Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, I _di Alessandro Visalli

“La costruzione del liberalesimo – Invarianti e variazioni”

 

 

L’importante ed ambizioso libro di Andrea Zhok è uscito nel 2020 per l’editore Meltemi nella collana diretta da Carlo Formenti, “Visioni eretiche”, e di questa collana rappresenta sicuramente una delle pietre miliari. È da lungo tempo che condivido il punto di vista di Andrea e quindi questa lettura che farò, oltre ad essere come sempre influenzata dalle mie idiosincrasie ed orientamenti, ne risentirà. Inoltre, risentirà delle accentuazioni tematiche e delle priorità che reputo (non necessariamente in accordo con l’autore) attuali.

Detto in altre parole, vuole essere, anche qui come sempre, un invito a leggere direttamente il libro e trarne ciò che interessa e non alla sua sostituzione con questo pallido fantasma.

Per la sua complessità ed ampiezza compiremo la lettura di questo testo in tre parti:

  • La prima, questa, tratta del processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici,
  • La seconda, individuerà i “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

Zhok compie un’operazione ambiziosa, come detto, in quanto cerca niente di meno che di comprendere le tendenze di fondo del processo storico nel quale siamo tutti immersi. E lo fa praticando consapevolmente un approccio ricostruttivo che identifica come “filosofia della storia”. Ovvero attribuendo al movimento storico reale un’essenza ricondotta al modello liberal-capitalista che cerca di individuare sul piano della provenienza e delle caratteristiche invarianti. Con le parole di Andrea, intende esaminare il senso del movimento storico come “quel nucleo storico del ‘liberalismo reale’ che ha rappresentato la cellula generativa e il propellente delle maggiori trasformazioni degli ultimi secoli”[1]. Precisamente, “una linea di sviluppo centrale che si è tradotta gradualmente in istituzioni, pratiche sociali, costumi, sistemi economici, manifestando sempre più nettamente il proprio carattere di fondo”. Un carattere che è nominato nel testo come “ragione liberale”.

Due espressioni chiave emergono in questo frammento: “gradualmente” e “sempre più nettamente”. La “ragione liberale”, impegnata in una battaglia mortale con le forme di “ragione” ad essa preesistenti, man mano che vince finisce infatti per eccedere, al fondo distruggendo se stessa come “ragione”. I suoi meccanismi di difesa finiscono per diventare, nel momento in cui si positivizzano, autocontraddittori e mostrano in piena vista il loro carattere ‘negativo’. Questi meccanismi sono: il naturalismo scientifico, il postmodernismo filosofico, il discorso sui ‘diritti umani’, la second-wave femminista, il ‘politicamente corretto’, l’immoralismo postumanistico. Tutte tendenze, è la tesi centrale del libro, che sono “abitate inconsapevolmente dalla ragione liberale”.

Due sono le linee genealogiche che portano alla sedimentazione di questa “ragione” (certo ricostruita con il senno del poi e le urgenze del presente, ovvero politicamente): l’evoluzione del diritto pubblico e dei diritti; la nuova ragione utilitarista e scientifica. Ed uno è il criterio dirimente: il principio di limitazione del governo (cioè la limitazione delle forme di sovranità statuale) senza per questo rifarsi a concetti di giustizia trascendenti, o di verità. Il liberalismo si appoggia piuttosto ad un principio di efficienza immanente, una sorta di iato irrazionale che, in quanto paradossale “regime di verità” finisce per essere una sorte di sotto-prodotto del sistema produttivo che si impone nello stesso arco di tempo. È giusto perché esiste e funziona. Questa teoria è identificata da Zhok come una tendenza, come la trasposizione sistematica delle categorie dell’efficienza economica al campo delle pratiche di governo. Una trasposizione che si autorappresenta come razionalizzazione, ma che è in sostanza vaga e senza fondatori (e coerentizzatori).

Con il senno del poi ne fanno parte (o, meglio, ne costituiscono il profilo):

  • un manifesto individualismo normativo e assiologico,
  • una visione delle relazioni sociali strutturata interamente all’interno dell’idea dello scambio economico. Per dirlo meglio dell’idea che dello scambio economico lo stesso liberalismo ha (e che è molto lontana dalla sostanza di esso[2]).

 

Il primo suppone l’esistenza di diritti soggettivi e concepisce la libertà personale come un’esenzione, ovvero come “non interferenza rispetto a coazioni gerarchiche o condizioni sociali”[3]. Certo, la costituzione degli individui come portatori di autonomia e piena dignità, con una almeno parziale indipendenza dalla comunità di riferimento (nella quale esso, l’individuo, non è completamente immerso ma può concepirsi isolatamente) è un processo che si è dispiegato nella storia dell’occidente, ed è un processo cruciale. Zhok segnala in proposito una sorta di movimento ad onda, la crescita con la cultura greco-romana, la ritirata nel medioevo e poi la riemersione nel rinascimento con continua accelerazione da allora. Essere un individuo significa, in questa tradizione e forma di vita, essere consapevoli di sé come distinti dal mondo circostante, avere introiettato forme dialogiche comuni le quali sedimentano concettualità ed un intero spettro di ragioni socialmente accettabili. Nella ricostruzione prodotta nel libro ciò che fa la differenza, che è questione di gradi, è la scrittura alfabetica (in specie nell’alfabeto greco), che, diversamente dalle scritture logografiche precedenti, o sillabiche, è economica ed enormemente flessibile. Tutto viene infatti costruito a partire da pochissimi segni ed infinite combinazioni. Quindi, mentre la produzione di un nuovo concetto in una scrittura logografica richiede una complessa riforma della lingua ed una nuova convenzione, in una scrittura sillabica esso può emergere dal basso e farsi strada direttamente nell’uso. Tutto ciò amplia enormemente i margini di autonomia:

 

“sul piano dello sviluppo e del riconoscimento dell’individualità cioè, ciò significa che ora la componente di innovazione ed iniziativa individuale acquisisce margini di autonomia straordinari. Anche l’individuo relativamente isolato, relativamente minoritario, può diventare portatore di valore sociale. In certo modo la vicenda della condanna di Socrate appare come l’emblema di questa trasformazione. Socrate, portatore di forme di pensiero innovativo eterodosso, entra in collisione con il senso comune del periodo e con le autorità che lo costituiscono tradizionalmente. Ciò gli costa la condanna come ‘corruttore dei giovani’, condanna che in epoche passate e sarebbe valsa l’oblio, ma che ora, grazie alla scrittura del suo allievo Platone, diviene la mossa inaugurale di una nuova epoca. Socrate, il pensatore che conosce la scrittura, ma che non lascia nulla di scritto, diviene il ‘Santo protettore’ del pensiero critico nei millenni a venire”.[4]

 

Tale condizione ritorna socialmente determinante con l’espansione della forma scritta a stampa. E subisce un ulteriore salto con la riforma protestante. Tuttavia l’individualità, pur promossa dal linguaggio stesso, non può che essere e rimanere strutturalmente intersoggettiva, è una funzione relazionale che dipende dal riconoscimento altrui sia in riferimento alla sua genesi come alla sua persistenza.

 

Il secondo fattore storico è la tecnoscienza. Essa deriva da una svolta che avviene nei secoli del mercantilismo, dell’umanesimo e dello spirito antiautoritario che ne consegue. I quattro snodi sono l’analiticità, la manipolazione causale, la matematizzazione e l’obiettivismo. La natura viene concepita come “cosa”, il mondo reale autentico come matematizzabile e compare l’idea di “legge di natura”.

Infine, un terzo ruolo decisivo lo svolge l’espansione della funzione del denaro come riserva di valore[5], medio di scambio e unità di conto. Di qui il testo si concentra sul mito delle origini del mercato e del denaro stesso, cioè sull’idea che nasca dal baratto senza cornice istituzionale e comunitaria (ovvero senza strutture socialmente determinate e dense di riconoscimento).

 

Tutti questi fattori si addensano tra seicento e settecento, in particolare nella cornice statuale inglese, dove l’individualismo eticamente orientato della riforma protestante, una circolazione monetaria intensa ed i successi crescenti della razionalità tecnico-scientifica (connessi molto più di quanto si pensi con la messa a punto dell’arte della navigazione di lungo corso e con il correlato sviluppo militare) finiscono per portare alla luce, come dice, contemporaneamente la ragione liberale e il correlato operativo dell’economia capitalistica.

 

La lettura della nascita della “ragione liberale” è quindi abbastanza tradizionale. Procede per schematizzazioni delle innovazioni concettuali di eminenti filosofi e studiosi. Thomas Hobbes (1588- 1679) per primo, ovviamente. Per il suo giusnaturalismo la natura non è altro che il luogo delle relazioni meccaniche tra i corpi in moto e il pensiero è calcolo. Ne deriva che la libertà è concepita come assenza di coazioni e la condizione di natura come guerra di tutti contro tutti. Anche il diritto è principalmente la facoltà di seguire le proprie pulsioni e non è sovrapponibile con la nozione di giustizia. La scuola di pensiero che trova una prima sistemazione visibile nel lavoro del grande filosofo seicentesco inglese è “polimorfa”, si nutre di una discrasia che non risolve mai tra le teorizzazioni a vario titolo identificabili come ‘liberali’ e lo sviluppo simmetrico di pratiche sociali, scientifiche ed economiche. Quell’immane processo che nel secolo si può riconoscere tra monetizzazione progressiva, riforme ed indebolimenti della ‘ragione religiosa’ (o sue translitterazioni[6]), emergere del dominio occidentale e del ‘dolce commercio’ come suo centro[7], razionalizzazione operativa e addensamento del paradigma scientifico come nuova verità del mondo, e che Andrea chiama sinteticamente “grande convergenza”, è percepito e quindi teorizzato da alcuni pensatori allo scopo di renderlo intellegibile e legittimo. I poteri verso cui questa operazione scopertamente ideologica e di imprinting giustificativo si oppone sono quelli del passato.

La ragione liberale, dunque, nasce nell’autore dominante di confine tra i due mondi, Hobbes, poi si consolida nelle pagine militanti di John Locke (1632-1704) e, infine, trova una sintesi operativa nel lavoro di Adam Smith (1723-1790).

 

In uno dei passaggi più interessanti del libro Andrea mette a confronto l’idea di diritto naturale del mondo classico con quello del mondo contemporaneo. Per il mondo classico anche nei suoi esempi più eminenti non è la legge a essere scritta nella natura ma sono le idee, i valori, che poi si devono applicare in obblighi specifici negli specifici contesti normativi. L’idea liberale di diritti individuali iscritti nella natura è estranea, quindi, sia al mondo greco, come a quello romano e anche al cristianesimo, nel quale la dignità di ogni singola anima individuale è conferita da Dio e dunque vale solo in relazione alla volontà divina. Invece in Hobbes, e nel successivo pensiero liberale, emerge la pretesa che concetti e regole siano dati nella natura e che da essi debbano essere dedotti o estratti. Questo punto conferisce particolare autorevolezza alle pretese politiche che vengono utilizzate per opporsi al legittimismo monarchico, ma creano anche un problema logico. Come sostiene Zhok un diritto può esistere soltanto come complemento concettuale di un dovere. Se io ho diritto a adottare un certo comportamento o a svolgere una certa azione, sostiene l’autore, “questo implica che qualcun altro ha il dovere di consentirmi quel comportamento e quella azione”. Ma il diritto come libertà dei liberali è solo un impulso individuale dominante che ha poco a che fare con la sfera del dover essere. Invece un diritto come controparte di un dovere ha un carattere essenzialmente relazionale e sociale, non può essere attribuito a un soggetto di principio isolato. Questo tipo di diritto è soggettivo ma può esistere solo in concomitanza con un simmetrico dovere e può esistere soltanto in rapporto con altri individui; dunque, può esistere soltanto nella società e dalla società scaturisce, non dalla natura.

La stessa libertà nel mondo classico era concepibile soltanto in relazione all’ autodeterminazione della città. L’idea di fondo era che la libertà fosse autonomia e autogoverno, capacità di progetto e realizzazione nel contesto della partecipazione alla vita pubblica. L’individuo isolato non era in grado di portare nulla di significativo. Questo concetto di libertà repubblicana è lo stesso di Machiavelli dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, che ispireranno sia il suo concetto di cittadinanza come quello di nazione. Ma a partire da Hobbes tutto il nucleo principale del pensiero liberale intravede un concetto del tutto diverso di libertà. Viene rigettata esplicitamente la concezione di libertà repubblicana, sostenendo che essa concerne solo le comunità e non gli uomini. Al suo posto subentra la nozione di “libertà negativa” che da allora in poi verrà considerata sempre come la nozione fondamentale. Libertà come non interferenza come assenza di ostacoli, come assenza di coazioni. In realtà la nozione di libertà come autogoverno e autonomia cioè come “libertà positiva” include l’idea dell’assenza di coazione ma la percepisce come insignificante la “libertà positiva” in altre parole incorpora la libertà negativa non vi si oppone.

E’ John Locke il pensatore che viene identificato normalmente come il padre del liberalismo. Anche se tutti i concetti fondamentali sono già presenti e sviluppati in Hobbes. La ragione è che in questi si determina un esito assolutistico del pensiero che lo rende poco adatto ad essere padre fondatore del liberalismo. Il Locke tutti gli uomini sono uguali e indipendenti, e “nessuno deve danneggiare nessun altro quanto alla vita, salute, libertà o proprietà”. La ragione che viene fornita per questa affermazione è che gli esseri umani sono inviolabili perché, in quanto essendo creati da Dio, sono di proprietà divina. Dunque fa capolino il riferimento a Dio ma come appello esteriore ad un’autorità che non svolge un ruolo effettivamente fondativo. Questa posizione non argomentata lascia trasparire ciò che il Locke è in realtà la pietra angolare di ogni diritto di natura: ovvero la proprietà.

 

E’ la teoria della proprietà ad essere il centro della filosofia politica di Locke e questa subisce il passaggio cruciale che connette la teoria dei diritti naturali soggettivi con l’approdo economico della ragione liberale. La proprietà originale della libertà attribuita dall’esclusività della proprietà attraverso il lavoro si trasferisce alle cose. Le quali diventano di sua legittima proprietà. Sembrerebbe che su questa linea di ragionamento nessuno possa legittimamente avere pretese di proprietà eccedenti, rispetto a ciò che può adoperare personalmente. Ma immediatamente questa nozione scivola, a causa dell’esistenza del denaro che estende la possibilità di godere di cose anche lontane nel tempo nello spazio e non direttamente prodotte da sé. Il fatto stesso che il denaro funzioni come qualcosa a cui altri attribuiscono valore fa sì che esso legittimi per “tacito e volontario senso” anche uno sproporzionato e diseguale possesso di terra e beni. In questo modo con due passaggi eleganti la giustificazione della società commerciale esistente è compiuta.

Un’argomentazione che lascia molto perplessi sia per la coerenza interna che per la tenuta complessiva. Nel testo di Zhok c’è uno sforzo di mostrare come già il primo assunto (che il proprio corpo rappresenti una proprietà) è un abuso concettuale, in quanto una proprietà come diritto è qualcosa che deve essere riconosciuto da altri mentre il mio corpo è mio in un senso che non ha niente a che fare con la proprietà come diritto. Se avere a disposizione un corpo dalla nascita fondasse diritto in quanto tale non si capirebbe perché non lo fondi per animali e piante, e tutto ciò che con cui loro uniscono la loro attività. In sostanza questa nozione confonde la proprietà come sanzione reale legale, reclamabile di fronte a terzi, con proprietà biologiche che sono solo predicati di un soggetto. Ma questa confusione fa decollare l’intero argomento, perché permette al Locke di concepire il diritto che sussiste in natura senza passare per alcun giudizio sociale. In realtà nel seguito dell’argomento si sovrappone e confonde un piano di giustificazione del tutto diverso. In ultima istanza l’argomento si appoggia sul fatto che la proprietà in forma monetaria garantisce una maggiore ricchezza e un minore spreco per tutti. Questo argomento è di tipo utilitaristico si fonda su un beneficio economico che si presume generalizzato e perciò idoneo ad essere accettato da tutti.

