uno dell’altro, un “equilibrio del terrore” che va gestito con cautela e prudenza, come quarant’anni di guerra fredda ci hanno insegnato. Di fronte al pericolo atomico imminente è l’unica via percorribile quella di ritornare ad un “equilibrio del terrore”, che ha reso possibile un lungo periodo di pace relativa seppure caratterizzato da guerre di carattere locale, per poi intraprendere la lunga strada che conduce ad un equilibrio “multipolare”.
Al momento due aspetti critici si vedono all’orizzonte, oltre ovviamente alla guerra in Ucraina: da una parte la tensione tra Stati Uniti e Cina sulla questione di Taiwan e dall’altro il legame sempre più solido tra Cina e Russia per creare un asse strategico, politico ed economico a cominciare dall’utilizzo dello yuan cinese come moneta per gli scambi internazionali. Se il dollaro dovesse perdere il suo status di moneta di riferimento per comprare il petrolio, il debito pubblico americano potrebbe diventare in tempi brevi insostenibile. Ed è questo il motivo per cui è necessario inquadrare il conflitto attuale nel più grande scenario globale e porre come punto di riferimento la ricerca di un nuovo equilibrio internazionale.

Gli autori: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. Francesco Sylos Labini, fisico, dirigente di ricerca presso il Centro Ricerche E. Fermi di Roma, cofondatore e redattore di Roars

https://left.it/2023/03/30/mondo-senza-pace-la-responsabilita-delle-grandi-potenze-e-la-necessita-di-un-nuovo-equilibrio-economico/

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Due righe sul video della decapitazione di un prigioniero ucraino, di Roberto Buffagni

Due righe sul video della decapitazione di un prigioniero ucraino

Due righe sul video che registra la decapitazione di un prigioniero ucraino. Non l’ho visto. Do per scontato, in questa sede, che sia autentico, e che la decapitazione sia realmente avvenuta. Brevissime considerazioni.

  1. Il video significa che le truppe russe commettano sistematicamente atrocità? No. Motivi:
  2. a) non è nell’interesse della Russia e delle sue FFAA. Le atrocità sui prigionieri rafforzano la determinazione e la volontà di combattere del nemico, ne rendono più improbabile la resa, provocano ritorsioni, aiutano la propaganda nemica.
  3. b) la propaganda russa non disumanizza il nemico, che non viene rappresentato come un Untermensch razzialmente inferiore (questo semmai avviene nella propaganda ucraina, improntata a un nazionalismo radicale su base etnica). L’ideologia prevalente in Russia è lato sensu cristiana e umanistica. Molte famiglie russe sono imparentate con ucraini. La Russia non combatte una guerra di sterminio, né una guerra assoluta, come prova il basso numero di vittime civili. Se la Russia volesse spezzare il morale della popolazione ucraina col terrore ne avrebbe i mezzi, gli stessi impiegati dai tedeschi contro l’URSS o dagli Alleati contro la Germania e il Giappone (“terror bombings”, bombardamento indiscriminato dei civili) nella IIGM.
  4. Allora perché vengono perpetrate atrocità simili?
  5. a) Combattono anche persone sadiche e malvage, alle quali la guerra offre un’occasione d’oro per sfogarsi, o magari per scoprire di essere sadiche e malvage. La guerra “gratta via la vernice” e fa vedere quel che c’è sotto. Infatti vi si verificano atti di straordinaria abnegazione ed eroismo, e atti di abissale malvagità, più tutto l’ampio ventaglio della mediocrità morale. È una considerazione di elementare buonsenso ma di solito non la si fa.
  6. b) Vendetta, ritorsione. Circolano analoghe testimonianze video di atrocità di parte ucraina. Pochi moventi sono forti come la vendetta, specie quando si è stati diretti testimoni dell’evento che la innesca (in guerra avviene spesso).
  7. c) La guerra ucraina è anche una guerra civile. Il livello di atrocità, nelle guerre civili, è molto più elevato, perché i nemici si conoscono personalmente e sviluppano un odio molto più radicato e violento che nelle guerre tra Stati combattute tra eserciti regolari. Ricordo che in tempo di pace, la gran parte dei delitti avviene in famiglia, tra persone che si conoscono benissimo e sono legate da vincoli di sangue. Negli anni tra il 2014 e il 2022 sono circolate testimonianze video e verbali di terrificanti atrocità tra le opposte milizie del Donbass, a paragone delle quali questa decapitazione impallidisce. Io stesso ho visto un video in cui veniva crocefisso e poi bruciato vivo un nemico (non dico da chi, in questo contesto è identico). Ho anche ascoltato la testimonianza di un mercenario italiano che se ne è andato “perché era troppo”, troppo atroce il costume bellico dell’una e dell’altra parte. Cose analoghe sono avvenute in tutte le guerre civili di cui ho notizia, es. Libano, Jugoslavia. Non riporto i fatti per non fare il catalogo degli orrori, ma non è difficile trovarne testimonianza affidabile.

Conclusione. I responsabili di queste atrocità vanno puniti come meritano. Non sarà facile che lo siano, per l’estrema difficoltà di instaurare un tribunale imparziale in tempo di guerra, e nell’immediato dopoguerra. Chiunque sostenga che le atrocità vengono perpetrate da una parte sola, mente. Bisogna porre termine il più presto possibile a questa guerra, anche per prevenire il ripetersi e l’aggravarsi delle atrocità.

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PROGETTARE IL FUTURO, di Pierluigi Fagan

PROGETTARE IL FUTURO. Secondo i risultati di molte ricerche neuro-cognitive, la nostra mente si è evoluta per far previsioni. Noi agiremmo come la zip di una cerniera lampo chiudendo con una intenzione e poi un’azione, un ben più ampio ventaglio di possibili pre-visti ovvero visti in anticipo dalla nostra mente.
A livello storico-sociale, oracoli, sibille, auguri, indovini e pizie, profeti, divinatori, l’intera cultura classica cinese che ha fondamento nelle otto posizioni dei trigrammi di due elementi che deriverebbero dalla stessa origine della loro scrittura che annotava gli esiti della scapulomanzia, rune vichinghe. pensiero magico correlativo, numerologia, hanno svolto la funzione previsionale di gruppo nell’antichità. Nel medioevo ci pensava Dio e quindi dedicarsi al futuro era magia, quindi peccato.
Utopie, distopie, retropie, ucronie hanno accompagnato questa pulsione immaginativa nella prima modernità.
Dai primi del Novecento s’è sviluppata la fantascienza.
Verso la fine della IIWW, un tedesco (O. K. Flechtheim) prima inventa il concetto di “futurologia”, poi vi scrive sopra un trattato che darà il via a questa nuova disciplina, ignota ai più. La disciplina ha numerose cattedre universitarie, tra cui una a Trento (Social foresight).
Le previsioni sul futuro vengono fatte da tutte le grandi multinazionali (industriali, commerciali, finanziarie, bancarie) dalla maggior parte dei governi soprattutto delle grandi e medie potenze, dagli istituti statistici, da un ambiente misto che culmina nel World Economic Forum (Global Risk Report). Ma intorno al WEF c’è un vero e proprio ambiente previsionale fatto dal H. Hoover Reasearch Comittee on Social Trends, dalla Rand Corporation, la Society for General System Research, vari “club” come il Club of Rome e tutti i think tank di Washington e società di consulenza (Accenture), ma anche su temi specifici come la previsione scientifica ambientale dallo stesso IPCC. I futurologi si raccolgono intorno all’ Institute for the Future, alla World Futures Studies Federation (in ambito Unesco), al The Millenium Project che ogni anno, da venti anni, produce rapporti aggiornati.
Ma il tema del “futuro” non è presente nell’immagine di mondo generale, non è argomento di dibattito democratico. Coloro che amano provare il brivido di ripetere i luoghi comuni son sempre pronti a dirti che “del futur non v’è certezza”, non è un argomento scientifico (?), coltivare utopie porta al totalitarismo, previsioni preoccupate sono solo sbuffi dell’umana paranoia tendente al catastrofismo derivante da un conservatorismo di fondo.
Strano allora che tante e valenti istituzioni studino il futuro e ci facciano sopra progetti o strategie con, al centro, la nozione di “rischio”. Dev’essere per questa coltivata ignoranza che alcuni chiamano queste strategie “complotti” finendo così nella categoria inventata a suo tempo dalla CIA per delegittimare ogni lettura “altra” dei fatti pubblici. Il fatto è che le previsioni sono spesso sbagliate se a tempi lunghi ed a grana fine (a tempi medi e grana grossa molto meno) e tuttavia è sui binari stesi da queste previsioni che viaggiano i treni delle strategie. E, a certi livelli, è dalle strategie che provengano intenzioni e poi azioni. Quindi, a livello di opinioni pubbliche gregarie si vive nell’istantismo, a livello di élite si fanno analisi, piani e programmi. Forse è anche per questo che le prime rimangono sottomesse alle seconde, abitano i futuri convinti siano spontanei e non sanno che sono previsti, entro certi limiti, costruiti, se non nel dettaglio, nei limiti del possibile. Questo “possibile” potenziato dalla tecno-scienza, si allarga ogni giorno di più.
E veniamo così al 2002, venti anni fa. Quell’anno, la maggiore istituzione scientifica pubblica americana, la National Science Foundation, assieme al Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, commissionano un voluminoso rapporto di cerca 400 pagine ad una cinquantina di leader tecno-scientifici, di fatto o di pensiero. Il tema è la “convergenza” ovvero la sinergica messa a sistema di quattro famiglie di sviluppo tecno-scientifico: le Nanotecnologie, le Biotecnologie, l’Information Technology, la Cognitive science, NBIC è l’acronimo. Da allora, tale rapporto è la base delle strategie di sviluppo dell’intero comparto tecno-scientifico che ha padrini nel complesso militare-industriale-culturale-congressuale americano.
Il sistema parte dalla Teoria dell’informazione, la Cibernetica, lo studio delle mente e della società. Riducendo il funzionamento cerebrale a computazione, ridotta la computazione ad informazione e questa a bit, equiparando il neurone al chip, la società concreta viene affiancata da una società virtuale, più ordinata, prevedibile e controllabile. Il fulcro è la mente umana indagata con gli sviluppi delle scienze cognitive. Queste, si muovono nello spazio delle due principali teorie di psicologia americane: il behaviorismo ed il cognitivismo, entrambe cognitivo-comportamentali (con pesi diversi). Il tutto considerando che il mentale è incorporato quindi c’è un cervello ed un corpo, entrambi ingegnerizzabili, richiedenti prodotti e servizi per aumentare le performance tramite manipolazione neurochimica e genetica. In modalità replicazione tutto ciò alimenta lo sviluppo della robotica. Le nanotecnologie permetteranno di operare dentro menti già ammorbidite ed i corpi, per costruire il cittadino virtuale della società virtuale. Bit-atomi-geni-neuroni sono i mattoncini Lego per costruire il futuro. Stendendo, intrecciando e sviluppando reti di reti tra off ed on line, la distinzione tra virtuale e reale tenderà a scomparire, i due mondi “convergeranno” sempre più.
Da tutto ciò ne avrà beneficio primo la docilità mentale e l’ordine sociale, beneficio politico per degenerare ulteriormente la già devastata democrazia. Poi ci saranno benefici militari (DARPA a cui dobbiamo Internet e GPS-RS) ed ovviamente industriali, commerciali e viepiù finanziari visto che tutto è, nei fatti, il NASDAQ. Vari tipi di operatori culturali ed informativi si uniranno alla strategia di costruzione del futuro, avendone vantaggi nel loro presente (carriere, potere, soldi, polluzioni d’ego). Parte del Congresso tramuterà in leggi ed investimenti concreti la strategia. Ci sono anche benefici geopolitici che da tempo portano avanti quella “cattura europea” che, sommandosi all’ultimo anni di conflitto ucro-russo, dota ora il sistema americano di una comoda periferia frazionata. Presenza e peso europeo nel progetto NBIC, nonché su Internet (che è ICT) è dal nanogramma alla massa di Planck, quasi-nulla.
I software culturali come chatGPT e vari altri (immagini, suoni, video) di cui abbiamo parlato nell’ultimo post, sono una tappa del processo. Ennesima fonte di dati sugli users i quali vanno felici a dare gratuitamente loro informazioni per provare il brivido di consultare la nuova Pizia info-digitale o farle le pulci. La sottovalutazione delle prime release di questi software fa parte del loro lancio di marketing. I software culturali, alla lunga, aiuteranno a dare forma alla mentalità già massaggiata dai media offline e dallo Spirito del tempo officiato dai tecno-entusiasti. In più legheranno con un filo in più al rapporto simbiotico col dispositivo. In seguito, il dispositivo o parti delle sue funzionalità verranno incorporati, direttamente o indirettamente.
Il tutto ovviamente vanta benefici quali il potenziamento, la performance, una medicina 2.0 (ovviamente per chi se la potrà permettere, un incentivo in più per competere per una posizione sociale che dia possibilità), il sentirsi on time, l’essere “fighi”, la comodità, l’esibizionismo egoico, la giocosità alleviante la fatica di esistere, il calmare l’ansia del dover pensare con la propria testa, la stessa “fatica dell’apprendimento”, nonché quella terribile di dover decidere da sé che fare e come farlo. Togliendo a monte la fatica di pensare ed instradando i giudizi nei meccanismi di stimolo-risposta attivati dalla neurochimica, tutto diventerà più semplice e conseguente. Il migliore dei mondi tra quelli possibili. Un “Nuovo Rinascimento” è lo slogan della sua strategia di comunicazione.
Il post voleva solo condividere una messa a quadro generale del fenomeno, secondo la quale possiamo trarre queste -provvisorie- conclusioni: 1) tutto ciò ci sembra sbilanciato tra l’indubbia rilevanza e la scarsa notorietà dell’argomento; 2) tutto ciò attiene alla conoscenza, per il ristretto ambito di chi ci lavorerà, all’informazione per quanto a coloro che utilizzeranno tutto ciò o parti di tutto ciò; 3) interesse di chi sviluppa questi processi è creare una società dell’informazione, alla società in senso generale converrebbe più sviluppare una società della conoscenza, ma non sembra questo argomento sia sul tavolo della pubblica discussione, né esperta, né di massa; 4) le opinioni pubbliche non solo non discutono del futuro, ma sono anche convinte non si possa e debba; quindi non discutono neanche i piani sul futuro che fanno le varie istituzioni che pur a questo si dedicano; 5) chi non farà piani sul futuro si troverà a viverlo come presente progettato da altri; 6) l’uomo-società risultante da questi processi è un progetto americano, non occidentale, né “umano” in senso generale. Ora ha anche uno sviluppo in Cina; 7) l’intero sviluppo ha ambizioni di creare reti tra individui in simulazione del sociale, tra individui e cose, entrare nel biologico collegando il corporeo all’incorporeo, dare al mentale rappresentazioni (razional-emotive) della realtà voluta, tenere i fili ultimi nelle mani di Pochi, che poi sono quelli che hanno i fini ultimi. Ai Molti è chiesto solo mettere “like” o far di tutto per ottenerli.
Già eravamo in postdemocrazia, ora siamo in terre incognite.
NOTA: Il post evita volutamente alcuni concetti come post-umano, transumanesimo, tecnologie emergenti, rischio esistenziale etc. A noi interessava rimanere concettualmente scarni con fuoco “politico”. In più, dubitiamo dello stesso vocabolario usato per discutere il fenomeno. Dubitiamo si debbano spendere 530 pagine (Bostrom, Oxford) per parlare di una AI che distruggerà l’umanità per fare graffette. Colonizzano anche lo spazio critico.

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Sovranità, controllo industriale e transizione energetica (2), di Jean-Paul Bouttes

Siamo alla seconda parte dell’articolo di Jean-Paul Bouttes. Il ruolo dello Stato dovrà essere necessariamente determinante. Molto di più contano gli indirizzi concreti che lo Stato sceglie e in base ai quali si possono favorire o pregiudicare i destini di un paese. Richiamare il gaullismo, nell’attuale contesto e con le attuali figure politiche, pare pretestuoso e strumentale.

Articolo comunque interessante al netto della evidente rischiosa, avventata forzatura della scelta strategica compiuta dalla UE. Giuseppe Germinario

Sintesi

Le questioni energetiche sono una questione di prosperità e di sovranità dello Stato. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare rapidamente e su vasta scala tecnologie innovative adatte a queste sfide essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni per il successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che una visione politica sia condivisa dai vari attori. Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/

Jean-Paul Bouttes,

ex direttore della strategia e delle previsioni e capo economista di EDF, ex docente di economia all’École Polytechnique.

Leggi anche

Copyright: William Beaucardet; PWP; CAPA Pictures
Fonte: EDF R&D Les Renardières, Dipartimento ENERBAT [foto ritoccata]. PVLab, laboratorio fotovoltaico, simulatore solare continuo per valutare le prestazioni dei pannelli solari.
https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/216_nucleaire_ii_couv_fond/

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel secondo volume

AIE: Agenzia internazionale per l’energia.
ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.
ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).
BARDA: Autorità per la ricerca avanzata e lo sviluppo in campo biomedico.
BPA: Bonneville Power Authority.
BPI: Banque publique d’investissement (Banca pubblica d’investimento).
CCGT: turbina a gas a ciclo combinato.
CCS: cattura e stoccaggio del carbonio.
CEA: Commissariat à l’énergie atomique (Commissione per l’energia atomica).
CEGB: Central Electricity Board.
Cnes: Centre national d’études spatiales (Agenzia spaziale nazionale francese).
DARPA: Defense Advanced Research Project Agency.
DGA: Direction Générale de l’Armement (Direzione Generale degli Armamenti).
DOE: Dipartimento dell’Energia.
EDF: Électricité de France.
EJ: exajoule.
EOR: enhanced oil recovery.
EPR: reattore pressurizzato europeo.
ETI: entreprise de taille intermédiaire (impresa di dimensioni intermedie).
OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Onera: Office national d’études et de recherches aérospatiales (Agenzia nazionale di ricerca aerospaziale francese).
PIA: Piani per gli investimenti futuri.
PMI: Piccole e medie imprese.
PUC: Commissioni di pubblica utilità.
R&S: Ricerca e Sviluppo.
PWR: reattore ad acqua pressurizzata.
SMR: piccolo reattore modulare.
TVA: Tennessee Valley Authority.

Le sfide della transizione energetica per i prossimi tre decenni sono notevoli, in termini di necessità di innovazione tecnologica e di capacità di diffondere massicciamente in tutto il mondo sistemi energetici più sobri, più efficienti e, soprattutto, decarbonizzati grazie all’elettricità. La padronanza industriale di questi sistemi tecnici sarà quindi al centro delle prospettive di sviluppo delle varie regioni del mondo. Sia la Cina che gli Stati Uniti sembrano aver preso la misura della dimensione industriale di queste sfide, a differenza dell’Europa, in particolare della Francia, che è in contrasto con la sua storia recente. Questo articolo propone un’analisi delle ragioni del ritardo e delle vie d’uscita della Francia, ispirandosi agli approcci cinesi e americani e allo spirito che ha animato l’azione pubblica tra il 1945 e il 1975.

I
Parte
Il successo della transizione energetica: efficienza economica e sovranità

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-1
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1
Le sfide dei prossimi tre decenni: il ritorno della geopolitica, obiettivi climatici rafforzati con emissioni nette zero

Note
1. Cfr. Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), Net Zero by 2050, 2021; Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Global Warming of 1.5°C, 2019, Climate Change 2022. Mitigazione del cambiamento climatico, 2022.
2. A maggior ragione se ci accontentiamo di obiettivi sempre più ambiziosi senza interrogarci sulle modalità credibili per raggiungerli e sulle condizioni di successo.
3. A patto che si riesca a portare a maturazione questo nuovo settore dell’idrogeno a basse emissioni di carbonio nei prossimi decenni.
Prendersi il tempo di guardare con attenzione al periodo storico 1945-1975 è davvero di grande interesse in un momento in cui dobbiamo intraprendere una transizione energetica ancora più ambiziosa e rapida su scala globale, in un contesto geopolitico ancora una volta permanentemente sensibile e conflittuale: Le sfide che dobbiamo affrontare in campo energetico sono infatti vicine a quelle dei decenni della ricostruzione e della modernizzazione, quando abbiamo dovuto trovare forme di azione collettiva che ci permettessero di inventare nuove tecnologie, portarle a maturazione e distribuirle su larga scala con efficienza, perseveranza e reattività.

Gli impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra assunti alla COP21 di Parigi nel 2015 portano a obiettivi energetici particolarmente impegnativi, che rompono con le tendenze degli ultimi due decenni, tra cui l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette di CO2 (“emissioni nette zero”) entro il 2050-20601. La tabella di marcia è costituita da alcuni punti chiave che forniscono le indicazioni rilevanti, anche se sembra difficile, nella prospettiva odierna, rispettare le scadenze2.

Stabilizzare il consumo energetico mondiale entro il 2050

La stabilizzazione del consumo mondiale di energia può comportare una riduzione significativa di quello dei Paesi sviluppati e quindi disaccoppiare il consumo di energia dalla crescita del PIL attraverso un risparmio energetico molto significativo, che può essere ottenuto in particolare riducendo in modo significativo l’intensità energetica degli usi. Questi risparmi energetici possono essere ottenuti con l’impiego di tecnologie efficienti: pompe di calore, LED per l’illuminazione, processi industriali efficienti, abitazioni a basso consumo energetico. Ciò può comportare anche cambiamenti nei nostri comportamenti individuali e collettivi: sobrietà energetica attraverso cambiamenti nell’organizzazione della mobilità, del lavoro e dell’abitazione, in particolare l’equilibrio città/campagna e una nuova pianificazione territoriale. Il controllo industriale di queste nuove infrastrutture (città e abitazioni, trasporti, telecomunicazioni e telelavoro) e le tecnologie efficienti per l’uso dell’energia saranno quindi al centro del successo di queste misure.

Decarbonizzazione completa del mix elettrico

È essenziale decarbonizzare completamente il mix elettrico per gli usi attuali dell’elettricità, ma anche sostituire l’elettricità ai combustibili fossili negli edifici, nei trasporti e nell’industria, ove possibile, e produrre idrogeno3 utilizzando l’elettricità decarbonizzata per gli usi più difficili da elettrificare, come il trasporto a lunga distanza (aerei, trasporto marittimo internazionale) o alcuni processi industriali. Questa sostituzione dovrebbe portare a un aumento di due volte e mezzo della produzione e del consumo di elettricità a livello mondiale entro il 2050. Entro tale data, le centrali elettriche che utilizzano combustibili fossili dovrebbero essere chiuse (a meno che non siano dotate di cattura e stoccaggio della CO2), dovrebbe essere costruito un parco elettrico globale pari a circa tre volte l’attuale in termini di capacità installata, utilizzando tecnologie decarbonizzate (idroelettrico, pannelli fotovoltaici ed eolici, nucleare), e le reti di trasmissione e distribuzione dovrebbero essere sviluppate in modo coerente con l’ubicazione dei siti di produzione e dei nuovi usi dell’elettricità. Inoltre, dovrebbe essere assicurata una quota sufficiente di impianti di produzione e stoccaggio controllabili per garantire l’equilibrio tra domanda e offerta in tutti gli orizzonti temporali.

2
Il ruolo dello Stato: lungimiranza sistemica, controllo industriale e sovranità

Note
4. Cfr. Oliver E. Williamson, Markets and Hierarchies: Analysis and Antitrust Implications, The Free Press, 1975; Jean-Paul Bouttes, “Organisation du secteur électrique et déréglementation: quelques références théoriques” e “L’organisation des systèmes électriques: un premier état des lieux”, Economia delle fonti di energia e dell’ambiente, n. 36, 1988, pp. 81-110 e pp. 111-134; Jean-Paul Bouttes e Raymond Leban “Concurrence et réglementation dans les industries de réseau en Europe. Du cas général à celui de l’électricité”, Journal des économistes et des études humaines, vol. 6, n. 2-3, giugno-settembre 1995, pp. 413-448; Jean-Paul Bouttes e Jean-Michel Trochet, “La conception des règles des marchés de l’électricité ouverts à la concurrence”, Économie publique, études et recherches, n. 14, 2004; Jean-Paul Bouttes, “Sécurité d’approvisionnement et investissements dans l’électricité”, Revue de l’Energie, n. 566, luglio-agosto 2005.
5. Cfr. Jean-Paul Bouttes, Raymond Leban e Pierre Lederer, Organisation et régulation du secteur électrique : un voyage dans la complexité, Cerem, 1993; Thomas P. Hughes, Networks of Power. Electrification in Western Society 1880-1930, John Hopkins University Press, 1993; Jean-Paul Bouttes e François Dassa, Europe de l’électricité. Une perspective historique, Institut français des relations internationales (Ifri), novembre 2016.+
6. Per una prima versione degli scenari a “emissioni nette zero” nel settore elettrico per la Francia, si veda Réseau de transport d’électricité (RTE), Futurs énergétiques 2050, 2022.
7. Cfr. Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), rapporti World Energy Outlook, anni 2020, 2021 e 2022, e Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector, 2021.
8. Con i loro “convertitori di energia”, occupano molto più spazio e mobilitano molto più materiale per unità di energia prodotta rispetto alle energie dense come il petrolio o il gas, o alle energie molto dense come il nucleare (cfr. Vaclav Smil, Power Density. A Key to Understanding Energy Sources and Uses, The MIT Press, 2016).+
9. Si veda lo scenario Announced Pledges Case (APC), in Net Zero by 2050…, op. cit.
Le tre ragioni principali della forte relazione tra elettricità e sovranità economica, e del ruolo di primo piano svolto dallo Stato in questo settore negli anni 1945-1975, si ritrovano nel nuovo contesto odierno. Come accade anche oggi e per i prossimi decenni, il settore elettrico appare allora come essenziale per la vita economica del Paese, per la sua potenza industriale e per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico.

L’elettricità è un bene essenziale per l’economia e viene utilizzata massicciamente nelle case, nelle fabbriche e nei territori. Ha irrigato tutte le attività del Paese durante i Trente Glorieuses in Francia. La sua efficienza economica è stata un elemento chiave per la prosperità del Paese. Lo Stato svolge un ruolo essenziale nell’efficienza di questo settore per garantire la coerenza e il coordinamento degli investimenti nelle centrali elettriche, nelle reti e nello sviluppo degli usi. Questi richiedono anche notevoli investimenti da parte dei consumatori, il che rende necessari segnali di prezzo e tariffe che riflettano i costi di utilizzo a lungo termine. Gli equilibri tra domanda e offerta devono essere garantiti per tutti gli orizzonti temporali, compreso il breve termine, in tempo reale, per evitare il fenomeno del crollo della rete “come un castello di carte”. La “mano visibile” delle autorità pubbliche è quindi necessaria di fronte ai fallimenti del mercato costituiti dal “monopolio naturale” delle reti e dalle “esternalità di rete” tra le centrali, le reti e gli usi4.

La necessità di questo coordinamento statale è stata sempre più percepita dagli attori nel periodo tra le due guerre, con i primi passi significativi verso l’elettrificazione e l’interconnessione delle reti in Francia. Il periodo di crescita sostenuta e di investimenti che ha caratterizzato i decenni 1945-1975 ha reso ancora più rilevante l’organizzazione del settore decisa nel 1946 con la creazione di EDF, che riunisce tutte le società private di generazione e di rete. Il “modello industriale” dell’elettricità si è affermato nel periodo 1920-1960 nella maggior parte dei Paesi sviluppati con una grande diversità istituzionale, che riflette le diverse storie politiche, giuridiche ed economiche, ma anche secondo alcuni principi comuni: società di rete con un monopolio a livello di regione o di Paese, integrate verticalmente con la produzione, legalmente o tramite contratti a lungo termine, i cui investimenti e prezzi di vendita sono controllati dalle autorità pubbliche locali o nazionali5.

I prossimi tre decenni 2022-2050 dovrebbero essere ancora più impegnativi in termini di coordinamento degli investimenti nella produzione, nelle reti e negli usi: Gli scenari “emissioni nette zero” prevedono un’elettrificazione che dovrebbe passare dal 20% della domanda finale di energia a più del 50%, il che implica un forte aumento della produzione di energia elettrica in Francia, con mezzi di produzione decarbonizzati ad alta intensità di capitale come il nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, e un notevole sviluppo delle reti per accompagnare questi nuovi usi e queste nuove centrali, tanto più che la quota di energia intermittente, solare o eolica, sarà significativa6.

Possiamo aggiungere che questo requisito di coordinamento sarà dello stesso ordine per lo sviluppo di alcuni usi: Ad esempio, lo sviluppo dei veicoli elettrici dovrà essere coerente con quello delle infrastrutture di ricarica pubbliche e private e con il potenziamento a monte delle reti di distribuzione e di trasporto, il cui costo è almeno dello stesso ordine di grandezza di quello delle batterie dei veicoli elettrici; anche per lo sviluppo delle reti di idrogeno, come complemento dell’elettricità per alcuni usi difficilmente elettrificabili, sarà essenziale un coordinamento a lungo termine tra lo sviluppo di questi usi, gli elettrolizzatori, le reti di trasporto tecnicamente in grado di trasportare e distribuire l’idrogeno e i sistemi di stoccaggio dell’idrogeno.

Le autorità pubbliche dovranno quindi possedere competenze strategiche di previsione e pianificazione di questi sistemi elettrici ed energetici decarbonizzati, per poter alimentare i decisori politici e poi attuare queste decisioni a livello operativo, creando i giusti quadri istituzionali e inviando i giusti segnali di incentivo a tutti gli attori.

Anche il controllo industriale di queste tecnologie elettriche decarbonizzate è essenziale per la potenza industriale e la competitività del Paese. Si tratta di tecnologie avanzate, con significativi incrementi potenziali di produttività, e quindi di una fonte di crescita a lungo termine e di posti di lavoro qualificati, se non ci accontentiamo di servizi a basso valore aggiunto, ma produciamo i componenti industriali e le apparecchiature chiave con i relativi servizi a valore aggiunto (digitali e 4.0) nel Paese. È quindi una sfida importante ripristinare le prospettive di progresso economico e sociale in un momento in cui stiamo mettendo in discussione le leve della crescita a lungo termine con i dibattiti sulla stagnazione secolare e i vincoli che la necessità di proteggere gli ecosistemi e il nostro pianeta, nonché i rischi geopolitici, pongono oggi alle economie. Come abbiamo visto nella storia dell’energia nucleare, questo controllo industriale implica che non ci limitiamo alla funzione di ricerca e sviluppo (R&S) a monte, che è ovviamente essenziale, o al marketing e alle vendite a valle, ma che ci interessiamo ad avvicinare i laboratori e le fabbriche per l’innovazione di processo, al tessuto industriale, con in particolare i fattori di produzione, le macchine utensili e i materiali critici, e alla catena di approvvigionamento industriale nel suo complesso.

Anche in questo caso, anche se il discernimento è più delicato se si vuole evitare di fare cattiva “meccanica industriale”, lo Stato ha un ruolo importante da svolgere riguardo a queste “esternalità positive verticali e orizzontali” per facilitarle e verificare che siano ben attuate: dare la sua visione di lungo periodo, possibilmente coerente, fondata e robusta, dei bisogni del Paese; semplificare le normative e renderle coerenti; sviluppare le infrastrutture pubbliche e i relativi bandi di gara con le giuste forme contrattuali e in tempo utile. È necessario inventare, in modo pragmatico, politiche industriali adeguate alle nuove poste in gioco e rilevanti per accompagnare le imprese industriali così come gli enti locali e le iniziative territoriali.

L’elettricità, vettore energetico per eccellenza, è stata chiaramente il mezzo privilegiato per contribuire alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico della Francia in un periodo dominato dai combustibili fossili, petrolio e carbone, di cui il Paese era privo. L’energia idroelettrica e l’elettricità nucleare hanno quindi contribuito a ridurre la nostra dipendenza energetica nella misura in cui il combustibile uranio o la fabbricazione di attrezzature chiave (in questi due settori) sono stati padroneggiati.

Nei prossimi anni, con l’elettrificazione della maggior parte degli usi, il sistema elettrico sarà ancora più essenziale per la sovranità e la resilienza del Paese di fronte ai rischi sistemici e geopolitici (come la guerra della Russia in Ucraina). Ma il fatto che la geopolitica del petrolio possa essere eliminata tra qualche decennio non significa che le questioni di sovranità scompariranno gradualmente. Al contrario, come spiega chiaramente l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE)7 nelle sue recenti pubblicazioni, le fonti di preoccupazione sono destinate a moltiplicarsi.

Si prevede che il nostro approvvigionamento energetico ed elettrico si affidi sempre meno ai combustibili e sempre più alle tecnologie decarbonizzate ad alta intensità di capitale. La sicurezza dell’approvvigionamento che prima riguardava i combustibili fossili (petrolio, gas) dovrebbe quindi riguardare progressivamente le attrezzature e i materiali critici delle tecnologie a bassa emissione di CO2 come il nucleare, i pannelli fotovoltaici o le turbine eoliche, oltre a quelli associati alla rete elettrica. Inoltre, poiché l’energia solare ed eolica sono energie a bassissima densità8 , le quantità di materiali critici mobilitati (terre rare, cobalto, nichel, rame, ecc.) saranno considerevoli e richiederanno l’apertura di numerose miniere e impianti di lavorazione in tutto il mondo, il che richiederà tempo – da uno a due decenni – e anticipazioni.

I sistemi elettrici che saranno al centro del nostro approvvigionamento dipenderanno in larga misura da sistemi digitali, con un gran numero di programmi software essenziali per garantire l’equilibrio tra domanda e offerta. Il rischio di attacchi informatici sarà quindi anche al centro delle questioni di sovranità energetica e industriale. Va notato che più aumenta la quota di energie intermittenti nel mix elettrico, più il funzionamento a breve termine e in tempo reale del sistema dovrà fare affidamento sull’elettronica di potenza e su un’automazione sofisticata, nonché su strumenti di controllo digitali, il che implica che gran parte di questi strumenti tecnologici richiederà un’innovazione, la cui affidabilità dovrà essere dimostrata. Questa caratteristica costituisce anche una sfida per l’affidabilità degli equilibri tra domanda e offerta di energia elettrica, che potrebbe essere ridotta anche dal rischio di attacchi informatici.

L’esame dei diversi scenari al 2050 mostra una grande variabilità nei tassi di penetrazione delle tecnologie decarbonizzate, e quindi nei fabbisogni di petrolio e gas durante questo periodo di transizione. Questi ultimi dovrebbero dipendere anche dalla capacità di catturare la CO2 e, soprattutto, di trovare siti geologici affidabili per il suo stoccaggio. Se lo scenario “emissioni nette zero” dell’AIE per il 2021 prevede 20 milioni di barili/giorno nel 2050 (solo il 20% del consumo attuale), basterà fare un passo indietro9 per arrivare a 80 o 100 milioni di barili/giorno, cioè quanto oggi. Sapendo che dobbiamo costantemente investire in nuovi giacimenti (o in ampliamenti di quelli esistenti) per compensare il naturale esaurimento dei giacimenti (un calo del 3-4% all’anno), possiamo immaginare i rischi di sotto- o sovra-capacità, e quindi la volatilità dei prezzi nei prossimi decenni. Oggi ne stiamo purtroppo vivendo gli inizi con l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas, che si è verificato anche prima della guerra della Russia in Ucraina, a causa della rapida ripresa della domanda mondiale dopo i forti cali dei primi due anni della pandemia e del fortissimo rallentamento degli investimenti degli ultimi anni (incertezza sulla velocità della transizione energetica, pandemia e bassa domanda, assenza di contratti a lungo termine non indicizzati al mercato spot).

Infine, la geopolitica dell’idrogeno potrebbe sostituire e/o integrare quella del petrolio e del gas. L’idrogeno non è una fonte di energia come il petrolio o il carbone, ma un vettore energetico come l’elettricità e quindi deve essere prodotto. Attualmente viene prodotto principalmente da combustibili fossili, gas, mediante steam reforming, e quindi emette molta CO2 (10 tonnellate di CO2 emesse per 1 tonnellata di idrogeno prodotto). L’idrogeno decarbonato può essere prodotto sia dall’elettrolisi dell’acqua utilizzando elettricità decarbonata (nucleare o rinnovabile), sia installando un sistema di cattura e stoccaggio della CO2 con il processo di steam reforming (a condizione che ne venga catturata un’alta percentuale, cosa non ovvia). Queste tecnologie sono ancora molto costose e la filiera dell’idrogeno decarbonizzato deve dimostrare di aver superato la fase dei dimostratori e di aver raggiunto la maturità economica per poter essere diffusa e integrare i sistemi elettrici decarbonizzati, che saranno comunque essenziali per avere idrogeno a bassa emissione di CO2. In questa transizione verso la maturità, uno dei fattori chiave, oltre a una drastica riduzione del costo degli elettrolizzatori, è rappresentato da un’elettricità decarbonizzata molto economica e abbondante.

La Germania, che conta su volumi considerevoli di idrogeno entro il 2040-2050, vista la rinuncia al nucleare, non sarà in grado di produrli in buone condizioni sul proprio territorio a causa della mancanza di quantità sufficienti di elettricità decarbonizzata, a causa dei vincoli di spazio per la costruzione di ulteriori pannelli solari o turbine eoliche (o per la realizzazione delle relative reti) e dei vincoli di costo dovuti al basso livello di insolazione del Paese. Si sta quindi valutando la possibilità di importare idrogeno su scala massiccia da aree più favorevoli in termini di bassi costi dell’elettricità (Nord Africa, Medio Oriente, Russia, ecc.), fatti salvi ovviamente i costi di trasporto dell’idrogeno su lunghe distanze. Sapendo che questo idrogeno sarà centrale, non solo per rifornire la loro industria, ma anche per far funzionare i mezzi di picco e semi-base essenziali per gli equilibri domanda-offerta del loro sistema elettrico basato principalmente su energie intermittenti, si possono misurare i rischi geopolitici assunti sui sistemi energetici ed elettrici, non solo tedeschi ma anche europei, tenendo conto delle interconnessioni tra i sistemi nazionali.

II
Parte
Strategie energetiche e ruolo dello Stato: gli esempi della Cina (pannelli fotovoltaici) e degli Stati Uniti (preparazione delle tecnologie future e ARPA-E)

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Negli ultimi decenni l’energia e l’elettricità sono state al centro di tre dimensioni importanti per lo sviluppo a lungo termine delle nostre società:

affrontare la sfida del cambiamento climatico;
trovare nuove fonti di crescita e di progresso;
conservare un margine di manovra in un mondo segnato dal ritorno della geopolitica e dai limiti della globalizzazione.
Mentre negli ultimi anni l’Europa e la Francia non hanno preso realmente le misure di questo nuovo contesto, grandi potenze come la Cina e gli Stati Uniti hanno iniziato ad attuare strategie di sovranità economica nel settore energetico, con i loro punti di forza e di debolezza. Sembra utile condividere alcuni elementi su questi due esempi che illustrano bene il modo in cui questi Stati si stanno mobilitando per sviluppare e attuare queste strategie, tenendo conto dei loro interessi a lungo termine, dei loro vantaggi comparativi e delle loro storie e tradizioni istituzionali molto diverse.

1
Cina

Note
10. Si veda il libro del suo ex leader, Zhenya Liu, Global Energy Interconnection, Academic Press, 2015.
11. Si veda International Energy Agency (IEA), Solar PV Global Supply Chains, 2022.
12. Ibidem, pag. 58 e segg.
13. Ibidem, pag. 106 e segg.
14. La diaspora scientifica cinese svolgerà un ruolo importante in questa ascesa di potere.
15. Hanno anche messo in funzione impianti AP1000, tecnologia americana di terza generazione, con prestazioni industriali molto migliori rispetto agli americani di Vogtle – costi di investimento da due a tre volte inferiori -, così come hanno fatto per la tecnologia francese.
La Cina, Paese del continente, ha un notevole fabbisogno energetico. Pur disponendo di scarse riserve di petrolio e di gas, possiede riserve di carbone, di cui è oggi di gran lunga il primo produttore e consumatore mondiale, ma con i principali difetti di questa energia legati alle elevate emissioni di CO2 e all’inquinamento locale (soprattutto quando il carbone viene utilizzato senza passare attraverso centrali elettriche dotate di sistemi di controllo dell’inquinamento da SOx, NOx e particolato). Negli ultimi due decenni ha quindi attuato una strategia di controllo industriale su larga scala, sia per il fabbisogno interno che per l’esportazione, di tutte le tecnologie di produzione prive di CO2: Pannelli fotovoltaici, energia nucleare, energia idraulica, turbine eoliche, cattura e stoccaggio di CO2 per le centrali a carbone, batterie, elettrolizzatori, ecc. Un’attenzione specifica è rivolta all’anello chiave delle reti di trasmissione (corrente continua e alternata, elettronica di potenza e relativo software di controllo), con in particolare una strategia di acquisizione di partecipazioni nelle reti elettriche di altri Paesi per controllare la funzione di acquisto ed esportare le attrezzature cinesi (linee ad altissima tensione per la trasmissione a lunga distanza). La grande società di rete pubblica State Grid svolge un ruolo importante grazie ai suoi forti legami con il tessuto industriale dei produttori cinesi10.

La Cina può far leva sulle sue competenze industriali di “produttore mondiale”, sulla presenza di molti materiali critici necessari nel suo sottosuolo e sulla capacità dello Stato di attuare politiche pubbliche coerenti. Il suo metodo articola una visione e una strategia chiare e sostenibili, poiché queste due dimensioni sono profondamente legate ai suoi interessi a lungo termine, con un’attuazione proattiva che si concentra su un’azione forte sugli ecosistemi industriali, sia a livello verticale, dalla funzione di R&S alla fabbrica, sia a livello orizzontale, dalla produzione di componenti chiave e macchine utensili agli input e ai materiali critici. La costruzione della sua posizione iper-dominante nel mondo nel settore fotovoltaico ne è un’eccellente illustrazione.

La storia recente dell’industria fotovoltaica

La radiazione solare è la fonte di energia con il potenziale maggiore e più sostenibile, ma è diffusa e non direttamente utilizzabile dall’uomo per esigenze concentrate e significative. Il collettore-convertitore di energia solare più promettente è il pannello fotovoltaico, che converte la radiazione solare in energia elettrica. Questa conversione sfrutta l’effetto fotoelettrico: i fotoni della luce solare, raggiungendo alcuni materiali che sono semiconduttori (oggi soprattutto il silicio monocristallino), provocano un movimento di elettroni nei loro atomi che può essere trasformato in una corrente elettrica. Questo principio, scoperto da Antoine Becquerel nel 1839 e spiegato da Albert Einstein solo nel 1905, fa riferimento alla fisica quantistica, scoperta all’inizio del XX secolo contemporaneamente alla radioattività. Solo negli anni ’60 sono state realizzate le prime costosissime realizzazioni, utilizzate per alimentare i satelliti. Solo negli anni ’80 e ’90 sono nati i pannelli fotovoltaici per l’uso stazionario in aree lontane dalle reti di interconnessione. Il fotovoltaico ha quindi molti punti in comune con il nucleare civile: sono entrambe fonti di energia con un forte potenziale sostenibile, l’una perché è l’energia di flusso più abbondante, l’altra per l’esistenza di riserve di uranio (235 e 238) e di torio che rappresentano un notevole volume di energia (data la loro estrema densità energetica, a differenza della radiazione solare). In entrambi i casi, sono necessari convertitori di energia ad altissima tecnologia, che sfruttano recenti scoperte scientifiche la cui maturità economica risale solo agli anni ’70-’80 per l’energia nucleare e agli anni ’10 per i pannelli fotovoltaici. Questi convertitori trasformano queste due fonti di energia in elettricità, aprendo così la più ampia gamma di utilizzi possibili.

L’industria di produzione dei pannelli fotovoltaici e i moduli che ne costituiscono il nucleo sono quindi un esempio molto importante e complementare delle condizioni per il successo industriale. L’energia nucleare beneficia di significative economie di dimensione che portano a impianti di produzione di grandi dimensioni e a grandi cantieri dove vengono assemblati i principali componenti dell’impianto. Da questo punto di vista, è rappresentativa di altri impianti come le centrali a gas o a carbone dotate di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) o le turbine eoliche offshore in ambienti marini difficili. I pannelli solari, invece, sono rappresentativi di un’apparecchiatura industriale ad alta tecnologia e su piccola scala, prodotta per lo più in fabbrica e in grandi quantità, con significative economie di scala nelle dimensioni delle fabbriche che producono il modulo e i suoi componenti; lo stesso vale per le batterie o gli elettrolizzatori.

