La constatazione del multipolarismo, con Piero Visani

La gran parte dei paesi emergenti e degli stati egemoni stanno constatando l’affermazione del multipolarismo. Alcuni, in primo luogo gli Stati Uniti, sembrano ancora incerti se prenderne atto o tentare il ripristino di una condizione unipolare. Parlare di incertezza è però un eufemismo. Da quelle parti lo scontro politico sta assumendo toni sempre più feroci, destinati ad assumere forme drammatiche in caso di vittoria di Trump. Una vittoria della componente conservatrice, per meglio dire demo-conservatrice, rischia di ricacciare la politica estera americana nell’avventurismo più bieco. Altri paesi al contrario sono fautori sempre più convinti della condizione multipolare. Nel mezzo alcune potenze regionali cercano di approfittare con spregiudicatezza degli spazi offerti dalla competizione sempre più accesa. Solo l’Europa, in essa in particolare la Germania e soprattutto l’Italia, appare riottosa a prendere atto della svolta. I paesi europei, dibattuti tra velleità di potenza e remissività supina, sempre però all’ombra dell’egemone d’oltreatlantico, sembrano vivere in un limbo di nostalgia destinato ad essere loro fatale. I tempi stringono. Qui sotto le considerazioni amare e realistiche di Piero Visani, uno studioso e un commis che come pochi conosce molto bene limiti, tanti e virtù, poche, della nostra classe dirigente. Buon Anno e buon ascolto_Giuseppe Germinario 

Sardine e sfera pubblica, di Vincenzo Costa

Sardine e sfera pubblica
Un’analisi filosofica

Il fenomeno “Sardine” ha suscitato una vasta discussione e tornare su di esso potrebbe essere ozioso. E tuttavia, vi è un’angolatura che non ho visto emergere, e che forse vale la pena di sorvegliare, a partire dalla domanda: se a minare la democrazia è lo svuotamento della sfera pubblica, il fenomeno sardine rappresenta qualcosa che rivitalizza la sfera pubblica o è, invece, un suo ulteriore momento di tracollo? Rappresenta un elemento di ripresa democratica o solo un momento dell’irreversibile crisi della democrazia?

Questioni non filosofiche
Prima di affrontare la questione filosofica è bene circoscriverla, e a questo fine è necessario escludere le altre domande, tutte pertinenti e necessarie, ma non di carattere filosofico, e su cui del resto esistono molti resoconti e riflessioni interessanti facilmente rintracciabili su FB. Le sardine sono state “progettate”? Scadono con le elezioni emiliane? Esisterebbero senza i media che le fanno esistere? Servono a drenare voti dal M5s verso il PD? Sono funzionali al PD o, sfuggendo di mano a chi le ha inventate, potrebbero essere il becchino del vecchio PD?

Tutte questioni serie, che qui lasciamo da parte, poiché implicano un’analisi empirica che non è il nostro tema. Il nostro tema è appunto se esse sono un segno di vitalità democratica o un segno di decadenza irreversibile della democrazia e se rappresentano un avanzamento o una regressione culturale. Le sardine sono un elemento che, se non certamente di matrice socialista, è almeno di radice liberale? O rappresentano una rottura con lo stesso pensiero liberale, almeno nei suoi momenti più alti? Per rispondere a queste domande cercherò di indicare alcune caratteristiche che secondo alcuni pensatori fondamentali del pensiero liberale sono essenziali alla sfera pubblica democratica.

Alcuni problemi filosofici posti dal movimento delle sardine

1) Secondo la Arendt, «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» (Vita activa). Dunque, un movimento rende viva la sfera pubblica in quanto prende posizione, genera magari conflitto, perché nel conflitto e nel dissenso le identità prendono forma. Se il dissenso viene demonizzato, si sterilizza la sfera pubblica, la si svuota, e se un movimento assume come proprio programma questa demonizzazione, chiamandola “odio”, allora mira a sterilizzare la sfera pubblica.

2) Secondo Amartya Sen la sfera pubblica è decisiva perché svolge una funzione protettiva, «perché dà voce alle persone svantaggiate o trascurate» (L’idea di giustizia). In questo modo si rivitalizza la democrazia, perché questa diviene un luogo dove pretese di giustizia possono essere fatte valere, ed è chiaro che avanzare pretese di giustizia significa anche sviluppare sentimenti di odio verso privilegi, prebende e familismi: l’odio contro l’ingiustizia è un cardine della democrazia. Ora, se un movimento si rifiuta sistematicamente di dire qualcosa, di dare voce a qualcosa, e se si presenta come autoreferenziale, esso mira a creare una sfera pubblica che ha perso la propria funzione protettiva. Non da voce a niente e criminalizza chi cerca di dare voce e chi, sentendosi vittima di ingiustizia, esige un riconoscimento e un mutamento delle regole che presiedono all’ingiustizia reale.

3) Indipendentemente dalle intenzioni – e io non ho dubbi che le persone che partecipano a quelle adunate siano persone perbene e di buoni sentimenti – se guardiamo il fenomeno delle sardine dal punto di vista dei suoi effetti, dunque sistemico e indipendentemente dalle intenzioni delle singole persone e anche degli organizzatori, un dato emerge con chiarezza: esso ha imposto a tutti noi (me compreso in questo istante) di parlare di loro. Determinano l’agenda di ciò che può essere discusso, e poiché non veicolano altri contenuti, essi non permettono che si parli di problemi: impongono se stessi alla discussione. Così facendo, tuttavia, saturano la discussione pubblica e RIMUOVONO tutti gli altri problemi, che non trovano più spazio nella sfera pubblica (mediatica): i temi della disoccupazione giovanile, della deindustrializzazione, dell’immigrazione etc., cioè tutti i problemi dotati di contenuto spariscono dalla visibilità. In questo modo, la ragione critica non può più esercitarsi, gira a vuoto, non ha oggetti e temi su cui agire, per cui è la nozione stessa di ragione ad essere rimossa ed emarginata. Per così dire, il “sapere aude” del buon Kant, il suo abbi il coraggio di pensare viene rimosso, poiché pensare significa criticare, e la differenza tra criticare e avere sentimenti di “odio” (l’uso delle parole conta, e basterebbe dire “di indignazione” per cambiare tutto) diviene colpa: gli indignati non esprimono indignazione verso il sorpruso, il privilegio e l’ingiustizia, ma solo odio.

4) Edmund Husserl ha caratterizzato il discorso come una funzione che è all’opera se e solo se si parla di qualcosa, su qualcosa e in vista di qualcosa. Vietandosi e vietando un discorso su contenuti il fenomeno sardine modifica (forse irreversibilmente) la modalità discorsiva nella sfera pubblica e della ragione democratica: viene imposto un metadiscorso, cioè non si dice qualcosa, ma si opera un’interdizione. Il fenomeno delle sardine mi pare cerchi di imporre un discorso che non fa vedere il reale ma, ponendo condizioni di “forma espressiva”, interdice un discorso che deve necessariamente vertere su contenuti, e dunque su interessi: si impone il silenzio, e non appena si parla si rischia di essere tacciati di propagatore di odio.

In questo modo viene rimossa la vitalità stessa dei sistemi democratici, poiché, per dirla con Lyotard, «parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da un’agonistica generale» (La condizione postmoderna). La sfera pubblica non può somigliare al salotto borghese e a un luogo di buone maniere senza menomare la sua vitalità e svuotare di significato la democrazia.

Equiparare violenza verbale a violenza fisica significa esercitare una violenza enorme, imporre un modello di discorso che appartiene solo a un ristretto gruppo e imporlo a tutti. In questo senso, il fenomeno delle sardine opera una torsione della sfera pubblica, poiché genera la colpa: chiunque nutra sentimenti di ostilità, maturati a partire dalla sua condizione svantaggiata e dal fatto di subire privilegi, deve sentirsi colpevole, deve interpretare se stesso come invidioso.

ESIGENZE DI GIUSTIZIA VENGONO INTERPRETATE E DIFFUSE COME ESPRESSIONI DI ODIO.

5) Tutto questo è solidale con l’idea secondo cui non si deve prendere posizione su niente, perché a questo fine ci sono “i competenti”, questa entità un poco mitica che ha preso il posto di Dio e rappresenta il nuovo dio nell’epoca della secolarizzazione. Ed in questo modo si sviluppa un performativo potente: si prefigura la soppressione della democrazia, dell’idea secondo cui le decisioni che riguardano tutti devono essere prese da pochi, e di fatto, nel suo apparente non prender partito, il fenomeno delle sardine prende partito su una questione epocale e fondamentale, che implica la fine della democrazia: propone l’idea secondo cui i problemi politici sono in realtà problemi amministrativi, per cui la politica perde di senso e la partecipazione rappresenta un limite alla razionalità delle decisioni prese. Una prospettiva temuta da un liberale come Habermas (si veda Scientifizzazione della politica e opinione pubblica) e tristemente prevista da Lyotard.

6) Infine, se compariamo il liberalismo di Locke con quello di John Stuart Mill emerge come il fenomeno delle sardine rappresenti, da un punto di vista culturale, un FENOMENO REGRESSIVO, poiché dalla prospettiva di Mill regredisce a quella di Locke. Per Locke, infatti, la sfera pubblica non ha funzioni politiche, poiché il potere dell’opinione pubblica è un mero potere di “privata censura”: la sfera pubblica non deve servire a formare una volontà politica, e in questo senso non vi è spazio per una sfera pubblica democratica. Il potere di decidere non appartiene al popolo e l’idea fondamentale della nostra carta costituzionale non sarebbe stata recepita. Al contrario, Per Stuart Mill «le classi lavoratrici diverranno anche meno disposte di quanto non siano attualmente a lasciarsi guidare e governare, e dirigere nella via che dovrebbero seguire, dalla semplice autorità e prestigio dei loro superiori».

