DA  CTHULHU (MORBUS) SU  CORTESE   RICHIESTA  DI MASSIMO MORIGI: VERBA VOLANT SCRIPTA  MANENT 

DA  CTHULHU (MORBUS) SU  CORTESE   RICHIESTA  DI MASSIMO MORIGI: VERBA VOLANT SCRIPTA  MANENT   

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/i-verbali-del-comitato-tecnico-scientifico/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807150916/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/i-verbali-del-comitato-tecnico-scientifico/

 

 

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https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-14-del-1-marzo-2020.pdf, Wayback  Machine: http://web.archive.org/web/20200807150959/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-14-del-1-marzo-2020.pdf

 

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-21-del-7-marzo-2020.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807151011/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-21-del-7-marzo-2020.pdf

 

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-completo-CTS-n-39-del-30-03-2020.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807151025/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-completo-CTS-n-39-del-30-03-2020.pdf

 

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 Cthulhu – R’lyeh, A.D. MMXX, post Midsummer Night’s Dream

NON CAPIRE QUELLO CHE STA ACCADENDO, di Pierluigi Fagan

NON CAPIRE QUELLO CHE STA ACCADENDO. Più o meno a metà di settembre, gli Stati Uniti dovrebbero registrare lo stesso numero di morti SARS per milione di abitanti dell’Italia. Ai primi di novembre, quando si andrà a votare per il rinnovo della carica presidenziale, gli Stati Uniti dovrebbero esser su una media morti per milione di abitanti pari a quella della Gran Bretagna che, subito dopo quella del Belgio, è la peggiore d’Europa ed una delle peggiori del mondo. Ma molto diverso è il modo con cui questi paesi sono arrivati o arriveranno a quei tristi risultati. Quando l’Italia ha terminato il suo lockdown, il 4 maggio quindi tre mesi fa e circa due/tre mesi anche dall’inizio dell’epidemia, i morti per milione di abitanti erano più del doppio di quelli americani, erano quindi per lo più concentrati nel primo trimestre. Gli Stati Uniti invece, hanno continuato a registrare decessi in forma continuata. Così oggi sono a circa l’80% del risultato italiano che pareggeranno a metà settembre e da allora supereranno progressivamente.

Discutere dei risultati sanitari dell’epidemia-pandemia è molto delicato, a partire dal fatto che ancora dopo mesi molti non hanno ancora capito che il problema principale non sono tanto i morti ma la gestione sanitaria dei contagiati. Da una parte abbiamo visto come la composizione dei dati sia molto difforme, dall’altra per giungere ad un dato ci sono talmente tante variabili che indicare correlazioni semplici (a due variabili) risulta per lo più improprio. Sopra a ciò si aggiunge una doppia distorsione ideologica. La prima è quella politica tipo coloro per i quali Trump è bravissimo o coloro per i quali è un disastro, ma vale anche per il governo italiano. La seconda è sociologica poiché molti si sono fatti modelli in testa su cosa l’epidemia-pandemia è o non è, alcuni anche molto fantasiosi ed eterodossi. Ci sono quindi molti motivi per piegare il dato ad una certa interpretazione.

Tutto ciò premesso avanziamo comunque il dato comparato perché a grana grossa, tutte le eccezioni si piegano al ferro da stiro del dato all’ingrosso. I morti da epidemia sappiamo esser contati secondo diversi modi ma sono anche il dato più al riparo da troppe variabili differenzianti. I morti per milione di abitanti sono l’unico dato comparabile davvero tra paesi diversi se si dà credito alla realtà del dato che, per Stati Uniti ed Italia, è abbastanza solido.

P. Krugman prima e il corrispondente dall’Europa del Sud per New York Times, hanno di recente fatto presente come il caso Italia che all’inizio si riteneva esser il più disastroso in accordo all’immagine tipo di un paese tanto bello quanto disorganizzato e poco razionale, si stia rivelando nel medio tempo addirittura migliore di quello americano. Come molti hanno notato, il sospetto che NYT nella sue due firme “usi” l’Italia per render ancorpiù evidente il disastro della gestione Trump dell’epidemia, è quasi certezza. Ma il dato però è inconfutabile. E cosa ci dice questo dato? Tre cose.

La prima è che le epidemie vanno soffocate sul nascere. Come tutti i fenomeni esponenziali, se non intervieni quando l’esponente è basso, dopo non le riacchiappi più. Puoi intervenire in maniera mirata ed articolata come hanno fatto alcuni paesi dell’Estremo Oriente o la Germania se ne hai facoltà (una struttura sanitaria “preparata” e particolarmente efficiente) o brutale (Cina ed in parte Italia), ma tagliare presto i fili della rete di contagio è l’unica strada percorribile. Il caso Svezia, che comunque ha registrato una media morti per milione di abitanti simile all’Italia, fa poca letteratura in quanto troppe variabili sono difformi (l’età media svedese è la più bassa in Europa dopo Islanda,Cipro ed Irlanda, quella italiana è la più alta assieme alla tedesca. Dati Eurostat).

La seconda è che, soprattutto all’inizio, abbiamo fatto furiose discussioni ed in alcuni casi vere e proprie litigate a suon di dati contingenti, quando gli effetti di una epidemia si valutano sul medio-lungo tempo. Molte volte, anche qui, abbiamo terminato una discussione con un “vedremo …” che rimandava al poi, il giusto tempo per valutare gli effetti di ciò che stava succedendo. Non è ancora arrivato questo “poi”, occorrerà aspettare almeno fine anno. Una cosa però sembra potersi confermare tra quelle in discussione. Nel dibattito pubblico ha avuto molto successo il tema “libertà-salute” (con gran mischione di libertari, libertariani e liberali vs “creduloni” scientizzanti e totalitari), ma il vero e decisivo bivio era quello tra salute ed economia e molte delle diverse decisioni che sono state prese, hanno valutato diversamente questo rischio. Tali differenze non vanno lette come diversi atteggiamenti di valore tra stati col primato sanitario e stati col primato economico. Essendo salute e ricchezza due prerogative della popolazione, le due istanze non possono esser in contrapposizione, va trovato l’equilibrio. Il concetto di “equilibrio” è il segreto della gestione di fenomeni complessi, ma il concetto di “equilibrio” per le nostre immagini di mondo è poco appassionante. Appassiona molto di più la singola verità, la singola variabile, la singola soluzione che magicamente trasforma l’andamento dell’intero sistema in discussione. Ci piacciono le cose semplici, anche quando il mondo reale ci presenta fenomeni che semplici non sono.

La terza considerazione è che gli Stati Uniti d’America ovvero il loro attuale presidente, hanno registrato un fallimento adattivo di proporzioni clamorose. Hanno cioè sbagliato strategia il che, per un paese viziato da condizioni di possibilità lungo gli ultimi due secoli per lo più eccezionali ed al di là dei meriti intrinseci di quel popolo, non sorprende. Gli americani che pure hanno molte qualità, in genere, non si conoscono come fini strateghi. Pur avendo diversi primati scientifici, pur avendo enormi e sofisticate capacità di calcolo, risorse più di ogni altro, non hanno avuto l’intelligenza di capire i due punti prima espressi: hanno scelto di non intervenire drasticamente ed hanno valutato il rischio economico non collegandolo a quello sanitario.

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L’altro giorno leggevo un bell’articolo di Adam Tooze su FP che ripescava una concetto di Ulrich Beck condensato nel suo famoso “La società del rischio” del 1986, l’anno di Cernobyl. Sulla faccenda della pandemia, il primo e generalizzato fallimento, è stato quello di non aver previsto il rischio per altro noto. Non noto a coloro che cascati dal pero della loro sostanziale ignoranza (uso “ignoranza” come giudizio oggettivo, senza rimprovero, nel senso di “inconsapevolezza” o “incompetenza”), hanno cominciato a cercare spiegazioni fantasiose per eventi clamorosi. L’altro giorno, ad esempio, Elon Musk ha fatto capire di ritenere le piramidi egiziane opera di alieni il che ci sta se non sai nulla di archeologia e storia del tempo profondo. E’ normale che un tizio di un paese che ha trecento anni convinto della meccanica nozione di “progresso”, non si dia spiegazione di come abbiano fatto gli umani di quattromilacinquecento anni fa a fare quelle cose imponenti, se non ipotizzando interventi di mani invisibili esterne. Per millenni siamo ricorsi a dei, spiriti, fate e folletti per spiegarci quello che non altrimenti sapevamo spiegarci.

Chi quindi non sapeva nulla di virus, coronavirus e SARS da coronavirus, si è sbellicato dalle risate sulla faccenda dei pipistrelli e pangolini, è normale. Però qualcuno sapeva di virus, coronavirus e SARS da coronavirus, da decenni visto i documenti pubblicati da WHO sin nei primi anni duemila assieme a tutta la letteratura scientifica correlata. Così per i rischi Three Mile Island-Cernobyl-Fukushima, piuttosto che quelli climatico-ambientali, quelli tecnologici, piuttosto che quelli della bomba demografia africana che genera migrazioni ovviamente, non da sola), piuttosto che quelli correlati all’epidemia di debito mondiale o quelli legati alla transizione dei poteri sullo scacchiere geopolitico . Ho pubblicato diverse volte qui i Global Risk Report che le élite mondiali discutono a Davos ogni anno, con almeno una quindicina di rischi caldi dal prevedibile devastante impatto globale.

Ma questi temi non sono per le popolazioni, le popolazioni debbono pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili, altrimenti sale l’ansia e tutto si disordina, cambiano le priorità, saltano le logiche. Poi se succede qualcosa si interviene con le distrazioni di massa, dagli alieni al virus geneticamente modificato da qualche Spectre. Si fa poco riflessione sul fatto che un concetto largamente usato in certi ambienti alternativi come “Matrix” (e molti altri modelli distopici), usi il concetto di un prodotto di Hollywood ovvero la prima industria dell’immaginario con cui la prima potenza mondiale colonizza le nostre menti. C’è una sorta di “critica omeopatica” che usa i modelli mentali del nemico (quasi tutti “cinematografici”) pensando con questi di contrastarlo. La cosa farebbe più ridere della faccenda dei pipistrelli e pangolini ma non è così che va il mondo.

Fallita quindi la previsione del rischio, dovremo poi riflettere su i diversi tipi di gestione perché una cosa è certa: nel mondo complesso i rischi aumenteranno geometricamente. E se non si capisce cosa sta accadendo, si andrà di disastro in disastro, il che non è per niente adattativo, comunque la pensiate.