Sarà Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” a fare il passo decisivo e in esso si trovano alcune concezioni che saranno il cuore dell’economia neoclassica: una concezione molto particolare dello scambio individuale auto interessato, il quale sarebbe di per sé capace di condurre il benessere comune; una concezione minimale dello Stato, il quale deve tendere sostanzialmente al limitare il proprio intervento alla difesa della giustizia; una visione storica progressiva, in cui il processo di incremento delle libertà economiche è visto come un orizzonte necessario. In quanto tale fonte di emancipazione. Il benessere comune in Smith emerge quindi come effetto collaterale non voluto da nessuno dell’interazione tra individui auto interessati, ovvero come esito della propensione umana in un passaggio molto famoso a “trafficare, barattare, scambiare una cosa per l’altra”. Un processo spontaneo che poi genera la tendenza alla divisione del lavoro. Si tratta di un’idea semplice ma potente: in uno scambio volontario tra individui è chiaro che ciascuno dei due contraenti intenda e voglia uscire dallo scambio più soddisfatto di come vi era entrato, sennò non lo farebbe, ma questo mutuo beneficio spinge gli scambi volontari ad espandersi. Quanti più scambi quanto maggiore soddisfacimento avrai. Questo determina la divisione del lavoro dove gli argenti si specializzano nel produrre qualcosa, sapendo che poi potranno ottenere ciò che manca dallo scambio con altri. Lo scambio è dunque naturale ed è fondato sulla cooperazione e comunicazione empatica. Oggetto come si sa della “Teoria dei sentimenti morali”. Ma immediatamente l’interazione cooperativa fondata sull’empatia si trasforma in appello all’interesse personale, il quale a sua volta è fondato sulla naturalità dello scambio. Questo passaggio fondativo dell’intera economia liberale indica per Zhok un nesso ambiguo che rimane sottotraccia cioè “l’idea che lo scambio economico sia la prosecuzione naturale delle interazioni cooperative degli scambi umani, culturali, affettivi eccetera. Questa idea che concepisce lo scambio economico come la torre di pace e conciliazione la si ritroverà ancora due secoli dopo in Hayek. La cooperazione si trasforma senza apparente soluzione di continuità in competizione, senza che di questa metamorfosi sia necessario discutere. In realtà, sul piano antropologico e storico si potrebbe agevolmente mostrare come questo passaggio sia uno stravolgimento che coincide con la trasformazione di economie del dono come quelle arcaiche in economia dello scambio”[8].

In sostanza, secondo la ricostruzione del libro, dall’idea hobbesiana e lockiana di un individuo naturale isolato e autofondato si passa prima alla dimensione dell’interazione sociale storica, nel porre l’individuo come portatore di diritti naturali pre politici e pre sociali, e poi nel porre una forma di socialità sui generis, a partire da quel tipo di individuo nello scambio auto interessato che, contro ogni intenzione esplicita, genera spontaneamente benessere comune. Il vantaggio è che non c’è più bisogno di pensare che un accordo sui valori o la definizione di progetti in comune sia alla radice della collettività, ma basta affidarsi al perseguimento del profitto privato e ne scaturirà automaticamente il benessere collettivo.

Le forme della libertà per la ragione liberale sono dunque:

  • libertà negativa,
  • tutela della proprietà,
  • società come composizione di meri individui preesistenti,
  • Stato come regolatore minimo.

Un secolo dopo Smith, in Menger, Walras, Jevons, Marshall, avviene quella che è normalmente concepita come la nascita della scienza economica. Questo passaggio interviene nel contesto dell’ambiente positivista, dunque sulla base della ricerca delle leggi esatte.

Nella rinascita neoclassica abbiamo una nuova scienza sociale che imita le scienze della natura e un modello assiomatico imperniato sul cosiddetto soggetto economico. Sul valore come utilità e sulla relazione come essenzialmente scambio e mercato. Quindi lo spostamento dell’analisi storico-induttiva a quella ipotetico-deduttiva e quindi matematizzabile. Questa svolta nasce sin dall’inizio come una teoria politica in cerca di egemonia e non come una teoria scientifica, quale dichiara invece di essere.

Alla base dell’edificio della scienza economica moderna sta uno schema che è tanto suggestivo quanto forviante, una visione idealizzata antropologicamente fittizia dello scambio volontario tra individui. Il concetto più elementare basilare della scienza economica, infatti, è lo scambio tra agenti economici individuali perfettamente indipendenti che si trovano a interagire liberamente in una transazione per mutuo beneficio, per così dire nel vuoto. Se si assume che i due soggetti pervengano uno scambio volontario per definizione questo è vantaggioso per ciascuno (in quanto altrimenti non acconsentirebbero). Questo vantaggio, che si presenta come appropriazione soggettiva, è concepito sul piano economico come scambio di uguale quantità di valore, ovvero di utilità, e si immagina quindi che dopo ogni scambio volontario la quantità totale di utilità di valore sia accresciuta. Ne segue una importantissima conseguenza: in linea di principio ogni accrescimento o intensificazione degli scambi volontari all’interno di una società promuove un aumento generalizzato del benessere. È questa la “buona novella” incorporata nel pensiero neoclassico e liberale, la promessa di una autoregolazione immanente e per il maggiore bene di tutti. Gli espliciti presupposti teologici dei classici (sia dei giuristi e filosofi, sia dei teologi ed economisti) vengono, per così dire, immersi in una veste scientifica positivistica. Questo schema iniziale viene sviluppato e complicato, raffinato, ma rimane fondamentalmente sempre lo stesso. In Von Mises troveremo l’azione individuale del singolo come una specie di scambio tra sé e sé, dove il soggetto, per esempio, può scambiare il piacere del riposo a quello di un appagamento futuro e quindi impegnarsi nel lavoro attuale. Ogni cosa, ogni rapporto interumano, è letto secondo una chiave di lettura autoreferenziale in cui è sempre in gioco uno scambio nel quale ognuno cerca sempre di ottimizzare essenzialmente il proprio vantaggio. Ogni momento relazionale è reinterpretato come uno schema di incentivi e disincentivi economici soggetti a leggi del tutto simili a quelle del comportamento del consumatore. Così si pone la base concettuale per la teoria microeconomica, costituita da principi che definiscono forme ideali della scelta razionale nei processi di scambio. Assiomi delle preferenze del consumatore che sono essenzialmente quattro: completezza, transitività, non sazietà, utilità marginale decrescente. Struttura minima che garantirebbe il requisito di razionalità di una scelta. Si tratta, tuttavia, di principi manifestamente falsi. Non è vero che per ogni bene economico un soggetto preferirà averne sempre di più piuttosto che di meno; non è sempre vero che il principio di utilità marginale sia decrescente, né un esempio l’accumulazione monetaria; non è sempre vero che ogni coppia di scelte può essere ordinata in termini di utilità, ovvero che ogni scelta è sempre commensurabile in base a un suo contenuto di valore analogo e quindi è sempre anche misurabile.

Questo è uno dei passaggi essenziali e che ha, come dice Andrea, ampie ripercussioni “un conto infatti è dire che in qualunque circostanza noi possiamo comunque operare una scelta senza rimanere in stallo (tra indecidibili potremmo, ad esempio, tirare a sorte). Tutt’altra cosa è affermare che la nostra scelta è stata prodotta sulla scorta di una comparazione quantitativa di una stessa entità (utilità)”.

In realtà, spostandosi sul piano di una descrizione fenomenologica della natura delle scelte reali, si nota come queste non avvengano mai in forma di una comparazione tra piaceri e dolori strettamente intesi oppure genericamente tra sentimenti. Le nostre scelte valutano sempre comparativamente scenari dinamici dotati di senso, cioè sviluppi narrativi di storie possibili. Anche le eventuali componenti di agio e disagio sono definite alla luce di potenziali orizzonti di conseguenze. Ovvero di storie alternative. Il calcolo non ha a che fare mai con comparare pesi diversi, o con computare, ma è una valutazione comparativa immaginaria di situazioni alternative e di opzioni che queste alternative aprono o chiudono. Già nei più elementari assiomi che definiscono la razionalità di una scelta economica sono quindi presenti astrazioni che non sono innocue approssimazioni ma problematiche distorsioni. Come corollario dell’esistenza del mercato, e del modello monetario di valore come effettiva radice dell’impostazione liberale, si ha che la priorità dello scambio auto interessato mette al centro la divisione del lavoro e questo si traduce, dentro la logica dell’impostazione liberale (anzi dell’assiomatica liberale), nella definizione dei principi della concorrenza perfetta. Quelli nei quali un sistema di liberi scambi troverebbe da sé un equilibrio capace di ottimizzare sia l’allocazione delle risorse come l’utilizzo dei fattori produttivi, ovvero la più efficiente divisione del lavoro. Questa idea di mercato perfetto non è solo un’ideale portante della teoria economica neoclassica ma è un modello relazionale generale per tutto il settore del liberalismo politico che concepisce l’intera società essenzialmente come luogo di scambi tra individui. Luogo dove avviene il mutuo vantaggio come esito di ogni scambio che si vorrebbe generalizzato alla totalità delle relazioni sociali nella misura in cui gli scambi possono essere esercitati nelle condizioni del mercato perfetto.

Mercato perfetto significa:

  • massimizzazione, gli agenti economici cercano di massimizzare i propri guadagni;
  • mutua indipendenza delle decisioni, ciascuna decisione è presa da ciascuno indipendentemente da ciò che decidono gli altri;
  • debolezza degli agenti economici, nessun singolo agente è in grado di esercitare una influenza significativa sui prezzi, né come acquirente né come venditore; ci sono sempre una pluralità di agenti economici compratori e venditori;
  • informazione perfetta, ogni agente sul mercato ha informazioni esaurienti circa la natura di sia dei prodotti che dei prezzi;
  • libero accesso, non devono esistere barriere di alcun tipo né all’entrata nel mercato di nuovi produttori o di nuovi consumatori né all’uscita degli stessi;
  • mobilità dei fattori di produzione, i fattori di produzione in un mercato perfetto devono poter essere liberamente riallocati dove forniscono i profitti maggiori;
  • nessuna esternalità, (un’esternalità è un costo generato un’attività economica imposto su soggetti che non hanno scelto di entrare in quell’attività economica, ad esempio l’inquinamento) nel sistema delle libere transazioni sul mercato non ci sono situazioni in cui le esternalità vengono fatte ricadere su soggetti diversi dai produttori o dagli scambiatori volontari;
  • nessun costo di transazione, (i costi di transazione sono tutti i costi necessari per pervenire allo scambio volontario, per esempio il tempo l’impegno adottato per svolgere la trattativa) in un mercato perfetto non ci sono.

Si tratta ovviamente di riconosciute idealizzazioni, tuttavia sono assolutamente determinanti. Nel seguito Andrea si impegna ad analizzarle una ad una, contestando ad esempio rispetto alla massimizzazione l’ideale olimpico di piena calcolabilità e ottimizzazione, opponendovi il lavoro di Herbert Simon sulla razionalità limitata, ma anche, nuovamente, l’idea che la forma delle scelte umane è sempre di essere percorse in una storia; dall’altra parte contestando la mutua indipendenza delle decisioni, che naturalmente non sono individuali e non sono separate le une dalle altre, ma sono sempre intrecciate da componenti relazionali come ‘imitazione’, ‘emulazione’, ‘invidia’, ‘competizione’. La normatività del mercato perfetto che naturalmente il fenomeno dei monopoli contesta in radice. L’importanza delle istituzioni come messo in evidenza dalla scuola di North per il quale vincoli morali le lealtà interpersonali, il senso del dovere sono da intendere come espedienti necessari per consentire alle relazioni di mercato di funzionare.

In sostanza l’economia neoclassica che pretende scientificità ha creato una nuova visione del mondo la quale riduce alla propria concettualità normativa intere aree che prima erano analizzate con strumenti diversi.

 

Questo processo di estensione delle categorie dell’economica ad ogni campo dell’agire umano è una forma di imperialismo. Entità tipicamente extra economiche, come la morale, i costumi e lo Stato, sono rilette in modo da concepirle come soluzioni a problemi definiti da imperfezioni del mercato, immaginato come originario. Il fatto che questa evoluzione sia totalmente falsa sul piano storico antropologico è ritenuto irrilevante. Il fatto che un mercato possa esistere solo in presenza di una preesistente cornice di tutela legale e quindi in uno Stato e in presenza di soggetti rispettosi della legge e delle norme sociali, oltre che delle norme sociali connesse, è considerato irrilevante. A causa di tutti questi slittamenti interpretativi le idealizzazioni che definiscono la cornice dello scambio del mercato si trasformano tacitamente in forme utopiche da perseguire, producendo una metamorfosi dell’esperienza primaria di ciò che ci si presenta come dotato di senso ed alimentando una prospettiva nichilistica di svuotamento di tutto ciò che ha valore.

Nella prospettiva citata il denaro e il piacere sono entità strutturalmente indifferenti al modo in cui sono ottenute, indipendenti da buone o cattive ragioni, e funzionano in modo indifferente alla sfera dei significati condivisi o alle prospettive di senso comuni. Si tratta di un impoverimento etico che lascia tracce visibili già nello stesso modo di pensare di chi viene addestrato agli studi economici. Una forma mentis che consentiva, ad esempio, a Gary Becker di parlare senza alcuna ironia dei figli come di “beni durevoli del consumatore”. In sostanza, seguendo questa logica non è affatto incomprensibile supporre che le motivazioni autentiche non possono che essere quelle egoistiche. Questa tradizione capovolge il senso vissuto delle esperienze umane, invertendo sistematicamente i mezzi con i fini. Il capitale stesso come mezzo universale, che può essere impiegato a qualunque cosa senza per determinarne alcuna, diventa il fine ultimo. “La prospettiva esistenziale aperta dall’imperialismo concettuale della teoria economica neoclassica è dunque quella distopica di un rigoroso nichilismo: una visione del mondo dove il calcolo ottimizzata riempito ogni interstizio, mentre la riflessione sulle buone, o meno buone, ragioni del perché calcolare e perché ottimizzare sono lasciate a una landa desolata di idiosincrasie private ed arbitrarietà”[9].

 

Nela Sezione Quarta, che riveste significativo interesse ma per ragioni di economia dello spazio non può essere ripercorsa analiticamente, il testo si concentra nel racconto del quadro storico nel quale la caratterizzazione del liberalismo (nella Seconda e Terza) trova forma. Nel passaggio dal medioevo all’età moderna il collante sociale determinato dalla religione e dall’ordine feudale (o meglio dagli ordinamenti del feudalesimo) viene sostituito e integrato entro la forma vincente dello Stato-nazione (emerso in un lungo periodo che va dal XII secolo al XV e XVI). La pace di Westfalia (1648), punto di condensazione tardo di questo processo, vede infine venire meno la coincidenza tra Stato e proprietà individuale del sovrano e dei suoi lignaggi. Fino alla rivoluzione francese che lo recide con un atto di simbolica (ed effettiva) nettezza. In questo lunghissimo processo emerge la necessità di un collante alternativo nella “nazione”. Ovvero nell’esistenza di confini e di omogeneità culturale.