La storia della padronanza industriale di questa tecnologia è rapida e recente: si gioca essenzialmente tra i primi pannelli fotovoltaici, molto costosi e di alta qualità, utilizzati sui satelliti nello spazio a partire dagli anni Sessanta, e lo spostamento di gran parte dell’industria in Cina e nel Sud-Est asiatico nell’ultimo decennio, che rende competitivi i pannelli solari “terrestri e stazionari” e apre la possibilità di uno sviluppo significativo nel mix elettrico globale (3% del mix oggi, una quota ancora modesta, ma con tassi di crescita annuali molto significativi).

Questa storia comprende tre grandi periodi, a partire dalle due crisi petrolifere, durante i quali i Paesi OCSE, soprattutto gli Stati Uniti ma anche Giappone, Germania e Francia, hanno avviato programmi di ricerca per passare dall’energia spaziale a quella terrestre. Questa prima fase, iniziata nel 1974, ha permesso, grazie a importanti innovazioni, di dividere i costi spaziali di un fattore superiore a quattro o cinque, per arrivare a livelli di prezzo di 500 dollari/MWh nei primi anni 2000. Si tratta di un prezzo ancora dieci volte troppo alto per le grandi reti interconnesse, ma abbastanza promettente da indurre diversi Paesi industrializzati a istituire programmi di sostegno per avviare la seconda fase, dal 2000 al 2010, in vista delle sfide a lungo termine del cambiamento climatico.

La Germania è stata la prima a farlo, seguita da Spagna, Italia e Francia. Le tariffe di alimentazione preferenziali saranno dell’ordine di 400-600 euro/MWh nel corso di questo decennio, innescando un aumento significativo della produzione di pannelli solari, con un conseguente volume considerevole di sussidi, soprattutto in Germania, che, complessivamente, ammonteranno a diverse centinaia di miliardi di euro. I costi totali di produzione dell’energia elettrica da ciclo combinato a gas o nucleare si aggirano infatti intorno ai 50 euro/MWh, cioè da otto a dieci volte più economici.

Questa prima ondata di industrializzazione, in particolare negli Stati Uniti, in Germania e in Giappone, ma anche in parte in Francia (Photowatt è uno dei pionieri del fotovoltaico), ha permesso una prima serie di innovazioni di processo nelle fabbriche nel decennio 2000-2010, che potenzialmente avrebbero potuto consentire una significativa riduzione dei costi. Tuttavia, la domanda massiccia e imprevista di alcuni fattori produttivi, in particolare il silicio cristallino, ha portato a notevoli aumenti dei prezzi: il fotovoltaico è diventato il principale utilizzatore di silicio prima dell’industria dei semiconduttori, con un conseguente aumento dei prezzi del silicio cristallino di un fattore compreso tra 5 e 10. Questo episodio illustra la necessità di prestare attenzione ai costi dei materiali critici e dei collegamenti chiave. Di conseguenza, fino alla fine degli anni 2000 si sono osservate solo modeste diminuzioni dei prezzi dei pannelli.

Alla fine degli anni Duemila, l’istituzionalizzazione a lungo termine del sostegno all’energia solare in Europa e negli Stati Uniti e l’intensità della concorrenza tra gli operatori hanno indotto i produttori a delocalizzare la produzione in luoghi dove potevano trovare condizioni e competenze favorevoli. La Cina, che si è preparata per questo, coglierà l’opportunità. L’inizio della terza fase è previsto per il 2010. Si tratta di uno spostamento dell’industria verso la Cina (e il Sud-Est asiatico), con la stabilizzazione del mercato del silicio a livelli di prezzo bassi. I costi scenderanno poi molto rapidamente grazie soprattutto all’efficienza industriale della Cina: i costi di produzione dei moduli si quintuplicheranno tra il 2010 e il 2022 e il costo di produzione del silicio cristallino si quintuplicherà rispetto al 2010 a partire dal 2015, con un forte aumento della capacità cinese anche in questo segmento11. Questo è l’elemento strutturale che spiega perché i livelli di prezzo dell’elettricità prodotta dai pannelli sono ormai vicini alla competitività in alcuni sistemi elettrici, per le fattorie a terra, senza considerare i costi legati all’intermittenza, tenendo conto che i costi dei tetti devono essere moltiplicati per due o tre per le abitazioni residenziali.

La strategia cinese di controllo industriale

I risultati ottenuti dall’industria cinese nell’ultimo decennio in termini di riduzione dei costi e di quota di mercato globale nell’intera catena del valore del fotovoltaico sono impressionanti. I costi sono stati ridotti di almeno 5 volte, consentendo al fotovoltaico di essere oggi economicamente maturo nello spazio tecnologico. La quota di mercato globale della Cina è superiore all’80% in tutti i settori: produzione di silicio cristallino, lingotti, wafer, celle e moduli. La maggior parte del restante 20% è prodotto nel Sud-Est asiatico da operatori cinesi per aggirare i dazi doganali sulle apparecchiature prodotte in territorio cinese. L’Europa importa l’84% dei suoi moduli dalla Cina e il 60-80% dei moduli prodotti altrove dipende da celle importate dalla Cina. Una serie di incidenti (esplosioni o altro) nel 2020 in quattro mega-fabbriche cinesi di silicio cristallino (una delle quali produce l’8% della domanda) ha portato a un calo del 4% della produzione globale annuale e a una triplicazione dei prezzi tra il 2020 e il 2021.12 Una parte significativa della produzione cinese di silicio cristallino sarà importata dalla Cina.

Una parte significativa della produzione di apparecchiature si trova in un piccolo numero di province cinesi, in particolare nello Xinjiang (la regione degli Uiguri), che produce oltre il 40% del silicio cristallino cinese, una produzione che richiede molta elettricità a basso costo. Questo grazie all’abbondanza di carbone del territorio. Lo Xinjiang possiede anche molte risorse naturali, petrolio, gas, vento, materiali. La Cina dispone di elettricità a basso costo, soprattutto grazie al carbone nazionale, che viene utilizzato dall’industria dei pannelli fotovoltaici. L’elettricità è infatti un input importante per la produzione dei pannelli, insieme a molti beni intermedi come il vetro, i prodotti chimici e molti materiali come l’argento. La Cina ha un tessuto industriale completo che produce questi beni intermedi in modo particolarmente efficiente, a differenza della Francia e di altri Paesi europei che hanno perso alcune delle loro industrie. La Cina produce anche la maggior parte delle materie prime e/o la loro raffinazione necessarie all’industria dei pannelli solari: alluminio, antimonio, cadmio, molibdeno, tellurio, stagno, zinco, rame e raffinazione dell’indio.

Questa strategia cinese è innanzitutto una strategia a lungo termine, attuata per tempo, che le ha permesso di superare le tre fasi chiave descritte nell’esempio del programma nucleare francese13. Negli anni ’90, l’industria cinese stava guadagnando slancio nei settori della chimica, dei semiconduttori e dell’elettronica rilevanti per il solare e le università cinesi, come l’Accademia delle Scienze, stavano investendo nella scienza legata a questi temi14. All’inizio degli anni 2000, il governo cinese ha scelto il solare come industria chiave per la sua economia e le sue esportazioni, in vista dei primi significativi programmi di sostegno economico in Europa e negli Stati Uniti. Questa decisione si traduce concretamente in obiettivi per la produzione di celle e moduli nel 10° Piano quinquennale 2001-2005 e per la produzione di polisilicio cristallino e delle necessarie macchine utensili nell’11° Piano quinquennale 2006-2010, partendo dall’iniziale dipendenza del 95% della Cina dalle importazioni di silicio cristallino. L’obiettivo è poi chiaramente quello di sviluppare le esportazioni verso Europa, Stati Uniti e Giappone. L’Accademia delle Scienze, le principali università cinesi, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme (NDRC), sotto l’autorità del Consiglio di Stato presieduto dal Primo Ministro, e il Ministero della Scienza e della Tecnologia si stanno coordinando sotto l’egida del governo, con l’aiuto di consulenti statali che sono grandi ingegneri e scienziati ben integrati nelle reti internazionali, L’obiettivo era quello di mettersi al passo con le migliori innovazioni tecniche di europei, americani e giapponesi, leader in questo campo, per perfezionarle e utilizzarle in fabbriche più grandi e di migliore qualità (“camere bianche” per la produzione ad alta tecnologia). Questo decennio di aggiornamento scientifico, di “dimostratori industriali” e di risalita nella catena del valore consentirà loro di raggiungere quote di mercato del 20-30% nel 2010 e di essere pronti a passare alla fase di diffusione massiccia su larga scala negli anni 2010-2020.

Questa massiccia diffusione è legata principalmente al boom di obiettivi e sussidi in Europa nel 2010-2013 (a seguito dei primi piani clima-energia) e alla decuplicazione delle prospettive di esportazione verso l’OCSE, ma anche la Cina fisserà obiettivi di penetrazione del solare nel mix elettrico cinese nell’ambito delle sue prime politiche climatiche. Lo sviluppo del mercato interno consentirà alla Cina di attutire gli effetti di stop-and-go delle politiche occidentali e di procedere al contempo verso la limitazione delle sue (ancora modeste) emissioni di CO2.

Il periodo 2010-2022 è quello che, dopo l’accumulo di competenze scientifiche e industriali, prototipi e dimostratori, farà la differenza con i leader tedeschi, giapponesi o americani. La Cina dimezzerà o triplicherà i costi di produzione dei componenti della catena del valore rispetto a quelli dei leader tedeschi, giapponesi o americani e garantirà all’industria cinese la fornitura di materiali e input critici. Questa strategia industriale, che combina efficienza economica e sovranità, può essere attuata nel caso del fotovoltaico impostando le seguenti azioni

Visibilità a lungo termine data dalla politica agli attori industriali, alle province e alle autorità locali, con, oltre alla coerenza delle regole del gioco nel tempo (volume e livello dei contratti a lungo termine o delle tariffe di alimentazione, tariffe doganali, bandi di gara pubblici, collegamento con le reti, ecc.), un sostegno mirato all’industria in caso di calo delle esportazioni;
incoraggiare lo sviluppo di gigafabbriche per sfruttare le economie di scala e gli effetti di apprendimento;
coordinamento degli industriali privati e dei laboratori scientifici per trovare e diffondere innovazioni incrementali nei processi (fili di diamante per tagliare i wafer nel 2018), e per stare un passo avanti rispetto ai costi di produzione;
sostegno al tessuto industriale e a un ecosistema industriale di qualità in grado di produrre input chiave a costi competitivi (vetro, acciaio, chimica, polimeri) inferiori del 10-30% rispetto ai nostri;
un passaggio a monte della catena del valore nella produzione di macchine utensili negli stabilimenti di produzione e assemblaggio di componenti chiave (al posto dei tedeschi);
produzione e fornitura di materiali critici.
Per un’attuazione efficace, vi sono due aspetti strutturanti:

una forte azione sugli ecosistemi industriali, sia a livello verticale, avvicinando la funzione di R&S alle fabbriche, sia a livello orizzontale, assicurando la produzione in Cina di tutti i fattori di produzione e degli anelli chiave delle catene del valore, nonché sviluppando le competenze e le professioni chiave (come hanno fatto la CEA e l’EDF per l’energia nucleare dal 1950 al 1990);
una forte coerenza a lungo termine delle varie politiche pubbliche che inquadrano il funzionamento di questo settore e consentono iniziative locali e private.
La strategia cinese non è priva di interrogativi. È deliberatamente orientata alle esportazioni e crea un’eccessiva dipendenza dalla maggior parte dei Paesi per i beni strumentali strategici.

Il fabbisogno cinese di pannelli fotovoltaici rappresenta solo il 30-35% della domanda mondiale, che la Cina attualmente soddisfa all’80-90%, con una sovraccapacità di un fattore 2 in molti settori (ad eccezione dell’attuale silicio cristallino, ma i programmi di investimento dovrebbero sviluppare questa produzione nel breve-medio termine). L’introduzione di barriere doganali per proteggersi e il ricorso a sussidi per superare i momenti di difficoltà sono chiaramente troppo sistematici per essere accettabili e potrebbero rivelarsi pericolosi, anche per gli equilibri commerciali e per la stessa Cina, se dovessero continuare e generalizzarsi a batterie, elettrolizzatori, energia nucleare o reti, come sembra stia accadendo gradualmente.

È inoltre evidente che parte del vantaggio competitivo è dovuto a norme ambientali meno restrittive in Cina rispetto all’Europa (emissioni di CO2, controllo degli scarichi chimici delle fabbriche e legge sulle miniere), nonché alle condizioni di lavoro delle popolazioni locali, che andrebbero esaminate (nello Xinjiang, ad esempio). È particolarmente sorprendente che i nostri Paesi non ne tengano conto nelle loro regole di confine e nei bandi di gara che pubblicano. Detto questo, queste ultime osservazioni spiegano probabilmente una parte significativa ma minoritaria del vantaggio competitivo della Cina, che fa riferimento innanzitutto a una strategia di controllo industriale di qualità e alle competenze industriali e scientifiche dello Stato cinese. Se le istituzioni cinesi non sono certo trasponibili, noi potremmo comunque prendere il meglio delle loro idee, come hanno fatto attingendo in gran parte ai nostri successi passati e alle nostre innovazioni tecnologiche e organizzative. Come contraltare, possiamo anche ricordare che i cinesi hanno recentemente messo in funzione due impianti EPR, con tecnologia nucleare di terza generazione di concezione francese, a costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli di Flamanville, per ragioni simili a quelle che ci hanno permesso di fare il doppio degli americani qualche decennio fa15.

2
Gli Stati Uniti

Note
16. Si veda, ad esempio, Dipartimento dell’Energia (DOE), Quadrennial Technology Review 2015, 2015.+
La strategia energetica di un Paese pragmatico e reattivo, ma soprattutto ricco di fonti energetiche e di competenze scientifiche e industriali.

A differenza della Cina, gli Stati Uniti sono stati dotati per natura di un’eccezionale gamma di fonti energetiche, sia fossili che rinnovabili, e hanno ereditato lo status di leader della seconda rivoluzione industriale, quella dell’elettricità e del petrolio, degli anni 1880-1945. Gli Stati Uniti sono il maggior produttore mondiale di petrolio, davanti ad Arabia Saudita e Russia – nel 2020, 19,5 milioni di barili/giorno, contro 11,8 e 11,5 milioni rispettivamente – e il maggior produttore mondiale di gas, davanti a Russia e Iran – nel 2020, 32,7 exo-joule (EJ) contro 24,8 e 8,3 rispettivamente. Hanno inoltre aree particolarmente ventose (Midwest, Texas, ecc.) e soleggiate (California, Stati Uniti sud-occidentali, ecc.). Il loro tessuto industriale è alla frontiera tecnologica nel settore dell’elettricità, con in particolare le aziende pioniere General Electric e Westinghouse tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo.

Nel corso del XX secolo, gli Stati Uniti hanno consolidato questo primato scientifico e industriale, in particolare grazie alla Seconda Guerra Mondiale, che ha permesso loro di integrare i migliori scienziati europei nelle proprie università e laboratori di ricerca (in particolare nel campo nucleare con il Progetto Manhattan, nei missili e nello spazio, nelle telecomunicazioni, nella chimica degli esplosivi, ecc.) Poi la crisi petrolifera ha spinto il Paese a lanciare nei suoi principali laboratori e università ambiziosi programmi di ricerca sulle nuove energie che potessero contribuire a ridurre l’uso dei combustibili fossili. Di conseguenza, il Paese gode tuttora di una posizione di leadership scientifica “naturale” nei settori delle energie decarbonizzate, come il nucleare e il fotovoltaico, così come nei combustibili fossili (petrolio e gas di scisto) o nelle reti intelligenti, grazie alla padronanza dei semiconduttori e della tecnologia digitale.

La prima parte della strategia americana consiste nello sfruttare questa duplice padronanza delle fonti energetiche abbondanti e dei convertitori di energia e uso. I loro vantaggi comparativi consentiranno di raggiungere gli obiettivi di efficienza economica e di sovranità in modo più semplice e pragmatico. Questa strategia di efficienza economica e di sovranità viene attuata a breve e medio termine attraverso le politiche energetiche degli Stati: in questo senso, gli Stati Uniti sono molto più decentralizzati dell’Unione Europea. Gli Stati sono responsabili del loro mix energetico ed elettrico, nonché delle principali regole del gioco relative alle normative e alle forme di concorrenza nel settore dell’elettricità (prezzi di mercato vs. tariffe regolamentate per i clienti finali, forme di concorrenza e/o monopoli, ecc.) Da parte sua, il livello federale si concentra sul secondo aspetto, ossia il lungo termine, le questioni internazionali e le relazioni interstatali all’interno degli Stati Uniti: gli scambi di elettricità, gas e petrolio con la regolamentazione delle reti di interconnessione e delle relazioni commerciali tra Stati, in particolare attraverso la Federal Energy Regulatory Commission, le questioni di sovranità e le relazioni internazionali, nonché la ricerca e lo sviluppo per prepararsi al futuro su questi ultimi aspetti con il Dipartimento dell’Energia (DOE), il cui ruolo è importante.

In parte a causa di questa energia fossile abbondante e a buon mercato, gli Stati Uniti sono partiti due decenni fa da una situazione caratterizzata da una mediocre efficienza energetica. Infatti, il suo consumo di energia ed elettricità pro capite era circa il doppio di quello dei Paesi europei o giapponesi allo stesso livello di sviluppo. Il loro mix di elettricità era costituito per il 70% da combustibili fossili e dominato per il 50% dal carbone, rispetto al mix europeo del 2000, che era molto meno ad alta intensità di carbonio, con solo il 50% di combustibili fossili e quasi un terzo di energia nucleare, mentre il resto proveniva da fonti rinnovabili, soprattutto idroelettriche. Sono stati quindi in grado di migliorare le loro prestazioni in termini di risparmio energetico e, soprattutto, di riduzione relativa delle emissioni di CO2, nonostante politiche climatiche moderatamente ambiziose – le loro prestazioni su questi due fronti rimangono meno buone di quelle dell’Europa di oggi -, perché queste misure erano spesso naturalmente redditizie per gli attori, in particolare la sostituzione del gas naturale al carbone, sempre più grazie allo shale gas. Le innovazioni tecnologiche che hanno permesso lo sfruttamento del gas di scisto (fratturazione idraulica, trivellazione orizzontale, additivi chimici per migliorare la permeabilità e il recupero del gas) sono probabilmente la “rivoluzione energetica” più significativa degli ultimi vent’anni, insieme ai guadagni di produttività ottenuti dai cinesi nel fotovoltaico e alle numerose innovazioni nel risparmio energetico, grazie in particolare alle tecnologie elettriche efficienti (LED, pompe di calore, processi industriali, ecc.). Nel 2021 gli Stati Uniti avranno un mix elettrico composto “solo” dal 22% di carbone, dal 38% di gas, e ancora da circa il 19% di nucleare e il 6% di idroelettrico, con l’ulteriore penetrazione di turbine eoliche (9%) e fotovoltaiche (4%): una “rivoluzione energetica” grazie al sostegno governativo a queste energie, al gas e alle rinnovabili, sostegno che è mirato soprattutto a livello di R&S e di dimostratori. Va inoltre sottolineato che la penetrazione delle rinnovabili è significativa negli Stati americani, dove i livelli di insolazione e di vento sono notevoli e dell’ordine del doppio di quelli francesi.

Il principale motore del declino del carbone è quindi legato alla sua sostituzione con l’abbondante ed economico gas di scisto. È interessante notare che queste innovazioni sono state possibili solo grazie alla perseveranza del sostegno dato dalle autorità pubbliche a ingegneri, geologi e imprenditori texani dall’inizio degli anni ’80, dopo la crisi petrolifera, fino all’inizio degli anni 2000. La politica di R&S e di apertura delle opzioni tecnologiche del DOE ha permesso di sviluppare idee e prototipi in prodotti industriali, con le aziende che hanno fatto il resto grazie agli aumenti di produttività legati alle innovazioni di processo e alle economie di scala al momento della prima diffusione massiccia, nella seconda metà degli anni 2000, innescata dal significativo aumento dei prezzi del gas sui mercati internazionali. Questo successo illustra l’importanza di un forte coinvolgimento delle autorità pubbliche in termini di sostegno finanziario solo nelle fasi a monte dei prototipi e dei dimostratori industriali, con importi relativamente modesti; la diffusione massiccia è considerata auspicabile solo quando la competitività è dimostrata, un ragionamento simile a quello dei leader francesi tra il 1966 e il 1971 per la scelta dei settori e i primi impegni dei reattori ad acqua pressurizzata (PWR), e contrario a quella che è stata la politica europea sulle rinnovabili. In questa fase di diffusione massiccia, le autorità pubbliche devono quindi favorire altri strumenti di azione, come la coerenza delle diverse normative (organizzazione della concorrenza per i contratti a lungo termine, ecc.

Preparare il futuro con tecnologie decarbonizzate: un ruolo centrale per lo Stato federale

La preparazione del futuro è quindi centrale per il governo federale, che tradizionalmente dispone del DOE e di grandi laboratori pubblici (Argonne, Idaho, Lawrence Livermore) simili alla Commissione francese per l’energia atomica (CEA). Il governo federale può contare anche sulle importantissime esigenze e risorse del Dipartimento della Difesa, per la fornitura di energia alle numerose basi americane sul territorio nazionale o in altri Paesi e per il funzionamento di alcuni sistemi d’arma. In particolare, il nucleare è stato utilizzato per la propulsione di sottomarini e portaerei fin dagli anni Sessanta, il che spiega l’interesse a lungo termine per i reattori di piccole dimensioni e le innovazioni nel campo dei piccoli reattori modulari (SMR), dato che il numero di reattori militari è superiore a quello dei reattori civili negli Stati Uniti. Questa collaborazione tra difesa ed energia ha permesso agli Stati Uniti di mantenere un alto livello di attività di ricerca negli ultimi anni, per rimanere alla frontiera tecnologica e disporre delle migliori tecnologie nucleari nel momento in cui è necessario fare un salto di qualità in termini di decarbonizzazione, riducendo la quota del gas.

Per completare il sistema, le autorità pubbliche americane hanno deciso, sulla base delle raccomandazioni delle accademie nazionali, di creare nel 2007 un’agenzia incaricata di promuovere la ricerca in campo energetico su progetti innovativi e rischiosi, coinvolgendo i principali laboratori pubblici, l’industria e le università: l’Advanced Research Projects Agency-Energy (ARPA-E). L’idea è quella di fornire i mezzi per identificare le lacune nei programmi di ricerca esistenti con uno strumento ispirato alla Defense Advanced Research Project Agency (DARPA), un’agenzia creata nel 1958 inizialmente nel campo dello spazio e dei missili di fronte ai progressi dell’Unione Sovietica. Questa agenzia sarebbe diventata un modello per l’organizzazione di una ricerca audace ed efficace. Concentrandosi in questo caso su questioni militari, avrebbe svolto un ruolo importante in molti campi come l’intelligenza artificiale o la genesi di Internet. Nel 2006 ha anche ispirato la creazione dell’Autorità per la ricerca avanzata e lo sviluppo biomedico (BARDA), che ha contribuito alle risposte a Covid-19.

La missione di ARPA-E è garantire che la R&S americana consenta di costruire e testare prototipi e dimostratori industriali per tutte le tecnologie chiave del futuro mix energetico americano. Il suo funzionamento è strutturato su tre livelli:

analisi di previsione scientifica e tecnologica con roadmap tecnologiche per diversi decenni;
un piano strategico di azioni da realizzare nell’arco di alcuni anni;
su queste basi, l’organizzazione di bandi di gara e il finanziamento di progetti, dalla ricerca ai prototipi, ai dimostratori e agli impianti di produzione.
Gli studi di previsione tecnologica per trentacinque anni16 e le strategie tecnologiche/settoriali per dieci anni mobilitano le migliori competenze scientifiche e industriali al servizio del Paese, provenienti dalle accademie scientifiche, dai grandi laboratori pubblici e dal mondo industriale. Si tratta di un’operazione chiaramente diversa da quella, sempre più diffusa in Francia e in Europa, dei gruppi di interesse con una presenza significativa di alti funzionari, finanzieri o economisti che non sono esperti in campo tecnologico. Negli Stati Uniti, è sulla base di questi approcci informati e coerenti, che permettono di dare visibilità a lungo termine agli attori, che i finanziamenti vengono assegnati a laboratori pubblici o privati, a start-up o a grandi gruppi industriali, a seconda dei casi, e sempre sotto la supervisione di persone con una reale esperienza e una riconosciuta conoscenza scientifica e industriale.

Il terzo livello di ARPA-E ha obiettivi che, a prima vista, possono essere simili a quelli di France Relance, France 2030 o dei Piani di Investimento Futuri (PIA) in materia di energia, ma con un forte quadro prospettico e strategico sulle questioni tecnologiche ed energetiche e competenze industriali e scientifiche esperte, due dimensioni fondamentali per essere rilevanti in questo settore.

III
Parte
E la Francia?

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-3
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Gli ultimi due decenni sono stati quelli del “sorgere dei pericoli” nel settore energetico: l’aumento delle preoccupazioni legate al cambiamento climatico e all’urgenza della transizione energetica, il ritorno della geopolitica con gli attentati dell’11 settembre 2001, la rivalità tra Stati Uniti e Cina e la messa in discussione delle fonti di potenziale crescita a lungo termine e dell’accesso alle energie che consentono lo sviluppo economico e sociale. In un momento in cui grandi regioni del mondo come la Cina e gli Stati Uniti seguono con determinazione le strategie industriali e tecnologiche di lungo periodo che abbiamo appena citato, l’Europa, e in particolare la Francia, vede peggiorare le proprie prestazioni energetiche ed elettriche (prezzi dell’energia e dell’elettricità, dipendenza energetica, ecc.) e soprattutto, tema preoccupante per il futuro, indebolire il proprio tessuto industriale e le proprie capacità di sviluppo tecnologico. Analizzeremo più da vicino le ragioni di questa situazione in Francia e proporremo alcune linee d’azione ispirate da risorse tratte dalla nostra storia e da quelle più recenti di Cina e Stati Uniti.

1
Negli ultimi vent’anni, le prestazioni del settore elettrico sono diminuite e il tessuto industriale è diventato più fragile.

Note
17. Cfr. Matthieu Glachant, “Le point de vue d’un économiste sur la rénovation énergétique des logements et sa régulation”, Réalités industrielles-Annales des Mines, n. 2022/2, maggio 2022, pp. 19-21.
18. Mireille Campana, Jean-François Sorro e Quentin Peries-Joly, “Opportunités industrielles de la transition énergétique”, Conseil général de l’économie, de l’industrie, de l’énergie et des technologies, febbraio 2017.
Il settore elettrico francese, ereditato dai cinque decenni precedenti all’inizio del XX secolo, è uno dei più efficienti al mondo in termini di emissioni di CO2, competitività e sicurezza dell’approvvigionamento grazie a un mix elettrico basato sul 75% di nucleare e sul 15% di idroelettrico: le emissioni dirette di CO2 della Francia sono pari a 5-6 tonnellate di CO2 per abitante, rispetto a quasi il doppio della Germania, grazie al suo mix basato per metà su lignite e carbone e per metà su gas I prezzi dell’elettricità in Francia sono tra i più bassi d’Europa, in particolare grazie alla padronanza industriale del nucleare (costi di investimento dimezzati rispetto agli Stati Uniti) e alla qualità della gestione operativa del sistema integrato produzione-trasporto-distribuzione. La padronanza dell’intera catena di valore del nucleare e la quota di energia idroelettrica contribuiscono in larga misura a ridurre la dipendenza energetica della Francia e le hanno permesso di esportare volumi significativi di elettricità ai paesi vicini per diversi decenni.

Queste prestazioni si sono gradualmente deteriorate negli ultimi due decenni, soprattutto a causa di una politica energetica esitante in un contesto globale di accelerata deindustrializzazione del Paese. La pressione delle idee dominanti e una visione a breve termine hanno infatti spinto a privilegiare il gas, i cui prezzi erano relativamente bassi dal controshock petrolifero del 1986 fino alla seconda metà degli anni 2000, rispetto al nucleare. Sono state quindi interrotte le politiche di elettrificazione degli usi, favorendo il gas, soprattutto per il riscaldamento degli edifici, anche se emette CO2, a differenza dell’elettricità, che è ampiamente decarbonizzata. La tendenza è stata quella di favorire scenari con un basso fabbisogno di energia elettrica, per mostrare chiaramente la volontà di non affidarsi al nucleare. Per i nuovi investimenti nella produzione di energia elettrica, le autorità pubbliche favoriranno anche i cicli combinati a gas con un complemento di energie rinnovabili intermittenti, eolico e fotovoltaico, grazie a sussidi significativi che contribuiranno a un progressivo aumento dei prezzi dell’elettricità.

Inoltre, le politiche di risparmio energetico, essenziali per la transizione energetica, sono state spesso inefficaci e poco mirate, determinando elevati sussidi a carico dei francesi a fronte di scarsi risultati in termini di risparmio energetico e, soprattutto, di minori emissioni di CO2: così, negli ultimi anni, le diagnosi di prestazione termica hanno sovrastimato di 2 o 3 volte i risparmi associati alle misure raccomandate. E, proprio come le normative termiche, queste diagnosi hanno privilegiato l’energia primaria, un criterio di difficile comprensione e di nessun interesse in Francia, a scapito di un criterio basato sull’importo della bolletta energetica, che è comunque fondamentale per le famiglie meno privilegiate, e sulle emissioni di CO2, la cui riduzione è il principale obiettivo per il pianeta. Strumenti economici come i certificati di risparmio energetico o i regolamenti termici per le abitazioni sono stati mal concepiti dal punto di vista economico (mancanza di padronanza delle griglie analitiche legate ai fallimenti del mercato e ai costi di transazione) e manipolati in base alle influenze di gruppi di interesse e associazioni17. Le emissioni dirette di CO2 della Francia sono rimaste più o meno stabili negli ultimi due decenni, intorno alle 5 tonnellate di CO2 pro capite, ma ciò è dovuto in gran parte alla deindustrializzazione del Paese, che ci ha portato a “esportare” le emissioni legate ai nostri modelli di consumo e a “importare” sempre più carbone tedesco e, soprattutto, cinese: le emissioni totali di CO2 che integrano l’intera impronta di CO2 sono quindi, nel 2020, dell’ordine del doppio delle emissioni dirette, con circa 11 tonnellate di CO2 pro capite. Stiamo quindi perdendo gradualmente competitività, riduzione complessiva delle emissioni di CO2 e sicurezza degli approvvigionamenti.

In questo contesto globale di accelerata deindustrializzazione del Paese, l’indebolimento del tessuto industriale è ancora più preoccupante. Stiamo assistendo a una perdita di competenze e di controllo industriale sui nostri vantaggi comparativi storicamente ereditati. Questo vale per Alstom, la cui attività ha risentito in particolare dello stop-and-go europeo sul mercato del ciclo combinato a gas, e, naturalmente, per l’industria nucleare. Le esitazioni sul posto e sull’interesse del nucleare hanno portato a posticipare l’impegno per il dimostratore industriale EPR dal 1997 al 2006 e ad aspettare fino ad oggi per dare il segnale di un impegno per una serie di unità. Per più di due decenni, quindi, l’industria non ha avuto visibilità su prospettive credibili per le centrali nucleari di terza generazione. Sapendo che in termini di prototipi o dimostratori per altre tecnologie promettenti che sono oggetto di progetti negli Stati Uniti, in Canada, in Cina e in Russia, come gli SMR o i reattori veloci, la Francia ha interrotto il suo progetto di reattore veloce Astrid nel 2019, e solo recentemente ha lanciato un progetto SMR (Nuward).

L’altra sfida per i prossimi anni è quella di prolungare la vita delle unità nucleari esistenti: la maggior parte di esse è stata commissionata tra il 1980 e il 1990 e avrà 40 anni tra il 2020 e il 2030. È noto che questo tipo di impianti può essere esteso a 60 anni. Negli Stati Uniti ci si sta preparando per estendere alcune di esse a 80 anni. La Francia ha avviato un ambizioso programma di grandi lavori di ristrutturazione (il “Grand Carénage”), che mira a portare le sue centrali di generazione 2 a un livello di sicurezza che dovrebbe essere vicino a quello della generazione 3 e incorporare gli insegnamenti dell’incidente di Fukushima. Dovremmo quindi essere in grado, sotto il controllo dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN), di portare queste unità a 50 anni in prima istanza, il che permetterebbe di andare avanti fino al 2030-2040, e probabilmente almeno a 60 anni per gran parte di esse. Ma anche in questo caso, senza una chiara visibilità a lungo termine, il tessuto industriale non può essere sufficientemente mobilitato. Fino all’anno scorso, l’obiettivo delle autorità pubbliche era invece quello di chiudere altre dodici unità nucleari esistenti nel prossimo decennio, oltre alle due unità di Fessenheim appena spente, per raggiungere un obiettivo di consumo nucleare inferiore al 50% entro il 2035, nell’ambito, come abbiamo visto, di scenari di consumo sottostimati. Poter estendere la maggior parte della flotta esistente ad almeno 60 anni, come fanno altri Paesi e previo parere dell’ASN, contribuirebbe in modo significativo all’equilibrio domanda-offerta dei prossimi due decenni, portando la maggior parte della flotta all’orizzonte 2040-2050. Ciò consentirebbe al tessuto industriale di aumentare rapidamente la propria capacità di costruire nuove unità di terza generazione, che potrebbero essere messe in servizio progressivamente a partire dal decennio 2030-2040 per completare la flotta esistente e rinnovarla.

Questa mancanza di visibilità da parte delle autorità pubbliche negli ultimi vent’anni, con un tira e molla, sia sul prolungamento della vita delle centrali di generazione 2 che sull’impegno per le nuove centrali di generazione 3, o per i dimostratori SMR e di generazione 4, ha indebolito l’intera industria nucleare francese, EDF, Areva, Framatome, così come le numerose PMI.

Se dobbiamo migliorare i nostri vantaggi comparativi, in particolare nei settori del nucleare e delle reti, la situazione è ancora più problematica in altre tecnologie e nuovi settori a basse emissioni di carbonio (fotovoltaico, eolico, batterie, pompe di calore). Abbiamo fallito nei nostri tentativi nel fotovoltaico (si vedano, ad esempio, le difficoltà di Photowatt, un’azienda pioniera in questo settore) e nell’eolico onshore (si veda la vendita delle attività eoliche di Areva a Gamesa). In questi settori del futuro, siamo presenti nell’installazione e nei servizi a basso valore aggiunto, ma poco o nulla nella fabbricazione industriale di prodotti e componenti chiave che portano guadagni di produttività e alto valore aggiunto18 e nei relativi servizi ad alto valore aggiunto (forse con l’eccezione delle turbine eoliche offshore, se riusciremo a fare un passo avanti e a trasformare il processo).

2
Le ragioni di questo deterioramento

Note
19. Si veda Paul L. Joskow e Richard Schmalensee, Markets for Power. An Analysis of Electric Utility Deregulation, The MIT Press, 1983.
20. Jean-Paul Bouttes e Jean-Michel Trochet, “Le pragmatisme des réformes américaines”, Revue de l’énergie, n° 465, gennaio-febbraio 1995.
21. Cfr. Jean-Paul Bouttes e François Dassa, “Elettricità: gli errori dell’Europa e come uscirne”, Le Débat, n° 197, novembre-dicembre 2017, pp. 167-181; Jean-Paul Bouttes, “Quelle politique de l’énergie pour assurer la compétitivité de notre économie, réduire notre dépendance extérieure et protéger l’environnement? “, in Michel Pébereau (a cura di), Réformes et transformations, PUF, 2018, pp. 235-279; François Dassa, “Reinventing European energy policy”, Revue de l’énergie, n. 643, marzo-aprile 2019.
Le ragioni di questo deterioramento delle prestazioni possono essere collegate a un nuovo contesto geopolitico e geoeconomico dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la globalizzazione del commercio, il movimento di deregolamentazione delle telecomunicazioni, dei trasporti e delle reti energetiche, Ciò è dovuto alla deregolamentazione delle reti di telecomunicazione, trasporto ed energia, avviata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70 e poi “dogmatizzata” in Europa, e al cambiamento di mentalità in Francia tra le élite politiche, intellettuali e mediatiche a favore di una società post-industriale che privilegia l’individuo e la mano invisibile dei mercati a breve termine rispetto alla produzione di ricchezza a lungo termine e alla gestione collettiva dei beni comuni.

La globalizzazione del commercio, l’abbandono della geopolitica e l’abbondanza di combustibili fossili e gas

Con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, le questioni geopolitiche sembravano svanire. La globalizzazione del commercio di beni e capitali è avvenuta all’ombra della protezione americana e il coordinamento dell’azione delle banche centrali ha permesso di controllare l’inflazione e di avere accesso ai finanziamenti a buone condizioni (nonostante le ricorrenti crisi internazionali). Infine, dopo gli shock petroliferi, le innovazioni tecnologiche nel settore energetico hanno dato l’impressione che stessimo entrando in un mondo di abbondanza energetica basata principalmente sui fossili: la capacità di sfruttare giacimenti di petrolio e gas offshore in profondità, così come nelle stesse rocce di origine (shale oil e gas), e di recuperare una quota molto più ampia delle riserve di petrolio presenti nei grandi giacimenti esistenti o futuri (enhanced oil recovery, EOR) ha creato un contro-shock sostenibile per il petrolio e il gas a partire dal 1986. Inoltre, ci sono state innovazioni nelle centrali elettriche a combustibili fossili: sono stati sviluppati cicli combinati a gas, basati su turbine aeroderivate, che hanno permesso di utilizzare il gas con un’efficienza molto più elevata rispetto alle turbine a vapore, e sono stati trovati sistemi in grado di limitare l’inquinamento locale o regionale del carbone (Denox e Desox per evitare le piogge acide). Stiamo quindi assistendo a uno sviluppo massiccio nei Paesi emergenti come Cina, India, Indonesia, Turchia e Sudafrica, che potranno sfruttare l’uso del carbone nazionale, abbondante nella maggior parte di questi Paesi e in grado di fornire loro elettricità sicura ed economica. Questi Paesi introdurranno gradualmente queste tecnologie di controllo dell’inquinamento, almeno nelle grandi centrali elettriche, tenendo presente che il problema dell’inquinamento rimane irrisolto per l’uso diretto del carbone, in particolare nelle abitazioni. Nello stesso periodo si assisterà a una “corsa al gas” (corsa alle centrali a gas) prima negli Stati Uniti, poi in Europa grazie all’abbondanza di gas russo a basso costo e geopoliticamente accessibile (o almeno così si crede, soprattutto in Germania), e anche altrove nel mondo grazie alla padronanza del trasporto marittimo a lunga distanza di gas naturale liquefatto a bassissima temperatura, che permetterà di trasportare il gas americano e quello mediorientale in Asia e in Giappone. Siamo quindi in un periodo che dimentica le preoccupazioni geopolitiche e ambientali degli idrocarburi e non comprende ancora bene le sfide del riscaldamento globale. Alcuni di questi Paesi emergenti, primo fra tutti la Cina, stanno diventando i “produttori del mondo” grazie all’energia a basso costo e al basso costo della manodopera. La Germania può sfruttare la sua specializzazione in beni strumentali e macchine utensili, prodotti grazie al gas russo a basso costo, per costruire fabbriche di beni di consumo nei Paesi emergenti, mentre la Francia può importare massicciamente beni di consumo grazie a tassi di interesse piuttosto bassi all’ombra dell’euro, lasciando che il Paese si deindustrializzi in settori importanti per il futuro.

Deregolamentazione, apertura delle reti elettriche e del gas in Europa

Questa eccessiva fiducia nel funzionamento efficiente dei mercati a tutte le scale geografiche sarà estesa alle grandi infrastrutture di rete, telecomunicazioni, trasporti, gas ed elettricità, tradizionalmente considerate come servizi pubblici sotto il controllo delle autorità pubbliche nazionali e locali. Queste idee sono nate prima negli Stati Uniti, per ragioni specifiche e rilevanti, e con approcci pragmatici alla loro attuazione, come spesso accade nel mondo anglosassone19. Se ci concentriamo sul caso dell’elettricità, è vero che le regolamentazioni americane delle Public Utilities Commission, le commissioni di regolamentazione indipendenti incaricate a livello degli Stati americani di controllare gli investimenti e i prezzi delle aziende del settore elettrico (in monopolio e il più delle volte private), erano spesso pignole e inefficienti. In Stati come la California e il New England, le sovvenzioni incrociate potevano essere molto significative per ragioni politiche a favore delle famiglie e a scapito dell’industria. In questo contesto, gli industriali di questi Stati volevano avere accesso a prezzi dell’elettricità che riflettessero i costi degli impianti di generazione, in modo da poter competere ad armi pari con i loro concorrenti in altri Stati come il Midwest o il Texas, dove gli industriali pagavano il “costo economico” dei loro usi. Questi stessi industriali avrebbero inoltre preferito acquistare da “produttori indipendenti”, nuovi entranti in grado di utilizzare impianti con la nuova tecnologia dei cicli combinati a gas, più facili da costruire rispetto ai grandi impianti tradizionali a vapore, poco costosi in termini di investimento e con ottimi rendimenti, e che, inoltre, utilizzavano un gas diventato economico. La risposta del governo federale a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 è stata pragmatica, autorizzando la nascita di questi nuovi soggetti produttivi e consentendo agli Stati che lo desideravano di introdurre l’accesso di terzi alle reti, ossia la possibilità per i clienti finali – prima industriali e poi domestici, se del caso – di scegliere il proprio fornitore di energia elettrica (o, per dirla in modo più semplice, le centrali elettriche responsabili della fornitura). Negli Stati Uniti la sussidiarietà rimane fondamentale e gli Stati che hanno voluto continuare ad affidarsi a monopoli pubblici (grandi aziende federali simili a EDF, come la Tennessee Valley Authority e la Bonneville Power Authority, e/o le “muni’s”, le municipalizzate molto numerose e talvolta potenti in alcune regioni), o affidarsi a sistemi con monopoli privati controllati dalle Public Utility Commission (PUC), hanno potuto farlo20.

Nel Regno Unito, Margaret Thatcher ha sfruttato l’idea dell’accesso di terzi alle reti per allontanare il sistema elettrico britannico dalla dipendenza dal carbone, troppo costoso e inquinante, e per costringere il potente sindacato dei minatori ad accettare la chiusura delle miniere inglesi, sempre meno redditizie, a favore della costruzione di turbine a gas a ciclo combinato (CCGT) che utilizzavano il gas britannico scoperto nel Mare del Nord negli anni Ottanta. Il radicale smantellamento del Central Electricity Board (CEGB), l’EDF britannico, in una serie di entità private e competitive ha modernizzato un settore che era diventato uno dei più inefficienti d’Europa, afflitto da frequenti e opportunistici interventi politici nelle scelte economiche, soprattutto burocratiche. La privatizzazione di queste società, in concorrenza tra loro e sotto il controllo di un regolatore indipendente dalla politica, è stata finalmente il mezzo con cui il governo conservatore si è mosso verso la proprietà popolare.

A seguito dell’Atto Unico Europeo del 1986, l’Europa ha ripreso queste idee all’inizio degli anni ’90 e le ha attuate dal 1996 al 2000 in modo sistematico e dogmatico, senza alcuna seria analisi delle opportunità economiche e del rapporto costi-benefici. I tedeschi, inizialmente contrari a questa idea, l’hanno adottata a metà degli anni ’90 per modernizzare l’organizzazione delle loro grandi aziende elettriche, allora conglomerati che combinavano la produzione e le reti elettriche con numerose altre attività industriali (come Veba, Viag e RWE).

La Francia, come altri Paesi europei, non aveva motivo di andare in questa direzione e sarebbe stato possibile sviluppare un mercato europeo dell’elettricità all’ingrosso con un coordinamento efficace dello sviluppo e del funzionamento delle grandi reti di interconnessione, nella continuità della forte cooperazione storica tra gli elettricisti in Europa, lasciando ai diversi Paesi la possibilità di avere sistemi a livello nazionale basati su diverse regole del gioco e forme di concorrenza come negli Stati Uniti. I dibattiti di questo periodo (1990-2005) illustrano già la progressiva mancanza di capacità in termini di previsioni energetiche a lungo termine, sia a livello della Commissione Europea che in Francia e Germania. Il ragionamento proposto si basava essenzialmente sulla minore prevalenza dei “fallimenti del mercato” già menzionati, grazie a una rete interconnessa molto potente (più della rete interstatale americana) grazie all’ottima cooperazione storica tra gli elettricisti europei, e anche grazie alla relativa sovraccapacità dei mezzi di produzione durante questo periodo e, Infine, pensando a un’unica tecnologia di produzione “miracolosa” per i decenni a venire, con le CCGT a gas, che non sono ad alta intensità di capitale, possono essere costruite più facilmente in prossimità delle reti di trasporto esistenti e con costi pieni derivanti per più di due terzi o tre quarti dal solo combustibile.

