Come vede un politico sudcoreano le principali questioni geopolitiche in Asia? Intervista con Song Young-Gil, di Maxime LEFEBVRE

Come vede un politico sudcoreano le principali questioni geopolitiche in Asia? Intervista con Song Young-Gil
di Maxime LEFEBVRE, SONG Young-Gil, 13 settembre 2023
Song Young-Gil, nato nel 1963, ha iniziato la sua vita politica facendo campagna per la democratizzazione della Corea del Sud. Membro del Partito Democratico, è stato membro dell’Assemblea nazionale coreana per 20 anni (2000-2020) e ha partecipato attivamente alla diplomazia parlamentare. È stato anche sindaco di Incheon, la terza città più grande della Corea (2010-2014), e presidente del Partito democratico della Corea (2021-2022). Nella prima metà del 2023 ha trascorso un anno accademico in Francia come visiting professor presso la ESCP Business School.
Maxime Lefebvre, ex ambasciatore, professore di relazioni internazionali alla ESCP, direttore scientifico del master “International Business & Diplomacy”, autore di “Jeu du droit et de la puissance. Précis de relations internationales”, PUF Major, 6a edizione, 2022.

Come possiamo comprendere le relazioni con la Repubblica Popolare Cinese? Che ruolo ha la guerra economica in questo contesto? Sarebbe possibile riunificare la penisola coreana e con quali mezzi? Queste sono alcune delle domande che Maxime Lefebvre ha posto a Song Young-Gil per Diploweb.com.

Maxime Lefebvre (M. L. ): Secondo lei, quali sono le idee sbagliate sul crescente confronto con la Cina?

Song Young-Gil (S. Y-G): C’è una differenza fondamentale tra le relazioni americano-sovietiche e quelle americano-cinesi. Yan Xuetong, professore dell’Università Tsinghua e ideologo di destra rappresentante del patriottismo cinese, una volta ha paragonato le relazioni tra Stati Uniti e Russia a un gioco a somma zero, come un incontro di boxe, e le relazioni sino-americane a una competizione, come una partita di calcio. Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti e l’URSS hanno diviso il mondo in due blocchi economici, economie di mercato ed economie pianificate. Al contrario, l’attuale relazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese è integrata in un’economia di mercato unificata e l’interdipendenza economica tra i due Paesi è così forte che non è facile separarli.

Karl Marx ha sviluppato la teoria secondo cui quando la base materiale, le forze produttive e i rapporti di produzione vengono trasformati (l’infrastruttura), la sovrastruttura legale e politica si trasforma a sua volta. Molti attivisti comunisti e socialisti hanno agito secondo questa ideologia e si pensava che l’integrazione della Cina nell’ordine economico mondiale e la sua accettazione di un’economia di mercato capitalista avrebbero portato naturalmente alla democratizzazione delle sue strutture politiche e sociali. Tuttavia, quarant’anni dopo la modernizzazione e l’apertura della Cina, la struttura politica e sociale è tornata all’epoca di Mao Zedong. Di fatto, la Cina ha gradualmente rafforzato la sua dittatura attraverso l’autoritarismo digitale. L’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, si sono sentiti traditi per aver permesso alla Cina di entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e per averle concesso il trattamento di nazione più favorita. Gli Stati Uniti hanno quindi deciso di attuare politiche meno favorevoli alla Cina sulla base di un consenso bipartisan tra democratici e repubblicani. L’amministrazione Biden ha ereditato la guerra commerciale contro la Cina iniziata dal Presidente Trump e l’ha intensificata.

Questo approccio è appropriato? Prendiamo il punto di vista cinese. È innegabile che l’integrazione della Cina nell’ordine commerciale globale abbia contribuito allo sviluppo dell’economia statunitense e mondiale, fornendo alle fabbriche di tutto il mondo beni prodotti a basso costo. La Cina è stata il maggior acquirente di titoli del Tesoro americano, contribuendo a mantenere l’egemonia del dollaro. La Cina ha svolto un ruolo importante nel superamento della crisi economica del 2008. Lo sviluppo economico della Corea del Sud deve molto anche all’integrazione della Cina nell’economia globale. La Cina è ancora il principale partner commerciale della Corea del Sud e rappresenta il 25% del suo commercio estero.

La Cina è un Paese straordinario. Essendo uno dei quattro luoghi di nascita delle civiltà antiche (insieme alla Mesopotamia, all’Egitto e alla Grecia), ha svolto un ruolo centrale nel mondo, senza per questo tagliarsi fuori dalla modernità. È stato il Paese più potente del mondo, con oltre il 30% della produzione mondiale, fino ai “Cento anni di umiliazione”, durati dalle guerre dell’oppio degli anni Quaranta del XIX secolo alla fine della Seconda guerra mondiale nel 1945, durante i quali è stato invaso dalle forze imperialiste e spinto dal centro del mondo alla sua periferia. In Cina c’è un profondo consenso nazionale sul fatto che il popolo cinese non deve dimenticare questi cento anni di umiliazione. La Cina ha designato gli anni 2021 e 2049, corrispondenti ai centenari della fondazione del Partito Comunista Cinese e della Repubblica Popolare Cinese, come i due grandi centenari che dovrebbero consacrare un grande Paese socialista sviluppato.

Come vede un politico sudcoreano le principali questioni geopolitiche in Asia? Intervista con Song Young-Gil
Song Young-Gil
Politico sudcoreano
Rispetto alla Cina, l’Unione Sovietica non è mai stata veramente al centro del mondo. La Russia era un Paese periferico. Dominata dai mongoli, ottenne l’indipendenza solo sotto Ivan il Terribile e Pietro il Grande, iniziando a seguire il percorso dei Paesi europei avanzati. La rivoluzione comunista è avvenuta nel 1917 in una Russia sottosviluppata, non in società capitalistiche avanzate come Gran Bretagna, Francia e Germania. Il PIL dell’Unione Sovietica non ha mai superato il 60% del PIL degli Stati Uniti durante tutta la Guerra Fredda. La Cina, invece, si sta avvicinando al livello del PIL statunitense. Inoltre, la profondità della filosofia cinese è ancora più antica di quella greca e romana: Confucio, Mencio e i loro seguaci hanno formulato le loro idee già nel V secolo a.C.. Quattro grandi invenzioni della civiltà umana – carta, stampa, polvere da sparo e bussola – sono nate in Cina. Con una popolazione di 1,4 miliardi di abitanti, non inferiore ai 144 milioni della Russia [1], la Cina è oggi in grado di sostenersi sulla base della domanda interna. Le teorie sulla frammentazione e sul declino della Cina sono il pallino dei pensatori occidentali, ma la politica estera non può essere determinata da un’idea velleitaria, bensì deve basarsi sui fatti. Possiamo solo coesistere con la Cina. È impossibile costringere la Cina a cambiare il suo sistema. Dobbiamo adottare la filosofia cinese del “qiu tong cun yi”, cioè cercare cose in comune mettendo da parte le differenze.

M. L. : Quale dovrebbe essere la nostra strategia nei confronti della Cina?

S. Y-G: Nel corso della storia, la Cina ha raramente invaso territori per stabilire colonie. Nella penisola coreana, le dinastie Sui e Tang hanno combattuto feroci battaglie contro il regno di Goguryeo. I coreani erano un popolo del nord che commerciava con la Cina in una relazione ostile. La Cina fu spesso invasa dai popoli del nord e il suo territorio continentale fu occupato. La dinastia Song fu distrutta dai Mongoli e la penisola coreana cadde sotto il dominio mongolo. In epoca moderna, l’invasione manciù portò al crollo della dinastia Ming e alla creazione dell’Impero Qing. All’inizio della dinastia Ming, sotto il regno di Yongle, le sette spedizioni di Zheng Hua (1405-1433) attraversarono l’Oceano Indiano fino al continente africano, ben prima dei viaggi di Cristoforo Colombo e Magellano. La prima spedizione coinvolse 62 navi e 25.000 soldati e marinai. Nonostante le sue notevoli risorse, la Cina non ha mai fondato una colonia o preso il controllo di un Paese. Non costruì cattedrali o templi per diffondere la propria religione. Tutto ciò può sembrare piuttosto strano.

Come ci comportiamo con la Cina? Possiamo solo prendere la Cina così com’è. Dalle guerre dell’oppio alla creazione della Repubblica Popolare nel 1949, sono passati cento anni di umiliazioni e da allora sono passati 74 anni. A mio parere, dobbiamo aspettare e vedere. Nel 2049 sarà arrivato uno dei due grandi centenari che la Cina vuole celebrare. Credo che quello sarà il momento in cui la base si trasformerà e la sovrastruttura si trasformerà. È difficile che la Cina torni indietro alla Rivoluzione culturale. La Cina ha un’economia di mercato capitalista altamente sviluppata che trasformerà inevitabilmente la sua struttura politica e sociale.

Una questione fondamentale è quella di Taiwan. La Cina è un Paese composto da 56 gruppi etnici, i cinesi Han e 55 minoranze etniche. L’eventuale indipendenza di Taiwan alimenterebbe inevitabilmente movimenti secessionisti nello Xinjiang (uiguri), in Tibet, in Mongolia e tra i coreani delle tre province nordorientali. La posizione della Cina è che userà la forza per impedire l’indipendenza di Taiwan. Molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Corea del Sud, hanno accettato il principio di una sola Cina nelle loro politiche verso la Cina. Per questo motivo la Repubblica di Cina (Taiwan) ha perso la sua appartenenza alle Nazioni Unite e la Repubblica Popolare Cinese è diventata membro permanente del Consiglio di Sicurezza quando è entrata a far parte dell’ONU. La Cina potrebbe essere tentata di usare la forza per annettere Taiwan. Per evitare che ciò accada, è necessario rafforzare le capacità di autodifesa di Taiwan. Deve essere garantito il diritto del popolo taiwanese di determinare il proprio futuro. Credo che né la Cina, né gli Stati Uniti, né il Giappone debbano ricorrere alla forza. Se Taiwan non cerca l’indipendenza attraverso accordi costituzionali, non sarà facile per la Cina intervenire con la forza. La Cina difende ufficialmente il principio della riunificazione pacifica. Tuttavia, non esclude l’uso della forza se Taiwan cerca l’indipendenza.