Le istanze delle cosiddette “rivoluzioni”[10] settecentesche, note come “borghesi”, spostano la sovranità verso il “popolo”[11], aprendo la questione sulla quale l’intero ottocento si impegna (e buona parte del novecento, in effetti fino ad oggi) su “cosa precisamente conti come popolo, e come debba esprimersi istituzionalmente”. Nascono due istanze simultanee, ma non coincidenti, l’idea di popolo-nazione e quella di sovranità popolare, da una parte (con il potenziale di democratizzazione, o l’arena della democrazia), e, dall’altra, l’idea liberale di una società interamente coordinata dai principi della libertà personale e del libero scambio. Due prospettive, e questo è politicamente sia importante sia fonte di equivoci, “storicamente alleate nell’opporsi ai poteri tradizionali basati sulle legittimità dinastiche”[12]. Nel secolo seguente si assiste al consolidarsi prima dello Stato nazione e poi dello Stato imperialista, a seguito della crisi economica del 1870, sempre più aggressivamente orientato versi i rivali. Il successivo collasso dello Stato liberale (a seguito di un settantennio di grandi guerre) porta alla soluzione mista ed al trentennio di crescita che ne segue. Il neoliberismo, infine, è riassunto sulla scorta della lettura di Dardot e Laval[13] e la ripresa trasformante delle vecchie idee liberali.

 

La “Ragione liberale” è organizzata quindi da alcune tendenze strutturali e ideologiche le quali producono nel loro complesso il dispiegarsi dell’ordinamento neoliberale (che Zhok considera completamente e logicamente connesso alla linea interna di sviluppo storico del liberalesimo).

In primo luogo, come abbiamo visto, si può dire che per la ragione liberale lo scambio volontario è di per sé stesso fonte di benefici e che perciò la sua intensificazione diventa un’ideale normativo. Questo ideale normativo è il tratto fondante dell’odierna scienza economica e pone il mezzo dello scambiare come fine. Nel momento in cui si pone lo scambio come punto fermo e cardine intorno al quale tutto gira, tutto diventa in linea di principio mobile o negoziabile. Da questo ideale normativo discendono tantissime conseguenze. La più importante è che il modello incoraggia sistematicamente la flessibilità e ovviamente rende ottimale per il datore di lavoro pagare il lavoratore solo nel momento in cui produce qualcosa di vendibile. Questa idea di flessibilità lavorativa, però, è anche concepita dal liberalismo come fattore di emancipazione individuale, in quanto anche il lavoratore si sente “più libero” in queste circostanze. L’emancipazione individuale come libertà dalla costrizione esterna è, come visto in precedenza, parte integrante dell’ideologia del “Nuovo spirito del capitalismo[14] descritto da Boltanski e Chiappello, nel quale libro viene presentato come una forma nuova, più dinamica, più moderna di concepire il lavoro. Una forma che celebra la libertà individuale di tutti gli attori economici che è proposta a partire dagli anni 70, in esplicita contrapposizione al vecchio modello welfarista, interpretato come gerarchico, padronale, taylorista. Il piano di fondo è che i contraenti hanno, però, livelli molto diversi di potere contrattuale e, quindi, il guadagno reciproco è una mera finzione. Solo per alcuni molto richiesti e molto qualificati, le star, la conservazione di un’ampia autonomia contrattuale può determinare un rapporto di forza favorevole (pensiamo ai calciatori dopo la sentenza Bosman) ma per altri, ovvero per la grandissima maggioranza dei lavoratori, questo sistema relazionale fluido e libero diventa perenne mantenimento sotto ricatto. Inoltre, la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro comporta discontinuità di risorse economiche, ma comporta anche una discontinuità territoriale, cioè mobilità che, essa stessa, ostacola il radicamento in un territorio. Ostacola la formazione di una famiglia, ostacola la costruzione di reti di mutuo soccorso basate sulla consuetudine e sulla frequentazione. Inoltre, il processo di flessibilizzazione, come ricorda Sennett, produce una profonda erosione dello stesso carattere degli agenti coinvolti, cui è preclusa la possibilità di percepire forme stabili di appartenenza, di consolidare abilità o competenze, di stabilire lealtà di lungo periodo. I soggetti umani si percepiscono sempre più essi stessi come mezzi intercambiabili a disposizione di un meccanismo esterno ad essi, sul quale non possono agire, che funziona per la riproduzione del capitale. Il centro della scena lo prende il denaro. Dunque, in questo senso, la flessibilizzazione, la finanziarizzazione sono processi sia paralleli come complementari. La flessibilizzazione impegna le società, le aziende, le persone, che riducono la durata e la continuità dei rapporti di lavoro. Favorisce il ricorso all’estrazione di servizi, diluisce le responsabilità ed estende le reti di relazioni funzionali al capitale su territori molto ampi. Questa caratteristica rende centrale l’aumento del peso del capitale liquido finanziario, rispetto a ogni forma di proprietà reale. Il capitale finanziario può entrare ed uscire agilmente da ogni situazione produttiva, può estrarre il massimo profitto, può evitare ogni impegno a lungo termine. Questa forma di capitale è espressione di uno spostamento massivo dei profitti dalla produzione di beni alla finanza che è avvenuto a partire dagli anni 80. La mobilità del lavoro si esprime sia come l’abilità delle condizioni di lavoro, cioè come flessibilità, che come spostamento fisico alla ricerca dei posti di lavoro, cioè dei luoghi in cui il capitale ha investito. Dunque, i processi migratori internazionali, e i processi migratori internazionali, sono un fenomeno strutturale spontaneo del dominio del capitale finanziario e sono l’immagine allo specchio della sua capacità di spostarsi liberamente.

Più in profondità, il testo sottolinea come non abbia tanta importanza stabilire di quali valori si tratta, quando si consideri che nel mondo contemporaneo l’azione di valore e il potere sugli altri sono strutturalmente disaccoppiati, ma che l’ordinario funzionamento del denaro in un sistema di mercato mina qualunque criterio etico si voglia considerare giustificato. Se, ad esempio, assumo come valida un’etica cristiana, o la vecchia etica eroica, una kantiana o comunista, o qualunque altro sistema normativo che sia in grado di valutare, discernere, distinguere, le azioni buone dalle azioni cattive, in tutti questi casi il funzionamento normale dei meccanismi di arricchimento in un sistema di mercato ne prescinderà. Il potere interpersonale verrà attribuito dallo stesso possesso del denaro, indipendentemente dalla legittimazione ad averlo. Si tratta di una dinamica profonda e consolidata che spezza una delle dimensioni etiche fondanti la società, quella che Andrea Zhok chiama “la continuità temporale delle azioni”: “il denaro, in quanto potere su altri, distacca il passato dal futuro, cioè distacca i ‘meriti’, gli ‘sforzi’, le ‘intenzioni’, le ‘regole’, le ‘promesse’ dalla disponibilità di potere e di status futuro. L’origine del denaro posseduto è irrilevante quanto alla sua capacità di esercitare potere. Il denaro è potere indipendentemente dalla sua legittimazione”[15].

In altre parole, se il denaro conferisce un potere significativo sugli altri, e lo fa tanto più quanto maggiore il suo potere, ogni azione che veicoli successo economico, ovvero che generi successo economico diventa neutra, è sdoganata, neutralizzata. Si può ottenere denaro tramite la corruzione, la prostituzione, il furto, l’omicidio, oppure l’opportunismo, tutto è giustificabile in vista del riconoscimento socialmente conferito dal potere del denaro. Chi è in possesso di molto denaro ottiene, di per sé, uno status sociale e, se proprio necessario, si può sempre spostare dove non è noto che l’ha ottenuto in modo fraudolento. Ciò determina particolare importanza all’apparenza, all’immagine. E queste dinamiche determinano uno strutturale ‘presentismo’, il disseccamento di ogni prospettiva di lungo periodo sul piano sia economico, sia sociale, come antropologico. Infatti, nel momento in cui il potere presente, cioè la disponibilità economica di fatto in questo momento a mia disposizione, può esercitarsi in modo efficace senza tener conto della provenienza dello stesso, cioè del passato, allora anche l’investimento sul futuro è scarsamente motivato. Dopo tutto, come sottolinea acutamente Zhok, nel futuro anche il mio presente sarà un passato. O, dicendolo diversamente, qualunque impegno presente non conta nel futuro. Ciò produce un tendenziale disgregamento del senso temporale delle azioni.

Né aiutano, fondamentalmente, i molti e diversi tentativi per fondare su una base antropologica, o etica, più solida le prospettive liberali. Se anche si volesse superare l’apparentamento all’ utilitarismo, come in molti casi si è tentato a partire dagli anni 70, non muta la prospettiva di fondo. I tentativi illustri da John Stuart Mill a Busanquet, o T.H. Green, a Rawls, di produrre un’etica perfezionista si sono scontrati e si scontrano sistematicamente con la realtà sociale che la ragione liberale promuove. Che la ragione liberale, cioè, promuove tacitamente e instancabilmente. Ogni auspicio di forma di vita all’altezza delle proprie potenzialità, capace di libero sviluppo e di perfezionamento, rimane in sostanza un vagheggiamento se inserito in un sistema affidato al dominio delle transazioni autointeressate e quindi sfociante per logica interna nell’imperialismo economico.

Ma se durante le prime fasi del lungo percorso storico che precede l’emergere delle ragione liberale si può dire che l’autonomia, l’autocontrollo, la responsabilità e le capacità degli individui si siano davvero rafforzate questo processo di autonomizzazione individuale, legato in varia forma al ruolo sociale di alcune pratiche di scrittura, a partire dall’ottocento inizia a mostrare alcune criticità. Queste si manifestano, in primo luogo, negli ambienti più avanzati delle realtà urbane dell’Europa alla fine del secolo, anzi dalla metà del secolo, che anticipano il quadro che osserveremo un’epoca neoliberale. Qui fanno sistema le varie forme di sradicamento e d’isolamento implicite nella logica liberale perché, portano oltre il limite quell’illusione tipica dell’individualismo la quale porta a ritenere che l’identità del soggetto sussista in modo indipendente dalle relazioni in cui sono emerse le relazioni di riconoscimento personale, le relazioni di adesione culturale e dedizione. Quel che avviene in realtà è il contrario: ognuno di noi si identifica spontaneamente in varia misura con la propria collocazione intersoggettiva occupazionale e culturale, noi ci sentiamo sempre qualcosa. Italiani o francesi, commercianti o professori, cittadini o uomini della campagna, talvolta più di queste cose insieme. Anzi in genere più di queste cose insieme. E’ questo che ci orienta le nostre scelte, non è la mera e fredda logica del calcolo razionale. Chiedersi, e questo è molto importante, che cosa penserei o che cosa vorrei, a cosa darei valore, se fossi un’abitante dell’Africa interna, oppure un guerriero giapponese del sedicesimo secolo, o un crociato medievale, è semplicemente una domanda oziosa. In totale assenza dei retroterra esperenziali, sociali, operativi, culturali, della traiettoria di crescita della personalità e delle esperienze nel loro sedimentarsi narrativo non posso avere la più pallida idea di cosa sarei, e quindi di cosa mi potrebbe passare per la testa. Il mero fatto di avere il medesimo corpo o di essere capace di ragione non determinerebbe come utilizzerei quel corpo o quella ragione. Dunque, anche sotto questo profilo, il sistema di relazioni che è alimentato dall’estendersi delle relazioni di mercato in ogni ambito della vita finisce per essere un fattore patogeno dal punto di vista psicologico. Invece di rafforzare le personalità le destabilizza. Finisce per attivare una sorta di individualismo senza individualità, fondato su precarietà, ricattabilità, insicurezza, isolamento. Un individualismo nel quale la formazione è sistematicamente svalutata e nel quale ogni relazione solida e sistematicamente disciolta. L’individualità neoliberale è, come dice Zhok, “insicura, superficiale fino all’inconsistenza, organicamente sfruttata, incapace di azioni collettive, e di iniziative di ampio respiro, ma anche rabbiosamente gelosa della propria presunta indipendenza rispetto a ragioni esterne, vissute come invasive”.

Svolge particolare rilevanza in questo contesto e stile di vita il consumismo, cioè la funzione di controllo ed esercizio di potere fornita dal momento dell’acquisto. Esso diventa una sorta di protesi dell’anima, un esoscheletro che sostiene una personalità debole la quale ha bisogno, profondamente bisogno, di essere sempre e compulsivamente confermata nell’esercizio del potere. Precisamente nell’esercizio di quella forma di potere pervasivamente presente, e organizzante il sociale, dato dal denaro.

Ma questo finisce per tradursi nella disgregazione delle comunità umane. Una disgregazione che avviene sia verso l’alto come verso il basso; più esattamente i vincenti escono dall’alto e i perdenti escono dal basso. Domina comunque ovunque lo sfruttamento. L’esito è la perdita dell’unità sociale l’impoverimento del tessuto morale, il dominio di dinamiche desocializzanti e la valorizzazione sistematica dei comportamenti da freerider che sono un necessario correlato della personalità neoliberale.

Deriva anche da tutto ciò il degrado della funzione pubblica ed infine il degrado ambientale.

 

Con l’insieme della grande convergenza da Hobbes agli ultimi esiti contemporanei lo Stato neoliberale è divenuto ormai solo una funzione accessoria e accudente il mercato. Contemporaneamente viene delegittimata ogni pretesa normativa e aumenta la necessità di controllo, si attivano meccanismi di pressione selettiva e di svuotamento democratico. La questione fondamentale è che nel processo di distruzione dei valori dell’essere, delle identità, del limite, la ragione liberale non possiede al proprio interno alcun fattore di contenimento, non è in grado di esercitare alcuna misura.

 

Nella seconda parte di questa lettura vedremo come, su questa base, si affermano e vengono imposti dei veri e propri “regimi di ragione” altamente pervasivi.

 

[1] – Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020, p. 10

[2] – Vedi Polanyi e Mauss

[3] – Zhok, p.23

[4] – Zhok, p. 32

[5] – Si veda, dello stesso autore, Andrea Zhok, “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo”, Jaca Book, 2006.

[6] – Hugo Assmann, Franz Hinkelammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”,

[7] – Fase mercantilista dello sviluppo del capitalismo.

[8] – Zhok, cit, p. 79.

[9] – Zhok, p.122

[10] – Sulla imprecisione nel definire “rivoluzione” quella americana, o nel definirla al singolare, si veda Alan Taylor, “Rivoluzioni americane”, Einaudi 2017 (ed.or. 2016).

[11] – Né nell’una, né nell’altra si chiama “popolo” la generalità della popolazione, ed in particolare in nessun caso ciò avviene in quella americana. Si veda, ad esempio, Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, Il Mulino, 2010 (ed. or. 1997).

[12] – Zhok, p.128, si veda Jean-Claude Michea, “L’impero del male minore”, Ore, Milano, 2008 (ed. or. 2007).

[13] – Pierre Dardot e Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi 2013 (ed. or. 2009)

[14] – Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis, 2014 (ed.or. 1999).

[15] – Zhok, p. 166

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GAETANO MOSCA E LA “DISPARITÁ DELLE ARMI”, di Teodoro Klitsche de la Grange

GAETANO MOSCA E LA “DISPARITÁ DELLE ARMI”

Anche nelle recenti norme per i sostegni al COVID-19 abbiamo avuto la conferma, perfino da un governo non cosi scrauso come quelli che l’hanno preceduto (da Monti in poi), di quanto la “parità delle armi” tra cittadini e pubbliche amministrazioni sia invisa alle burocrazie italiane (e non solo a loro).