In un contesto in cui il gas beneficiava di prezzi a bassa volatilità e di una situazione geopolitica sicura, la maggior parte degli economisti dell’energia, dei funzionari pubblici e dei politici pensava di aver trovato la risposta giusta, dimenticando i rischi geopolitici, le sfide climatiche e la necessità di aprire lo spettro dei possibili scenari e tecnologie a mezzi di produzione decarbonizzati come le fonti rinnovabili e il nucleare. Un approccio prospettico meno miope e più aperto avrebbe portato a prendere in considerazione il possibile dispiegamento di mezzi ad alta intensità di capitale che, per le rinnovabili in particolare, richiedono importanti sviluppi delle reti, caratteristiche che rendono le scelte di investimento a lungo termine difficilmente conciliabili con forme di concorrenza come l’accesso di terzi alle reti. Poiché occorrono circa quindici anni per attuare una tale evoluzione istituzionale, l’accesso di terzi alle reti sarà attivo solo dal 2005-2010 ed effettivo nell’ultimo decennio, cioè proprio quando tutte le premesse degli anni Novanta e Duemila si stanno rivelando superate, con il primo pacchetto clima europeo del 2008 che favorirà le energie decarbonizzate, in via prioritaria e forse solo le rinnovabili, e i prezzi del gas sempre più imprevedibili e soggetti a shock geopolitici. In pratica, a partire dal 2010 in Europa non si decideranno più nuovi investimenti sulla base dei prezzi di mercato; al contrario, quasi tutti, che si tratti di impianti di produzione o di reti, dovranno essere realizzati su iniziativa della “mano visibile” dei regolatori e/o delle autorità pubbliche.

Una Francia “post-industriale” che dimentica i suoi interessi a lungo termine?

Invece di difendere i suoi interessi a lungo termine e i suoi vantaggi comparativi, la Francia seguirà con zelo questo movimento europeo. Un numero crescente di élite, nei circoli accademici, politici e amministrativi, ha preso le distanze dal progetto di prosperità e sovranità basato sulla scienza e sull’industria e sul sostegno di uno Stato attivo e competente in questi campi.

Questo lento cambiamento di mentalità è più marcato nel nostro Paese che in altri in Europa. Siamo passati da un liberalismo ereditato dalla Rivoluzione francese e ancora dominante sotto la Terza Repubblica a uno Stato che è un attore economico, come incarnato dallo Stato bonapartista, dallo Stato pianificatore della Quarta Repubblica e poi dallo Stato gollista e pompidoliano, che ha avviato la grande politica industriale condotta dal 1958 al 1974. Questo Stato deve molto alla modestia e all’apertura mentale di molti alti funzionari e funzionari pubblici degli anni Cinquanta e Sessanta, le cui esperienze personali erano spesso segnate dalla tragedia della storia e dalle sue incertezze. Tuttavia, a partire dal 1975-1980, parte di questa alta funzione pubblica è stata sostituita da una tecnocrazia meno efficace perché troppo sicura di sé e troppo fiduciosa nel futuro. Abbiamo quindi assistito a un graduale disimpegno dello Stato nei discorsi e nelle mentalità e a una frammentazione delle iniziative e delle responsabilità all’interno della sfera pubblica. Questo apparente disimpegno dello Stato nel discorso è, in un certo senso, paradossale perché, in realtà, si assiste a un’inflazione di norme spesso incoerenti e a un significativo rafforzamento dell’apparato amministrativo che, allo stesso tempo, risulta impoverito in termini di visione d’insieme e di capacità operative. Ciò è particolarmente vero per alcune grandi direzioni settoriali incaricate di servizi pubblici con una dimensione scientifica e industriale, come l’energia, l’ambiente, la sanità, l’edilizia e i trasporti.

Anche il tenore di vita e l’istruzione sono aumentati in modo significativo durante i Trente Glorieuses e gli individui ora aspirano legittimamente a un maggiore benessere e a un maggiore tempo libero. Per molti intellettuali, il futuro appartiene alla società “post-industriale”, con meno tempo di lavoro, meno industria e più servizi (senza distinguere abbastanza tra i servizi a valore aggiunto, spesso legati alle attività industriali, e gli altri): padroneggiare la ricerca e lo sviluppo, il marketing e le vendite è sufficiente, e le fabbriche e l’inquinamento associato (visto soprattutto come locale) possono essere lasciati nei Paesi emergenti. Negli anni ’90 si è verificata una paradossale e parziale convergenza tra le idee ecologiste, che allora si occupavano principalmente della protezione dell’ambiente locale e non di questioni globali, e il movimento neoliberista, che promuoveva la globalizzazione e i mercati europei. Per dare un’immagine, i cicli combinati a gas russo, che rispondevano alle preoccupazioni dei promotori della concorrenza, sono stati impiegati nello stesso momento in cui si sono moltiplicati i sussidi ai pannelli fotovoltaici, importati prima dalla Germania e poi dalla Cina, per soddisfare le preoccupazioni degli ecologisti.

La Francia ha così declinato con zelo le dottrine in vigore in Europa, con il risultato che

una frammentazione dello Stato e la mancanza di un luogo di sintesi e di coerenza delle politiche pubbliche, legata all’applicazione della “teoria dei giuristi” che propugna la creazione di un’agenzia indipendente (o di un ente pubblico) per ogni obiettivo specifico (concorrenza, regolazione delle reti, risparmio energetico…) e spesso fonte, in particolare in Francia, di una legislazione secondaria particolarmente complessa e abbondante;
una frammentazione delle attività operative del settore elettrico, con riferimento alla teoria della deregolamentazione (e dell’accesso di terzi alle reti) che sostiene la separazione contabile e giuridica delle attività di produzione, rete e servizio al cliente. Non esiste quindi più un vero e proprio luogo di sintesi con tutte le competenze e la legittimità per garantire la responsabilità degli equilibri domanda-offerta nel lungo periodo e le performance industriali e operative del settore elettrico nel suo complesso;
competenze scientifiche di alto livello che non sono molto richieste e competenze industriali operative che quasi non esistono all’interno dello Stato, che dimentica le sfide del controllo industriale ed esternalizza queste funzioni al settore privato.
Un discorso sui mercati dell’elettricità che maschera la realtà di un settore iper-regolamentato e di un’economia dei sussidi

Lo Stato ha così perso una parte significativa della sua lungimiranza sistemica e delle sue coerenti capacità di elaborazione delle politiche pubbliche, nonché delle sue capacità di attuazione industriale nel settore energetico. Ma la realtà è ostinata: le reti elettriche sono un monopolio naturale e le tecnologie sofisticate, ad alta intensità di capitale e prive di CO2, non nascono e crescono da sole. Le autorità pubbliche europee e francesi hanno quindi dovuto intervenire direttamente e permanentemente nel funzionamento dei mercati.

In effetti, il mercato europeo dell’elettricità è microgestito da burocrazie europee e nazionali, con una miriade di regolamenti, e questa economia iperamministrata è dominata dai sussidi pubblici: la maggior parte degli investimenti nella generazione e nella rete negli ultimi decenni non sono stati decisi e remunerati dai prezzi del mercato dell’elettricità, ma da sussidi e/o gare d’appalto sotto l’autorità delle autorità pubbliche. Il codice di rete, che stabilisce le regole di funzionamento delle reti per i loro utenti, è lungo migliaia di pagine.

Non si tratta di stabilire se le autorità pubbliche possano svolgere un ruolo chiave nel settore dell’elettricità, perché questo avviene ovunque nel mondo, anche in Europa, dove alcuni Paesi sono stati in grado di far leva su Bruxelles per portare avanti i propri interessi con il pretesto della “concorrenza”: Il Regno Unito, ad esempio, è riuscito a far passare il suo modello di accesso di terzi alle reti negli anni ’90 e poi, dopo aver ripensato la regolamentazione del suo sistema elettrico per promuovere le energie rinnovabili e l’energia nucleare, è riuscito a far approvare gli aiuti di Stato alle centrali nucleari prima della Brexit; Allo stesso modo, i tedeschi hanno approvato i loro obiettivi di sostegno alle energie rinnovabili negli anni 2000 per compensare il loro ritiro dal nucleare, mantenere la loro strategia carbone-gas e sostenere le loro industrie eoliche e fotovoltaiche emergenti, prima che i cinesi arrivassero nel 2010 attraverso la delocalizzazione. La questione non è quindi se lo Stato debba svolgere un ruolo importante, ma come possa esercitare le proprie responsabilità in modo efficace e coerente nel tempo, permettendo alle iniziative pubbliche, locali e private di fare l’essenziale21.

Lo sviluppo della diagnosi richiede quindi lavoro e discernimento per trovare il significato delle parole. Occorre individuare sia le inefficienze legate a mercati a breve termine non adeguati, sia le inefficienze legate a normative invasive e incoerenti; occorre riformare sistemi ibridi con quelli che gli economisti chiamano “fallimenti del mercato e del governo”. La qualità del sistema francese e la sua solidità gli hanno permesso di resistere. Abbiamo dovuto aspettare la crisi di Covid-19 e il conflitto Russia-Ucraina per misurare le incongruenze delle regole del gioco e la loro fragilità di fronte ai rischi economici, industriali e geopolitici. Al di là della dipendenza dal gas russo, i contratti di acquisto di gas a lungo termine non indicizzati al prezzo spot sono praticamente scomparsi in Europa sotto l’azione costante della Commissione europea. Non è così in Giappone o in Cina, che li hanno mantenuti. Di conseguenza, i prezzi del gas in Europa sono determinati dal mercato a breve termine per quasi tutti i volumi scambiati. L’Europa sta quindi subendo tutto il peso del vertiginoso aumento dei prezzi del gas, moltiplicato per un fattore compreso tra 5 e 10 tra il giugno 2021 e l’ottobre 2022 (in primo luogo a causa della ripresa economica con la diminuzione dell’impatto della pandemia, e poi soprattutto a causa della guerra condotta dalla Russia in Ucraina), che si trasmette meccanicamente al prezzo all’ingrosso dell’elettricità, in particolare a causa dell’ampia quota di centrali a gas nel mix europeo degli ultimi anni.

Possiamo anche citare gli errori di valutazione relativi alle previsioni di equilibrio tra domanda e offerta e la necessità di mantenere i margini di potenza a fronte di scenari di domanda più elevati del previsto, e la possibilità di rischi sfavorevoli in termini di condizioni idriche, vento, o rischi sulla manutenzione delle centrali nucleari. Queste sono le basi dell’attività nel funzionamento sicuro di un sistema elettrico complesso. Non avremmo dovuto smantellare alcune vecchie centrali termiche negli ultimi anni e tenerle in riserva (cosa che è stata proposta e scelta da altri Paesi come la Germania). Avremmo dovuto mantenere anche le due unità nucleari della centrale di Fessenheim, che avevano ottenuto l’autorizzazione dell’ASN a prolungare la loro durata di vita. Anche in questo caso, la decisione è stata presa contro il parere degli esperti che qualche anno fa avevano chiaramente spiegato che era meglio mantenere i margini di potenza nel nucleare in caso di rischi generici che colpissero le unità più recenti.

È quindi giunto il momento di condividere una diagnosi lucida e precisa dei nostri fallimenti e delle nostre debolezze, e di cambiare il nostro “software” sul ruolo dello Stato in settori come quello elettrico.

3
Riconoscere il ruolo dello Stato nel settore dell’energia e dell’elettricità

Il primo passo consiste nel condividere un’analisi economica che faccia luce sul ruolo “misurato e determinato” dello Stato, per uscire dalla dottrina degli ultimi trent’anni. Negli ultimi tre decenni, la Francia ha visto la quota dell’industria sul PIL ridursi a circa il 12%, mentre la Germania è ormai quasi al doppio (23%). La consapevolezza del problema è iniziata alla fine degli anni Duemila e sono state gradualmente messe in atto misure per migliorare la competitività delle imprese industriali francesi, con i cluster di competitività, le riforme della formazione professionale e del codice del lavoro, la riduzione delle imposte sulla produzione, le misure per favorire la nascita di start-up e la loro trasformazione in imprese di dimensioni intermedie (ETI) nei settori del futuro con i Programmi di Investimento Futuro, la Banca Pubblica di Investimento (BPI), i piani France Relance e France 2030.

Queste misure globali sulla tassazione delle imprese, sulla ricerca, sulla formazione, sul sostegno alle imprese nelle regioni e sulla loro crescita sono utili e devono essere adeguate e rafforzate. Ma non affrontano i punti chiave specifici relativi a settori di sovranità e/o servizi pubblici come la difesa, lo spazio, la sanità, i trasporti, l’energia o l’elettricità. Sebbene la difesa e lo spazio abbiano in gran parte conservato l’organizzazione e le competenze stabilite negli anni 1945-1975 all’interno dello Stato, che può assumersi le sue responsabilità di grande cliente del tessuto industriale, in particolare con la Direction générale de l’armement (DGA), il Centre national d’études spatiales (Cnes) e l’Office national d’études et de recherches aérospatiales (Onera), la situazione è diversa per la maggior parte degli altri settori chiave per il potere economico del Paese e per la vita dei suoi cittadini, in particolare il settore elettrico. Quest’ultimo presenta, come abbiamo accennato, tre tipi di “fallimenti del mercato” legati alla gestione dei beni comuni e delle esternalità che richiedono l’azione della “mano visibile” delle autorità pubbliche per integrare la “mano invisibile” dei mercati:

le infrastrutture di rete pubbliche (monopoli naturali), la garanzia degli equilibri domanda-offerta del sistema produzione-rete-uso in ogni momento e su diversi orizzonti temporali;
esternalità ambientali (emissioni di CO2, rifiuti e inquinamento locale, sicurezza);
esternalità “industriali”, soprattutto per le fasi che precedono la diffusione di massa, da un lato tra laboratori, ricerca e fabbriche, per l’innovazione; dall’altro, tra ambiti industriali complementari ma distanti, che contribuiscono all'”ecosistema industriale” del settore (dimensione dei “sistemi tecnici” e “anelli strategici” della catena del valore).
In questo contesto, dobbiamo reinventare uno Stato strategico modesto ed efficiente, con un ruolo “misurato e determinato”, come avrebbero detto i filosofi greci. L’obiettivo non è quello di sostituirsi alle imprese e al mercato, né di imbrigliarli in una ragnatela di norme burocratiche elaborate unicamente dallo Stato centralizzato, ma al contrario di liberare le iniziative private o quelle degli enti locali reinserendole in una solida visione lungimirante e strategica, e garantendo la coerenza e l’efficacia delle politiche pubbliche, il controllo industriale e la resilienza delle infrastrutture pubbliche. Lo Stato ha a disposizione molteplici strumenti senza bisogno di mobilitare finanziamenti eccessivi, dagli appalti pubblici con le loro clausole ambientali, locali o tecniche, alla tassazione e alle tariffe doganali. L’utilizzo di questi strumenti deve essere preceduto da una chiara gerarchia di scopi e obiettivi e dalla definizione da parte delle autorità pubbliche di una visione a lungo termine del mix elettrico e del fabbisogno di reti e mezzi di produzione, basata su una previsione credibile e aperta alle incertezze. Il semplice allineamento e la garanzia di qualità di tutti questi strumenti costituirebbe già una leva considerevole e permetterebbe senza dubbio di eliminare una parte significativa dei sussidi inefficienti (che ammontano a miliardi di euro). Le risorse tratte dalla storia dell’elettricità e del nucleare in Francia, così come i pochi esempi stranieri che abbiamo citato (Cina, Stati Uniti) potrebbero contribuire a questa reinvenzione.

Il coordinamento con la politica energetica europea e con le strategie energetiche dei nostri principali partner – la Germania, ovviamente, ma anche l’Italia, la Spagna, il Belgio, i Paesi Bassi, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Finlandia, la Svezia, eccetera – è ovviamente una questione importante e una difficoltà, ma non è un ostacolo insormontabile se le autorità pubbliche hanno una visione chiara, razionale e sostenibile degli interessi a lungo termine del Paese e una comprensione degli obiettivi e degli interessi dei nostri partner. Le complementarietà potrebbero essere più forti delle opposizioni, a condizione che i francesi siano più presenti a Bruxelles al giusto livello di rappresentanza, con dossier elaborati sulla base di argomentazioni economiche, tecniche e giuridiche molto più solide, come hanno fatto i britannici e i tedeschi negli ultimi anni.

Infine, dobbiamo trovare il modo di rendere lo Stato meglio organizzato e più efficiente, sulla base di tre semplici idee riguardanti l’organizzazione, lo spirito operativo e la scelta di uomini e donne:

– un centro di sintesi incaricato di elaborare previsioni energetiche che articolino le dimensioni tecnologiche, industriali e geopolitiche, e di proporre tabelle di marcia strategiche credibili e solide di fronte alle incertezze;

– una sfera pubblica meno frammentata per rafforzare la coerenza delle politiche pubbliche e degli investimenti industriali, per rendere gli enti e gli attori pubblici responsabili delle aree rilevanti. Ciò consentirebbe di riscoprire la cultura dell’innovazione, dell’assunzione di rischi e della responsabilità del “sistema”, affidandosi anche alle istituzioni per il confronto dei punti di vista, consentendo l’implementazione di soluzioni rapide e semplici e soprattutto basate su solide argomentazioni tecniche e scientifiche;

– competenze industriali e scientifiche al centro dello Stato, mobilitate a partire dallo sviluppo di visioni a lungo termine fino all’assegnazione dei finanziamenti. Dovrebbero garantire che nessuna decisione strategica venga presa senza esplicitare le condizioni per il successo industriale nell’attuazione (in termini di efficienza economica e sovranità).

Per il ritorno di uno Stato strategico ed educativo nell’energia
1) Uno Stato strategico che responsabilizzi gli attori e liberi le iniziative private e pubbliche locali nell’interesse generale.

a) Tre obiettivi strettamente legati alla garanzia:

energia a prezzi accessibili per lo sviluppo economico e sociale ;
sicurezza dell’approvvigionamento e autonomia strategica (sovranità)
il rispetto degli ecosistemi e del pianeta Terra (clima, biodiversità, ambiente locale).
b) In vista di questi tre obiettivi, lo Stato strategico dovrebbe

elaborare una previsione energetica e determinare il mix energetico ed elettrico di lungo periodo, tenendo conto delle incertezze geopolitiche, tecnologiche, economiche, sociali e ambientali
stabilire le regole del gioco che consentano la coerenza e l’efficienza degli investimenti a lungo termine e incanalare i finanziamenti verso le scelte energetiche e industriali del Paese;
garantire un controllo industriale di lungo periodo (il punto centrale di questo documento).
Queste tre dimensioni sono essenziali per raggiungere i primi due obiettivi, e ancora più necessarie in vista delle sfide legate alle emissioni di CO2.

c) Mettere la finanza al servizio dell’industria e dell’economia:

Grazie a regole del gioco efficienti e coerenti, delegare la responsabilità degli equilibri domanda-offerta e dei volumi di investimento a un pilota operativo pubblico con competenze industriali, in particolare nei “sistemi elettrici” (centrali elettriche-reti-dispacciamento-utilizzi) (e non a un’agenzia burocratica con scarse competenze e nessuna responsabilità nei confronti del pubblico);
attraverso opportune regole del gioco, facilitare l’accesso ai finanziamenti per gli investimenti a lungo termine in termini economici e industriali (i premi per il rischio dovrebbero essere moderati e i finanziamenti dovrebbero essere molto meno difficili da trovare di quanto non lo fossero sotto la Quarta Repubblica e all’inizio della Quinta Repubblica).
d) Stabilire ruoli equilibrati tra l’Unione europea, gli Stati membri e le autorità locali:

Un’Europa rifocalizzata sui suoi reali “vantaggi comparativi” con una significativa sussidiarietà a favore degli Stati (si veda in particolare l’esempio degli Stati Uniti) [1].
Autorità locali che prendono l’iniziativa nel quadro di regole del gioco chiare e finanziariamente responsabili e orientate agli obiettivi di mix energetico del Paese, responsabili della pianificazione energetica locale per quanto riguarda la scelta dell’uso del suolo (in particolare per l’energia a bassa densità) in base ai loro progetti territoriali.
2) Uno Stato che insegna per un’effettiva “democrazia tecnica” al servizio dei cittadini dovrebbe :

affermare il proprio ruolo centrale nella ricerca scientifica e tecnica, nonché nella promozione dei legami tra industria e artigianato e tra scienza e laboratori [2] ;
garantire la formazione scientifica e tecnica e la diffusione delle conoscenze sui rischi per la salute e l’ambiente;
dotarsi di griglie di analisi economiche e prospettiche, in particolare tecnologiche;
promuovere l’invenzione di un’effettiva “democrazia tecnica”, in particolare promuovendo competenze scientifiche e industriali multidisciplinari al servizio dei cittadini e dei politici, e garantire una chiara distinzione tra il livello logico della consultazione tra le parti interessate e i gruppi di interesse e il livello logico del lavoro collettivo di queste competenze scientifiche e industriali apartitiche e “disinteressate” (lo spirito scientifico e l’epocalità al servizio dell’interesse generale) [3].
[1] Cfr. Jean-Paul Bouttes, “Quelle politique de l’énergie pour assurer la compétitivité de notre économie, réduire notre dépendance extérieure et protéger l’environnement”, in Michel Pébereau (a cura di), Réformes et transformations, PUF, 2018, pp. 235-279.

[2] Si veda Joël Mokyr, La Culture de la croissance. Les origines de l’économie moderne, Gallimard, 2017, e François Caron, La Dynamique de l’innovation. Cambiamento tecnico e cambiamento sociale (XVIe-XXe siècle), Gallimard, 2017.

[3] Si veda Jean-Paul Bouttes, Les Déchets nucléaires: une approche globale (4). La gestion des déchets: rôle et compétence de l’État en démocratie, Fondation pour l’innovation politique, gennaio 2022.

Conclusione

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-4
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Note
22. Le modalità comuni sono le correlazioni tra vento, sole e temperatura e la domanda nei diversi Paesi europei, ad esempio l’assenza di vento durante una settimana invernale fredda nella maggior parte dell’Europa.
23. Si veda Jacques Le Goff, Un long Moyen Âge, Fayard, 2004, e Joël Chandelier, L’Occident Médiéval. D’Alaric à Léonard, 400-1450, Belin, coll. “Mondes anciens”, 2021.
24. Cfr. Rémi Brague, Europe, la voie romaine [1992], Gallimard, collezione “Folio essais”, 1999.
Con la transizione energetica dei prossimi tre decenni, l’elettricità diventerà il principale vettore energetico decarbonizzato delle nostre economie. La sicurezza dell’approvvigionamento elettrico e il suo livello di prezzo per le famiglie e le imprese saranno questioni importanti per le nostre società, in futuro ancora più di oggi. Date le caratteristiche specifiche e l’importanza di queste sfide, è essenziale poter contare su uno Stato strategico ed efficiente, in particolare per proporre e condividere una visione lungimirante e sistemica del mix elettrico a lungo termine, per garantire le condizioni di controllo industriale e per determinare il quadro istituzionale e le regole del gioco per coordinare le iniziative degli attori privati e pubblici. Le autorità pubbliche cinesi e americane sono chiaramente e direttamente coinvolte in questi temi, riunendo le competenze necessarie in questo spirito e hanno messo in atto, ognuna a modo suo e con il proprio genio, gli elementi costitutivi che consentono di preparare il futuro delle tecnologie chiave. La Francia, come l’Europa, ha seguito un percorso diverso. Un tempo modello di successo nel settore elettrico, negli ultimi anni ha visto peggiorare le sue prestazioni e il suo tessuto industriale ha faticato in alcuni dei settori più importanti per il futuro, come il fotovoltaico e il nucleare. Questo diverso percorso, a favore dei mercati a breve termine e di un apparente ritiro dello Stato, è stato intrapreso dai decisori in modo deliberato ed esplicito. Si può cambiare solo se la diagnosi collettiva degli errori degli ultimi decenni e le strategie auspicabili per uscirne oggi sono condotte con rigore e determinazione. Non basta usare nei discorsi le parole o le espressioni “pianificazione”, “industria” o “lungo termine”, dopo due o tre decenni di oblio collettivo del loro significato concreto. Occuparsi degli equilibri tra domanda e offerta di energia elettrica significa lavorare sulla considerazione precisa dell’intermittenza, dei modelli di insolazione e di vento a lungo termine e delle loro modalità comuni22 nello spazio europeo. Ciò implica anche una precisa comprensione dei vincoli delle leggi dell’elettricità in tempo reale, del ruolo delle macchine rotanti nell’inerzia del sistema e del vero stato dell’arte dell’elettronica di potenza e del software di controllo. Ciò implica ancora la considerazione di uno spettro sufficientemente ampio di scenari relativi alla domanda, alle tecnologie e alle incertezze associate per avere un sistema resiliente, con i necessari margini di riserva. Infine, la padronanza industriale delle tecnologie future presuppone, come abbiamo visto, una visione affidabile a lungo termine dei temi e delle tecnologie in cui i politici vogliono che il Paese investa, e la mobilitazione di reali competenze industriali al servizio di questa visione.

Dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere oggi la nostra debolezza in tutti questi settori per darci una reale possibilità domani di invertire la tendenza e raccogliere queste sfide. Forse abbiamo abbandonato troppo in fretta, negli anni ’90, lo spirito di previsione abitato dalle incertezze, dalla tragedia della storia e dall’importanza della volontà e dell’impegno degli attori, a favore di una visione troppo semplice delle tecnologie del futuro e del funzionamento dei mercati internazionali ed europei. Occorre riscoprire una previsione modesta e lucida sulla fragilità delle società e che si basi, per l’azione, sulla conoscenza sia dei sistemi tecnici specifici sia dei dati culturali, sociali e territoriali. Previsione aperta alle grandi incertezze e alle determinanti geopolitiche, culturali ed ecologiche di lungo periodo, e “lavoro duro” sulle condizioni di successo delle strategie (industriali e tecnologiche, regole del gioco e politiche pubbliche): sono queste le due dimensioni che ci sono sembrate animare il lavoro collettivo al servizio della politica e dello Stato in Francia tra il 1945 e il 1975. Queste due dimensioni potrebbero ispirarci ancora oggi e permetterci di ricostruire uno Stato strategico competente e attivo, capace di liberare le iniziative private e locali.

Nella storia dell’Europa, le tre rinascite del “lungo Medioevo” descritte dallo storico Jacques Le Goff23 – la rinascita carolingia, la rinascita del XII secolo e la rinascita del XV-XVI secolo – sono state preparate in periodi difficili e sono state pensate con modestia e speranza in riferimento a culture del passato vissute come modelli, come simboleggia questa frase attribuita a Bernardo di Chartres nel XII secolo e così spesso ripetuta per tutto il Medioevo fino all’inizio dell’era moderna: “Siamo nani sulle spalle di giganti. “. È questa, per certi versi, anche la suggestiva tesi del filosofo Rémi Brague della “via romana” dell’Europa24 , il cui dinamismo deriverebbe da una modestia ereditata da Roma e dal cristianesimo di fronte ai riferimenti eterni e ideali di una doppia alterità, Atene e Gerusalemme, la civiltà e la lingua greca da un lato, e la civiltà e la lingua ebraica dall’altro. Dovrebbe anche essere un invito ad affidarsi sempre più senza riserve alle risorse della nostra storia recente e più lunga, così come a quelle di altre grandi regioni del mondo, per raccogliere la sfida della transizione energetica e inventare la nostra “via francese ed europea”.

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La rete di influenza pianificata da Lula con i democratici statunitensi servirà gli interessi liberali-globalisti, di ANDREW KORYBKO

La rete di influenza pianificata da Lula con i democratici statunitensi servirà gli interessi liberali-globalisti

ANDREW KORYBKO
14 APR 2023

Lo scopo di questa rete incipiente è presumibilmente quello di sostenere le cosiddette cause “progressiste”, che è un eufemismo per quelle liberal-globaliste che il Partito dei Lavoratori e i Democratici statunitensi, recentemente “svegliati”, condividono. A giudicare dai precedenti di questi ultimi, ciò comporterà probabilmente la propagazione aggressiva di orientamenti sessuali non tradizionali su tutti i membri della società (compresi i bambini), la demonizzazione dei loro avversari politici come “fascisti”, la secolarizzazione forzata della società, la neo-segregazione e le frontiere aperte, ecc.

L’ultima narrativa di disinformazione sul ruolo di Lula negli affari globali

Il presidente brasiliano Lula viene elogiato da tutta la comunità Alt-Media (AMC) per i suoi piani di multipolarità finanziaria con la Cina, dopo aver recentemente accettato di de-dollarizzare il loro commercio e aver criticato aspramente tale valuta durante il suo viaggio nella Repubblica Popolare. Questi sviluppi vengono presentati come una presunta prova della sua opposizione agli Stati Uniti, ma si tratta di un’affermazione controfattuale, come dimostra il suo allineamento politico con gli Stati Uniti contro la Russia nel conflitto geostrategicamente più significativo dalla Seconda Guerra Mondiale.

L’allineamento politico di Lula con gli Stati Uniti contro la Russia per l’Ucraina

Lula ha condannato la Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden, dopo di che ha ordinato al Brasile di sostenere una risoluzione antirussa dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ha poi chiamato Zelensky per riaffermare il suo sostegno all'”integrità territoriale” dell’Ucraina, secondo le richieste stabilite nella risoluzione precedente, affinché la Russia si ritiri completamente e immediatamente da tutti i territori che Kiev rivendica come propri. Inoltre, Lula è ancora indeciso se deportare una presunta spia in Russia o estradarla negli Stati Uniti per affrontare le accuse.

Per saperne di più sugli eventi citati, si vedano le seguenti analisi:

* “Lula ha siglato il suo accordo con il diavolo condannando la Russia durante l’incontro con Biden”.

* “Lula ha appena pugnalato alle spalle Putin ordinando al Brasile di votare contro la Russia alle Nazioni Unite”.

* “La rabbia della Russia per l’ultima risoluzione dell’ONU dimostra che Lula ha sbagliato a sostenerla”.

* Lula ha chiarito nella telefonata con Zelensky di essere contrario all’operazione speciale della Russia”.

* Lula deporterà una sospetta spia in Russia o la estraderà negli Stati Uniti per far fronte alle accuse?

Ovviamente queste non sono le politiche di una persona che si suppone sia contraria agli Stati Uniti.

La superficialità della retorica apparentemente “amica della Russia” di Lula

Tuttavia, Lula ha anche lanciato un paio di colpi di scena per quanto riguarda il suo approccio alla Russia, ordinando al Brasile di votare a favore dell’indagine sull’attacco al Nord Stream al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si è poi rifiutato di far firmare al suo Paese la “Dichiarazione del Vertice per la Democrazia” con pretesti presumibilmente favorevoli alla Russia. Nello stesso periodo, Lula ha inviato il suo principale consigliere di politica estera a Mosca per colloqui non riportati, al termine dei quali ha suggerito che forse la Russia potrebbe mantenere il controllo della Crimea se si ritirasse da altre regioni.

Nulla di tutto ciò, tuttavia, era come sembrava, come è stato ampiamente spiegato in queste analisi:

* “Il sostegno del Brasile alle indagini sull’attacco al Nord Stream non significa che Lula sia filorusso”.

* “La dichiarazione di Lula sul “Vertice per la democrazia” è uno spettacolo di pubbliche relazioni”.

* “L’incontro tra il principale consigliere di politica estera di Lula e il presidente Putin è stato molto importante”.

* Non fatevi ingannare dalle ultime dichiarazioni di Lula sulla guerra per procura tra NATO e Russia”.

Come si può vedere, questi avvenimenti sono stati solo inventati dai suoi sostenitori per distogliere l’attenzione dalla sua visione del mondo allineata agli Stati Uniti.

Fare luce sull’abbraccio di Lula alla visione liberale-globalista del mondo

Stanno conducendo una guerra ibrida guidata dalla disinformazione per coprire questa realtà “politicamente scomoda”, che ritengono lo screditi agli occhi della sua base e dell’AMC. Certo, i suoi piani di de-dollarizzazione con la Cina dimostrano che Lula conserva ancora una certa autonomia strategica nei confronti degli Stati Uniti, ma condivide comunque la visione del mondo liberal-globalista dei Democratici al governo, che è in contrasto con quella della Russia. Il leader brasiliano è stato anche entusiasticamente appoggiato dal famigerato finanziatore della Rivoluzione Colorata George Soros.

Questo complesso stato di cose è spiegato in questi articoli, che spiegano anche i suoi stretti legami con la Cina:

* “La reazione di Biden alle ultime elezioni in Brasile dimostra che gli Stati Uniti preferiscono Lula a Bolsonaro”.

* Korybko a Sputnik Brasil: Il Partito dei Lavoratori è infiltrato dai liberali-globalisti pro-USA”.

* Korybko a Sputnik Brasile: Gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo decisivo nell’incidente dell’8 gennaio”.

* “La visione multipolare ricalibrata di Lula lo rende compatibile con i grandi interessi strategici degli Stati Uniti”.

* “Il forte sostegno di Soros a Lula scredita le credenziali multipolari del leader brasiliano”.

* L’ultima guerra ibrida contro il Brasile è condotta da forze dichiaratamente pro-Lula”.

* “La de-dollarizzazione del commercio brasiliano-cinese getta ulteriore luce sulla grande strategia di Lula”.

* “La de-ideologizzazione delle relazioni della Russia con l’America Latina merita la massima attenzione”.

Coloro che sfoglieranno almeno le analisi fin qui citate avranno una migliore comprensione del contesto più ampio.

La convergenza tra Lula, i democratici statunitensi, Soros e la CIA

È in questo contesto che Alexander Burns, redattore associato di Politico per gli affari globali, ha pubblicato giovedì il suo esclusivo rapporto bomba. Intitolato “Il piano di Lula: A Global Battle Against Trumpism”, cita alcuni dei democratici statunitensi che hanno incontrato Lula durante il suo viaggio a Washington all’inizio di febbraio per informare il suo pubblico dei piani del leader brasiliano di lanciare una rete di influenza globale in collaborazione con quel partito politico.

Lo scopo è presumibilmente quello di sostenere le cosiddette cause “progressiste”, che è un eufemismo per quelle liberal-globaliste che il Partito dei Lavoratori (PT), recentemente “risvegliato”, e i Democratici statunitensi condividono. A giudicare dai precedenti di questi ultimi, ciò comporterà probabilmente la propagazione aggressiva di orientamenti sessuali non tradizionali a tutti i membri della società (compresi i bambini), la demonizzazione dei loro avversari politici come “fascisti”, la secolarizzazione forzata della società, la neo-segregazione e le frontiere aperte, ecc.

Inoltre, considerando l’entusiastico appoggio di Soros a Lula e la relazione simbiotica tra la CIA e i democratici statunitensi, si dovrebbe dare per scontato che anche la rete di “ONG” del primo e quella di intelligence del secondo giocheranno un ruolo importante in questa incipiente rete di influenza globale. Il vero scopo di questa piattaforma è quello di contrastare con forza la rapida proliferazione di tendenze conservatrici e sovraniste multipolari che rappresentano una minaccia per il liberal-globalismo di Lula e dei Democratici statunitensi.

Spiegazione dello scopo strategico di questa incipiente piattaforma di influenza globale

Spacciata per “trumpismo”, questa visione del mondo piace alla maggioranza della popolazione globale. Le sue ragionevoli restrizioni alle politiche socioculturali radicali, come la propagazione aggressiva di orientamenti sessuali non tradizionali (conservatorismo) e il sostegno al diritto di ogni Stato di gestire i propri affari come vuole (sovranismo) in un ordine internazionale più equo (multipolarismo) risuonano profondamente con loro. Se non controllata, questa tendenza potrebbe infliggere un colpo mortale al liberal-globalismo e consegnarlo alla pattumiera della storia.

Di conseguenza, Lula e i democratici statunitensi hanno un urgente impulso a lanciare la loro rete di influenza globale, secondo quanto riferito, nel disperato tentativo di contrastare questa crescente sfida alla loro ideologia, che potrebbe portare alla deposizione democratica di entrambi durante le prossime elezioni se non viene fermata. Per quanto riguarda la CIA, essa valuta che i rivali degli Stati Uniti sfrutteranno questa tendenza per accelerare il declino della loro egemonia unipolare, ergo il suo naturale interesse a sostenere i piani ideologici di questi due.

Inoltre, la convergenza tra il nuovo PT e i democratici statunitensi fa avanzare l’agenda di lunga data di questa agenzia di spionaggio, che mira a creare una cosiddetta “sinistra compatibile”, che considera una risorsa importante per rafforzare l’egemonia degli Stati Uniti nella sua attuale “sfera di influenza” e per espanderla ulteriormente. Soros condivide la stessa agenda e quindi probabilmente si affiderà al finanziamento di movimenti affini, compresi quelli della Rivoluzione Colorata che destabilizzeranno le società conservatrici-sovraniste multipolari.

Le grandi strategie complementari di Brasile e Stati Uniti nella nuova guerra fredda

Questo approfondimento aggiunge un contesto cruciale all’esclusiva notizia bomba di Politico sull’alleanza ideologico-politica di Lula con i democratici statunitensi, che a sua volta getta ulteriore luce sulla crescente convergenza strategica tra Brasile e Stati Uniti, nonostante le loro divergenze su questioni delicate come il futuro del sistema finanziario globale. Come spiegato nell’analisi precedentemente citata relativa ai suoi piani di de-dollarizzazione, egli prevede che il suo Paese si “bilanci” (per quanto maldestramente) tra Cina e Stati Uniti.

L’aspettativa di Lula è che il Brasile continui a cooperare con la Cina per accelerare il multipolarismo finanziario, parallelamente alla propagazione del liberal-globalismo in tutto il mondo e in particolare in America Latina, in collaborazione con i democratici statunitensi attraverso la loro rete di influenza pianificata. Dal punto di vista degli Stati Uniti, pur disapprovando ovviamente i suoi piani di multipolarismo finanziario, essi hanno comunque da guadagnare cooptando lui e il suo nuovo partito “woke” come volto della “sinistra compatibile” per rafforzare il loro soft power in tutto il mondo.

A livello globale, gli Stati Uniti rafforzeranno la loro “sfera d’influenza” sull’Eurasia attraverso una combinazione di paura nei confronti dei loro rivali geopolitici e di una falsa rappresentazione dei loro proxy liberal-globalisti come gli unici legittimi difensori dei “valori occidentali” nelle loro società. Per quanto riguarda l’America Latina, la “sinistra compatibile” guidata da Lula servirà come punta della lancia ideologica degli Stati Uniti per infiltrarsi nelle loro società, installare i propri delegati politici e, infine, ripristinare con il tempo l’influenza perduta nell’emisfero occidentale.