Prefigurando un liberalismo democratico, Mill notava che «i poveri sono sfuggiti alle redini dei loro educatori e non si possono più governare o trattare come bambini. È alle loro stesse qualità che si deve ora affidare la cura del loro destino». E’ così evidente che, dal punto di vista filosofico, siamo di fronte a un regressione dal liberalismo avanzato di Mill a quello di Locke. O, se volete, ad un abbandono del liberalismo di Mill, di Tocqueville e di Schumpeter, a favore di quello di von Hayek, secondo cui bisogna sottrarsi alla “tirannide” democratica, sostituendo alla democrazia una demarchia, al cui interno al popolo non è concesso di governare, perché, appunto come indica Sartori, si tratta, insomma, di affidare le decisioni importanti concernenti la libertà e il mercato a istituzioni diverse da quelle democratico-rappresentative (Hayek, legge legislazione giustizia), cioè ai competenti.

In questo senso, il fenomeno Sardine non rappresenta solo una rottura con tutta la tradizione socialista, ma anche una rottura con il liberalismo democratico: un’involuzione del pensiero liberale. Non è il terreno di resistenza contro le tendenze illiberali della destra, ma un altro aspetto di un medesimo processo di decomposizione delle società democratiche. Con il movimento delle sardine il processo di sterilizzazione e svuotamento della sfera pubblica ha raggiunto una soglia critica.

 

La Turchia nel Mediterraneo, di Antonio de Martini

Il Mediterraneo sta tornando ad essere un campo di azione strategico nelle dinamiche geopolitiche. Il Mediterraneo non è più da tempo il Mare Nostrum ed è sempre meno il mare di ogni paese rivierasco. L’intervento militare in Libia nel 2011 voleva essere un tassello importante della politica di neutralizzazione di qualsiasi velleità di autonomia politica di un paese arabo e nordafricano, di ghettizzazione e isolamento della Russia di Putin ad opera degli Stati Uniti di Bush e Obama. Una politica del caos che avrebbe dovuto rendere impraticabili ed impervi alle potenze emergenti di Russia e Cina quei territori. Avrebbe dovuto riservare momenti di gloria e quote di bottino a potenze regionali come la Francia, perfettamente allineate al corso obamiano. A distanza di otto anni quell’intervento ha messo invece a nudo i limiti di quella strategia, la velleità e la vanagloria delle ambizioni francesi, la drammatica remissività, la fellonia suicida, l’inconsistenza e crollo di credibilità dell’azione politica dell’Italia. Ha consentito al contrario l’emersione di potenze regionali molto più dinamiche ed efficaci del blocco dei paesi europei, ha accentuato le contraddizioni interne alla NATO, interrotto la fase di arretramento della Russia, stabilizzato la presenza cinese. Un dinamismo che sta spiazzando soprattutto i paesi europei. https://www.nordicmonitor.com/2019/12/full-text-of-new-turkey-libya-sweeping-security-military-cooperation-deal-revealed/?fbclid=IwAR13hKfY9YN7j_lrzd10wIoRTN6qRACPRJPJQ-xFikwLY1m0vfUco8iuwHY Buon ascolto_Giuseppe Germinario

ARIANE 6: L’INIZIO DELLA FINE PER L’INDUSTRIA SPAZIALE EUROPEA?, di Hajnalka Vincze

ARIANE 6: L’INIZIO DELLA FINE PER L’INDUSTRIA SPAZIALE EUROPEA?

Nota IVERIS – 01 gennaio 2016
Studio e analisi

Hajnalka Vincze

Una risorsa strategica per eccellenza, il lanciatore Ariane è il simbolo stesso dello spazio Europa. Fatto piuttosto raro, è un successo politico, tecnologico e commerciale. Tuttavia, oggi rischia di essere svilito, a seguito di un trasferimento senza precedenti di controllo e poteri dallo Stato ai produttori privati.

 

Il progetto del nuovo lanciatore, successore dell’attuale Ariane 5, è stato approvato nel dicembre 2014 dai ministri europei. Per affrontare la concorrenza internazionale, in particolare l’American SpaceX e i suoi lanci a basso costo, hanno accettato, dalla A alla Z, un progetto proposto dagli industriali. Piuttosto che favorire l’innovazione tecnologica, questo progetto si basa sul controllo di questi ultimi su tutto il settore. Prevede una riorganizzazione-privatizzazione dall’alto verso il basso per avvicinarsi a un modello, presumibilmente più competitivo, importato dagli Stati Uniti; ma senza la garanzia di impegni statali che, in realtà, lo fanno vivere dall’altra parte dell’Atlantico.

In tal modo, i governi europei, principalmente la Francia, stanno assumendo seri rischi. Oltre agli aspetti finanziari (che fanno apparire lo spettro di un’immensa cattiva gestione), è soprattutto la modifica dell’equilibrio di potere tra industriali e autorità pubbliche che si prospetta molto problematica. Fornire le chiavi di questo programma altamente strategico agli industriali come Airbus, con scopi dubbi e fedeltà malleabile, mostra, da parte dello Stato, un atteggiamento quanto meno irresponsabile.

Presupposti sbagliati

Innanzitutto si deve notare che il razzo, così come la società che lo gestisce e lo commercializza, Arianespace, è un successo indiscusso e indiscutibile. Nelle parole di Stéphane Israël, CEO di Arianespace, recentemente ascoltato al Senato, Ariane è “sul punto di battere un doppio record operativo e commerciale”, pur essendo un orgoglio europeo e nazionale, avendo come compito principale ” garantire un accesso europeo indipendente allo spazio ”. Sorprendentemente, in questi giorni, il signor Israël non dimentica di ricordare lo sforzo collettivo dietro questi straordinari risultati. Alcuni mesi prima, davanti ai deputati, aveva sottolineato che “i sistemi di lancio che la società gestisce, in particolare Ariane, non esisterebbero senza la volontà e gli investimenti pubblici. Quindi questo razzo è anche un po’ tuo. ”

Tuttavia, è chiaro che la decisione dei governi europei riguardo al proseguimento dell’avventura solleva più domande di quante ne risolva. La causa è semplice: partono da ipotesi ideologiche piuttosto che attenersi ai fatti e preferiscono guadagni commerciali immediati (altrimenti incerti) alla strategia e alla visione politica a lungo termine. Le due fonti d’ispirazione alla base di questa scelta, approvata nel dicembre 2014 dai ministri dell’Agenzia spaziale europea, erano la Germania e i produttori stessi. Come ha spiegato all’epoca il ministro Fioraso, fu Berlino a sostenere “una maggiore integrazione industriale, una maggiore assunzione di rischi da parte dell’industria”, sostenendo che “se l’industria correre più rischi, è normale che essa partecipi alla concezione e alle strategie

 

Gli industriali lo stavano aspettando. Avevano persino sopravanzato i governi e le agenzie spaziali. Airbus, l’appaltatore principale, e Safran, il produttore di motori, avevano lavorato nel massimo segreto, per mettere le autorità pubbliche davanti al fatto compiuto, presentando il loro progetto nel giugno 2014. Oltre al design del razzo, hanno annunciato la loro intenzione di unire le loro rispettive risorse, creando una joint venture. Tutto ciò accompagnato da una condizione considerevole: la vendita delle azioni del governo francese in Arianespace. Due settimane dopo, lo stesso François Hollande dà il via libera, durante una colazione che riunisce tutti i principali attori al palazzo presidenziale.

La joint venture Airbus Safran Launchers (ASL) d’ora in poi avrà autorità sui lanciatori in tutti i segmenti. Oltre allo sviluppo attuale, questo include quindi il design (finora la prerogativa delle agenzie, ora ridotta alla definizione delle linee principali), nonché il marketing. Ecco che a giugno 2015 il governo francese, infatti, ha ratificato la vendita del 34% di Arianespace detenuta da CNES ad ASL, quest’ultima diventando così il maggiore azionista con il 74% del capitale. Ricordiamo ancora una volta che sullo sfondo di questa ristrutturazione-privatizzazione senza precedenti ci sarebbe la volontà di “ottimizzare” il settore al fine di ridurre i costi, per affrontare la sfida della concorrenza internazionale.

Paradossalmente, i punti interrogativi sul futuro di Ariane sono meno legati alla concorrenza globale che alle scelte fatte presumibilmente dai governi europei per farvi fronte. A un esame più attento, il tanto temuto American SpaceX non sembra di per sé causare un pericolo esistenziale per Ariane. Pur riconoscendo i talenti del suo creatore Elon Musk (gli dobbiamo anche il servizio di pagamento online PayPal e le auto elettriche Tesla), va sottolineato, come ha fatto l’amministratore delegato di Arianespace, che le principali attività di SpaceX vivono del pubblico, nella misura in cui il sostegno indiretto da parte del governo federale è molto vantaggioso, sia in termini di mercato vincolato (garanzie per lanci nazionali) sia in termini di prezzo.

In effetti, per citare l’ex segretario di Stato responsabile del fascicolo, “le autorità pubbliche americane sono molto coinvolte”. E Geneviève Fioraso ha dichiarato che “la NASA sta acquistando a $ 130 milioni da SpaceX ciascun volo che la compagnia venderà per $ 60 milioni nelle esportazioni. Puoi chiamarlo supporto ma è dumping! Curiosamente, il capo di Airbus Group, ignora completamente questo aspetto quando dice che vuole prendere ispirazione da SpaceX, lodando in particolare il loro “dinamismo”. Fedele al suo dogma liberal-atlantista, Tom Enders ha utilizzato SpaceX per chiedere una completa ristrutturazione del settore con, di conseguenza, più potere per gli industriali e la riduzione del campo di controllo delle autorità pubbliche.