Vi si legge infatti che qualora sia richiesto ed ottenuto dal privato un contributo non spettante l’Agenzia delle Entrate recupera il contributo irrogando le sanzioni in misura corrispondente a quelle previste dall’art. 13, comma 5 del D.lgs. n. 471/1997, e applicando gli interessi dovuti dall’art. 20 del D.P.R. n. 602/1973 (interessi nella misura del 4%); ma se il contributo è percepito in misura superiore a € 3.999,30, è sanzionato anche penalmente con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Fin qui nihil novi; come al solito, la p.a. fruisce del privilegio di autotutela (e autodichia), cioè di accertare (tra l’altro) che il fatto sia avvenuto, che sia un illecito, nonché la misura della sanzione da applicare. Tutte cose che ad un privato – e giustamente – sono inibite, di guisa che è costretto a pagare all’uopo l’avvocato per rivolgersi al giudice.

L’enorme disparità tra le parti è evidente: al privato che sbaglia (o imbroglia) si applicano le sanzioni; ma se a farlo è il funzionario non c’è una sanzione specifica che il legislatore si sia preoccupato di istituire nel decreto sostegni. Ne è facile ricondurre la consueta pigrizia della p.a., a specifiche ipotesi di reato.

A tale proposito è il caso di ricordare quanto scriveva Gaetano Mosca sull’Habeas Corpus. Sosteneva che tale legge “tutela i cittadini inglesi contro gli arresti arbitrari e contro le lunghe detenzioni preventive in attesa di giudizio in modo così pratico ed efficace che non è stato possibile in nessun altro paese, e neppure nel secolo XIX, fare di meglio” e la norma di chiusura dell’Habeas corpus sanziona “ogni ufficiale di polizia, magistrato o carceriere, che violi in qualunque modo l’Habeas corpus, deve pagare, ognuno per contro proprio, un indennizzo di cinquecento sterline alla parte lesa”1. E notava come “efficacissimo strumento di tutela della libertà individuale si è sempre dimostrata la disposizione contenuta nel comma quarto, che stabilisce la responsabilità diretta e pecuniaria dei pubblici funzionari”.

Tale considerazione del grande scienziato politico è da valutare seriamente anche oggi: se proprio non è possibile (ma almeno in parte lo è) evitare, o almeno ridurre, le sanzioni (unilaterali) a carico dei privati; almeno ne siano previste di corrispondenti per comportamenti analoghi dei dipendenti pubblici. In fondo, scriveva Carnelutti, la funzione della sanzione nel diritto è “rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve”. Per cui a contrario se non si sanziona il comportamento del funzionario ciò significa che non lo si vuole disincentivare, o, quanto meno che il problema non interessa (ai governanti).

Anzi, preme il contrario: il funzionario che non risponde della proprie azioni od omissioni, è più incline a comportamenti “in linea” con il vertice politico che non sempre sono conformi al diritto vigente.

D’altra parte ci sono voluti secoli per abolire la tutela del funzionario attraverso la “garanzia amministrativa” (su cui ironizzava Tocqueville), cancellata dalla Corte Costituzionale solo negli anni ’50 del secolo passato; e non aspettiamoci che norme così favorevoli ai governanti e al loro aiutantato (Miglio), possano essere abolite o ridimensionate senza una lotta dura (e lunga).

La quale deve partire dalle idee; ho ricordato Mosca, come in altri articoli Orlando o Pareto, e non a caso. Se Mosca e Pareto sono considerati (o almeno tra) i padri della scienza politica moderna, sarebbe il caso di seguirne i consigli. E soprattutto non cadere nel sacco delle argomentazioni contrarie (usuali in casi del genere): che così non si può più governare, che i funzionari non firmeranno niente, ecc. ecc.

Non si capisce, se fosse vero ciò (fino ad un certo punto lo è, e l’ho spiegato altrove), per quale ragione stiano ottimamente in forma altri Stati, in primis la Gran Bretagna che delle disparità tra governanti e governati hanno fatto un uso tutto sommato moderato.

A sentire certi sermoni – e se questi fossero veri – la Gran Bretagna avrebbe dovuto essere da secoli una provincia della Francia (o della Spagna), perché impossibilitata a mantenersi come Stato (indipendente). Invece, malgrado l’Habeus corpus e il Bill of rights ha costruito e gestito un grande impero ed è sempre stata in-dipendente. Anche negli ultimi anni con la Brexit ha dato prova di volere un destino nazionale. E che gli istituti a tutela delle libertà individuali non impediscono – almeno nel lungo periodo – indipendenza nazionale ed efficienza pubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

1 V. Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912, pp. 46-47.

Semiconduttori: la ricerca della sovranità (2/5), di Gavekal

I semiconduttori rappresentano la principale sfida tecnologica per gli anni a venire. Sono essenziali per lo sviluppo della tecnologia digitale e dell’industria, e quindi dell’economia. La Cina è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Taiwan. Catturare il mercato dei semiconduttori è quindi una sfida importante per la sovranità dei paesi.

ultimo di cinque articoli 

 

Traduzione di conflitti Articolo di Dan Wang originariamente pubblicato sul sito web di Gavekal

2. La politica di supporto dei semiconduttori

 

Non è per mancanza di tentativi che la Cina occupa una posizione modesta nell’industria globale dei semiconduttori. Dagli anni ’80, il governo ha attuato varie politiche per promuovere i semiconduttori. All’inizio degli anni 2000, Pechino ha sovvenzionato le fonderie nazionali, tra cui Semiconductor Manufacturing International Corp. con sede a Shanghai, per competere con TSMC. Questa politica di promozione delle fonderie non ha avuto successo: SMIC è solo un decimo delle dimensioni di TSMC ed è stata superata da Samsung diversi anni fa e la quota della Cina nei ricavi globali delle fonderie è rimasta al di sotto del 10%. Ma non ha nemmeno completamente fallito. SMIC è la quinta fonderia al mondo e, pur non essendo mai stata al passo con il progresso tecnologico, ha mostrato tenacia nel non restare indietro.

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Altre politiche non erano mirate direttamente ai semiconduttori, ma hanno contribuito a creare un mercato dinamico e un ambiente di produzione per l’elettronica. Questi includono la campagna di “informatizzazione” iniziata nei primi anni ’90 e finalizzata all’informatizzazione di tutte le funzioni del governo e alla costruzione di moderne reti di telecomunicazioni. Questo orientamento verso le reti e la prima focalizzazione sulla telefonia mobile hanno contribuito all’ascesa di aziende nazionali di apparecchiature per le telecomunicazioni, guidate da Huawei, che è passata dall’essere un grande acquirente di chip ad essere un importante acquirente di chip. sistemi attraverso la sua controllata HiSilicon. La Cina era probabilmente condannata ad avere comunque una grande industria elettronica. Ma nella misura in cui la politica del governo ha svolto un ruolo, questo sviluppo dell’ecosistema ha avuto un impatto maggiore rispetto al supporto specifico per i semiconduttori, che è stato piuttosto inefficace.

 

Attraversa il Rubicone

 

La politica dei semiconduttori ha preso piede nel 2014, con la pubblicazione di linee guida per promuovere lo sviluppo dell’industria nazionale dei circuiti integrati. Qualcosa del genere era probabilmente inevitabile dato il desiderio di lunga data della Cina di essere indipendente e di occupare una posizione di leader nelle tecnologie di base, ma il pungiglione immediato potrebbero essere state le rivelazioni di Edward Snowden nel 2013 sulla raccolta di spionaggio informatico statunitense, che ha reso i cinesi Il governo comprende il rischio per la sicurezza nazionale di un’eccessiva dipendenza dall’hardware tecnologico delle società statunitensi.

Le linee guida nazionali IC stabiliscono obiettivi di produzione per l’industria dei chip e stabiliscono un piccolo gruppo guidato dal governo per supervisionare lo sviluppo del settore. Ancora più importante, hanno creato un ampio meccanismo di finanziamento e incoraggiato le aziende cinesi a effettuare acquisizioni internazionali in modo aggressivo.

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Il fondo di finanziamento più ovvio è stato il National Integrated Circuit Fund da 139 miliardi di RMB (20 miliardi di dollari USA), istituito nel 2014 dal Ministero delle finanze e dal Ministero dell’industria e della tecnologia, con il contributo di otto gruppi di imprese pubbliche. Una filiale della China Development Bank è stata nominata per gestire il fondo. Il Fondo nazionale CI ha raccolto una seconda tranche di 200 miliardi di RMB (29 miliardi di dollari USA) nel 2018. Molti governi locali hanno istituito i propri fondi CI, che sono più difficili da tracciare ma possono avere un capitale totale più importante del fondo nazionale. Questo modello di “fondo di orientamento industriale” gestito dallo stato si è diffuso rapidamente in altri settori. Grazie a questo generoso finanziamento,

 

I fondi di orientamento non sono l’unico meccanismo di sostegno pubblico. Le sovvenzioni dirette sono un altro, e sono state particolarmente importanti per lo SMIC, che ha registrato 300 milioni di dollari in contributi pubblici nel 2019, una cifra equivalente al 10% del suo reddito totale e superiore all’utile netto dell’anno. Nel complesso, tuttavia, Pechino fa molto meno affidamento su sussidi espliciti che su supporto implicito, principalmente consentendo alle aziende di accedere a finanziamenti azionari e di debito a un costo inferiore rispetto al mercato. Parte di questo aiuto è fornito dai fondi di orientamento CI, ma alcuni non lo sono, come i prestiti a basso costo o l’acquisto di obbligazioni da parte delle banche statali.

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L’importanza del capitale a buon mercato

 

Uno studio dell’OCSE sui sussidi globali ai semiconduttori ha rilevato che durante il periodo 2014-18, i sussidi diretti a quattro importanti società cinesi di circuiti integrati hanno rappresentato il 5% o meno dei loro ricavi. Una stima bassa suggerisce che l’accesso al capitale a buon mercato ha almeno raddoppiato il livello di sostegno pubblico per tutte le imprese. Secondo l’alta stima dell’OCSE, l’accesso al capitale a buon mercato avrebbe potuto aumentare il sostegno statale per il salario minimo e Tsinghua Unigroup rispettivamente al 40% e al 30% del loro reddito.

 

Questi livelli di supporto sono molto più alti, in relazione ai ricavi aziendali, rispetto a qualsiasi altro gruppo di società CI nel mondo. Per le altre 17 società non cinesi nello studio dell’OCSE, il sostegno statale da tutte le fonti è compreso tra l’1% e il 5% delle entrate e difficilmente proviene da capitali a basso costo. Al di fuori della Cina, la stragrande maggioranza degli aiuti pubblici assume la forma di agevolazioni fiscali: crediti per spese o investimenti in ricerca e sviluppo, aliquote ridotte dell’imposta sulle società, ecc.

Ma date tutte le preoccupazioni sul sostegno statale cinese ai semiconduttori, vale la pena notare che l’OCSE ha affermato che i maggiori beneficiari di agevolazioni fiscali e sussidi diretti, in dollari assoluti, erano tutti non cinesi: Samsung (8 miliardi di dollari), Intel ( $ 7 miliardi), TSMC (US $ 4 miliardi), Qualcomm (US $ 3,8 miliardi) e Micron (US $ 3,8 miliardi) US). Gran parte di questo sostegno non proviene dai governi dei paesi di origine delle società: queste multinazionali sono abili nell’ottenere incentivi dai governi dei vari paesi in cui operano, compresa la Cina.

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Per Tsinghua Unigroup e SMIC, il sostegno diretto al budget attraverso sovvenzioni e crediti d’imposta è stato molto inferiore: 1,5 miliardi di dollari e 1 miliardo di dollari rispettivamente. Tuttavia, l’accesso al capitale a buon mercato è stato in grado di aumentare il sostegno effettivo totale rispettivamente a $ 10 miliardi e $ 6 miliardi. Il massiccio sostegno della Cina alle sue società nazionali può quindi essere inteso in parte come uno sforzo di recupero in un settore in cui gli operatori storici, enormi e potenti, operano su scala globale, possono trarre vantaggio dai regimi di sovvenzione in molti paesi. molti paesi e hanno significative basi di reddito da cui finanziare le loro spese di investimento e ricerca e sviluppo.

 

Un mandato di fusione e acquisizione

 

Fin dall’inizio, i politici cinesi hanno riconosciuto che anche con un forte sostegno pubblico, i produttori di chip nazionali avrebbero difficoltà a crescere rapidamente in molti segmenti. Quindi hanno esortato le aziende cinesi ad acquistare società straniere la cui tecnologia non potevano replicare. Ciò ha portato a una serie di tentativi di acquisizione tra il 2015 e il 2018, con offerte cinesi su Micron, Western Digital, Aixtron e altre società di semiconduttori negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Praticamente nessuna di queste acquisizioni ha avuto successo, con molte bloccate dai governi dei paesi target. Il loro impatto principale è stato quello di provocare una reazione protezionista, soprattutto negli Stati Uniti.

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Un ultimo pezzo della politica sui semiconduttori che ha ricevuto molta più attenzione di quanto dovrebbe essere una serie di obiettivi di quota di mercato digitale pubblicati nei piani Made in China 2025.e varie roadmap tecniche di supporto. Questi includono l’obiettivo del 40% di autosufficienza nazionale in “componenti di base” entro il 2020, che salirà al 70% nel 2030, e obiettivi di quota di mercato per i produttori cinesi di circuiti integrati. in Cina (41-49% entro il 2020, 49- 75% entro il 2030) e nel mondo (15-21% nel 2020, 21-34% nel 2030, o anche di più). Questi obiettivi dovrebbero essere presi sul serio – come una dichiarazione dell’intenzione generale che le aziende cinesi dovrebbero migliorare la loro tecnologia e aumentare la loro quota di mercato – ma non letteralmente. Nei documenti originali, spesso non viene specificato quali siano i valori di riferimento, né se gli obiettivi si riferiscono alla produzione basata in Cina (indipendentemente dalla proprietà) o alla produzione di imprese di proprietà cinese. La domanda per l’industria cinese dei semiconduttori non è se sta raggiungendo questi obiettivi arbitrari e mal definiti, ma quanto velocemente sta migliorando le sue capacità e in quali segmenti.

https://www.revueconflits.com/2-semi-conducteurs-la-quete-de-la-souverainete/

Cina, Russia e la strategia dell’indirizzamento, di George Friedman

Cina, Russia e la strategia dell’indirizzamento

Di: George Friedman

L’Europa è stata il principale campo di battaglia della Guerra Fredda. La NATO ha adottato una strategia difensiva perché non vedeva alcun valore nella conquista dell’Europa orientale e della Russia occidentale. I sovietici, tuttavia, avevano interesse a garantire la penisola europea per proteggere la sua frontiera occidentale e sfruttare la tecnologia e le capacità navali dell’Europa occidentale. Mosca però non potrebbe mai lanciare un attacco. I suoi satelliti occidentali erano imprevedibili. La lunga linea logistica necessaria per supportare un’offensiva corazzata era incerta e vulnerabile agli attacchi aerei. Inoltre, i sovietici non sapevano cosa esattamente avrebbe innescato una risposta nucleare americana. Rischiare uno scambio nucleare non valeva alcun vantaggio possibile che si potesse ottenere da un’offensiva su vasta scala. Quindi, per oltre 40 anni, c’è stata una situazione di stallo in Europa.