Riflessioni conclusive

L’AMC ha torto marcio nel sostenere che i piani di de-dollarizzazione di Lula con la Cina significhino che egli si oppone agli Stati Uniti, poiché è ancora politicamente allineato con essi contro la Russia per l’Ucraina e, secondo quanto riferito, sta addirittura lanciando una rete di influenza globale con i suoi Democratici al potere. Pur mantenendo una certa autonomia strategica sugli affari finanziari, egli collabora volontariamente con gli Stati Uniti su questioni geopolitiche e ideologiche, essendo uno dei suoi principali punti di forza in tutto il mondo, grazie alle loro visioni del mondo simili, il che sfata la narrativa dell’AMC.

https://korybko.substack.com/p/lulas-planned-influence-network-with

La costruzione di una nazione, di Daniele Lanza

NATION BUILDING
(*nota storica sullo stato finlandese. Scrivo di corsa, per varie ragioni, ma chi sia un minimo interessato…..legga)
Recenti polemiche nate sulla mia bacheca mi impongono un chiarimento che voglio fare per esteso. Premetto che sono per natura osservatore critico – dei processi di nation building – ovvero di formazione di identità e stati (incluso lo stesso stato ITALIANO, per intenderci).
Si parla di Finlandia giusto ? Oggi è diventata il 31° membro dell’Alleanza atlantica, la notizia ha fatto il giro del mondo, con conseguente replica da parte del Cremlino: analisti in coro a commentare di questo storico irrigidimento delle relazioni tra i due stati, eventualmente andando a ripescare un caleidoscopio di eventi storici che ci portano indietro di generazioni. Tutto finalizzato a supportare il bisogno di DIFESA da parte della Finlandia contro il bruto vicino.
Adesso invece vorrei descrivere io le cose, andando ancora più addietro nel tempo, ma senza diventare un bignami nè un tomo di accademia (mi si legga bene da qui in avanti).
La superficie che conosciamo oggi sulle carte come “Finlandia” rientra in quella categoria di stati la cui materializzazione come entità sovrana è estremamente recente: se si considera recente la genesi dello stato italiano (1861) allora quella finlandese si colloca quasi 60 anni più tardi……..ma partiamo dal principio, facciamo una potente sintesi.
L’areale finnico è stato tra gli ultimi angoli d’Europa a venir cristianizzato (assieme al Baltico) : si trattava di un semplice territorio, un tavolato piatto costellato di laghi con una popolazione risicatissima allo stato tribale dell’evoluzione sociale. I tre segmenti fondamentali di questo popolo sono a) finni, b) tavasti c) careli…che potremmo considerare tre grandi rami della stessa macrotribù.
Ai tempi delle crociate, mentre i sovrani d’Europa si recavano alle crociate in Terrasanta, la situazione era ancora la medesima (qualcosa di vicino al protostorico).
Il canone di civiltà (cristiano) dell’Europa del tempo viene portato dai conquistatori e questi sono 2: una spinta da OVEST (gli scandinavi, in primissimo luogo svedesi) e una spinta da EST (slavi della vicina repubblica di Novgorod).
Entrambe le parti guadagnano terreno: i russi iniziano ad assoggettare la Carelia orientale, mentre i crociati svedesi, conquistano a cristianizzano careli occidentali e finni nell’Anno Domini 1293 (la chiamano terza crociata svedese sui manuali).
La grande maggioranza del territorio è occupata dai cavalieri svedesi e tale rimarrà nei secoli a venire, diventando il “cortile orientale” degli stati medievali scandinavi: il suo nome è Österland. Mandatevi bene a memoria questa basilare denominazione perchè essa è quella utilizzata per oltre 250 anni in pratica. Österland = terra dell’est (o se vogliamo “settore est” nella visione amministrativa/tributaria dei sovrani di Svezia). La terra non è particolarmente ricca – solo terra di pescatori e cacciatori – ma si rivelerà crescentemente utile in veste di piattaforma offensiva contro l’entità slavo orientale più ad est (…..).
Nel corso del 16° secolo significativi cambiamenti: la monarchia svedese – in linea col trend di tutto il continente nella prima età moderna – vede l’affermarsi di un modello più centralizzato ed organizzato di quanto fosse mai stato: in tale opera di razionalizzazione viene riformata la suddivisione tradizionale sostituendola con una più articolata ed anche aggraziata, nel contesto della quale spicca l’Österland il cui intero territorio viene rinominato “Granducato”. Si tratta di una riforma amministrativa che trae i suoi connotati estetici dalla cultura dinastica del tempo: il sovrano di Svezia, amplia i propri titoli e possedimenti attribuendo anche al povero Österland un suo “coat of arms” ovvero un vessillo araldico (di proprietà del re di Svezia naturalmente – Johann III° -non dei sudditi che vi abitano…i quali sono una sua naturale estensione). Nel farlo si decide di utilizzare la parola “Finland” che di norma indicava solo gli abitanti della fascia più meridionale del paese, sulla costa). in tal modo consacrava e ufficializzava secondo l’usanza degli stati dinastici dell’epoca, il possesso dei 360’000 km/q (più dell’Italia) lungo i quali questo territorio si estende. Nasce dunque il “Granducato di Finlandia”
Correva l’anno 1581 : siamo ovvero all’alba del periodo storico – età moderna mediana – di massima potenza della monarchia svedese (stride con l’immagine assolutamente innocua che negli ultimi 150 anni si è guadagnata). Tale riorganizzazione è concomitante cronologicamente con un evento geostrategico rilevante : la GUERRA LIVONICA (*manca lo spazio per spiegarne nel dettaglio i connotati, ma si tratta di un lungo conflitto che occupa l’ultimo 1/3 del 16° secolo, che vede opposta la Russia di Ivan IV al regno di Polonia e a quello di Svezia: quest’ultimo si avvantaggia espandendo la propria area di influenza partendo dall’area finnica e baltica che congiunge territorialmente conquistando l’Ingria).
In parole povere a fine secolo si configura una situazione in cui TUTTO il tratto geografico BALTO-FINNICO è in mano a potenze ostili (Svezia e Polonia): un trampolino strategico ideale – e lo sarà – per ulteriori eventuali incursioni nella Russia interna.
Il regno di Svezia tuttavia, raggiunto il suo zenit, perde rapidamente terreno: fondamentale la sconfitta contro Pietro il grande che a seguito della “grande guerra del nord” (1700-21), uno dei tasselli chiave della geopolitica del secolo entrante -il 18° – col quale strappa l’intero blocco corrispondente agli odierni paesi baltici alla corona di Svezia (tratt. di Nystad, 1721, invocato poi duecento anni dopo, alla caduta dello zarismo, come fondamento per l’indipendenza di Estonia e Lettonia. Ovvero, se l’unione alla Russia dipende dalla monarchia, allora finita questa, finisce tutto il resto. “Niente tsar = niente unità politica russo-baltica” : l’aristocrazia – prevalentemente germanica -estone/lettone ci provò perlomeno…..mentre i bolscevichi si misero a ridere invece). Col trattato di Nystad viene ceduta anche una parte di Carelia….un territorio che in seguito verrà chiamato “vecchia Finlandia” per distinguerlo dal resto del territorio finlandese che sarà annesso un centinaio di anni più tardi (leggi sotto).
inseriamo una nota d’obbligo: la prima a parlare di un possibile utilizzo della lingua finlandese fu proprio l’imperatrice Ekaterina II nel 1742 (probabilmente desiderosa di erodere il vantaggio dello svedese).
Meno di 100 anni dopo Nystad infatti………………un’ulteriore grave sconfitta per il regno di Svezia che perde anche la penisola finnica, ceduta quindi all’impero dei Romanov, così che saranno questi ultimi a rivestire il titolo di granduchi di Finlandia, pensato ed usato sino all’ultimo dalla corona svedese per rafforzare il controllo sulla Finlandia (che oramai geo politicamente è scudo e cuscinetto tra Svezia e Russia per tutto il XVIII° sec.).
Siamo nel 1808 quando la Finlandia (un cuscinetto tra scandinavi ormai in declino e impero zarista in ascesa imperiale) diventa parte dell’impero.
La storia dei 110 anni di governo zarista sulla Finlandia è relativamente calma: sin dal principio il granducato finlandese gode di uno status del tutto particolare rispetto ad altri possedimenti imperiali. NON è un’espansione coloniale (come Asia centrale), NON è una provincia slava, trattata come tale. E’ un territorio federato all’impero……senza grandi costrizioni, con status autonomo: in era di rigurgiti nazionalistici e identità etniche, non è considerato nemmeno parte della patria slava, ma piuttosto una umanità “aggregata” ad essa, ingenua e innocua. Molti esuli russi si rifugiavano lì. Praticamente la Finlandia fu trattata – comparativamente ad altri territori imperiali – in maniera molto morbida (come se fosse un paese europeo, da trattare coi guanti di velluto…)
Non si fecero sforzi per slavizzare forzatamente la cultura locale se non alla fine del secolo XIX (e anche in quel caso occorreva non tanto vincere le resistenze finlandesi, quanto quelle dell’elite etno-linguistica che era svedese. L’elite non voleva parlare russo…….ma non perchè parlasse il finlandese, quanto perchè non voleva smettere di usare lo SVEDESE !). Per cento anni sarà PAX RUSSICA (termine derogatorio per gli antirussi, ma che comparativamente ad altre parti dell’impero sarebbe potuta essere paradossalmente veritiera).
Il settore inizialmente sembrava talmente calmo…che un consigliere dello tsar decise – nel contesto della riorganizzazione territoriale della Finlandia come parte dell’impero – di fondere la Finlandia appena conquistata (1808) con la “vecchia Finlandia” presa ancora prima ai tempi di Pietro il grande (1721).
A me gli occhi signori: quest’ultima mossa fu molto imprudente ed è alla base delle dinamiche che si innescheranno dopo: è analoga a Krushev che, pensando l’Ucraina alleata per sempre….concesse loro la Crimea (pensateci tutti, per favore. Questo è l’elemento più importante del post che mi sforzo di buttar giù***)
PAUSA (…)
Dunque. Passano il secolo zarista della Finlandia (le politiche di russificazione falliscono). Arrivati al 1917, l’elite finlandese approfitta in un lampo della situazione: non soltanto si sgancia (portando via con sè anche la preziosa Finlandia “vecchia” che era parte della Russia da 2 secoli), atto che potrebbe essere visto come LECITO da chiunque creda nell’autodeterminazione dei popoli (d’accordo).
Il problema è che lo fa in piena sinergia diplomatica con l’Impero tedesco (ancora in guerra), che contempla nei suoi piani di farne una monarchia germanica per dinastia e ferreamente allineata allo stato kaiseriano: un gioco di scatole cinesi visto dal punto di vista della sicurezza russa, ovvero una indipendenza (concetto lecito di per sè) portatrice però di una sudditanza geopolitica nei confronti della maggiore potenza d’Europa, il Reich tedesco, diventandone a questo punto un asset strategico notevolissimo, vista la vicinanza alla capitale S.Pietroburgo (e anche dato che l’intera fascia baltica sarebbe passata sotto Berlino, secondo i piani originari, poi annullati dalla sconfitta tedesca ad occidente).
Lo stato russo – ora sovietico – malgrado non sia più portatore dello sciovinismo reazionario zarista, si rende conto perfettamente della gravità della situazione: il piano germanico, come detto, non si avvererà, data la sconfitta finale nel 1918………..ma la Finlandia repubblicana come stato indipendente in ogni caso OSTILE alla Russia (come si era oramai capito) rimane una questione aperta.
I bolscevichi cercano di vincere una guerra in Finlandia per farne una repubblica socialista da riunire a Mosca, ma falliscono : vincono i BIANCHI finlandesi, capitanati da Mannerheim.
Per i successivi 20 anni la Russia deve ricostruirsi daccapo ed entrare nella modernità (a un prezzo indescrivibile): quando, superato lo shock, inizia di nuovo a comportarsi come una potenza del suo calibro dovrebbe….non può non rendersi conto della debolezza della frontiera nord-orientale, così vicina a Leningrado. Soprattutto inaccettabile che lo stato finlandese potesse costituire un pericolo (non tanto per conto proprio, ma un domani, utilizzato da altre potenze che lo usassero come base contro la Russia) e che lo facesse avvalendosi dei territori della “vecchia Finlandia”: quelli che appartenevano a Pietro il grande in persona e che nulla avrebbero dovuto avere a che fare con la rivoluzione indipendentista finlandese, se non fosse che un consigliere zarista di un secolo prima le aveva regalate amministrativamente alla Finlandia (di nuovo: come la Crimea all’Ucraina). Un ponte di terra non grande, ma sicuramente cruciale, e moralmente simbolico di oltre 200 anni di storia russa.
Da qui tutto il resto che meglio si conosce: la diplomazia di fine anni 30 va a farsi friggere e inizia la guerra CCCP-Finlandia (seguita poi dall’apparentamento Finlandia-Terzo Reich a partire dal 1941…)
Non vado oltre. Decida il lettore (non posso farlo io per lui), lo spessore storico e morale degli eventi. Comprenda da solo PERCHE’ lo stato russo veda con sospetto al confine nord-est (alla luce di 500 anni di evoluzione che ho grossolanamente narrato).
[mappa in basso: cartina storica del regno di Svezia nel 1760, ovvero 40 anni dopo Nystad, ma prima di perdere l’intera Finlandia nel 1808]
 
“PAASIKIVI-KEKKONEN”
(c’era una volta una Finlandia neutrale)
Una brevissima nota in merito all’ingresso di Helsinki nell’Alleanza atlantica domani. Il nome in alto tra virgolette -che apre l’intervento – è molto probabilmente sconosciuto al 99% dei lettori (qualcuno penserà al nome di qualche sportivo o chissà quale località sciistica….): si tratta dei cognomi di due politici finlandesi, la cui opera ha dominato la vita pubblica del proprio paese per il mezzo secolo successivo al conflitto mondiale. Un binomio che ha fatto la storia nazionale garantendone la sicurezza per il periodo 1945-1991. Vediamo come.
Paasikivi (al secolo Johan Gustaf Hellsten di discendenza svedese come buona parte dell’elite finlandese della sua generazione), fu impegnato intensamente nella politica interna finlandese sin dai tempi dell’impero zarista: si distingue per il suo supporto alle correnti autonomiste, ma MODERATE, in modo da non provocare il potente vicino. La parentesi del primo conflitto mondiale e l’indipendenza sono l’occasione per distinguersi come sostenitore di una piena sovranità in versione monarchica e quindi repubblicana (in opposizione alla Russia bolscevica): inizia una brillante carriera diplomatica tra le due guerre che va a finire con la guerra contro l’Urss staliniana e il successivo coinvolgimento bellico finlandese a fianco del Reich. Le sue posizioni prudenti e neutraliste (tra le pochissime presenti) non trovano sponde nel sentire politico finlandese dei primissimi anni 40, guadagnandone isolamento (…). Paasikivi e il suo moderatismo tornano tuttavia enormemente utili dopo la fine della guerra: terminata la parentesi bellica (ossia obbligata la Finlandia ad un armistizio separato, in extremis, con l’armata rossa alla porte, prima dell’eventuale catastrofe…) occorre ricostruire ex novo i rapporti diplomatici con Mosca. Paasikivi, primo presidente di Finlandia del dopoguerra, fa storicamente ammenda nel gestire l’imbarazzante faccia a faccia diplomatico con Mosca a conflitto finito (…): accetta tutte le clausole sovietiche, tra cui anche l’impegno a NON schierarsi con altre potenze potenzialmente ostili all’Urss (trattati 1947-48). La cosa prevedeva anche misure sulla stessa cultura finlandese, come il divieto di rappresentare i russi in una luce negativa sui mass media o in letteratura (…).
In pratica, al di là dei risarcimenti e delle cessioni territoriali, il bottino diplomatico più GRANDE che l’Urss porta a casa è la garanzia di uno stato del tutto NEUTRALE ai suoi confini settentrionali, un cuscinetto affidabile tra essa e la Scandinavia. Si basi bene, è scritto “neutrale” e non parte del blocco orientale (tanto quanto non parte di quello occidentale). Paasikivi scompare nel 1956, ma la medesima politica fu portata avanti efficacemente da Kekkonen (il secondo cognome) per i successivi trent’anni, durante i quali controlla letteralmente la politica del paese : al culmine di questa si afferma l’espressione, “dottrina Paasikivi-Kekkonen”, per riferirsi alla particolare gestione dei rapporti col Cremlino per l’intera durata della guerra fredda.
In effetti, occorre sottolineare, la posizione post-bellica della Finlandia è oggettivamente poco nota ai non addetti al settore: per quanto si percepisca a consideri questo paese come naturale parte dell’occidente europeo (alla pari dei vicini scandinavi), la sua posizione nel corso dei 40-50 anni che coprono la guerra fredda fu non di paese “bianco”, bensì di paese “grigio”, mai esponendosi troppo, soprattutto contro il Cremlino. A completezza di informazione va aggiunto che tra le clausole post-belliche era previsto anche un dovere di “resistere” da parte delle forze armate finlandesi in caso una forza esterna tentasse di aggredire l’Urss attraversando la Finlandia (facendo riferimento alla Germania, ma pensando alla Nato nel futuro a venire): non un’alleanza militare certo, ma qualcosa di analogo ad una “partnership difensiva” particolare.
La cosa fu notata ad occidente che iniziò ad utilizzare l”’espressione” “dottrina Paasikivi-Kekkonen” in senso derogatorio (ossia sottolineando la subordinazione silenziosa della democrazia finlandese nei confronti del vicino): quanto allo status militarmente ambiguo (la partnership difensiva) si arrivò senza esitazioni ad includere il territorio finlandese come potenziale bersaglio di testate, da parte occidentale.
Insomma…..l’intero occidente non riuscì a metabolizzare lo status “grigio” della Finlandia post-bellica. Detto in parole più chiare: si poteva accettare che un paese fosse parte IN TOTO del patto di Varsavia (come Polonia e gli altri), dato che in quel caso li si poteva screditare alla stregua “satelliti” o “pedine”……ma era molto più problematico che una DEMOCRAZIA OCCIDENTALE (come lo stato finlandese oggettivamente era) fosse sceso così profondamente a patti con la potenza sovietica. Inaccettabile che non si potesse capire se era amico o nemico (una filosofia del mondo in blocchi va molto più d’accordo con il bianco e il nero che non il grigio).
Lo stesso occidente atlantico dimenticava – come tanto spesso succede – un piccolo dettaglio (di quelli macroscopici): che la Finlandia doveva farsi perdonare 3 anni di guerra al fianco di Hitler contro l’Unione Sovietica. Coinvolgimento bellico (portato avanti con relativa prudenza da Mannerheim, ma pur sempre coinvolgimento) che ad occidente si scelse volutamente di DIMENTICARE: ci si passò sopra con nonchalance, anche perché la Finlandia aveva combattuto col Reich non contro gli angloamericani, ma solo contro i sovietici (…).
L’Urss – parte offesa – decise di non passarci sopra invece e occorre dire che nemmeno usò tutto il proprio potere: rinunciò all’ipotesi estrema di far capitolare la Finlandia arrivando fino ad Helsinki (come avrebbe potuto fare nell’autunno del 1944, instaurando poi un governo filosovietico), ma impose nei trattati di pace successivi, che MAI più potesse venire un pericolo dalla frontiere russo-finlandese. Era veramente il MINIMO che si potesse domandare dopo quanto era successo.
Ad occidente si denigrò sempre pubblicamente la dottrina “Paasikivi-Kekkonen” (evitando accuratamente di spiegare il retroscena ei perché).
Seppure non eroica, la dottrina Paasikivi-Kekkonen, garantì comunque mezzo secolo di sicurezza sostanziale alla propria piccola popolazione : mi domando cosa sarà da domani (ritorno a Mannerheim ?! I nazionalisti finnici più ingenui lo pensano, ma io ne dubito….ancora peggio: dal Terzo reich si riuscì a smarcarsi – riuscendo a combinare, disperatamente, una pace separata nell’ottobre del 1944. Con l’alleanza atlantica – e le testate atomiche che indubitabilmente vi verranno piazzate – non sarà possibile nemmeno quello (anche un governo finlandese volesse concludere trattati a parte NON potrà farlo perché la presenza di armamenti nucleari sul proprio territorio gestiti da Washington renderebbe il territorio stesso bersaglio a prescindere. Meditare).
FINE.
 
(FUNNY)
Manifesto svedese d’annata (1939. Si invita all’arruolamento volontario in difesa della Finlandia durante la guerra invernale contro l’Urss).
Ai conoscitori di storia del nord Europa viene subito in mente che la Finlandia in realtà non è mai esistita come stato indipendente prima del 1918: prima di quella data, era stata per oltre un secolo una suddivisione territoriale dell’impero zarista sotto il nome di Granducato di Finlandia (sebbene non esistesse alcun granduca o alcuna tradizione nobiliare finnica: il granduca era lo tsar stesso). Molti ricordano questa fase storica come per retrodatare rispetto allo stesso comunismo le mire espansionistiche russe : nel farlo dimenticano che sempre il territorio finlandese (ancora non stato nazionale), prima di finire in mano agli tsar era dominio del regno di SVEZIA…….il cui elemento etnico costituiva la totalità dell’elite finlandese (ancora ai primi del secolo il 20% della popolazione di Helsinki si esprimeva in svedese ed ancora il 12% allo scoppio del conflitto mondiale….concentrati negli strati superiori della società, naturalmente).
Alla luce di questo fa dunque specie osservare il manifesto in questione, che sembra amorevolmente affiancare servitore (finlandese) e ex-padrone (svedese): quest’ultimo in fondo sarebbe felice di tornare alla sua antica posizione.

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Sovranità, controllo industriale e transizione energetica (1), di Jean-Paul Bouttes

Articolo interessante pur con la riserva sul merito delle politiche attuali di conversione energetica. Giuseppe Germinario

Sintesi

 

Le questioni energetiche sono una questione di prosperità e di sovranità dello Stato. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare rapidamente e su vasta scala tecnologie innovative adatte a queste sfide essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni per il successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che una visione politica sia condivisa dai vari attori.

 

Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

 

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

Copyright: Archivio EDF

Fonte: Nel 1958, il generale de Gaulle visitò il centro atomico di Marcoule, nella regione del Gard, dove constatò i progressi compiuti dal 1945, data in cui firmò l’atto di nascita dell’industria nucleare in Francia. Al suo fianco, Maurice Pascal (a destra del generale de Gaulle nella foto), allora responsabile degli studi sulle batterie presso il Commissariat à l’énergie atomique (CEA), spiega al Capo di Stato i dettagli della sala di controllo del reattore G2. Ex studente dell’École polytechnique, Maurice Pascal (1920-1996) iniziò la sua carriera presso la delegazione ministeriale per gli armamenti. Nel 1954 è stato inserito in una posizione di responsabilità presso il CEA. Dal 1964 è stato responsabile della politica industriale.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/216_nucleaire_i_couv_fond/

 

Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto agli scambi condivisi con molti attori della storia del nucleare francese. Desidero ringraziare in particolare Bernard Esambert per la sua attenta lettura, nonché Gilles Bellamy, Lorraine Bouttes, Yves Bréchet, Michel Clavier, Pierre Daurès, Sylvain Hercberg, Bruno Lescoeur, Bernard Tinturier e Gilles Zask per i loro commenti e suggerimenti. Tuttavia, sono naturalmente l’unico responsabile delle analisi e delle opinioni espresse in questo libro.

 

Jean-Paul Bouttes

 

1

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel primo volume

 

AGR: Reattore avanzato raffreddato a gas.

AHEF: Association pour l’histoire de l’électricité en France.

AIE: Agenzia Internazionale dell’Energia.

ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.

ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).

CEA: Commissione francese per l’energia atomica.

CEE: Comunità economica europea.

CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica.

CEGB: Central Electricity Generating Board.

CGE: Compagnie générale d’électricité.

Cigre: Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici.

WEC: Consiglio Mondiale dell’Energia.

COP: Conferenza delle Parti.

DGSNR: Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection.

DSIN: Direction de la sûreté nucléaire (Direzione della sicurezza nucleare).

EDF: Électricité de France.

ENA: École nationale d’administration.

EPR: Reattore pressurizzato europeo.

INSTN: Institut national des sciences et techniques nucléaires (Istituto nazionale di scienze e tecnologie nucleari).

IPSN: Institut de protection et de sûreté nucléaire (Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare).

IRSN: Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare).

PEON: Produzione di energia elettrica da fonti nucleari.

PWR: Reattore ad acqua pressurizzata.

SCSIN: Service central de sécurité des installations nucléaires.

Sfac: Société des forges et ateliers du Creusot.

SENA: Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes.

UKAEA: Autorità per l’energia atomica del Regno Unito.

UNGG: Uranio naturale, grafite e gas.

Unipede: Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica.

 

Introduzione

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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Note

  1. La prima parte di questo articolo si concentra sulla storia del nucleare civile dal 1945 al 1975 in Francia. L’autore si basa in particolare sul libro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, L’Énergie de la France. De Zoé aux EPR, l’histoire du programme nucléaire (Éditions François Bourin, 2013).

del programma nucleare basato non solo su documenti storici ma anche su interviste a molti degli attori di questa avventura. Marcel Boiteux e Philippe Boulin sono all’origine di questo progetto, che l’autore di questo documento ha potuto realizzare e accompagnare.+

  1. Con, ovviamente, la mobilitazione e lo sviluppo di tutte le altre energie rinnovabili rilevanti: biomassa, geotermia, energie marine…
  2. IEA, Energy Technology Perspectives 2006. A sostegno del Piano d’azione del G8, OCSE, 2006.
  3. Il termine progetto di base si riferisce al progetto complessivo della centrale, che deve essere integrato da piani dettagliati dell’impianto (progetto dettagliato). Si sviluppa sulla base di uno schizzo iniziale a livello di progettazione, il progetto concettuale.+ 5. La preoccupante situazione economica in Europa e nel mondo è stata caratterizzata da una serie di problemi.

La preoccupante situazione economica in Europa e in Francia, dovuta alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina, ci ricorda l’importanza centrale, sia per la nostra prosperità che per la nostra sicurezza, di un’energia competitiva che risponda a due criteri aggiuntivi: disponibilità garantita e impatto limitato sull’ambiente1 . Per raggiungere questo obiettivo, il controllo industriale delle tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia e la capacità di anticipare il mix energetico più adatto alle nostre esigenze a lungo termine sono i due principali fattori di successo. Queste sfide saranno ancora più grandi se vogliamo attuare la transizione energetica necessaria nei prossimi decenni per affrontare la sfida del riscaldamento globale, tenendo conto di un contesto geopolitico che sarà fonte di preoccupazione duratura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, dimenticando le lezioni della storia e le caratteristiche tecnico-economiche e industriali dell’energia, in particolare dell’elettricità, gli Stati europei si sono affidati quasi esclusivamente ai mercati europei (per il gas e l’elettricità) o internazionali (per le attrezzature o le materie prime). Il compito era impossibile per i soli mercati e, di fronte alla resistenza della realtà, gli Stati membri dell’UE e la stessa Unione Europea hanno reagito moltiplicando leggi, obiettivi e regolamenti, ma senza assumere chiaramente il loro ruolo. Questi interventi incoerenti di fronte ai “fallimenti del mercato” si sono tradotti in un grave fallimento delle autorità pubbliche.

 

Questo fallimento è ancora superabile a patto che si faccia una diagnosi corretta del ruolo degli Stati e che si correggano le loro carenze e quelle dei mercati. Si tratta di mobilitare le necessarie competenze industriali, scientifiche e lungimiranti, di impostare un’organizzazione leggera e responsabile della sfera pubblica, di incoraggiare le iniziative, sia del settore privato che degli enti locali, nel quadro di regole del gioco semplici ed efficaci. Gli esempi qui presentati, relativi alle sfide del controllo industriale nei settori delle grandi tecnologie per la decarbonizzazione, come il nucleare o i pannelli fotovoltaici, dimostrano che tutto ciò è stato attuato con successo in Francia negli anni ’50-’90, e in Cina o negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Spetta ora a noi trovare il percorso francese ed europeo che ci permetta, con una diagnosi condivisa e rigorosa che non si accontenti di parole troppo spesso fuorvianti, di apportare i necessari cambiamenti strutturali in termini di organizzazione dello Stato e di regole del gioco europeo per correggere la situazione il più rapidamente possibile nel prossimo decennio.

 

Di fronte al cambiamento climatico, dobbiamo intraprendere una transizione energetica globale di dimensioni senza precedenti, con obiettivi di “emissioni nette zero” entro la metà del secolo. Per ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra, dovremo innanzitutto decarbonizzare la produzione di energia elettrica ed elettrificare in modo massiccio gli usi energetici, attuando al contempo un’ambiziosa politica di risparmio energetico. Per la maggior parte, conosciamo le tecnologie che dobbiamo sviluppare e implementare: dal punto di vista della produzione, l’energia nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO2, l’energia idraulica2 ; dal punto di vista dell’utilizzo, le batterie e i veicoli elettrici, le pompe di calore, i processi industriali elettrici… Questa roadmap è nota da circa vent’anni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni del vertice del G8 presieduto da Tony Blair nel 2005 a Gleneagles, il primo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) del 2006, Energy Technology Perspectives3 , sul rapporto energia-clima, o le proposte di roadmap settoriali discusse alla Conferenza delle Parti (COP) di Montreal nel 2005. Tuttavia, ad oggi, i risultati in termini di decarbonizzazione sono deludenti. Una delle ragioni principali è l’aver trascurato le questioni industriali e la perdita di controllo industriale nel settore energetico, soprattutto in Europa e in Francia negli ultimi decenni. La massiccia diffusione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale richiede un controllo dei costi per conciliare clima e sviluppo economico, nonché gli anelli chiave delle catene del valore (apparecchiature a valore aggiunto, materiali critici, digitale) in un contesto di geopolitica di ritorno. La padronanza delle questioni industriali legate alla produzione e alla costruzione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale è al centro degli obiettivi inscindibili di efficienza economica, competitività, sovranità economica e autonomia strategica. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede una solida cooperazione internazionale.

 

In questa prospettiva, la Francia può offrire un esempio di successo nel guidare una transizione basata sulla padronanza di queste problematiche industriali. Tra il 1974 e il 1990, è stata in grado di attuare una delle transizioni più rapide nel mondo dell’energia, sostituendo l’energia nucleare alle centrali a carbone e a petrolio, consentendole, al termine di questa transizione, di beneficiare di un mix elettrico decarbonizzato al 90% (75% nucleare, 15% idroelettrico), di prezzi dell’elettricità tra i più bassi d’Europa, di costi d’investimento pari alla metà di quelli degli Stati Uniti e della padronanza industriale del settore dei reattori ad acqua pressurizzata. Il programma nucleare civile francese è stato un successo in termini economici e di sovranità: il Paese si è liberato dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, compreso il petrolio, per la produzione di energia elettrica, e ha padroneggiato la catena del valore nucleare, compreso l’arricchimento, facendo leva su una forte cooperazione internazionale (licenza francese Westinghouse, impianto di arricchimento Eurodif a Tricastin, partecipazioni di società elettriche europee in centrali nucleari francesi, ecc.) Inoltre, grazie alla sua portata (ogni anno, per dieci anni, sono state messe in funzione da quattro a sei unità da 900 a 1.300 MW), questo programma ha permesso una significativa elettrificazione degli usi residenziali (scaldabagni, riscaldamento, ecc.) e industriali, soddisfacendo nel 1990 un consumo di elettricità doppio rispetto a quello del 1973, in un momento in cui la sobrietà energetica, istituita nel quadro della “caccia allo spreco” dopo i due shock petroliferi, ha portato a una quasi stagnazione del consumo finale di energia. Questi movimenti sono esattamente in linea con l’attuale scenario “zero emissioni nette” dell’AIE, che si basa sia sulla sobrietà energetica sia su un aumento di due volte e mezzo della produzione di elettricità entro il 2050.

 

Pensiamo spesso alle condizioni del successo industriale della massiccia diffusione dal 1974 al 1990, dopo la prima crisi petrolifera: una decisione politica nel 1974-1975 che offre una visibilità a lungo termine concretizzata da un programma, una progettazione di base4 finalizzata su un prodotto robusto e semplice da costruire (i reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse), serie standardizzate, un tessuto industriale di qualità e un architetto industriale chiaramente responsabile e competente, ovvero EDF. Tutto questo è vero, ma non è sufficiente a spiegare il successo di questa realizzazione. È stata preparata in modo altrettanto decisivo nel periodo dal 1945 al 1974, combinando tentativi ed errori, visione a lungo termine e determinazione incrollabile nell’azione. Questi tre decenni sono stati caratterizzati dalla capacità di una generazione di attori, spesso provenienti dalla Resistenza e dalla Francia Libera, di rischiare, di provare quasi tutti i metodi – rapido, acqua pesante, gas grafite, acqua leggera -, di accettare tentativi, errori e fallimenti, con la volontà di trovare rapidamente soluzioni efficaci e di avere successo. La figura e la personalità del generale de Gaulle hanno segnato questo periodo, prima direttamente nel 1945, attraverso la creazione della Commissione per l’energia atomica (CEA) e il processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la creazione dell’EDF nel 1946; poi, indirettamente, attraverso uomini chiave che condividono gli stessi obiettivi durante la Quarta Repubblica (Félix Gaillard, Raoul Dautry, Gaston Palewski, Pierre Guillaumat, Jules Horowitz, Pierre Taranger, Pierre Ailleret…); poi con la creazione di un’agenzia di ricerca e di sviluppo che si occupa di energia nucleare. ) ; e, infine, ancora, nel momento chiave del passaggio alla fase industriale e del dibattito sulla scelta dell’uranio naturale, della grafite e del gas (UNGG) rispetto all’acqua pressurizzata o all’acqua bollente, tra il 1958 e il 1975, con Georges Pompidou, Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica, Pierre Messmer, Bernard Esambert, Pierre Massé, Francis Perrin, Claude Fréjacques, Georges Besse, André Giraud, André Decelle, Paul Delouvrier, Marcel Boiteux, Michel Hug, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny…

 

Nella prima parte di questa nota, ripercorreremo la storia per individuare le caratteristiche principali di questo periodo e trarne alcuni utili insegnamenti. Nella seconda parte, allargheremo la questione alla transizione energetica che deve essere realizzata oggi, basandoci su esempi più recenti di successo industriale riguardanti altre tecnologie energetiche e altri Paesi, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei programmi di investimento futuro (PIA). Infine, torniamo alla situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle competenze industriali, in particolare in quelli che erano i nostri tradizionali punti di forza: l’energia nucleare, l’energia fossile, la rete, con le difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom, e, cosa più preoccupante, dal fallimento dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nelle turbine eoliche onshore, settori in cui la Francia sembra accontentarsi per lo più di installazioni e servizi a basso valore aggiunto, nonostante la ricerca di qualità in questi campi industriali.

 

Gli anni 1945-1990 in Francia o gli ultimi decenni in Cina o negli Stati Uniti dimostrano come sia stato possibile aprire delle opzioni, esplorare nuove strade e implementare tecnologie adatte alle sfide dei Paesi interessati su larga scala e in tempi rapidi. Su queste questioni energetiche, che riguardano la prosperità e la sovranità dei Paesi, questi esempi illustrano chiaramente il ruolo fondamentale svolto dagli Stati nel controllare le condizioni per il successo industriale, compresa la diversità dei percorsi possibili in base alle istituzioni e alle tradizioni dei vari Paesi. La capacità degli Stati di assumere il proprio ruolo per consentire la mobilitazione di tutti gli attori sembra essere decisiva. Ciò presuppone la capacità di indicare chiaramente le proprie debolezze, se possibile prima che la situazione diventi troppo grave, e di farlo lasciandosi interpellare dal proprio passato o da altre esperienze attuali. Le competenze e la buona volontà non mancano. Potrebbero permetterci di riformare il settore in profondità e di prepararci al prossimo decennio, a condizione che gli attori condividano una visione politica.

 

I

Parte

Superare le idee preconcette

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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1

La solita narrazione

 

Per capire la storia del nucleare francese, dobbiamo accettare di mettere in discussione la narrazione abituale, generalmente espressa come segue:

 

il programma è stato deciso nel 1974-1975 in reazione a un evento: la prima crisi petrolifera del 1973;

si riduce a una decisione presa da un ristretto numero di decisori politici: l’abbandono della linea nazionale di centrali a uranio naturale e gas grafite (NUG) a favore della linea Westinghouse di centrali a uranio arricchito e acqua leggera;

è stato ottenuto attraverso il semplice trasferimento del know-how americano senza aver dovuto affrontare la “frontiera tecnologica”;

illustra la tradizione francese – e il “genio francese” – dell’intervento statale nell’economia attraverso grandi programmi.

2

Una storia diversa

 

Note

  1. L’obiettivo a lungo termine era presente fin dalla creazione del CEA nel 1945 e divenne più chiaro con il progredire del lavoro di ricerca negli anni Cinquanta.
  2. Decisione strategica, per ragioni industriali, logistiche e militari.

La lettura della storia qui difesa è diversa. L’immagine proiettata dalla narrazione abituale è fuorviante, perché le affermazioni che la costruiscono riflettono un profondo fraintendimento di cosa sia un’industria ad alta tecnologia come quella nucleare.

 

Innanzitutto, la decisione di affidarsi a un programma nucleare civile era un obiettivo chiaro fin dall’inizio degli anni ’60 5 , nonostante il calo del prezzo dell’olio combustibile pesante in quel decennio. Questa decisione deriva da una visione condivisa della sicurezza di approvvigionamento a lungo termine del Paese e dalle prospettive di competitività del nucleare alla luce dei primi dimostratori industriali.

 

Inoltre, l’esigenza di avere più ferri da stiro, compresi quelli ad acqua leggera, e di sperimentare diverse tecnologie era già all’opera nel 1958 con la decisione di costruire Chooz A, un prototipo franco-belga basato sulla prima generazione di reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse, presa dal generale de Gaulle non appena tornato al potere nel 1958. Questa decisione fu presa a complemento dei dimostratori UNGG costruiti a Chinon tra il 1957 e il 1961.

 

Solo nel 1975 la linea ad acqua bollente di General Electric, trasportata in Francia dalla Compagnie Générale d’Electricité (CGE) di Ambroise Roux, fu abbandonata e ci si concentrò sulla sola linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, non senza rammarico per gli operatori che desideravano mantenere la concorrenza tra almeno due fornitori per i componenti chiave. La decisione di abbandonare l’UNGG e di costruire una prima serie di reattori ad acqua pressurizzata (PWR) fu presa in un periodo in cui i prezzi dell’olio combustibile pesante erano ancora ai minimi tra il 1969 e il 1971; fu allora che si decise di costruire due unità a Fessenheim e due unità a Bugey, che entrarono in funzione nel 1977 e nel 1978. Queste decisioni furono prese da Georges Pompidou all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Westinghouse non avrebbe mai accettato di collaborare con i francesi, né permesso che la licenza diventasse francese, se la Francia non avesse dimostrato l’eccellenza delle sue competenze industriali, in particolare nella fabbricazione dei contenitori dei reattori a Le Creusot, e l’eccellenza delle competenze scientifiche della CEA, che stava lavorando non solo sull’UNGG, ma anche sui PWR per la propulsione militare. Tra il 1950 e il 1970, la Francia aveva effettivamente raggiunto da sola la frontiera tecnologica, e questo è probabilmente ciò che ha permesso di utilizzare con successo la tecnologia Westinghouse.

 

Infine, il ruolo chiave dello Stato nel controllo e nella diffusione dell’energia nucleare non è specificamente francese. Per convincersene, basta osservare l’esempio americano con il programma dell’ammiraglio Rickover, inizialmente incentrato sulla propulsione militare e che mobilita insieme i grandi laboratori federali americani (simili alla CEA) con Westinghouse e General Electric (la CEA, e poi l’EDF, mobiliteranno anche i grandi industriali francesi più capaci, prima sull’UNGG e poi sul PWR). Anche il Regno Unito, il Canada, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud potrebbero illustrare, ciascuno a suo modo, questo ruolo dello Stato strategico, coinvolto nella dimensione scientifica e industriale. Va aggiunto che, sebbene in Francia lo Stato abbia svolto in precedenza un ruolo di stimolo allo sviluppo di alcune grandi reti, come le ferrovie6 , come dimostra il piano Freycinet del 1879, e abbia avuto un ruolo importante nella regolamentazione tecnica di alcuni settori industriali, come il controllo tecnico delle fucine, la Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo era innanzitutto un Paese economicamente e industrialmente liberale, in conformità con l’eredità della Rivoluzione francese.

 

3

La rapida transizione della Francia

 

Dal 1945 al 1990, la Francia ha realizzato una delle più rapide transizioni nelle tecnologie energetiche, dalla ricerca di base alla diffusione industriale. La scoperta della fissione e della reazione a catena risale agli anni ’30, con il lavoro di Enrico Fermi, Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, e poi di Frédéric Joliot-Curie, con Hans Halban e Lew Kowarski nel 1939. È sulla base di quest’ultimo lavoro che il CEA è venuto a conoscenza delle varie tecnologie nucleari – UNGG, acqua pesante, reattori a neutroni veloci raffreddati a sodio, reattori ad acqua leggera – e ha prodotto prototipi, in particolare per la tecnologia UNGG, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Negli anni ’60, il CEA e l’EDF sono riusciti a costruire dimostratori su scala industriale nel reattore a gas di grafite (Chinon A1, A2 e A3) e nel reattore PWR (Chooz A e poi Tihange), con i nostri partner belgi, basati sul reattore Westinghouse. Ci sono voluti solo vent’anni, tra il 1970 e il 1990, per implementare in modo massiccio il parco nucleare e produrre tre quarti dell’elettricità per la Francia, con prestazioni, come abbiamo visto, molto migliori in termini di costi rispetto a quelle di Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Giappone con tecnologie simili nello stesso periodo.

 

Si è trattato di sfide particolarmente difficili. Gli ostacoli successivi hanno dovuto essere superati con perseveranza, uno dopo l’altro. Le sfide variavano a seconda dei periodi e delle circostanze, sia che si trattasse del periodo della ricerca e dei prototipi (1945-1960), sia che si trattasse del periodo dei dimostratori industriali e della scelta della tecnologia da impiegare (1960-1971), sia che si trattasse del periodo dell’impiego massiccio (iniziato nel 1972-1975 e che continuerà in gran parte fino al 1990). Fin dall’inizio è stato necessario pensare in termini di sistema industriale, con il controllo dell’intero ciclo del combustibile, dall’estrazione al ritrattamento e alla gestione delle scorie, con la fabbricazione del combustibile, nonché con l’arricchimento dell’uranio necessario nelle tecnologie ad acqua leggera, e il controllo del reattore e dei suoi componenti chiave: forgiatura primaria, termoidraulica e neutronica, scienza dei materiali, automazione e controllo, unità turbo-alternatore, ingegneria civile, ecc.

 

Il termine “industria nucleare” può essere fuorviante, perché si tratta in realtà di mobilitare competenze e professionalità molto diverse provenienti da diversi settori industriali, con requisiti di qualità particolarmente elevati, in quanto la sicurezza è ovviamente un punto centrale in questo caso. È stato inoltre necessario affrontare e risolvere numerosi problemi tecnici almeno altrettanto delicati di quelli che stiamo vivendo da quindici anni a questa parte nello sviluppo dei reattori di terza generazione, come l’EPR in Francia e Finlandia o l’AP 1000 negli Stati Uniti. La reattività e la determinazione delle comunità scientifiche e ingegneristiche sono state notevoli nel proporre “soluzioni di riparazione”, mantenendo sempre la capacità di aprire altre opzioni tecniche (involucro in acciaio o cemento armato precompresso, ecc.), e anche opzioni più radicali, come l’esplorazione di altri metodi. Infine, al di là della gestione efficace dei ricorrenti guasti tecnici che sono una caratteristica inevitabile di questi grandi progetti tecnologici, il contesto internazionale e politico era particolarmente turbolento: la guerra fredda a partire dal 1947, la decolonizzazione, la crisi di Suez nel 1956, la creazione della Comunità economica europea (CEE) e del trattato Euratom nel 1958, la crisi del maggio 1968 e gli shock petroliferi del 1973-1974 dopo un lungo periodo di calo dei prezzi del petrolio pesante. La cooperazione internazionale ha dovuto trovare la sua strada, tenendo conto delle questioni geopolitiche e di sovranità. Lo dimostrano l’opposizione degli Stati Uniti a qualsiasi cooperazione in campo nucleare, con la legge McMahon del 1946, la crisi di Suez, che evidenziò la vulnerabilità di una Francia che non padroneggiava l’energia nucleare, e le opportunità aperte dal Trattato Euratom.

 

La questione principale che vogliamo evidenziare in questa sede riguarda questa sorprendente capacità di rimbalzo nel tempo, una capacità di apportare cambiamenti adottando una visione sistemica, con la preoccupazione di una rapida attuazione, al fine di mantenere la rotta stabilita per quanto riguarda lo sviluppo di un’industria nucleare. Si tratta quindi di individuare le tracce di questo lavoro collettivo, dello Stato con le sue componenti politiche e il loro sostegno – i consiglieri, l’amministrazione, il Piano – ma anche del CEA e dell’EDF, del tessuto industriale e dei partner internazionali. È importante capire le ragioni di questa efficienza nel lungo periodo. Questo sguardo al passato dovrebbe aiutarci a determinare quale organizzazione e quali competenze industriali al centro dell’apparato statale, quali relazioni tra quest’ultimo e il tessuto industriale privato e quali strategie di cooperazione internazionale hanno permesso l’elaborazione di una visione comune e a lungo termine da cui trarre ispirazione per prendere a nostra volta le decisioni necessarie nel tempo.

 

II

Parte

Un viaggio nella storia: 1945-1975

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-2

1

Dal 1945 al 1960, dalla scienza ai prototipi: il ruolo centrale del CEA imparando da EDF e dal tessuto industriale

 

Note

  1. In questa sezione ci basiamo in particolare sul già citato lavoro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, nonché sulle interviste condotte con gli attori del programma nucleare nell’ambito del loro progetto di libro, sul libro di Georges Lamiral, Chroniques de trente années d’équipement nucléaire à Électricité de France, Association pour l’histoire de l’électricité en France (AHEF), 2 vols, 1988, e sul libro di Dominique Grenèche, Histoire et techniques des réacteurs nucléaires et de leurs combustibles, EDP Sciences, 2016.+
  2. Gli Stati Uniti hanno gradualmente aperto la possibilità di cooperazione con i Paesi europei a partire dalla fine degli anni ’50, ma sempre alle condizioni restrittive della sovranità e del controllo industriale dei Paesi interessati.
  3. Nonostante le loro riserve, ci saranno contatti con gli Stati Uniti su alcuni temi scientifici e industriali. Inoltre, è chiaro che, in questo contesto, il programma nucleare civile con le Nazioni Unite è stato particolarmente sostenuto anche in relazione al programma militare. Anche l’esperienza del CEA nei reattori ad acqua pressurizzata per la propulsione è stata preziosa.
  4. Si può sottolineare il carattere multipartitico di questa volontà e il ruolo di animazione, per non dire di guida, che lo Stato deve svolgere in questa prospettiva, che si è tradotto nella creazione del Commissariat général du Plan o in quella della CEA o dell’EDF. Il Fronte Popolare aveva già tentato, in parte con questo spirito, di organizzare la ricerca francese – il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) fu creato poco più tardi, nell’ottobre 1939 – e aveva intrapreso una politica di riarmo.
  5. Cfr. Bertrand Goldschmidt, Le Complexe atomique. Histoire politique de l’énergie nucléaire, Fayard, 1980, p. 71.
  6. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 38.
  7. Charles de Gaulle, “Discorso del 14 giugno 1960”, archivi INA, ina.fr.
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 56.
  9. Cfr. Henri Morel (a cura di), Histoire de l’électricité, Fayard, 1996, t. 3, p. 143 ss.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 68.

Il contesto e la posta in gioco7

 

Le due guerre mondiali furono in gran parte un confronto tra potenze industriali ed energetiche. Nei suoi scritti degli anni Trenta, il futuro generale de Gaulle prevedeva già l’importanza dei carri armati e degli aerei per la potenza degli eserciti, sostenendo una dottrina d’uso innovativa e, più in generale, nel 1940, prevedendo un conflitto il cui esito sarebbe stato dominato dall’ingresso della grande potenza industriale ed energetica, l’America. Dopo la guerra, le élite politiche, amministrative e industriali francesi, in gran parte provenienti dalla Resistenza e dalle Forze libere francesi, intendevano recuperare il ritardo scientifico, industriale ed economico della Francia, conseguenza della crisi degli anni Trenta e delle distruzioni della guerra. I leader erano anche consapevoli della necessità di un approvvigionamento energetico sicuro a costi controllati. Priva di petrolio, la Francia aveva sofferto fin dal XIX secolo di una scarsa disponibilità di carbone a basso costo, a differenza di Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Per molto tempo, la sua industria siderurgica è stata alimentata dal carbone delle foreste francesi e dall’energia idraulica “meccanica” fornita dai fiumi. Poi il “carbone bianco”, l’acqua, è diventato un imperativo nazionale nel periodo tra le due guerre e negli anni Cinquanta e Sessanta, con grandi programmi idroelettrici che hanno prodotto circa la metà dell’elettricità in questo periodo, ma che hanno gradualmente rallentato a causa del numero limitato di siti.

 

Già nel 1945-1950 l’energia nucleare era un obiettivo a lungo termine, sostenuto da politici come Félix Gaillard e Gaston Palewski. La presenza di miniere di uranio in Francia fu presto messa in discussione. Le riserve limitate percepite nella prima fase della storia del nucleare civile e l’aspettativa di scoprire nuovi giacimenti portarono, a partire dal dopoguerra, a lavorare su prototipi di reattori fast-breeder per utilizzare non solo l’uranio 235 (0,7% dell’uranio naturale) ma anche tutto il potenziale dell’uranio 238 (99,3% dell’uranio).

 

Gli Stati Uniti, che disponevano di petrolio e carbone in abbondanza, lanciarono allora un programma di reattori nucleari, inizialmente concepiti per la propulsione militare. L’ammiraglio Rickover fece in modo che i laboratori federali americani collaborassero con le principali società elettriche, General Electric e Westinghouse, per sviluppare reattori ad acqua leggera che sarebbero stati più semplici e robusti, ma avrebbero richiesto la padronanza dell’arricchimento, allora prerogativa degli Stati Uniti. Nel contesto del graduale emergere della Guerra Fredda, gli Stati Uniti posero un embargo su tutti i trasferimenti di tecnologia nucleare con il McMahon Act del 1946, con alcune eccezioni per i partner britannici e canadesi del Progetto Manhattan8.