Credo che i tentativi di indipendenza di Taiwan debbano essere considerati alla luce degli interessi fondamentali della Cina. È difficile garantire la propria sicurezza senza rispondere alle minacce alla sicurezza degli altri. Nell’inverno del 2014 ho trascorso tre mesi a Taipei come visiting professor presso la National Taiwan University of Political Science, dove ho incontrato molti politici taiwanesi, tra cui l’attuale presidente del Democratic Progressive Party, Lai Ching-te. Ho sottolineato in ogni occasione che non sarebbe saggio per i politici taiwanesi cercare di spingere per l’indipendenza e dare alla Cina un pretesto per intervenire con la forza. Dovrebbero mantenere lo status quo e godere del commercio con la Cina, gli Stati Uniti e il Giappone, in modo da diventare autosufficienti, seguendo lo slogan dell’Università Tsinghua: “non smettere mai di crescere più forte”. Ho sottolineato logicamente che il sistema democratico sviluppato di Taiwan dovrebbe permettersi di trasformare la Cina continentale, come era nelle ambizioni di Chiang Kai-shek, piuttosto che staccarsi dalla terraferma.

Il dialogo strategico tra Stati Uniti e Cina deve essere rafforzato.

Rispetto alla prima guerra fredda, oggi ci troviamo di fronte alla minaccia di una guerra nucleare unita a quella di una crisi climatica. È in gioco il destino dell’intera razza umana. Stati Uniti, Cina ed Europa devono unire le forze e mettere in comune la loro saggezza per proteggere il pianeta Terra. Superando l’era dei combustibili fossili e delle scorie nucleari, dobbiamo creare la forma più ideale di energia da fusione nucleare. Nell’aprile del 2023 ho visitato il sito del reattore sperimentale termonucleare internazionale (ITER) vicino ad Aix-en-Provence (Francia) e ne sono rimasto molto colpito. Il progetto è stato avviato all’epoca dei negoziati sul disarmo nucleare tra Gorbaciov e Reagan. Sette partner (Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Corea del Sud, Giappone, India e Russia) stanno costruendo il progetto, con un investimento di 20 miliardi di euro. Nonostante la guerra tra Russia e Ucraina, circa 60 scienziati e ingegneri russi ci stanno lavorando. Anche se ci sono litigi e controversie, dovremmo usare la forza di tutti in un progetto che assicura il futuro dell’umanità.

Attualmente, i canali di comunicazione tra Stati Uniti e Cina sono molto deboli. Si è persino detto che sono peggiori di quelli esistenti durante la Guerra Fredda tra Stati Uniti e URSS. È un’assurdità. Il dialogo strategico tra Stati Uniti e Cina deve essere rafforzato. Gli Stati Uniti, che hanno più di 800 basi militari in tutto il mondo, dovrebbero chiedersi se sia il modo giusto di affrontare la Cina, che non ha una rete di basi militari all’estero, brandendo la minaccia cinese e intensificando i preparativi per un confronto militare con la Cina.

M. L. : Ma c’è un equilibrio geopolitico di potere da raggiungere con la Cina. Come si può fare?

S. Y-G: Abbiamo bisogno di un equilibrio di potere per competere e cooperare con la Cina, contenendo al contempo la sua espansione esterna.

L’India può essere vista come un’alternativa nelle catene di produzione globali. L’India è un Paese promettente con un potenziale illimitato, ma è anche un Paese frenato dal sistema delle caste, dalle disuguaglianze socio-economiche, dalla diversità linguistica e religiosa e da molti altri problemi. Per raggiungere la Cina, l’India dovrebbe recuperare un ritardo di 20-30 anni, il che non è poco. Non è facile integrare la popolazione più numerosa del mondo mantenendo un sistema democratico con regolari elezioni per la formazione dei governi, e questo spiega perché il Primo Ministro Narendra Modi e il suo BJP stiano enfatizzando il nazionalismo indù e si stiano muovendo verso una dittatura di fatto autoritaria. Se l’India riuscirà a consolidare le sue istituzioni democratiche e a sviluppare la sua economia, potrà creare le leve che le permetteranno di diventare un’alternativa alla Cina. Credo che la comunità internazionale debba mostrare maggiore interesse e sostegno per la modernizzazione delle infrastrutture e delle istituzioni indiane. Il futuro dello sviluppo democratico dipende dal fatto che l’India, la più grande democrazia del mondo, riesca a svilupparsi adeguatamente.

Ci sono poi il Vietnam e la Corea del Nord. Entrambi gli Stati hanno forti ideologie nazionaliste di indipendenza. Nella loro storia, il Vietnam e il regno di Goguryeo hanno rifiutato di arrendersi e hanno resistito. Oggi è lo stesso. È stato pubblicato un libro sulle visite del Segretario alla Difesa statunitense McNamara in Vietnam e sul suo dialogo con la leadership del Partito Comunista vietnamita. La guerra decennale tra Stati Uniti e Vietnam ha causato danni enormi. L’esercito sudcoreano partecipò alla guerra del Vietnam su richiesta degli Stati Uniti. Nonostante il massiccio sostegno militare statunitense, il governo sudvietnamita non riuscì a sconfiggere le forze del Vietnam del Nord e del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam del Sud. Nel 1995, 20 anni dopo la riunificazione del Vietnam da parte dei comunisti, gli Stati Uniti e il Vietnam stabilirono relazioni diplomatiche. Si temeva che la vittoria del comunismo in Vietnam, dopo la Cina, avrebbe portato alla sua espansione in Laos, Cambogia e Thailandia. Ma questa teoria si rivelò errata. Anche all’interno del campo comunista, piccoli e medi conflitti si sono intensificati, passando da dispute di confine a guerre su larga scala. Cina e Vietnam entrarono in guerra nel 1979. Il comunismo è una forma di internazionalismo, ma in realtà la lettura storica e geopolitica e l’ideologia nazionalista hanno avuto più effetto dell’ideologia comunista internazionale.

Dal 1995 il Vietnam è un alleato di fatto degli Stati Uniti.

Oggi il Vietnam, come la Cina, ha abbracciato l’economia di mercato e la politica di apertura (riforma Doi Moi del 1986) e sta vivendo una notevole crescita economica. Il Vietnam è un alleato di fatto degli Stati Uniti dal 1995. È un avamposto contro l’espansione della Cina nel Mar Cinese Meridionale. Lo stesso vale per la Corea del Nord. La Corea del Nord è allo stesso tempo dipendente dalla Cina e ferocemente indipendente. La Corea del Nord fa riferimento all’ideologia dell’unità nazionale nota come “Juche”. La Corea del Nord cerca disperatamente di stabilire relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Se le relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord si normalizzassero, la Corea del Nord potrebbe diventare il prossimo Vietnam [2] e svolgere un ruolo di controllo sul perno della Cina verso il Pacifico.

M. L. : Che ruolo ha la guerra economica in questo contesto?

S. Y-G: Il furto di proprietà intellettuale da parte della Cina nei confronti delle aziende straniere è ben noto. Le aziende coreane che hanno investito massicciamente in Cina nei primi tempi della riforma stanno fuggendo dalla Cina e trasferendo le loro fabbriche in Vietnam e in India a causa di un trattamento palesemente discriminatorio, come i requisiti per il trasferimento di tecnologia e il furto di tecnologia. La comunità internazionale deve rispondere alle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale da parte della Cina. La protezione dei diritti di proprietà intellettuale deve essere rafforzata nell’interesse dello sviluppo economico della Cina.

La legislazione IRA adottata dagli Stati Uniti per impedire alla Cina di sviluppare la tecnologia dei semiconduttori non è priva di problemi. Samsung e SK, che hanno investito pesantemente in Cina e vi gestiscono impianti di semiconduttori, saranno gravemente colpite. Questa misura degli Stati Uniti è contraria all’ordine del commercio internazionale aperto. Le condizioni di concorrenza devono essere uguali per tutti. Se la Cina sviluppa prodotti di qualità superiore e guida la gara, dovremmo accettarlo e ricercare e sviluppare nuove tecnologie per superarla, in modo che la civiltà umana possa progredire. Rifiutare la concorrenza attraverso pressioni politiche non è sostenibile. Gli Stati Uniti hanno chiesto ai Paesi Bassi di non esportare i sistemi di incisione dei semiconduttori EUV, prodotti esclusivamente dall’azienda olandese ASML, e i Paesi Bassi si sono adeguati. Ma credo che sia solo questione di tempo prima che la Cina sviluppi le proprie tecnologie. Gli Stati Uniti stanno cercando di creare una nuova catena di valore e di fornitura per circondare la Cina, e questo potrebbe scontrarsi con gli interessi della Corea e dell’UE. Gli Stati Uniti sono interessati solo ad attirare la produzione di semiconduttori sul proprio territorio, nell’ambito della politica “America First”. Tuttavia, gli effetti dannosi sulle alleanze esistenti sono criticabili. Lo stesso vale per Tiktok e Huawei. Ritengo che il problema della sicurezza sia di natura tecnica e possa essere risolto senza vietare una società o un social media nella sua interezza. Tutti i social media e le società di telecomunicazioni, compresi Facebook e Twitter, hanno lo stesso problema. Si tratta solo di capire se sono la Cina o gli Stati Uniti a poter spiare. Anche gli Stati Uniti hanno dimostrato la loro capacità di attaccare la sovranità e la sicurezza, come ha dimostrato l’esempio della recente intercettazione dell’amministrazione presidenziale sudcoreana. È un’umiliazione per la Corea del Sud e il presidente sudcoreano Yoon Suk-Yeol non ha detto una parola al riguardo durante la sua visita negli Stati Uniti.

M. L.: Cosa pensa della strategia indo-pacifica della Francia e dell’Europa? Abbiamo un ruolo da svolgere nella regione?

S. Y-G: La Cina dipende dall’estero per il 50% del suo consumo energetico, l’80% del quale viene importato dal Medio Oriente attraverso lo Stretto di Malacca. Lo Stretto è controllato da Singapore, un alleato militare di fatto degli Stati Uniti. Di conseguenza, la Cina starebbe cercando una rotta attraverso la Thailandia (il Canale di Kra) che le consentirebbe di aggirare lo Stretto di Malacca. Le riserve strategiche di petrolio della Cina non superano i 30 giorni, una riserva insufficiente in caso di guerra con gli Stati Uniti. È chiaro che le Nuove Vie della Seta (Belt and Road Initiative) includono una strategia per garantire l’approvvigionamento energetico in caso di blocco dello Stretto di Malacca. È in corso un progetto per collegare gli oleodotti allo Xinjiang attraverso il porto pakistano di Gwadar, aggirando lo Stretto di Malacca.