Incertezze persistenti

La riorganizzazione in corso non è senza difficoltà e comporta serie incertezze per Ariane. Tanto per cominciare, l’annuncio fragoroso del lancio del nuovo programma e il conseguente contratto quasi oscurava il fatto che i tedeschi avevano ottenuto un momento di riflessione (va / no, in altre parole semaforo verde). o stop), a metà 2016. Tuttavia, se Berlino è stata la grande sostenitrice dell’opzione “industriale” scelta per Ariane 6 (ristrutturazione-privatizzazione piuttosto che innovazione tecnologica), è soprattutto perché considera il progetto da un punto di vista mercantile. È probabile che il suo supporto evapori se, invece della prevista riduzione dei costi del progetto, l’operazione termina, il che è molto probabile, aumentando i costi.

Oltre alla proliferazione di fatture impreviste presentate dai produttori, l’altro punto interrogativo a livello finanziario riguarda le possibili riserve di clienti attuali e potenziali. In effetti, i produttori di satelliti rivali di Airbus (uno dei rami di attività della società) potrebbero non apprezzare troppo questa nuova disposizione. Il Gruppo Airbus vuole essere rassicurante: per loro “il nostro obiettivo è vendere il maggior numero possibile di lanciatori, incluso il lancio dei satelliti dei nostri concorrenti. Niente giustifica la minima preoccupazione al riguardo ”. Finché i clienti condividono questo sentimento. Perché anche se promettiamo loro una divisione impenetrabile tra satelliti e razzi fatti in casa, è difficile impedire che una volta o l’altra sorgano dubbi.

Per finire, oltre alla commercializzazione dei razzi, Arianespace svolge anche una funzione di competenza che gli consente di accedere a informazioni tecniche riservate dei produttori di satelliti rivali di Airbus. Prima del lancio, la procedura “prepara analisi di missione, che mirano in particolare a garantire che il lanciatore sia compatibile con il satellite che dovrà mettere in orbita”. Ciò richiede una conoscenza esatta dei dati tecnici dei satelliti. Per l’amministratore delegato di Arianespace, una divisione tra le due funzioni (commerciale e di competenza) sarebbe inconcepibile, dal momento che i due insieme rendono il successo dell’azienda, posizionando Arianespace come garante della massima affidabilità del razzo. Resta da vedere come la nuova joint venture si destreggerà tra questi diversi aspetti.

A queste domande di natura finanziaria e commerciale si aggiungono questioni politiche. Non sorprende che il primo riguardi l’annosa questione della preferenza europea. In altre parole, se i governi del vecchio continente sarebbero finalmente pronti a impegnarsi a favorire i propri prodotti, come fanno e giustamente gli Stati Uniti. Per Ariane 6, saranno garantiti solo cinque lanci istituzionali, secondo il ministro. Certo, ci sono gli stessi numeri di oggi, ma “questo significa tacitamente che ogni paese membro accetta il principio della preferenza europea. Non puoi scrivere l’obbligo, a causa delle regole europee ”.

L’amministratore delegato di Arianespace ha voluto vedere lì, a maggio, “una sorta di” Buy European Act “, sapendo che il nostro concorrente americano beneficia già, nel frattempo, di un mercato garantito negli Stati Uniti: la legge americana richiede che I satelliti americani vengono messi in orbita da un lanciatore costruito principalmente negli Stati Uniti. “Cinque mesi dopo, ha dovuto affrontare i fatti:” Oggi, il “Buy European Act” non esiste. È vero che gli stati europei possono scegliere un lanciatore diverso da quelli di Arianespace ”. Quello che fanno, infatti, senza remore. Come la Germania, che non ha esitato ad affidare a SpaceX il lancio di alcuni dei suoi satelliti.

Tuttavia, avverte il ministro francese: “Se non saremo la riserva dell’Europa, ci indeboliremo e, alla fine, perderemo il settore dei lanciatori europei. E oltre a ciò, stiamo perdendo il nostro vantaggio competitivo nelle telecomunicazioni, in termini di accesso a dati scientifici, ambientali, climatici e di sicurezza e difesa. Ma come ci si può aspettare che i governi giochino la carta dell’Europa in termini di lancio se anche Airbus non lo fa? Il gruppo, che ora avrà il controllo sull’intero settore e quindi rivendica la garanzia di cinque lanci istituzionali, ha voluto affidare al suo concorrente americano il lancio di un satellite per telecomunicazioni all’avanguardia dell’Agenzia spaziale europea (ESA), semplicemente per renderla più conveniente …

Abbandoni colpevoli

Inizialmente, l’attuale riorganizzazione è stata presentata come conforme a due criteri di base. Da un lato, la necessità di ridurre i costi, attraverso una maggiore responsabilità da parte dei produttori, dall’altro il mantenimento, comunque, della posizione degli Stati. Su quest’ultimo punto il Ministro Fioraso è stato molto chiaro: “Lo Stato rimarrà presente nella governance e controllerà”. Solo che il perimetro di questa presenza si ritrae come una pelle di zigrino, portando sulla sua scia il potere del controllo. Per il CEO di Arianespace, “i giocatori di minoranza che rappresentano un legame con i governi (…) devono ricevere garanzie”. In altre parole, questo non è immediatamente il caso.

Anche la questione dei costi rimane opaca. Se gli industriali affermano di correre più rischi, questo è lungi dall’essere ovvio. Per cominciare, non sappiamo ancora chi sarà responsabile di eventuali guasti. Tuttavia, secondo Stéphane Israël, “nulla costa più di un fallimento ed è importante specificare gli impegni reciproci”, ma “ad oggi, nulla è congelato come evidenziato dalle discussioni in corso tra l’Agenzia spaziale europea e Airbus Safran Launcher ”. Inoltre, i produttori continuano a rosicare il lato finanziario dell’accordo. Come sottolinea Michel Cabirol de La Tribune, a volte chiedono un’estensione di un miliardo, a volte si rifiutano di contribuire al mantenimento in condizioni operative della piattaforma di lancio in Guyana, a volte chiedono per loro la totale gratuità dell’uso del Centro spaziale.

È chiaro che in quest’area altamente strategica, rischiamo di trovarci di fronte a uno schema stranamente simile a quello degli Stati Uniti. Un modello caratterizzato da grandi aziende private, supportato da immensi sprechi di fondi pubblici. Con la differenza che, a differenza del caso americano, le autorità pubbliche in Europa non possono nemmeno essere sicure, a lungo termine, della lealtà delle aziende che sostengono – in assenza di un gigantesco mercato pubblico che garantirebbe un lealtà di interesse e in assenza di norme europee vincolanti in grado di imporre, come dall’altra parte dell’Atlantico, lealtà giuridico-istituzionale.

A proposito di Ariane, va tenuto presente che il lanciatore condiziona la sostenibilità, la credibilità, la redditività / competitività e l’autonomia dell’intero settore spaziale. Ricordiamo le origini stesse della creazione di Ariane: nel 1973, non avendo a disposizione un lanciatore europeo, i francesi e i tedeschi dovettero chiedere l’elemosina agli americani per poter mettere in orbita il loro satellite per le telecomunicazioni. “Gli americani”, ricorda Frédéric d’Allest, ex direttore generale del National Center for Space Studies (CNES), ha dichiarato di voler lanciare Symphonie ma a condizione che si limitasse a funzioni sperimentali “. Approfittando del loro monopolio, gli americani hanno quindi vietato qualsiasi uso a fini commerciali.

Una vera umiliazione, secondo i testimoni dell’epoca; il diktat americano ha finalmente permesso di rimuovere gli ostacoli politici, tra gli europei, alla costruzione di questo formidabile strumento di sovranità che è il lanciatore di Ariane. In effetti, la lezione è stata chiara: senza un accesso indipendente allo spazio, semplicemente non esiste una politica spaziale. Oggi giocare all’apprendista stregone, effettuando una ristrutturazione in condizioni e con impegni opachi, a rischio di indebolimento della posizione dello Stato e a beneficio di industriali il cui passato, bilancio e profilo sono lungi dall’essere irreprensibili – ciò che merita almeno un dibattito …

https://hajnalka-vincze.com/list/etudes_et_analyses/365-ariane_6__le_debut_de_la_fin_pour_lindustrie_spatiale_europeenne_

RendiConte e resa (si spera) dei Conte, di Alberto Bagnai_ titolo a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto due post dell’onorevole Alberto Bagnai particolarmente interessanti in quanto illustrano le modalità ed i vincoli che il Presidente Conte avrebbe dovuto osservare durante la fase di trattativa riguardante il MES. Siamo ad un punto cruciale nel quale il re appare nudo. Vedremo se ci sarà qualche bambino in grado di dirlo ed una reazione sufficiente a delegittimare l’impostura e farlo decadere con ignominia.