 

Inoltre, alla fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Francia, come il Regno Unito, è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Germania nella corsa alla rivoluzione industriale dell’elettricità, nonostante il suo alto livello di ricerca e di scienziati. Il suo tessuto industriale è frammentato e spesso dipendente dalle licenze americane. È stato quindi necessario affidarsi all’inizio essenzialmente a enti pubblici di natura scientifica e industriale: la CEA, poi l’EDF. Il Regno Unito, per le stesse ragioni, si affida alla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA), l’equivalente della CEA, e al Central Electricity Generating Board (CEGB), l’equivalente di EDF. Anche i nostri vicini britannici sono preoccupati per l’aumento del costo del carbone e per le sfide legate alla sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito è stato quindi particolarmente motivato dal nucleare civile e ha sviluppato il suo reattore nazionale Magnox, a gas grafite, simile al reattore UNGG francese, anche più velocemente della Francia: il primo prototipo di reattore è stato messo in funzione a Calder Hall nel 1956, pochi mesi prima del primo reattore prototipo del CEA G1 a Marcoule, e la potenza installata del Magnox sarebbe stata di circa 5.000 MW nel 1970, il doppio dell’UNGG francese.

 

Politica: visione a lungo termine e decisioni di strutturazione

 

Informati da scienziati e industriali e attenti al contesto internazionale, i politici presero importanti decisioni durante la Quarta Repubblica e l’inizio della Quinta Repubblica. Per loro, il mix energetico ed elettrico della Francia doveva consentirle di diventare una potenza industriale ed economica e di garantire la sua autonomia e sovranità strategica10.

 

Nel luglio 1944, durante una visita a Ottawa, il generale de Gaulle fu informato della portata del lavoro svolto sulle batterie atomiche e sulla bomba nucleare da Pierre Auger, Jules Guéron e Bertrand Goldschmidt, gli scienziati francesi coinvolti in questi studi11. Dopo le interazioni con Raoul Dautry e Frédéric Joliot-Curie, e un dossier presentato da Raoul Dautry al capo del governo provvisorio, il generale de Gaulle creò la CEA con un’ordinanza nell’ottobre 1945, con le missioni di ricerca, energia nucleare civile e applicazioni militari: l’obiettivo era quello di “perseguire la ricerca scientifica e tecnica al fine di utilizzare l’energia atomica nei vari campi della scienza, dell’industria e della difesa nazionale “12 . Tornato al potere nel 1958, il Generale accelerò i lavori sulla linea dell’UNGG e accettò il progetto di un reattore ad acqua leggera con licenza americana nell’ambito del trattato Euratom appena messo in atto (alla doppia condizione che il reattore fosse situato in Francia e che EDF ne detenesse il 50%). Il suo discorso radiotelevisivo del 14 giugno 1960 esprime chiaramente la sua visione della posta in gioco industriale ed energetica per la Francia: “Come popolo francese, dobbiamo elevarci al rango di grande Stato industriale o rassegnarci al declino. La nostra scelta è fatta. Il nostro sviluppo è in corso. […] Naturalmente, è per dotarla [la Francia] delle fonti di energia che le mancavano che ci applicheremo innanzitutto. […] Energia atomica che gli impianti modello hanno cominciato a fornire.13

 

Félix Gaillard, combattente della Resistenza e deputato radical-socialista nel 1946, era interessato all’energia atomica. Visitò il CEA ed ebbe lunghe discussioni con Frédéric Joliot-Curie. Nel 1951, Félix Gaillard fu nominato Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio e fu responsabile delle questioni nucleari. Nel luglio 1952 presentò ai deputati il primo piano nucleare quinquennale, che diede alla CEA e al suo amministratore generale Pierre Guillaumat i mezzi per passare alla fase dei primi prototipi (G1, seguito da G2 e G3 a Marcoule) e alla realizzazione dei primi elementi del ciclo del combustibile.

 

Félix Gaillard era Ministro delle Finanze, dell’Economia e della Pianificazione quando il secondo piano nucleare quinquennale fu adottato a larga maggioranza nel luglio 1957. Questo piano raccomandava di raggiungere una capacità installata di 850 MW nel 1965 e di 2.500 MW nel 1970, obiettivo che fu praticamente raggiunto. Presidente del Consiglio dal novembre 1957 al maggio 1958, nel marzo 1958 diede il via libera alla costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio a Pierrelatte per scopi militari. L’atteggiamento degli americani durante la crisi di Suez e nella NATO spinse la Francia ad accelerare i lavori sul nucleare militare per garantire la propria autonomia strategica. La decisione è importante. Avrebbe aperto la strada all’uso di reattori ad acqua leggera, mantenendo il controllo del combustibile un decennio dopo14.

 

Gaston Palewski, ex capo di gabinetto di Paul Reynaud e storico gollista, nel 1955 fu ministro delegato alla Presidenza del Consiglio, responsabile del Coordinamento della Difesa Nazionale, della Ricerca Scientifica, degli Affari Atomici e degli Affari Sahariani. Con il suo governo, incrementò le risorse della CEA per passare all’UNGG e alla propulsione nucleare. Il 21 aprile 1955 creò la Commissione per la produzione di elettricità da fonti nucleari (Commissione PEON), che avrebbe svolto un ruolo importante fino agli anni Ottanta. Essa riuniva al massimo livello i rappresentanti del Piano, dello Stato (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Industria, ecc.), della CEA e dell’EDF. L’obiettivo era quello di esaminare le dimensioni economiche dei metodi di produzione dell’energia elettrica e quindi di proporre linee guida per la politica nucleare francese.

 

Il CEA, principale artefice della transizione dalla scienza all’industria

 

Fin dall’inizio, la CEA si affidò a un team di grandi scienziati nel campo della fisica nucleare, come Frédéric Joliot-Curie, Francis Perrin, Bertrand Goldschmidt e Pierre Auger. Fin dall’inizio, creò gruppi di ricercatori di alto livello in tutte le discipline necessarie, con forti competenze in neutronica, fisica matematica, metallurgia, chimica, automazione, ecc. Il dipartimento “Stack Design” si occupava in particolare della progettazione dei futuri reattori, con personalità come Jacques Yvon, Jules Horowitz, Georges Vendryes e Jean Bourgeois, che avrebbe svolto un ruolo importante nello sviluppo e nella considerazione delle questioni di sicurezza dalla progettazione all’esercizio. Con queste competenze scientifiche di alto livello, la Francia sarà quasi alla pari con gli Stati Uniti. D’altra parte, il passaggio alla fase industriale è più delicato.

 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la Francia non è stata in grado di sviluppare grandi attori industriali, come General Electric e Westinghouse, capaci di padroneggiare la progettazione di sistemi complessi come le nuove centrali nucleari, anche se un grande capo come Charles Schneider (Gruppo Creusot-Loire e Schneider) aveva capito l’importanza del tema.

 

Più in generale, dopo la lunga crisi economica degli anni Trenta e poi la guerra, il punto di partenza era un tessuto industriale francese certamente quasi completo e che “sapeva fare le cose per esperienza”, ma frammentato e artigianale, in ritardo dal punto di vista tecnico, con deboli capacità di ricerca, pochi legami con il mondo scientifico e spesso dipendente dalle licenze americane. Pierre Guillaumat, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, che aveva partecipato alla Resistenza, affrontò questo problema come amministratore generale del CEA dal 1951 al 1958. Il CEA accolse nei suoi team ingegneri provenienti dall’industria e dall’EDF e li formò all’ingegneria atomica. Nel 1952 Pierre Guillaumat creò anche un dipartimento industriale presso il CEA per produrre i primi prototipi UNGG G1, G2 e G3 a Marcoule e nominò Pierre Taranger, proveniente dal settore petrolifero, a capo di questo dipartimento industriale.

 

La sfida per il CEA – come per EDF – era quella di affrontare due fallimenti del mercato (“esternalità negative”) in questa prima fase, istituendo due modalità di coordinamento fondamentali per l’innovazione e l’efficienza economica a lungo termine:

 

riunire scienziati, uffici di progettazione e fabbriche;

far collaborare aziende industriali con un’ampia gamma di competenze tecniche per progettare e costruire i sistemi complessi e impegnativi in termini di sicurezza e qualità che sono le centrali nucleari e il relativo ciclo del combustibile.

All’interno della stessa CEA, Pierre Guillaumat doveva far lavorare scienziati di alto livello con gli industriali e formare generazioni di ingegneri industriali, mentre la CEA doveva facilitare la formazione di gruppi industriali e il loro aumento di competenze facendo affidamento sui punti di forza dell’industria francese: Pechiney e la sua padronanza della grafite pura, Saint-Gobain e la chimica del ritrattamento, e Le Creusot con le sue competenze nella metallurgia e le sue fucine. Responsabile della costruzione di questa prima generazione di reattori, la CEA preparò anche la padronanza tecnica dell’intero ciclo, in particolare l’arricchimento dell’uranio, importante a breve termine per la propulsione nucleare e le armi atomiche, e a più lungo termine per aprire l’opzione dell’acqua leggera per l’energia nucleare civile, mobilitando ingegneri delle polveri (Georges Fleury, Claude Fréjacques) e reclutando Georges Besse (politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere) nel 1952, proprio per lavorare sull’arricchimento dell’uranio. Georges Besse fu responsabile di Pierrelatte negli anni Sessanta, poi di Eurodif negli anni Settanta.

 

Oltre alla padronanza tecnica ed economica, la sfida per la CEA era ovviamente quella di garantire la sovranità industriale. In questi primi anni, garantire questa sovranità significava essere soli sulla frontiera tecnologica, sia in campo civile che militare, a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Ma il controllo ricercato è anche un obiettivo a lungo termine, se si vuole garantire l’autonomia strategica e la sicurezza degli approvvigionamenti. Senza escludere la cooperazione internazionale, anche in settori sensibili, ciò implica la padronanza, per il ciclo del combustibile, delle miniere di uranio – i giacimenti saranno trovati in Francia e sfruttati, in particolare nel Limousin -, della fabbricazione del combustibile, della chimica nucleare sofisticata per il ritrattamento – Bertrand Goldschmidt alla CEA e Saint-Gobain – e, a lungo termine, dell’arricchimento di questo uranio. Ciò implica anche la padronanza di alcuni collegamenti industriali chiave per l’impianto: la fabbricazione di grafite pura, il controllo e il comando, nonché la metallurgia dei cassoni, che richiede forge di qualità, la padronanza della scienza dei materiali e delle tecniche di saldatura. Le équipe del Creusot potranno inoltre avvalersi delle competenze dell’industria degli armamenti, in particolare di quelle della fonderia Indret e dell’esperienza di Yvon Bonnard, ingegnere navale.

 

L’apprendistato di EDF, per preparare con gli attori industriali il passaggio al dimostratore su scala industriale aprendo opzioni: UNGG-acqua leggera

 

All’epoca della nazionalizzazione dell’elettricità, i dirigenti di EDF erano anche spinti dall'”ardente obbligo” di consentire la ricostruzione e la prosperità del Paese grazie all’elettricità economica, contribuendo alla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese. Questa era la loro missione principale. Dal 1946 al 1957, Pierre Ailleret, politecnico ed ex studente dell’École nationale des ponts et chaussées e del Supélec, fu direttore del Dipartimento di Ricerca di EDF, che contribuì a creare, prima di diventare vice direttore generale di EDF dal 1958 al 1968. Era un uomo di esperienza, responsabile di progetti idraulici e della costruzione di reti di interconnessione. Convinto dell’importanza dei progressi scientifici per l’energia, seguì i corsi di fisica nucleare di Jean Perrin prima della guerra e spinse il Dipartimento Studi e Ricerche a non accontentarsi di sostenere gli altri dipartimenti di EDF nelle loro questioni operative a breve termine, ma ad aprire tutte le possibili strade delle nuove energie avvicinandosi al mondo scientifico e aprendosi a livello internazionale: l’energia eolica, l’energia delle maree, l’energia termica oceanica, le turbine e i compressori a gas, ecc. e l’energia nucleare15.

 

Nominato nel 1950 membro del consiglio scientifico e del comitato (consiglio di amministrazione) del CEA16 , inviò giovani ingegneri dell’EDF, come Denis Gaussot, futuro direttore del Service d’études et projets thermiques et nucléaires (Septen), poi vicedirettore dell’Équipement, a formarsi al CEA presso l’Institut national des sciences et techniques nucléaires (INSTN). Nel 1953 propose di produrre elettricità dal vapore del G1 di Marcoule e la CEA decise di affidare la responsabilità all’EDF.

 

La diffusione massiccia dell’energia nucleare, una volta raggiunta la maturità economica, dovrebbe essere responsabilità di un industriale come EDF, e non di un’organizzazione scientifica come la CEA. D’altra parte, si pone la questione della responsabilità della fase intermedia dei dimostratori industriali UNGG tra le fasi dei prototipi G1, G2, G3 di Marcoule (commissionati alla fine degli anni ’50) e il dispiegamento a lungo termine. La discussione fu inizialmente difficile tra la CEA e l’EDF, ma Pierre Taranger, della CEA, era convinto che l’EDF sarebbe stato il più adatto ad aumentare significativamente le dimensioni delle unità e a rischiare su soluzioni innovative che avrebbero permesso di testare realmente il potenziale economico della tecnologia e quindi di ottenere i guadagni necessari durante il dispiegamento.

 

Nel 1954, la decisione è stata presa rapidamente da Pierre Guillaumat e Roger Gaspard (direttore generale di EDF): EDF sarà l’appaltatore principale e l’operatore delle tre unità di Chinon: Chinon A1, iniziata nel 1957, 70 MW; Chinon A2, nel 1959, 210 MW; Chinon A3, nel 1961, 460 MW. La CEA è responsabile della parte nucleare e le due entità devono collaborare su tutti i temi. EDF doveva assumere il ruolo di architetto industriale e di gestore del progetto in una modalità “idraulica” non standardizzata, adattando le dimensioni della struttura alla geografia del sito e lasciando a ogni regione di attrezzature EDF la libertà di scegliere i propri fornitori. Questo è ancora in gran parte il caso dell’energia termica convenzionale, dove, sebbene esista una politica di fasi standardizzate di dimensioni – 125 MW, poi 250 MW, prima di 600 MW a carbone e olio combustibile e 700 MW a olio combustibile – le regioni di attrezzature di EDF sono molto autonome nell’adattarsi ai siti e nella scelta dei contratti e dei fornitori industriali. Questo decentramento del reparto apparecchiature, in parte ereditato dalla storia frammentata del settore elettrico prima della nazionalizzazione del 1946, è accompagnato da una forte concorrenza tra i fornitori basata sulla suddivisione in centinaia di lotti. Anche in questo caso, troviamo l’eredità di un tessuto industriale poco concentrato, che dovrà continuare ad aumentare le proprie competenze e la propria capacità di assumersi la responsabilità di sottosistemi più ampi.

 

Il contesto internazionale sta cambiando e gli attori francesi dovranno essere in grado di reagire rapidamente per approfittare delle circostanze favorevoli. Gli americani hanno cambiato atteggiamento e, alla fine degli anni Cinquanta, si sono dimostrati favorevoli alla cooperazione con gli alleati europei nel campo dell’energia nucleare civile; erano pronti a fornire il combustibile arricchito necessario per utilizzare le nuove tecnologie ad acqua leggera e i primi dimostratori industriali stazionari sono stati messi in servizio negli Stati Uniti: per la tecnologia ad acqua pressurizzata, alla fine del 1957 entrò in funzione l’impianto di Shippingport da 60 MW (derivato direttamente dal sottomarino Nautilus), mentre nel 1960 entrò in funzione Yankee Rowe (170 MW), da cui era stato derivato il progetto di Chooz A. Questa è stata la prima generazione di energia nucleare civile negli Stati Uniti.

 

La Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) è stata creata da un trattato specifico firmato a Roma, contemporaneamente al trattato che istituiva la CEE nel 1957, ed è entrata in vigore nel gennaio 1958. Il suo scopo era quello di promuovere la cooperazione europea nel campo dell’energia nucleare civile. Dall’inizio del 1958 al febbraio 1959 fu presieduto da Louis Armand, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, membro della Resistenza, direttore generale e poi presidente della SNCF, grande ingegnere e professore all’École nationale d’administration (ENA) su questioni industriali ed energetiche dal 1945 al 1967.

 

I belgi erano particolarmente interessati alla tecnologia dell’acqua leggera. Volevano implementarla insieme ai francesi. EDF, in particolare Pierre Ailleret, era fortemente coinvolto nelle associazioni internazionali – la Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici (Cigre), l’Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica (Unipede), il Consiglio mondiale dell’energia (WEC), ecc. Raymond Giguet, ex direttore delle apparecchiature e all’origine, con Pierre Massé, della Nota Blu, uno strumento economico per aiutare nella scelta degli investimenti, vicedirettore generale di EDF, è molto favorevole a questa opzione in aggiunta all’UNGG, data la semplicità e la robustezza del suo design. Pierre Ailleret, pur essendo piuttosto partigiano all’interno di EDF dell’UNGG, è anche disposto a guardare più da vicino le interessanti soluzioni americane sviluppate da General Electric e Westinghouse. Gli ingegneri di Creusot-Schneider, molto interessati all’energia nucleare, sotto l’impulso di Charles Schneider e dell’ingegnere Maurice Aragou, erano un po’ scettici sulla qualità delle prime realizzazioni americane (giustamente), ma erano pronti a investire in considerazione della forte relazione storica con Westinghouse, di cui già detenevano alcune licenze in diversi campi.

 

La Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes (SENA) fu costituita nel 1960 da EDF e da diverse società elettriche belghe per la costruzione e la gestione dell’impianto nell’ambito di Euratom. Il generale de Gaulle diede il suo consenso di principio a condizione che il sito fosse situato in Francia e che EDF ne possedesse il 50% e lo gestisse. Nel 1959 fu costituito un consorzio per rispondere alla gara d’appalto indetta dal SENA per la gestione della licenza Westinghouse, sul modello della centrale di Yankee Rowe negli Stati Uniti, con una capacità installata di 250 MW: Framatome, una società franco-americana di costruzioni atomiche presieduta da Maurice Aragou (di Creusot-Schneider), e inizialmente posseduta al 60% da Schneider, al 30% da Empain e al 10% da Westinghouse. Il consorzio vinse la gara d’appalto e i lavori di ingegneria civile iniziarono nel 1962. Tutto ciò permise a EDF di muovere i primi passi, insieme ai belgi, nel settore dell’acqua pressurizzata e di sperimentare diversi rapporti contrattuali e tecnici con gli industriali responsabili dei principali sistemi dell’impianto.

 

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Dal 1960 al 1971, dai dimostratori industriali alla scelta del tipo di impianto da realizzare

 

Note

  1. Si tratta di una rottura netta di un materiale senza deformazione plastica macroscopica sotto l’azione di una sollecitazione e in determinate circostanze specifiche (esistenza di un difetto, condizioni di temperatura-pressione, ecc.)
  2. Cfr. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 87-88.
  3. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 137.
  4. Siemens e AEG sono tradizionalmente legate a Westinghouse e General Electric e sono in grado di costruire centrali elettriche.
  5. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 355-356.
  6. Ibidem, pp. 145-146.
  7. Bernard Esambert rimase in carica nel 1968 con Maurice Couve de Murville come Primo Ministro, poi si unì a Georges Pompidou che divenne Presidente della Repubblica nel giugno 1969. Svolse un ruolo importante nei grandi programmi industriali di questo periodo, promossi da Georges Pompidou (cfr. Bernard Esambert, Pompidou, capitaine d’industries, Odile Jacob, 1994).
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 165-166.
  9. Cfr. la nota al Piano di Jacques Lacoste e la lettera di André Decelle citata in precedenza.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. pp. 165-166.

Dubbi e dibattiti tra ingegneri e industriali

 

Questo lungo decennio di costruzione di dimostratori industriali sotto la responsabilità di EDF e con un forte coinvolgimento industriale della CEA sulla parte nucleare illustra le sfide tecniche e industriali da affrontare. I problemi tecnici saranno ricorrenti e importanti, con conseguenze significative sui tempi di costruzione e sull’indisponibilità delle unità nei primi anni. Questo è in particolare il caso delle tre unità UNGG di Chinon, ma anche di Chooz A.

 

Durante la costruzione della centrale A1 di Chinon, nel febbraio 1959, si sviluppò improvvisamente una fessura di circa dieci metri di lunghezza sul cassone in acciaio (quelli successivi erano in cemento armato precompresso), con le caratteristiche del fenomeno della “frattura fragile “17 . Yvon Bonnard, ingegnere capo del dipartimento di ingegneria navale, fu mobilitato per ricorrere alle competenze del laboratorio di metallurgia della Marina francese di Indret. Problemi simili si presentarono anche negli Stati Uniti con le grandi navi d’acciaio per le centrali elettriche ad acqua leggera all’inizio degli anni ’60 e le soluzioni trovate permisero di aumentare significativamente le dimensioni delle unità dei reattori ad acqua leggera.

 

All’inizio del suo funzionamento, Chinon A3 subì una serie di incidenti che impedirono la visita prevista dal generale de Gaulle nell’autunno del 1966 e ne posticiparono la messa in funzione di due anni. Questi incidenti erano in particolare legati alla complessità del sistema di manipolazione del combustibile e di rilevamento delle rotture del rivestimento, nonché a una cattiva progettazione dell’impianto (insufficiente considerazione dell’espansione termica e delle sollecitazioni dei tubi di acciaio inossidabile utilizzati per il campionamento necessario a rilevare le rotture del rivestimento)18 .

 

Anche Chooz A ha subito diversi incidenti gravi che ne hanno posticipato la messa in servizio di due anni (1970 anziché 1967-1968), in particolare le viti di assemblaggio del nocciolo del reattore che si sono allentate a causa delle vibrazioni provocate dal flusso idraulico19.

 

Grazie alla qualità dell’organizzazione e alla cooperazione industriale e tecnica tra gli attori industriali (EDF, CEA, fornitori e uffici di progettazione) e alle competenze acquisite nel decennio precedente, questi problemi multipli sono stati un’opportunità per progredire collettivamente nella comprensione dei fenomeni fisici e nella capacità di trovare e implementare rapidamente soluzioni. Tuttavia, il metodo UNGG appare molto complicato rispetto alle centrali ad acqua leggera (si veda il sistema continuo di scarico-ricarica di una miriade di elementi di combustibile) e, con serbatoi già molto grandi (con la grafite come moderatore per poter utilizzare l’uranio naturale), sembra a priori molto difficile aumentare le dimensioni delle unità oltre i 500 MW (i PWR sono più compatti a parità di potenza installata).

 

Nel 1964, la decisione di principio di impiegare massicciamente l’UNGG nel decennio fu comunque presa in un piccolo consiglio a Matignon, sotto la presidenza di Georges Pompidou, allora primo ministro. Il prezzo dell’olio combustibile era ancora alto, le lezioni delle difficoltà dell’UNGG non erano ancora state analizzate collettivamente e le prestazioni dei primi impianti americani ad acqua leggera non erano eccellenti. Le tre unità UNGG di Saint-Laurent-des-Eaux A1 e A2 e Bugey 1 (da 500 a 550 MW) furono messe in funzione nel 1964 e nel 1965 e sarebbero state le ultime in Francia.

 

Un anno dopo, durante la riunione di programma CEA-EDF del 14 dicembre 1965, presieduta dall’amministratore generale Robert Hirsch e dall’alto commissario CEA Francis Perrin, il direttore generale André Decelle e il presidente di EDF Pierre Massé, Francis Perrin e André Decelle si interrogarono sull’interesse di aprire l’opzione dei reattori ad acqua leggera alla luce dei nuovi elementi raccolti di recente. Negli Stati Uniti, Westinghouse e General Electric hanno imparato dai problemi incontrati nella prima generazione di reattori e stanno proponendo agli elettricisti americani ed europei centrali di seconda generazione a prezzi molto interessanti (e con unità più grandi). Washington era pronta a offrire combustibile arricchito a condizioni economiche interessanti, vista la sovraccapacità americana. Nello stesso anno, il 1964, il Regno Unito decise di abbandonare il suo reattore a uranio naturale (Magnox) a causa dei costi eccessivi in un contesto di calo dei prezzi dell’olio combustibile. Il governo britannico optò per l’Advanced Gas-cooled Reactor (AGR), un miglioramento del Magnox con combustibile a uranio arricchito di diversa concezione, e i dirigenti del Central Electricity Generating Board (CEGB) dissero chiaramente ai loro omologhi dell’EDF che era stato un errore non scegliere i reattori americani ad acqua leggera. Nel 1965, gli elettricisti tedeschi, che stavano iniziando a utilizzare le tecnologie americane20 , proposero a EDF di realizzare insieme uno studio economico di confronto tra UNGG e acqua leggera per esaminare l’opportunità di realizzare un progetto UNGG congiunto con i francesi a Fessenheim. Al termine di questo studio, l’acqua leggera è risultata molto più economica.

 

La questione della sovranità dell’acqua leggera è soggetta a valutazioni diverse a causa dell’evoluzione dei dati relativi a due punti essenziali: l’arricchimento e la possibilità di “affrancamento” della licenza Westinghouse. L’impianto di arricchimento militare di Pierrelatte è entrato gradualmente in funzione tra il 1964 e il 1967 (sotto la direzione di Georges Besse). Philippe Boulin, per Creusot-Schneider e la linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, e Ambroise Roux, per CGE e la linea ad acqua bollente di General Electric, erano convinti che la seconda generazione, che si stava rapidamente diffondendo negli Stati Uniti e veniva proposta agli europei, fosse economicamente e tecnicamente più efficiente. La costruzione del reattore Chooz A da parte della Société des forges et ateliers du Creusot (Sfac), parte del gruppo Creusot-Schneider, fu un successo industriale. Le competenze metallurgiche dei francesi interessarono e impressionarono particolarmente Westinghouse, alla quale gli americani ordinarono in seguito sette reattori ad acqua pressurizzata. In particolare, le fucine Creusot utilizzarono per la prima volta il “metodo di calcolo agli elementi finiti” (all’avanguardia nei metodi di calcolo tecnico-scientifici) e si avvalsero della consulenza di Yvon Bonnard per migliorare la composizione dell’acciaio. Come sottolinea Georges Lamiral analizzando il funzionamento dell’industria francese in questo periodo: “I francesi commettono talvolta errori e fallimenti, ma una delle loro principali qualità è quella di saper reagire rapidamente”. Le prestazioni delle fucine Creusot, il tessuto industriale francese e le competenze del CEA-EDF-Framatome in materia di reattori ad acqua pressurizzata resero possibile la prospettiva di affrancamento della licenza Westinghouse.

 

In tre anni, dal 1963 al 1966, gli attori industriali francesi discussero la scelta dei reattori negli organismi di lavoro collettivo di più alto livello (commissione PEON, comitati EDF-CEA, ecc.), in modo tanto professionale quanto conflittuale, e si convinsero collettivamente che le due opzioni, UNGG e acqua leggera, dovevano essere aperte. La “frattura” si è verificata anche all’interno di EDF e della CEA: André Decelle, direttore generale di EDF, ha spinto per l’acqua leggera, mentre Pierre Ailleret, vicedirettore generale di EDF, ha sostenuto l’UNGG. Il vigore delle discussioni va di pari passo con la loro qualità tecnica ed economica e con la presa in considerazione di nuovi dati internazionali e di questioni industriali e di sovranità. La loro convergenza “relativa” fu quindi piuttosto rapida. Il 7 marzo 1966, André Decelle (EDF) inviò una lettera a Robert Hirsch (CEA) per spiegare queste questioni. Il 4 maggio 1966, il direttore generale dell’EDF e il direttore generale del CEA hanno istituito la commissione Cabanius-Horowitz (dal nome rispettivamente del direttore delle apparecchiature dell’EDF e del direttore delle batterie atomiche del CEA), con il compito di redigere un rapporto di sintesi che metta a confronto l’UNGG, l’acqua leggera (pressurizzata e bollente) e l’olio termico. Questo rapporto congiunto EDF-CEA dovrebbe servire come base per le discussioni della commissione PEON, che ha il compito di consigliare il governo sulla strategia nucleare civile. Il rapporto EDF-CEA, favorevole alle tecnologie ad acqua leggera, è stato presentato nel giugno 1967 e la commissione PEON ha raccomandato, nell’aprile 1968, di proseguire la costruzione delle UNGG con le prossime due unità a Fessenheim e, soprattutto, di testare l’acqua leggera su scala reale mettendo rapidamente in funzione una nuova unità in Francia.

 

Una prima gara d’appalto per due unità UNGG a Fessenheim, lanciata da EDF nell’ottobre 1968, si rivelò troppo costosa. Rifletteva la riluttanza degli industriali a impegnarsi nella realizzazione di questo tipo di impianti. Alla fine del 1969, dopo il via libera di Georges Pompidou, divenuto Presidente della Repubblica, fu indetta una seconda gara d’appalto per Fessenheim. Framatome presentò un’offerta industriale credibile con prezzi competitivi. Una gara d’appalto simile seguì rapidamente per due unità a Bugey. Dal 1967 al 1971, le autorità politiche disponevano quindi della sovranità e degli elementi tecnico-economici necessari per scegliere l’opzione nucleare, con argomenti convincenti a favore dell’acqua leggera. Ma le centrali a olio combustibile erano più attraenti del nucleare a breve termine, compresa l’acqua leggera, con i prezzi del petrolio ancora in calo. Tuttavia, Jacques Lacoste, consigliere di Marcel Boiteux, divenuto direttore generale di EDF nel 1967 dopo aver diretto il Dipartimento di Studi Economici Generali, scrisse una nota importante e premonitrice che indirizzò al Piano per sottolineare i rischi geopolitici che l’eccessiva dipendenza della Francia dal petrolio comportava a lungo termine, e di conseguenza la necessità di dare visibilità e prospettive al settore nucleare. Così l’industria non si impegnò a costruire nuove unità dal 1966 al 1971. Durante questo periodo, l’industria era in attesa di decisioni politiche. Per convincersene, basta leggere la lettera del 7 novembre 1968 di André Decelle, allora Consigliere di Stato, indirizzata ad André Bettencourt, Ministro dell’Industria, in cui si proponeva un rapido piano di rilancio per preservare le competenze dell’industria nucleare e il tessuto industriale22.

 

La riflessione e le decisioni politiche sulla scelta dei settori: 1966-1971

 

Tra il 1966 e il 1969, il punto di vista del generale de Gaulle si evolve progressivamente a favore della tecnica dell’acqua leggera. Nel settembre 1967, espresse la sua insoddisfazione nei confronti dell’EDF di fronte ai ritardi e alle difficoltà del programma UNGG (la visita a Chinon A3, annullata nel 1966, fu sostituita da quella alla centrale mareomotrice di Rance) e di fronte agli insuccessi nella realizzazione dell’unità termica da 250 MW, legati in particolare a un’insufficiente standardizzazione, causa di sforamenti dei costi e di ritardi nel completamento. André Decelle e Pierre Ailleret, direttore generale e vicedirettore generale di EDF, sono stati sostituiti da Marcel Boiteux e Charles Chevrier. Georges Pompidou, rinominato Primo Ministro dopo le elezioni legislative della primavera del 1967, era piuttosto favorevole alla tecnica dell’acqua leggera, a differenza di Maurice Schumann, Ministro di Stato per la Ricerca Scientifica e le Questioni Atomiche e Spaziali.

 

Durante il Consiglio interministeriale del 7 dicembre 1967, il generale de Gaulle espresse nuovamente la sua insoddisfazione al presidente di EDF, Pierre Massé, che era presente in quel momento. Si decise di avviare la costruzione di due reattori UNGG a Fessenheim e, per mantenere aperta l’opzione dell’acqua leggera, di studiare un impianto di arricchimento per scopi civili, che sarebbe stato essenziale per la sovranità del Paese se avesse fatto un uso significativo dell’opzione dell’acqua leggera. È stato inoltre deciso di autorizzare EDF a partecipare alla costruzione di una centrale ad acqua leggera di seconda generazione a Tihange, in Belgio, insieme ai belgi. Si tratterà di una centrale ad acqua pressurizzata basata sul modello Beaver Valley, che è stato poi scelto per Fessenheim. Va notato che lo studio di un’altra centrale ad acqua leggera, con gli svizzeri, che doveva essere una centrale ad acqua bollente, era stato appena autorizzato a Kaiseraugst nel luglio 1967, ma il progetto fu infine abbandonato.

 

Nel settembre 1967, Bernard Esambert, un giovane funzionario del Corpo delle Miniere, fu nominato consigliere industriale del Primo Ministro Georges Pompidou23 . La decisione presa nel dicembre 1967 di costruire due UNGG a Fessenheim non era in linea con quella che, con il rapporto Cabanius-Horowitz, cominciava a essere la visione quasi condivisa dei dirigenti di EDF e CEA. L’argomento è complesso, molto controverso e non ben compreso a livello politico. Il ruolo dei consulenti nei gabinetti ministeriali o all’Eliseo non era quello di sostituirsi ai servizi statali o agli enti pubblici, ma di attingere alle loro competenze aprendosi a punti di vista esterni per dare spessore alla diagnosi e consentire ai leader politici di andare a fondo della questione. Questo lavoro permise a Georges Pompidou, così come ad alcuni dei suoi ministri che sarebbero rimasti in carica con Maurice Couve de Murville, di appropriarsi della diagnosi: l’opzione dell’acqua leggera aveva il miglior potenziale, era ormai possibile “francesizzare” le tecnologie americane, e se gli altri europei non avessero facilitato la partecipazione di EDF all’ultracentrifugazione per l’arricchimento, sarebbe stato necessario sviluppare un impianto civile con la tecnologia francese della diffusione gassosa proponendo agli europei interessati di partecipare. Georges Pompidou trasmise questi elementi al generale de Gaulle, senza alcun riscontro positivo. Egli lasciò l’incarico all’inizio di luglio del 1968 (Maurice Couve de Murville divenne allora Primo Ministro), ma tornò come Presidente della Repubblica nel giugno del 1969 con la stessa convinzione.

 

Il rapporto della commissione PEON presentato al governo nell’aprile 1968 sottolineava l’interesse dell’acqua leggera rispetto all’UNGG e raccomandava la costruzione di un’unità ad acqua leggera in Francia dopo le due UNGG di Fessenheim, per testare questa nuova generazione e verificarne l’interesse per il futuro. Nel luglio 1968 si tenne un decisivo consiglio dei ministri su questo tema, con Maurice Couve de Murville, Primo Ministro, André Bettencourt, Ministro dell’Industria, e Robert Galley, Ministro delegato alla Ricerca Scientifica e alle Questioni Atomiche e Spaziali. André Bettencourt si prese il tempo necessario per entrare nel vivo della questione (basandosi in particolare sugli elementi preparati da Roger Ginnochio, ex vicedirettore della produzione/trasporti di EDF e membro del suo gabinetto) per riferire al Generale de Gaulle al Consiglio dei Ministri24 . Il Generale ascoltò con interesse e indicò che le cose dovevano essere rimesse in carreggiata e la decisione sulle due unità UNGG a Fessenheim riconsiderata. In quel periodo fu completato l’impianto di arricchimento di Pierrelatte.

 

Nell’ottobre 1968, il ritorno della gara d’appalto per l’UNGG di Fessenheim presentava clausole inaccettabili e prezzi troppo alti per EDF. Gli industriali hanno puntato su una tecnologia che sembrava loro rischiosa. Inoltre, i prezzi dell’olio combustibile pesante sono ai minimi e più interessanti. Nel contesto delle difficoltà di finanziamento pubblico a seguito degli eventi del maggio 1968, si è quindi tentati di rimandare di qualche anno qualsiasi ulteriore impegno nucleare a favore dell’olio combustibile. Tuttavia, gli attori industriali richiamarono l’attenzione delle autorità pubbliche sulla necessità di dare una visibilità a medio-lungo termine agli industriali per preservare le competenze in assenza di impegni in nuove centrali dal 1966 e per tenere pronta l’opzione nucleare di fronte ai rischi geopolitici sul petrolio25. Nel gennaio 1969, il generale de Gaulle, ricevendo Pierre Delouvrier quando quest’ultimo stava per sostituire Pierre Massé alla presidenza dell’EDF, si dichiarò d’accordo con l’acqua leggera, a condizione che venisse creato un impianto di arricchimento civile26.

 

Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica nel giugno 1969 e già convinto nel 1968 come Primo Ministro dell’interesse dell’acqua leggera, decise nel febbraio 1971 di impiegarla nel decennio successivo. In occasione del Consiglio interministeriale ristretto del 13 novembre 1969, decise di abbandonare le due unità UNGG previste a Fessenheim alla luce dei risultati della gara d’appalto indetta da EDF. La società pubblica avrebbe dovuto costruire a Fessenheim due unità ad acqua leggera, pressurizzata o bollente.

 

Nel febbraio 1970, EDF indisse una nuova gara d’appalto per Fessenheim con Framatome-Sfac per la tecnologia Westinghouse e CGE per la tecnologia General Electric. La proposta di Framatome si basava, come per Tihange, sulla seconda generazione di reattori ad acqua pressurizzata, molto più efficienti di Chooz A (basato sul progetto dell’impianto di Beaver Valley ordinato dagli Stati Uniti nel 1967). Philippe Boulin, a capo di Creusot-Loire, e il suo team hanno azzardato un’offerta che anticipava la costruzione di una serie di centrali, riducendo così i costi. La sua offerta, nettamente migliore di quella di CGE, fu quindi selezionata. Seguì rapidamente una seconda gara d’appalto per Bugey, dove fu nuovamente selezionata Framatome.

 

Nel novembre 1970, la commissione PEON raccomandò la costruzione di 8.000 MW di energia nucleare ad acqua leggera (da otto a dieci unità) tra il 1971 e il 1975. Un consiglio ristretto riunitosi all’Eliseo il 26 febbraio 1971 ha accolto questa raccomandazione, autorizzando l’impegno di tre nuove unità per il 1971 e il 1972. EDF si preparò a un ritmo di impegno di una o due unità all’anno nel corso del decennio, mentre il ritmo previsto dal contratto di programma firmato tra EDF e lo Stato, a seguito del rapporto Nora, era di due unità all’anno. Cinque unità sono state impegnate nel 1971, 1972 e 1973, prima della prima crisi petrolifera.

 

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Dal 1972 al 1975, gli shock petroliferi e la preparazione industriale di un dispiegamento massiccio e standardizzato di acqua pressurizzata

 

Note

  1. Anche in questo caso, i punti di vista degli attori industriali sono stati contrapposti, anche se, in EDF, Michel Hug non era molto favorevole all’ebollizione (aveva lavorato sui problemi di cavitazione), e Marcel Boiteux e Paul Delouvrier erano favorevoli alla standardizzazione piuttosto che alla concorrenza tra due settori (su questa “battaglia dei settori nucleari”, si veda Marcel Boiteux, Haute tension, Odile Jacob, 1993, p. 137-156).
  2. Cfr. la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea la

Si veda la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea il Comitato dei responsabili degli studi, inizialmente guidato da Denis Gaussot, direttore del Septen dal 1972 al 1976 (Georges Lamiral, op. cit., vol. 2, p. 127).

  1. Cfr. Cyril Foasso, Histoire de la sûreté de l’énergie nucléaire civile en France (1945-2000) : technique d’ingénieur, processus d’expertise, question de société, tesi di dottorato, Université Lyon-II, 28 ottobre 2003.

La strutturazione e la reazione politica su larga scala alla crisi petrolifera e all’abbandono del settore dell’acqua bollente

 

Gli shock petroliferi dell’ottobre 1973 e del gennaio 1974 portarono a quadruplicare il prezzo del barile di petrolio in meno di quattro mesi: in pochi giorni, il costo dell’importazione di petrolio per la Francia passò da meno dell’1,5% del PIL a quasi il 5%. Il 22 novembre 1973, il Consiglio interministeriale presieduto da Pierre Messmer, primo ministro, ratificò il progetto di un impianto di arricchimento a Tricastin, Eurodif, diretto da Georges Besse, che aveva lanciato il progetto all’inizio del 1974. Il 30 novembre 1973 Pierre Messmer si rivolge ai francesi per annunciare una serie di misure di risparmio energetico. Era l’inizio di un’operazione di “risparmio energetico” che avrebbe stabilizzato il consumo di energia del Paese nell’arco di un decennio. Il 6 marzo 1974, il Consiglio interministeriale presieduto da Georges Pompidou decise quello che sarebbe stato chiamato il “piano Messmer”, elaborato sulla base delle proposte della commissione PEON: impegno di sei unità nucleari di circa 1.000 MW nel 1974, poi sette unità nel 1975, mantenendo l’obiettivo di una coesistenza e di un’emulazione tra le due tecnologie ad acqua leggera (Westinghouse e General Electric). Nell’agosto 1975, data la sua debolezza industriale sull’isola nucleare rispetto a Creusot-Loire-Framatome, CGE rinunciò allo sviluppo della linea di ebollizione di General Electric. Il governo avrebbe rinunciato alla competizione sulla caldaia e sul turbogeneratore, mentre EDF avrebbe lavorato con gli industriali e la CEA per mettere l’industria in ordine di battaglia per affrontare questo nuovo periodo e queste nuove sfide associate a un dispiegamento su vasta scala per più di un decennio (1975-1990)27 .

 

L’industria in ordine di battaglia per una transizione energetica senza precedenti

 

Tutti gli attori erano consapevoli della necessità di cambiare nuovamente software rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di organizzazione e metodi operativi, sia di fronte alle nuove sfide industriali ed economiche associate all’attuazione di un programma di costruzione particolarmente ambizioso.

 

Nel 1967, la Divisione Apparecchiature di EDF, a causa della sua storia, era composta da una quindicina di regioni di apparecchiature gelose della loro autonomia, ognuna con i propri uffici di progettazione e abituate a competere su centinaia di lotti con un’industria frammentata e con scarse capacità di progettazione. A partire dal 1967-1968, l’azienda si preparò a un impiego standardizzato, traendo insegnamento dal difficile avvio della fase termica da 250 MW, legato a questa assenza di dottrina tecnica e a questo eccessivo decentramento. Allo stesso tempo, si trattava della fine graduale dei grandi programmi idraulici – la maggior parte dei siti era attrezzata – che si basavano naturalmente su approcci “su misura”. Nel 1968, Charles Chevrier, vicedirettore generale, creò il Septen, che avrebbe avuto la responsabilità tecnica della progettazione delle apparecchiature termiche e nucleari. Dal 1972 al 1976, Michel Hug, Direttore dell’Equipaggiamento, ha riorganizzato le regioni dell’equipaggiamento e nel 1973 ha creato il comitato dei responsabili degli studi delle regioni dell’equipaggiamento28 : questo comitato controlla e decide, su delega del Direttore dell’Equipaggiamento, su tutti gli argomenti chiave riguardanti la progettazione delle fasi tecniche; è presieduto dal capo del Septen e decide sulla base di un consenso tecnico che viene poi imposto a tutte le regioni. Alcune regioni sono responsabili dei principali pacchetti di teste portanti, in particolare la caldaia nucleare e il gruppo generatore della turbina.

 

EDF intende inoltre adattare le proprie relazioni contrattuali a un tessuto industriale più concentrato, meglio attrezzato con uffici di progettazione e in grado di assumersi la responsabilità di sottosistemi tecnici più grandi. Soprattutto, l’azienda rinuncerà alla competizione tra i suoi fornitori per due importanti lotti: la caldaia nucleare, con Framatome, e il gruppo turbogeneratore, con Alsthom. Con le scuole professionali saranno avviati programmi di formazione molto importanti su tutte le competenze necessarie per la costruzione e il funzionamento di queste unità, e mobiliteremo il know-how degli ex lavoratori idraulici, termici e UNGG. Il tessuto industriale dovrà avere una visibilità a lungo termine, con un controllo tecnico rigoroso della produzione dei componenti chiave e un controllo dell’andamento dei costi. EDF sta inoltre lavorando costantemente allo sviluppo della rete ad altissima tensione, in particolare la rete a 400 kV, essenziale per il trasporto dell’elettricità dai nuovi siti di produzione agli usi in rapida crescita.

 

L’industria è concentrata e ristrutturata intorno a Framatome-Creusot-Loire per la caldaia nucleare (che assorbe le competenze dei gruppi industriali UNGG, G3A, Indatom) e intorno a CGE-Alsthom per la parte dei turbo-alternatori. Framatome costruisce in diciotto mesi un nuovo stabilimento a Saint-Marcel, nella regione di Saône-et-Loire, che diventa operativo alla fine del 1975. Con i suoi due stabilimenti, Creusot-Loire-Framatome avrebbe avuto una capacità produttiva annua di otto serbatoi e di diciotto-ventiquattro generatori di vapore, nonché le migliori competenze per produrre i componenti chiave del circuito primario (la parte “nucleare” dell’impianto). La scommessa dei suoi direttori, Philippe Boulin, Maurice Aragou e Jean-Claude Leny, di far leva sulla loro credibilità industriale e sull’impegno dei politici e di EDF in una serie di unità è stata vinta. Questo permetterà, con l’atteggiamento cooperativo di Westinghouse e la maestria scientifica della CEA (legata in particolare alla sua padronanza dell’acqua leggera per la propulsione nucleare), di “affrancare” la tecnologia Westinghouse in pochi anni. In questo contesto, la CEA acquisì una partecipazione in Framatome nel 1975.