Il principio della libertà di navigazione verso il Mar Cinese Meridionale attraverso lo Stretto di Malacca e lo Stretto di Taiwan è molto importante anche per la Corea del Sud e il Giappone, che dipendono dalle importazioni di petrolio dall’estero. Il libero passaggio delle navi mercantili è garantito, ma il problema è quello delle navi militari. Il potenziale di conflitto tra le flotte statunitensi e cinesi nello Stretto di Taiwan è in aumento. Il principio della libertà di navigazione nell’Indo-Pacifico, la prevenzione del contrabbando e del terrorismo e il cambiamento climatico offrono ampi spazi di cooperazione. Il problema è che la strategia indo-pacifica promossa da Stati Uniti e Giappone è in realtà una strategia di alleanza militare per contenere la Cina, mentre le strategie di India, Europa e Corea del Sud mirano a stabilire un ordine di libertà di navigazione e di commercio, che è un interesse contrario alla strategia di “contenimento”. Nella strategia indo-pacifica, non c’è alternativa alla consultazione e alla cooperazione con la Cina, e la chiave è lo Stretto di Taiwan. La causa principale della tensione militare nello Stretto di Taiwan è la questione dell’indipendenza di Taiwan. Affrontare questa questione in modo da rispettare il principio dell’Unicità della Cina può contribuire a ridurre le tensioni militari con la Cina.

M. L. : È possibile riunificare la penisola coreana e con quali mezzi?

S. Y-G: La lezione della guerra di Corea (1950-1953) è stata che né il Nord né il Sud potevano essere riunificati con la forza e che non si doveva tentare di nuovo. Da allora, la Repubblica di Corea ha abbandonato il principio della riunificazione forzata e ha invece adottato il principio della riunificazione pacifica nella Costituzione del giugno 1987. Per ottenere una riunificazione pacifica, l’attuale armistizio deve essere convertito in un accordo di pace.

Dopo il crollo dell’URSS e del sistema della Guerra Fredda nel 1991, la Corea del Sud ha stabilito relazioni diplomatiche con Russia e Cina. La Corea del Nord, invece, non ha relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Giappone. Nel 1991 le due Coree hanno aderito contemporaneamente alle Nazioni Unite, diventando così due Stati riconosciuti dal diritto internazionale. Tuttavia, nessuna delle due riconosce l’altra sulla base del diritto interno. La legge sulla sicurezza nazionale della Corea del Sud considera la Corea del Nord un’entità sub-statale ed è severamente vietato visitarla o comunicare con essa. Anche solo parlare bene della Corea del Nord può essere perseguito come reato. Questa legge sulla sicurezza nazionale è oggetto di un acceso dibattito tra liberali e conservatori in Corea del Sud. La questione fondamentale per la riunificazione della Corea è la normalizzazione delle relazioni con la Corea del Nord. La Corea del Sud non ha firmato l’armistizio che ha posto fine alla guerra di Corea. Il presidente Syngman Rhee si oppose all’epoca. Le parti dell’armistizio erano la Corea del Nord, gli Stati Uniti e la Cina. Ci sono stati molti accordi di inviolabilità tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, ma hanno un effetto limitato finché lo stato di guerra tra i due Paesi continua.

Sarebbe stato più facile risolvere la questione nucleare nordcoreana se le relazioni tra i due Stati fossero state normalizzate al momento della loro contemporanea ammissione alle Nazioni Unite nel 1991, quando il programma nucleare della Corea del Nord non esisteva. A quel tempo, la Corea del Nord si trovava in una posizione più vulnerabile a causa del crollo dell’Unione Sovietica. Gli aiuti economici dell’URSS e del blocco socialista erano stati interrotti. Nel 1994 iniziò la grande carestia che vide milioni di persone morire di fame. La Corea del Nord chiese di rimandare la normalizzazione delle relazioni con la Cina fino a quando non fossero state normalizzate le relazioni tra Corea del Nord e Stati Uniti. Ma Pechino rimase sorda e la Corea del Nord accelerò il suo programma nucleare per garantire il suo regime. Ciò ha portato alla crisi nucleare del 1994, che è degenerata fino all’orlo della guerra tra Corea del Nord e Corea del Sud. Fortunatamente, su suggerimento di Kim Dae-jung [3], l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter si recò a sorpresa a Pyongyang e tenne dei colloqui con Kim Il-sung; i negoziati tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti ebbero luogo e portarono all’accordo nucleare di Ginevra nel 1994. Tuttavia, sotto l’amministrazione Bush, l’accordo di Ginevra è stato costantemente criticato, il conflitto tra Stati Uniti e Corea del Nord si è intensificato e alla fine gli Stati Uniti hanno definito la Corea del Nord come un Paese dell'”asse del male”. Da allora ci sono stati nuovi tentativi, come l’accordo di denuclearizzazione del 19 settembre 2005, che però è fallito a causa del sequestro dei conti nordcoreani presso la Delta Bank, e la crisi nucleare si è aggravata quando la Corea del Nord ha effettuato il suo primo test nucleare nel 2006.

Sotto l’amministrazione Trump, nel 2018 si è tenuto a Singapore uno storico vertice. Per quanto io sia critico nei confronti delle politiche di Trump sul cambiamento climatico e su altre questioni, apprezzo la sua opposizione alla guerra in Iraq e i suoi tentativi di affrontare la questione nucleare nordcoreana con un vertice. Le politiche di pazienza strategica del Presidente Obama e del Presidente Biden sono in realtà molto più vicine alla soluzione del problema rispetto alla questione nucleare. La Corea del Nord potrebbe diventare un nuovo Vietnam. Grazie alla normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord, la Corea del Nord potrebbe diventare un Paese filoamericano e un freno all’espansione della Cina nel Pacifico. Ad oggi, la Corea del Nord non permette alle truppe russe o cinesi di stazionare sul suo territorio in nome dell’ideologia “Juche”. Inoltre, con il Trattato di Pechino del 1870, la Cina cedette dei territori alla Russia, tra cui le attuali Yanzhou e Vladivostok, suscitando ampie critiche da parte del popolo cinese per l’incompetenza del governo Qing. Il risultato fu che gli sbocchi della Cina sul Mar del Giappone e sull’Oceano Pacifico furono bloccati. La Cina ha quindi adottato una politica di affitto dei porti per accedere al mare e sta investendo nella strada per Najin in Corea del Nord. Tuttavia, la Corea del Nord non ha ancora aperto i porti di Najin e Qingjin alle navi russe e cinesi. Se lo facesse, avrebbe un forte impatto sulle strategie pacifiche di Stati Uniti e Giappone.

Soprattutto, le relazioni tra Corea del Nord e Stati Uniti devono essere normalizzate. Credo che l’unico modo per riunificare le due Coree sia il riconoscimento reciproco dei due regimi, l’espansione del commercio e il rafforzamento della cooperazione economica, seguendo la Sunshine Policy di riconciliazione e cooperazione tra le due Coree, attuata sotto Kim Dae-jung, Roh Moo-hyun e Moon Jae-in [4]. Come per la riunificazione tedesca, il cambiamento deve avvenire attraverso il riavvicinamento.

Traduzione dall’inglese al francese di Maxime Lefebvre.
Manoscritto completato a fine agosto 2023.
Copyright settembre 2023-Song Young-Gil-Lefebvre/Diploweb.com

https://www.diploweb.com/Comment-un-homme-politique-sud-coreen-percoit-il-les-grands-enjeux-geopolitiques-en-Asie-Entretien.html

IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Roberto Iannuzzi

 

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017.

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

 