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Libro – Il Medio Oriente in fase di ristrutturazione (5/5) Volume 5: dall’Iraq alla Libia, l’instabilità si diffonde_ di Eugène Berg

Sappiamo che il Medio Oriente, in uno spazio relativamente piccolo, concentra un massimo di domande di natura geopolitica, antagonismi multipli, nonché questioni politiche, religiose, economiche, sociali e culturali. Nessuno spazio al mondo come quello tra il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso e il Mar Arabico ha così tante guerre, conflitti, scontri e sconvolgimenti. Da qui il grande interesse che si lega all’opera monumentale di Gérard Fellous dedicata alla regione del Medio Oriente, a differenza di qualsiasi altra.

A giudicare da cinque volumi, in oltre 2.500 pagine ampie e ben documentate che coprono tutti i paesi, tutte le domande relative a questa vitale area geopolitica alla confluenza di tre continenti.

Gérard Fellous ha seguito nella sua carriera giornalistica le evoluzioni geopolitiche dei paesi del Medio e del Medio Oriente, alla guida di un’agenzia di stampa internazionale. Esperto per le Nazioni Unite, l’Unione europea, il Consiglio d’Europa per i diritti umani e l’Organizzazione internazionale della Francofonia, è stato consultato da numerosi paesi arabo-musulmani. Il segretario generale della Commissione consultiva nazionale per i diritti umani (CNCDH) a nove primi ministri francesi, tra il 1986 e il 2007, ha trattato, in simbiosi con la società civile, le questioni della società sottoposte alla Repubblica.

Senza essere in grado di darne una spiegazione nella sua totalità, prendiamo in considerazione gli elementi essenziali, esaminando i cinque volumi, che costituiscono altrettanti punti di riferimento essenziali.

Volume 5: dall’Iraq alla Libia, l’instabilità si diffonde

Qualsiasi analisi geopolitica del Medio Oriente negli anni 2000 dovrebbe essere preceduta da un interrogatorio sulle cause del fallimento dell’ondata della “Primavera araba” che si è conclusa nel caos politico generalizzato. Divenne presto chiaro che la democrazia la cui nascita o rinascita si riteneva spontanea, vale a dire immediata sulle ceneri di dittature vacillanti, non poteva sociologicamente mettere radici in questa regione che non aveva basi politiche. ricezione. Già nel 1962, lo storico Ernest Renan vide nell’Oriente musulmano un “islamismo (che) si sta lentamente abbattendo; al giorno d’oggi si sgretola con un crollo (…) perché l’islamismo può esistere solo come religione ufficiale; quando si riduce allo stato di una religione libera e individuale, perirà. L’islamismo non è solo una religione di stato …) è la religione che esclude lo stato. “Proiettandosi nella visione di uno scienziato sul futuro del mondo arabo-musulmano, scrisse:” L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo sanguinario e senza compensi. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale. “L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo assetato di sangue e senza compenso. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale. “L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo assetato di sangue e senza compenso. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale.

Leggi anche:  La penisola arabica, cuore geopolitico del Medio Oriente, di Frank Têtart

Le “Rivoluzioni arabe” furono effimere, anche tra le popolazioni più impegnate, come in Tunisia. Il “Nuovo Medio Oriente”, che era già stato progettato da George Bush, Jr. durante il suo intervento in Iraq (aprile 2003), ancora una volta tanto atteso è diventato un immenso caos violento e l’intera regione è entrò in un periodo geopolitico di “barbarie”. La distruzione dell’Iraq non è senza ragione. In Occidente, leggere l’evolversi del Medio Oriente nella continuità dei modelli di decolonizzazione è stato un errore di prospettiva secondo l’autore. Non solo il Medio Oriente musulmano è stato impermeabile alla democrazia che l’Occidente postcoloniale credeva di poter stabilire sulla scia dell’indipendenza nazionale, ma in realtà questa regione è oggi segnata da un ritorno al tribalismo, al clanismo e ad una “guerra” di essenza religiosa. Il futuro di molti paesi della regione era difficile da prevedere entro il 2018.

La “primavera araba”, tutt’altro che un’ondata di democrazia

L’Occidente avrebbe fatto un malinteso interpretando l’avvento della “primavera araba” come un’onda democratica che avrebbe attraversato il mondo orientale. Non è bastato abbattere i despoti siriani iracheni, libici, tunisini o egiziani in modo che, in modo schiacciante, come i fiori di primavera, la democrazia attecchisca trionfalmente sul terreno del “diritto all’autodeterminazione”. “. Le fenditure sociali e confessionali separano gli oppositori dai sostenitori del regime e, man mano che i conflitti insorgono, con la loro violenza conseguente, le solidarietà comunitarie hanno avuto la precedenza sulle questioni sociali e politiche. “

Il mese di settembre 2012 segna un cambio di stagione, passando bruscamente da una “primavera araba” a un “inverno islamico” in Tunisia, Egitto, Libia e altrove nel mondo arabo-musulmano. Questa glaciazione comportava un triplo pericolo. Legittimare i rami più estremisti dell’Islam, come il salafismo wahhabita. La violenza della strada araba, con l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia, la distruzione di premesse diplomatiche in diverse capitali e fino alla comparsa, il 15 settembre 2012, nel cuore di Parigi, di alcune donne interamente velati di nero e con una preghiera di strada, erano opera dei salafiti.

Accreditare l’idea di un “complotto” occidentale contro l’Islam. La regione trovò difficile ammettere che le difficoltà economiche e finanziarie in cui erano precipitate le “rivoluzioni” e le popolazioni liberate erano le uniche responsabili delle dittature da cui si erano liberate. Gli oppositori di questa “primavera araba”, vale a dire le vecchie classi dirigenti, immediatamente designarono come capro espiatorio il potere americano, accusato di essere all’origine di tutti i mali di un mondo profondamente arabo. Diviso. Da parte sua, Hassan Nasrallah, capo dell’alleato sunnita di Hezbollah dell’Iran sciita, ha sollevato la tensione nella via libanese, il giorno dopo la massiccia mobilitazione popolare cristiana durante la visita ufficiale di Papa Benedetto XVI a Beirut.. Avanzamento dell’opinione pubblica nella regione e oltre nel mondo occidentale, il concetto di “blasfemia”, con l’obiettivo di frenare la libertà di espressione e di opinione.

Il peso delle maggiori potenze

Tuttavia, il peso delle maggiori potenze nella regione: Iran, Arabia Saudita, Turchia si farà sentire a lungo su tutta la regione. Il regime teocratico di Teheran continuerà a sostenere i suoi sostenitori in Siria e Iraq, e utilizzerà le sue “armi armate”, tra cui gli Hezbollah libanesi, per espandere la sua influenza regionale. Così il suo leader Nasrallah, aveva annunciato ufficialmente il coinvolgimento militare dei suoi combattenti nei quattro angoli della regione mentre ritirava le sue armi pesanti nelle sue roccaforti in Libano, al fine, al momento opportuno, di integrarsi nella vita politica regionale e di riattivare le diversioni in altre aree di conflitto, come contro Israele, al fine di riunire il mondo arabo musulmano, attorno al nucleo duro delle comunità sciite. Ex presidente Barak Obama, dopo aver sperato di ottenere una sospensione dell’opzione militare nucleare iraniana e aver promesso che la pressione diplomatica ed economica su Teheran potesse essere allentata, fece una scommessa rischiosa che il suo successore Donald Trump non voleva correre il rischio, quando si è allineato con il sunnita Umma guidato da MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea. stava facendo una scommessa rischiosa sul fatto che il suo successore Donald Trump non volesse correre il rischio, quando si è allineato con la Sunni Umma guidata dall’Arabia Saudita di MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea. stava facendo una scommessa rischiosa di cui il suo successore Donald Trump non voleva correre il rischio, quando si è allineato con la Sunni Umma guidata dall’Arabia Saudita di MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea.

Leggi anche:  70 anni di NATO, ma non molto di più?

Molti altri paesi stanno attraversando momenti difficili. Il Libano trattiene il fiato, evitando qualsiasi provocazione, mentre si è dotato di un presidente cristiano e di un governo sotto il dominio degli sciiti e sotto il peso politico di Hezbollah più che mai all’avvio del Iran. Infine, va in “bancarotta” finanziaria sotto le pressioni del suo sistema bancario egemonico.

All’inizio del 21 ° secolo, i paesi del Mashreq e del Maghreb possono essere classificati in cinque categorie: – quelli in cui Iran e Arabia Saudita si confrontano direttamente, come in Iraq e Yemen; Territori profondamente squilibrati, come il Libano e la Palestina ; – I paesi sunniti che entrano nel nuovo secolo, come quelli del Golfo, dell’Egitto o della Giordania. – i paesi del Maghreb che, per la prima volta, si trovano ad affrontare tensioni frontali in Medio Oriente, in particolare in Libia, ma anche in Tunisia e Algeria, dove gli islamisti pesano ogni giorno di più; – Con un nuovo caso, quello di Israele, che allo stesso tempo sta stringendo legami sempre più stretti con i paesi sunniti e affrontando gli attacchi multipli e diversificati dall’Iran.

Quali istituti di mediazione o di pacificazione possono essere mobilitati in queste circostanze? Il Gulf Cooperation Council – GCC, creato nel 1981, composto da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è bloccato a causa della disputa tra Arabia Saudita e Qatar scoppiata nel giugno 2017 Non possiamo dire che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che abbia designato l’Iran e Daesh come il nuovo “asse del male”. “E ha insistito su” l’importanza di fermare il finanziamento del terrorismo “, un obiettivo” primordiale “, necessario per” screditare l’ideologia estremista “. Ha elaborato un piano generale per sollevare la regione dal caos. Sottovalutando la profondità dello shock sunnita-sciita e sottostimando gli sviluppi nella regione, il presidente americano ha risvegliato antagonismi regionali ancestrali e virulenti. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita.

E il coronavirus in tutto questo?