Una piccola chiosa: non avrebbe potuto essere questo uno dei momenti più opportuni per aprire le ostilità ed eventualmente far cadere il primo Governo Conte?_Giuseppe Germinario

https://goofynomics.blogspot.com/

Ratifica

Avrei preferito andare un’oretta in palestra, anziché dedicarla a insultare la vostra intelligenza. Tuttavia, l’ameno dibbbattito su Twitter mi lascia intendere che c’è del vero nelle querimonie piddine sull’analfabetismo funzionale. Evidentemente, il vostro non sapere come funziona è talmente pervasivo che contamina di sé anche il lessico, sovvertendo il senso delle parole, che, di per sé, basterebbero a descrivere, e rendervi quindi pienamente intelligibile, la realtà dei fatti. Potevo aspettarmelo? Sì. Siete decine di migliaia, e conosco personalmente svariate centinaia di voi. Non ne ho trovato uno che abbia chiaro che cosa sia la bilancia dei pagamenti (ogni riferimento a Nat è puramente intenzionale), nonostante gli sforzi qui profusi per spiegarvene sia il meccanismo che la rilevanza (la crisi dell’Eurozona è una crisi di debito estero, cioè di bilancia dei pagamenti, e il dibattito di questi giorni, quello sul MES, ne è in qualche modo la conferma definitiva…). Eppure la bilancia dei pagamenti è una cosa semplice: se entrano soldi nel Paese, il segno è positivo, se escono dal Paese è negativo. Ma… ggnente!

Certe volte mi chiedo perché siate così tanti a seguirmi e così pochi a capirmi. La risposta che mi do è che probabilmente intuite, dietro al mio sforzo (vano) di farmi capire una virtù un po’ démodé: l’amore per il prossimo (anche per chi non capisce la bilancia dei pagamenti: so di non capire tante cose anch’io), e quello per il Paese, condite con una sorta di illuministica fiducia nelle virtù della ragione e della ragionevolezza umana, e quindi della democrazia. Per motivi che non riesco a capire, sapere che qualcuno ancora ci crede vi rassicura e vi appaga.

Male!

Non dovrebbe appagarvi: dovreste anche studiare (almeno, Gramsci la pensava così).

E allora, provo a spiegarvi una cosa che evidentemente, a giudicare dal dibbbattito, sfugge: stranamente, i trattati intergovernativi vengono negoziati dai governi.

So che può sembrare paradossale, misterioso, so che questo concetto rinvierà nelle menti di molti di voi a oscuri complotti, a Bilderberg, o ai rettiliani (ma anche a Nibiru). Invece è solo etimologia: “inter” non è una squadra di calcio (la squadra è l’Inter, con la maiuscola), ma una preposizione latina che significa “tra”. I Trattati intergovernativi quindi sono trattati tra governi, il che significa che chi li negozia sono i… rettiliani? Bilderberg? La Trilaterale? La Spectre? No: i governi.

Ci siamo fino a qui?

Bene.

Rinuncio a spiegarvi cosa sia un Governo (appellandomi alla prima legge della termodidattica: “Ci sono cose che se potessero essere capite non andrebbero spiegate”).

Facciamo un passettino avanti, volete?

Perché mai ai Governi viene in mente di fare un negoziato? Chi li legittima a farlo?

Mettetevi nella testa di un grillino, per dire. Diventi ministro, accedi al potere: il tuo primo pensiero ovviamente è godere dei privilegi della casta, e abbandonarti insieme alla cricca alle mollezze della corruzione. Questa è la loro visione della politica: una visione che li qualifica (pensa male chi l’ha nel cuore) e che però non quadra col fatto di svegliarsi alle cinque di mattina per prendere un aereo e andare a Bruxelles dove i fratelli europei ti chiudono in una stanza e ti ci tengono finché non gli dici di sì, alle cinque della mattina dopo! I Governi non negoziano Trattati per sport o per prescrizione del medico (che probabilmente consiglierebbe attività meno malsane), ma in virtù di un mandato conferito loro direttamente o indirettamente dal Parlamento, che a sua volta è eletto dal popolo, che sareste (molto evidentemente a vostra insaputa) voi.

Certo, una volta i negoziati erano più diretti: se un popolo voleva qualcosa da un altro, andava in massa a chiederglielo. Sono quelle che i libri di storia una volta chiamavano invasioni barbariche, e che ora nei libri di testo degli accoglioni si chiamano migrazioni (Enea era un migrante, quindi anche Attila…). Viceversa, non credo che sia mai successo che un intero parlamento si sia spostato per negoziare qualcosa! Evidentemente, però, su Twitter c’è qualcuno che pensa che le cose funzionino così (sono tutti quelli che con accorati accenti ci chiedono di fare “qualcosa”, o di fare “di più”). Tanto per esser chiari: a noi è sempre apparso evidente che il precedente Governo non ne volesse sapere mezza di essere fedele al mandato conferitogli (come ha detto Molinari in aula: loro sapevano di essere un governo espresso da una maggioranza “sovranista”, ma ovviamente facevano finta di non saperlo), tant’è vero che prima di sfiduciarlo ci siamo anche posti il problema se fosse tecnicamente possibile affiancare le delegazioni italiane con esponenti della maggioranza parlamentare. Non è tecnicamente possibile: a negoziare ci va il Governo.

Riassumo: i trattati fra Governi li fanno i Governi.

Mi fate una cortesia? Tornate su di un rigo e rileggete tre o quattro volte, poi andiamo avanti.

Ora, siccome anche in un sistema che, a differenza di quello europeo, non abbia fatto del waterboarding il suo principale strumento di mediazione politica, i Governi, nel negoziare un Trattato, possono avere mille e un motivo, lecito o illecito, per deviare dal mandato che il Parlamento gli ha direttamente o indirettamente conferito, in pressoché tutti gli ordinamenti è previsto l’istituto della ratifica parlamentare (vi esorterei a leggere il significato sul vocabolario).

Quindi, ricapitolando. Voi eleggete il Parlamento, che dà la fiducia al Governo, e che poi gli conferisce un mandato a negoziare (tecnicamente, un simile mandato viene conferito con un atto di indirizzo definito risoluzione). Il Governo negozia, poi firma il trattato, poi torna a casa e lo presenta al Parlamento, che a quel punto, se lo trova conforme all’interesse del Paese, lo ratifica.

Ci siamo? Tutto chiaro?

Bene.

Per maggiore chiarezza, vi esorterei, anzi, vi scongiurerei di leggere gli articoli dal 4 al 7 della Legge 234 del 2012 (legge Moavero).

Leggeteli ora, se li avete già letti rileggeteli, se non li avete letti non venite a seccarmi con astruse teorie: a ogni giorno basta la sua pena e chi non si documenta non è previsto nel menù.

La legge Moavero venne concepita dopo l’approvazione di MES e Fiscal compact (avvenuta a luglio 2012), proprio come reazione a un certo scontento che perfino lo stesso PD provava per la porcata fatta (ci sono tante brave persone anche là dentro). L’articolo 5, che prevede un obbligo di informativa rafforzata in caso di trattati in ambito monetario e finanziario, è una chiara conseguenza di questo disagio. Leggendolo vedi in filigrana la sigla MES.

Questo è come funzionano le cose in teoria: la dinamica mandato parlamentare-negoziato intergovernativo-ratifica in Italia è normata, per quanto attiene alle sedi europee (ma in caso di trattati monetari o finanziari anche al di fuori da queste sedi) da una specifica legge.

E ora veniamo alla pratica.

In pratica, l’unico dispositivo di questa legge applicato coerentemente è il primo periodo del primo comma dell’art. 4: “Prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, il Governo illustra alle Camere la posizione che  intende  assumere,  la quale tiene conto degli eventuali indirizzi dalle  stesse  formulati.” Mi riferisco alla mesta liturgia delle comunicazioni del premier al Parlamento prima del Consiglio Europeo (quello dei capi di Stato e di Governo), liturgia che si svolgerà la prossima volta l’11 dicembre in vista del Consiglio del 12. Trattandosi di comunicazioni, e non di informativa, è previsto che dopo il discorsetto del premier (dimo, famo, faremo, ecc.) ci sia, oltre a una discussione generale, anche il voto di una risoluzione (che non ci sarebbe nel caso di informativa). Il secondo periodo del primo comma (“su loro richiesta,  esso  riferisce  altresì  ai  competenti  organi parlamentari prima delle riunioni del Consiglio dell’Unione  europea”) non era mai stato applicato prima che arrivassi io (a testimonianza del grande interesse dei piddini per l’Europa), e il terzo periodo (“Il Governo informa i competenti organi parlamentari sulle  risultanze delle riunioni del Consiglio  europeo  e  del  Consiglio  dell’Unione europea, entro quindici giorni dallo svolgimento delle stesse”) non è altresì mai stato applicato, perché è sì vero che sono riuscito, dopo estenuanti negoziati, ad avere un paio di volte Tria in Commissione dopo l’Ecofin, ma è anche vero che non sarei stato io a doverlo chiamare, ma lui a venire: “il Governo informa”, dice la legge, non “il presidente dell’organo parlamentare competente, facendo ricorso a una enorme dose di pazienza e profondendosi in lusinghe, supplica il Governo di concedergli l’insigne e immeritato favore di informarlo su quali impegni vada prendendo alle spalle degli italiani in giro per l’Europa”.

Chiaro?

Questo è il primo punto: intanto, se ora c’è un dibattito su questa roba qui è perché qualcuno si è impuntato a seguire le regole. Apro e chiudo una parentesi: e io che ne sapevo, di queste regole? Niente, ovviamente, non essendo un esperto di diritto parlamentare. E allora? E allora sono degli europeisti convinti che hanno attirato la mia attenzione su di esse. Bisogna parlare con tutti, ed esistono anche europeisti in buona fede (probabilmente esistono anche degli oceanisti, o degli antartidisti, in buona fede, ma ancora non ne ho incontrati).