I sovietici hanno sostenuto costi che non potevano essere sostenuti poiché limitavano lo sviluppo economico. Né potevano modificare la loro posizione militare senza conseguenze politiche significative in patria o nell’Europa orientale. Così si sono mossi per integrare la loro posizione in Europa con una strategia di indiretto. Il fulcro di questa strategia era creare minacce a basso costo per il potere americano a cui gli Stati Uniti dovevano rispondere e che costringessero gli Stati Uniti a disperdere le forze e invitare a contraccolpi politici.

Il primo grande esempio fu la Corea, dove i sovietici incoraggiarono sia l’invasione del sud che, in seguito, il coinvolgimento cinese. Ci sono stati molti calcoli sull’invasione della Corea del Sud da parte di Russia e Cina, ma alla fine ha creato un problema per gli Stati Uniti: se avesse rifiutato il combattimento, la sua credibilità tra gli alleati sarebbe stata persa, e se si fosse impegnato in un combattimento, avrebbe deviare le forze su un campo di battaglia in cui aveva poco interesse oltre a difendere la propria credibilità. La guerra di Corea ha effettivamente sottratto risorse all’Europa e ha sollevato dubbi sul giudizio e sulla capacità di Washington di rafforzarsi di fronte a un attacco sovietico. La guerra costò al presidente Harry Truman una grande popolarità, costringendolo a non candidarsi nel 1952 e aiutando a incoraggiare l’indebolimento della fiducia maccartista nel governo.

La Corea era l’essenza dell’attacco indiretto. Il costo per i sovietici era basso, le conseguenze politiche e psicologiche alte. Non aveva lo scopo di spezzare il potere americano, ma di indebolirlo e diffonderlo.

I sovietici crearono molti problemi indiretti per gli Stati Uniti in Africa, America Latina e, soprattutto, Vietnam. La parola d’ordine negli Stati Uniti era credibilità, e quella era la forza che costringeva gli Stati Uniti in Vietnam: cedere il Vietnam del Sud avrebbe indebolito la credibilità degli Stati Uniti in Europa, il principale teatro delle operazioni. Quindi i sovietici, insieme alla Cina, fornirono materiale ai nordvietnamiti nel tentativo di indebolire gli Stati Uniti

Gli americani hanno affrontato insurrezioni o regimi sostenuti dai sovietici in tutto il mondo. Hanno anche affrontato gruppi terroristici sostenuti dai sovietici in Europa e altrove. L’intelligence statunitense è stata costretta a una posizione globale piuttosto che mantenere un focus laser sui sovietici. Le azioni degli Stati Uniti in questi paesi hanno portato a fallimenti umilianti e successi catastrofici, in cui il costo politico ha ampiamente superato la minaccia. I sovietici rimasero in una posizione statica nella principale area di combattimento mentre si assumevano rischi minimi per portare gli Stati Uniti fuori posizione nella battaglia principale. Alla fine non sono riusciti a trasformare l’indiretto in una strategia vincente, ma hanno impedito agli Stati Uniti di concentrare le proprie forze direttamente su di loro.

I cinesi ei russi sono entrambi in questa posizione oggi. La marina cinese è con le spalle al muro nella costa orientale della Cina e in una serie di nazioni a poche centinaia di miglia di distanza. Deve sfondare, ma ha poco spazio di manovra, indipendentemente dall’hardware che ha costruito. I cinesi possono o non possono avere successo, ma il risultato è troppo importante perché una nazione rischi la sconfitta.

I russi stanno lottando per riconquistare i confini che avevano più o meno detenuto dal 18° e 19° secolo. Minacciare nuovi territori è una cosa. Cercare di recuperare il territorio perduto è un altro, soprattutto quando il territorio è vasto, come va dall’Ucraina all’Asia centrale. Ciò che è stato perso in un anno impiegherà generazioni a riprendersi. È più vulnerabile di quanto sembri. Ha perso così tanto che riconquistare l’Europa dell’Est è un sogno e deve resistere ai tentativi americani di contenerla sulla sua linea attuale.

Quando una forza principale non può essere applicata con sicurezza, è necessaria una strategia indiretta. Si è parlato di un’alleanza russo-cinese. È difficile immaginare come i due paesi possano coordinare le loro forze armate, e un’alleanza economica non ha alcun significato data la debolezza economica russa e il potere della Cina. Ma un’alleanza è molto concepibile: un’alleanza segreta intesa a deviare e diffondere il principale nemico di entrambi, gli Stati Uniti, e quindi ridurre la pressione di Washington su di loro.

Cina e Russia non sono mai state particolarmente vicine e infatti erano nemiche negli anni ’60. Tuttavia, hanno collaborato alle guerre di Corea e Vietnam, l’ultima delle quali ha danneggiato gli Stati Uniti. La collaborazione non è stata decisiva nel futuro a lungo termine di nessuno dei due paesi, ma ha liberato alcune pressioni occidentali e creato alcune opportunità. Hanno avuto una certa esperienza nella guerra indiretta contro gli Stati Uniti.

Con questo tipo di esperienza nella guerra indiretta, ci sono molte aree in cui uno o entrambi potrebbero agire. I cinesi hanno una strategia economica progettata per legare i destinatari degli investimenti alle relazioni politiche con la Cina. Il difetto inerente a questa strategia è stato riscontrato dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, quando i regimi sponsorizzati dai sovietici hanno semplicemente nazionalizzato le risorse statunitensi. Gli interessi degli Stati Uniti avevano molte risorse ed erano pesantemente investiti a Cuba, per esempio. Ma la proprietà è un pezzo di carta che può essere rapidamente abolito con l’arrivo delle truppe. Quindi la Cina può “possedere” il Canale di Panama, ma lo fa senza l’obiezione di Washington. Se mai si oppone, un battaglione di Marines può cambiare tutto.

Quello che i cinesi ei russi devono fare è creare insurrezioni politico-militari e governi sparsi in tutto il mondo nella speranza che gli Stati Uniti, mantenendo un’alleanza contro Cina e Russia, possano essere costretti a rispondere. Più vicini agli Stati Uniti, maggiore è la necessità di rispondere. Ecco perché l’America Latina era un terreno fertile per i sovietici. Se gli Stati Uniti prevengono, iniziano ad accumulare costi militari e politici. In caso contrario, il pericolo sono enormi costi politici.

Una strategia dell’indiretto è una strategia dell’opportunismo. Squadre di intelligence sono inserite in luoghi che sono già ostili agli Stati Uniti La chiave è creare così tante minacce percepite e incognite che l’intelligence statunitense è costretta a contrastare, ma contrastarle tutte è quasi impossibile anche se fosse politicamente accettabile.

I cinesi ei russi affrontano lo stesso problema in linea di principio. Le opzioni militari convenzionali contro gli Stati Uniti potrebbero funzionare, ma c’è una reale possibilità che non lo facciano, e nessuno dei due può permettersi le conseguenze interne del fallimento. Non riescono a trovare accordi soddisfacenti con gli americani e sono quindi lasciati con una posizione strategica di cui gli Stati Uniti potrebbero trarre vantaggio. Questo scenario deve essere evitato, quindi una strategia indiretta è ovvia. La strategia economica cinese va bene a breve termine, ma è molto vulnerabile ai cambiamenti di governo. La creazione di stati antiamericani è fondamentale. Una strategia indiretta è più prudente, e Russia e Cina sono nazioni prudenti. Devono esserlo.

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LOGICA DEL MULTIPOLARE, Pierluigi Fagan

LOGICA DEL MULTIPOLARE. [Post-articolo di geopolitica teorico-pratica] Il sistema multipolare ovvero una compresenza di più potenze in uno stesso contesto, dovrebbe ritenersi la norma delle relazioni internazionali quando lo stato del contesto è normale ovvero pacifico e non speciale cioè bellico. Poiché però proveniamo da una storia in cui il mondo era meno globale, più gerarchico, meno denso e più bellico, il formato ci sembrerà nuovo ed inedito e quindi poco conosciuto. Cerchiamo quindi di conoscerlo meglio.
Abbiamo quattro novità di contesto oggi. Il mondo ha triplicato la sua popolazione ed il numero degli stati negli ultimi settanta anni, il mondo è quindi più denso, molto più denso ed affollato che in precedenza, il che porta una maggior complessità nel problema della convivenza.
La seconda novità è che il mondo è e sarà sempre più globale. Col termine “globale” s’intende il venirsi a formare di un meta-sistema-mondo. Un contesto “mondo” c’è stato, almeno per noi occidentali, dal Cinquecento, ma nel corso del tempo su fino alla grande estensione dell’Impero britannico, poi le due prime (forse ultime?) guerre “mondiali” ed infine col processo di infrastrutturazione interna a base di scambi economici e non solo ed in ragione della maggior densità interna, il “mondo” è oggi “il” contesto generale madre per ogni altro sotto-contesto particolare.
Le gerarchie-mondo hanno visto gli europei dominare fino al XX secolo con colonie ed imperi, poi il sistema europeo è collassato con due conflitti cataclismatici ed il sistema dominante europeo ha lasciato il posto ad una galassia occidentale che ruotava intorno agli Stati Uniti d’America. Sia per compattare la galassia usando l’identità negativa (noi siamo … in quanto contro …), sia per oggettiva concorrenza tra modelli ambiziosi (la società-mercato vs la società-politica, liberale la prima, comunista la seconda) dove per “ambiziosi” s’intende con sguardo espansivo con ambizioni egemoniche, s’è venuto a formare un contesto detto “bipolare”. Non lo era in effetti, già dagli anni ’50 si viene a formare una terza galassia, quella dei paesi non allineati ad uno dei due poli, ma né questa galassia poteva dirsi un polo, né era competitiva con gli altri due mostrando una sua omogeneità interna (era anch’essa una identità negativa), né il nostro sguardo si interessava più di tanto del mondo in quanto tale, “mondo” era per noi la porzione che ci riguardava. Ma era pur sempre una eccedenza della semplificazione bipolare. Negli anni ’90, implode il polo sovietico ed inizia una nuova fase di globalizzazione infrastrutturale (Internet), commerciale (WTO) e finanziaria. Nel frattempo, si anima l’Asia (“l’eccedenza bipolare”) con la crescita del sub-sistema multipolare del Sud-Est asiatico, la potente crescita cinese seguita ad una certa distanza da quella indiana. Oggi e sempre più in futuro, la distanza di potenza tra vertice e base del sistema-mondo tenderà ad accorciarsi in un processo sistemico naturale di auto-omogeneizzazione relativa (dalla Grande divergenza alla Grande convergenza). Questo intendiamo per “meno gerarchico” ovviamente in senso relativo. E’ proprio la dinamica di questo terzo punto, sommata alle alte due, a determinare l’ineluttabilità della forma multipolare.
Infine, dato un mondo ormai pienamente ed irreversibilmente multipolare, l’intonazione delle relazioni interne sarà ovviamente conflittuale dato che parliamo di sistemi umani e non di atomi o molecole o branchi, stormi, banchi di animali non pienamente intenzionali, ma con un invisibile limite all’uso della forza diretta, almeno tra poli. Conflittuale e cooperativo sarebbe più preciso dire, a seconda di temi, tempi, contesti particolari. Il limite all’utilizzo della forza almeno tra poli è dato sia dal limite involontariamente posto dalle armi nucleari (M.A.D.), sia dalla non convenienza a disordinare pesantemente lo stesso contesto mondo da cui ormai dipendiamo tutti, volenti o nolenti. Quest’ultima condizione, negli “occidentali”, è più cogente per gli europei che abitano un promontorio dell’Eurasia, che per gli anglosassoni che da tradizione abitano isole (britanniche, australi, continentali nel caso nord-americano). Da cui una obiettiva divergenza di interessi tra i due occidenti.
Ecco quindi il contesto multipolare per la prima volta davvero a dimensione mondo, un mondo molto denso, in cui è meno facile ordinare con una asciutta gerarchia semplificata, la cui regola interna è competere e cooperare con un sempre più improbabile (per quanto sempre possibile poiché l’umano è sì intenzionale ma non per questo si è emancipato del tutto dalla stupidità intrinseca) possibile ricorso allo strumento usato sempre ed ovunque in cinquemila anni di storia società complesse: la guerra diretta tra concorrenti. Quattro belle novità, sul piano storico che dovrebbero esser assunte su quello teorico.
Non sempre, agli umani, capitano periodi storici con salti di novità così importanti e radicali, stante che per capire il mondo non possiamo, almeno inizialmente, far altro che volgerci indietro per capire dall’esperienza passata come si svolgerà il futuro. Se questo ricorso all’indietro per prevedere il davanti è tipico della nostra tradizione mentale, il meccanismo fallisce quando si è la fortuna o sfortuna di capitare in periodi di così pronunciata discontinuità. Vedi il “tacchino induttivista” di B. Russell. Infatti, da ciò che si legge in ambito “esperto” o in ambito “dilettante” quanto a geopolitica, sembra che molti abbiamo una grossa difficoltà a comprendere la natura del mondo multipolare. Il discorso pubblico vede ancora riproposti concetti inadatti come “dominio o egemonia sul mondo”, “guerra fredda”, “terza guerra mondiale” (per fortuna ora un po’ meno, sino a qualche anno fa era un tema che andava molto soprattutto tra i tendenti alla paranoia esistenziale), legge ferree delle talassocrazie o il fatidico centro egemonico del capitalismo, tutti concetti pescati nell’indietro e quindi poco adatti a comprendere il davanti.
Tutto ciò ci serviva anche come premessa per commentare l’esito del primo giorno del summit europeo a 27 che si tiene a Bruxelles. A notte inoltrata e dopo essersi piacevolmente unitamente intrattenuti sull’omofobia di Orban, i 27 si sono spaccati sull’ipotesi di un vertice UE-Russia avanzata con grande intenzione da Francia-Germania (e per quel che conta cioè poco, l’Italia). Contrarissimi sia i paesi dell’Est, sia quelli del Nord propriamente detto (Olanda e Svezia), questi ultimi preoccupati anche dal fatto che tema sul tavolo dell’eventuale nuovo dialogo con Mosca ci sarebbe l’Artico, ma anche per via del fatto che da sempre hanno “special relation” con l’UK. UK che ovviamente è contrarissima a questa ipotesi di nuove aperture verso Mosca ed infatti giusto l’altro giorno hanno mandato una barchetta in acque russo-ucraine sperando di poter provocare qualche incidente che invalidasse ogni velleità europea di dialogo euro-russo. La disciplina stessa “geopolitica” inizia in pieno dominio dell’impero britannico con un geografo inglese preoccupato del fatto che si potesse venire a creare nell’Heartland un sistema egemone, lì dove gli “isolani” diverrebbero fatalmente “isolati” ovvero periferici.
Si può immaginare che questa apertura franco-tedesca sia stata moneta di scambio tra USA ed il bipolo egemone nel sistema UE, come compensazione per i nuovi divieti di relazione diretta con la Cina. Moneta data o pretesa o implicitamente dovuta secondo i due europei. Concessa o tollerata dagli USA sia per dar seguito dal vertice Biden-Putin (con Biden che dall’iniziale “di senno sfuggito”: criminale! è stato consigliato a passare a più miti consigli), sia perché poi manovrando appunto i paesi dell’est o i nordici molta sabbia può esser messa negli ingranaggi delle relazioni internazionali del quadrante, se dovessero prendere una piega non conforme ai desideri dell’egemone del sistema occidentale.
Di per sé non è ancora successo niente, ma c’è molto movimento. Sembra si avveri il desiderio o profezia di Kissinger verso un grande ritorno della diplomazia e del resto Kissinger pare uno dei pochi che capisce la natura dell’argomento. Il summit si è concluso con l’aperta bocciatura della proposta franco-tedesca, c’è da giurare che i due non molleranno ed in vario modo porteranno comunque avanti l’intenzione, c’è da dar per scontato che UK-vari paesi europei con dietro gli USA troveranno altri mille modi per sabotare tale intenzione. Non è ancora fattivamente successo nulla nelle relazioni con la Cina che, al netto della semplificata rappresentazione del problema cinese che si dà qui da noi, è di fatto un sistema massivo inscritto in un continente che non può esimersi dall’averlo come centro gravitazionale ineliminabile, lì dove tra l’altro risiede il 60% dell’umanità ovvero l’Asia. La Russia sta a guardare solida delle sue nuove relazioni asiatiche pur sapendo tutti noi molto bene quanto, storicamente e culturalmente, la Russia stessa si ritenga parte orientale dell’Europa e non parte occidentale dell’Asia.
Quindi al di là delle chiacchiere e dei proclami, tutti sanno che questo è il nuovo gioco di tutti i giochi. Biden che segue il buonsenso geopolitico di provare a spacchettare o quantomeno allentare l’asse Russia-Cina, Merkel-Macron che potrebbero rallentare i rapporti coi cinesi se gli si dà sfogo in Russia, Putin che da tutto ciò quanto a terza forza è colui che, potenzialmente, potrebbe trarre il maggior vantaggio dal nuovo mondo multipolare bilanciandosi un po’ di qua ed in po’ di là secondo convenienza. Stante che se il mondo nuovo si dice “multipolare” non è solo perché il primo girone di potenza passa da due a tre-quattro, ma anche perché ci saranno India, Giappone, Corea, Indonesia, Pakistan, Turchia, petro-monarchie, Egitto, Brasile e molti altri che parteciperanno al nuovo gioco sebbene in più limitate aree locali. Ma il mondo nuovo sarà così, multistrato e più complesso.
Quando scrissi il mio libro sul mondo multipolare, scoprii che nel reparto relazioni internazionali dello staff elettorale di Trump c’erano cinque consulenti. Nell staff di Biden in campagna elettorale e poi oggi nel governo pare ce ne siano cinquemila, se ho ben letto. Questa differenza di grana con cui si osservano i fatti del mondo per poi influenzarli, dice quanto inedito e complesso è il mondo multipolare. Una complessità necessaria che molti farebbero meglio a studiare di più e meglio piuttosto che far finta di capire cos’è il nuovo gioco geopolitico pensando che ciò che è stato, sarà di nuovo e per sempre. Lascerei quindi agli archivi Tucidide, che pure amiamo tutti molto, e cercherei di sintonizzarci sul mondo del XXI secolo che con il Peloponneso del V secolo a.C. ha poche analogie strutturali.
E se siete intellettualmente interessati dalla geopolitica, consiglierei anche di controllare le vostre preferenze emotivo-ideologiche che vi fanno ora amici appassionati ora nemici irriducibili dei cinesi, dei russi, degli americani, dei franco-tedeschi etc. . L’avalutatività weberiana è un miraggio, convengo, ma insomma, c’è modo e modo di farsi condizionare dalle nostre preferenze ideologiche. Anche se capisco che giocare a capire la geopolitica è più divertente che cercare di capirla davvero.
NB_tratto da facebook