Alla fine del suo quinto volume, Gérard Fellous, studia in profondità il modo in cui il coronavirus colpisce i paesi della regione in cui le carte vengono rimescolate. La regione non era preparata ad affrontare questa “bomba a orologeria” costituita dall’impatto economico che ha colpito, in modo molto diseguale, tutti i paesi del pianeta. Le forti tensioni politiche e militari hanno complicato, più che altrove, le prospettive di cooperazione tra Stati per sopravvivere alla destabilizzazione della salute. Le conseguenze economiche della pandemia si sono aggiunte alle altre tensioni per mettere in pericolo la sopravvivenza di alcuni Stati o almeno la stabilità già scossa del tutto. La situazione è stata aggravata dai continui handicap che sono stati, per decenni, le carenze e l’incompetenza degli Stati che non hanno riserve finanziarie per alcuni, né dirigenti formati, organizzazioni amministrative o ricercatori scientifici per affrontare questa nuova sfida sanitaria. .

Leggi anche:  Geopolitica della primavera araba, di Frédéric Encel

Le economie di molti paesi della regione sono o “economie di guerra” come in Siria o Yemen, o alla fine della loro corda, come in Iraq, Giordania o Egitto, o fallite come in Libano o Iran. Rimasero le petromonarchie del Golfo le cui risorse finanziarie e riserve di petrolio le proteggevano dal collasso ma che, nella maggior parte dei casi, potevano perdere la fiducia dei loro partner economici internazionali e quella delle popolazioni di origine straniera. molti che non supportano la gestione opaca di questi paesi. La credibilità economica e finanziaria di tutti i leader della regione era di nuovo caduta di livello dopo le smentite e i travestimenti delle realtà della pandemia. Un’altra conseguenza del deterioramento delle economie dei paesi arabi della regione,

Il debito estero della maggior parte di questi paesi è fissato in dollari e le valute nazionali perdono valore, i rimborsi di questi governi sono aumentati in modo esponenziale, causando drastici tagli ai bilanci nazionali. L’accesso limitato e condizionato di questi paesi ai mercati finanziari ha solo peggiorato la situazione dei loro disavanzi. Questi paesi non sono in grado di ridurre i loro debiti, diverse centinaia di milioni di persone si uniranno ai ranghi dei più poveri del pianeta, secondo la Banca mondiale. Ha quindi chiesto una moratoria sul debito, in modo che questi paesi possano liberare le proprie risorse per affrontare le loro difficoltà economiche. L’influenza del Coronavirus potrebbe ristagnare più a lungo nei paesi più poveri, quindi migrare tra gli emisferi meridionali e settentrionali

https://www.revueconflits.com/livre-moyen-orient-restructuration-irak-libye-instabilite-printemps-arabe-eugene-berg/

ITALEXIT, di Andrea Zhok

ITALEXIT

In questo periodo nell’area politica che frequento maggiormente c’è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall’ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.

Il manifesto politico è scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell’area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.

La fibrillazione nell’area politica di riferimento (oscillante tra ‘sinistra euroscettica’ e ‘destra sociale’) è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l’europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l’area Borghi-Bagnai, e dopo che l’esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.

L’operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell’Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di “altroeuropeismo”.

Per chi non sia addentro al linguaggio iniziatico di quest’area, per “altroeuropeismo” si intende l’atteggiamento, frequente soprattutto nella sinistra radicale, in cui da un lato si ammettono i difetti dell’Unione Europea, ma dall’altro si professa illimitata fiducia nella capacità dell’UE di autocorreggersi. “Altroeuropeismo” è un termine stigmatizzante in quanto l’Altroeuropeista finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche, che si frappongono ad una riforma radicale (ad esempio in senso keynesiano) dell’impianto normativo dell’UE, distintamente neoliberale.

L’Altroeuropeista esemplare è un parlamentare europeo che da decenni si atteggia a furente critico dell’Europa, salvo però rimanere attaccato al suo scranno e promettendo che le cose andranno meglio in seguito. L’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ le cose dovrebbero cambiare, salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, e si limita a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’, proclamando la propria fede (e ciò magari gli fa guadagnare una cadrega).

Ora, mentre l’accusa di ‘Altroeuropeismo’ ha un’identità semantica ben chiara, per chi si appella all’Italexit, forse può essere interessante mettere alla prova un rovesciamento delle posizioni, per vedere se l’identità semantica del fautore dell’Italexit è parimenti chiara.

Qualcuno infatti potrebbe notare curiose quanto paradossali affinità formali tra i due estremi.

Dopo tutto chi pone l’Italexit come punto centrale e primario, proprio come l’Altroeuropeista, finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche presenti (qui rispetto all’uscita unilaterale dell’Italia dai trattati europei), come l’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ l’uscita dovrebbe avvenire, e come l’Altroeuropeista salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, limitandosi a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’ e a proclamare la propria fiducia. (E chissà che così facendo non riesca pure lui a guadagnare una cadrega.)

A difesa di questa affinità formale si potrebbe dire che, dopo tutto, in entrambi i casi si tratta di posizioni critiche dello status quo, che per necessità devono appellarsi all’ottimismo della volontà, perché se aspettano il conforto della ragione potrebbero aspettare a lungo.

Questa è una possibilità, e se nel dibattito corrente non si fossero alzati i toni in maniera indecente, con accuse di tradimento come se piovesse, non mi sentirei di aggiungere altro.

Ma le accuse di ‘tradimento’ nei confronti di chi ha esaminato e denunciato reiteratamente il carattere neoliberale dell’UE, sono state davvero uno spettacolo po’ eccessivo anche per persone tolleranti.

Dunque, di fronte a questa chiamata alle armi nel nome dell’Italexit (e di ITALEXIT) forse qualche pacato ragionamento è doveroso.

Sulla cattiva coscienza degli Altroeuropeisti mi sono soffermato spesso, spendiamo dunque oggi un paio di parole sull’immaginario da Italexit.

Nell’agitare la parola d’ordine dell’Italexit ci sono, a mio avviso, tre livelli motivazionali possibili.

1) Il primo è il più semplice e diretto, ed evoca l’idea di qualcosa come strappare un cerotto: tieni il fiato, un momento di dolore, e poi stai bene. Qui stanno quelli che “mettiamo in moto la zecca di stato il venerdì sera, a borse chiuse, e zac, lunedì siamo di nuovo in possesso del nostro destino.”
Ora, è doloroso ricordarlo, perché sembra sporcare la bellezza della fede con la volgarità della realtà, però l’appartenenza dell’Italia all’UE consta di un intrico di scambi, contratti e leggi sedimentati in mezzo secolo, rispetto a cui è pia illusione pensare che l’unico problema da risolvere sia poter stampare moneta con valore legale. Che questo sia un punto strategico è certo, ma è solo un tassello in un ampio quadro complessivo. È ovvio che tutti i nostri rapporti reali, finanziari, di import-export, tutti i patti di collaborazione, la normativa sulla sicurezza transfrontaliera, gli accordi industriali, tutta la normativa sulle forme di scambio, sulla concorrenza, ecc. ecc. rimangono in vigore finché non vengono sostituite, una ad una.

Si tratta di un cambiamento storico che richiede non solo il supporto massivo delle forze politiche parlamentari, ma risorse tecnocratiche e la collaborazione di gran parte dei ceti dirigenti. Si tratta di un atto che avrebbe bisogno di un’unità d’intenti a livello nazionale come nella storia d’Italia non si è mai vista. Una volta ottenuta tale unità d’intenti saremmo di fronte ad un processo di medio periodo, in cui tutti gli accordi nuovi che vengono stipulati verranno stipulati sulla base dei reali rapporti di forza tra i contraenti, e saranno questi rapporti di forza a definirli come più o meno vantaggiosi rispetto agli accordi vigenti.
Più che strappare un cerotto, direi che siamo piuttosto dalle parti di tre anni di chemioterapia.

2) Il secondo tipo di argomento è di carattere tattico, ed agita l’Italexit più che come prospettiva rivoluzionaria come fattore di trattativa. In effetti un paese che ha tra le sue opzioni quella di abbandonare il tavolo ha un’arma in più nelle trattative, e in questo senso prendere in considerazione l’Italexit può rappresentare un modo per aumentare il proprio potere contrattuale in Europa.
Per molto tempo, quando in Italia era in vigore un irriflesso unanimismo sui ‘grandi ideali europei’, questa prospettiva tattica ha avuto grandi meriti, e anche ora, quando l’euroscetticismo è oramai sdoganato, rimane un buon argomento. Impostare il discorso in questi termini ha permesso di togliere molti veli e di vedere finalmente i rapporti intraeuropei per quello che sono: accordi tra stati nell’interesse degli stati.

I limiti di questa posizione sono, naturalmente, che una minaccia per conferire reale forza contrattuale dev’essere credibile. E aver maturato la consapevolezza che l’Europa non è il Paese dei Balocchi e che dobbiamo fare, come tutti, i nostri interessi, aumenta solo un po’ la nostra credibilità nel minacciare di andarsene. Il resto della plausibilità dipende da calcoli costi-benefici che hanno a disposizione anche gli interlocutori con cui si tratta e su cui non si può bluffare.

3) Il terzo tipo di argomento è quello del collasso endogeno. In questo caso parlare di Italexit può essere improprio, giacché la prospettiva effettiva è che venga meno per cedimento strutturale interno la casa da cui vorremmo uscire. Dunque non ce ne andremmo sbattendo la porta, perché non ci sarebbero più né la porta né le mura. Questa è l’opzione concretamente più probabile, ma è anche quella rispetto a cui le iniziative italiane giocano un ruolo irrisorio. Possiamo ‘prepararci mentalmente’. Possiamo preparare ‘piani B’. Ma in definitiva il boccino in mano ce l’hanno i paesi che l’UE la guidano, ed in particolare la Germania. Se la Germania decide che l’UE non è più un proprio interesse primario, si mette in moto un processo di disgregazione dei trattati in vigore, e di ridefinizione di altri trattati. Qui l’unico partito efficace per l’Italexit dovrebbe farsi eleggere al Bundestag.

Rispetto sia alle prospettive (3) che (2) qualunque rimodulazione tedesca delle regole europee (come quelle avvenute con il ruolo di supporto ascritto alla BCE, e anche con il Recovery Fund) modifica le carte in tavole e le opzioni disponibili. Condizioni più gravose rendono la minaccia di Italexit più plausibile e il collasso endogeno del sistema più probabile. Al contrario, condizioni di allentamento dei vincoli e di mutualità riducono la plausibilità sia di (2) che di (3).

Visto in quest’ottica, il quadro appare come alquanto meno rigidamente ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare, e alquanto più pragmatico. E in effetti non c’è molto da stupirsi, perché, caso mai ce ne fossimo scordati, l’Italexit non è un fine ma un mezzo. Ed essendo un mezzo e non un fine, le sue forme, la sua plausibilità e l’intensità delle sue pretese possono variare a seconda di come varia il contesto storico e politico.