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan. È l’eredità dell’era Bush, anche se la crisi ha radici più lontane. Da quel momento in poi, due dinamiche prendono corpo: da un lato il dibattito serrato, quasi ossessivo, all’interno dell’establishment USA su come ristabilire la credibilità ed il prestigio americano a livello internazionale. Dall’altro, il “risveglio” del cosiddetto “Sud del mondo”, il mondo non occidentale, trainato in gran parte dalla Cina. Pechino comincia a concepire un progetto per emanciparsi dalla dipendenza da Washington, che ormai viene vista più come un rischio che non come un vantaggio. Da qui prenderanno corpo i BRICS (alla cui nascita la Russia dà un contributo chiave, avendo già compreso con Primakov, alla fine degli anni ’90, di poter sopravvivere solo in un mondo multipolare), la via della seta, e le altre strutture del nascente multipolarismo. Nel frattempo a Washington, la presidenza Obama, che avrebbe dovuto essere quella del riscatto, si risolve in un fallimento. Obama dapprima annuncia il “pivot” verso l’Asia, cioè il ridispiegamento della parte più consistente delle forze navali USA nel Pacifico per contenere la Cina, e lancia l’idea di due gigantesche aree di libero scambio – la Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e la Trans-Pacific Partnership (TPP) – per isolare Russia e Cina. Quello di Obama è di fatto il primo tentativo americano di smontare la globalizzazione nella quale gli USA non riescono più a primeggiare. Poi però, il presidente che doveva risollevare l’America, “stuzzicato” dalle rivolte arabe del 2011, si lascia “risucchiare” ancora una volta in guerre infruttuose e fallimentari in Medio Oriente, in particolare in Libia e Siria. Soprattutto questo secondo conflitto sarà causa di pericolose tensioni sul terreno, e di aspri confronti in sede ONU, con la Russia. Il pivot verso l’Asia, e le due aree di libero scambio nell’Atlantico e nel Pacifico, resteranno sulla carta. Sotto Obama abbiamo però anche il culmine dell’annoso processo di infiltrazione americana dell’Ucraina, in particolare tramite il costante sostegno statunitense ai nazionalisti del paese, con la rivolta di Maidan nel 2014 (scoppiata naturalmente anche per ragioni economiche e sociali) pesantemente appoggiata dagli USA. Basti ricordare le immagini di Victoria Nuland e John McCain nelle strade di Kiev. Il rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych, e l’insediamento a Kiev di un governo nazionalista e violentemente antirusso, costituiscono il prologo indispensabile per comprendere l’attuale conflitto in Ucraina. La presa della Crimea da parte della Russia e lo scoppio della guerra civile in Donbass, dove il nuovo governo non viene riconosciuto, ne sono la prima conseguenza. Dopo le iniziali avvisaglie avutesi con il conflitto siriano, Maidan 2014 segna il riacutizzarsi di una guerra fredda fra USA e Russia che per gli angloamericani non si era mai realmente conclusa. Il rifiuto di accogliere Mosca, dopo il crollo del muro, in una comune architettura di sicurezza europea, in primo luogo a causa del veto di Washington e Londra, ha progressivamente trasformato i paesi dell’Europa dell’Est, tramite la continua espansione della NATO, nel fronte di un nuovo conflitto con l’erede dell’Unione Sovietica. La brama dell’establishment americano di ristabilire il “primato” degli USA, dopo la drammatica crisi del 2008, ha contribuito ad infiammare questo fronte mai realmente pacificato. Una costante del dibattito interno statunitense dopo il 2008 è stata infatti il dilemma riguardo a quale avversario affrontare e contenere prima: disimpegnarsi dal Medio Oriente o no? Affrontare prima la Russia o la Cina? Dopo la parentesi imprevista della presidenza Trump, manifestatasi proprio a causa del fallimento di Obama anche sul fronte interno, con Biden il confronto con la Russia riacquista la precedenza, mentre quello con la Cina, avviato dalla guerra dei dazi promossa dal suo predecessore, rimane principalmente sul piano delle contromisure economiche. Fin dal tentativo americano di isolare Mosca sia politicamente che economicamente, attraverso l’imposizione delle prime sanzioni, nella crisi internazionale seguita a Maidan 2014, si comprende qual è l’obiettivo di Washington: porre fine alla progressiva integrazione economica fra Russia ed Europa, riconducendo gli europei ad una più stretta fedeltà e dipendenza dall’alleato statunitense. Tale integrazione costituisce infatti un tassello essenziale della più vasta integrazione eurasiatica che rappresenta la principale minaccia al primato americano a livello mondiale. Appena entrato alla Casa Bianca, Biden dà nuovo impulso alla penetrazione della NATO in Ucraina, mai realmente interrottasi dal 2014 attraverso esercitazioni militari congiunte, invio di armi all’esercito ucraino, costruzione di basi navali e fornitura di navi da guerra compatibili con gli standard NATO, sostegno logistico e di intelligence alla campagna militare di Kiev nel Donbass. I preparativi ucraini per un’offensiva militare finalizzata a riguadagnare definitivamente il controllo sul Donbass, e la firma, nel novembre 2021, di una Carta di partnership strategica da parte di Washington e Kiev, che prevedeva fra l’altro l’impegno a ristabilire la “piena integrità territoriale” ucraina (inclusa la Crimea), sono gli ultimi elementi che probabilmente hanno spinto Mosca a ritenere che una guerra fosse inevitabile. Questa lunga premessa sulle fasi storiche che hanno preceduto lo scoppio del conflitto dovrebbe far comprendere, in primo luogo, che lo slogan occidentale della “aggressione non provocata” da parte di Mosca è in realtà un mito privo di fondamento. Un mancato intervento militare da parte del Cremlino avrebbe infatti potuto portare non solo alla totale sottomissione del Donbass, ma anche alla successiva perdita della Crimea e di Sebastopoli, dove risiede la base navale (per Mosca insostituibile) che ospita la flotta russa del Mar Nero. Temporeggiare ulteriormente avrebbe dunque potuto comportare per Mosca l’estromissione di fatto dal Mar Nero e la trasformazione dell’Ucraina in un paese completamente integrato con la NATO, che a quel punto sarebbe potuto diventare membro effettivo dell’Alleanza, eventualmente schierando missili in grado di raggiungere Mosca in 4-5 minuti. Un esito inaccettabile per la Russia qualora non avesse voluto rassegnarsi al proprio inarrestabile declino. Del resto Washington era consapevole del fatto che la Russia sarebbe probabilmente intervenuta, poiché Mosca aveva tentato un ultimo approccio diplomatico nel dicembre 2021, presentando ai negoziatori USA un trattato vincolante, di fatto una sorta di ultimatum, che la Casa Bianca rifiutò. Da ciò segue che i decisori politico-militari occidentali – in particolare quelli americani – dovevano quantomeno aspettarsi che la deflagrazione di un conflitto fosse del tutto plausibile. Ed in effetti, nelle settimane che hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina, l’intelligence statunitense aveva incessantemente fatto trapelare sulla stampa notizie sull’imminenza dell’intervento di Mosca. Si può dunque concludere che la scelta americana di spingere la Russia verso un possibile conflitto sia stata consapevole. Naturalmente, si può affermare che questo sia stato il principale errore strategico di Washington. Altri sosterranno invece che gli USA hanno ottenuto ciò che volevano, ovvero separare la Russia dall’Europa e riaffermare l’egemonia americana sul vecchio continente. Il punto dirimente, a questo riguardo, sono gli enormi costi che una scelta del genere ha comportato, i quali probabilmente si ritorceranno contro gli stessi Stati Uniti sul lungo periodo. Ma prima di esaminare questo punto, vale la pena sottolineare che gli errori di valutazione “tecnicamente” più gravi i decisori occidentali, ed americani in particolare, li hanno commessi a conflitto iniziato. Naturalmente, almeno un grave errore lo hanno commesso anche i russi, ma gli strateghi statunitensi non hanno saputo interpretarlo. Inizialmente, infatti, l’invasione russa era stata davvero concepita come una “operazione militare speciale”, come l’aveva definita il Cremlino, ovvero un’operazione rapida, compiuta da una forza relativamente esigua (150.000 uomini), che con uno spargimento di sangue contenuto avrebbe dovuto assumere il controllo di alcuni punti nodali del territorio e, grazie alla defezione di parte dell’esercito ucraino e di elementi delle istituzioni, avrebbe spinto il governo di Kiev ad accettare di sedersi al tavolo negoziale (una sorta di replica in grande stile dell’operazione compiuta in Crimea nel 2014). Emblematica a questo proposito la marcia russa su Kiev con una forza di 40.000 uomini, del tutto insufficiente a conquistare militarmente la città, ma utile come strumento di pressione politica. Il piano di Mosca fallì (in particolare, l’esercito ucraino rimase compatto) ma non completamente, se si pensa che russi ed ucraini effettivamente negoziarono fra marzo ed aprile 2022, ed erano prossimi a giungere ad un accordo. Come riferiscono diverse testimonianze, fra cui quella dell’ex premier israeliano Naftali Bennett, il negoziato fallì soprattutto a causa delle pressioni britanniche su Kiev. La chiusura della finestra negoziale comportò di fatto il fallimento dell’operazione militare speciale. A questo punto, Mosca avviò un lungo processo di riorganizzazione militare per prepararsi ad un vero e proprio confronto bellico. Ciò comportò il ritiro da Kiev, poi da Kharkiv ed infine da Kherson, per attestarsi su linee effettivamente difendibili a protezione della Crimea e del corridoio terrestre che la univa al Donbass. Mosse affiancate dalla mobilitazione di 300.000 riservisti nel settembre del 2022. Quella di Mosca, tuttavia, non era stata una sconfitta militare sul campo, bensì una sconfitta dell’intelligence che non aveva saputo valutare la coesione dell’esercito ucraino né la determinazione occidentale ad alimentare lo scontro bellico. Paradossalmente, proprio l’errore russo ha spinto gli occidentali a commettere uno sbaglio ancora più grande, quello cioè di interpretare il fallimento russo come frutto di mera impreparazione militare, e di ritenere conseguentemente di poter sconfiggere militarmente i russi sul campo, in un conflitto aperto. Vi sono indicazioni secondo cui, nell’imminenza dell’invasione, l’intelligence americana si attendeva (proprio come i russi) che il governo e l’esercito ucraini si sarebbero sgretolati, che i russi avrebbero imposto un governo fantoccio a Kiev, e che Washington ed i suoi alleati avrebbero organizzato un’insurrezione armata contro di esso, come avevano fatto in Afghanistan, utilizzando questa volta la Polonia come retrovia. Gli USA avrebbero raggiunto ugualmente il loro obiettivo strategico, ovvero quello di spezzare il legame tra Russia ed Europa imponendo durissime sanzioni contro l’economia russa e creando una nuova cortina di ferro nel vecchio continente, tuttavia con un coinvolgimento militare molto inferiore, lasciando a Mosca l’onere di governare l’Ucraina e la possibilità di “dissanguarsi” contro un’insurrezione armata come era accaduto in Afghanistan. La scelta di Mosca di optare per un’operazione “leggera”, incomprensibile agli occhi di Washington, e il fallimento di questa scelta, hanno paradossalmente attirato gli USA e l’intera NATO in un conflitto militare tradizionale contro la Russia in territorio ucraino, con l’illusione di poter sconfiggere militarmente l’esercito russo e, come taluni politici a Washington hanno vagheggiato, addirittura di provocare un eventuale cambio di regime a Mosca. Il punto è che, mentre la Russia si preparava ad un possibile conflitto armato con la NATO fin dalla guerra in Georgia del 2008, l’Alleanza Atlantica era completamente impreparata ad affrontare un conflitto militare ad alta intensità come quello ucraino, essendo ormai abituata da decenni a combattere al più insurrezioni armate come quella dei talebani. L’altro errore fatale dei decisori occidentali è stato quello di ritenere che l’imposizione di dure sanzioni avrebbe fatto collassare l’economia russa. Ciò non è avvenuto perché, fin dal 2014, cioè dall’imposizione delle prime misure economiche punitive – all’epoca relativamente leggere – contro la Russia, Mosca (traendo insegnamento dall’esperienza dell’Iran e di altri paesi colpiti dalle ritorsioni economiche di Washington) aveva ristrutturato la propria economia così come il proprio sistema finanziario al fine di renderli il più possibile immuni all’eventuale shock delle sanzioni occidentali. Naturalmente, l’economia russa ha resistito anche grazie ad un terzo grave errore commesso dall’Occidente. Quello di confidare nel fatto che il mondo non occidentale lo avrebbe assecondato, applicando alla lettera le sanzioni. Riassumendo, americani, britannici, ed europei continentali, in varia misura, non hanno saputo interpretare militarmente il conflitto, hanno drammaticamente sottovalutato le capacità militari di Mosca e sopravvalutato le proprie, non hanno compreso che la Russia si era preparata anche economicamente all’eventualità di uno scontro con l’Occidente, e non hanno capito che gli equilibri mondiali sono enormemente cambiati dal 2008 e che i paesi occidentali non sono più in grado di dettare la propria volontà al resto del mondo. Gli europei, inoltre, hanno commesso un gravissimo errore strategico ben prima dello scoppio del conflitto. Quello cioè di non rendersi conto che assecondare l’espansione inarrestabile della NATO, e la nuova “guerra fredda” di Washington, avrebbe finito per scardinare il modello produttivo europeo fondato sulle fonti energetiche russe a basso costo. Naturalmente, per certi versi, l’obiettivo strategico che Washington si prefiggeva è invece raggiunto: una nuova cortina di ferro, apparentemente insanabile, spacca il vecchio continente, e gli alleati europei sono tornati sotto l’ala protettrice di Washington. Ma la Russia non è isolata a livello mondiale, come gli Stati Uniti si auguravano. E gli alleati europei hanno pagato un costo economico altissimo, che probabilmente sul lungo periodo finirà per indebolire anche Washington. Inoltre, gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO. Difficilmente gli USA – ed ovviamente ancor meno l’Europa – usciranno da questo conflitto con un vantaggio strategico.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Gli errori fin qui enumerati sono ovviamente in primo luogo quelli di una classe dirigente. Tuttavia è evidente che tali errori nascono anche dal retroterra culturale a cui tale classe attinge. Essa non è più in grado di leggere la realtà globale poiché prigioniera della propria convinzione di superiorità, frutto di secoli di dominio sul resto del mondo. Le recenti dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, Josep Borrell, che ha definito l’Europa un “giardino”, contrapponendolo alla “giungla” che rappresenterebbe il resto del mondo, sono indicative di un modo di pensare diffuso fra le élite occidentali, che le rende incapaci di attribuire il giusto valore agli enormi progressi compiuti da svariate aree del resto del pianeta. Il “complesso di superiorità” dell’Occidente è un ingrediente essenziale della sua incapacità di reagire alla crisi in cui è sprofondato. A ciò si aggiunge un problema drammatico di incompetenza, clientelismo, corruzione, interessi corporativi delle classi dirigenti, ed in particolare della classe politica, che è frutto dell’assenza di un valido processo di selezione, e in ultima analisi di una gravissima crisi democratica che impedisce il ricambio di tali classi, l’afflusso di idee nuove, e un’azione nel reale interesse della collettività.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Come ho già accennato nella lunga premessa alla prima domanda, le radici di questa crisi vengono da lontano. La globalizzazione avviata negli anni ’70 del secolo scorso ha prodotto enormi trasformazioni nell’economia mondiale. La liberalizzazione del commercio e dei flussi finanziari, e la propensione alla massimizzazione dei profitti da parte delle grandi multinazionali, hanno contribuito alla delocalizzazione della produzione, alla progressiva deindustrializzazione di molti paesi occidentali, alla finanziarizzazione dell’economia angloamericana, e alla precarizzazione del lavoro, favorita anche dall’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di lavoratori cinesi e indiani e dalla crescente immigrazione. L’11 settembre, e la retorica dello scontro di civiltà che ne seguì, hanno messo in evidenza le aporie culturali del mondo globalizzato. Ma quella data ha segnato anche l’inizio della perdita di credibilità delle democrazie occidentali, allorché le “extraordinary renditions” permisero detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate. Da Guantanamo a Cuba, ad Abu Ghraib in Iraq, Washington costruì una rete di centri di detenzione dove sono state commesse terribili torture ed altre violazioni dei diritti umani. Contemporaneamente, l’11 settembre ha segnato l’inizio dell’erosione dei diritti democratici negli USA (e in Europa), consentendo la sorveglianza di massa di milioni di americani, permettendo detenzioni senza precisi capi di accusa, e segnando l’introduzione della “logica dell’emergenza” all’insegna dello slogan che garantiva “sicurezza in cambio di libertà”. La crisi del 2008 ha rappresentato un nuovo punto di svolta: le misure di austerità, le crescenti disuguaglianze, l’aumento della corruzione, il potere sempre più incontrollato delle multinazionali, la spettacolarizzazione del processo elettorale, e l’asservimento della politica a interessi e capitali privati, hanno svuotato la democrazia dall’interno. Davanti all’inarrestabile deterioramento del clima economico e sociale, le élite al potere hanno reagito ricorrendo ad un unico schema: la logica dell’emergenza, e la demonizzazione del dissenso. L’attuale crisi sarebbe reversibile se le élite occidentali fossero in grado di “cambiare rotta”, modificando le politiche che l’hanno determinata. Nella pratica, però, gli interessi di casta, il radicamento del sistema, l’impossibilità di rinnovare la classe di governo a causa di un processo elettorale che ripropone invariabilmente figure ritenute accettabili dal sistema di potere dominante, impediscono ogni cambiamento nel breve periodo. La sensazione sconfortante è che questo sistema debba subire altri shock, ed attraversare crisi ancora più gravi, prima di essere scardinato, consentendo l’ingresso di energie nuove.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Premesso che, malgrado la “fase comunista”, entrambi i paesi hanno mantenuto un certo livello di continuità culturale, più che di risposta “reazionaria” parlerei forse di risposta “identitaria”. Non bisogna dimenticare che, oltre alla “fase comunista”, entrambi i paesi hanno vissuto fasi di asservimento semicoloniale. La Cina ne ha vissute addirittura due: il cosiddetto “secolo di umiliazione” (fra il XIX ed il XX secolo) per mano delle potenze occidentali e del Giappone a seguito delle guerre dell’oppio, e l’apertura alla globalizzazione americana a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Questa seconda fase ha visto una “colonizzazione” più morbida, di fatto controllata dal governo cinese. Ciononostante, anch’essa ha comportato l’adozione di modelli produttivi ed anche culturali occidentali. La Russia ha vissuto una fase semicoloniale più breve, ma più recente ed ancora viva nella memoria dei russi, allorché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, essa fu sottoposta all’arrivo dei capitali occidentali ed alle ricette neoliberiste della cosiddetta “shock economy”. In entrambi i paesi, a mio avviso, la risposta “identitaria” non è che un tentativo di ancorare la modernità così traumaticamente assorbita alle proprie radici culturali. Non si tratta dunque di un – peraltro impossibile – ritorno al passato, ma di una rilettura della modernità secondo le rispettive categorie culturali dei due paesi. Sia Cina che Russia, del resto, si considerano non soltanto delle nazioni, ma delle “civiltà”, ed era inevitabile che si cimentassero nello sforzo di concepire una propria formulazione di modernità. E’ un’altra delle conseguenze del nascente multipolarismo. L’Occidente ha perso il monopolio sulla modernità. Non esiste più solo la versione occidentale di modernità, ma tante versioni quante sono le “civiltà” che l’hanno fatta propria.