Un commento di Emilio Ricciardi

Per un disguido legato al mal funzionamento del sistema di registrazione pubblichiamo come articolo un commento di Emilio Ricciardi all’intervista a Gabriele Levy del 26 giugno_La Redazione

Sin dall’inizio della conversazione, mi è parso subito evidente che già le prime affermazioni dell’intervistato fossero innervate da una rara devozione, direi un culto, per la verità dei fatti, mai peraltro disgiunti – tali devozione e culto – dall’esercizio di uno spiccato spirito critico nei confronti dello Stato d’Israele.

Che è comunque, e bene ha fatto l’intervistato a ribadirlo, uno Stato Democratico, ad ordinamento giuridico pluralista, che garantisce a tutti i propri cittadini, quali che siano le loro etnie, nazionalità, religioni ed appartenenze linguistiche, e segnatamente alla più cospicua delle minoranze, ossia quella arabo-palestinese, piena uguaglianza.

Certo, taluno, probabilmente accecato da faziosità, obietterà che, se gratti appena un po’ la crosta dell’uguaglianza formale, eruttano lievi differenze di trattamento sostanziale, non proprio a favore della sullodata minoranza, riguardo, ad es., la pianificazione urbanistico-territoriale e l’accesso alla proprietà immobiliare (nel cui ambito imperversa e detta legge, di fatto, quella curiosa entità denominata Fondo nazionale ebraico), ed insomma emerge, più in generale, una pratica concreta istituzionale, costituita più da costanti e reiterate decisioni amministrative che da roboanti leggi, la quale sovente conculca interessi individuali e collettivi degli israeliani arabo-palestinesi.

Ma l’intervistato, assennatamente, ha buon gioco nel ribattere e ricordare, ed anzi a rivelare una Verità che molti si ostinano a non vedere: l’esistenza di “due entità statali palestinesi“, ossia l'”Autorità nazionale palestinese” (“che domina in tutti i territori…“) e “Hamas“.

Chiaro? Due entità statali, proprio come entità statale è Israele, posta, difatti, dal’intervistato, da questo punto di vista, sullo stesso piano delle presunte altre due.

Meno male, quindi, che l’intervistato ricorda ai distratti che ciascuna delle suddette due organizzazioni, ossia l’ANP ed Hamas, è uno Stato (qualsiasi cosa voglia significare questa invero patafisica asserzione): ciascuna di esse, quindi, esercita effettivamente, secondo l’intervistato, la piena sovranità politica, monetaria e militare sui territori su cui ognuna sarebbe insediata e che dominerebbe.

Tuttavia, prosegue l’illuminato e saggio intervistato, l’ANP ed Hamas sono Stati (ripeto, proprio ciò afferma l’intervistato) dittatoriali e corrotti, in cui non si celebrano Le Elezioni.

Mica come Israele, stato democratico, liberale, pluralista, dove tutti godono di piena agibilità politica.

Insomma, nel cuore del Vicino Oriente c’è una Democrazia, che combatte la propria diuturna guerra contro i Corrotti Dittatori Arabi.

Ecco, questa è la conclusione, tanto inaudita, arguta ed originalissima, quanto, però, semplicemente vera, del lucido e mai banale intervistato. Il quale, peraltro, in tal modo finisce per riecheggiare la storica posizione dei radicali pannelliani, preveggenti e tante volte purtroppo ingiustamente biasimati.

Né, a proposito dell’Eden pluralista che Israele rappresenta anche per la minoranza dei cittadini israelo-palestinesi, varrebbe ribattere che esso è definito, dalla dichiarazione del 1948 e da una successiva recente legge del 2018, uno Stato ebraico, e, come dispone espressamente tale legge, “la casa nazionale del popolo ebraico“.

Difatti, l’ipotetico, ma superficiale, contraddittore che opponesse il testé riferito argomento, trascura che ebraico è sinonimo di Universale: tanto più si è ebrei, e dunque difensori di Eretz Israel, quanto più si è arabi, perché Ebraico non può non voler significare adduttore di Bene, non solo per tutti i suoi cittadini, pure di quelli arabi, ma anche di tutti gli arabi del Vicino Oriente.

A tal proposito, ha impressionato ed anzi incantato il viso rapito ed ispirato dell’intervistato quando, alzando gli occhi al cielo onde invocare per il successo dell’impresa l’alleanza fra altare e trono, ha profetizzato che “non è lontano il giorno in cui il regime iraniano cadrà: non è lontano quel giorno, con l’aiuto di Dio [ed è proprio a questo punto dell’allocuzione che egli ha strabuzzato fulmineamente i bulbi oculari verso l’Altissimo, imprimendo loro una subitanea roteazione estatica] e di altri eserciti potenti” (cfr. dal min 27:52 del filmato).

Senza contare che l’intervistato ha omesso di evidenziare, a proposito della democraticità ed universalismo dei valori ebraici, dunque incarnati da Israele, come quest’ultimo sia l’unico stato del Vicino Oriente a tutelare i diritti LGBT.

Vorrei soltanto manifestare una delusione, ma banale e, per così dire, causata da motivi di carattere scenografico: l’intervistato avrebbe dovuto ampliare il campo visivo della sua videocamera per mostrare in tutta la sua solennità quello che pare essere [ma se così non fosse, me ne scuso] il ritratto fotografico della superba Golda Meir, che invece si scorge appena sullo sfondo, appeso su una parete.

Ma i sionisti, com’è noto, sono anche umili e sobri.

Tragedie, lieto fine, moralisti e sciacalli_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto alcune sensate considerazioni, scovate da Antonio de Martini, riguardanti la vicenda a lieto fine del bimbo ritrovato fortunosamente in una scarpata e qualche aneddoto personale.

Ho passato la mia infanzia in Puglia, in caselli ferroviari lontani chilometri da paesi, centri urbani o un pur qualche assembramento di abitazioni. Ricordo benissimo la mia prima fuga da casa, a nemmeno tre anni, mentre mia madre strigliava i panni all’aperto su un lavatoio in pietra (laturu in dialetto). Si accorse della fuga quando ero ad oltre un chilometro, lungolinea, accanto ad una locomotiva in sosta a fare il pieno di acqua. Ricordo ancora l’imponenza del mostro meccanico che sbuffava con la mia testa che non arrivava nemmeno al mozzo della ruota motrice. Mi richiamò gesticolando e prese a correre per raggiungermi. Io reagii scarpinando sino a raggiungere il casello vicino. L’avventura si concluse con mia madre che profittò dell’occasione per fare due chiacchiere con i “vicini di casa” raggiunti poco dopo mentre questi, compresa la situazione, mi intrattenevano. Da allora ho continuato a girare e cambiare dimora per una vita. Mia sorella invece, terzogenita, era invece specializzata sino ai quattro anni a giocare in mezzo ai binari o alla strada prospiciente. In assenza dei genitori, impegnati a lavoro o per incombenze nel paese più vicino a sei chilometri, avevo l’incarico di vigilare, ma senza particolare diligenza. Mi ricordo di una littorina ferma in un paio di occasioni a una decina di metri, con il conduttore che scendeva per spostare la bimba dalle rotaie; in un’altra occasione di una colonna di quattro/cinque automobili bloccate dalla spensieratezza dell’infanta. Cose che capitavano, ma che oggi paiono assurde in un mondo congestionato e ossessionato, dove i bimbi il più delle volte non conoscono la libertà e l’autonomia, ma l’abbandono e il controllo ossessivo. Altri pericoli, altra vita.

PS 1_ I mezzi a noi disponibili all’epoca per cinque persone (non eravamo benestanti, ma nemmeno poveri), erano una Vespa 125, un quadriciclo su rotaia e i treni che rallentavano a passo d’uomo al cenno di mio padre per farci salire in corsa, visto che era proibito fermarsi fuori dalle stazioni ferroviarie._Buona lettura_Giuseppe Germinario

PS 2_A scanso di equivoci e di interventi improvvidi di qualche solerte funzionario dal protagonismo patologico, i responsabili sono purtroppo deceduti da tempo

La posizione più intelligente che io abbia letto fino ad ora sulla vicenda del piccolo Nicola, l’unica lucidità che a parer mio dovremmo mantenere al momento, è quella della giornalista Deborah Dirani.
Ve la incollo qui:
“Nicola è tornato a casa, evviva!
Non è finito in un pozzo come Alfredino 40 anni fa, non è sparito nel nulla come Denise nel 2004. Nessuno lo ha rapito e non lo hanno sbranato i cinghiali.
Ha le ginocchia sbucciate e vuole solo le coccole della sua mamma.
Quando sarà più grande, magari, racconterà alla ragazza su cui vuole fare colpo, portandola a scarpinare tra gli alberi, di quella volta che era uscito di casa e si era perso ma non si era spaventato e poi lo aveva trovato un giornalista della Rai che passava di lì.
Possiamo applaudire tutti, ma tutti, per una volta? Possiamo evitare di insinuare dubbi su tre gocce di sangue e un paio di sandalini che “quando mai un bambino di 21 mesi si mette i sandali da solo? E quando mai la mamma lo mette a letto coi sandali? E quando mai un bambino di manco 2 anni si fa tre chilometri a piedi da solo?”
E quanto si può essere cattivi a sbattere sotto il naso del padre di questo bambino un microfono e chiedergli, col sussiego di una signorina Rottenmeier, “come si spiega che un bambino di 2 anni si sia allontanato da solo? Voi dove eravate?”. Che è una domanda così tanto giudicante e inquisitoria da parte di un cronista (visto che si sapeva già dove erano i genitori: a 10 metri da casa a lavorare, non al Billionaire a ballare sui tavoli sciabolando champagne) che viene pagato per raccontare, non per insinuare, che verrebbe davvero da rispondergli (al cronista) “ero a tromba’ la maiala della tu sorella”.
Perché il punto è che, ancora una volta, i protagonisti (loro malgrado) sono due ragazzi non conformi all’immagine che la società ha stabilito come conveniente per due genitori che possano definirsi “buoni genitori”. Pina e Leonardo hanno scelto di vivere in un modo, in realtà, molto più conforme alla natura dell’essere umano di quanto facciamo noi (me per prima) che ci schiantiamo gli occhi e la schiena per possedere cose di cui non abbiamo bisogno ma alle quali non sappiamo più rinunciare (pena il giudizio sociale che ci fa sentire sfigati), paghiamo rate di macchine sempre più grosse e più inquinanti, più adatte a guadare un fiume che a fare la fila in tangenziale, cacciamo centinaia di euro di mutui trentennali per case in cui ci rinchiudiamo come sardine inscatolate.
Se ci danno un tronco di legno, al massimo, lo buttiamo nel camino: Pina e Leonardo ci costruiscono qualcosa. Se vediamo un’ape fuggiamo terrorizzati: Pina e Leonardo ci fanno il miele.
Un’indagine recente ha dimostrato come molti bambini pensino che l’insalata esista solo in busta e se vedono caspo di lattuga non hanno idea di cosa si trovino davanti al naso.
Pina e Leonardo non hanno fatto male a nessuno, hanno scelto di vivere la loro vita in modo decisamente più etico e sostenibile di tre quarti dell’umanità, me compresa che ho più scarpe di quante ragionevolmente possa indossarne in una vita intera (e, nonostante ne sia più che consapevole ne ho appena puntato un paio nuovo che ha un prezzo che è uno schiaffo alla miseria e che, comunque, mi comprerò).
Pina e Leonardo non sono due genitori incoscienti perché mettono a letto un bambino coi sandalini ai piedi ed escono a lavorare, mangiano e poi si accorgono che quel bambino non è più dove lo avevano lasciato. Non sono due sconsiderati hippye (ammesso che gli hippyes lo fossero) che chissà come crescono i loro “poveri bambini e poi vedi cosa succede”.
Perché non esistono genitori infallibili, a prescindere da quanto siano patinati e consumisti. E quello che è successo a questi due ragazzi che hanno la fortuna di vivere in un posto dove non serve avere paura dell’uomo nero e i bambini, anche per questo, sono più autonomi e indipendenti, poteva capitare a chiunque. Perché basta un attimo perché succeda una tragedia.
Ma questa volta non è successa e, dunque, proviamo solo a essere felici per Pina, Leonardo e Nicola che da grande racconterà ai suoi amici di quella notte nel bosco quando lo hanno cercato anche coi droni e a trovarlo è stato uno che aveva un attacco di panico.”
// La pagina di Deborah Dirani:

la convivenza difficile tra israeliani e palestinesi_con Gabriele Levy

Cambiano le modalità nel corso dei decenni, ma la natura conflittuale dei rapporti tra israeliani e palestinesi rimane senza soluzione di continuità. Ci sono state occupazioni di terre, opportunismi e tradimenti, conflitti endemici e confronti drammatici dietro una solidarietà di facciata ed una aperta ostilità. La gran parte delle scelte politiche, una volta consolidato lo Stato di Israele, non hanno certo preparato ad una soluzione che non sia una tregua. Il problema essenziale è che sino a quando la realtà politica ed istituzionale palestinese non troverà una corrispondenza accettabile con quella socioeconomica difficilmente potrà sorgere un attore sufficientemente autorevole da poter sostenere uno scontro politico e geopolitico così aspro con la necessaria autonomia e una chiarezza di obbiettivi che renda possibile alla obbligata convivenza nella vita quotidiana quella politica ed istituzionale capace di dare espressione ad un popolo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vj2ywd-gabriele-levy-ci-parla-della-convivenza-difficile-tra-israeliani-e-palestin.html

Salti di paradigma, salti nel vuoto_di Roberto Buffagni

Salti di paradigma, salti nel vuoto

Gli Stati Generali del regno di Francia vengono convocati dal re di Francia e di Navarra Luigi XVI l’8 agosto 1788. Essi chiamano a consigliare il sovrano i rappresentanti dei tre Stati o Ordini in cui è tradizionalmente suddiviso il regno di Francia. Adalberone, vescovo di Laon (947 ca. -1030) nel “Carmen ad Rodbertum regem” li ripartisce in Oratores, Bellatores, Laboratores, riferendosi analogicamente alla Divina Monotriade. La tripartizione in Ordini rispecchia l’antichissima tripartizione indoeuropea in caste, ad esempio la tripartizione hindu tra bràhmana (sacerdoti), kshàtrya (guerrieri), vàisya e shùdra (contadini, artigiani, commercianti, etc.).