Dunque, se l’Italexit è un mezzo e non un fine, la vera domanda da porsi è: un mezzo per cosa?

La mia risposta è di ispirazione socialista ed è semplice: l’Italexit, se un senso ce l’ha, ce l’ha in quanto mezzo per riacquisire una sovranità democratica capace di porre in essere politiche nell’interesse del lavoro e di ridurre il potere di ricatto del capitale. Sovranità democratica e centralità del lavoro sono inscritte nel primo articolo della nostra Costituzione, e sono il lascito di un’epoca socialmente più avanzata di quella attuale.

La costruzione dei trattati europei, in particolare dal Trattato di Maastricht, ha imposto una svolta in senso dichiaratamente neoliberale, con la concorrenza posta come ideale normativo e la tutela della stabilità della moneta anteposta all’occupazione e ai salari. Dunque la catena logica va dalla tutela del lavoro, alla sovranità democratica, al rigetto della normativa europea.

Quest’ordine logico ha alcune implicazioni fondamentali. Non ogni modo di respingere le normative europee vale uguale.

Brandire l’Italexit per consegnare i lavoratori italiani a un settore industriale sussidiato dallo Stato non sarebbe un passo avanti, ma due indietro. Che la normativa europea vieti aiuti di stato all’industria privata (sia pure con svariate eccezioni) potrebbe rendere un rigetto della normativa europea accettabile per diversi settori industriali, ma di per sé potrebbe essere una condizione peggiorativa per il lavoro.

Brandire l’Italexit per svincolare le industrie italiane dai vincoli ambientali imposti a livello europeo può suonare liberatorio per molta piccola e media industria (e talvolta, visti gli inghippi burocratici, lo è senz’altro), ma non garantisce affatto un futuro migliore per il paese.

Brandire l’Italexit per ricollocarsi con più forza di prima sotto l’ombrello americano e atlantico non è, di nuovo, il viatico ad un paese migliore per i lavoratori italiani. Incidentalmente, l’Italia ha sofferto di pesanti limitazioni della sovranità almeno dal 1945, e ha perso di peso e ruolo industriale in quegli anni sotto la pressione USA (Mattei, Olivetti). Di fatto per parecchi anni la prospettiva europea è stata vissuta, sia a destra che a sinistra, come un modo per sottrarsi al giogo americano. Che per sfuggire al giogo americano si sia commesso l’errore di infilarsi nella trappola ordoliberale tedesca non significa che sfuggire oggi alla trappola ordoliberale tedesca per rifluire in quella neoliberista austro-americana sia un colpo di genio.

Ora, in conclusione, mi pare ci siano solo tre prospettive di massima sul tema Italexit.

La prima è pragmatica, e guarda all’appello all’Italexit come ad uno strumento politico accanto ad altri, uno strumento che sotto certe condizioni può essere utile coltivare, ma che non ha nessun valore intrinseco: esso conta se e quando è una carta giocabile per ottenere un miglioramento diffuso delle condizioni di vita nazionali. Ma non è un fine, non è un punto d’arrivo, non è una meta agognata, non è niente cui si deve giurare fedeltà. Date certe condizioni contingenti può essere uno scopo intermedio parziale.

La seconda prospettiva è ideologica e, appunto, pone il mezzo come fine: si pone l’Italexit come se fosse un ideale a sé stante, e dopo aver redatto un libro (o pamphlet) dei sogni si spiega al pubblico plaudente che ‘prima si deve riacquisire la sovranità’ e solo poi si potrà agire nel tessuto del paese secondo i precetti del libro.
Questa prospettiva, naturalmente, si garantisce a priori di non dover mai arrivare alla prova dei fatti; figuriamoci infatti se un’impresa letteralmente rivoluzionaria – e potenzialmente cruenta – come l’Italexit può essere affidata dal popolo a qualcuno sulla fiducia, solo perché ha redatto due buoni propositi sul web o ha ‘bucato il video’ con un meme. Si tratta ovviamente di un bellicoso pour parler destinato ad essere inconseguente rispetto alle promesse.

La terza prospettiva è opportunistica e personalistica. Essa non crede neanche per un minuto che la parola d’ordine dell’Italexit indichi una qualche sostanza politica percorribile. La sua funzione effettiva è di intercettare l’attenzione pubblica intorno a qualche slogan impetuoso e tranchant, in modo da ottenere una massa elettorale bastevole a portare qualcuno in parlamento. Questa prospettiva è possibile, ma al netto del gioco di specchi per i gonzi, la sua legittimità sta tutta nella credibilità personale di chi viene mandato in parlamento. Il voto viene in effetti chiesto sulla fiducia, e qui tutto dipende da questa fiducia.

Se da chi ti chiede il voto non compreresti un motorino usato, puoi impiegare gli atti di fede in direzioni più proficue.

Dove andremo?_ a cura di Elio Paoloni

Accogliamo ed estendiamo l’invito alla riflessione di Elio Paoloni. Un argomento non nuovo a questo blog e sul quale possono convergere forze esistenti e in formazione apparentemente ostili ed antitetiche_Giuseppe Germinario

Che ne pensano gli amici competenti?_Elio Paoloni

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Giorgio Bianchi

Se non trovano un’accordo sull’Italia, la questione potrebbe essere risolta offrendo un pezzo della penisola ad ogni contendente.
L’attuale classe politica non è in grado di garantire l’unità territoriale del nostro Paese, sopratutto alla luce del moltiplicarsi dei sindaci sceriffi e dell’abuso del termine eversivo “governatori”.
Per capire come andrà a finire la questione bisognerà osservare attentamente la Lega, per vedere se prevarrà la componente atlantica sovranista o quella europeista secessionista.
Gli USA intanto stanno spostando uomini e mezzi dalla Germania e una parte verrà dislocata in Italia:

Via quasi 12mila soldati Usa dalla Germania, molti arriveranno in Italia

https://www.repubblica.it/…/trump_muove_i_soldati_dalla_ge…/

La balcanizzazione dell’Italia è il piano B in caso di pareggio nella battaglia per la supremazia in Europa tra Aquisgrana e USA.
La mia nuova ipotesi di lavoro è capire se il Covid possa essere una trovata franco-cinese con contributo esterno anglo-israelo-mondialista.
È uno scenario che continuo a rifiutare, ma è l’unico che mi consente di incastrare tutti i pezzi spaiati del puzzle.

Spartizione dell’Italia: un’ipotesi ammessa dalla storia.

Scopriremo se quello di cui si comincia a parlare, la spartizione del Paese, è reale. Per il momento abbiamo una conferma dalla storia: la Polonia, in una situazione simile a quella dell’Italia di oggi, fu svenduta a Russia, Prussia e Austria per pagare il debito della corona polacca accumulato dall’ultimo Re massone Augusto Poniatowski.

A volte, studiare la storia di altri paesi è molto istruttivo. Ho recentemente approfondito uno degli episodi più scioccanti della storia moderna, la spartizione della Polonia. Si trattava del più esteso paese europeo; ricchissimo, colto, tenacemente «europeista» e «romano», che aveva avuto più volte un ruolo esiziale nella storia del nostro continente (si pensi alla liberazione di Vienna, nel 1683. Insomma: un colosso europeo che, come tutti i colossi, aveva i piedi d’argilla. Il piede destro era zuppo di vodka, che avvelenava i contadini e le classi popolari, il piede sinistro era tarlato dall’usura, che sovvenzionava una classe nobiliare contadina (la cui economia era, quindi, ciclica) e perennemente in guerra.
Non faceva eccezione l’ultimo re polacco, Augusto Poniatowski (1732 – 1798). Massone, era poco più che un burattino nelle mani delle potenze straniere e, soprattutto, dei creditori: aveva infatti le mani bucate ed arrivò ad accumulare 40 milioni di złoty di debiti (fu persino imprigionato per questo motivo). I suoi creditori erano usurai polacchi e, ovviamente, le banche: soprattutto con la banca del protestante scozzese Peter Ferguson Tepper (che fallì, a causa dei debiti di Poniatowski) e con le banche di Amsterdam.

Bene, arriviamo alle spartizioni. Esse furono tre, nel 1772, nel 1793 e nel 1795, per opera di Prussia, Russia e Austria. La prima avvenne immediatamente dopo l’abdicazione e la fuga (in Russia) di Poniatowski; le altre seguirono, praticamente, in modo meccanico. Ora: mi sono più volte chiesto come sia stata possibile una cosa del genere. Come può accadere che tre Stati si accordino tra loro per spartirsi un quarto Stato, senza suscitare la minima reazione nella comunità internazionale o all’interno dello Stato destinato a scomparire? Ora la cosa è più chiara, è sufficiente (come al solito) seguire il denaro. Se la finanza prende il posto della politica, può accadere che i creditori svendano un intero paese al miglior offerente; in questo caso a Russia, Prussia e Austria. I primi due si offrirono di pagare 2/5 dei 40 milioni di złoty del debito della corona polacca; l’Austria 1/5. Naturalmente, i costi di questa operazione sono stati trasferiti sulla popolazione locale grazie a esazioni e confische.

Questa la storia; veniamo ora alla parte istruttiva. La situazione della Polonia di fine Settecento ricorda molto quella dell’Italia attuale: il vuoto politico, il forte indebitamento… Prevengo la facile obiezione: so benissimo che il popolo italiano non è un Poniatowski collettivo. Il popolo italiano ha un risparmio privato enorme, sebbene in progressiva erosione; e lo Stato italiano produce (caso pressoché unico in Europa) un avanzo primario ormai da anni. Semplifico: lo Stato italiano incassa più di quanto spende per i cittadini, ormai da anni. Resta comunque l’enorme debito pubblico che, prevedibilmente, è destinato a salire ulteriormente nel prossimo futuro.