 

André Giraud, amministratore generale della CEA dal 1970 al 1978, riorganizzò le attività della CEA adattando le regole di gestione e le strutture giuridiche alle sue diverse missioni. Nel 1976, Jean Bourgeois, un pioniere della sicurezza nucleare, creò l’Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare (IPSN) presso il CEA, che oggi è diventato l’Istituto per la protezione dalle radiazioni e la sicurezza nucleare (IRSN), il supporto tecnico dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN). Il CEA ha creato filiali per alcune parti industriali, come TechnicAtome nel 1972 (dal dipartimento di costruzione delle batterie) e Cogema per il ciclo a valle nel 1976. Il CEA è particolarmente coinvolto nel controllo industriale dell’intero ciclo del combustibile del settore dell’acqua pressurizzata, da monte, con la fabbricazione del combustibile e soprattutto l’arricchimento (costruzione di Eurodif), a valle, con il ritrattamento del combustibile e la gestione delle scorie nucleari. Tra le personalità che hanno svolto un ruolo importante in questo periodo con André Giraud, possiamo citare Claude Fréjacques, responsabile degli studi sull’arricchimento presso il CEA dal 1957, poi direttore della chimica del CEA negli anni ’70, prima di diventare presidente del CNRS nel 1981.

 

Il controllo della sicurezza è un punto centrale del successo del programma nucleare. All’inizio degli anni ’70 è stata creata una nuova organizzazione per la sicurezza con la creazione, nel 1973, del Service central de sécurité des installations nucléaires (SCSIN) all’interno del Ministero dell’Industria, non più integrato nel CEA. Esso ha potuto contare sulle competenze in materia di sicurezza del CEA, che nel 1976 sono state riunite, come già detto, nell’IPSN sotto la direzione di Jean Bourgeois29. Nel 1991, lo SCSIN è diventato la Direction de la sûreté nucléaire (DSIN), dipendente dal Ministero dell’Industria e dell’Ambiente, poi, nel 2002, la Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection (DGSNR), anch’essa dipendente dal Ministero della Salute, prima di diventare, nel 2006, l’ASN, un’autorità amministrativa indipendente.

 

III

Parte

Un’impegnativa preparazione collettiva sostenuta dallo Stato

 

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1

Assunzione di rischi, fallimento e successo nella prospettiva del potere economico e della sovranità

 

Note

  1. Su questo periodo si veda Fondation Charles-de-Gaulle, Défendre la France. L’eredità di

L’eredità di De Gaulle alla luce delle questioni attuali. Actes de colloque, Nouveau Monde Éditions/Ministère des Armées, 2020; Collectif, Puissance et faiblesses de la France industrielle XIXe-XXe siècle, Seuil, coll. “Points histoire”, 1997; Marc Bloch, L’Étrange défaite [1946], Gallimard, coll. “Folio histoire”, 1990; Gaston Berger, Jacques de Bourbon-Busset et Pierre Massé, De la prospective. Textes fondamentaux de la Prospective française 1955-1966, L’Harmattan, 2007; Jean-François Sirinelli, Les Vingt Décisives. Le passé proche de notre avenir (1965-1985), Fayard, 2007 (riedito nella collana “Pluriel”, con una prefazione inedita, 2012).

L’aspetto più sorprendente è senza dubbio il contrasto tra, da un lato, i notevoli risultati della massiccia diffusione del programma negli anni 1975-1990, con costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli degli Stati Uniti e il controllo industriale dell’intera catena del valore (sovranità ed economia), e, dall’altro, i tentativi e le difficoltà che li hanno preceduti dal 1945 al 1975, Abbiamo visto le difficoltà, i tentativi e gli errori, le battute d’arresto tecniche ed economiche a volte considerevoli, e la diversità delle sfide a seconda del periodo – ricerca e prototipi, dimostratori industriali e scelta del settore (o dei settori), preparazione alla diffusione di serie standardizzate -, una diversità di sfide che ha richiesto organizzazioni e competenze molto diverse30. La chiave dell’enigma risiede indubbiamente nella comprensione di questa capacità di rimbalzo e di resilienza per diversi decenni, basata sulla scelta di accettare e assumere queste prove ed errori, questi rischi, con una ripartizione delle responsabilità e delle organizzazioni appropriate e la scelta di personalità impegnate e competenti per l’azione.

 

In questo spirito, quattro ingredienti principali o “quattro elementi” ci sembrano in grado di spiegare questa resilienza e capacità di rimbalzo che hanno permesso un successo eccezionale:

 

una visione politica a lungo termine e bipartisan delle questioni energetiche, basata su scienza e industria;

uno Stato che assume il proprio ruolo nella modernizzazione del Paese in settori chiave come l’energia

un’organizzazione e un funzionamento dello Stato che lo rendano responsabile dei risultati e facilitino l’azione collettiva;

uno Stato che mobiliti le migliori competenze industriali e scientifiche per il processo decisionale e l’azione.

Una visione a lungo termine e un’ambizione portata avanti dai leader politici, condivisa con le élite scientifiche e industriali e con l’alta funzione pubblica: sovranità economica ed energetica, progresso economico e sociale, grazie alla scienza e a un’industria efficiente e potente.

 

Questa visione a lungo termine è interessante ed efficace solo perché accompagnata dall’attenzione e dalla priorità data alla qualità dell’implementazione industriale, ai risultati ottenuti, all’ascolto dei professionisti e alla mobilitazione del loro know-how, anche nello sviluppo delle strategie, e all’ascolto delle opportunità legate agli eventi, anche geopolitici.

 

Una visione che si rifà alla concezione di uno Stato “determinato e misurato”,

impegnato nella modernizzazione economica e industriale del Paese.

 

Per la maggior parte degli attori è chiaro dalla storia, in particolare dal periodo delle due guerre mondiali e dal decennio di crisi economica degli anni ’30, che non si può semplicemente fare affidamento sui settori privati e sui mercati per garantire la sicurezza delle nazioni di fronte ai rischi geopolitici e geoeconomici, né di garantire la prosperità economica quando si verifica un “fallimento del mercato” legato alla presenza di monopoli naturali (reti energetiche o di trasporto), o di “esternalità positive31 ” dovute al riavvicinamento laboratorio-fabbrica o al coordinamento industriale sul controllo a lungo termine di sistemi socio-tecnici complessi, come le reti energetiche o elettriche, o il settore nucleare.

 

Laureato all’Ecole Polytechnique e al Ponts et Chaussées, Pierre Massé è stato successivamente direttore delle attrezzature di EDF, commissario generale per la pianificazione dal 1959 al 1965 e poi presidente di EDF dal 1965 al 1969; Marcel Boiteux, laureato all’Ecole Normale Supérieure, matematico ed economista, è stato capo degli studi economici generali, direttore generale di EDF dal 1967 al 1979 e poi presidente di EDF dal 1979 al 1987. Entrambi hanno guidato, sia all’interno di EDF che nei lavori del Piano, la riflessione sugli strumenti economici rilevanti per attuare le politiche dello Stato e inviare i giusti segnali economici agli attori economici: il tasso di sconto per integrare in modo coerente il costo del finanziamento nella scelta degli investimenti pubblici, la programmazione stocastica dinamica per ottimizzare la scelta degli investimenti tenendo conto delle incertezze e del lungo periodo, la tariffazione al costo marginale di lungo periodo per inviare i giusti incentivi al consumatore in termini di investimenti negli usi, la Nota Blu per decentrare le scelte di investimento e dimensionamento nel settore idraulico (importanza di poter fare “su misura”).

 

Il Piano strutturerà questo lavoro per collocarlo nel quadro sistemico di una previsione di lungo periodo che integri tutti gli attori economici e sociali, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, gli enti locali, le complessità e le incertezze. Questo “obbligo ardente” di pianificazione in Francia è spesso poco conosciuto e mal compreso. In particolare, si dimentica spesso la grande diversità dei profili mobilitati, da Pierre Massé, grande ingegnere e scienziato, a Gaston Berger, direttore generale dell’istruzione superiore dal 1953 al 1960 e filosofo, che fu uno dei primi fenomenologi in Francia a scrivere su Husserl e Heidegger con Emmanuel Levinas. Anche Gaston Berger ha svolto un ruolo decisivo nel lavoro di previsione in Francia, dando grande importanza all’istruzione e alla cultura, oltre che al ruolo centrale degli attori, alla loro libertà e ai loro vincoli.

 

Uno di questi grandi ingegneri, Louis Armand, a capo della SNCF e poi dell’Euratom, era un industriale, uno scienziato e un servitore dello Stato e per più di due decenni ha tenuto agli studenti dell’ENA corsi notevoli di pedagogia e di precisione concreta sulle poste in gioco tecniche, economiche e sociali dell’energia e dell’industria per la Francia. Non è certo che i decenni successivi abbiano offerto un approccio così approfondito e sistemico alle classi che si sono succedute all’ENA o all’École Polytechnique. Il successo di tutti questi ambiziosi obiettivi in termini di sviluppo economico e sociale era tutt’altro che assicurato, dopo tre decenni di guerra, crisi e declino in Francia. La maggior parte di questi attori era abitata dall’importanza delle incertezze e dalla necessità di rimanere modesti e prudenti, pur essendo determinati a uscire dal comportamento spesso malthusiano, egoista e retrogrado che Marc Bloch aveva così bene analizzato. È stato più negli anni ’70 e ’80 che questa modestia è stata troppo spesso abbandonata, lasciando talvolta il posto a tecnocrazie che hanno confuso la scienza con lo scientismo e hanno trasformato la speranza di progresso in certezza.

 

Organizzazione statale per l’azione e la realizzazione di grandi progetti industriali di interesse generale

 

Questa organizzazione si basava in particolare su :

 

enti industriali e/o scientifici come il CEA e l’EDF, o dipartimenti governativi come la Direzione dell’Energia e delle Materie Prime (DGEMP), prima denominata Segretariato Generale dell’Energia dal 1963 al 1973, poi Delegazione Generale dell’Energia dal 1974 al 1978. Jean Blancard fu quindi Delegato Generale per l’Energia nel 1974-1975, dopo essere stato Delegato Ministeriale per gli Armamenti dal 1968 al 1974, con forti responsabilità in campi coerenti e sufficientemente vasti per sentirsi davvero responsabile del futuro del Paese in questi settori, integrando la dimensione sistemica e quella industriale. La creazione da parte del generale de Gaulle, nel 1961, del Centre national d’études spatiales (Cnes) nel settore spaziale e della Délégation ministérielle pour l’armement (DMA), poi divenuta Direction générale de l’armement (DGA), rientravano nella stessa logica: l’obiettivo era quello di “trasformare il mondo” e i servizi statali erano responsabili della coerenza delle regole concrete del gioco con gli obiettivi;

uno Stato efficiente che funziona sotto l’autorità del politico, che polarizza le energie, ascolta gli attori e decide in modo pragmatico. Si tratta di giungere rapidamente a soluzioni attraverso istituzioni che gestiscano i conflitti e confrontino i punti di vista a livello di competenze rilevanti: consigli ministeriali ristretti, commissione Plan e PEON, comitati CEA-EDF, comitato dei responsabili delle regioni di equipaggiamento all’interno del FES, ecc.

Uno Stato con le migliori competenze industriali e scientifiche.

 

Lo Stato si avvaleva quindi, sia all’interno che all’esterno, delle migliori competenze industriali e scientifiche portate da uomini animati da questa visione collettiva e addestrati all’azione e all’attuazione: EDF era stata creata dalla nazionalizzazione di più di mille imprese nel 1946 e la maggior parte dei suoi dirigenti aveva realizzato progetti, costruito centrali e reti, nell’ambito delle imprese private del periodo tra le due guerre (Pierre Massé, Pierre Ailleret, André Decelle). La CEA era gestita da industriali come Pierre Guillaumat e Pierre Taranger, e da grandi scienziati come Francis Perrin e Jules Horowitz. E fornitori industriali come Creusot-Schneider (Charles Schneider, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny), CGE o Saint-Gobain erano coinvolti nelle discussioni. Questi uomini, per il loro passato industriale e anche, per molti di loro, per il loro passato di combattenti della Resistenza e di francesi liberi, erano abituati a mettersi in gioco, a non evitare il conflitto, a rischiare e a sentirsi responsabili individualmente e collettivamente dell’insieme.

 

Possiamo quindi vedere chiaramente l’emergere di una concezione forte e precisa del ruolo dello Stato nel campo del controllo industriale al servizio della sovranità e del potere economico, con un’organizzazione dello Stato snella, coerente e responsabilizzante e, al centro dello Stato, competenze industriali e scientifiche dotate di esperienza d’azione e preoccupazione per la realizzazione operativa. Questa organizzazione e queste competenze industriali e scientifiche sono in diretta interazione con i politici, che le interpellano e le coinvolgono nei loro processi decisionali. I politici forniscono la visione e si aspettano risultati dall’industria, ma anche iniziative e gestione cooperativa dei conflitti tra di loro. E, alla fine, sono loro che, ascoltando la posta in gioco e le circostanze geopolitiche, decidono le opzioni strategiche nei momenti chiave e la cooperazione internazionale.

 

2

Sovranità ed efficienza economica attraverso il controllo industriale e la cooperazione internazionale mirata

 

La sovranità energetica viene spesso contrapposta all’efficienza economica attraverso il commercio e la cooperazione internazionale. Secondo questa visione, qualsiasi politica industriale comporterebbe protezionismo, regolamenti e sussidi, con costi aggiuntivi significativi per l’economia e i contribuenti. L’analisi della storia del programma nucleare francese dimostra che questo, lungi dall’essere una fatalità, può essere esattamente il contrario, se comprendiamo che il controllo industriale di un settore chiave da parte del tessuto industriale di un Paese è un fattore comune di progresso economico e sociale e di autonomia strategica. Ci rendiamo anche conto che se questo controllo industriale richiede l’intervento dello Stato in settori come il sistema elettrico e l’energia nucleare, non si tratta di un intervento qualsiasi: un intervento mirato a questioni di sovranità e “fallimenti del mercato”, e basato su un alto livello di competenza industriale al servizio dell’interesse generale. Abbiamo visto che questo intervento, pur assumendo forme diverse a seconda del periodo (prototipi/dimostratori industriali/dispiegamento su larga scala), deve sempre articolare le due preoccupazioni: sovranità ed efficienza economica. È chiaro che la diffusione su larga scala di una tecnologia di produzione di energia elettrica meno competitiva di quella di altri grandi Paesi segnerebbe la fine del potere economico e quindi della sovranità: come ricordava spesso il generale de Gaulle, il potere industriale ed economico di un Paese nei settori strutturanti dell’energia, dei trasporti o della difesa è la condizione dell’autonomia strategica. È quindi necessario, come abbiamo detto, avere la capacità di identificare da un lato gli anelli chiave della catena del valore che sono una questione di sovranità, e dall’altro i “fallimenti del mercato industriale” che richiedono un’azione consapevole e mirata da parte dello Stato, e non una miriade di sussidi, regolamenti e obiettivi non gerarchici.

 

La cooperazione internazionale è ovviamente molto utile in questi settori ad alta tecnologia, in quanto le economie di scala sono importanti sia per i prototipi e i dimostratori che per la produzione di attrezzature nella fase di diffusione. Tuttavia, occorre prestare attenzione alle dimensioni sensibili legate, da un lato, al duplice aspetto della tecnologia nucleare (non proliferazione e controllo dei materiali) e, dall’altro, all’autonomia strategica negli anelli chiave per il controllo industriale ed economico, garantendo al contempo il mantenimento dei vantaggi comparativi associati. La prima dimensione riguarda la catena del combustibile, in particolare l’arricchimento e il ritrattamento; la seconda la sicurezza dell’approvvigionamento di combustibile (miniere di uranio diversificate, scorte strategiche per tutto il ciclo), nonché il controllo e il comando della fabbricazione di componenti chiave (serbatoi, metallurgia e saldatura, motori di emergenza) per i reattori (in particolare la sicurezza). Nel quadro di una visione a lungo termine dei rischi industriali e geopolitici, è necessario creare un’offerta diversificata, che possa articolare una base francese, un complemento più o meno importante acquistato da fornitori stranieri e le scorte strategiche necessarie, proteggendo al contempo i segreti di fabbricazione e i vantaggi comparativi legati a determinate innovazioni. I partenariati sostenibili richiedono quindi l’articolazione di precise considerazioni industriali ed economiche con questioni geopolitiche. Anche in questo caso, se i politici hanno una visione che collega le questioni geopolitiche e di politica estera con quelle industriali, e se possono contare su competenze che integrano la lungimiranza geopolitica e industriale all’interno dello Stato, è possibile attuare una forte cooperazione a seconda del contesto, anche con gli alleati storici, sui legami di sovranità come l’arricchimento (come nel caso di Eurodif con gli alleati europei) o il ritrattamento (nel caso della cooperazione con il Giappone).

 

La storia del nucleare civile illustra bene queste osservazioni. Se negli anni Cinquanta i francesi si sono messi in proprio con l’UNGG, non è stato volontariamente, ma a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di condividere le loro conoscenze tecnologiche e il lavoro in corso tra i grandi laboratori pubblici e Westinghouse o General Electric (McMahon Act del 1946). Non appena si aprì la possibilità, visto il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e la creazione dell’Euratom alla fine degli anni Cinquanta, il generale de Gaulle in persona autorizzò la partecipazione dell’EDF alla costruzione di Chooz A con i belgi e la tecnologia di Westinghouse. I primi reattori di serie ad acqua leggera, e anche l’UNGG, furono oggetto di partnership con altre società elettriche: Vandellos, UNGG in Spagna; Tihange con i belgi; la partecipazione di tedeschi e svizzeri nelle due unità ad acqua pressurizzata di Fessenheim. Abbiamo già accennato alla cooperazione sull’arricchimento e sul riprocessamento con partner europei o giapponesi, ma possiamo anche citare la presenza della società giapponese MHI nel capitale di Framatome, che è anche un importante attore industriale non solo in Francia ma anche a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti per la manutenzione degli impianti esistenti.

 

Il rischio può derivare da un cambiamento nella strategia nucleare civile di uno dei partner, come nel caso della Germania, che ha abbandonato il nucleare all’inizio degli anni 2000, indebolendo così il progetto franco-tedesco di generazione 3, l’EPR. Può anche derivare da un’evoluzione del contesto geopolitico e del comportamento dei potenziali partner, ad esempio con l’atteggiamento negativo degli Stati Uniti all’inizio della Guerra Fredda. La questione dei partner sostenibili nello sviluppo di tecnologie chiave come l’energia nucleare è ovviamente importante per il futuro, con la rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina.

 

Le questioni energetiche sono questioni di prosperità e sovranità statale. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare in modo massiccio e rapido tecnologie innovative adatte a queste questioni essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni del successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che i vari attori condividano una visione politica.

 

Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

 

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

 

Leggi anche

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright: Archivio EDF

Fonte: Nel 1958, il generale de Gaulle visitò il centro atomico di Marcoule, nella regione del Gard, dove constatò i progressi compiuti dal 1945, data in cui firmò l’atto di nascita dell’industria nucleare in Francia. Al suo fianco, Maurice Pascal (a destra del generale de Gaulle nella foto), allora responsabile degli studi sulle batterie presso il Commissariat à l’énergie atomique (CEA), spiega al Capo di Stato i dettagli della sala di controllo del reattore G2. Ex studente dell’École polytechnique, Maurice Pascal (1920-1996) iniziò la sua carriera presso la delegazione ministeriale per gli armamenti. Nel 1954 è stato inserito in una posizione di responsabilità presso il CEA. Dal 1964 è stato responsabile della politica industriale.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/216_nucleaire_i_couv_fond/

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Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto agli scambi condivisi con molti attori della storia del nucleare francese. Desidero ringraziare in particolare Bernard Esambert per la sua attenta lettura, nonché Gilles Bellamy, Lorraine Bouttes, Yves Bréchet, Michel Clavier, Pierre Daurès, Sylvain Hercberg, Bruno Lescoeur, Bernard Tinturier e Gilles Zask per i loro commenti e suggerimenti. Tuttavia, sono naturalmente l’unico responsabile delle analisi e delle opinioni espresse in questo libro.

 

Jean-Paul Bouttes

 

1

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel primo volume

 

AGR: Reattore avanzato raffreddato a gas.

AHEF: Association pour l’histoire de l’électricité en France.

AIE: Agenzia Internazionale dell’Energia.

ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.

ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).

CEA: Commissione francese per l’energia atomica.

CEE: Comunità economica europea.

CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica.

CEGB: Central Electricity Generating Board.

CGE: Compagnie générale d’électricité.

Cigre: Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici.

WEC: Consiglio Mondiale dell’Energia.

COP: Conferenza delle Parti.

DGSNR: Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection.

DSIN: Direction de la sûreté nucléaire (Direzione della sicurezza nucleare).

EDF: Électricité de France.

ENA: École nationale d’administration.

EPR: Reattore pressurizzato europeo.

INSTN: Institut national des sciences et techniques nucléaires (Istituto nazionale di scienze e tecnologie nucleari).

IPSN: Institut de protection et de sûreté nucléaire (Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare).

IRSN: Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare).

PEON: Produzione di energia elettrica da fonti nucleari.

PWR: Reattore ad acqua pressurizzata.

SCSIN: Service central de sécurité des installations nucléaires.

Sfac: Société des forges et ateliers du Creusot.

SENA: Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes.

UKAEA: Autorità per l’energia atomica del Regno Unito.

UNGG: Uranio naturale, grafite e gas.

Unipede: Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica.

 

Introduzione

 

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Note

  1. La prima parte di questo articolo si concentra sulla storia del nucleare civile dal 1945 al 1975 in Francia. L’autore si basa in particolare sul libro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, L’Énergie de la France. De Zoé aux EPR, l’histoire du programme nucléaire (Éditions François Bourin, 2013).

del programma nucleare basato non solo su documenti storici ma anche su interviste a molti degli attori di questa avventura. Marcel Boiteux e Philippe Boulin sono all’origine di questo progetto, che l’autore di questo documento ha potuto realizzare e accompagnare.+

  1. Con, ovviamente, la mobilitazione e lo sviluppo di tutte le altre energie rinnovabili rilevanti: biomassa, geotermia, energie marine…
  2. IEA, Energy Technology Perspectives 2006. A sostegno del Piano d’azione del G8, OCSE, 2006.
  3. Il termine progetto di base si riferisce al progetto complessivo della centrale, che deve essere integrato da piani dettagliati dell’impianto (progetto dettagliato). Si sviluppa sulla base di uno schizzo iniziale a livello di progettazione, il progetto concettuale.+ 5. La preoccupante situazione economica in Europa e nel mondo è stata caratterizzata da una serie di problemi.

La preoccupante situazione economica in Europa e in Francia, dovuta alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina, ci ricorda l’importanza centrale, sia per la nostra prosperità che per la nostra sicurezza, di un’energia competitiva che risponda a due criteri aggiuntivi: disponibilità garantita e impatto limitato sull’ambiente1 . Per raggiungere questo obiettivo, il controllo industriale delle tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia e la capacità di anticipare il mix energetico più adatto alle nostre esigenze a lungo termine sono i due principali fattori di successo. Queste sfide saranno ancora più grandi se vogliamo attuare la transizione energetica necessaria nei prossimi decenni per affrontare la sfida del riscaldamento globale, tenendo conto di un contesto geopolitico che sarà fonte di preoccupazione duratura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, dimenticando le lezioni della storia e le caratteristiche tecnico-economiche e industriali dell’energia, in particolare dell’elettricità, gli Stati europei si sono affidati quasi esclusivamente ai mercati europei (per il gas e l’elettricità) o internazionali (per le attrezzature o le materie prime). Il compito era impossibile per i soli mercati e, di fronte alla resistenza della realtà, gli Stati membri dell’UE e la stessa Unione Europea hanno reagito moltiplicando leggi, obiettivi e regolamenti, ma senza assumere chiaramente il loro ruolo. Questi interventi incoerenti di fronte ai “fallimenti del mercato” si sono tradotti in un grave fallimento delle autorità pubbliche.

 

Questo fallimento è ancora superabile a patto che si faccia una diagnosi corretta del ruolo degli Stati e che si correggano le loro carenze e quelle dei mercati. Si tratta di mobilitare le necessarie competenze industriali, scientifiche e lungimiranti, di impostare un’organizzazione leggera e responsabile della sfera pubblica, di incoraggiare le iniziative, sia del settore privato che degli enti locali, nel quadro di regole del gioco semplici ed efficaci. Gli esempi qui presentati, relativi alle sfide del controllo industriale nei settori delle grandi tecnologie per la decarbonizzazione, come il nucleare o i pannelli fotovoltaici, dimostrano che tutto ciò è stato attuato con successo in Francia negli anni ’50-’90, e in Cina o negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Spetta ora a noi trovare il percorso francese ed europeo che ci permetta, con una diagnosi condivisa e rigorosa che non si accontenti di parole troppo spesso fuorvianti, di apportare i necessari cambiamenti strutturali in termini di organizzazione dello Stato e di regole del gioco europeo per correggere la situazione il più rapidamente possibile nel prossimo decennio.

 

Di fronte al cambiamento climatico, dobbiamo intraprendere una transizione energetica globale di dimensioni senza precedenti, con obiettivi di “emissioni nette zero” entro la metà del secolo. Per ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra, dovremo innanzitutto decarbonizzare la produzione di energia elettrica ed elettrificare in modo massiccio gli usi energetici, attuando al contempo un’ambiziosa politica di risparmio energetico. Per la maggior parte, conosciamo le tecnologie che dobbiamo sviluppare e implementare: dal punto di vista della produzione, l’energia nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO2, l’energia idraulica2 ; dal punto di vista dell’utilizzo, le batterie e i veicoli elettrici, le pompe di calore, i processi industriali elettrici… Questa roadmap è nota da circa vent’anni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni del vertice del G8 presieduto da Tony Blair nel 2005 a Gleneagles, il primo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) del 2006, Energy Technology Perspectives3 , sul rapporto energia-clima, o le proposte di roadmap settoriali discusse alla Conferenza delle Parti (COP) di Montreal nel 2005. Tuttavia, ad oggi, i risultati in termini di decarbonizzazione sono deludenti. Una delle ragioni principali è l’aver trascurato le questioni industriali e la perdita di controllo industriale nel settore energetico, soprattutto in Europa e in Francia negli ultimi decenni. La massiccia diffusione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale richiede un controllo dei costi per conciliare clima e sviluppo economico, nonché gli anelli chiave delle catene del valore (apparecchiature a valore aggiunto, materiali critici, digitale) in un contesto di geopolitica di ritorno. La padronanza delle questioni industriali legate alla produzione e alla costruzione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale è al centro degli obiettivi inscindibili di efficienza economica, competitività, sovranità economica e autonomia strategica. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede una solida cooperazione internazionale.

 

In questa prospettiva, la Francia può offrire un esempio di successo nel guidare una transizione basata sulla padronanza di queste problematiche industriali. Tra il 1974 e il 1990, è stata in grado di attuare una delle transizioni più rapide nel mondo dell’energia, sostituendo l’energia nucleare alle centrali a carbone e a petrolio, consentendole, al termine di questa transizione, di beneficiare di un mix elettrico decarbonizzato al 90% (75% nucleare, 15% idroelettrico), di prezzi dell’elettricità tra i più bassi d’Europa, di costi d’investimento pari alla metà di quelli degli Stati Uniti e della padronanza industriale del settore dei reattori ad acqua pressurizzata. Il programma nucleare civile francese è stato un successo in termini economici e di sovranità: il Paese si è liberato dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, compreso il petrolio, per la produzione di energia elettrica, e ha padroneggiato la catena del valore nucleare, compreso l’arricchimento, facendo leva su una forte cooperazione internazionale (licenza francese Westinghouse, impianto di arricchimento Eurodif a Tricastin, partecipazioni di società elettriche europee in centrali nucleari francesi, ecc.) Inoltre, grazie alla sua portata (ogni anno, per dieci anni, sono state messe in funzione da quattro a sei unità da 900 a 1.300 MW), questo programma ha permesso una significativa elettrificazione degli usi residenziali (scaldabagni, riscaldamento, ecc.) e industriali, soddisfacendo nel 1990 un consumo di elettricità doppio rispetto a quello del 1973, in un momento in cui la sobrietà energetica, istituita nel quadro della “caccia allo spreco” dopo i due shock petroliferi, ha portato a una quasi stagnazione del consumo finale di energia. Questi movimenti sono esattamente in linea con l’attuale scenario “zero emissioni nette” dell’AIE, che si basa sia sulla sobrietà energetica sia su un aumento di due volte e mezzo della produzione di elettricità entro il 2050.

 

Pensiamo spesso alle condizioni del successo industriale della massiccia diffusione dal 1974 al 1990, dopo la prima crisi petrolifera: una decisione politica nel 1974-1975 che offre una visibilità a lungo termine concretizzata da un programma, una progettazione di base4 finalizzata su un prodotto robusto e semplice da costruire (i reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse), serie standardizzate, un tessuto industriale di qualità e un architetto industriale chiaramente responsabile e competente, ovvero EDF. Tutto questo è vero, ma non è sufficiente a spiegare il successo di questa realizzazione. È stata preparata in modo altrettanto decisivo nel periodo dal 1945 al 1974, combinando tentativi ed errori, visione a lungo termine e determinazione incrollabile nell’azione. Questi tre decenni sono stati caratterizzati dalla capacità di una generazione di attori, spesso provenienti dalla Resistenza e dalla Francia Libera, di rischiare, di provare quasi tutti i metodi – rapido, acqua pesante, gas grafite, acqua leggera -, di accettare tentativi, errori e fallimenti, con la volontà di trovare rapidamente soluzioni efficaci e di avere successo. La figura e la personalità del generale de Gaulle hanno segnato questo periodo, prima direttamente nel 1945, attraverso la creazione della Commissione per l’energia atomica (CEA) e il processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la creazione dell’EDF nel 1946; poi, indirettamente, attraverso uomini chiave che condividono gli stessi obiettivi durante la Quarta Repubblica (Félix Gaillard, Raoul Dautry, Gaston Palewski, Pierre Guillaumat, Jules Horowitz, Pierre Taranger, Pierre Ailleret…); poi con la creazione di un’agenzia di ricerca e di sviluppo che si occupa di energia nucleare. ) ; e, infine, ancora, nel momento chiave del passaggio alla fase industriale e del dibattito sulla scelta dell’uranio naturale, della grafite e del gas (UNGG) rispetto all’acqua pressurizzata o all’acqua bollente, tra il 1958 e il 1975, con Georges Pompidou, Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica, Pierre Messmer, Bernard Esambert, Pierre Massé, Francis Perrin, Claude Fréjacques, Georges Besse, André Giraud, André Decelle, Paul Delouvrier, Marcel Boiteux, Michel Hug, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny…

 

Nella prima parte di questa nota, ripercorreremo la storia per individuare le caratteristiche principali di questo periodo e trarne alcuni utili insegnamenti. Nella seconda parte, allargheremo la questione alla transizione energetica che deve essere realizzata oggi, basandoci su esempi più recenti di successo industriale riguardanti altre tecnologie energetiche e altri Paesi, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei programmi di investimento futuro (PIA). Infine, torniamo alla situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle competenze industriali, in particolare in quelli che erano i nostri tradizionali punti di forza: l’energia nucleare, l’energia fossile, la rete, con le difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom, e, cosa più preoccupante, dal fallimento dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nelle turbine eoliche onshore, settori in cui la Francia sembra accontentarsi per lo più di installazioni e servizi a basso valore aggiunto, nonostante la ricerca di qualità in questi campi industriali.

 

Gli anni 1945-1990 in Francia o gli ultimi decenni in Cina o negli Stati Uniti dimostrano come sia stato possibile aprire delle opzioni, esplorare nuove strade e implementare tecnologie adatte alle sfide dei Paesi interessati su larga scala e in tempi rapidi. Su queste questioni energetiche, che riguardano la prosperità e la sovranità dei Paesi, questi esempi illustrano chiaramente il ruolo fondamentale svolto dagli Stati nel controllare le condizioni per il successo industriale, compresa la diversità dei percorsi possibili in base alle istituzioni e alle tradizioni dei vari Paesi. La capacità degli Stati di assumere il proprio ruolo per consentire la mobilitazione di tutti gli attori sembra essere decisiva. Ciò presuppone la capacità di indicare chiaramente le proprie debolezze, se possibile prima che la situazione diventi troppo grave, e di farlo lasciandosi interpellare dal proprio passato o da altre esperienze attuali. Le competenze e la buona volontà non mancano. Potrebbero permetterci di riformare il settore in profondità e di prepararci al prossimo decennio, a condizione che gli attori condividano una visione politica.

 

I

Parte

Superare le idee preconcette

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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1

La solita narrazione

 

Per capire la storia del nucleare francese, dobbiamo accettare di mettere in discussione la narrazione abituale, generalmente espressa come segue:

 

il programma è stato deciso nel 1974-1975 in reazione a un evento: la prima crisi petrolifera del 1973;

si riduce a una decisione presa da un ristretto numero di decisori politici: l’abbandono della linea nazionale di centrali a uranio naturale e gas grafite (NUG) a favore della linea Westinghouse di centrali a uranio arricchito e acqua leggera;

è stato ottenuto attraverso il semplice trasferimento del know-how americano senza aver dovuto affrontare la “frontiera tecnologica”;

illustra la tradizione francese – e il “genio francese” – dell’intervento statale nell’economia attraverso grandi programmi.

2

Una storia diversa

 

Note

  1. L’obiettivo a lungo termine era presente fin dalla creazione del CEA nel 1945 e divenne più chiaro con il progredire del lavoro di ricerca negli anni Cinquanta.
  2. Decisione strategica, per ragioni industriali, logistiche e militari.

La lettura della storia qui difesa è diversa. L’immagine proiettata dalla narrazione abituale è fuorviante, perché le affermazioni che la costruiscono riflettono un profondo fraintendimento di cosa sia un’industria ad alta tecnologia come quella nucleare.

 

Innanzitutto, la decisione di affidarsi a un programma nucleare civile era un obiettivo chiaro fin dall’inizio degli anni ‘605 , nonostante il calo del prezzo dell’olio combustibile pesante in quel decennio. Questa decisione deriva da una visione condivisa della sicurezza di approvvigionamento a lungo termine del Paese e dalle prospettive di competitività del nucleare alla luce dei primi dimostratori industriali.

 

Inoltre, l’esigenza di avere più ferri da stiro, compresi quelli ad acqua leggera, e di sperimentare diverse tecnologie era già all’opera nel 1958 con la decisione di costruire Chooz A, un prototipo franco-belga basato sulla prima generazione di reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse, presa dal generale de Gaulle non appena tornato al potere nel 1958. Questa decisione fu presa a complemento dei dimostratori UNGG costruiti a Chinon tra il 1957 e il 1961.

 

Solo nel 1975 la linea ad acqua bollente di General Electric, trasportata in Francia dalla Compagnie Générale d’Electricité (CGE) di Ambroise Roux, fu abbandonata e ci si concentrò sulla sola linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, non senza rammarico per gli operatori che desideravano mantenere la concorrenza tra almeno due fornitori per i componenti chiave. La decisione di abbandonare l’UNGG e di costruire una prima serie di reattori ad acqua pressurizzata (PWR) fu presa in un periodo in cui i prezzi dell’olio combustibile pesante erano ancora ai minimi tra il 1969 e il 1971; fu allora che si decise di costruire due unità a Fessenheim e due unità a Bugey, che entrarono in funzione nel 1977 e nel 1978. Queste decisioni furono prese da Georges Pompidou all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Westinghouse non avrebbe mai accettato di collaborare con i francesi, né permesso che la licenza diventasse francese, se la Francia non avesse dimostrato l’eccellenza delle sue competenze industriali, in particolare nella fabbricazione dei contenitori dei reattori a Le Creusot, e l’eccellenza delle competenze scientifiche della CEA, che stava lavorando non solo sull’UNGG, ma anche sui PWR per la propulsione militare. Tra il 1950 e il 1970, la Francia aveva effettivamente raggiunto da sola la frontiera tecnologica, e questo è probabilmente ciò che ha permesso di utilizzare con successo la tecnologia Westinghouse.

 

Infine, il ruolo chiave dello Stato nel controllo e nella diffusione dell’energia nucleare non è specificamente francese. Per convincersene, basta osservare l’esempio americano con il programma dell’ammiraglio Rickover, inizialmente incentrato sulla propulsione militare e che mobilita insieme i grandi laboratori federali americani (simili alla CEA) con Westinghouse e General Electric (la CEA, e poi l’EDF, mobiliteranno anche i grandi industriali francesi più capaci, prima sull’UNGG e poi sul PWR). Anche il Regno Unito, il Canada, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud potrebbero illustrare, ciascuno a suo modo, questo ruolo dello Stato strategico, coinvolto nella dimensione scientifica e industriale. Va aggiunto che, sebbene in Francia lo Stato abbia svolto in precedenza un ruolo di stimolo allo sviluppo di alcune grandi reti, come le ferrovie6 , come dimostra il piano Freycinet del 1879, e abbia avuto un ruolo importante nella regolamentazione tecnica di alcuni settori industriali, come il controllo tecnico delle fucine, la Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo era innanzitutto un Paese economicamente e industrialmente liberale, in conformità con l’eredità della Rivoluzione francese.

 

3

La rapida transizione della Francia

 

Dal 1945 al 1990, la Francia ha realizzato una delle più rapide transizioni nelle tecnologie energetiche, dalla ricerca di base alla diffusione industriale. La scoperta della fissione e della reazione a catena risale agli anni ’30, con il lavoro di Enrico Fermi, Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, e poi di Frédéric Joliot-Curie, con Hans Halban e Lew Kowarski nel 1939. È sulla base di quest’ultimo lavoro che il CEA è venuto a conoscenza delle varie tecnologie nucleari – UNGG, acqua pesante, reattori a neutroni veloci raffreddati a sodio, reattori ad acqua leggera – e ha prodotto prototipi, in particolare per la tecnologia UNGG, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Negli anni ’60, il CEA e l’EDF sono riusciti a costruire dimostratori su scala industriale nel reattore a gas di grafite (Chinon A1, A2 e A3) e nel reattore PWR (Chooz A e poi Tihange), con i nostri partner belgi, basati sul reattore Westinghouse. Ci sono voluti solo vent’anni, tra il 1970 e il 1990, per implementare in modo massiccio il parco nucleare e produrre tre quarti dell’elettricità per la Francia, con prestazioni, come abbiamo visto, molto migliori in termini di costi rispetto a quelle di Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Giappone con tecnologie simili nello stesso periodo.

 

Si è trattato di sfide particolarmente difficili. Gli ostacoli successivi hanno dovuto essere superati con perseveranza, uno dopo l’altro. Le sfide variavano a seconda dei periodi e delle circostanze, sia che si trattasse del periodo della ricerca e dei prototipi (1945-1960), sia che si trattasse del periodo dei dimostratori industriali e della scelta della tecnologia da impiegare (1960-1971), sia che si trattasse del periodo dell’impiego massiccio (iniziato nel 1972-1975 e che continuerà in gran parte fino al 1990). Fin dall’inizio è stato necessario pensare in termini di sistema industriale, con il controllo dell’intero ciclo del combustibile, dall’estrazione al ritrattamento e alla gestione delle scorie, con la fabbricazione del combustibile, nonché con l’arricchimento dell’uranio necessario nelle tecnologie ad acqua leggera, e il controllo del reattore e dei suoi componenti chiave: forgiatura primaria, termoidraulica e neutronica, scienza dei materiali, automazione e controllo, unità turbo-alternatore, ingegneria civile, ecc.

 

Il termine “industria nucleare” può essere fuorviante, perché si tratta in realtà di mobilitare competenze e professionalità molto diverse provenienti da diversi settori industriali, con requisiti di qualità particolarmente elevati, in quanto la sicurezza è ovviamente un punto centrale in questo caso. È stato inoltre necessario affrontare e risolvere numerosi problemi tecnici almeno altrettanto delicati di quelli che stiamo vivendo da quindici anni a questa parte nello sviluppo dei reattori di terza generazione, come l’EPR in Francia e Finlandia o l’AP 1000 negli Stati Uniti. La reattività e la determinazione delle comunità scientifiche e ingegneristiche sono state notevoli nel proporre “soluzioni di riparazione”, mantenendo sempre la capacità di aprire altre opzioni tecniche (involucro in acciaio o cemento armato precompresso, ecc.), e anche opzioni più radicali, come l’esplorazione di altri metodi. Infine, al di là della gestione efficace dei ricorrenti guasti tecnici che sono una caratteristica inevitabile di questi grandi progetti tecnologici, il contesto internazionale e politico era particolarmente turbolento: la guerra fredda a partire dal 1947, la decolonizzazione, la crisi di Suez nel 1956, la creazione della Comunità economica europea (CEE) e del trattato Euratom nel 1958, la crisi del maggio 1968 e gli shock petroliferi del 1973-1974 dopo un lungo periodo di calo dei prezzi del petrolio pesante. La cooperazione internazionale ha dovuto trovare la sua strada, tenendo conto delle questioni geopolitiche e di sovranità. Lo dimostrano l’opposizione degli Stati Uniti a qualsiasi cooperazione in campo nucleare, con la legge McMahon del 1946, la crisi di Suez, che evidenziò la vulnerabilità di una Francia che non padroneggiava l’energia nucleare, e le opportunità aperte dal Trattato Euratom.

 

La questione principale che vogliamo evidenziare in questa sede riguarda questa sorprendente capacità di rimbalzo nel tempo, una capacità di apportare cambiamenti adottando una visione sistemica, con la preoccupazione di una rapida attuazione, al fine di mantenere la rotta stabilita per quanto riguarda lo sviluppo di un’industria nucleare. Si tratta quindi di individuare le tracce di questo lavoro collettivo, dello Stato con le sue componenti politiche e il loro sostegno – i consiglieri, l’amministrazione, il Piano – ma anche del CEA e dell’EDF, del tessuto industriale e dei partner internazionali. È importante capire le ragioni di questa efficienza nel lungo periodo. Questo sguardo al passato dovrebbe aiutarci a determinare quale organizzazione e quali competenze industriali al centro dell’apparato statale, quali relazioni tra quest’ultimo e il tessuto industriale privato e quali strategie di cooperazione internazionale hanno permesso l’elaborazione di una visione comune e a lungo termine da cui trarre ispirazione per prendere a nostra volta le decisioni necessarie nel tempo.

 

II

Parte

Un viaggio nella storia: 1945-1975

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-2

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1

Dal 1945 al 1960, dalla scienza ai prototipi: il ruolo centrale del CEA imparando da EDF e dal tessuto industriale

 

Note

  1. In questa sezione ci basiamo in particolare sul già citato lavoro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, nonché sulle interviste condotte con gli attori del programma nucleare nell’ambito del loro progetto di libro, sul libro di Georges Lamiral, Chroniques de trente années d’équipement nucléaire à Électricité de France, Association pour l’histoire de l’électricité en France (AHEF), 2 vols, 1988, e sul libro di Dominique Grenèche, Histoire et techniques des réacteurs nucléaires et de leurs combustibles, EDP Sciences, 2016.+
  2. Gli Stati Uniti hanno gradualmente aperto la possibilità di cooperazione con i Paesi europei a partire dalla fine degli anni ’50, ma sempre alle condizioni restrittive della sovranità e del controllo industriale dei Paesi interessati.
  3. Nonostante le loro riserve, ci saranno contatti con gli Stati Uniti su alcuni temi scientifici e industriali. Inoltre, è chiaro che, in questo contesto, il programma nucleare civile con le Nazioni Unite è stato particolarmente sostenuto anche in relazione al programma militare. Anche l’esperienza del CEA nei reattori ad acqua pressurizzata per la propulsione è stata preziosa.
  4. Si può sottolineare il carattere multipartitico di questa volontà e il ruolo di animazione, per non dire di guida, che lo Stato deve svolgere in questa prospettiva, che si è tradotto nella creazione del Commissariat général du Plan o in quella della CEA o dell’EDF. Il Fronte Popolare aveva già tentato, in parte con questo spirito, di organizzare la ricerca francese – il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) fu creato poco più tardi, nell’ottobre 1939 – e aveva intrapreso una politica di riarmo.
  5. Cfr. Bertrand Goldschmidt, Le Complexe atomique. Histoire politique de l’énergie nucléaire, Fayard, 1980, p. 71.
  6. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 38.
  7. Charles de Gaulle, “Discorso del 14 giugno 1960”, archivi INA, ina.fr.
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 56.
  9. Cfr. Henri Morel (a cura di), Histoire de l’électricité, Fayard, 1996, t. 3, p. 143 ss.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 68.