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Sulla centralità della liberalizzazione commerciale dei BRICS per l’Africa – Yaroslav Lissovolik

Il sito Italia e il mondo non ha lesinato documenti ed articoli sul movimento dei BRICS. Continueremo a farlo, anche offrendo il punto di vista occidentale ai lettori. E’ il tempo, però, di qualche riflessione iniziale. L’azione dei BRICS è del tutto sfasata rispetto a quella degli Stati Uniti e del tessuto di alleanze militari e politiche sul quale poggia. Tanto quest’ultima è costrittiva ed asservita ad un modello ideologico totalitario ed imperiale, quanto la prima si fonda sul rispetto della sovranità degli stati, sulla falsa riga del discorso di Putin alla conferenza di Monaco dell’ormai lontano 2008, premonitore di un possibile nuovo equilibrio westphaliano su scala globale e non solo più europeo. Tanto quest’ultima, a dispetto della vulgata economicista, comune per altro a fautori e critici, che pretende di fondare sull’economia e sui rapporti economici di stampo liberale il dominio globale, è fondata sul dominio politico sul quale si basano la definizione delle stesse regole e dinamiche economiche, quanto la prima è impegnata a definire prioritariamente le regole in base alle quali i singoli stati possono tessere le proprie relazioni economiche e nello sviluppo delle tecnologie all’interno dell’area dei BRICS, ma anche all’esterno con lo stesso mondo occidentale. Il movimento dei BRICS non vorrebbe essere antioccidentale; punterebbe a diventare, nelle intenzioni dichiarate, un movimento che prescinda da esso. Le discussioni sempre più raffinate, presenti in esso, tese a distinguere le dinamiche multipolari da quelle auspicabili multilaterali, in una accezione, però, diversa da quella obamiana che presuppone una direzione egemonica, sono il riflesso di questa ambizione. Ma è appunto una ambizione praticabile realisticamente in una fase transitoria iniziale e a patto che il mondo occidentale, piuttosto che insistere nelle mire unipolari o nel surrogato di una dinamica bipolare squilibrata, accetti questa transizione verso il multipolarismo. Allo stato una ipotesi del tutto astrusa. Sarà, quindi, la ostinazione della postura occidentale a determinare la conformazione dei BRICS e la sua impronta sempre più squisitamente e politicamente ostile, nel suo senso più ampio. Numerosi circoli occidentali sembrano averlo compreso; all’interno dei BRICS non mancano le orecchie disposte ad ascoltarli. Seguiremo gli sviluppi. Il maldestro tentativo di Modi, presidente dell’India, di ridefinire all’ultimo momento tra i criteri di adesione ai BRICS l’assenza di sanzioni sono l’indizio di queste pulsioni. Eppure, proprio l’emergere dell’India potrebbe essere la condizione necessaria alla formazione di un mondo multipolare, già auspicato dalla Russia, che consentirebbe più libertà d’azione ai singoli stati e scongiurerebbe lo spettro di uno scontro aperto e totale tra superpotenze contrapposte in due schieramenti definiti. Il Governo Meloni ha sbandierato, in realtà con voce sempre più flebile, il lancio di un piano Mattei. Teoricamente, l’ideale per inserirsi in queste dinamiche. Per essere realistico avrebbe bisogno di assecondare la realtà dei BRICS oppure di vivere in una condizione accettata di equilibrio bipolare, tale quella con il blocco sovietico sino agli anni ’70. La postura assunta dal Governo Meloni, sin dalle sue premesse, lo hanno ridotto sul nascere ad una parodia tesa a sfruttare il residuo prestigio della nostra diplomazia a beneficio di terzi o ad evidenziare il proprio velleitarismo, come apparso nel progetto di ricostruzione del bacino lacustre del Ciad. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Sulla centralità della liberalizzazione commerciale dei BRICS per l'Africa – Yaroslav Lissovolik