All’interno di ciascun Ordine – tra pari – le deliberazioni vengono prese a maggioranza, per testa; il voto finale degli Stati Generali, che approva i suggerimenti da porgere al sovrano, viene espresso per Ordini, nonostante il rapporto numerico tra componenti il Primo e Secondo Stato e componenti il Terzo sia, all’incirca, del 3% rispetto al 97%.

Il 6 maggio 1789, all’ Hotel des Menus Plaisirs di Versailles, nella sala ribattezzata per l’occasione Sala dei Tre Ordini, i rappresentanti del Terzo Stato deliberano all’unanimità il voto finale per testa. Si uniscono a loro 47 rappresentanti (su 270) del Secondo Stato, la nobiltà, e 114 rappresentanti (su 291) del Primo Stato, il clero. Il voto pone termine all’ultima forma politica sopravvissuta che rispecchi il più antico carattere distintivo della civiltà indoeuropea.

La risultanza politica del voto del 6 maggio 1789 – un evento puntuale, che si consuma in pochi minuti – è stata preceduta da secoli di dibattito metafisico, filosofico, teologico, antropologico, e da secoli di storia in cui si infrange la Cristianità, si scontrano e decadono Chiesa e Impero, i due “Soli” del “De Monarchia” dantesco; e sorgono, proponendosi come Terzo Sole dell’umanità – parola che esprime un concetto nuovo e un nuovo programma culturale e politico – i Lumi. L’alto numero di rappresentanti del Primo (39%) e del Secondo Stato (17%) che, contro gli interessi del proprio Ordine, votano con i rappresentanti del Terzo, illustra meglio d’ogni analisi quale sia il senso comune prevalente nel regno di Francia, che all’epoca è culturalmente egemone in Europa.

Ecco: questo è un salto di paradigma.

Un salto di paradigma anzitutto metafisico, filosofico, teologico, antropologico; e per logica conseguenza, anche politico. L’aspetto della realtà formalmente espresso e politicamente tradotto dalla tripartizione indoeuropea – le diverse facoltà dell’animo umano, la gerarchia interiore in cui vanno ordinate perché l’uomo si individui compiutamente, l’ordine politico che la rispecchia in quanto “la polis è l’uomo scritto in grande” – non cessa per questo di esistere: sopravvive nel linguaggio e nelle inclinazioni personali, oltre che, ovviamente, nelle biblioteche. Viene però disattivata, nell’effettualità politica e nella coscienza che le società inaugurate da quel voto hanno di sé. C’è, ma non si dice e non si pensa. A volte, si attiva: ad esempio quando si combatte, e nel soldato come tecnico delle armi spunta il guerriero; o quando dal sacerdote come burocrate dell’istituzione ecclesiastica e assistente sociale spunta l’uomo di preghiera; o quando dall’artigiano e dal lavoratore spunta l’artista.

Segnalo ai naviganti che c’è in vista un altro salto di paradigma, al confronto del quale il salto di paradigma datato 6 maggio 1789 sembrerà il saltello di un bambino di due anni.

Lo segnalo adesso, mentre è ancora in discussione in DDL Zan, perché se verrà varato, discuterne dopo potrebbe dar luogo a spiacevoli conseguenze per il sottoscritto (i processi costano e possono finir male).

Lo so che sembra assurdo, ridicolo, paradossale tirare in ballo parole ed eventi così grossi – “salto di paradigma”, ”rivoluzione francese” – per una leggina come il DDL Zan, che magari nemmeno passerà al Senato. Ho letto in questi giorni i commenti in proposito di molte persone intelligenti, spesso di sinistra ma anche di destra, che si possono riassumere così: “Quanto rumore per nulla, i problemi dell’Italia sono ben altri” (segue elenco problemi, a volte ben ragionato). Penso che queste persone intelligenti si sbaglino. È più che comprensibile che si sbaglino, perché da un canto gli altri problemi ci sono eccome, e sono molto grandi e gravi; dall’altro, è sempre difficile individuare in tempo reale gli eventi puntuali che segnano svolte qualitative nella storia. Un uomo non geniale ma tutt’altro che stupido o incolto come Luigi XVI, la sera della presa della Bastiglia scrisse nel suo diario: “Oggi, niente.”

Qual è insomma questo salto di paradigma che, secondo me, si profila all’orizzonte? Non faccio il misterioso e ve lo dico subito. È il concetto di “genere”, impiegato come ordinatore principale e anzi esclusivo del concetto di “uomo”. Scrivo “anzi esclusivo” perché il concetto di “genere” non si limita più a combattere con altri e incompatibili ordinatori del concetto di “uomo” nel Kampfplatz filosofico. Ha condotto e continua a condurre questa battaglia nel teatro d’operazioni filosofico, con esiti alterni: non si profila, per esso, una vittoria schiacciante o sicura. Esso ha però trasposto la battaglia per l’egemonia dal campo filosofico al campo giuridico, sociale e politico, e in questo diverso teatro di operazioni ha trovato alleati molto potenti.

Il concetto di “genere”, nelle sue varie declinazioni a me note, presenta un minimo comun denominatore: è sempre riconducibile alla soggettività dell’individuo. A quel che l’individuo desidera (il suo orientamento erotico) all’idea che l’individuo si forma di sé (la sua identità, il nome segreto con cui si chiama) a quel che l’individuo vuole divenire (ad esempio, trasformarsi da maschio in femmina e viceversa). In sintesi, il concetto di “genere” presuppone la sovranità assoluta dell’individuo su se medesimo, la sua totale libertà di decidersi, insomma la sua radicale autonomia, nel senso fortissimo di libertà d’essere norma a se medesimo, e persino di mutare ad libitum la norma che lo definisce e lo identifica, in buona sostanza lo crea. Il concetto di “genere” prefigura, insomma, un “uomo-individuo autocreatore”.

Nel passaggio dal Kampfplatz filosofico al campo di battaglia dell’effettualità sociale e politica – ove si propone l’obiettivo di divenire l’ordinatore esclusivo del concetto di “uomo” – il concetto di “genere” prende correttamente di mira il suo nemico principale. Il suo nemico principale è il più antico e potente ordinatore del concetto di “uomo”, ossia l’insieme concettuale “maschio – femmina”.

L’insieme concettuale “maschio – femmina” è indissolubile, perché “maschio” si definisce in rapporto a “femmina”, e “femmina” si definisce in rapporto a “maschio”. Nessuna delle due parole, e delle realtà che designano, ha significato se non in rapporto all’altra. “Maschio-femmina” è l’ordinatore logicamente e cronologicamente più antico del concetto “uomo”.

“Uomo” è sempre “uomo maschio” oppure “uomo femmina”, “uomo femmina” oppure “uomo maschio”. Ciò che non è né maschio né femmina è “neutro”, ossia, etimologicamente, “né l’uno né l’altro”: e non è “uomo”. Tutti i linguaggi umani di cui abbia notizia si formano sulla base dell’antichissimo ordinatore “maschio-femmina”. Così si formano i generi grammaticali – maschile, femminile, neutro – e così si formano le parole e l’ innumerevole foresta di metonimie e metafore grazie alle quali comunichiamo, comprendiamo, cantiamo, sogniamo.

Salvo errore (non sono onnisciente) ciò avviene in tutte le culture e le lingue dell’uomo, senza riguardo alla latitudine e all’epoca. Ovviamente, il fatto che l’uomo si pensi e comprenda se stesso in conformità all’insieme “maschio-femmina” implica anche, per conseguenza logica, che l’uomo si pensi e senta in rapporto necessario, primordiale, a un Altro/Altra che, rispetto alla sua individualità empirica, è sempre distinto e separato: non meno diverso che uguale, tanto alieno quanto identico; un fatto curioso ed enigmatico che egli vede rispecchiato, nella sua vita quotidiana, sia dal fatto imperativo che tutti gli uomini, maschi e femmine, nascono dall’incontro sessuale di un uomo-maschio e un uomo-femmina, sia dalla forza altrettanto imperativa dell’attrazione erotica per l’altro sesso: quando la prova, ovviamente, come è normale che sia, nel senso più forte della parola “norma”: perché se l’attrazione erotica per l’altro sesso non fosse norma, l’uomo si sarebbe estinto da un pezzo.

Anche da questo minimo sunto che ho abbozzato, risulta chiaro come il sole per quale motivo il concetto di “genere” debba designare come proprio nemico principale l’insieme concettuale “maschio-femmina” che ordina il concetto di “uomo”: perché esso è radicalmente incompatibile con la sovrana, assoluta libertà dell’individuo di essere norma a se stesso, di mutarla a suo piacimento, e insomma di crearsi da sé. Se il concetto di “uomo” comprende l’uomo-maschio e l’uomo-femmina – i due avatar dell’uomo che nella realtà si presentano sempre come individui separati – nessun singolo individuo potrà mai coincidere con l’intero concetto di “uomo”, compierlo, esaurirlo, esperirlo per intero; nessun individuo empirico potrà mai essere tutto l’uomo, l’individuo assoluto capace di sovrana, perfetta libertà di conoscersi, esperirsi, compiersi, autodeterminarsi e autocrearsi.

Ecco allora che il concetto di “genere”, nella sua battaglia per farsi ordinatore esclusivo del concetto di “uomo”, propone – e tenta di imporre per via politica – un nuovo concetto di “uomo”: quello di un individuo empirico, un singolo quidam de populo, che conquista il diritto, garantito dall’imperio della legge positiva, di essere al contempo sia maschio sia femmina, più tutto il fluido ventaglio delle posizioni intermedie tra maschio e femmina; e di sanzionare il proprio nemico, l’insieme “maschio-femmina”, ove voglia esercitare il proprio antico privilegio di esclusivo ordinatore del concetto di “uomo”: ad esempio, nel matrimonio, ma persino nel linguaggio.

Il matrimonio, la più antica istituzione simbolica volta alla riproduzione della specie e alla sua integrazione nella cultura, non deve più essere riservato all’uomo-maschio e all’uomo-femmina, ma dev’essere esteso all’uomo-individuo autocreatore, e a lui adeguato. Se all’uomo-individuo autocreatore non è biologicamente possibile riprodurre la specie, gli è disponibile il surrogato della tecnica, o l’ausilio servile di uomini-maschio e uomini-femmina. Questo obiettivo, di eccezionale importanza per il rilievo simbolico impareggiabile del matrimonio, è già stato raggiunto nel paese egemone dell’Occidente, con la sentenza della Corte Suprema federale del 2015 ( caso Obergefell vs. Hodges).

Più difficile, lunga e complicata la riforma del linguaggio, che in ogni suo frammento reca l’impronta del nemico, ma l’opera è iniziata con la battaglia sui pronomi, volta ad escludere e vietare per legge il maschile e il femminile in quanto “discriminatori”: ciò che in effetti sono, perché “discriminano”, ossia “differenziano” l’uomo-maschio e l’uomo-femmina.

I possenti alleati che il concetto di “genere” e l’uomo-individuo autocreatore che esso intende affermare hanno trovato nel mondo sono molti. Il più forte sul piano della comunicazione è l’accesso, ormai assicurato, al ruolo simbolico di “vittima”, che gli garantisce forza contrattuale sul piano simbolico ed efficacia propagandistica.

Si tratta di una trascrizione del ruolo – chiave della vittima sacrificale nel cristianesimo, che trasferendosi sul piano secolare si inverte di 180°. Nel cristianesimo, la vittima sacrificale per antonomasia è una delle Persone della SS. Trinità, la Quale, sacrificandosi e rinnovando il proprio sacrificio nella Messa fino alla fine dei tempi, risarcisce e riscatta la colpa dell’umanità. Il colpevole è l’uomo, la vittima è Dio, che amandolo si sacrifica per la sua salvezza. Nella trascrizione secolarizzata, vittima sacrificale è chi sia stato discriminato e oppresso dal Potere, riflesso terreno dell’unico attributo divino del quale è impossibile ridere. Colpevole è dunque il Potere-Dio, vittima l’uomo defraudato che esige di eguagliarsi a Lui, e in quanto sua vittima esige risarcimento e riscatto. In questo senso, direbbe de Maistre, l’intera civiltà moderna post rivoluzione francese è un’espressione di risentimento contro Dio; e l’uomo-individuo autocreatore, per l’evidente ragione che sta mirando a ricrearsi daccapo e da sé, sarebbe la manifestazione più patente di questo risentimento, e della conseguente volontà di risarcimento e rivincita.

Sul piano sociale, il più potente alleato dell’uomo-individuo autocreatore è la logica del capitalismo liberale, che tende a dissolvere tutti i legami sociali e comunitari, e giustifica la propria dinamica mediante due argomenti soli: 1) performatività (ossia, perché funziona) 2) conferisce sempre maggiore libertà agli individui (e solo agli individui). Entrambi questi suoi tratti caratteristici manifesterebbero la sua superiorità e insuperabilità, in un orizzonte di indefinito progresso: verso dove non si sa, ma non è importante sapere. S’intravvede oltre l’arcobaleno un “uomo nuovo”, radicalmente trasformato, più bello, longevo, felice, buono, vitale; ma saggiamente, come un tempo Marx si rifiutava di scrivere il menu per le osterie dell’avvenire, anche il capitalismo liberale evita di dettagliare il menu per il ristorante del transumano, anche perché alcun anticipazioni di cui si chiacchiera toglierebbero l’appetito ai più affamati.