Il contesto e la posta in gioco7

 

Le due guerre mondiali furono in gran parte un confronto tra potenze industriali ed energetiche. Nei suoi scritti degli anni Trenta, il futuro generale de Gaulle prevedeva già l’importanza dei carri armati e degli aerei per la potenza degli eserciti, sostenendo una dottrina d’uso innovativa e, più in generale, nel 1940, prevedendo un conflitto il cui esito sarebbe stato dominato dall’ingresso della grande potenza industriale ed energetica, l’America. Dopo la guerra, le élite politiche, amministrative e industriali francesi, in gran parte provenienti dalla Resistenza e dalle Forze libere francesi, intendevano recuperare il ritardo scientifico, industriale ed economico della Francia, conseguenza della crisi degli anni Trenta e delle distruzioni della guerra. I leader erano anche consapevoli della necessità di un approvvigionamento energetico sicuro a costi controllati. Priva di petrolio, la Francia aveva sofferto fin dal XIX secolo di una scarsa disponibilità di carbone a basso costo, a differenza di Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Per molto tempo, la sua industria siderurgica è stata alimentata dal carbone delle foreste francesi e dall’energia idraulica “meccanica” fornita dai fiumi. Poi il “carbone bianco”, l’acqua, è diventato un imperativo nazionale nel periodo tra le due guerre e negli anni Cinquanta e Sessanta, con grandi programmi idroelettrici che hanno prodotto circa la metà dell’elettricità in questo periodo, ma che hanno gradualmente rallentato a causa del numero limitato di siti.

 

Già nel 1945-1950 l’energia nucleare era un obiettivo a lungo termine, sostenuto da politici come Félix Gaillard e Gaston Palewski. La presenza di miniere di uranio in Francia fu presto messa in discussione. Le riserve limitate percepite nella prima fase della storia del nucleare civile e l’aspettativa di scoprire nuovi giacimenti portarono, a partire dal dopoguerra, a lavorare su prototipi di reattori fast-breeder per utilizzare non solo l’uranio 235 (0,7% dell’uranio naturale) ma anche tutto il potenziale dell’uranio 238 (99,3% dell’uranio).

 

Gli Stati Uniti, che disponevano di petrolio e carbone in abbondanza, lanciarono allora un programma di reattori nucleari, inizialmente concepiti per la propulsione militare. L’ammiraglio Rickover fece in modo che i laboratori federali americani collaborassero con le principali società elettriche, General Electric e Westinghouse, per sviluppare reattori ad acqua leggera che sarebbero stati più semplici e robusti, ma avrebbero richiesto la padronanza dell’arricchimento, allora prerogativa degli Stati Uniti. Nel contesto del graduale emergere della Guerra Fredda, gli Stati Uniti posero un embargo su tutti i trasferimenti di tecnologia nucleare con il McMahon Act del 1946, con alcune eccezioni per i partner britannici e canadesi del Progetto Manhattan8.

 

Inoltre, alla fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Francia, come il Regno Unito, è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Germania nella corsa alla rivoluzione industriale dell’elettricità, nonostante il suo alto livello di ricerca e di scienziati. Il suo tessuto industriale è frammentato e spesso dipendente dalle licenze americane. È stato quindi necessario affidarsi all’inizio essenzialmente a enti pubblici di natura scientifica e industriale: la CEA, poi l’EDF. Il Regno Unito, per le stesse ragioni, si affida alla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA), l’equivalente della CEA, e al Central Electricity Generating Board (CEGB), l’equivalente di EDF. Anche i nostri vicini britannici sono preoccupati per l’aumento del costo del carbone e per le sfide legate alla sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito è stato quindi particolarmente motivato dal nucleare civile e ha sviluppato il suo reattore nazionale Magnox, a gas grafite, simile al reattore UNGG francese, anche più velocemente della Francia: il primo prototipo di reattore è stato messo in funzione a Calder Hall nel 1956, pochi mesi prima del primo reattore prototipo del CEA G1 a Marcoule, e la potenza installata del Magnox sarebbe stata di circa 5.000 MW nel 1970, il doppio dell’UNGG francese.

 

Politica: visione a lungo termine e decisioni di strutturazione

 

Informati da scienziati e industriali e attenti al contesto internazionale, i politici presero importanti decisioni durante la Quarta Repubblica e l’inizio della Quinta Repubblica. Per loro, il mix energetico ed elettrico della Francia doveva consentirle di diventare una potenza industriale ed economica e di garantire la sua autonomia e sovranità strategica10.

 

Nel luglio 1944, durante una visita a Ottawa, il generale de Gaulle fu informato della portata del lavoro svolto sulle batterie atomiche e sulla bomba nucleare da Pierre Auger, Jules Guéron e Bertrand Goldschmidt, gli scienziati francesi coinvolti in questi studi11. Dopo le interazioni con Raoul Dautry e Frédéric Joliot-Curie, e un dossier presentato da Raoul Dautry al capo del governo provvisorio, il generale de Gaulle creò la CEA con un’ordinanza nell’ottobre 1945, con le missioni di ricerca, energia nucleare civile e applicazioni militari: l’obiettivo era quello di “perseguire la ricerca scientifica e tecnica al fine di utilizzare l’energia atomica nei vari campi della scienza, dell’industria e della difesa nazionale “12 . Tornato al potere nel 1958, il Generale accelerò i lavori sulla linea dell’UNGG e accettò il progetto di un reattore ad acqua leggera con licenza americana nell’ambito del trattato Euratom appena messo in atto (alla doppia condizione che il reattore fosse situato in Francia e che EDF ne detenesse il 50%). Il suo discorso radiotelevisivo del 14 giugno 1960 esprime chiaramente la sua visione della posta in gioco industriale ed energetica per la Francia: “Come popolo francese, dobbiamo elevarci al rango di grande Stato industriale o rassegnarci al declino. La nostra scelta è fatta. Il nostro sviluppo è in corso. […] Naturalmente, è per dotarla [la Francia] delle fonti di energia che le mancavano che ci applicheremo innanzitutto. […] Energia atomica che gli impianti modello hanno cominciato a fornire.13

 

Félix Gaillard, combattente della Resistenza e deputato radical-socialista nel 1946, era interessato all’energia atomica. Visitò il CEA ed ebbe lunghe discussioni con Frédéric Joliot-Curie. Nel 1951, Félix Gaillard fu nominato Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio e fu responsabile delle questioni nucleari. Nel luglio 1952 presentò ai deputati il primo piano nucleare quinquennale, che diede alla CEA e al suo amministratore generale Pierre Guillaumat i mezzi per passare alla fase dei primi prototipi (G1, seguito da G2 e G3 a Marcoule) e alla realizzazione dei primi elementi del ciclo del combustibile.

 

Félix Gaillard era Ministro delle Finanze, dell’Economia e della Pianificazione quando il secondo piano nucleare quinquennale fu adottato a larga maggioranza nel luglio 1957. Questo piano raccomandava di raggiungere una capacità installata di 850 MW nel 1965 e di 2.500 MW nel 1970, obiettivo che fu praticamente raggiunto. Presidente del Consiglio dal novembre 1957 al maggio 1958, nel marzo 1958 diede il via libera alla costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio a Pierrelatte per scopi militari. L’atteggiamento degli americani durante la crisi di Suez e nella NATO spinse la Francia ad accelerare i lavori sul nucleare militare per garantire la propria autonomia strategica. La decisione è importante. Avrebbe aperto la strada all’uso di reattori ad acqua leggera, mantenendo il controllo del combustibile un decennio dopo14.

 

Gaston Palewski, ex capo di gabinetto di Paul Reynaud e storico gollista, nel 1955 fu ministro delegato alla Presidenza del Consiglio, responsabile del Coordinamento della Difesa Nazionale, della Ricerca Scientifica, degli Affari Atomici e degli Affari Sahariani. Con il suo governo, incrementò le risorse della CEA per passare all’UNGG e alla propulsione nucleare. Il 21 aprile 1955 creò la Commissione per la produzione di elettricità da fonti nucleari (Commissione PEON), che avrebbe svolto un ruolo importante fino agli anni Ottanta. Essa riuniva al massimo livello i rappresentanti del Piano, dello Stato (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Industria, ecc.), della CEA e dell’EDF. L’obiettivo era quello di esaminare le dimensioni economiche dei metodi di produzione dell’energia elettrica e quindi di proporre linee guida per la politica nucleare francese.

 

Il CEA, principale artefice della transizione dalla scienza all’industria

 

Fin dall’inizio, la CEA si affidò a un team di grandi scienziati nel campo della fisica nucleare, come Frédéric Joliot-Curie, Francis Perrin, Bertrand Goldschmidt e Pierre Auger. Fin dall’inizio, creò gruppi di ricercatori di alto livello in tutte le discipline necessarie, con forti competenze in neutronica, fisica matematica, metallurgia, chimica, automazione, ecc. Il dipartimento “Stack Design” si occupava in particolare della progettazione dei futuri reattori, con personalità come Jacques Yvon, Jules Horowitz, Georges Vendryes e Jean Bourgeois, che avrebbe svolto un ruolo importante nello sviluppo e nella considerazione delle questioni di sicurezza dalla progettazione all’esercizio. Con queste competenze scientifiche di alto livello, la Francia sarà quasi alla pari con gli Stati Uniti. D’altra parte, il passaggio alla fase industriale è più delicato.

 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la Francia non è stata in grado di sviluppare grandi attori industriali, come General Electric e Westinghouse, capaci di padroneggiare la progettazione di sistemi complessi come le nuove centrali nucleari, anche se un grande capo come Charles Schneider (Gruppo Creusot-Loire e Schneider) aveva capito l’importanza del tema.

 

Più in generale, dopo la lunga crisi economica degli anni Trenta e poi la guerra, il punto di partenza era un tessuto industriale francese certamente quasi completo e che “sapeva fare le cose per esperienza”, ma frammentato e artigianale, in ritardo dal punto di vista tecnico, con deboli capacità di ricerca, pochi legami con il mondo scientifico e spesso dipendente dalle licenze americane. Pierre Guillaumat, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, che aveva partecipato alla Resistenza, affrontò questo problema come amministratore generale del CEA dal 1951 al 1958. Il CEA accolse nei suoi team ingegneri provenienti dall’industria e dall’EDF e li formò all’ingegneria atomica. Nel 1952 Pierre Guillaumat creò anche un dipartimento industriale presso il CEA per produrre i primi prototipi UNGG G1, G2 e G3 a Marcoule e nominò Pierre Taranger, proveniente dal settore petrolifero, a capo di questo dipartimento industriale.

 

La sfida per il CEA – come per EDF – era quella di affrontare due fallimenti del mercato (“esternalità negative”) in questa prima fase, istituendo due modalità di coordinamento fondamentali per l’innovazione e l’efficienza economica a lungo termine:

 

riunire scienziati, uffici di progettazione e fabbriche;

far collaborare aziende industriali con un’ampia gamma di competenze tecniche per progettare e costruire i sistemi complessi e impegnativi in termini di sicurezza e qualità che sono le centrali nucleari e il relativo ciclo del combustibile.

All’interno della stessa CEA, Pierre Guillaumat doveva far lavorare scienziati di alto livello con gli industriali e formare generazioni di ingegneri industriali, mentre la CEA doveva facilitare la formazione di gruppi industriali e il loro aumento di competenze facendo affidamento sui punti di forza dell’industria francese: Pechiney e la sua padronanza della grafite pura, Saint-Gobain e la chimica del ritrattamento, e Le Creusot con le sue competenze nella metallurgia e le sue fucine. Responsabile della costruzione di questa prima generazione di reattori, la CEA preparò anche la padronanza tecnica dell’intero ciclo, in particolare l’arricchimento dell’uranio, importante a breve termine per la propulsione nucleare e le armi atomiche, e a più lungo termine per aprire l’opzione dell’acqua leggera per l’energia nucleare civile, mobilitando ingegneri delle polveri (Georges Fleury, Claude Fréjacques) e reclutando Georges Besse (politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere) nel 1952, proprio per lavorare sull’arricchimento dell’uranio. Georges Besse fu responsabile di Pierrelatte negli anni Sessanta, poi di Eurodif negli anni Settanta.

 

Oltre alla padronanza tecnica ed economica, la sfida per la CEA era ovviamente quella di garantire la sovranità industriale. In questi primi anni, garantire questa sovranità significava essere soli sulla frontiera tecnologica, sia in campo civile che militare, a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Ma il controllo ricercato è anche un obiettivo a lungo termine, se si vuole garantire l’autonomia strategica e la sicurezza degli approvvigionamenti. Senza escludere la cooperazione internazionale, anche in settori sensibili, ciò implica la padronanza, per il ciclo del combustibile, delle miniere di uranio – i giacimenti saranno trovati in Francia e sfruttati, in particolare nel Limousin -, della fabbricazione del combustibile, della chimica nucleare sofisticata per il ritrattamento – Bertrand Goldschmidt alla CEA e Saint-Gobain – e, a lungo termine, dell’arricchimento di questo uranio. Ciò implica anche la padronanza di alcuni collegamenti industriali chiave per l’impianto: la fabbricazione di grafite pura, il controllo e il comando, nonché la metallurgia dei cassoni, che richiede forge di qualità, la padronanza della scienza dei materiali e delle tecniche di saldatura. Le équipe del Creusot potranno inoltre avvalersi delle competenze dell’industria degli armamenti, in particolare di quelle della fonderia Indret e dell’esperienza di Yvon Bonnard, ingegnere navale.

 

L’apprendistato di EDF, per preparare con gli attori industriali il passaggio al dimostratore su scala industriale aprendo opzioni: UNGG-acqua leggera

 

All’epoca della nazionalizzazione dell’elettricità, i dirigenti di EDF erano anche spinti dall'”ardente obbligo” di consentire la ricostruzione e la prosperità del Paese grazie all’elettricità economica, contribuendo alla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese. Questa era la loro missione principale. Dal 1946 al 1957, Pierre Ailleret, politecnico ed ex studente dell’École nationale des ponts et chaussées e del Supélec, fu direttore del Dipartimento di Ricerca di EDF, che contribuì a creare, prima di diventare vice direttore generale di EDF dal 1958 al 1968. Era un uomo di esperienza, responsabile di progetti idraulici e della costruzione di reti di interconnessione. Convinto dell’importanza dei progressi scientifici per l’energia, seguì i corsi di fisica nucleare di Jean Perrin prima della guerra e spinse il Dipartimento Studi e Ricerche a non accontentarsi di sostenere gli altri dipartimenti di EDF nelle loro questioni operative a breve termine, ma ad aprire tutte le possibili strade delle nuove energie avvicinandosi al mondo scientifico e aprendosi a livello internazionale: l’energia eolica, l’energia delle maree, l’energia termica oceanica, le turbine e i compressori a gas, ecc. e l’energia nucleare15.

 

Nominato nel 1950 membro del consiglio scientifico e del comitato (consiglio di amministrazione) del CEA16 , inviò giovani ingegneri dell’EDF, come Denis Gaussot, futuro direttore del Service d’études et projets thermiques et nucléaires (Septen), poi vicedirettore dell’Équipement, a formarsi al CEA presso l’Institut national des sciences et techniques nucléaires (INSTN). Nel 1953 propose di produrre elettricità dal vapore del G1 di Marcoule e la CEA decise di affidare la responsabilità all’EDF.

 

La diffusione massiccia dell’energia nucleare, una volta raggiunta la maturità economica, dovrebbe essere responsabilità di un industriale come EDF, e non di un’organizzazione scientifica come la CEA. D’altra parte, si pone la questione della responsabilità della fase intermedia dei dimostratori industriali UNGG tra le fasi dei prototipi G1, G2, G3 di Marcoule (commissionati alla fine degli anni ’50) e il dispiegamento a lungo termine. La discussione fu inizialmente difficile tra la CEA e l’EDF, ma Pierre Taranger, della CEA, era convinto che l’EDF sarebbe stato il più adatto ad aumentare significativamente le dimensioni delle unità e a rischiare su soluzioni innovative che avrebbero permesso di testare realmente il potenziale economico della tecnologia e quindi di ottenere i guadagni necessari durante il dispiegamento.

 

Nel 1954, la decisione è stata presa rapidamente da Pierre Guillaumat e Roger Gaspard (direttore generale di EDF): EDF sarà l’appaltatore principale e l’operatore delle tre unità di Chinon: Chinon A1, iniziata nel 1957, 70 MW; Chinon A2, nel 1959, 210 MW; Chinon A3, nel 1961, 460 MW. La CEA è responsabile della parte nucleare e le due entità devono collaborare su tutti i temi. EDF doveva assumere il ruolo di architetto industriale e di gestore del progetto in una modalità “idraulica” non standardizzata, adattando le dimensioni della struttura alla geografia del sito e lasciando a ogni regione di attrezzature EDF la libertà di scegliere i propri fornitori. Questo è ancora in gran parte il caso dell’energia termica convenzionale, dove, sebbene esista una politica di fasi standardizzate di dimensioni – 125 MW, poi 250 MW, prima di 600 MW a carbone e olio combustibile e 700 MW a olio combustibile – le regioni di attrezzature di EDF sono molto autonome nell’adattarsi ai siti e nella scelta dei contratti e dei fornitori industriali. Questo decentramento del reparto apparecchiature, in parte ereditato dalla storia frammentata del settore elettrico prima della nazionalizzazione del 1946, è accompagnato da una forte concorrenza tra i fornitori basata sulla suddivisione in centinaia di lotti. Anche in questo caso, troviamo l’eredità di un tessuto industriale poco concentrato, che dovrà continuare ad aumentare le proprie competenze e la propria capacità di assumersi la responsabilità di sottosistemi più ampi.

 

Il contesto internazionale sta cambiando e gli attori francesi dovranno essere in grado di reagire rapidamente per approfittare delle circostanze favorevoli. Gli americani hanno cambiato atteggiamento e, alla fine degli anni Cinquanta, si sono dimostrati favorevoli alla cooperazione con gli alleati europei nel campo dell’energia nucleare civile; erano pronti a fornire il combustibile arricchito necessario per utilizzare le nuove tecnologie ad acqua leggera e i primi dimostratori industriali stazionari sono stati messi in servizio negli Stati Uniti: per la tecnologia ad acqua pressurizzata, alla fine del 1957 entrò in funzione l’impianto di Shippingport da 60 MW (derivato direttamente dal sottomarino Nautilus), mentre nel 1960 entrò in funzione Yankee Rowe (170 MW), da cui era stato derivato il progetto di Chooz A. Questa è stata la prima generazione di energia nucleare civile negli Stati Uniti.

 

La Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) è stata creata da un trattato specifico firmato a Roma, contemporaneamente al trattato che istituiva la CEE nel 1957, ed è entrata in vigore nel gennaio 1958. Il suo scopo era quello di promuovere la cooperazione europea nel campo dell’energia nucleare civile. Dall’inizio del 1958 al febbraio 1959 fu presieduto da Louis Armand, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, membro della Resistenza, direttore generale e poi presidente della SNCF, grande ingegnere e professore all’École nationale d’administration (ENA) su questioni industriali ed energetiche dal 1945 al 1967.

 

I belgi erano particolarmente interessati alla tecnologia dell’acqua leggera. Volevano implementarla insieme ai francesi. EDF, in particolare Pierre Ailleret, era fortemente coinvolto nelle associazioni internazionali – la Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici (Cigre), l’Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica (Unipede), il Consiglio mondiale dell’energia (WEC), ecc. Raymond Giguet, ex direttore delle apparecchiature e all’origine, con Pierre Massé, della Nota Blu, uno strumento economico per aiutare nella scelta degli investimenti, vicedirettore generale di EDF, è molto favorevole a questa opzione in aggiunta all’UNGG, data la semplicità e la robustezza del suo design. Pierre Ailleret, pur essendo piuttosto partigiano all’interno di EDF dell’UNGG, è anche disposto a guardare più da vicino le interessanti soluzioni americane sviluppate da General Electric e Westinghouse. Gli ingegneri di Creusot-Schneider, molto interessati all’energia nucleare, sotto l’impulso di Charles Schneider e dell’ingegnere Maurice Aragou, erano un po’ scettici sulla qualità delle prime realizzazioni americane (giustamente), ma erano pronti a investire in considerazione della forte relazione storica con Westinghouse, di cui già detenevano alcune licenze in diversi campi.

 

La Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes (SENA) fu costituita nel 1960 da EDF e da diverse società elettriche belghe per la costruzione e la gestione dell’impianto nell’ambito di Euratom. Il generale de Gaulle diede il suo consenso di principio a condizione che il sito fosse situato in Francia e che EDF ne possedesse il 50% e lo gestisse. Nel 1959 fu costituito un consorzio per rispondere alla gara d’appalto indetta dal SENA per la gestione della licenza Westinghouse, sul modello della centrale di Yankee Rowe negli Stati Uniti, con una capacità installata di 250 MW: Framatome, una società franco-americana di costruzioni atomiche presieduta da Maurice Aragou (di Creusot-Schneider), e inizialmente posseduta al 60% da Schneider, al 30% da Empain e al 10% da Westinghouse. Il consorzio vinse la gara d’appalto e i lavori di ingegneria civile iniziarono nel 1962. Tutto ciò permise a EDF di muovere i primi passi, insieme ai belgi, nel settore dell’acqua pressurizzata e di sperimentare diversi rapporti contrattuali e tecnici con gli industriali responsabili dei principali sistemi dell’impianto.

 

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Dal 1960 al 1971, dai dimostratori industriali alla scelta del tipo di impianto da realizzare

 

Note

  1. Si tratta di una rottura netta di un materiale senza deformazione plastica macroscopica sotto l’azione di una sollecitazione e in determinate circostanze specifiche (esistenza di un difetto, condizioni di temperatura-pressione, ecc.)
  2. Cfr. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 87-88.
  3. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 137.
  4. Siemens e AEG sono tradizionalmente legate a Westinghouse e General Electric e sono in grado di costruire centrali elettriche.
  5. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 355-356.
  6. Ibidem, pp. 145-146.
  7. Bernard Esambert rimase in carica nel 1968 con Maurice Couve de Murville come Primo Ministro, poi si unì a Georges Pompidou che divenne Presidente della Repubblica nel giugno 1969. Svolse un ruolo importante nei grandi programmi industriali di questo periodo, promossi da Georges Pompidou (cfr. Bernard Esambert, Pompidou, capitaine d’industries, Odile Jacob, 1994).
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 165-166.
  9. Cfr. la nota al Piano di Jacques Lacoste e la lettera di André Decelle citata in precedenza.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. pp. 165-166.

Dubbi e dibattiti tra ingegneri e industriali

 

Questo lungo decennio di costruzione di dimostratori industriali sotto la responsabilità di EDF e con un forte coinvolgimento industriale della CEA sulla parte nucleare illustra le sfide tecniche e industriali da affrontare. I problemi tecnici saranno ricorrenti e importanti, con conseguenze significative sui tempi di costruzione e sull’indisponibilità delle unità nei primi anni. Questo è in particolare il caso delle tre unità UNGG di Chinon, ma anche di Chooz A.

 

Durante la costruzione della centrale A1 di Chinon, nel febbraio 1959, si sviluppò improvvisamente una fessura di circa dieci metri di lunghezza sul cassone in acciaio (quelli successivi erano in cemento armato precompresso), con le caratteristiche del fenomeno della “frattura fragile “17 . Yvon Bonnard, ingegnere capo del dipartimento di ingegneria navale, fu mobilitato per ricorrere alle competenze del laboratorio di metallurgia della Marina francese di Indret. Problemi simili si presentarono anche negli Stati Uniti con le grandi navi d’acciaio per le centrali elettriche ad acqua leggera all’inizio degli anni ’60 e le soluzioni trovate permisero di aumentare significativamente le dimensioni delle unità dei reattori ad acqua leggera.

 

All’inizio del suo funzionamento, Chinon A3 subì una serie di incidenti che impedirono la visita prevista dal generale de Gaulle nell’autunno del 1966 e ne posticiparono la messa in funzione di due anni. Questi incidenti erano in particolare legati alla complessità del sistema di manipolazione del combustibile e di rilevamento delle rotture del rivestimento, nonché a una cattiva progettazione dell’impianto (insufficiente considerazione dell’espansione termica e delle sollecitazioni dei tubi di acciaio inossidabile utilizzati per il campionamento necessario a rilevare le rotture del rivestimento)18 .

 

Anche Chooz A ha subito diversi incidenti gravi che ne hanno posticipato la messa in servizio di due anni (1970 anziché 1967-1968), in particolare le viti di assemblaggio del nocciolo del reattore che si sono allentate a causa delle vibrazioni provocate dal flusso idraulico19.

 

Grazie alla qualità dell’organizzazione e alla cooperazione industriale e tecnica tra gli attori industriali (EDF, CEA, fornitori e uffici di progettazione) e alle competenze acquisite nel decennio precedente, questi problemi multipli sono stati un’opportunità per progredire collettivamente nella comprensione dei fenomeni fisici e nella capacità di trovare e implementare rapidamente soluzioni. Tuttavia, il metodo UNGG appare molto complicato rispetto alle centrali ad acqua leggera (si veda il sistema continuo di scarico-ricarica di una miriade di elementi di combustibile) e, con serbatoi già molto grandi (con la grafite come moderatore per poter utilizzare l’uranio naturale), sembra a priori molto difficile aumentare le dimensioni delle unità oltre i 500 MW (i PWR sono più compatti a parità di potenza installata).

 

Nel 1964, la decisione di principio di impiegare massicciamente l’UNGG nel decennio fu comunque presa in un piccolo consiglio a Matignon, sotto la presidenza di Georges Pompidou, allora primo ministro. Il prezzo dell’olio combustibile era ancora alto, le lezioni delle difficoltà dell’UNGG non erano ancora state analizzate collettivamente e le prestazioni dei primi impianti americani ad acqua leggera non erano eccellenti. Le tre unità UNGG di Saint-Laurent-des-Eaux A1 e A2 e Bugey 1 (da 500 a 550 MW) furono messe in funzione nel 1964 e nel 1965 e sarebbero state le ultime in Francia.

 

Un anno dopo, durante la riunione di programma CEA-EDF del 14 dicembre 1965, presieduta dall’amministratore generale Robert Hirsch e dall’alto commissario CEA Francis Perrin, il direttore generale André Decelle e il presidente di EDF Pierre Massé, Francis Perrin e André Decelle si interrogarono sull’interesse di aprire l’opzione dei reattori ad acqua leggera alla luce dei nuovi elementi raccolti di recente. Negli Stati Uniti, Westinghouse e General Electric hanno imparato dai problemi incontrati nella prima generazione di reattori e stanno proponendo agli elettricisti americani ed europei centrali di seconda generazione a prezzi molto interessanti (e con unità più grandi). Washington era pronta a offrire combustibile arricchito a condizioni economiche interessanti, vista la sovraccapacità americana. Nello stesso anno, il 1964, il Regno Unito decise di abbandonare il suo reattore a uranio naturale (Magnox) a causa dei costi eccessivi in un contesto di calo dei prezzi dell’olio combustibile. Il governo britannico optò per l’Advanced Gas-cooled Reactor (AGR), un miglioramento del Magnox con combustibile a uranio arricchito di diversa concezione, e i dirigenti del Central Electricity Generating Board (CEGB) dissero chiaramente ai loro omologhi dell’EDF che era stato un errore non scegliere i reattori americani ad acqua leggera. Nel 1965, gli elettricisti tedeschi, che stavano iniziando a utilizzare le tecnologie americane20 , proposero a EDF di realizzare insieme uno studio economico di confronto tra UNGG e acqua leggera per esaminare l’opportunità di realizzare un progetto UNGG congiunto con i francesi a Fessenheim. Al termine di questo studio, l’acqua leggera è risultata molto più economica.

 

La questione della sovranità dell’acqua leggera è soggetta a valutazioni diverse a causa dell’evoluzione dei dati relativi a due punti essenziali: l’arricchimento e la possibilità di “affrancamento” della licenza Westinghouse. L’impianto di arricchimento militare di Pierrelatte è entrato gradualmente in funzione tra il 1964 e il 1967 (sotto la direzione di Georges Besse). Philippe Boulin, per Creusot-Schneider e la linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, e Ambroise Roux, per CGE e la linea ad acqua bollente di General Electric, erano convinti che la seconda generazione, che si stava rapidamente diffondendo negli Stati Uniti e veniva proposta agli europei, fosse economicamente e tecnicamente più efficiente. La costruzione del reattore Chooz A da parte della Société des forges et ateliers du Creusot (Sfac), parte del gruppo Creusot-Schneider, fu un successo industriale. Le competenze metallurgiche dei francesi interessarono e impressionarono particolarmente Westinghouse, alla quale gli americani ordinarono in seguito sette reattori ad acqua pressurizzata. In particolare, le fucine Creusot utilizzarono per la prima volta il “metodo di calcolo agli elementi finiti” (all’avanguardia nei metodi di calcolo tecnico-scientifici) e si avvalsero della consulenza di Yvon Bonnard per migliorare la composizione dell’acciaio. Come sottolinea Georges Lamiral analizzando il funzionamento dell’industria francese in questo periodo: “I francesi commettono talvolta errori e fallimenti, ma una delle loro principali qualità è quella di saper reagire rapidamente”. Le prestazioni delle fucine Creusot, il tessuto industriale francese e le competenze del CEA-EDF-Framatome in materia di reattori ad acqua pressurizzata resero possibile la prospettiva di affrancamento della licenza Westinghouse.

 

In tre anni, dal 1963 al 1966, gli attori industriali francesi discussero la scelta dei reattori negli organismi di lavoro collettivo di più alto livello (commissione PEON, comitati EDF-CEA, ecc.), in modo tanto professionale quanto conflittuale, e si convinsero collettivamente che le due opzioni, UNGG e acqua leggera, dovevano essere aperte. La “frattura” si è verificata anche all’interno di EDF e della CEA: André Decelle, direttore generale di EDF, ha spinto per l’acqua leggera, mentre Pierre Ailleret, vicedirettore generale di EDF, ha sostenuto l’UNGG. Il vigore delle discussioni va di pari passo con la loro qualità tecnica ed economica e con la presa in considerazione di nuovi dati internazionali e di questioni industriali e di sovranità. La loro convergenza “relativa” fu quindi piuttosto rapida. Il 7 marzo 1966, André Decelle (EDF) inviò una lettera a Robert Hirsch (CEA) per spiegare queste questioni. Il 4 maggio 1966, il direttore generale dell’EDF e il direttore generale del CEA hanno istituito la commissione Cabanius-Horowitz (dal nome rispettivamente del direttore delle apparecchiature dell’EDF e del direttore delle batterie atomiche del CEA), con il compito di redigere un rapporto di sintesi che metta a confronto l’UNGG, l’acqua leggera (pressurizzata e bollente) e l’olio termico. Questo rapporto congiunto EDF-CEA dovrebbe servire come base per le discussioni della commissione PEON, che ha il compito di consigliare il governo sulla strategia nucleare civile. Il rapporto EDF-CEA, favorevole alle tecnologie ad acqua leggera, è stato presentato nel giugno 1967 e la commissione PEON ha raccomandato, nell’aprile 1968, di proseguire la costruzione delle UNGG con le prossime due unità a Fessenheim e, soprattutto, di testare l’acqua leggera su scala reale mettendo rapidamente in funzione una nuova unità in Francia.

 

Una prima gara d’appalto per due unità UNGG a Fessenheim, lanciata da EDF nell’ottobre 1968, si rivelò troppo costosa. Rifletteva la riluttanza degli industriali a impegnarsi nella realizzazione di questo tipo di impianti. Alla fine del 1969, dopo il via libera di Georges Pompidou, divenuto Presidente della Repubblica, fu indetta una seconda gara d’appalto per Fessenheim. Framatome presentò un’offerta industriale credibile con prezzi competitivi. Una gara d’appalto simile seguì rapidamente per due unità a Bugey. Dal 1967 al 1971, le autorità politiche disponevano quindi della sovranità e degli elementi tecnico-economici necessari per scegliere l’opzione nucleare, con argomenti convincenti a favore dell’acqua leggera. Ma le centrali a olio combustibile erano più attraenti del nucleare a breve termine, compresa l’acqua leggera, con i prezzi del petrolio ancora in calo. Tuttavia, Jacques Lacoste, consigliere di Marcel Boiteux, divenuto direttore generale di EDF nel 1967 dopo aver diretto il Dipartimento di Studi Economici Generali, scrisse una nota importante e premonitrice che indirizzò al Piano per sottolineare i rischi geopolitici che l’eccessiva dipendenza della Francia dal petrolio comportava a lungo termine, e di conseguenza la necessità di dare visibilità e prospettive al settore nucleare. Così l’industria non si impegnò a costruire nuove unità dal 1966 al 1971. Durante questo periodo, l’industria era in attesa di decisioni politiche. Per convincersene, basta leggere la lettera del 7 novembre 1968 di André Decelle, allora Consigliere di Stato, indirizzata ad André Bettencourt, Ministro dell’Industria, in cui si proponeva un rapido piano di rilancio per preservare le competenze dell’industria nucleare e il tessuto industriale22.

 

La riflessione e le decisioni politiche sulla scelta dei settori: 1966-1971

 

Tra il 1966 e il 1969, il punto di vista del generale de Gaulle si evolve progressivamente a favore della tecnica dell’acqua leggera. Nel settembre 1967, espresse la sua insoddisfazione nei confronti dell’EDF di fronte ai ritardi e alle difficoltà del programma UNGG (la visita a Chinon A3, annullata nel 1966, fu sostituita da quella alla centrale mareomotrice di Rance) e di fronte agli insuccessi nella realizzazione dell’unità termica da 250 MW, legati in particolare a un’insufficiente standardizzazione, causa di sforamenti dei costi e di ritardi nel completamento. André Decelle e Pierre Ailleret, direttore generale e vicedirettore generale di EDF, sono stati sostituiti da Marcel Boiteux e Charles Chevrier. Georges Pompidou, rinominato Primo Ministro dopo le elezioni legislative della primavera del 1967, era piuttosto favorevole alla tecnica dell’acqua leggera, a differenza di Maurice Schumann, Ministro di Stato per la Ricerca Scientifica e le Questioni Atomiche e Spaziali.

 

Durante il Consiglio interministeriale del 7 dicembre 1967, il generale de Gaulle espresse nuovamente la sua insoddisfazione al presidente di EDF, Pierre Massé, che era presente in quel momento. Si decise di avviare la costruzione di due reattori UNGG a Fessenheim e, per mantenere aperta l’opzione dell’acqua leggera, di studiare un impianto di arricchimento per scopi civili, che sarebbe stato essenziale per la sovranità del Paese se avesse fatto un uso significativo dell’opzione dell’acqua leggera. È stato inoltre deciso di autorizzare EDF a partecipare alla costruzione di una centrale ad acqua leggera di seconda generazione a Tihange, in Belgio, insieme ai belgi. Si tratterà di una centrale ad acqua pressurizzata basata sul modello Beaver Valley, che è stato poi scelto per Fessenheim. Va notato che lo studio di un’altra centrale ad acqua leggera, con gli svizzeri, che doveva essere una centrale ad acqua bollente, era stato appena autorizzato a Kaiseraugst nel luglio 1967, ma il progetto fu infine abbandonato.

 

Nel settembre 1967, Bernard Esambert, un giovane funzionario del Corpo delle Miniere, fu nominato consigliere industriale del Primo Ministro Georges Pompidou23 . La decisione presa nel dicembre 1967 di costruire due UNGG a Fessenheim non era in linea con quella che, con il rapporto Cabanius-Horowitz, cominciava a essere la visione quasi condivisa dei dirigenti di EDF e CEA. L’argomento è complesso, molto controverso e non ben compreso a livello politico. Il ruolo dei consulenti nei gabinetti ministeriali o all’Eliseo non era quello di sostituirsi ai servizi statali o agli enti pubblici, ma di attingere alle loro competenze aprendosi a punti di vista esterni per dare spessore alla diagnosi e consentire ai leader politici di andare a fondo della questione. Questo lavoro permise a Georges Pompidou, così come ad alcuni dei suoi ministri che sarebbero rimasti in carica con Maurice Couve de Murville, di appropriarsi della diagnosi: l’opzione dell’acqua leggera aveva il miglior potenziale, era ormai possibile “francesizzare” le tecnologie americane, e se gli altri europei non avessero facilitato la partecipazione di EDF all’ultracentrifugazione per l’arricchimento, sarebbe stato necessario sviluppare un impianto civile con la tecnologia francese della diffusione gassosa proponendo agli europei interessati di partecipare. Georges Pompidou trasmise questi elementi al generale de Gaulle, senza alcun riscontro positivo. Egli lasciò l’incarico all’inizio di luglio del 1968 (Maurice Couve de Murville divenne allora Primo Ministro), ma tornò come Presidente della Repubblica nel giugno del 1969 con la stessa convinzione.

 

Il rapporto della commissione PEON presentato al governo nell’aprile 1968 sottolineava l’interesse dell’acqua leggera rispetto all’UNGG e raccomandava la costruzione di un’unità ad acqua leggera in Francia dopo le due UNGG di Fessenheim, per testare questa nuova generazione e verificarne l’interesse per il futuro. Nel luglio 1968 si tenne un decisivo consiglio dei ministri su questo tema, con Maurice Couve de Murville, Primo Ministro, André Bettencourt, Ministro dell’Industria, e Robert Galley, Ministro delegato alla Ricerca Scientifica e alle Questioni Atomiche e Spaziali. André Bettencourt si prese il tempo necessario per entrare nel vivo della questione (basandosi in particolare sugli elementi preparati da Roger Ginnochio, ex vicedirettore della produzione/trasporti di EDF e membro del suo gabinetto) per riferire al Generale de Gaulle al Consiglio dei Ministri24 . Il Generale ascoltò con interesse e indicò che le cose dovevano essere rimesse in carreggiata e la decisione sulle due unità UNGG a Fessenheim riconsiderata. In quel periodo fu completato l’impianto di arricchimento di Pierrelatte.

 

Nell’ottobre 1968, il ritorno della gara d’appalto per l’UNGG di Fessenheim presentava clausole inaccettabili e prezzi troppo alti per EDF. Gli industriali hanno puntato su una tecnologia che sembrava loro rischiosa. Inoltre, i prezzi dell’olio combustibile pesante sono ai minimi e più interessanti. Nel contesto delle difficoltà di finanziamento pubblico a seguito degli eventi del maggio 1968, si è quindi tentati di rimandare di qualche anno qualsiasi ulteriore impegno nucleare a favore dell’olio combustibile. Tuttavia, gli attori industriali richiamarono l’attenzione delle autorità pubbliche sulla necessità di dare una visibilità a medio-lungo termine agli industriali per preservare le competenze in assenza di impegni in nuove centrali dal 1966 e per tenere pronta l’opzione nucleare di fronte ai rischi geopolitici sul petrolio25. Nel gennaio 1969, il generale de Gaulle, ricevendo Pierre Delouvrier quando quest’ultimo stava per sostituire Pierre Massé alla presidenza dell’EDF, si dichiarò d’accordo con l’acqua leggera, a condizione che venisse creato un impianto di arricchimento civile26.

 

Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica nel giugno 1969 e già convinto nel 1968 come Primo Ministro dell’interesse dell’acqua leggera, decise nel febbraio 1971 di impiegarla nel decennio successivo. In occasione del Consiglio interministeriale ristretto del 13 novembre 1969, decise di abbandonare le due unità UNGG previste a Fessenheim alla luce dei risultati della gara d’appalto indetta da EDF. La società pubblica avrebbe dovuto costruire a Fessenheim due unità ad acqua leggera, pressurizzata o bollente.

 

Nel febbraio 1970, EDF indisse una nuova gara d’appalto per Fessenheim con Framatome-Sfac per la tecnologia Westinghouse e CGE per la tecnologia General Electric. La proposta di Framatome si basava, come per Tihange, sulla seconda generazione di reattori ad acqua pressurizzata, molto più efficienti di Chooz A (basato sul progetto dell’impianto di Beaver Valley ordinato dagli Stati Uniti nel 1967). Philippe Boulin, a capo di Creusot-Loire, e il suo team hanno azzardato un’offerta che anticipava la costruzione di una serie di centrali, riducendo così i costi. La sua offerta, nettamente migliore di quella di CGE, fu quindi selezionata. Seguì rapidamente una seconda gara d’appalto per Bugey, dove fu nuovamente selezionata Framatome.

 

Nel novembre 1970, la commissione PEON raccomandò la costruzione di 8.000 MW di energia nucleare ad acqua leggera (da otto a dieci unità) tra il 1971 e il 1975. Un consiglio ristretto riunitosi all’Eliseo il 26 febbraio 1971 ha accolto questa raccomandazione, autorizzando l’impegno di tre nuove unità per il 1971 e il 1972. EDF si preparò a un ritmo di impegno di una o due unità all’anno nel corso del decennio, mentre il ritmo previsto dal contratto di programma firmato tra EDF e lo Stato, a seguito del rapporto Nora, era di due unità all’anno. Cinque unità sono state impegnate nel 1971, 1972 e 1973, prima della prima crisi petrolifera.

 

3

Dal 1972 al 1975, gli shock petroliferi e la preparazione industriale di un dispiegamento massiccio e standardizzato di acqua pressurizzata

 

Note

  1. Anche in questo caso, i punti di vista degli attori industriali sono stati contrapposti, anche se, in EDF, Michel Hug non era molto favorevole all’ebollizione (aveva lavorato sui problemi di cavitazione), e Marcel Boiteux e Paul Delouvrier erano favorevoli alla standardizzazione piuttosto che alla concorrenza tra due settori (su questa “battaglia dei settori nucleari”, si veda Marcel Boiteux, Haute tension, Odile Jacob, 1993, p. 137-156).
  2. Cfr. la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea la

Si veda la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea il Comitato dei responsabili degli studi, inizialmente guidato da Denis Gaussot, direttore del Septen dal 1972 al 1976 (Georges Lamiral, op. cit., vol. 2, p. 127).

  1. Cfr. Cyril Foasso, Histoire de la sûreté de l’énergie nucléaire civile en France (1945-2000) : technique d’ingénieur, processus d’expertise, question de société, tesi di dottorato, Université Lyon-II, 28 ottobre 2003.

La strutturazione e la reazione politica su larga scala alla crisi petrolifera e all’abbandono del settore dell’acqua bollente

 

Gli shock petroliferi dell’ottobre 1973 e del gennaio 1974 portarono a quadruplicare il prezzo del barile di petrolio in meno di quattro mesi: in pochi giorni, il costo dell’importazione di petrolio per la Francia passò da meno dell’1,5% del PIL a quasi il 5%. Il 22 novembre 1973, il Consiglio interministeriale presieduto da Pierre Messmer, primo ministro, ratificò il progetto di un impianto di arricchimento a Tricastin, Eurodif, diretto da Georges Besse, che aveva lanciato il progetto all’inizio del 1974. Il 30 novembre 1973 Pierre Messmer si rivolge ai francesi per annunciare una serie di misure di risparmio energetico. Era l’inizio di un’operazione di “risparmio energetico” che avrebbe stabilizzato il consumo di energia del Paese nell’arco di un decennio. Il 6 marzo 1974, il Consiglio interministeriale presieduto da Georges Pompidou decise quello che sarebbe stato chiamato il “piano Messmer”, elaborato sulla base delle proposte della commissione PEON: impegno di sei unità nucleari di circa 1.000 MW nel 1974, poi sette unità nel 1975, mantenendo l’obiettivo di una coesistenza e di un’emulazione tra le due tecnologie ad acqua leggera (Westinghouse e General Electric). Nell’agosto 1975, data la sua debolezza industriale sull’isola nucleare rispetto a Creusot-Loire-Framatome, CGE rinunciò allo sviluppo della linea di ebollizione di General Electric. Il governo avrebbe rinunciato alla competizione sulla caldaia e sul turbogeneratore, mentre EDF avrebbe lavorato con gli industriali e la CEA per mettere l’industria in ordine di battaglia per affrontare questo nuovo periodo e queste nuove sfide associate a un dispiegamento su vasta scala per più di un decennio (1975-1990)27 .

 

L’industria in ordine di battaglia per una transizione energetica senza precedenti

 

Tutti gli attori erano consapevoli della necessità di cambiare nuovamente software rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di organizzazione e metodi operativi, sia di fronte alle nuove sfide industriali ed economiche associate all’attuazione di un programma di costruzione particolarmente ambizioso.