E quindi? Dopo tutto il sangue versato e la retorica unitaria, a nessuno verrebbe in mente di dividere l’Italia…Eppure l’ipotesi di una spartizione della penisola emerge (per ora carsicamente) qua e là, tra i ben informati. Ne ha scritto, ad esempio, Beppe Grillo nel suo blog; se ne vagheggia su Il Sussidiario; ne parla esplicitamente Dario Fabbri. In soldoni, uno dei possibili scenari futuri è proprio la spartizione dell’Italia tra Stati Uniti (Sicilia e Sud d’Italia, una portaerei naturale nel cuore del Mediterraneo), Germania (il Lombardo-veneto produttivo) e Francia (Piemonte e Val d’Aosta); resterebbe, abbandonato a sé stesso, il Centr’Italia.
Questo scenario getta una nuova luce sul ruolo che la Lega ha svolto (e continua a svolgere) dagli anni Novanta del secolo scorso ai giorni nostri; ne ragiona diffusamente nel suo blog Federico Dezzani.
Fanta-politica? Oppure uno scenario possibile e auspicato da alcuni? Lo scopriremo tra qualche anno (o mese?). Per il momento abbiamo una conferma che dalla storia, anche da quella altrui, si può imparare molto.

https://lanuovabq.it/…/spartizione-dellitalia-unipotesi-amm…

Dalla Germania al Mediterraneo, del Generale Marco Bertolini

“Oltre la politica interna, la mossa voluta da Trump evidenzia il ritorno alla Great power competition, cioè lo sforzo di contrastare la Russia tra Medio Oriente e Libia, e la Cina, attiva con la Via della Seta, che ingolosisce molti Paesi europei”. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata paracadutisti Folgore

Il dispositivo strategico degli Stati Uniti è sempre stato caratterizzato da una generosa disseminazione di forze in buona parte dei Paesi europei, con una concentrazione marcata in Germania (36 mila uomini negli ultimi anni). C’erano ragioni storiche per quest’assetto, tenuto conto che la Germania era stata l’obiettivo primario della guerra di ottant’anni fa e che nel confronto col Patto di Varsavia doveva rappresentare il teatro dello sforzo principale della Nato. C’erano poi ragioni più politiche, come il controllo da vicino di un Paese che ha sempre preoccupato, per le sue potenzialità, “l’amico” americano. Ora, con una recente decisione del Pentagono, circa seimila militari americani “tedeschi” dovrebbero presto essere ripiegati negli Usa, mentre pochi di meno verrebbero ridislocati in altri Paesi europei, tra cui l’Italia, lasciando in Germania “solo” 24 mila uomini circa.

La mossa, fortemente voluta da Donald Trump, evidenzia un suo preciso disegno complessivo nella Great Power Competition, vale a dire nello sforzo statunitense per confermare la supremazia militare nel confronto con Russia a Cina, resa quanto mai urgente dall’attivismo di Mosca in Medio Oriente e in Libia, nonché da quello di Pechino con l’iniziativa della Via della Seta che ingolosisce molti Paesi europei, tra cui il nostro. Inoltre, potrebbe essere utile per conseguire una pluralità di obiettivi diversi.

Prima di tutto, con un occhio alla politica interna statunitense, Potus segna un punto a suo favore, con l’approssimarsi della scadenza elettorale che lo vede contrapposto a Joe Biden, nel confermare al suo elettorato un seppur parziale ridimensionamento del ruolo degli Usa quale poliziotto globale. Così facendo, impone il suo “passo” al partito democratico, che della globalizzazione è un fautore acclarato, e afferma la sua autorità nei confronti dell’establishment. Si impone, infatti, su quel Deep State che ha importanti ramificazioni anche negli alti vertici militari che lo hanno sfidato pure con inedite prese di posizione pubbliche da parte di alcuni famosi generali in quiescenza.

In secondo luogo, per quanto ci riguarda più da vicino, la decisione rappresenta un segnale forte lanciato ai Paesi europei – a partire dalla Germania stessa – da lui accusati di non impegnarsi sufficientemente con un programma di potenziamento militare nell’ambito della Nato. E Berlino evidenzia, al riguardo, l’abbandono delle frustrazioni di ex Paese “occupato” dimostrando di non gradire una mossa che altera uno status quo che ormai gli va bene. Anzi benissimo, se si considera il ruolo di primissimo piano nel quale si è affermato nel Vecchio continente, anche ai danni di altri Paesi come il nostro, come dimostrato dalle recenti questioni inerenti il Recovery Fund che lo confermano leader continentale indiscusso.

Da questo punto di vista, e qui arriviamo al terzo obiettivo, più che il ritiro di una parte dei militari negli Usa, è il ridislocamento di un’altra cospicua parte degli stessi (5.800 uomini) in altri Paesi europei a rappresentare il segnale più forte da un punto di vista strategico. Con questo provvedimento, infatti, si certifica una relativa perdita di importanza della Germania rispetto allo scacchiere meridionale, per il quale da anni l’Italia lamenta una scarsa attenzione da parte della Nato. Il nostro Paese, al contrario, dovrebbe vedere un aumento di forze Usa sul proprio territorio al quale non potrà non corrispondere un cambio del nostro ruolo nel “gioco” militare della super-potenza nel Mare Nostrum, fino ad ora abbandonato alle iniziative turche e francesi, per limitarci ai Paesi della nostra Alleanza. Non so quanto questo possa far piacere a una classe politica che considera le nostre Forze armate il succedaneo povero di quelle dell’Ordine, da impiegare nel controllo del distanziamento sociale nelle spiagge; ma chi riuscisse a fare due più due quattro potrebbe scoprire che il mondo sta cambiando, nonostante le nostre resistenze.

Infine, il provvedimento si presenta come manovra a bilancio zero nella strategia complessiva statunitense, disegnata in buona parte da quello che è stato definito lo stratega di Trump, quel generale Flynn riemerso dalla palude di accuse infamanti alle quali era stato sottoposto ancor prima dell’insediamento del suo presidente. Alla diminuzione delle forze, infatti, corrisponde un aumento in termini di aderenza alle aree più preoccupanti da parte di quelle unità che rimarranno nel vecchio continente. Ciò vale soprattutto per il sud Europa, dal quale il Comando statunitense per l’Africa (AfriCom) potrà esercitare una maggiore influenza sul “continente nero”, col bubbone dell’islamismo radicale che i francesi stentano a controllare nel Sahel. Ma un occhio sarà anche al Sud Europa stesso, esposto dagli egoismi dei sedicenti “frugali” europei alle tentazioni cinesi e russe. E che la frugalità dei contadini, dei minatori e dei pescatori virando a improbabile dote degli speculatori potesse esporre a queste conseguenze anche nel campo strategico è veramente la novità di questi strani tempi. Con la quale è il caso di fare i conti.

tratto da https://formiche.net/2020/07/germania-ritiro-truppe-usa-bertolini/?fbclid=IwAR3k2S1ocdN55ie5O3y60gSb8SzuwHtuAnqyTXxY9tIcxTBeS3T_aG7qsaQ

Barboncini, processi e buchi nell’acqua, di Roberto Buffagni

Barboncini, processi e buchi nell’acqua

 

Cari Amici vicini & lontani,

in queste belle giornate estive due fatti di cronaca campeggiano sui media: lo sbarco di immigrati tunisini a Lampedusa con barboncino (di nazionalità ignota) al seguito[1], e l’autorizzazione a procedere per il caso Open Arms[2] contro Matteo Salvini concessa dal Senato[3].

L’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso Open Arms è motivata, ovviamente, da ostilità politica nuda e cruda, manifestata in forma particolarmente indecente , perché a) si è trattato di un atto squisitamente politico compiuto da un ministro in carica b) la responsabilità politica di quell’atto è condivisa, come minimo, dal Presidente del Consiglio del governo giallo-verde Giuseppe Conte, che andrebbe dunque processato anch’egli: cosa un po’ complicata e ossimorica, visto che Conte continua ad essere il Presidente del Consiglio in carica anche del governo giallo-rosa, sostenuto dalla maggioranza che ha appena votato l’autorizzazione a procedere contro Salvini.

Probabilmente, a Matteo Salvini non dispiace la prospettiva di finire sotto processo per il caso Open Arms, perché gli serve su un vassoio d’argento l’opportunità di presentarsi come vittima di un’ingiustizia e unico difensore degli italiani dai pericoli dell’immigrazione incontrollata. Tant’è vero che ha già diffuso il trailer dello spettacolo mediatico-giudiziario di cui sarà protagonista, dichiarando a caldo «Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l’Italia: lo rifarei e lo rifarò. Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita»

L’autorizzazione a procedere è sicuramente un’ingiustizia; resta da vedere se Salvini sia una vittima.

Secondo me, sì: Salvini è una vittima, ma è una vittima anzitutto di se stesso e della povertà desolante della sua cultura e azione politica. Motivo? Ecco il motivo, anzi i motivi.

  1. La maggioranza parlamentare che l’ha indecentemente mandato a processo l’ha costituita lui, con la sua decisione dell’agosto scorso di far cadere il governo, nella speranza di provocare nuove elezioni e di incassare un diluvio di consensi[4]. All’epoca, la decisione di Salvini fu attribuita a valutazioni strategiche così raffinate da risultare accessibili solo a un Olimpo di pochi eletti strateghi. Ai molti perplessi si ingiunsero umiltà, silenzio, fiducia, come ai militi dell’Arma (mele marce escluse). Salvo prossimi, miracolosi rovesciamenti della situazione, forse implicanti intervento dei Piani Superiori (dagli USA di Trump a Padre Pio) mi pare si possa pacificamente riscontrare che le valutazioni strategiche di cui sopra erano, tutto sommato, sbagliate.
  2. L’azione politica per cui Salvini viene oggi indecentemente processato, e le altre analoghe da lui compiute come Ministro degli Interni, ovvero la chiusura dei porti agli immigrati clandestini, aveva già allora due caratteristiche principali: a) faceva acquisire una valanga di consensi a Salvini b) era ovviamente insufficiente per affrontare sul serio il problema (enorme) dell’immigrazione[5], perché da un canto è impossibile chiudere efficacemente i porti nell’attuale quadro politico e legislativo, e dall’altro, il problema dell’immigrazione si può affrontare solo se si ha una visione adeguata della politica internazionale, in particolare dei rapporti tra l’Italia e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Evidentemente, per Salvini era rilevante soltanto l’aspetto sub a) della sua azione politica, cioè il fatto che gli faceva acquisire tanti consensi. Consensi che in un regime di democrazia parlamentare a suffragio universale hanno certo importanza decisiva, per un politico, ma che non sono tutto; anche perché come si acquisiscono, così si perdono: e se si acquisiscono con azioni dimostrative attente anzitutto all’immagine, ma che non producono alcun risultato concreto, si perdono quando l’immagine di autorevolezza e di sbrigativa efficacia proiettata con l’ausilio di Photoshop si appanna, o addirittura viene smentita dai fatti.