La logica capitalistico-liberale, poi, intende l’individuo nella forma semplificata dell’ homo oeconomicus, ossia di un autonomo centro di interessi (se considerato dall’esterno, oggettivamente) e di un centro di bisogni e desideri (se considerato dall’interno, soggettivamente). A regolare sia interessi, sia bisogni e desideri dell’individuo, è preposta la sola legge positiva, indefinitamente modificabile per via procedurale, e alla quale è proibito rifarsi a fondamenti valoriali o metafisici capaci di dare giudizi assiologici in merito alle proprie modificazioni, o di porvi limiti. Quel che non c’è nel kit dell’ homo oeconomicus spetta alla scienza studiare e definire come “uomo biologico”; e lì c’è tanto lavoro analitico da fare, che può fattivamente occupare gli scienziati fino alla fine dei tempi.

Non è difficile capire quanto simili e affini siano il concetto di uomo-individuo autocreatore e l’individuo come lo intende la logica capitalistico-liberale. Da queste somiglianze e affinità nasce una produttiva e possente alleanza, che ormai si traduce sul piano politico statale al più alto livello, come ostendono eventi pubblici clamorosi quali l’illuminazione della Casa Bianca con la luce arcobaleno per festeggiare la sentenza sul matrimonio same-sex della Corte Suprema, e di recentissimo, la luminaria con i colori della medesima cauda pavonis alchemica che accende gli stadi ove si giocano, alla presenza delle autorità, i campionati europei di calcio.

Ecco descritto, nei suoi tratti minimi essenziali, il salto di paradigma che si profila a un orizzonte non molto lontano. Le sue conseguenze sfidano l’immaginazione più esaltata. Anche perché, almeno a parere di chi scrive, questo salto di paradigma è un salto verso un concetto di uomo che, alla lettera, non esiste nella realtà: esso, infatti, non descrive la realtà, ma la prescrive; e tanto peggio per la realtà, se si ribella.

Ci si può impegnare, ed effettivamente ci si sta impegnando a fondo, per farlo esistere: ma non esiste ora, né potrà esistere mai. Via via che la prescrizione implicita in questo nuovo salto di paradigma sarà implementata, essa dovrà, con sempre maggior coerenza e caparbietà, derealizzare porzioni sempre più ampie di realtà: della realtà dell’uomo, e dunque della realtà del mondo.

Si tratta insomma – sempre a mio avviso – di un salto di paradigma che è anche un vero e proprio salto nel vuoto. Non so se abbiamo il paracadute.

That’ s all, folks.

 

 

 

 

 

 

Ciarpame mediatico, di Giuseppe Germinario

Il quotidiano “la Repubblica” del 20 giugno scorso ha pubblicato da pagina 45 un lungo articolo, a nome di Gianluca di Feo e Floriana Bulfon, dal titolo “Bergamo_virus, spie e vaccini”. L’articolo è purtroppo disponibile solo a pagamento e non può, quindi, essere riprodotto integralmente alla fonte https://www.repubblica.it/esteri/2021/06/17/news/bergamo_virus_spie_e_vaccini-306329555/?ref=RHTP-BH-I295744712-P13-S4-T1 , ma disponibile comunque integralmente su https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/bergamo-virus-spie-e-vaccini/ar-AAL7nOl?li=BBqg6Qc

Il 21 giugno ha risposto a stretto giro di posta l’ambasciatore russo a Roma, Sergey Razov. Qui sotto il testo della lettera aperta:

Stimato Direttore,

ha richiamato la nostra attenzione l’ampio articolo intitolato “Bergamo, virus, spie e vaccini” pubblicato sul Suo quotidiano il 20 giugno, in cui il giornale ripercorre i fatti di marzo-aprile 2020, quando un gruppo di medici virologi ed esperti disinfettatori russi ha operato nel Nord Italia.

Tre righe e mezzo dell’articolo contengono l’ammissione che “i soldati russi a Bergamo hanno fornito assistenza concreta, curando decine di pazienti, durante le ore più buie della storia recente e disinfettando decine di centri per anziani”. Le restanti quasi 500 sono una congerie di invenzioni sul contenuto reale di quella che sarebbe stata una missione militare dell’intelligence russa nello spirito delle “guerre ibride”, “una campagna di disinformazione e propaganda”, con addirittura elementi della “competizione per riscrivere la mappa geopolitica del pianeta”. Tentare un’analisi dettagliata di tutta questa serie di invenzioni sarebbe una perdita di tempo. Prendiamo in considerazione solo alcuni fatti.

Ricordo bene come un anno fa questo stesso giornale e un certo numero di altri media italiani cercò, senza alcuna prova, di individuare la natura spionistica della nostra missione che avrebbe tentato di ottenere informazioni sulle strutture militari italiane e della NATO a Bergamo e Brescia, dove erano impegnati i nostri specialisti. I chiarimenti in merito al fatto che quelle aree erano state individuate dalle autorità italiane sono stati semplicemente ignorati. C’è voluto più di un anno perché gli autori di “La Repubblica” ammettessero finalmente quello che era ovvio e cioè che le strutture militari italiane e della NATO, come è risultato, non erano l’obiettivo della nostra missione umanitaria (pare non siano avvezzi a scusarsi per la palese disinformazione, attivamente diffusa nella primavera del 2020).

Ma, come si dice, ciò che è storto non si può raddrizzare (Ecclesiaste 1:15). Ora gli scrittori di “La Repubblica” ci attribuiscono la colpa di aver inviato in Italia i nostri migliori medici virologi ed epidemiologi, dotati di grande esperienza (è vero, ne abbiamo orgogliosamente parlato fin dall’inizio), di aver utilizzato sul posto un moderno laboratorio mobile, che avrebbe analizzato “la struttura genetica del virus e inviato i dati a Mosca con il sistema satellitare di comunicazione criptata”. Sì, anche allora abbiamo parlato di questo laboratorio mobile che era impegnato esclusivamente nel monitoraggio della salute del contingente, nella messa a punto delle metodiche e delle dosi di protezione immunitaria, nell’analisi PCR e nella genotipizzazione. (A proposito, effettivamente abbiamo registrato casi di infezione da coronavirus tra i nostri militari che hanno lavorato nelle zone più pericolose d’Italia). Di quali altri compiti e possibilità nascoste di questo laboratorio possono parlare gli autori, se loro stessi ammettono che nessun estraneo ha potuto accedervi.

Poi, l’affermazione forse più ridicola e sacrilega dell’articolo: “il vaccino Sputnik V è nato dal virus italiano”. (I russi hanno rubato il COVID italiano?!) Gli autori cercano di tracciare un legame causale e temporale diretto tra il lavoro della nostra missione e l’invenzione del vaccino russo. E cioè: i dati clinici acquisiti in Italia “con un’operazione di spionaggio” avrebbero permesso ai nostri specialisti di produrre un vaccino nel più breve tempo possibile. I conti non tornano. Fonti sanitarie e militari in Italia – dice il giornale – confermano che “i russi non erano autorizzati a portare campioni e provette fuori dagli ospedali dove curavano i pazienti”. Inoltre, la Russia ha iniziato a testare lo Sputnik V su volontari già a giugno e ad agosto questo vaccino è stato il primo al mondo ad essere certificato. È chiaro anche a un profano che l’invenzione del vaccino non poteva che essere il risultato di molti anni di ricerca su altre malattie virali.

È assolutamente ovvio che il lavoro eroico dei nostri militari in Italia, durato ben 46 giorni, ha fornito una certa esperienza nella comprensione del pericolo di questa malattia, della velocità e delle peculiarità della diffusione dell’infezione, arrivata in Russia, com’è noto, tre o quattro settimane dopo l’Italia. E questa esperienza è stata debitamente utilizzata per sviluppare le nostre misure contro la pandemia. Ma dove sarebbe qui il crimine?! Si tratta di un percorso di collaborazione assolutamente naturale e generalmente accettato, che peraltro prosegue ancora oggi. Al momento, l’Istituto Spallanzani di Roma sta conducendo studi clinici scientificamente importanti sul vaccino Sputnik V con la partecipazione di specialisti russi. Altre prove sono previste nell’ambito del rispettivo Memorandum di cooperazione firmato nell’aprile di quest’anno. Se il giornale Repubblica dedicasse anche solo un centesimo del suo voluminoso materiale a tale lavoro comune, volto a combattere l’epidemia, a nostro parere offrirebbe un servizio migliore e più interessante ai lettori dell’autorevole quotidiano.

E infine, un’ultima cosa. Gli autori definiscono Bergamo “un campo di prova per nuovi conflitti ibridi”. Noi invece partiamo dall’assunto che questo è il luogo in cui al popolo italiano in difficoltà i vertici e il popolo della Russia hanno disinteressatamente dato una mano. Qui sta la principale divergenza con la redazione del giornale, la cui politica provoca la nostra reazione a questo genere di informazioni.

L’Ambasciatore della Russia in Italia

21.06.2021

L’articolo è un concentrato di rara intensità di infantilismo meschino e vile in un panorama giornalistico che certamente non brilla per serietà e fondatezza di analisi.

L’ambasciatore ha avuto buon gioco quindi nel replicare con ferma diplomazia, senza neppure infierire.

Non ce n’era del resto bisogno.

Su quali comportamenti e intenzioni hanno avuto da recriminare i nostri segugi colti da sospetta crisi olfattiva?

A denti stretti hanno dovuto ammettere che lo scopo reale della missione sanitaria russa non era lo spionaggio delle installazioni militari o quantomeno non ci sono elementi sufficienti a suffragare l’ipotesi; sempre che non si possano considerare tali le inevitabili sbirciatine dai finestrini nel lungo viaggio di avvicinamento a Bergamo. Il bersaglio era però ancora più importante: catturare la Covid italiana, portarsela in Russia e carpirne i segreti; sperimentare sul campo le proprie procedure di gestione di una pandemia e di guerra batteriologica, analizzare quelle adottate da un paese occidentale, verificare l’andamento epidemiologico e patologico della sindrome. Come spiegarsi altrimenti il livello così alto e specialistico e la natura militare dei protagonisti, in particolare la loro provenienza dai laboratori chimico-biologici militari? L’accusa velata era di ricondurre il loro interesse alla logica della guerra batteriologica più che alla finalità umanitaria; accusa velata, ma strumentale e maldestra vista la analoga attività svolta da tanti laboratori americani, francesi ed inglesi civili e militari sparsi nei propri paesi e nel mondo. I missionari in colbacco del resto non hanno sentito ragioni nel condividere i dati acquisiti, la sofisticata strumentazione in possesso con gli ospitanti così smarriti in tanto tragico caos. Hanno così ingannato “Giuseppi” e l’intera compagine governativa, piombando come falchi su di un paese smarrito, prendendo alla sprovvista i custodi della sicurezza del paese, carpendo i segreti del mostriciattolo per ricavarne un efficace vaccino in colpevole anticipo rispetto agli amici occidentali, per trarne insegnamenti utili nella gestione ormai prossima a venire della pandemia nel loro paese.

Il senso di privazione che pervade i nostri due segugi è evidente, ammirevole, ma tardivo. In un quotidiano che per trenta anni ha sostenuto attivamente e con entusiasmo, pur in buona compagnia, la spoliazione e la privazione di beni del proprio paese, ai pochi giornalai di buon cuore non è rimasto che aggrapparsi al poco che è rimasto in Italia, difendendolo a denti stretti. In quel poco è rimasto evidentemente la Covid 19 italiana. I tapini non si sono accorti per altro di dare involontariamente ragione ai rivali cinesi i quali, per nascondere le proprie magagne, hanno cominciato a vendere nel mondo l’insinuazione dei virus nazionali, compreso quello tricolore.

L’angoscia da privazione non fa che fissare i pregiudizi e impedire di porre correttamente le domande e soprattutto di porle alle persone giuste.

Hanno accusato i russi di strumentalizzare a fini geopolitici e di propaganda il loro intervento; li hanno incriminati di lesa maestà per aver tentato di scombussolare l’Unione Europea; si sono risentiti, colti da un malinteso orgoglio nazionale, per i loro giudizi sferzanti sulla gestione italiana della pandemia.

Hanno dimenticato in buona sostanza di essere dei giornalisti e di porre le giuste domande:

  • come mai non ha funzionato la solidarietà europea nei momenti più acuti della crisi pandemica?

  • Da dove arriva l’ostracismo al vaccino russo e il fallimento della ricerca scientifica europea?

  • Come mai le implicazioni e il conflitto geopolitici hanno riguardato non solo i paesi dichiarati ostili (Russia e Cina), ma anche quelli “fratelli ed amici”?

  • Come mai il Governo e il paese si è affidato alla improbabile coppia costituita da un manager-finanziere di terza fila (Arcuri) e da un contabile della Protezione Civile (Borrelli), con la consulenza esclusiva di virologi impegnati più che altro ad apparire sugli schermi, piuttosto che ad una struttura composta da esperti di logistica, igienisti, manager della salute nella quale i militari avrebbero dovuto avere un ruolo di primo piano e non di serventi tuttofare?

  • Come mai il Governo non è stato in grado di concordare le modalità di intervento e di scambio delle informazioni con tutti gli interlocutori internazionali, oltre che con russi e cinesi? Anni fa ad un alto ufficiale americano fu chiesto come mai tante basi erano state spostate dalla Germania in Italia. Da buon anglosassone la risposta fu lapidaria: “in Germania per muoversi occorre compilare protocolli di almeno dieci pagine, in Italia una telefonata.”

  • Come mai si sono omesse le analisi epidemiologiche e diagnostiche che accelerassero l’individuazione dei decorsi e la definizione di terapie efficaci?

  • Come mai è quasi completamente saltata quella medicina di base e preventiva sulla quale dovrebbe fondarsi il sistema sanitario nazionale, stando almeno alle dichiarazioni fondative di principio come pure è rimasto impolverato il piano di emergenza nazionale?

  • Come mai in una situazione di grave emergenza non si è risolto rapidamente il disordine istituzionale e lo si è piuttosto strumentalizzato per scaricarsi reciprocamente le responsabilità della cattiva gestione della crisi?

Le giuste domande, ma alle persone giuste: al ceto politico italico, alla sua classe dirigente e ai suoi quadri amministrativi, agli alleati o sedicenti tali piuttosto che alla missione russa rea di aver fatto quello che avrebbero dovuto fare tutti. Le cui giuste risposte avrebbero probabilmente consentito di non pietire interventi esterni a scatola chiusa e di non porre alla radice il problema.

Si sa purtroppo che l’orgoglio nazionale serve a suscitare le migliori energie di un paese, ma anche, spesso e volentieri, a coprire le peggiori magagne e speculazioni.

La soluzione non può arrivare da segugi di tal fatta. Sono parte in causa di una categoria a pieno titolo corresponsabile di una gestione fatta e condizionata da allarmismo, disinformazione, schizofrenia, superficialità e irresponsabilità. Una gestione che ha ridotto l’emersione di un problema serio ad una manipolazione inquietante senza una soluzione di continuità prevedibile in una emergenza senza fine. Un vero e proprio ossimoro. Mario Draghi è arrivato a risolvere alcuni dei problemi posti. Probabilmente ci riuscirà, ma non sarà la gran parte del paese a giovarsi del risultato. Lo abbiamo intravisto negli ultimi due vertici mondiali del G7 e della NATO sui quali continueremo a soffermarci.

Ai due segugi, dal cuore ingrato e dall’indole meschina, non rimane che replicare a loro volta a due semplici domande: a chi, a quale pifferaio devono rispondere dei loro sproloqui infantili e mal posti? Non certo ai lettori, vista la crescente disaffezione. Siete voi stessi agenti terminali di una guerra ibrida?

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