Secondo punto: per un parlamentare è tecnicamente impossibile sapere quale sia l’iter di una trattativa in Europa. Tanto per essere chiari, noi presidenti di Commissione non riceviamo le relazioni e le note informative predisposte dalla Rappresentanza e menzionate al comma 3 dell’articolo 4 (più precisamente: questi documenti in qualche caso arrivano in Parlamento e giungono – credo – alla mia Commissione, ma sotto vincoli di riservatezza strettissimi che, a quanto capisco, comportano l’obbligo di consultarli solo presso la Presidenza di Commissione, e non possono essere citati nei resoconti di seduta). Inoltre, delle riunioni svolte nelle sedi europee, e in particolare dell’Eurogruppo, non esistono verbali: non si può sapere, se non de relato dalla Rappresentanza nel caso in cui un’anima buona ti mandi le note informative, quali siano le posizioni espresse dal nostro Governo, non ci sono votazioni formali, non ci sono né resoconti sommari né tanto meno stenografici.

Quindi, in sintesi: delle riunioni dell’Eurogruppo, dove si decide, non si sa nulla. Delle riunioni dell’Euro working group, che è in qualche modo il preconsiglio, quello dove si fissano i dettagli tecnici delle decisioni da prendere, si sa meno di nulla. Delle riunioni dell’Ecofin, che viene a valle dell’Eurogruppo, ed è quello dove ci si fa la foto di gruppo, si sanno le scemenze dette in europeese nei comunicati stampa: “la sfida ambiziosa, i significativi progressi, ecc.”, senza che sia mai ben chiaro quando si è firmato cosa o comunque chi abbia preso quale impegno.

Questa mancanza di trasparenza non è lamentata solo da Bagnai: se vi andate a vedere i lavori delle conferenze interparlamentari, vedrete che tutti lamentano la mancanza di trasparenza dell’Eurogruppo.

Terzo punto: in tutta evidenza il Governo precedente ha disatteso completamente la Legge Moavero. Il considerando 5A della bozza di revisione del Trattato chiarisce che in Europa se ne è cominciato a parlare all’Eurogruppo di dicembre 2018. Secondo la legge Moavero, qualcuno sarebbe dovuto venire in aula a spiegarci che cosa si stesse per fare. Se lo ha fatto, nessuno se ne è accorto. Non mi ricordo se a quell’epoca conoscessi già la legge Moavero. Quello che so è che stavo lottando contro il muro di gomma dei soliti noti per difendere le banche di credito cooperativo da un destino evitabile, riuscendoci solo in parte (ma una parte significativa): purtroppo, noi siamo pochi e loro sono molti. Dietro a tutto non si può stare.

E veniamo al punto in cui siamo ora. A quanto pare di capire, la riforma del MES non è stata ancora siglata. Non è invece chiaro se il governo si sia attenuto all’impegno preso il 19 giugno 2019 (quindi non “tempestivamente”, come vorrebbe la legge) a:

“non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale; a promuovere, in sede europea, una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’Unione economica e monetaria – la riforma del trattato del Meccanismo europeo di stabilità (MES), dello Schema europeo di garanzia sui depositi (EDIS), e del budget dell’area euro -, riservandosi di esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto, favorendo il cosiddetto “package approach”, che possa consentire una condivisione politica di tutte le misure interessate, secondo una logica di equilibrio complessivo; a rendere note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato.”

Ci sono due passaggi parlamentari prima della riunione in cui la riforma dovrebbe essere approvata da Conte in sede europea: uno è l’affare assegnato in merito all’A.S. 322 (proposta di modifica del MES), che prevede, in fase istruttoria, l’audizione del ministro Gualtieri mercoledì prossimo, prima dell’Eurogruppo del 4 dicembre (dove si prendono le decisioni). Poi ci sono le già citate comunicazioni del premier Conte l’11 dicembre prima del Consiglio Europeo del 12 (dove si firmano le decisioni).

A quanto pare di capire, a quel punto saremmo arrivati alla fase “il Governo firma il Trattato” (avendo sostanzialmente eluso, o comunque non attivato tempestivamente, la fase “il Parlamento conferisce un mandato”).

Ad oggi non sappiamo se il Governo firmerà, perché la sua maggioranza è divisa su questo, essendo composta da un partito che il MES voleva liquidarlo, e da un partito che il MES lo ha invece fortemente voluto.

Poi, certo, resterà la fase “il Parlamento ratifica”.

Se state seguendo il ragionamento, dovreste capire quali siano le criticità di arrivare alla fase “ratifica”.

Intanto, una mancata ratifica è equivalente, in termini politici (non in termini procedurali) a un voto di sfiducia. Il Governo, certo, non è obbligato a dimettersi, ma se su un Trattato così importante viene sconfessato dal Parlamento, è chiaro che per non prenderne atto occorre portare la faccia di bronzo a un livello ancora superiore rispetto a quello dimostrato finora (a partire da quando il partito di maggioranza relativa abbandonò l’aula in occasione delle comunicazioni sulla TAV).

Poi, si crea un problema a livello internazionale, perché giustamente i partner europei (quelli del waterboarding) potrebbero legittimamente porsi delle domande sull’attendibilità di un Paese che manda un Governo a dire una cosa quando evidentemente il Parlamento ne pensa un’altra. Non sono un grande fan dell’argomento “in Europa dobbiamo essere credibbbili” (a renderci tali basta un qualsiasi museo diocesano), ma è indubbio che, mettendosi nei panni della controparte, avere una posizione e mantenerla (o modificarla per chiari e giustificati motivi) è essenziale perché negoziare abbia un senso. Un Governo che venisse sconfessato dal proprio Parlamento in Europa non verrebbe guardato con gli stessi occhi. Va anche detto che se la sarebbe cercata! Dopo aver visto come vengono trattati i Parlamenti (con la tecnica del mushroom management), le lamentele dei diversi funzionari che ho incontrato circa il fatto che “eh, noi abbiamo fatto il possibile, ma da Roma non ci arrivavano segnali chiari…” mi sembrano molto meno credibili: è un dato di fatto che alcuni di quelli che mi hanno fatto questo discorso sono poi gli stessi che mi hanno impedito di leggere un testo che, peraltro, avevo già letto per altre vie, impedendomi cioè di acquisire gli elementi necessari per fornire loro quei segnali della cui mancanza si lamentavano!

La sede per fare un sano gioco delle parti fra Parlamento e Governo quindi non è la ratifica, ma il negoziato, cioè l’Eurogruppo. In quella sede i paesi civili mandano ministri in grado di dire ai loro pari: “cari amici, quello che mi proponete è tanto bello, vi sono sinceramente grato dell’aiuto che volete dare alle vostre nostre banche, ma purtroppissimo il Parlamento da noi è sovrano come da voi, e io non ho mandato a concludere prima di ulteriori approfondimenti sul pacchetto che forse è un pacco”.

La Germania lo fa sistematicamente: perché noi no?

Mistero.

Sono quasi nove anni che ci poniamo questa domanda: non siamo riusciti a trovare la risposta, e forse non la troveremo mai. Intanto, ripetete con me: gli elettori eleggono il Parlamento, che dà un mandato negoziale al Governo, che conclude un Trattato, che il Parlamento è chiamato a ratificare.

E ora ripetetelo senza di me, e cercate di ricordarvi a che punto di questa storia siamo. Io vado ad occuparmene.

domenica 24 novembre 2019

Per farvi capire come funziona…

Come sapete, al termine di una lunga e faticosa trattativa con il dottor Conte, prima che questi si trasformasse nel signor Giuseppi, ero riuscito, col sostegno di autorevoli esponenti del Movimento 5 Stelle, a fargli prendere l’impegno di trasmettere alle Camere la proposta di modifica del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità. Di questa riforma, come già del Trattato, nulla si doveva sapere, e coerentemente, come vedete, i giornali fanno il possibile per ignorare la notizia. Tuttavia, visto che ora purtroppo in applicazione della Legge Moavero, che qualcuno ha testardamente cercato di riportare in vita, se ne dovrà parlare, sul sito del Senato finalmente trovate i testi in questa pagina.

Giusto così, per farvi capire come funziona: se cliccate sul primo link ottenete un documento in italiano che reca le sole proposte emendative, cioè le modifiche apportate alle singole parti del trattato originale, esposte con la tecnica del rinvio. Naturalmente, lette così, senza coordinarle col testo originale, molte modifiche non sono di immediata comprensione. Se invece cliccate sul secondo link ottenete un documento in inglese, inizialmente rubricato come A.S. 322, ora A.S. 322-bis, che reca il testo del Trattato come modificato dagli emendamenti proposti (o approvati? Questo non è chiaro). Insomma: quello che in italiano si chiamerebbe un “testo coordinato”. Naturalmente, se non si conosce a memoria il trattato, risulta difficile individuare nel testo coordinato quali siano le innovazioni.

Affrettandomi a dire che in questo i funzionari della mia Commissione non c’entrano nulla (il testo in inglese fu trasmesso dal ministro Tria mentre scoppiava la crisi di governo, cioè quando lui pensava che ormai nessuno potesse metterci la testa, quello in italiano inviato pochi giorni fa dal ministro Gualtieri), si potrebbe maliziosamente pensare che qualcuno stia facendo di tutto per impedire una lettura agevole del Trattato di cui non si deve parlare! Si potrebbe anche ironizzare sulle due strategie seguite per confondere le idee nella testa dei parlamentari, che di tempo per lo studio ne hanno poco, purtroppo: al Nord, dare un testo che fila, nella cui scorrevolezza le più insidiose fra le modifiche rischiano di passare inosservate; al Sud, dare i soli emendamenti, destinati a restare criptici se avulsi dal contesto.

In termini sostanziali, poco male. Chi segue il dibattito non ha certo bisogno di leggere i testi per sapere di che cosa si tratta: la sostanza era già nell’editto di Meseberg! E poi, volendo, il Senato ha ottimi uffici studi dove si lavora a predisporre testi a fronte.

Tuttavia, in Parlamento anche la forma è sostanza.