Con il completamento del vertice BRICS del 2023 in Sud Africa c’è la chiara sensazione che si sia effettivamente verificato un cambiamento fondamentale nella percezione dei BRICS sulla scena internazionale. L’espansione lanciata durante quel vertice ha certamente aumentato l’attenzione verso i BRICS nello spazio mediatico mondiale, con opinioni quasi diametralmente opposte riguardo alle fortune del blocco post-espansione. In tutta questa panoplia di opinioni, l’unica critica che sembra valida nei confronti dei BRICS è la mancanza di iniziative di integrazione economica, in particolare nell’area della liberalizzazione del commercio.In effetti, anche se potrebbe esserci un importante aspetto economico nell’espansione dei BRICS, finora è stata la lente geopolitica a prevalere nei commenti analitici successivi al vertice.

La questione della liberalizzazione del commercio dei BRICS, in particolare rispetto al continente africano, è al centro di un policy brief redatto da BRICS+ Analytics e pubblicato dopo il vertice dei BRICS dal BRICS Think-Tank sudafricano (SABTT). I punti principali del policy brief sono riassunti di seguito: Lo spazio per una maggiore liberalizzazione commerciale rispetto all’Africa è particolarmente ampio per i BRICS nel settore agricolo. In particolare, secondo l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la media semplice delle tariffe consolidate per l’India ammontava a oltre il 50%, mentre per i prodotti agricoli tale cifra superava il 113%.La tariffa media semplice applicata dalla nazione più favorita (MFN) per i prodotti agricoli ha raggiunto quasi il 40% nel 2022, mentre la tariffa di importazione ponderata per il commercio sui prodotti agricoli ha raggiunto il 48,5%.

– Un maggiore accesso al mercato è un vantaggio competitivo fondamentale che i BRICS possono esercitare nei confronti delle economie sviluppate aprendo i mercati all’Africa – in misura molto maggiore rispetto ad aree come l’assistenza tecnica, dove le principali economie occidentali e le istituzioni di Bretton Woods probabilmente ha ancora un vantaggio significativo. Ciò che è ancora più importante è che la maggior parte delle economie BRICS attualmente conduce la propria politica commerciale attraverso i propri accordi prioritari di integrazione regionale: la Russia attraverso l’Unione economica eurasiatica, il Sud Africa attraverso l’Unione doganale dell’Africa australe (SACU), la Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (SADC) e AfCFTA, Brasile tramite Mercado Común del Sur [Mercato Comune del Sud] (MERCOSUR).Ciò significa che il coordinamento della liberalizzazione del mercato dai BRICS all’Africa richiederà l’uso di un formato BRICS+ in cui l’AfCFTA coopera nella stessa piattaforma interregionale con i rispettivi accordi di integrazione regionale dei BRICS come MERCOSUR, Unione economica eurasiatica (EAEU) e altri. Ciò a sua volta implica che una maggiore liberalizzazione commerciale nei confronti dell’Africa arriverà non solo dai membri principali dei BRICS, ma anche dai loro partner regionali nei rispettivi accordi commerciali. Questo è l’“effetto moltiplicatore” dei BRICS+ in termini di liberalizzazione commerciale a cui si può dare priorità rispetto alle economie africane.Ciò a sua volta implica che una maggiore liberalizzazione commerciale nei confronti dell’Africa arriverà non solo dai membri principali dei BRICS, ma anche dai loro partner regionali nei rispettivi accordi commerciali. Questo è l’“effetto moltiplicatore” dei BRICS+ in termini di liberalizzazione commerciale a cui si può dare priorità rispetto alle economie africane. Ciò a sua volta implica che una maggiore liberalizzazione commerciale nei confronti dell’Africa arriverà non solo dai membri principali dei BRICS, ma anche dai loro partner regionali nei rispettivi accordi commerciali. Questo è l’“effetto moltiplicatore” dei BRICS+ in termini di liberalizzazione commerciale a cui si può dare priorità rispetto alle economie africane.

– Un maggiore accesso al mercato da parte dei BRICS all’Africa contribuirà notevolmente a correggere gli attuali squilibri commerciali nell’economia mondiale, per cui vi è un commercio Sud-Sud inferiore al potenziale (anche tra i partner regionali Sud-Sud) rispetto al commercio condotto da economia in via di sviluppo con l’Occidente. Il moltiplicatore BRICS+ nella liberalizzazione commerciale BRICS-Africa potrebbe anche fungere da importante trampolino di lancio verso la formazione di un’area di libero scambio in tutto il Sud del mondo. Infine, un maggiore accesso al mercato proveniente dai BRICS in Africa potrebbe essere un potente incentivo per stimolare non solo il commercio e gli investimenti, ma anche l’uso delle valute nazionali.

Che dire degli effetti dell’espansione sulle prospettive di avanzamento della cooperazione economica all’interno del blocco BRICS? Questa espansione renderà la futura liberalizzazione del commercio all’interno dei BRICS più facile o più difficile? A questo punto è ancora difficile dirlo in ogni caso. La maggior parte dei paesi inclusi nel gruppo dei nuovi entranti hanno tariffe di importazione relativamente elevate, il che implica che la possibilità di ridurre le barriere commerciali da parte loro potrebbe essere sostanziale – la questione sarà se si potrà dire lo stesso della loro propensione a liberalizzare il commercio.Un’altra possibilità è che l’inclusione dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nei BRICS possa dare un maggiore slancio alla cooperazione tra i blocchi regionali BRICS, con il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) che potrebbe diventare un attore importante nel quadro cooperativo di “integrazione delle integrazioni” BRICS+.

Di Yaroslav Lissovolik

https://kolozeg.org/on-the-centrality-of-brics-trade-liberalization-for-africa-yaroslav-lissovolik/

Il sito Italia e il mondo non ha lesinato documenti ed articoli sul movimento dei BRICS. Continueremo a farlo, anche offrendo il punto di vista occidentale ai lettori. E’ il tempo, però, di qualche riflessione iniziale. L’azione dei BRICS è del tutto sfasata rispetto a quella degli Stati Uniti e del tessuto di alleanze militari e politiche sul quale poggia. Tanto quest’ultima è costrittiva ed asservita ad un modello ideologico totalitario ed imperiale, quanto la prima si fonda sul rispetto della sovranità degli stati, sulla falsa riga del discorso di Putin alla conferenza di Monaco dell’ormai lontano 2008, premonitore di un possibile nuovo equilibrio westphaliano su scala globale e non solo più europeo. Tanto quest’ultima, a dispetto della vulgata economicista che pretende di fondare sull’economia e sui rapporti economici di stampo liberale,

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SITREP 13/9/23: Venti di cambiamento, di SIMPLICIUS THE THINKER

SITREP 13/9/23: Venti di cambiamento

Cosa c’è in un nome?
Cominciamo oggi con un’angolazione interessante degli sviluppi globali in corso. L’assemblea del G20 in India è stata un momento spartiacque “silenzioso” che sarà ricordato come un’altra pietra miliare nella marcia ormai inesorabile verso il crollo dell’egemonia occidentale.

Per la prima volta l’India è tornata a usare il suo antico nome di Bharat, con Modi seduto dietro un cartello con il nuovo nome al vertice:

Si tratta di una potente mossa di decolonizzazione che segna l’ascesa di un mondo orientale e del “Sud globale” che si sta finalmente risvegliando in massa per ripudiare i legami con l’Occidente, sia fisici che psicologici e spirituali, che li hanno incatenati per così tanto tempo.

Nel 2014, il famoso yogi Sadhguru ha spiegato perfettamente il significato del fatto che l’India debba adottare il suo vero nome piuttosto che quello imposto dai colonizzatori:

“Quando qualcuno ti conquista, la prima cosa che fa è cambiarti il nome. Questa è la tecnologia del dominio, la tecnologia della schiavitù”.

Egli afferma che Bharat è un mantra di potere:

Alcuni detrattori, tuttavia, ritengono che il nuovo cambiamento di postura rappresenti una pericolosa svolta nel movimento nazionalista indù e possa scatenare repressioni contro le minoranze etniche.

Ma questo è un movimento più ampio di liberazione dei popoli di tutto il mondo, che finalmente assistono alla caduta dell’Occidente e non hanno più paura di abbracciare la propria storia, assumendo il controllo della propria agenzia e del proprio destino.

Tutto ciò avviene non molto tempo dopo che anche la Turchia si è liberata della sua patina occidentalizzata e si è dichiarata Türkiye, cambiando ufficialmente il nome del Paese.

Tutto questo avviene all’ombra della storica decolonizzazione che sta attraversando l’Africa, dove i Paesi francofoni in particolare si stanno opponendo una volta per tutte agli occupanti di un tempo. Questi cambiamenti segnano una svolta importante nella coscienza globale. L’Occidente non è mai sembrato più fragile, più “senza idee” per la futura leadership del mondo. Non è mai apparso così “dalla parte sbagliata della storia” come oggi, con il suo terrorismo economico assolutamente disumano e onnipresente, dove 1/4 o 1/3 dei Paesi del mondo sono attualmente sotto sanzione da parte degli Stati Uniti, per non parlare della sua ingegneria sociale ancora più disumana, che spinge vasti cambiamenti innaturali sul tessuto sociale dell’umanità nei modi più coercitivi possibili.