Qualcosina di meglio e di più anche Salvini avrebbe potuto fare, quando era ministro, anche sotto il profilo dell’immagine. Qui vi racconto un minimo esempio di quel qualcosina di più e di meglio.  Ce ne sono certamente altri, ma vi racconto questo perché lo conosco bene, visto che alla Lega l’ho proposto io.

Come sanno i lettori di italiaeilmondo.com e non solo loro (se n’è parlato in più occasioni sulla stampa nazionale, è stato presentato in un importante convegno internazionale in Tunisia, lo conoscono molto bene il governo tunisino e l’ambasciatore italiano a Tunisi) il nostro collaboratore Antonio de Martini è il referente italiano di un importante e suggestivo progetto, appoggiato da tre Università italiane, “Mare nel Saharahttps://www.medinsahara.org/

In pillola, è la ripresa aggiornata di un antico progetto francese, mai realizzato per contrasti politici, che fu appoggiato da Ferdinand de Lesseps[6], promotore ed esecutore del Canale di Suez e del Canale di Panama. Nel deserto tunisino vi sono vaste depressioni naturali, gli chott, site in prossimità del Mediterraneo. Escavandole per aumentarne la profondità, e sterrando un canale, vi si potrebbe far irrompere il Mar Mediterraneo, creando un mare artificiale. Con l’evaporazione, esso cambierebbe il microclima, rendendo fertili i terreni circostanti. Risultano subito chiare le ricadute positive economiche e sociali per la Tunisia e per l’Italia. Per la Tunisia, creazione immediata di 60.000 posti di lavoro, estensione della superficie coltivabile e creazione di una nuova leva di agricoltori; sviluppo di pesca e turismo marittimo (il 20% del PIL tunisino si deve al turismo). Per l’Italia, 4-5 miliardi di euro di lavori per imprese italiane, alle quali sarebbero commessi i lavori che esigono superiori capacità e tecnologie; cessazione dell’immigrazione clandestina dalla Tunisia; accrescimento del prestigio e dell’influenza politica italiana nella regione che è la cintura di sicurezza geopolitica naturale per l’Italia, la costiera mediterranea dell’Africa; replicabilità dell’iniziativa anche altrove, per esempio in Algeria, dove esistono condizioni geografiche analoghe. Ma invito i lettori a consultare il sito https://www.medinsahara.org/, dove troveranno le informazioni essenziali su questo bel progetto.

Per quanto riguarda la Lega, e in generale il defunto governo giallo-verde, l’opportunità e il vantaggio politico, anche di immagine, di promuovere un progetto simile mi parevano abbaglianti come il sole del deserto. Anzitutto, sul piano dell’immagine e del consenso, appoggiare questo progetto significava  fare per primi quel che gli avversari politici immigrazionisti dicono sempre di voler fare e non fanno mai: “aiutarli a casa loro”: e quindi tappare la bocca all’avversario. Per forze politiche prive di esperienza internazionale e di governo nazionale come Lega e Cinque Stelle, inoltre, sponsorizzare un progetto del genere implicava presentarsi come forze responsabili e lungimiranti, capaci di strategia internazionale. Per Matteo Salvini personalmente, poteva essere una buona occasione per smentire le accuse d’essere un capopopolo incolto e chiacchierone di cui lo bersagliano gli avversari,  proponendosi invece come statista affidabile, che sa coinvolgere persino gli avversari politici in progetti di vasto respiro: se avesse voluto respingere a priori e disprezzare un progetto di cui tutto si può dire tranne che sia razzista, il PD si sarebbe trovato in grave imbarazzo.

A ciò si aggiunga che per acquisire gli elementi di valutazione indispensabili a decidere se passare alla fase operativa vera e propria, bastava finanziare con 3-400.000 euro uno studio di fattibilità, del quale sono già individuate le fasi essenziali. Se per una delle mille ragioni possibili si fosse poi deciso di non dare il via al progetto, nessuno avrebbe potuto accusare i promotori politici di aver sprecato ingenti risorse; e intanto, essi avrebbero incassato l’effetto promozionale di un nobile, encomiabile tentativo di affrontare il problema, sul serio enorme, dell’immigrazione.

Così, all’insediamento del governo giallo-verde interessai al progetto il sen. Alberto Bagnai, e lo misi in contatto con Antonio de Martini. Il sen. Bagnai, però, non ritenne opportuno incontrare de Martini (che peraltro abita anch’egli a Roma) e lasciò cadere la proposta.

Grazie alla cortese disponibilità di un intermediario, incontrai poi l’On. Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera. L’ On. Molinari, che qui colgo l’occasione di ringraziare, mi ha ricevuto con prontezza e cortesia, e mi ha dedicato due ore del poco tempo di cui dispone un politico molto impegnato. Nel nostro colloquio gli illustrai il progetto, e da lui richiestone mi diffusi sull’importanza politica e geopolitica del Mediterraneo per il nostro paese. In lui trovai un interlocutore attentissimo, intelligente e molto disponibile, benché la materia in discussione non facesse parte della sua esperienza politica precedente. Ci congedammo con l’intesa che l’On. Molinari avrebbe portato il progetto, con le sue implicazioni, all’attenzione del segretario del suo partito, Matteo Salvini.

Risultato: un buco nell’acqua.

E’ vero: l’attuazione del progetto “Mare nel deserto” non avrebbe risolto definitivamente il problema dell’immigrazione, né soddisfatto l’ambizione di Matteo Salvini di guidare il governo italiano. Forse, però, se Matteo Salvini, invece di scavare un buco nell’acqua dopo l’altro, avesse fatto scavare qualche buco nella sabbia del deserto tunisino, oggi si troverebbe meglio. L’Italia e la Tunisia, di sicuro.

That’s all, folks.

 

 

 

[1] https://www.corriere.it/cronache/20_luglio_28/migranti-barboncino-travestiti-turisti-nuove-tecniche-sbarco-c3dcb4c0-d0a0-11ea-b3cf-26aaa2253468.shtml

[2] https://www.corriere.it/cronache/20_luglio_30/caso-open-arms-tar-scontro-ministri-ecco-cosa-accadde-f687df6e-d23d-11ea-9ae0-73704986785b.shtml

[3] https://www.corriere.it/politica/20_luglio_30/salvini-va-processo-il-caso-open-arms-senato-concede-l-autorizzazione-procedere-37b84b96-d27e-11ea-9ae0-73704986785b.shtml

[4] L’ho commentata nel settembre 2019, e purtroppo devo constatare che ci ho indovinato: http://italiaeilmondo.com/2019/09/11/lezioni-di-umilta-di-roberto-buffagni/

[5] Qui, in una serie di tre articoli, ne tratto sotto il profilo del conflitto politico su base etnico/religiosa che immigrazione e allargamento dello ius soli possono causare: http://italiaeilmondo.com/?s=ius+soli

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinand_de_Lesseps

Libro – Il Medio Oriente in fase di ristrutturazione (4/5), di Eugène Berg

Sappiamo che il Medio Oriente si concentra in uno spazio relativamente piccolo, un massimo di domande di natura geopolitica, molteplici antagonismi, nonché questioni politiche, religiose, economiche, sociali e culturali. Nessuno spazio al mondo come quello situato tra il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso e il Mar Arabico ha così tante guerre, conflitti, scontri e sconvolgimenti. Da qui il grande interesse che si lega all’opera monumentale di Gérard Fellous dedicata alla regione del Medio Oriente, a differenza di qualsiasi altra.

A giudicare da cinque volumi, in oltre 2.500 pagine ampie e ben documentate che coprono tutti i paesi, tutte le domande relative a questa vitale area geopolitica alla confluenza di tre continenti.

Gérard Fellous ha seguito nella sua carriera giornalistica le evoluzioni geopolitiche dei paesi del Medio e del Medio Oriente, alla guida di un’agenzia di stampa internazionale. Esperto per le Nazioni Unite, l’Unione europea, il Consiglio d’Europa per i diritti umani e l’Organizzazione internazionale della Francofonia, è stato consultato da numerosi paesi arabo-musulmani. Il segretario generale della Commissione consultiva nazionale per i diritti umani (CNCDH) a nove primi ministri francesi, tra il 1986 e il 2007, ha trattato, in simbiosi con la società civile, le questioni della società sottoposte alla Repubblica.

Senza essere in grado di darne una spiegazione nella sua totalità, prendiamo in considerazione gli elementi essenziali, esaminando i cinque volumi, che costituiscono altrettanti punti di riferimento essenziali.

Volume 4: Siria: un devastante conflitto asimmetrico

La crisi siriana – equazione con molte incognite in cui piccole cause generano grandi conseguenze, in una sorta di “effetto farfalla”, sembra essere l’epicentro di una profonda destabilizzazione e il modello di sconvolgimento regionale. Nove anni dopo il suo scoppio, il caos siriano sotto Bashar al-Assad è, in larga misura, mantenuto da quattro potenze egemoniche, tre regionali, come abbiamo visto: Turchia, Iran e Arabia Saudita e una internazionale : Russia, a cui si sono unite varie coalizioni statali di geometrie diverse. Queste interferenze si sovrappongono sul campo siriano, come “bambole russe”. La Turchia, in costante guerra contro i curdi, ma anche occasionalmente contro il regime siriano, strumentalizza sul suo territorio quasi 4 milioni di rifugiati siriani.

Una vera borsa di nodi 

La Russia, alleata “occasionale” della Turchia, è decisamente ostile a tutti gli oppositori o ribelli che potrebbero minacciare il regime siriano. Lo scontro tra sunniti e sciiti si riflette in Siria da una “guerra fredda” tra Iran e Arabia Saudita che produce costantemente scontri armati, come in tutta la regione. Gli Stati Uniti, sotto le successive presidenze di Barak Obama e Donald Trump, hanno cercato, non senza difficoltà, di adattarsi alle mutevoli realtà della Siria, rifiutando di “impegnarsi come in passato in Vietnam. in Afghânistân, volendo creare lì nuovi equilibri. L’Unione europea è timidamente coinvolta di fronte al flusso incontrollato di rifugiati siriani, cui si aggiungono immigranti economici dal Sahel. Questi poteri sono più o meno coinvolti,

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La Repubblica araba siriana offre quindi un paradigma geopolitico che consente di decifrare la nuova decomposizione-ristrutturazione di tutto il Medio Oriente. Nel corso degli anni, questo paese si è trovato all’epicentro di tensioni multiple. A causa dell’assenza di una nuova leadership politica e militare regionale, un vuoto lasciato dall’Egitto, in cui Iran, Turchia e Arabia Saudita stanno cercando di imporsi. La crisi umanitaria siriana è tra le più gravi al mondo. 700.000 persone sopravvissero in 15 aree assediate, tra cui 300.000 bambini. Quasi 5 milioni di persone, tra cui oltre 2 milioni di bambini, vivevano in aree estremamente difficili da ottenere per gli aiuti umanitari a causa di incessanti combattimenti, insicurezza e restrizioni alla libera circolazione.