Supponiamo che qualcuno voglia discutere formalmente il testo ed evidenziare quali siano le sue novità, per poi discuterle. Bene, una di queste, come sapete, è la possibilità di usare il MES come common backstop (dispositivo di sostegno comune) al Fondo di risoluzione unico (chi non sa che cosa sia, trova qui una spiegazione). Proprio per questo, cioè perché entra in materia di salvataggi bancari, mi è stato possibile chiedere l’assegnazione del documento alla mia Commissione. Senza entrare nei dettagli, vi faccio osservare una cosa. Nel testo coordinato inglese, questa innovazione è introdotta nel comma 2 dell’art. 12. Negli emendamenti (in italiano) la stessa modifica è rubricata come comma 1-bis. Diverse tecniche legislative, o forse, chi sa, magari anche un diverso testo, perché nonostante il dottor Conte avesse promesso di aspettare che il Parlamento si esprimesse, il signor Giuseppi certamente ha lasciato che le cose andassero avanti: tanto poi arriva dicembre, la finanziaria, le vacanze di Natale, il Trattato passa e buonanotte! Certo, in altri Parlamenti sarebbe andata a finire così, non lo metto in dubbio. Ora le cose sono un po’ cambiate. Mi dispiace…

Tuttavia, al di là dell’attenzione che cerchiamo di mettere in quanto succede, il punto è che se un parlamentare italiano volesse dire che questa cosa gli sta, o non gli sta, bene, allo stato dell’arte, cioè data la disinvoltura con cui i Governi trattano il Parlamento, gli sarebbe materialmente impossibile farlo in modo preciso. Cosa mettiamo a verbale? Il dissenso (o consenso) con il comma 2 o con il comma 1.bis?

Bene. Credo che abbiate capito come funziona. Tatticucce, mezzucci… Provano a prenderti per sfinimento, asserragliati come sono nella prima classe del Titanic, dove, a giudicare da certe dichiarazioni, mi sembra che si cominci a sentire un po’ di umidità (l’accordatura dell’orchestrina ne risente). Ma mentre è indubbiamente possibile fermare un transatlantico con un iceberg (abbiamo esempi), ritengo altamente improbabile fermare la Storia con le mani: non possono riuscirci loro, e, naturalmente, non possiamo riuscirci nemmeno noi.

Mantenete la calma e state saldi.

36° podcast_Se ne deve andare!_di Gianfranco Campa

Le campagne processuali a carico di Donald Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America, sono e vanno avanti a prescindere. Un fatto pressoché unico nella storia degli Stati Uniti. La pervicacia e la sistematicità della tessitura sono il segno non solo della radicalità delle opzioni politiche in campo, ma anche della loro incompatibilità. Una condotta spietata che ha portato al sacrificio di due personaggi chiave dello staff di Trump, Flynn e Roger Stone, in secondo piano Manafort, colpiti da accuse pesantissime  e da decenni di duro carcere e a minacce sempre più prossime all’ultimo suo mentore, Rudolph Giuliani, il più esperto. Le oscillazioni della condotta presidenziale si spiegano in gran parte per l’ostracismo e per l’assenza di una classe dirigente alternativa sufficientemente radicata negli apparati. Non si esita nemmeno a stravolgere la finzione della separazione e della indipendenza dei poteri di uno Stato pur di proseguire nella persecuzione. Per non parlare, poi, della retorica della democrazia. Il parere e la volontà del popolo vale solo se in sintonia con l’élite dominante. Sono rari i momenti in cui un sistema di potere è costretto a gettare la maschera; quando avviene la strada verso la destabilizzazione di un paese e delle sue istituzione è ormai diretta lungo un pendio sempre più ripido. Negli Stati Uniti, vista la tempistica, tutto congiura alla presentazione del candidato unico alle presidenziali. Non male per il più fiero avversario dei regimi cosiddetti totalitari. Ascoltate la narrazione di Gianfranco Campa! Ne vale la pena.Buon ascolto_Giuseppe Germinario

A.A.V.V. (a cura di Chantal Mouffe) La sfida di Carl Schmitt, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V. (a cura di Chantal Mouffe) La sfida di Carl Schmitt, Novaeuropa, € 23,00, pp. 346.

Questo libro è stato pubblicato nel 1999 e tradotto ed edito in Italia solo due mesi fa. Preme sottolinearlo per due ragioni.

La prima, che l’attualità del pensiero di Schmitt, morto nel 1985, è stata confermata proprio dagli eventi succedutisi al collasso del comunismo e del (conseguente) mondo bipolare; e in particolare da quelli del secolo corrente.

La seconda che i vent’anni trascorsi tra l’edizione inglese e quella italiana del libro confortano anche le (polifoniche) interpretazioni di aspetti delle concezioni politico-giuridiche di Schmitt raccolte nel volume: da quello filosofico (Dotti e Zizek) a quello politico-istituzionale (Mouffe, Dyzenhaus, Ananiadis) giuridico (Carrino e Preuss), solo per citare parte dei contributi raccolti nel volume.

Ricordiamo a titolo d’esempio il contributo di Chantal Mouffe, sul confronto di Schmitt con la democrazia liberale. Parte dell’esigenza del confronto: “i teorici politici, in modo da portare avanti un concetto di società liberal-democratica capace di ottenere l’attivo supporto dei propri cittadini, devono essere disponibili a  confrontarsi con le tesi di coloro i quali hanno sfidato le dottrine fondamentali del liberalismo… La mia intenzione… è quella di contribuire ad un simile progetto attraverso l’esame della critica schmittiana alla democrazia liberale. Infatti, sono convinta che un confronto con il suo pensiero ci permetterà di riconoscere – e, pertanto, essere in una migliore posizione per cercare una negoziazione – un importante paradosso inscritto nella reale natura della democrazia liberale”. Analizzando in specie l’esigenza di omogeneità nella cittadinanza, sostenuta da Schmitt, la politologa belga scrive “la sua teoria è che la democrazia richiede una concezione di uguaglianza come sostanza , e che non può soddisfare se stessa con concetti astratti come quello liberale. Dato che l’uguaglianza è politicamente interessante ed inestimabile solo fintanto che ha sostanza, egli pone la questione del rischio e la possibilità dell’ineguaglianza. In modo da essere trattati come uguali, i cittadini devono, così dice, essere parte di una sostanza comune”.

Di conseguenza l’idea di uguaglianza (in primo luogo) politica di tutti gli uomini non fornisce alcun criterio per stabilire delle istituzioni politiche. “Nella sua prospettiva, quando parliamo di uguaglianza, dobbiamo distinguere tra due idee differenti: quella liberale e quella democratica. La concezione liberale postula che ogni persona è, in quanto persona, automaticamente uguale ad ogni altra persona. La concezione democratica, però, richiede la possibilità di distinguere chi appartiene al demos e chi gli è estraneo; per questa ragione, essa non può esistere senza il necessario correlativo dell’ineguaglianza”. Si è uguali (politicamente) se si appartiene allo stesso demos, che fonda anche la differenza rispetto a coloro che non ne fanno parte. Il concetto democratico di uguaglianza si fonda su tale distinzione. “Ecco perché dichiara che il concetto centrale di democrazia non è «umanità» ma il concetto di «popolo», e che non ci potrà mai essere una democrazia del genere umano. La democrazia può esistere solo per un popolo”. Prosegue confrontando il pensiero di Schmitt con quella della “democrazia deliberativa” (in particolare di Habernas).

Tanto per ricordare un evento che (clamorosamente) conferma la tesi “sostanzialista” di Schmitt, decisiva nelle democrazie politiche, questo fu proprio il collasso del comunismo e il fallimento del “Trattato dell’Unione” proposto da Gorbaciov per l’URSS, nel quale si prevedevano istituzioni democratiche al posto del centralismo oligarchico comunista. Dato che i tanti popoli dell’URSS erano poco o punto omogenei come un baltico protestante può esserlo con uno slavo ortodosso o un turco ottomano, conciliarli  in una democrazia politica era impresa mai riuscita (e neppure – che ci risulti – tentata). Di guisa che, più realisticamente, Eltsin con la CSI dette il “rompete le righe” alle repubbliche ex-sovietiche.

Passiamo ad un altro saggio: quello di Carrino che riguarda la concezione giuridica di Schmitt. Carrino parte dal saggio Dic Lage der europaischen Rechtswissenschaft: “il saggio mostra la fondamentale importanza della struttura giuridica del pensiero schmittiano – vale a dire, il ruolo centrale dello jus nella struttura dei lavori di Schmitt che non sono basati su una dottrina giuridica ma, piuttosto, sulla realtà concreta”. Per molti anni, non solo in Italia, lo studio di Schmitt è stato lasciato a politologi, filosofi e storici, mentre Schmitt, ancora poco prima di morire, diceva “sarò un giurista finché morirò”. Scrive Carrino “Proprio per questo motivo il suo saggio sulla scienza giuridica europea dovrebbe essere letto en juriste, nella consapevolezza del fatto che egli fu un grande giurista, e che non fu interessato meramente alle meccaniche del diritto; ma, al contrario, era anche aperto ad una prospettiva più ampia della cultura giuridica e della civiltà legale”. Carrino nota che la critica alla modernità del giurista di Plettemberg comincia con l’opposizione alla metodologia cartesiana “Schmitt è un realista, un uomo per il quale le cose hanno una loro durevole realtà” onde “Il decisionismo schmittiano (che in questo senso mai fallisce) è il suo proprio realismo perché è la realtà che decide in favore o contro il soggetto, a volte frantumandolo o superandolo…Il diritto è parte di questa realtà – o, piuttosto, è identificato con la realtà, che lo stesso Schmitt ha definito come «l’ordine giuridico concreto» o jus (successivamente conosciuto come nomos), che è, a sua volta, il diritto separato dalla legge positivista. Schmitt concepisce il diritto non come un obbligo, puro Sollen, ma come un modo di essere. Il Sein nel pensiero di Schmitt non è in contrasto con l’obbligo (Sollen), come nel caso del pensiero di Kelsen; ma è, tuttavia, in contrasto con il Nicht-Sein”.