Questi spostamenti tettonici non sono sfuggiti ad alcuni dei pensatori più incisivi del mondo. Alexander Dugin è stato tra i primi a notare il cambiamento di mare. In un nuovo post, descrive la nuova “escatologia” del mondo emergente. Non sono un duginista incallito, di per sé, quindi posso solo supporre che stia usando il termine non in senso teologico ma piuttosto heideggeriano (era un seguace di Heidegger, dopotutto), ovvero l’escatologia come una sorta di destino manifesto dell’uomo, o vero essere. In breve, sta dicendo che i Paesi di tutto il mondo si stanno liberando delle facciate e dei falsi mantelli imposti in precedenza e stanno tornando alle loro radici, riabbracciando la loro essenza storica.

Dugin lo collega alla confutazione finale della fallacia di Francis Fukuyama, secondo cui la “fine della storia” sarebbe arrivata con la caduta dell’Unione Sovietica e il “liberalismo” sarebbe stato il tessuto escatologico finale per tutta l’umanità fino alla fine dei tempi. Ma il nuovo cambiamento globale rappresenta un risveglio delle culture più antiche del mondo, che hanno finalmente capito che il culto pseudo-religioso del “liberalismo” occidentale è in realtà un vicolo cieco.

Infine, per tornare dall’alto e dall’astratto agli sviluppi concreti sul campo, notiamo che l’altra grande scossa si è avuta quando l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, hanno ricevuto un grosso schiaffo. in particolare, hanno ricevuto un grosso schiaffo quando l’intero G20 si è rifiutato di dichiarare il conflitto ucraino come “aggressione” da parte della Russia, definendolo una “guerra in Ucraina” piuttosto che una “guerra contro/contro l’Ucraina [da parte della Russia]”, con un netto distacco dal vertice di Bali del novembre dello scorso anno, dove la maggior parte dei Paesi aveva condannato l'”aggressione” della Russia.

Dalla BBC:

Nel tentativo di rafforzare la propria influenza, in particolare in Africa, l’Occidente ha invitato l’Unione Africana al G20 come membro permanente nella sua interezza, tutti i 55 membri. Ma il lustro semplicemente non c’era, dato che i leader del G20 si sono persino rifiutati di fare una foto di gruppo tra loro per la prima volta, secondo alcune fonti a causa della “presenza della delegazione russa”.

Un altro esempio di quanto poco sia rimasto all’Occidente al di là di stratagemmi disperati e comportamenti infantili.

In definitiva, questo analista russo ha descritto al meglio la situazione: nonostante Putin non fosse nemmeno presente, la Russia ha “vinto il G20”:

⚡️⚡️⚡️La seguente è un’opinione simile. Sergey Markov:La Russia ha vinto il vertice del G20 a Bharat India. La dichiarazione è stata adottata. In essa, la Russia e il Sud globale hanno imposto la loro formula all’Occidente collettivo. L’Occidente ha ceduto. L’Occidente voleva la frase “guerra della Russia contro l’Ucraina”. L’Occidente voleva che si sostenesse un accordo sul grano solo per l’accesso al grano dall’Ucraina. Ma nella dichiarazione, la formula è “grano sia dalla Federazione Russa che dall’Ucraina”. “Il Sud Globale ha sconfitto il Collettivo Occidentale in queste formule, perché il Sud Globale e la Russia sono diventati più forti e più consolidati. Hanno allargato i BRICS, e ora l’Occidente si sta arrendendo, se ne sta andando, rosicchiandosi la coda come un lupo ferito. A Bali c’è stata un anno fa “l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina” ed è stata allora la nostra sconfitta. E ora la nostra formula è “guerra in Ucraina”. L’anno prossimo ci sarà la “SVO”? O la liberazione dell’Ucraina? ⚡️⚡️⚡️
Detto questo, è giusto dire che l’Ucraina non riceverà presto un invito:

Novità sulle armi
L’altra sezione che volevo trattare oggi riguarda specificamente alcuni degli ultimi aggiornamenti sullo sviluppo delle armi. Ci sono state una serie di notizie recenti particolarmente interessanti su questo argomento, quindi potremmo esplorarle tutte in una volta sola.

1. Una fonte russa ha annunciato che la Russia ha testato per la prima volta una versione Fab-1500 della bomba glide UMPC, che avrebbe colpito con precisione il bersaglio. Secondo quanto riferito, i Su-34 possono trasportare fino a 2 bombe di questo tipo.

FighterBomber (account collegato all’aeronautica militare russa) fornisce i dettagli sul perché ci sia voluto più tempo per sviluppare questa variante:

Dopo molti mesi di tentativi ed errori, un paio di giorni fa il primo UMPC FAB-1500 M54 ha trovato con precisione il suo bersaglio di combattimento con un colpo diretto.Il conto alla rovescia degli hohlofrags è iniziato! Per alcune ragioni, i progettisti non hanno potuto semplicemente aumentare gli UMPC utilizzati sui calibri da 500 e 250 kg e attaccarli al camion. Pertanto, possiamo dire che tutto è dovuto partire quasi da zero. Nuova cellula, nuovi meccanismi. Tutto è solido, ma tutto è nuovo. E alla fine tutto ha funzionato. Allo stesso tempo, sono stati in grado di aumentare la portata di sgancio di … volte rispetto agli UMPC di calibro inferiore. In altre parole, questo è il nostro UMPKashka a più lunga gittata che esista.

Con una precisione dichiarata di 5 metri, solo il cratere dell’esplosione della bomba raggiunge i quindici metri di diametro, e l’area colpita è di oltre due chilometri quadrati. Solo l’esplosivo di questa bomba è inferiore ai 700 kg, mentre il Su-34 trasporta e può già operare con due UMPC di questo tipo, e in futuro sarà in grado di operare con tre munizioni, su uno o più bersagli in un solo passaggio.C’è ancora molto da completare, molto da migliorare, da passare attraverso l’inevitabile processo di rimpicciolimento e scuotimento, ma il lavoro di combattimento di successo è iniziato in un’ora e mezza.Permettetemi di ricordare che le creste attualmente non hanno alcuna protezione contro gli UMPC. Sì, finora i casi di utilizzo di UMPC di questo tipo sono isolati, ce ne sono ancora pochi, ma credo che entro un mese l’industria organizzerà la loro produzione ai volumi calcolati e voleranno, proprio come volano oggi gli UMPC di calibri più modesti, fino a un centinaio al giorno in tutte le direzioni.E alla luce del fatto che recentemente gli UMPC hanno imparato a lanciare non solo i Su-34 e i Su-35 dell’ultima serie, ma anche i Su-34 della prima serie, credo che questa sia una grande notizia.Oh sì, e oggi voleranno in taxi. Forse proprio in quei secondi in cui state leggendo questo testo.
Si tratta di un affare enorme. Ricordiamo che in un recente articolo di Forbes l’AFU stessa ha ammesso che le nuove bombe plananti sono la singola arma che teme di più:

Il Fab-1500 ha un peso di 1500 kg rispetto ai 500 kg di quelli che attualmente utilizzano più comunemente gli attacchi UMPC “Orthodox JDAM”. Questo oltre al fatto che egli indica che il raggio d’azione di questa bomba è in realtà molto più ampio. Una bomba da 1500 kg ha una potenza enorme, con una testata esplosiva che credo si avvicini ai 700 kg.

La maggior parte dei missili da crociera ha testate di 450-500 kg, ad esempio. Questo sarebbe molto più potente di un grande missile da crociera, ma anche molto più economico da usare. È come avere un missile da crociera Kalibr “a disposizione” da usare quotidianamente in prima linea, per il supporto aereo ravvicinato e in altre situazioni, invece di doverli conservare come si fa attualmente con i costosi missili da crociera.

Se riusciranno a farlo funzionare in numero decente, potrebbe diventare l’arma più terrificante della guerra.

2. Un’altra grande notizia è arrivata con la rivelazione che la Russia ha usato per la prima volta il missile Kinzhal sparato da una piattaforma Su-34:

La ragione per cui questa è una notizia più importante di quanto sembri è che non solo apre un’enorme quantità di nuove piattaforme che possono utilizzare il missile, ma soprattutto permette alla Russia di “mascherare” l’uso del missile in modo molto più efficace.

Vedete, uno dei problemi principali dell’uso del Kinzhal finora è che, operando principalmente dalla piattaforma Mig-31, ha permesso agli Stati Uniti di tracciare potenziali attacchi in modo molto più efficace, dando all’Ucraina un preavviso che va contro l’intera etica di ciò che il Kinzhal dovrebbe rappresentare: vale a dire, attacchi decapitatori fulminei che eliminano la capacità di anticipare o difendersi da essi.

Ma poiché la Russia dispone di un numero limitato di Mig-31 che operano da un numero minore di campi d’aviazione designati, è molto più facile anticipare un imminente attacco Kinzhal quando si vede decollare uno dei Mig-31, cosa che gli Stati Uniti possono fare osservando solo i campi d’aviazione da cui operano, sia con una sorta di satellite che con osservatori a terra (è facile avere un agente che affitta un “appartamento” nelle vicinanze e che può letteralmente vederli decollare dalla sua finestra e riferirlo immediatamente). Ho appena letto questo rapporto di Rybar di circa un mese fa:

Si è verificata una situazione nota in cui il solo decollo di un Mig-31 manda in blocco l’intero Paese dell’Ucraina, che si aspetta un attacco Kinzhal a un qualche centro decisionale (dato che è l’unico tipo di obiettivo per cui un Kinzhal verrebbe normalmente usato).

Ma ora, se i Su-34 possono trasportare il missile, non c’è un modo reale per tracciarlo, perché operano da una gamma molto più ampia di campi, volando un numero molto maggiore di sortite in generale. Ciò significa che un attacco Kinzhal può avvenire in qualsiasi momento, in modo del tutto inaspettato, mettendo in guardia tutti gli obiettivi più sensibili dell’Ucraina.

3. A proposito di aerei e campi d’aviazione. Un curioso aggiornamento sulla saga degli “pneumatici”. Molti hanno riso dopo che la Russia ha apparentemente iniziato a posizionare pneumatici sulle fusoliere a terra di velivoli strategici come il Tu-95. Il tutto è culminato in una nuova foto che mostra come anche i Su-34 siano stati vittime della campagna di pneumatici:

La foto ha scatenato un vortice di risate e di scherno in tutta la rete:

Ma le polemiche si sono rapidamente placate dopo che è stato rivelato che i pneumatici non sono solo un disperato stratagemma per contrastare le granate lanciate dai droni, ma interferiscono con i satelliti SAR (Synthetic Aperture Radar) che scansionano i campi d’aviazione russi su base oraria:

Sembra che la Russia abbia usato ancora una volta l’economica “matita di legno” per sventare gli sforzi miliardari dell’Occidente.