Alla domanda che tutti si pongono, perché il regime di Assad è stato in grado di durare per più di otto anni dopo l’inizio di una guerra civile scoppiata nel 2011, quando molti altri regimi autocratico nel mondo mediorientale è stato spazzato via o modificato in paesi come Tunisia, Algeria, Yemen , Egitto, Bahrain o Iraq, Gérard Fellous fornisce sei elementi della risposta.

Le ragioni della sussistenza del regime siriano 

Ha beneficiato di un esercito professionale e ben equipaggiato la cui forza principale non era nel piccolo numero della sua fanteria, supportata da milizie radunate e mercenari stranieri, ma nella sua forza aerea e nella sua difesa antiaerea notevolmente rafforzata da trasferimenti tecnici e di investimento dall’Iran e dalla Russia. Per la sua difesa antiaerea, il materiale obsoleto del tipo SA-5, SA6 e SA-7 che possedeva, è stato sostituito dai missili antiaerei SA-17, SA-22 e SA-24 di modelli recenti. Il regime siriano era quindi presente nel suo spazio aereo, lasciando inizialmente alle forze aeree della coalizione solo gli attacchi contro i territori detenuti da Daesh.

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A differenza della Libia, le forze aeree occidentali hanno trovato molto più difficile distruggere le forze aeree siriane e gli attacchi antiterroristici, con il rischio di imbattersi in una copertura russa. Solo l’aviazione israeliana ha fatto intrusioni più di cento volte nello spazio aereo siriano, o da quello del Libano, per distruggere centri di raccolta e convogli missilistici iraniani destinati a Hezbollah e ai combattenti. iraniani. Assad ha la possibilità di sparare alla folla di civili solo con armi leggere, riservando pesanti munizioni per la distruzione di edifici e gas venefici nei centri urbani detenuti da gruppi militari ribelli. Pertanto, i carri armati e l’artiglieria erano stati usati solo con parsimonia contro importanti località detenute dagli avversari dell’ASL (Esercito siriano libero). Oltre a un esercito convenzionale progettato per il campo di battaglia, o contro Israele, il clan Assad fece appello a forze meglio addestrate nel combattimento asimmetrico, adottando una tattica di controinsurrezione. La Russia e l’Iran hanno lavorato per dissuadere qualsiasi suggerimento di un intervento diretto da parte dell’Occidente contro le infrastrutture militari siriane, in particolare l’aria, come nel caso della Libia.

Nel quadro delle Nazioni Unite, la Russia, e in parte la Cina, ha bloccato qualsiasi risoluzione che consentisse operazioni militari dirette contro il regime di Assad. L’Iran ha reso la Siria il primo dei campi di battaglia della sua “guerra che incombe sull’America”. Teheran si occupò quindi dell’addestramento di 50.000 combattenti delle forze speciali siriane e inviò le proprie “forze speciali di Al-Quds” in prima linea a sostegno dei combattenti di Hezbollah. Mantenendo una selvaggia repressione contro qualsiasi inclinazione di opposizione o ribellione, il regime di Assad ha mantenuto un equilibrio di potere attraverso il terrore, che gli è stato rapidamente favorevole. Dopo i primi colpi contro la folla di manifestanti, il regime ha continuato ad arrestare e imprigionare migliaia di ribelli, uomini, donne e persino bambini,

Terrorismo delle popolazioni, una strategia redditizia

Terrorizzando le popolazioni, sunnite o minoritarie, la strategia di Damasco è stata quella di tentare di tagliare l’opposizione politica e militare dal suo popolare substrato. La violenza e la crudeltà del regime non sono “libere”, corrispondono a un freddo calcolo politico. La mancanza di credibilità politica e la frammentazione dell’opposizione in esilio sono state sfruttate a suo vantaggio dal regime di Assad. Damasco ha tratto grande beneficio dal loro dissenso interno, soprattutto quando il CNS (Consiglio nazionale siriano) è stato accusato dall’ASL di opportunismo, di essere tagliato fuori dalle realtà sul terreno o di essere dominato dai Fratelli Musulmani. Attuando, agli occhi dell’opinione mondiale, la massima: “Tra due mali, scegli il meno dannoso”,

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Dal 2012, Damasco si è sforzato di squalificare la FSA, insistendo sul fatto che il Fronte di Al-Nosra era più disciplinato, non praticando il saccheggio e il racket dei siriani, supportati dai patroni del Golfo. La propaganda ufficiale ha suggerito che il Fronte di Al-Nusra spesso soppianta l’FSA, essendo un attore militare tatticamente credibile. In secondo luogo, Damasco ha insistito sulla violenza praticata da questi jihadisti, sul loro desiderio di far dominare la Sharia in diversi distretti di Aleppo controllati dall’opposizione, diffondendo ampiamente esecuzioni sistematiche di prigionieri, decapitazioni di Alawites o Cristiani, e facendo circolare questi video su Internet. Bashar al-Assad non ha nascosto la sua soddisfazione nel vedere le Nazioni Unite mettere questi jihadisti nella lista dei “terroristi”.

Accettando la propaganda jihadista e diffondendola ampiamente sulle reti, Bashar al-Assad ha cercato di apparire come un male minore. Infine, il regime di Assad ha lavorato per riguadagnare la legittimità politica, non solo “organizzando” le elezioni, ma garantendo che siano ampiamente conquistate. Pertanto, con l’estrema violenza della repressione, Bashar al-Assad associò un certo “machiavellismo politico”, così come suo padre Hafez. In futuro, la Siria sarebbe in grado di sopravvivere al caos generato dal regime di Assad? Oggi non esiste un’alternativa credibile ad Assad, che non lo rende una soluzione duratura e desiderabile. Le sue frange più vulnerabili rispondono alla violenza con violenza e morte.

Pertanto, la dittatura del regime di Assad risponderebbe al nichilismo di Daeshe islamisti estremisti. Dopo anni di violenza e una serie di tentativi di mediazione diplomatica, dopo essere impantanato in sovrapposizioni di scontri militari e aver esaurito ogni ricorso per una soluzione politica, la Siria, come il resto il Medio Oriente, si rassegna a un futuro religioso fondamentalista? – Allo stesso modo, gli scontri diretti tra sciiti (regime alawita), sunniti e curdi, in un contesto in cui interessi e posizioni sono mescolati, lasceranno profonde e durature conseguenze di fratture sociali e politiche. – I tentativi del regime di Assad di “vittimizzare” la minoranza alawita nel conflitto interno e la sua militarizzazione che potrebbe solo essere accompagnata da una maggiore confessionalizzazione, porteranno i loro frutti velenosi, come l’Iraq, dalla Libia o dallo Yemen. La crisi siriana ebbe la particolarità di non essere stata inizialmente di natura religiosa, ma che alla fine sarebbe finita lì.

Un pedaggio molto pesante

Né l’Iran, né gli altri due sostenitori di Damasco, la Russia e, in misura minore, la Cina, né il mondo sunnita schierato dietro l’Arabia Saudita e alcuni paesi del Golfo saranno in grado di assumerlo a lungo, senza senza fiato. Tuttavia, il bilancio della guerra civile asimmetrica è uno dei più pesanti che la regione abbia conosciuto nella sua storia contemporanea, dal numero di morti e feriti civili, dalla distruzione di infrastrutture economiche e dal volo degli abitanti. preso in ostaggio dalle forze in presenza e spinto a trovare rifugio, in massa, nei paesi vicini e fino in Europa. La soluzione di una divisione geografica della Siria tra comunità religiose ed etniche (aree alawite / cristiane / curde / sciite / sunnite …) con un governo composito e debole a Damasco, come quello stabilito in un Iraq instabile, proprio come in una sfilacciata Libia o in un Libano in tensione, sarebbe la peggiore prospettiva offerta. Una spartizione militare del paese potrebbe derivare di fatto da una “guerra totale” senza fine, tra un lato una “utile Siria” in Occidente, che va da Aleppo a Damasco, attraverso la fascia costiera di Latakia. nella città centrale di Homs, controllata dal regime di Assad e dai suoi alleati; e dall’altro controllato dal regime di Assad e dai suoi alleati; e dall’altro controllato dal regime di Assad e dai suoi alleati; e dall’altroIl “Daechstan”, detenuto da jihadisti di ogni genere, si fondeva in popolazioni-tribù, clan, milizie, famiglie convertite. I curdi avrebbero poi formato il loro sogno “Kurdistan”, a cavallo tra Siria e Iraq.