L’esistenza della comunità politica e la necessità (assoluta e prevalente) di proteggerla è la suprema lex, e non il positivismo di norme, scivolato poi nel positivismo di valori, che ha connotato la dottrina costituzionalista italiana (e non solo) del secondo dopoguerra, e in parte continua ancora.

Anche qui, se la decisione concreta diventa quella di Machiavelli tra serbare gli ordini e rovinare, o per non rovinare, romperli, normativismi, codici, commi e così via devono essere (almeno) sospesi – al fine di conservare l’esistenza – e il modo di esistenza della comunità. Ne abbiamo avuto conferme anche recenti. E si potrebbe continuare così per gli altri contributi, alcuni dei quali relativi ad aspetti dell’opera di Schmitt poco frequentati, almeno in Italia (come i saggi di Ananiadis e Colliot-Thélène.). Al lettore, cui si consiglia, il compito (e il piacere) di scoprirli.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’inutilità di proteste in Iraq e in Libano, di Hilal Khashan

 

Qui sotto la traduzione di un articolo tratto da https://geopoliticalfutures.com/ riguardante la situazione in Libano. Lo si deve leggere tenendo presente il particolare punto di vista del sito. Il riferimento al ruolo di organizzazioni non governative sostenute da centri statunitensi ed occidentali è di per sé eloquente. Particolarmente interessante il giudizio sulla natura e le dinamiche di esercizio del potere nei due stati citati. Giuseppe Germinario

Le proteste pubbliche sono state una componente centrale in Libano e in Iraq negli ultimi anni, grazie anche ad una proliferazione di organizzazioni non governative sostenute dagli Stati Uniti in entrambi i paesi. Le manifestazioni mirano a supportare i temi familiari di lotta contro la corruzione burocratica, le interruzioni di elettricità e le carenze croniche di acqua, e a limitare l’appropriazione indebita di fondi pubblici galoppante. E non ostante esse non abbiano mai ottenuto la riforma istituzionale significativa, la durata e la gravità di quelli attualmente in corso – in particolare contrassegnati dalla violenza delle proteste sciite irachene – avevano convinto molti osservatori che questa volta sarebbe stato diverso.

Ma questo succede in gran parte perché questi stessi osservatori non riescono a capire come funzionano i sistemi politici iracheni e libanesi. Dopo che il Libano ottenne l’indipendenza nel 1943, i leader settari instaurarono una formula di condivisione del potere in base a congreghe confessionali con un elaborato legislativo, esecutivo e giudiziario di facciata. Tale sistema di governo è relativamente insensibile alle istanze pubbliche e strutturalmente impermeabile alla riforma. Subito dopo il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003, gli amministratori statunitensi in Iraq hanno incoraggiato l’adozione del modello politico libanese. Così ora, come in Libano, i nervi, le tensioni della politica irachena si trovano al di fuori della giurisdizione dei rami formali di governo. La pressione dell’opinione pubblica, sia che prenda la forma di protesta spontanea o dell’azione della società civile, non ha collegamenti con il processo decisionale, che segue il modello di struttura elitaria, piuttosto che quello della partecipazione dei cittadini.

C’è poco da meravigliarsi, quindi, se il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, arriva ad accusare l’ingerenza straniera nel far deragliare sui veri motivi della rivolta del Libano che tanto ha sorpreso gli osservatori, invitando quindi i propri sostenitori a dissociarsi da essa. Il pesante coinvolgimento sciita nelle proteste, diffusesi in tutto il paese, ha minacciato di rendere priva di significato la sua alleanza del 2006 con il Free Patriotic Movement del presidente Michel Aoun (FPM), che ha dato Hezbollah una parvenza di legittimità nazionale. Si sono prontamente rimessi al suo giudizio, così come i seguaci del FPM il giorno dopo.

In Iraq, i veri detentori del potere sono le milizie sciite organizzate nell’ambito delle Forze mobilitazione popolare (PMF). Il paese ha un complesso sistema socio-religioso che è favorevole alla situazione di stallo politico in quanto il PMF è supportato dalla casta clericale, a Najaf, a sua volta venerata da sciiti laici, grazie al suo ruolo come fonte di ispirazione religiosa. In Libano, una società profondamente frammentata, i violatori della fiducia del pubblico trovano rifugio nei confini inattaccabili delle loro sette.

Ci sono sempre validi motivi per le persone in Iraq e in Libano per manifestare la loro rabbia per la strada. Eppure, data la struttura del sistema politico, c’è scarsa possibilità che possano smantellare il cartello settario della classe dirigente. Questo è il motivo per cui la promessa del ministero dell’Interno iracheno, di adottare misure per proteggere i manifestanti e proteggere la proprietà pubblica e privata suonò vacua. Questo è il motivo per cui gli appelli clericali di riforma e di auto-moderazione suonano superficiali al meglio. In entrambi i paesi, i governi hanno promesso di attuare riforme sociali radicali, ricostruire le infrastrutture di utility, fornire sollievo ai poveri, e recuperare beni pubblici rubati. Ma oggi, come in passato, più i funzionari fanno promesse alla loro gente, meno accade in realtà, e la frustrazione pubblica cresce. Inchieste sulla corruzione non portano da nessuna parte, e consentono ai colpevoli di sottrarsi alla giustizia. Organicamente incapace di effettuare una riforma, per non parlare di comprenderne il significato, i funzionari riescono a farla franca per la loro incompetenza e confondono le previsioni degli analisti circa la loro scomparsa.

https://geopoliticalfutures.com/the-futility-of-protests-in-iraq-and-lebanon/

la fine del dio dollaro, di Laurent Gayard

I romani adoravano le loro insegne di guerra, le aquile. Il nostro segno per noi, americani, è solo un decimo di un’aquila, un dollaro. Ma eguagliamo le cose adorandolo con una decina di adorazioni. “Un lontano erede del tallero, portato in America dai coloni olandesi, il dollaro divenne la valuta ufficiale della giovane confederazione americana nel 1792.

Se gli Stati Uniti avevano già, dal 1913, il primo PIL mondiale prima del Regno Unito, non è stato fino a quando due guerre mondiali non hanno trasformato l’Europa in un campo di battaglia e causato l’enorme debito dei paesi del continente per lasciare che il Gli Stati Uniti sono in grado di riorganizzare il commercio mondiale attraverso l’istituzione di uno “standard ragionevole e stabile per il commercio internazionale” 2 alla Conferenza di Bretton Woods nel luglio 1944. La proposta dell’economista John Maynard Keynes per fondare il nuovo sistema monetario mondiale su una riserva e un’unità di scambio internazionale, il bancor non fu finalmente mantenuto e il progetto di Harry Dexter White, assistente del Segretario del Tesoro americano, gli fu preferito: basare questo sistema sul dollaro , il cui prezzo era ora indicizzato a quello dell’oro che, di fatto, ne fece la nuova valuta internazionale. “Chiunque abbia dovuto cercare alla cieca il labirinto delle fluttuanti valute straniere tra le due guerre mondiali apprezzerà il suo valore”, si congratula con Henry Morgenthau, Segretario del Tesoro, un anno dopo3. Il 15 agosto 1971, tuttavia, l’amministrazione Nixon pose fine al sistema di Bretton Woods e alla parità del dollaro in oro per porre rimedio alle difficoltà incontrate dall’economia americana, minata dal disastroso disavanzo creato dalla corsa agli armamenti e dalla guerra. Vietnam. Lo smantellamento del sistema di Bretton Woods assicura la supremazia nel commercio internazionale di un dollaro che ora fluttua.

Dal dollaro al bitcoin?
Per il saggista Mark Alizart, il prezzo del dollaro non ha solo oscillato da allora, ma si è costantemente e massicciamente deprezzato rispetto all’oro, il che porta anche il ricercatore a chiedersi se, nel contesto attuale, la criptovaluta, e in particolare il bitcoin, non costituiscono alternative future al re del dollaro. Non è l’unico. Per Jacques Favier e Adli Takkal Bataille, il motto virtuale, immaginato nel 2008 dal misterioso Satoshi Nakamoto, è destinato a imporre prima o poi un nuovo standard internazionale contro un sistema finanziario e “senza soldi” senza fiato. “Il bitcoin si oppone alla valuta del credito e del debito che incarna la logica della produzione per la produzione, vale a dire l’introduzione dell’infinito nell’universo capitalistico. ”

La “moneta di credito” è quella creata dal sistema istituito dalla decisione di Nixon: è un sistema finanziario basato sull’accumulo di debito, in cui la valuta che non è più indicizzata a nulla è diventare un semplice segno, simbolo astratto di perdita o accumulo di ricchezza. Bitcoin si oppone a questo sistema a un protocollo di transazione peer-to-peer basato su una rete decentralizzata, senza l’intervento di terzi che garantiscono la validità delle transazioni. La rete bitcoin sollecita la potenza di calcolo dei computer degli utenti, impegnata in una competizione matematica per autenticare, timestamp e registrare ogni dieci minuti su un registro contabile decentralizzato chiamato transazioni blockchain che vengono eseguite in bitcoin.

leggere anche: La rabbia della tassa
In cambio di questa partecipazione, questi utenti vengono pagati in frazioni di bitcoin, che si chiama mining, il primo modo per emettere bitcoin e metterli in circolazione sul mercato. La firma matematica alle transazioni tramite il processo di mining assicura che ogni bitcoin trasferito da un account a un altro sia unico e non replicabile, quindi impossibile da spendere due volte. Attualmente esistono circa 2.000 criptovalute, ma la capitalizzazione totale di circa $ 250 miliardi rimane una goccia nell’oceano della finanza globale. Sembra improbabile che il bitcoin riuscirà a detronizzare il dio del dollaro nel prossimo futuro, ma il margine di evoluzione è molto importante, soprattutto nel contesto dell’attuale ricomposizione geopolitica.