 

Nel 1967, la Divisione Apparecchiature di EDF, a causa della sua storia, era composta da una quindicina di regioni di apparecchiature gelose della loro autonomia, ognuna con i propri uffici di progettazione e abituate a competere su centinaia di lotti con un’industria frammentata e con scarse capacità di progettazione. A partire dal 1967-1968, l’azienda si preparò a un impiego standardizzato, traendo insegnamento dal difficile avvio della fase termica da 250 MW, legato a questa assenza di dottrina tecnica e a questo eccessivo decentramento. Allo stesso tempo, si trattava della fine graduale dei grandi programmi idraulici – la maggior parte dei siti era attrezzata – che si basavano naturalmente su approcci “su misura”. Nel 1968, Charles Chevrier, vicedirettore generale, creò il Septen, che avrebbe avuto la responsabilità tecnica della progettazione delle apparecchiature termiche e nucleari. Dal 1972 al 1976, Michel Hug, Direttore dell’Equipaggiamento, ha riorganizzato le regioni dell’equipaggiamento e nel 1973 ha creato il comitato dei responsabili degli studi delle regioni dell’equipaggiamento28 : questo comitato controlla e decide, su delega del Direttore dell’Equipaggiamento, su tutti gli argomenti chiave riguardanti la progettazione delle fasi tecniche; è presieduto dal capo del Septen e decide sulla base di un consenso tecnico che viene poi imposto a tutte le regioni. Alcune regioni sono responsabili dei principali pacchetti di teste portanti, in particolare la caldaia nucleare e il gruppo generatore della turbina.

 

EDF intende inoltre adattare le proprie relazioni contrattuali a un tessuto industriale più concentrato, meglio attrezzato con uffici di progettazione e in grado di assumersi la responsabilità di sottosistemi tecnici più grandi. Soprattutto, l’azienda rinuncerà alla competizione tra i suoi fornitori per due importanti lotti: la caldaia nucleare, con Framatome, e il gruppo turbogeneratore, con Alsthom. Con le scuole professionali saranno avviati programmi di formazione molto importanti su tutte le competenze necessarie per la costruzione e il funzionamento di queste unità, e mobiliteremo il know-how degli ex lavoratori idraulici, termici e UNGG. Il tessuto industriale dovrà avere una visibilità a lungo termine, con un controllo tecnico rigoroso della produzione dei componenti chiave e un controllo dell’andamento dei costi. EDF sta inoltre lavorando costantemente allo sviluppo della rete ad altissima tensione, in particolare la rete a 400 kV, essenziale per il trasporto dell’elettricità dai nuovi siti di produzione agli usi in rapida crescita.

 

L’industria è concentrata e ristrutturata intorno a Framatome-Creusot-Loire per la caldaia nucleare (che assorbe le competenze dei gruppi industriali UNGG, G3A, Indatom) e intorno a CGE-Alsthom per la parte dei turbo-alternatori. Framatome costruisce in diciotto mesi un nuovo stabilimento a Saint-Marcel, nella regione di Saône-et-Loire, che diventa operativo alla fine del 1975. Con i suoi due stabilimenti, Creusot-Loire-Framatome avrebbe avuto una capacità produttiva annua di otto serbatoi e di diciotto-ventiquattro generatori di vapore, nonché le migliori competenze per produrre i componenti chiave del circuito primario (la parte “nucleare” dell’impianto). La scommessa dei suoi direttori, Philippe Boulin, Maurice Aragou e Jean-Claude Leny, di far leva sulla loro credibilità industriale e sull’impegno dei politici e di EDF in una serie di unità è stata vinta. Questo permetterà, con l’atteggiamento cooperativo di Westinghouse e la maestria scientifica della CEA (legata in particolare alla sua padronanza dell’acqua leggera per la propulsione nucleare), di “affrancare” la tecnologia Westinghouse in pochi anni. In questo contesto, la CEA acquisì una partecipazione in Framatome nel 1975.

 

André Giraud, amministratore generale della CEA dal 1970 al 1978, riorganizzò le attività della CEA adattando le regole di gestione e le strutture giuridiche alle sue diverse missioni. Nel 1976, Jean Bourgeois, un pioniere della sicurezza nucleare, creò l’Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare (IPSN) presso il CEA, che oggi è diventato l’Istituto per la protezione dalle radiazioni e la sicurezza nucleare (IRSN), il supporto tecnico dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN). Il CEA ha creato filiali per alcune parti industriali, come TechnicAtome nel 1972 (dal dipartimento di costruzione delle batterie) e Cogema per il ciclo a valle nel 1976. Il CEA è particolarmente coinvolto nel controllo industriale dell’intero ciclo del combustibile del settore dell’acqua pressurizzata, da monte, con la fabbricazione del combustibile e soprattutto l’arricchimento (costruzione di Eurodif), a valle, con il ritrattamento del combustibile e la gestione delle scorie nucleari. Tra le personalità che hanno svolto un ruolo importante in questo periodo con André Giraud, possiamo citare Claude Fréjacques, responsabile degli studi sull’arricchimento presso il CEA dal 1957, poi direttore della chimica del CEA negli anni ’70, prima di diventare presidente del CNRS nel 1981.

 

Il controllo della sicurezza è un punto centrale del successo del programma nucleare. All’inizio degli anni ’70 è stata creata una nuova organizzazione per la sicurezza con la creazione, nel 1973, del Service central de sécurité des installations nucléaires (SCSIN) all’interno del Ministero dell’Industria, non più integrato nel CEA. Esso ha potuto contare sulle competenze in materia di sicurezza del CEA, che nel 1976 sono state riunite, come già detto, nell’IPSN sotto la direzione di Jean Bourgeois29. Nel 1991, lo SCSIN è diventato la Direction de la sûreté nucléaire (DSIN), dipendente dal Ministero dell’Industria e dell’Ambiente, poi, nel 2002, la Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection (DGSNR), anch’essa dipendente dal Ministero della Salute, prima di diventare, nel 2006, l’ASN, un’autorità amministrativa indipendente.

 

III

Parte

Un’impegnativa preparazione collettiva sostenuta dallo Stato

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-3

1

Assunzione di rischi, fallimento e successo nella prospettiva del potere economico e della sovranità

 

Note

  1. Su questo periodo si veda Fondation Charles-de-Gaulle, Défendre la France. L’eredità di

L’eredità di De Gaulle alla luce delle questioni attuali. Actes de colloque, Nouveau Monde Éditions/Ministère des Armées, 2020; Collectif, Puissance et faiblesses de la France industrielle XIXe-XXe siècle, Seuil, coll. “Points histoire”, 1997; Marc Bloch, L’Étrange défaite [1946], Gallimard, coll. “Folio histoire”, 1990; Gaston Berger, Jacques de Bourbon-Busset et Pierre Massé, De la prospective. Textes fondamentaux de la Prospective française 1955-1966, L’Harmattan, 2007; Jean-François Sirinelli, Les Vingt Décisives. Le passé proche de notre avenir (1965-1985), Fayard, 2007 (riedito nella collana “Pluriel”, con una prefazione inedita, 2012).

L’aspetto più sorprendente è senza dubbio il contrasto tra, da un lato, i notevoli risultati della massiccia diffusione del programma negli anni 1975-1990, con costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli degli Stati Uniti e il controllo industriale dell’intera catena del valore (sovranità ed economia), e, dall’altro, i tentativi e le difficoltà che li hanno preceduti dal 1945 al 1975, Abbiamo visto le difficoltà, i tentativi e gli errori, le battute d’arresto tecniche ed economiche a volte considerevoli, e la diversità delle sfide a seconda del periodo – ricerca e prototipi, dimostratori industriali e scelta del settore (o dei settori), preparazione alla diffusione di serie standardizzate -, una diversità di sfide che ha richiesto organizzazioni e competenze molto diverse30. La chiave dell’enigma risiede indubbiamente nella comprensione di questa capacità di rimbalzo e di resilienza per diversi decenni, basata sulla scelta di accettare e assumere queste prove ed errori, questi rischi, con una ripartizione delle responsabilità e delle organizzazioni appropriate e la scelta di personalità impegnate e competenti per l’azione.

 

In questo spirito, quattro ingredienti principali o “quattro elementi” ci sembrano in grado di spiegare questa resilienza e capacità di rimbalzo che hanno permesso un successo eccezionale:

 

una visione politica a lungo termine e bipartisan delle questioni energetiche, basata su scienza e industria;

uno Stato che assume il proprio ruolo nella modernizzazione del Paese in settori chiave come l’energia

un’organizzazione e un funzionamento dello Stato che lo rendano responsabile dei risultati e facilitino l’azione collettiva;

uno Stato che mobiliti le migliori competenze industriali e scientifiche per il processo decisionale e l’azione.

Una visione a lungo termine e un’ambizione portata avanti dai leader politici, condivisa con le élite scientifiche e industriali e con l’alta funzione pubblica: sovranità economica ed energetica, progresso economico e sociale, grazie alla scienza e a un’industria efficiente e potente.

 

Questa visione a lungo termine è interessante ed efficace solo perché accompagnata dall’attenzione e dalla priorità data alla qualità dell’implementazione industriale, ai risultati ottenuti, all’ascolto dei professionisti e alla mobilitazione del loro know-how, anche nello sviluppo delle strategie, e all’ascolto delle opportunità legate agli eventi, anche geopolitici.

 

Una visione che si rifà alla concezione di uno Stato “determinato e misurato”,

impegnato nella modernizzazione economica e industriale del Paese.

 

Per la maggior parte degli attori è chiaro dalla storia, in particolare dal periodo delle due guerre mondiali e dal decennio di crisi economica degli anni ’30, che non si può semplicemente fare affidamento sui settori privati e sui mercati per garantire la sicurezza delle nazioni di fronte ai rischi geopolitici e geoeconomici, né di garantire la prosperità economica quando si verifica un “fallimento del mercato” legato alla presenza di monopoli naturali (reti energetiche o di trasporto), o di “esternalità positive31 ” dovute al riavvicinamento laboratorio-fabbrica o al coordinamento industriale sul controllo a lungo termine di sistemi socio-tecnici complessi, come le reti energetiche o elettriche, o il settore nucleare.

 

Laureato all’Ecole Polytechnique e al Ponts et Chaussées, Pierre Massé è stato successivamente direttore delle attrezzature di EDF, commissario generale per la pianificazione dal 1959 al 1965 e poi presidente di EDF dal 1965 al 1969; Marcel Boiteux, laureato all’Ecole Normale Supérieure, matematico ed economista, è stato capo degli studi economici generali, direttore generale di EDF dal 1967 al 1979 e poi presidente di EDF dal 1979 al 1987. Entrambi hanno guidato, sia all’interno di EDF che nei lavori del Piano, la riflessione sugli strumenti economici rilevanti per attuare le politiche dello Stato e inviare i giusti segnali economici agli attori economici: il tasso di sconto per integrare in modo coerente il costo del finanziamento nella scelta degli investimenti pubblici, la programmazione stocastica dinamica per ottimizzare la scelta degli investimenti tenendo conto delle incertezze e del lungo periodo, la tariffazione al costo marginale di lungo periodo per inviare i giusti incentivi al consumatore in termini di investimenti negli usi, la Nota Blu per decentrare le scelte di investimento e dimensionamento nel settore idraulico (importanza di poter fare “su misura”).

 

Il Piano strutturerà questo lavoro per collocarlo nel quadro sistemico di una previsione di lungo periodo che integri tutti gli attori economici e sociali, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, gli enti locali, le complessità e le incertezze. Questo “obbligo ardente” di pianificazione in Francia è spesso poco conosciuto e mal compreso. In particolare, si dimentica spesso la grande diversità dei profili mobilitati, da Pierre Massé, grande ingegnere e scienziato, a Gaston Berger, direttore generale dell’istruzione superiore dal 1953 al 1960 e filosofo, che fu uno dei primi fenomenologi in Francia a scrivere su Husserl e Heidegger con Emmanuel Levinas. Anche Gaston Berger ha svolto un ruolo decisivo nel lavoro di previsione in Francia, dando grande importanza all’istruzione e alla cultura, oltre che al ruolo centrale degli attori, alla loro libertà e ai loro vincoli.

 

Uno di questi grandi ingegneri, Louis Armand, a capo della SNCF e poi dell’Euratom, era un industriale, uno scienziato e un servitore dello Stato e per più di due decenni ha tenuto agli studenti dell’ENA corsi notevoli di pedagogia e di precisione concreta sulle poste in gioco tecniche, economiche e sociali dell’energia e dell’industria per la Francia. Non è certo che i decenni successivi abbiano offerto un approccio così approfondito e sistemico alle classi che si sono succedute all’ENA o all’École Polytechnique. Il successo di tutti questi ambiziosi obiettivi in termini di sviluppo economico e sociale era tutt’altro che assicurato, dopo tre decenni di guerra, crisi e declino in Francia. La maggior parte di questi attori era abitata dall’importanza delle incertezze e dalla necessità di rimanere modesti e prudenti, pur essendo determinati a uscire dal comportamento spesso malthusiano, egoista e retrogrado che Marc Bloch aveva così bene analizzato. È stato più negli anni ’70 e ’80 che questa modestia è stata troppo spesso abbandonata, lasciando talvolta il posto a tecnocrazie che hanno confuso la scienza con lo scientismo e hanno trasformato la speranza di progresso in certezza.

 

Organizzazione statale per l’azione e la realizzazione di grandi progetti industriali di interesse generale

 

Questa organizzazione si basava in particolare su :

 

enti industriali e/o scientifici come il CEA e l’EDF, o dipartimenti governativi come la Direzione dell’Energia e delle Materie Prime (DGEMP), prima denominata Segretariato Generale dell’Energia dal 1963 al 1973, poi Delegazione Generale dell’Energia dal 1974 al 1978. Jean Blancard fu quindi Delegato Generale per l’Energia nel 1974-1975, dopo essere stato Delegato Ministeriale per gli Armamenti dal 1968 al 1974, con forti responsabilità in campi coerenti e sufficientemente vasti per sentirsi davvero responsabile del futuro del Paese in questi settori, integrando la dimensione sistemica e quella industriale. La creazione da parte del generale de Gaulle, nel 1961, del Centre national d’études spatiales (Cnes) nel settore spaziale e della Délégation ministérielle pour l’armement (DMA), poi divenuta Direction générale de l’armement (DGA), rientravano nella stessa logica: l’obiettivo era quello di “trasformare il mondo” e i servizi statali erano responsabili della coerenza delle regole concrete del gioco con gli obiettivi;

uno Stato efficiente che funziona sotto l’autorità del politico, che polarizza le energie, ascolta gli attori e decide in modo pragmatico. Si tratta di giungere rapidamente a soluzioni attraverso istituzioni che gestiscano i conflitti e confrontino i punti di vista a livello di competenze rilevanti: consigli ministeriali ristretti, commissione Plan e PEON, comitati CEA-EDF, comitato dei responsabili delle regioni di equipaggiamento all’interno del FES, ecc.

Uno Stato con le migliori competenze industriali e scientifiche.

 

Lo Stato si avvaleva quindi, sia all’interno che all’esterno, delle migliori competenze industriali e scientifiche portate da uomini animati da questa visione collettiva e addestrati all’azione e all’attuazione: EDF era stata creata dalla nazionalizzazione di più di mille imprese nel 1946 e la maggior parte dei suoi dirigenti aveva realizzato progetti, costruito centrali e reti, nell’ambito delle imprese private del periodo tra le due guerre (Pierre Massé, Pierre Ailleret, André Decelle). La CEA era gestita da industriali come Pierre Guillaumat e Pierre Taranger, e da grandi scienziati come Francis Perrin e Jules Horowitz. E fornitori industriali come Creusot-Schneider (Charles Schneider, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny), CGE o Saint-Gobain erano coinvolti nelle discussioni. Questi uomini, per il loro passato industriale e anche, per molti di loro, per il loro passato di combattenti della Resistenza e di francesi liberi, erano abituati a mettersi in gioco, a non evitare il conflitto, a rischiare e a sentirsi responsabili individualmente e collettivamente dell’insieme.

 

Possiamo quindi vedere chiaramente l’emergere di una concezione forte e precisa del ruolo dello Stato nel campo del controllo industriale al servizio della sovranità e del potere economico, con un’organizzazione dello Stato snella, coerente e responsabilizzante e, al centro dello Stato, competenze industriali e scientifiche dotate di esperienza d’azione e preoccupazione per la realizzazione operativa. Questa organizzazione e queste competenze industriali e scientifiche sono in diretta interazione con i politici, che le interpellano e le coinvolgono nei loro processi decisionali. I politici forniscono la visione e si aspettano risultati dall’industria, ma anche iniziative e gestione cooperativa dei conflitti tra di loro. E, alla fine, sono loro che, ascoltando la posta in gioco e le circostanze geopolitiche, decidono le opzioni strategiche nei momenti chiave e la cooperazione internazionale.

 

2

Sovranità ed efficienza economica attraverso il controllo industriale e la cooperazione internazionale mirata

 

La sovranità energetica viene spesso contrapposta all’efficienza economica attraverso il commercio e la cooperazione internazionale. Secondo questa visione, qualsiasi politica industriale comporterebbe protezionismo, regolamenti e sussidi, con costi aggiuntivi significativi per l’economia e i contribuenti. L’analisi della storia del programma nucleare francese dimostra che questo, lungi dall’essere una fatalità, può essere esattamente il contrario, se comprendiamo che il controllo industriale di un settore chiave da parte del tessuto industriale di un Paese è un fattore comune di progresso economico e sociale e di autonomia strategica. Ci rendiamo anche conto che se questo controllo industriale richiede l’intervento dello Stato in settori come il sistema elettrico e l’energia nucleare, non si tratta di un intervento qualsiasi: un intervento mirato a questioni di sovranità e “fallimenti del mercato”, e basato su un alto livello di competenza industriale al servizio dell’interesse generale. Abbiamo visto che questo intervento, pur assumendo forme diverse a seconda del periodo (prototipi/dimostratori industriali/dispiegamento su larga scala), deve sempre articolare le due preoccupazioni: sovranità ed efficienza economica. È chiaro che la diffusione su larga scala di una tecnologia di produzione di energia elettrica meno competitiva di quella di altri grandi Paesi segnerebbe la fine del potere economico e quindi della sovranità: come ricordava spesso il generale de Gaulle, il potere industriale ed economico di un Paese nei settori strutturanti dell’energia, dei trasporti o della difesa è la condizione dell’autonomia strategica. È quindi necessario, come abbiamo detto, avere la capacità di identificare da un lato gli anelli chiave della catena del valore che sono una questione di sovranità, e dall’altro i “fallimenti del mercato industriale” che richiedono un’azione consapevole e mirata da parte dello Stato, e non una miriade di sussidi, regolamenti e obiettivi non gerarchici.

 

La cooperazione internazionale è ovviamente molto utile in questi settori ad alta tecnologia, in quanto le economie di scala sono importanti sia per i prototipi e i dimostratori che per la produzione di attrezzature nella fase di diffusione. Tuttavia, occorre prestare attenzione alle dimensioni sensibili legate, da un lato, al duplice aspetto della tecnologia nucleare (non proliferazione e controllo dei materiali) e, dall’altro, all’autonomia strategica negli anelli chiave per il controllo industriale ed economico, garantendo al contempo il mantenimento dei vantaggi comparativi associati. La prima dimensione riguarda la catena del combustibile, in particolare l’arricchimento e il ritrattamento; la seconda la sicurezza dell’approvvigionamento di combustibile (miniere di uranio diversificate, scorte strategiche per tutto il ciclo), nonché il controllo e il comando della fabbricazione di componenti chiave (serbatoi, metallurgia e saldatura, motori di emergenza) per i reattori (in particolare la sicurezza). Nel quadro di una visione a lungo termine dei rischi industriali e geopolitici, è necessario creare un’offerta diversificata, che possa articolare una base francese, un complemento più o meno importante acquistato da fornitori stranieri e le scorte strategiche necessarie, proteggendo al contempo i segreti di fabbricazione e i vantaggi comparativi legati a determinate innovazioni. I partenariati sostenibili richiedono quindi l’articolazione di precise considerazioni industriali ed economiche con questioni geopolitiche. Anche in questo caso, se i politici hanno una visione che collega le questioni geopolitiche e di politica estera con quelle industriali, e se possono contare su competenze che integrano la lungimiranza geopolitica e industriale all’interno dello Stato, è possibile attuare una forte cooperazione a seconda del contesto, anche con gli alleati storici, sui legami di sovranità come l’arricchimento (come nel caso di Eurodif con gli alleati europei) o il ritrattamento (nel caso della cooperazione con il Giappone).

 

La storia del nucleare civile illustra bene queste osservazioni. Se negli anni Cinquanta i francesi si sono messi in proprio con l’UNGG, non è stato volontariamente, ma a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di condividere le loro conoscenze tecnologiche e il lavoro in corso tra i grandi laboratori pubblici e Westinghouse o General Electric (McMahon Act del 1946). Non appena si aprì la possibilità, visto il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e la creazione dell’Euratom alla fine degli anni Cinquanta, il generale de Gaulle in persona autorizzò la partecipazione dell’EDF alla costruzione di Chooz A con i belgi e la tecnologia di Westinghouse. I primi reattori di serie ad acqua leggera, e anche l’UNGG, furono oggetto di partnership con altre società elettriche: Vandellos, UNGG in Spagna; Tihange con i belgi; la partecipazione di tedeschi e svizzeri nelle due unità ad acqua pressurizzata di Fessenheim. Abbiamo già accennato alla cooperazione sull’arricchimento e sul riprocessamento con partner europei o giapponesi, ma possiamo anche citare la presenza della società giapponese MHI nel capitale di Framatome, che è anche un importante attore industriale non solo in Francia ma anche a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti per la manutenzione degli impianti esistenti.

 

Il rischio può derivare da un cambiamento nella strategia nucleare civile di uno dei partner, come nel caso della Germania, che ha abbandonato il nucleare all’inizio degli anni 2000, indebolendo così il progetto franco-tedesco di generazione 3, l’EPR. Può anche derivare da un’evoluzione del contesto geopolitico e del comportamento dei potenziali partner, ad esempio con l’atteggiamento negativo degli Stati Uniti all’inizio della Guerra Fredda. La questione dei partner sostenibili nello sviluppo di tecnologie chiave come l’energia nucleare è ovviamente importante per il futuro, con la rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina.

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VIVA LA MORIA 2.0, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA 2.0

Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.

Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.

Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.

Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’alba degli Stati-civiltà, di ALAIN DE BENOIST

https://www.agonmag.com/p/the-dawn-of-civilizational-states?utm_source=post-email-title&publication_id=1191729&post_id=113609165&isFreemail=true&utm_medium=email

L’alba degli Stati-civiltà

Esiste un’alternativa alla falsa opposizione tra globalismo e nazionalismo.

ALAIN DE BENOIST

10 aprile 2023

Una civiltà non è degna di questo nome se non ha rifiutato qualcosa, se non ha rinunciato a qualcosa.

Fernand Braudel

Tre grandi paradigmi in competizione tra loro si confrontano attualmente per determinare la natura del nomos della Terra, cioè l’ordine mondiale emergente: l’internazionalismo liberale, gli Stati nazionali nati dal sistema westfaliano e gli Stati-civiltà.

L’internazionalismo liberale si basa sui temi classici del pensiero liberale: lo Stato di diritto, la tutela dei diritti individuali garantiti dalla Costituzione, il primato delle norme procedurali, la democrazia parlamentare, l’economia di mercato, tutte nozioni proclamate universali e propriamente “umane” – il che è possibile solo dimenticando la loro storia – cosicché chi rifiuta ciò che viene ritualmente presentato come “libertà e democrazia” viene immediatamente collocato al di fuori dell’umanità e ricacciato nell'”asse del male”, perché il liberalismo interpreta come “aggressione” ogni resistenza all’espansione di uno stile di vita basato sull’individualismo e sul capitalismo.

Se ne deduce che il sistema liberale è prigioniero di una grande contraddizione: da un lato, si basa teoricamente su una fondamentale tolleranza nei confronti di tutte le scelte individuali, che lo porta a difendere l’idea di una necessaria “neutralità” dei poteri pubblici (in Francia, questo è anche il fondamento della “laicità”). D’altra parte, vuole a tutti i costi estendere i suoi valori individualistici a tutto il mondo, a scapito di qualsiasi altro sistema di valori, il che va contro il suo principio di tolleranza. Non si accontenta, ad esempio, di affermare la superiorità universale e assoluta della democrazia liberale. Interviene invece per imporla ovunque nel mondo, moltiplicando le interferenze di ogni tipo, in modo che quella che all’inizio era una semplice opzione teorica diventi l’alibi dell’imperialismo più brutale.

Allo stesso modo, in America, la Dottrina Monroe1 si trasformò dal categorico non-interventismo (principio di neutralità) delle origini in una posizione morale che conferiva agli Stati Uniti un diritto illimitato di ingerenza. La dottrina, come ha scritto Carl Schmitt2, si è così “trasformata da un principio di non intervento e di rifiuto dell’ingerenza straniera in una giustificazione per gli interventi imperialistici degli Stati Uniti”.

Lo Stato-nazione, invece, è concepito come l’unità politica di base di un ordine internazionale, sancito dalle Nazioni Unite, in cui ogni Paese dovrebbe potersi affermare come sovrano. Rifiutando il pluralismo insito nel potere imperiale, esso trae giustificazione da un unico popolo, un unico territorio e un’unica comunità politica, motivo per cui non sostiene le differenze e tende a omogeneizzare le sue componenti interne.

L’internazionalismo liberale non è nemico degli Stati nazionali in linea di principio, nella misura in cui essi sono sempre suscettibili di essere colonizzati dai valori del primo – e sappiamo quanto l’ordine internazionale liberale abbia raggiunto questo obiettivo imponendo, praticamente ovunque nel mondo, il principio della legittimità universale della democrazia liberale (che Friedrich Hayek ha descritto come “protezione costituzionale del capitalismo”) e le regole del mercato. Da un punto di vista liberale, gli Stati nazionali non sono più un ostacolo all’espansione dei mercati globali.

Anche sul fronte politico e militare, l’internazionalismo liberale non esita a sostenere il nazionalismo quando sembra necessario per estendere la propria influenza: è il caso oggi della guerra in Ucraina, dove gli Stati Uniti forniscono un massiccio sostegno a un Paese che cerca di trasformarsi in uno Stato-nazione, presumibilmente perché questo sostegno è in linea con gli interessi dell’establishment internazionalista liberale americano.

Le cose sono ben diverse quando si parla di Stati-civiltà, che l’internazionalismo liberale considera il proprio nemico inveterato, perché tali Stati si oppongono per loro natura alla diffusione dei valori che l’internazionalismo liberale rappresenta.

Cosa sono dunque questi nuovi arrivati a cui alcuni scrittori3 hanno dato il nome di “Stati-civiltà”? Sono potenze regionali la cui influenza si estende oltre i propri confini e che concepiscono il nomos della Terra come fondamentalmente multipolare4. In origine, l’etichetta di “Stato-civiltà” era riservata specificamente alla Cina e alla Russia, ma questa qualifica può essere applicata a molti altri Stati che, facendo leva sulla loro cultura e sulla loro lunga storia, riescono a proiettare una sfera di influenza che va oltre il loro territorio nazionale o il loro gruppo etno-linguistico: India, Turchia e Iran, solo per citarne alcuni.

Gli Stati civiltà contrappongono all’universalismo occidentale un modello secondo il quale ogni gruppo civilizzato è considerato dotato di un’identità distinta, sia in termini di valori culturali che di istituzioni politiche, un’identità che non è riducibile ad alcun modello universale. Questi Stati non vogliono semplicemente perseguire una politica sovrana senza sottomettersi ai dettami delle élite sovranazionali. Cercano anche di ostacolare qualsiasi progetto “globalista” volto a far prevalere gli stessi principi in tutto il pianeta, perché sono consapevoli che la cultura che incarnano non è identica a nessun’altra. A questo proposito, dobbiamo ricordare che nessuna cultura può racchiudere tutte le culture; la nozione di “cultura mondiale” è una contraddizione in termini.

Gli Stati -civiltà hanno la caratteristica comune di denunciare l’universalismo occidentale, che considerano un etnocentrismo mascherato, un modo elegante per nascondere l’imperialismo egemonico. Ma soprattutto, gli Stati – civiltà si basano sulla loro storia e sulla loro cultura, non solo per affermare che queste implicano un modello politico e sociale diverso da quello che l’internazionalismo liberale cerca di imporre, ma anche per identificare una concezione del mondo ritenuta fondante di una “vita buona”, sia dal punto di vista politico che religioso, cioè costruita su un insieme di valori sostanziali non negoziabili che lo Stato ha poi la missione di incarnare e difendere.

Lo Stato-civiltà, in altre parole, cerca di stabilire una concezione del bene che si basa su particolari valori sostanziali e su una specifica tradizione.

Che siano guidati da un nuovo zar, da un nuovo imperatore o da un nuovo califfo, che il rifiuto dell’universale avvenga in nome della nozione confuciana di “armonia”, dell’eredità della “santa Russia” (“Mosca, la terza Roma”), dell’eurasiatismo, dell’induismo o della memoria del califfato, gli Stati civilizzatori rifiutano di sottomettersi agli standard dell’Occidente, che alcuni di loro avevano accettato in passato per “modernizzarsi”. Occidentalizzazione e modernizzazione, quindi, non vanno più automaticamente di pari passo.

Il filosofo russo Konstantin Krylov (1967-2020), nel suo libro postumo Povedenie5 (“Comportamento”), pubblicato nel 2021, descrive la Russia come un Paese totalmente estraneo al pensiero liberale fin dalla sua nascita. Rifiuta il liberalismo, ma non la democrazia. Pur essendo diventato personalmente zoroastriano durante un soggiorno in Uzbekistan, sottolinea l’importanza del cristianesimo ortodosso. Paul Grenier, fondatore del Simone Weil Center for Political Philosophy con sede negli Stati Uniti, che ha recentemente dedicato un saggio6 provocatorio a Krylov, scrive: “Non conosco nessun intellettuale conservatore russo per il quale la Russia sia parte della civiltà occidentale. Tutti vedono in essa qualcosa di separato e diverso”. Questa era già l’opinione di Nikolaï Danilevski e Oswald Spengler, che sottolineavano la specificità del comportamento sociale e dei precetti etici russi, a partire dalla “nostrité” (in russo non si dice “io e mio fratello siamo andati a fare una passeggiata”, ma “noi con mio fratello siamo andati a fare una passeggiata”).

Al sistema liberale basato sul perseguimento dell’interesse individuale, la Russia oppone le prerogative del sacro, che rifiuta di vedere relegate alla sfera privata, negando al contempo la neutralità dello Stato rispetto ai valori. È quindi comprensibile che in Ucraina la Russia ritenga di non limitarsi a difendere la propria posizione secondo cui Kiyv non può diventare uno Stato-nazione, perché appartiene allo spazio di civiltà slavo, ma di essere impegnata in una lotta più ampia contro la logica stessa dello Stato-nazione, i sostenitori di una visione puramente laica o secolare del mondo, i valori liberali dell'”Occidente collettivo” che percepisce come “decadenti” e l’egemonia americana sostenuta dal sistema liberale.

Negli anni Trenta e Quaranta, la Scuola di Kyoto7, formatasi intorno a Nishida Kitarō (1870-1945) e Tanabe Hajime, fu senza dubbio la prima – ben prima di tutti i movimenti di decolonizzazione – a sviluppare l’idea di un mondo multipolare8, diviso in grandi spazi distinti considerati come i tanti crogioli della cultura e della civiltà, e a criticare, in difesa della pluralità delle culture caratteristica del “mondo reale” (sekaiteki sekai), i principi astratti dell’universalismo occidentale basato sul capitalismo e sullo scientismo.

I principali rappresentanti di questa scuola furono soprattutto filosofi, come Kōsaka Masaaki, Kōyama Iwao, Nishitani Keiji e Suzuki Shigetaka. I pensatori europei che sembrano averli influenzati maggiormente sono stati Johann Gottfried von Herder e Leopold von Ranke. Recentemente, le idee dei membri della Scuola di Kyoto sono state avvicinate anche a quelle di autori comunitari come Charles Taylor e Alasdair MacIntyre9.

È in questo circolo ristretto che si è sviluppata l’idea di una “grande sfera di co-prosperità dell’Asia orientale”, che associa diversi Paesi sulla base di valori condivisi e del rispetto della loro autonomia, un’idea che non va confusa con il “giappocentrismo” della destra nazionalista né con l’imperialismo giapponese dello stesso periodo. Già nel giugno del 1943, infatti, l’organo ufficiale di censura giapponese ordinò di far tacere le pubblicazioni della Scuola, rimproverandola proprio di voler assegnare alla potenza giapponese una missione che non deve essere confusa con la semplice espansione imperialista.

Nella Cina di oggi vanno ricordati anche i membri della Scuola Tianxia, come Zhao Tingyang, lo storico Xu Jilin, Xu Zhuoyun, Wang Gungwu e Liang Zhiping, il cui criterio è “usare la Cina per spiegare la Cina” (yĭ zhōngguó jiěshì zhōngguó) – tra cui forse anche Jiang Shigong, sostenitore del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

I suoi teorici si rifanno alla nozione centrale di tianxia (“tutto ciò che esiste sotto il cielo”), un principio spirituale della Cina premoderna la cui incarnazione istituzionale era l’Impero Celeste (Tiāncháo), un ideale le cui origini possono essere fatte risalire al Duca di Zhou10 (XI secolo a.C.) che utilizzò il “mandato del cielo” per giustificare il rovesciamento della dinastia Shang da parte degli Zhou occidentali. Termine polisemico, tianxia è stato utilizzato anche prima dell’epoca di Laozi (Lao-Tseu) e di Confucio: designa allo stesso tempo un ordine ideale di civiltà11, un immaginario spaziale in cui la Cina si trova al centro, un ordine gerarchico in cui la “virtù” dei suoi membri determina il loro rango e un sistema politico che dovrebbe garantire l’armonia dell’insieme.

Tianxia è “un concetto denso”, sostiene Zhao Tingyang12, “in cui, rispetto alla prima filosofia, la metafisica come filosofia politica viene a sostituire la metafisica come ontologia”, che afferma che le culture hanno valori incommensurabili e che la Cina deve uscire dall’eurocentrismo e assumere pienamente il suo ruolo di Impero di Mezzo. Per Xu Jilin13, “l’origine della crisi attuale della Cina non è altro che la mentalità che concede una supremazia assoluta alla nazione”. E aggiunge: “Per affrontare veramente il problema alla radice, abbiamo bisogno di una forma di pensiero che faccia da contrappunto al nazionalismo. Io chiamo questo pensiero “nuovo tianxia”, una saggezza assiale della civiltà derivata dalla tradizione pre-moderna della Cina, interpretata nuovamente secondo criteri moderni”.

A questo proposito, è esemplificativo il modo in cui, a partire dagli anni ’90, le autorità cinesi, rivendicando i “valori asiatici”, hanno respinto le critiche rivolte loro in nome dell’ideologia dei diritti umani. Nel gennaio 2021, al Forum di Davos, Xi Jinping ha dichiarato14:

Così come non esistono al mondo due foglie identiche, non esistono storie, culture o sistemi sociali uguali. Ogni Paese è unico, con la propria storia, cultura e sistema sociale, e nessuno è superiore all’altro. […] La differenza in sé non è motivo di allarme. Ciò che invece desta allarme… è il tentativo di imporre una gerarchia alle civiltà o di imporre la propria storia, cultura o sistema sociale agli altri.

Il riconoscimento della crisi dell’universalismo e dell’egemonismo occidentale15 va quindi di pari passo con la sensazione che l’era dell’ordine internazionale16 basato sull’equilibrio conflittuale degli Stati nazionali sia giunta al termine17, come previsto da Carl Schmitt18 già negli anni Trenta. L’ascesa degli Stati-civiltà segna l’inizio di un’epoca in cui l’ordine mondiale non può più essere racchiuso nell’equilibrio instabile degli Stati nazionali. Con le norme di civiltà che diventano un perno della geopolitica, l’asse principale della competizione non è più quello tradizionalmente esistente tra gli Stati nazionali, ma quello che si afferma tra le civiltà. Gli Stati-civiltà rivelano così una nuova modalità di sovranità che trascende quella degli Stati nazionali.

Una nota sul vocabolario è d’obbligo. Si tratta della nozione chiave di “civiltà”, di cui il minimo che si possa dire è che non è priva di ambiguità. Samuel P. Huntington19 ha capito bene che il significato di questa parola cambia completamente a seconda che venga usata al singolare o al plurale. Il termine è stato ovviamente adottato sotto l’influenza dell’inglese, quando altrimenti sarebbe stato meglio parlare di “cultura”: non è un caso che in Germania il libro di Huntington, Lo scontro delle civiltà (1996), sia stato tradotto con il titolo Kampf der Kulturen. In Germania, infatti, un’intera tradizione di studiosi vede nella Kultur l’esatto contrario della Zivilization. Spengler, ad esempio, vedeva nella “civiltà” lo stadio terminale delle grandi culture.

I liberali sostengono sempre di “difendere la civiltà” che, a loro avviso, si fonde con la logica dei diritti individuali e del mercato. La civiltà, per loro, deve essere intesa al singolare e sono le democrazie liberali a incarnarla: chiunque se ne discosti esce dal “mondo civilizzato”. Chi si rifiuta di conformarsi a questo modello viene immediatamente delegittimato e denunciato come antidemocratico e “potere autoritario”, come se la democrazia liberale fosse l’unica forma di democrazia possibile. È questa idea di civiltà al singolare che ha legittimato la colonizzazione in passato, prima di ispirare le speculazioni di Fukuyama sulla “fine della storia” in un mondo privo di ogni rapporto di potere. Per gli Stati-civiltà al contrario, le civiltà (o culture) possono essere intese solo al plurale. Gli Stati-civiltà non difendono la “civiltà” in quanto tale, ma la loro civiltà.

Ci si può anche chiedere in che misura gli Stati civilizzatori abbiano oggi preso il posto degli imperi, tradizionalmente definiti come Stati multinazionali, persino multiculturali, che governano su un vasto territorio di popoli la cui autonomia locale è il più delle volte rispettata a condizione che accettino la legge comune determinata dal potere centrale.

In realtà, più che a un impero tradizionale o a un imperium, la nozione di Stato-civiltà evoca il “grande spazio” (Großraum) teorizzato da Carl Schmitt per ripensare le relazioni internazionali al di là delle regole dei rapporti tra Stati nazionali e sulla base di regni e Reichs (usati al plurale e distinti dal Reich tedesco). Ogni Großraum, dice Schmitt, richiede un “grande popolo”, un vasto territorio e una volontà politica autonoma.

“In questo senso, i Reich sono le potenze guida e portanti le cui idee politiche si irradiano in un determinato Großraum e che escludono fondamentalmente gli interventi di potenze spazialmente estranee [cioè extraregionali] in questo Großraum20. E Schmitt qualifica ulteriormente la sua concezione: “Il Reich non è semplicemente uno Stato allargato, così come il Großraum non è uno spazio minore allargato” (Klineraum). Come osserva Karl Peyrade21 nella sua recensione de L’ordine del Großraum nel diritto internazionale di Schmitt: “La logica dei grandi spazi non ha una portata universalistica. Essa si limita a rendere coerente l’evoluzione storica delle grandi potenze territoriali con l’influenza su Paesi terzi [alla loro periferia]. Il paradigma non è quindi più nazionale, ma spaziale”.

Quanto all’Europa, culturalmente e ideologicamente ibrida da due millenni, per il momento non è altro che uno spazio neutralizzato in cui si scontrano concezioni civilizzatrici opposte.

18 chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.duncker-humblot.de/_files_media/leseproben/9783428471102.pdf

19 chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://msuweb.montclair.edu/~lebelp/1993SamuelPHuntingtonTheClashOfCivilizationsAndTheRemakingofWorldOrder.pdf

21 https://www.lerougeetlenoir.org/opinions/les-opinantes/ex-libris-le-droit-des-peuples-regle-sur-le-grand-espace-de-carl-schmitt

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Fermiamo questa guerra!_a cura di Giuseppe Germinario

Il materiale reso pubblico recentemente sulla stampa statunitense si annuncia essere  solo parte, nemmeno la più importante, di una notevole mole di documenti, presumibilmente sottratti dal bunker del Comando Strategico USStratCom. Siamo di fronte, probabilmente, ad un nuovo clamoroso caso Snowden, ma ben più importante e che lascia pensare al coinvolgimento nella vicenda di alti ufficiali delle forze armate. Le stesse modalità di riproduzione e di diffusione dei documenti confermerebbero questa tesi. È la conferma di uno scontro durissimo e drammatico presente nei centri decisori di quel paese. Lo stesso fatto che siano grosse testate giornalistiche a diffondere il materiale rappresenta un ulteriore indizio della gravità di quanto sta avvenendo.

Non è la prima volta che accade. Già ai tempi della crisi dei missili a Cuba, nel 1962, la virulenza del confronto si manifestò anche in superficie. Allora la parte politica istituzionale, nella fattispecie il Presidente americano Kennedy e il segretario del PCUS Krushev, furono i moderatori delle rispettive componenti oltranziste presenti nei ranghi militari e dell’intelligence, specie americana. Questa volta, purtroppo, la situazione appare capovolta e ben più pericolosa e drammatica. È il vertice politico-amministrativo statunitense, unitamente al centro comando della NATO e di ampi settori della sicurezza, ad assumere la postura avventurista e provocatoria, sempre più sfacciata man mano che il regime ucraino si avvicina alla disfatta e i centri decisori si rendono conto di essersi cacciati in un vicolo cieco dal quale non potranno uscire indenni o con danni relativi. Ne parleremo con Gianfranco Campa. È l’intera redazione del blog, compresi gli scritti di Roberto Buffagni, le conversazioni con Campa e i numerosi saggi tratti dall’editoria mondiale, a seguire la falsariga di questa interpretazione. Mai come ora sarebbe necessario che uscisse qui in Europa una iniziativa politica efficace che interrompesse questa inesorabile dinamica. Non si tratta di “ripudiare la guerra”, ma di “fermare questa guerra”, resa possibile dalla insulsaggine di una classe dirigente e di un ceto politico europeo nella sua gran parte inetto, miserabile e connivente. Giuseppe Germinario

 

“Gli Stati Uniti hanno appena iniziato la prima esercitazione nucleare “GLOBAL THUNDER” dall’inizio della guerra in Ucraina. Almeno 150.000 persone in tutto il mondo simuleranno una guerra nucleare. L’anno scorso il capo dello STRATCOM ha dichiarato: “Il mio comando è ai posti di combattimento da gennaio circa in modalità di azione di crisi” (è da  oltre tre anni che non si effettuavano questo tipo di esercitazioni; mai di queste dimensioni e in un contesto di guerra aperta e così a ridosso dei confini della NATO_corsivo nostro).

Un recente studio sul Bulletin of the Atomic Scientists ha rilevato il “costante aumento” dei bombardieri nucleari statunitensi che STRATCOM stava schierando in Europa, comprese “operazioni di bombardieri sempre più provocatorie… in alcuni casi molto vicino al confine russo”.

Gli Stati Uniti hanno appena iniziato la loro prima esercitazione nucleare “GLOBAL THUNDER” dall’inizio della guerra in Ucraina. Almeno 150.000 truppe in tutto il mondo simuleranno una guerra nucleare. L’anno scorso, il capo STRATCOM ha dichiarato: “Il mio comando è stato nelle postazioni di battaglia da gennaio in modalità azione di crisi”.

Nelle osservazioni dell’anno scorso, il comandante della STRATCOM Charles A. Richard ha condiviso la sua teoria secondo cui fare affidamento sulla “moderazione” non era più praticabile, perché “l’assenza di una provocazione non è deterrenza”. Presumibilmente significa che l’ammiraglio credeva che gli Stati Uniti dovessero “provocare” attivamente Russia e Cina

A proposito, l’esercitazione di guerra nucleare si sta svolgendo contemporaneamente alla più grande esercitazione militare congiunta tra Stati Uniti e Filippine nel Mar Cinese Meridionale a ridosso di quella cinese intorno a Taiwan.

Impercettibile. Gli Stati Uniti eseguiranno esercitazioni nel Mar Cinese Meridionale che “comporteranno assalti alla spiaggia e la riconquista di un’isola conquistata dalle forze nemiche” ”

Da oltre tre anni non si svolgevano esercitazioni di questo tipo. Mai di queste dimensioni e a ridosso di un teatro di guerra aperta. A scaldare ulteriormente l’atmosfera le esercitazioni russe nell’Artico e l’arrivo di un sommergibile atomico statunitense nel Golfo Persico in un momento in cui le relazioni tra i due paesi principali di quell’area, Iran e Arabia Saudita, grazie all’iniziativa diplomatica cinese, sembrano acquietarsi. Giuseppe Germinario

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