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Quali sarebbero in definitiva le condizioni utopiche per la normalizzazione, chiede Gérard Fellous? Lo scenario perfetto per porre fine alla crisi in Siria consisterebbe nello sradicare il jihadismo e soprattutto Daesh dal paese, rimuovendo Bashar al-Assad e il suo clan dal potere, neutralizzando le molte fazioni armate che stanno dividendo e saccheggiando il paese, e promuovere l’emergere di una vera opposizione politica legata in una certa misura a un sistema democratico. Ma questo progetto incontrerebbe molte difficoltà che sembrano insormontabili a breve termine. Al fine di ripristinare l’autorità di uno stato siriano stabile su tutto il suo territorio, il primo passo sarebbe la distruzione di Daesh, non solo dopo che lo Stato islamico fosse stato cacciato dalle sue due “capitali”, Rakka (Siria) e Mosul (Iraq), e i suoi “contatori” circostanti, ma anche le aree rurali o desertiche in cui si era ritirato evitando di combattere. Le scelte dell’Arabia Saudita di acquisire una posizione dominante nello scontro sunnita-sciita, mantenendo indefinitamente le tensioni nell’Umma, anche nei suoi interventi contro gli hutisti nello Yemen L’incerta polarizzazione di una Turchia ossessionata dalla sua lotta contro la Curdi, ostacolando il loro progetto per un territorio transfrontaliero autonomo. Internamente in Siria, la pace civile potrebbe essere ripristinata solo su due presupposti: * Le centinaia di milizie, piccole o potenti, legate al regime di Assad o all’opposizione o soprattutto indipendenti, dovranno essere disarmate e dissolte. Alcuni potrebbero essere integrati in un nuovo esercito nazionale regolare. Una pace negoziata sarebbe il prerequisito per un processo di transizione politica come indicato da diciassette paesi nel novembre 2015 a Vienna, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. Ma la probabilità di successo di questa uscita dalla crisi sembra molto ridotta nel prossimo futuro. La logica bellicosa della sottomissione tribale predomina sempre e ovunque. Il regime di Assad non sarà mai pronto a rinunciare alla zavorra per la pace né a prendere in considerazione la minima concessione di condividere il proprio potere, a condizione che il suo potere militare sia assicurato dalla combinazione delle forze russe e iraniane. Bashar al-Assad ha preso in ostaggio Mosca e Teheran. Ma la probabilità di successo di questa uscita dalla crisi sembra molto ridotta nel prossimo futuro. La logica bellicosa della sottomissione tribale predomina sempre e ovunque. Il regime di Assad non sarà mai pronto a rinunciare alla zavorra per la pace né a prendere in considerazione la minima concessione di condividere il proprio potere, purché il suo potere militare sia assicurato dalla coniugazione delle forze russe e iraniane. Bashar al-Assad ha preso in ostaggio Mosca e Teheran. Ma la probabilità di successo di questa uscita dalla crisi sembra molto ridotta nel prossimo futuro. La logica bellicosa della sottomissione tribale predomina sempre e ovunque. Il regime di Assad non sarà mai pronto a rinunciare alla zavorra per la pace né a prendere in considerazione la minima concessione di condividere il proprio potere, purché il suo potere militare sia assicurato dalla coniugazione delle forze russe e iraniane. Bashar al-Assad ha preso in ostaggio Mosca e Teheran. purché il suo potere militare sia assicurato dalla combinazione delle forze russe e iraniane. Bashar al-Assad ha preso in ostaggio Mosca e Teheran. purché il suo potere militare sia assicurato dalla combinazione delle forze russe e iraniane. Bashar al-Assad ha preso in ostaggio Mosca e Teheran.

Per quanto riguarda l’amministrazione americana di Donald Trump, avrà il suo biglietto d’ingresso per i negoziati di pace solo quando avrà conquistato la fiducia reciproca, rompendo tutta la logica isolazionista. La guerra civile siriana è continuata per più di sette anni e durerà per molti più anni principalmente a causa del regime di Assad, che non smetterà di combattere fino a quando non avrà riconquistato “l’utile Siria”, vale a dire. dire la spina dorsale del paese, ma anche per la prima volta da decenni, spera in tutto il paese, qualunque sia il costo. Continuerà la sua “riconquista” fintanto che beneficerà del sostegno di un solido asse Teheran-Mosca, dal quale rimarrà sempre più dipendente.

L’attore principale nel futuro di questo paese rimarrà la Russia, a condizione che quest’ultimo abbia interesse a rimanere lì e abbia i mezzi per farlo. Al fine di mantenere la sua esistenza, il regime di Assad, in termini demografici e geografici di minoranza, in cerca di protettori, si era lasciato “colonizzare” da Vladimir Poutine, a condizione di mantenere una parvenza di potere politico. Per quanto riguarda la Cina, che non ha interessi strategici nel paese, ha colto l’opportunità della crisi siriana per garantire un possibile accesso alle risorse energetiche della regione e, nell’immediato futuro, stabilire il suo “potere fastidioso” all’interno della comunità internazionale al fine di convincerlo che d’ora in poi dovrà essere preso in considerazione negli affari mondiali.

In Siria, ciò equivarrebbe principalmente a ottenere un disaccoppiamento del regime baathista dall’influenza della Russia e dell’Iran. L’obiettivo sarebbe un prosciugamento dell’aiuto militare fornito da Putin a Bashar Al-Assad da un lato, e dall’altro un arresto del sostegno militare alla ribellione alimentata dall’Arabia Saudita e da alcuni paesi del Golfo sunnita, e un prosciugamento delle forniture di armi dall’ovest. La tensione si ridurrebbe progressivamente di parecchie tacche nel contesto dell’emergere di un “governo siriano di transizione”, mettendo gradualmente a repentaglio Bashar Al-Assad e il suo clan. Un’ipotesi difficile.

https://www.revueconflits.com/livre-moyen-orient-syrie-guerre-bachar-al-assad-daech-eugene-berg/

Lo strano caso Italia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Luciano Barra Caracciolo, Lo strano caso Italia, Eclettica Edizioni, pp. 233, € 18,00

Escono da qualche anno sempre più libri che non “cantano in coro” e sottolineano, anzi, come la globalizzazione e l’euro siano stati, per l’Italia (soprattutto) un cattivo affare.

Questo saggio si distingue già dal titolo e dal sottotitolo. Quanto al primo l’aggettivo strano avrebbe dovuto essere scritto tra virgolette: perché – tanto strano il caso Italia non è (e il libro lo conferma), ma anzi era voluto e prevedibile.

Per il sottotitolo questo è “Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all’emergenza coronavirus”; e il libro è – in gran parte – la dimostrazione che le politiche di austerità hanno provocato – o almeno aggravato decisamente – la crisi in atto (almeno) dal 2008, precipitata ulteriormente con la pandemia.  E così il breviario serve a riportare sulla “retta via”, ben nota agli economisti (non di regime), e a ritrovare le condizioni di compatibilità tra il modello economico-sociale delineato dalla Costituzione e quello emergente dai trattati europei.

L’autore rileva che a seguito dell’adesione all’euro “derivante da trattati e fonti di diritto internazionale (privatizzato) -, e avendo subito la conseguente ristrutturazione del proprio modello industriale e sociale derivante dalla correzione Monti (in poi), l’Italia registra una crescita zero”; questo perché “Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambio, cioè di affermazione del dominio del mercati sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità – divengono recessivi e subordinati alla scarsità di risorse… La globalizzazione è quindi un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare i mercati esteri”. E questo già lo scriveva Friedrich List quasi due secoli fa. E proprio per questo l’economista tedesco, che aveva assai presente funzione, carattere (e primato) del politico, sosteneva che la differenza essenziale tra quanto da lui sostenuto e il pensiero di Adam Smith era che la sua economia era politica cioè in vista dell’interesse, volontà e potenza delle comunità (organizzata – per lo più – in Stati), mentre quella dello scozzese era cosmopolitica (avendo come criterio-base l’interesse individuale).

Una delle conseguenze dell’economia cosmopolitica – nella versione contemporanea di Eurolandia – è di essere, per l’appunto, come sostiene l’autore in contrasto col modello delineato dalla Costituzione “più bella del mondo”.

Scrive Barra Caracciolo “a voler essere benevoli, a partire dal trattato di Maastricht, il modello costituzionale non sia stato rispettato; per espressa previsione delle norme inviolabili, e non soggette a revisione, della nostra Costituzione (artt, 1, 4, 36, 38, 32, 33… quantomeno), l’economia italiana segue il modello keynesiano… sicché esso non tollererebbe (cioè, non contemplerebbe come costituzionalmente legittime) politiche che, sempre per attenersi alle classificazioni e schematizzazioni di questi ultimi, implichino apertamente”, il di esso costante sacrificio. Accompagnato da salmi di giubilo alle regole europee degli eurodipendenti.

La venticinquennale stagnazione italiana è, in senso economico, determinata dalla crisi strutturale della globalizzazione da un lato, e dall’altro dall’impedimento di quelle politiche di sviluppo, dettate dalla nostra Costituzione, ma rifiutate dall’U.E.. Anche se, a quanto pare, dalle trattative sul recovery fund correzioni delle politiche d’austerità (sostanzialmente dannose per l’Italia), è in corso. Ma non si sa quanto efficaci, almeno nel medio periodo, per il nostro paese.

In questo saggio c’è molto, onde non è facile sintetizzarlo. I profili più evidenti ne sono: a) il contrasto tra quanto si sostiene – dagli euro dipendenti – che da un lato si atteggiano a numi tutelari della Costituzione “più bella del mondo”, dall’altra nelle politiche euroasservite ne tradiscono il modello economico sociale, nei suoi caratteri fondamentali, a cominciare dalla tutela del lavoro, che è, secondo l’art. 1 il fondamento (reale prima che normativo) della Repubblica.

Ma questo si comprende bene: élite in decadenza si affidano all’astuzia più che alla forza (Pareto). Come scriveva il segretario fiorentino, il principe deve badare a parere più che ad essere. E il metodo più seguito per farlo è predicare in modo opposto al praticare. La sconnessione tra detto e fatto, tra intenzioni esternate e risultati conseguiti è voluta e tutt’altro che casuale.

La seconda – connessa alla precedente – è la sostanziale assenza (od oscuramento) del dibattito su crisi, cause e responsabilità della stessa. Silenzio assordante fino a qualche anno orsono, un po’ meno dopo che i successi  elettorali dei partiti sovranpopulidentitari hanno certificato che la consapevolezza popolare di cause e responsabilità della crisi, malgrado tutto, determina crisi politiche di livello globale, con sempre più Stati retti e condizionati da maggioranze (o quasi-maggioranze) elettorali sovran-populiste. Economisti di regime, giuristi di palazzo, mass media asserviti l’hanno solo ritardata. Come scrive Barra Caracciolo “tutta la problematica (della crisi)… è completamente assente dalle dichiarazioni programmatiche e dal dibattito politico attuale… Si ha come l’impressione di essere in una realtà parallela, fatta di miopi polemiche di parte e di slogan ripetuti senza comprenderne appieno il significato… E l’Italia non può permettersi di essere raccontata e guidata ignorando la sua natura, la sua vocazione, ben collocata in questa terra, interconnessa con i problemi di una globalizzazione che è stata concepita dai progettisti di Elysium, da spietati Malthusiani, e che ora, nella sua fase discendente, rischia di trascinarsi nel suo “cupio dissolvi”… Parliamone: non lasciamo che discorsi “lunari”, ipostatizzati su un pensiero unico e irresponsabile verso il popolo sovrano, ci facciano suonare, come comprimari, nell’orchestra del Titanic…”. E questo libro è un’ottima occasione per cambiare musica (e orchestra).

Teodoro Klitsche de la Grange

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