Verso la concorrenza valutaria
Emerge infatti una forte concorrenza monetaria internazionale, anche se al momento il predominio del dollaro è ancora schiacciante: il 63,5% delle riserve valutarie delle banche centrali mondiali rimane costituito in dollari contro il 20% per l’euro, 4, 52% per lo yen o 1,1% per lo yuan. L’euro sembra a prima vista il concorrente più serio, ma le nuvole si accumulano all’orizzonte della moneta unica e le maggiori preoccupazioni provengono dal sistema Target 2, il sistema di pagamento che consente alle banche dell’Unione europea di trasferire fondi su tutto il territorio dell’Unione, istituite nel 1999, con l’introduzione dell’euro.

Mentre la Bundesbank tedesca ha concesso prestiti ad alcuni paesi dell’UE per un valore di 900 miliardi il 31 dicembre 2017, oggi il sistema di compensazione interno di Target 2 presenta il rischio di un collasso puro e semplice. del sistema monetario europeo, in particolare in caso di inadempienza di un paese debitore come l’Italia di oltre 450 miliardi. Burkhard Balz, capo dei pagamenti Buba ha avvertito 4 giugno 2019, in caso di guasto dei pagamenti italiano, sarebbe per la BCE per sostenere i rimborsi delle somme dovute, che porterebbe contribuenti tedeschi, ma anche francese o scandinavo per pagare la generosità della Bundesbank e l’insolvenza italiana.

Questa situazione europea potenzialmente esplosiva potrebbe anche avere gravi conseguenze per le relazioni transatlantiche man mano che si sviluppano tensioni commerciali tra Bruxelles e l’amministrazione Trump, una situazione che piace a cinesi e russi, pronta a cogliere l’opportunità di ridisegnare la mappa di alleanze economiche. Tanto più che la Russia Vladimir Putin e la cinese Xi Xinping sono impegnate a preparare seriamente alternative all’attuale sistema finanziario e monetario. Minacciato di essere espulso dalla rete Swift, dal 2014 la Russia ha sviluppato un equivalente di Swift, chiamato SFPS, testato per la prima volta a dicembre 2017.

La Banca centrale russa ha anche recentemente annunciato che alla fine vorrebbe sostituire il suo protocollo SFPS con un sistema di trasferimento basato sulla blockchain di Ethereum o su un’altra blockchain. “Guarda, internet appartiene agli americani – ma blockchain appartengono a noi”, ha detto Grigory Marshalko, rappresentante della delegazione russa (e dipendente del FSB) per la conferenza internazionale per la standardizzazione di delegazioni provenienti da 25 paesi a Tokyo nel mese di aprile 20185. Il tentativo di costruire un sistema alternativo in Swift non riguarda solo la Russia. Pechino, che ha sponsorizzato la creazione nel 2015 del risultato operativo (ADB per gli investimenti infrastrutturali), in posa come un alternativa cinese al FMI e la Banca mondiale, mira a stabilire una Swift cinese di nome “sistema cinese pagamenti internazionali “(CIPS).

Verso il dominio del renmibi?
Questi vari progetti sono accompagnati da una politica di ricostruzione di riserve di metalli preziosi e liquidità in Russia e Cina. Per un decennio, la Russia ha quadruplicato le sue riserve auree6 e Pechino ha istituito enormi riserve di valuta estera al fine di limitare l’influenza del mercato sullo yuan, in una logica di significativo controllo monetario. L’obiettivo cinese è anche quello di rendere renmibi7 una valuta di riserva in competizione con il dollaro. Nel maggio 2018, rappresentanti di banche centrali di 14 paesi africani si sono radunati ad Harare, nello Zimbabwe, per esplorare la possibilità di utilizzare il renmibi come riserva valutaria, come già stanno facendo il Sudafrica e la Nigeria. . E l’Africa non è sola da quando la BCE, la Banque de France e la Bundesbank tedesca hanno anche mostrato interesse per il renmibi come nuova valuta di riserva, così come l’Arabia Saudita.

L’interrogatorio sul dollaro come valuta di riferimento mondiale sembra ancora distante, ma la decisione di Richard Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro nel 1971 ha rimosso un’importante garanzia. Gli Stati Uniti hanno continuato a mantenere la credibilità del dollaro investendo pesantemente nei mercati internazionali al prezzo di un debito abissale. L’economia americana sta andando bene oggi, ma i cambiamenti nel dollaro e il crescente deficit degli Stati Uniti hanno portato a una perdita di fiducia che apre la strada a un sistema in cui diverse valute concorrenti potrebbero essere più ampiamente condivise sul mercato. scambiare dove il dollaro potrebbe essere ancora la maggioranza, ma non regnerebbe sovrano. In questo contesto, molte persone pensano che anche le criptovalute abbiano una possibilità. Il più importante di questi è la mancanza di bitcoin, stabilità e commerciabilità che potrebbero portare la fiducia degli investitori a lungo termine.

Al momento, tuttavia, solo l’1,3% delle transazioni sulla rete bitcoin è negoziabile. Il resto è pura speculazione. L’annuncio del lancio di “Libra” il 18 giugno 2019 da parte di Facebook potrebbe cambiare la situazione e annunciare l’ingresso significativo di GAFA in questo nuovo ambiente. Significativamente, la Bilancia è uno “stablecoin”, vale a dire una criptovaluta il cui prezzo è indicizzato a quello di una valuta reale. E nel caso di Libra, questa indicizzazione verrebbe effettuata su un paniere di valute, dollari, euro o renmibi, un principio che ricorda da vicino il bancor di John Maynard Keynes. La fine del dollaro non è certamente all’ordine del giorno, ma la riconfigurazione del sistema monetario globale è già in corso, sarà realizzata in ogni caso solo attraverso una riscrittura politica del valore.

https://www.revueconflits.com/la-fin-du-dieu-dollar/

miti e realtà delle tribu curde, di Adriano F Votta

Adriano F Votta

Sto commentando durante un viaggio da Lattakya a Damasco.
Voglio dire alcune cose, a chi sta vivendo emozioni, e prendendo opinioni, sulla base di quello che ascolta Dalla stampa occidentale :

Isis è stato sconfitto da esercito siriano, iraqeno, hezbolla e Russia, non dai curdi.
L intervento offensivo dei curdi, è giunto insieme a Usa, volontari stranieri e ex ribelli filo curdi, solo quando Siria e Russia, stavano riprendendo territori al isis.

Il confine con l Iraq, è strategico, infatti Usa Arabia e Israele, vogliono togliere il controllo a Damasco, in quanto alleato del Iran.
Sino a prima del offensiva di tre anni fa, dei siriani, Usa e curdi si limitavano alla difesa delle loro postazioni, e gli usa arrivarono a bombardare l esercito siriano (Deyr al zour 2017), per favorire Isis nella cattura di una città assediata.

I comandanti curdi stanno prendendo milioni da Usa e Israele (in realtà pagano i Saud), per non convergere con Damasco, ed occupare due lembi di confine, a Nord e a Ovest.

A nord non li vogliono i turchi, che vorrebbero impiegare i loro jhadisti, cioè quelli che chiamavate ribelli moderati anni fa.

A ovest stanno bloccando l’afflusso di petrolio per strangolare l’economia siriana.

Qui c’è il razionamento di carburante per i privati.
Questo significa prezzi alti per tutto, dalle verdure al taxi, meno lavoro e difficoltà ad andare a trovare i parenti al ospedale o recarsi al università, dalle campagne alla città.
Questo x colpa dei curdi, che fanno i cani da guardia per gli Usa.

Il Kurdistan non è quello che credete.
Il Kurdistan non è un cerchio in mezzo ad altri stati
Ad esempio Qamisli, capoluogo di provincia nella regione di Hasakie, è occupata per metà città, e nei dintorni, dai curdi, ma Qamisli non è curda, anzi, fu fondata dagli armeni, sul territorio adiacente due villaggi Assiro cristiani.
Gli armeni fuggivano dai turchi a nord, dal genocidio, e i curdi, i nonni di questi comandanti ypg o pkk, aiutavano i turchi, per rubare terre case e bestiame ai fuggitivi.

Il mito dei curdi, come tutti i miti per occidentali, è fasullo, e solo una rappresentazione Hollywoodiana, banale e stereotipata.

La forza militare che ha avuto più morti, e ha inflitto più perdite, al isis, come ad alqaeda, è esercito Siriano, seguito dagli iraqeni e da Hezbolla.

L esercito siriano ha quindi sconfitto Isis, il resto è propaganda Hollywoodiana.

I curdi che si definiscono popolo delle montagne, ora hanno il culo piantato nel deserto sui pozzi di petrolio, e vedrete, tempo poche settimane, cedere con grande resistenza televisiva, quanto nulla militare , tutti i villaggi da campagnoli al confine, da cui provengono.

Provate a schiodarli dai pozzi di petrolio di Abu Omar, al confine con l Iraq, dove non c’era un singolo residente curdo, e lì vedrete invece lottare come belve.

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