Questo avviene dopo una serie di trucchi navali che la Russia continua a utilizzare per eludere il rilevamento OSINT occidentale delle sue navi, come la continua riverniciatura degli scafi delle navi per creare illusioni ottiche che ostacolano l’identificazione e il tracciamento accurato delle navi russe:

4. Ho scritto tempo fa di come gli Stati Uniti abbiano annunciato un’improvvisa e imminente cancellazione del programma F-22 poco dopo l’inizio dello SMO russo, leggendo chiaramente le foglie di tè del conflitto moderno e rendendosi conto di quanto vecchio e obsoleto fosse diventato il loro vantato “caccia stealth” alla luce della supremazia della difesa aerea russa.

Ora c’è stata un’altra inversione di rotta: questa volta sotto forma di annuncio che gli Stati Uniti cancelleranno il tanto atteso carro armato Abrams:

L’Esercito ha annunciato il 6 settembre che non aggiornerà più il suo vecchio carro armato principale Abrams e che costruirà invece un nuovo veicolo da combattimento.

L’Esercito chiuderà il progetto M1A2 System Enhancement Package versione 4 e svilupperà l’M1E3 Abrams, “che si concentrerà sul miglioramento delle capacità necessarie per combattere e vincere contro le future minacce sul campo di battaglia del 2040 e oltre”, si legge in un comunicato dell’Esercito.

La capacità operativa iniziale è prevista per l’inizio degli anni 2030.

Il Magg. Gen. Glenn Dean, ufficiale esecutivo del programma per i sistemi di combattimento terrestri, ha dichiarato: “La guerra in Ucraina ha evidenziato la necessità critica di protezioni integrate per i soldati, costruite dall’interno invece che aggiunte”.
Questo si aggiunge alla lista crescente di progetti statunitensi abbandonati per la consapevolezza di non poter competere sul campo di battaglia moderno. Per non parlare del fatto che, dopo la distruzione di 2 Challenger, la consegna degli Abrams all’Ucraina sarebbe di nuovo “misteriosamente ritardata”:

5. Tuttavia, gli Stati Uniti non sono gli unici a fare grandi cambiamenti dopo le “dure lezioni” dell’Ucraina. La Russia ha annunciato che i progetti precedenti per il tanto atteso Kurganets-25 non sono più adeguati e saranno riprogettati.

Come si può vedere, il Kurganets è un gigante rispetto ai vecchi modelli di BMP. Dopo aver visto come i colossi occidentali come il Bradley si sono comportati male in azione reale, la Russia sembra stia ridimensionando le cose e tornando a progetti più piccoli e snelli. È interessante notare che anche la decisione sull’Abrams ruotava intorno al desiderio di rendere la piattaforma molto più “leggera” e piccola per i “conflitti futuri”.

In breve: entrambe le parti stanno chiaramente identificando che le grandi armature non sono altro che un bersaglio facile per i moderni sistemi di rilevamento, le ATGM e gli elicotteri d’attacco.

Secondo quanto riferito, l’Armata sta anche ricevendo un aggiornamento dei suoi “sistemi elettronici” dopo l’esperienza nelle SMO e, secondo quanto riferito, inizierà la produzione di massa il prossimo anno.

6. L’elemento successivo è quello che potrebbe riguardare questi “aggiornamenti elettronici”. La Russia ha recentemente mostrato un nuovo sistema anti-drone da installare sui carri armati:

Secondo quanto riferito, sono già stati installati sui carri sul campo:

Quindi possiamo solo supporre che l’Armata sarà leggermente riprogettata per avere una sorta di sistema come questo incorporato in modo nativo. Ha già un sistema di difesa automatica contro RPG/ATGM e simili, ma non sono sicuro che sia stato progettato pensando ai droni che viaggiano molto più lentamente. Inoltre, non si vorrebbero sprecare colpi d’arma da fuoco contro i droni se invece è possibile bloccarli/zaparli.

7. ATACM:

Si dice che gli Stati Uniti siano orientati a inviare ATACM all’Ucraina nel prossimo futuro, in particolare quelli con testata a grappolo. Un’altra voce, tuttavia, sostiene che li abbiano già inviati segretamente di recente.

Come ricorderete, in un precedente reportage avevo pubblicato il video di un soldato russo in prima linea che raccontava di essere stato colpito da proiettili a grappolo settimane prima dell’annuncio ufficiale dell’invio di munizioni a grappolo all’Ucraina. Quindi è possibile che le ATACM siano già state consegnate.

Uno dei motivi per cui credo che si stia prendendo in considerazione questa possibilità è che la Russia ha chiuso tutte le vie d’attacco al ponte di Kerch. Il ponte strategico rimane l’unica vera possibilità per Kiev di ottenere una grande “vittoria” in un colpo solo. Circa una settimana fa, tre nuovi droni navali suicidi sono stati inviati verso Kerch, ma questa volta sono stati facilmente respinti dalle nuove difese predisposte dalla Russia, tra cui chiatte posizionate a intervalli regolari, navi affondate per creare ostruzioni e potenziali reti antimine, oltre che, presumibilmente, osservatori posizionati sulle chiatte.

Quindi ora l’unica possibilità dell’Ucraina di tentare di colpire il ponte potrebbe risiedere in questo sistema di missili balistici a lungo raggio, e questo potrebbe essere l’impulso dietro la loro disperazione per ottenerlo.

***
Passiamo agli ultimi aggiornamenti regolari e vari.

Ho voluto pubblicare un piccolo aggiornamento sulla guerra d’artiglieria come naturale estensione del grande sproloquio sull’artiglieria che ho fatto nell’ultimo rapporto.

Come sapete, quando arrivano nuove informazioni che corroborano una linea di condotta importante, mi piace aggiornarla per dare ai lettori dei dati complementari reali che dimostrino la mia tesi.

La mia posizione era che la Russia sta vincendo la guerra dell’artiglieria, nonostante le lamentele contrarie dei 6° colonnisti, sia per quanto riguarda il logoramento totale che per la semplice matematica di cose come il raggio d’azione.

Ecco un nuovo video che ho visto per caso di un artigliere russo che descrive un 2A65 Msta-B catturato. Egli afferma chiaramente che ha una gittata di 28 km; ricordiamo che l’M777 con proiettili di base ha una gittata di 23 km e spiccioli.

Non sarà una notizia rivoluzionaria, ma costituisce una delle prime chiare conferme da parte di veri artiglieri russi, piuttosto che affidarsi alle statistiche di wikipedia. Anche se il video mostra una versione catturata, il 2A65 è uno dei pezzi da campo più utilizzati in Russia, senza contare che utilizza lo stesso cannone del 2S19 Msta-S, il che significa che dovrebbero avere circa la stessa gittata.

A questo proposito, un nuovo post ucraino ci offre una visione unica della situazione:

👉 Ukrainian Post In relazione alla costante sconfitta del 2c4 “tulipan” e del 2c7 “peonia”, il nemico è costretto a compensare le perdite del 2c5 “giacinto-s”, che si riflette nella sua capacità di condurre combattimenti di contro-batteria. Se manteniamo il tasso di distruzione del 2c4 e del 2c7, così come dei punti di controllo UAV nemici, la nostra artiglieria si sentirà un po’ più libera e guadagnerà già un vantaggio non solo nella contro-batteria, ma anche come supporto alla fanteria.
Sostengono che la Russia sta perdendo i sistemi 2S4 Tulipan e 2S7 Peonie, ed è costretta a compensare con i sistemi 2S5 Giacinto-S. Ma notate cosa dice. Che solo continuando a distruggere questi sistemi l’artiglieria ucraina può ottenere un po’ di respiro per lavorare in controbatteria e sostenere la fanteria.

Il condizionale è “se” manteniamo questo logoramento, la nostra artiglieria sarà in grado di respirare più liberamente e sopravvivere alla guerra di controbatteria. E questo cosa vi dice?

Ricordate che l’ultima volta il 2S7M è proprio il sistema che ho indicato come la rovina di tutti i sistemi di artiglieria della NATO. Si tratta di una potenza di 203 mm che spara quasi 40 km senza proiettili non assistiti e ancora più lontano con quelli assistiti. L’AFU sta confermando che il 2S7 non li lascia respirare e che solo attutendoli ulteriormente (con droni, HIMAR, ecc.) la loro artiglieria potrà uscire dal nascondiglio ed essere efficace nel sostenere le truppe di prima linea.

Inoltre, si noti come egli affermi che se continueremo a distruggere i 2S7, “otterremo un vantaggio” nella guerra di controbatteria – questo presuppone chiaramente che essi non abbiano attualmente questo vantaggio.

In altre parole: conferma semplicemente tutto ciò che ho detto l’ultima volta. Purtroppo, nonostante la distruzione di alcuni sistemi russi di recente, l’AFU ha subito a sua volta un logoramento ancora peggiore dei propri sistemi, come questo nuovo Caesar francese:

Passiamo all’area delle potenziali mobilitazioni e delle disposizioni delle truppe. Ci sono state alcune nuove dichiarazioni interessanti e illuminanti su questo fronte.

In primo luogo, Putin ha ribadito e confermato le ultime notizie relative a 270 mila nuovi arruolamenti russi per quest’anno:

Il presidente della commissione Difesa della Duma di Stato, Kartapolov, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

🇷🇺⚔️🇺🇦 La Russia non ha bisogno di una nuova mobilitazione per la rotazione dei militari nella zona di operazioni militari speciali, afferma il presidente della commissione per la difesa. ➡️According presidente del Comitato per la Difesa della Duma di Stato, Andrey Kartapolov, ha già arruolato più di 200.000 militari a contratto, ed è attraverso di loro che verrà effettuata la rotazione del personale mobilitato nella zona di operazioni militari speciali. Oggi abbiamo più di 200.000 militari a contratto solo per quest’anno, quindi entro la fine dell’anno saranno praticamente uno a uno o forse anche di più”, ha spiegato il deputato.🇷🇺🇷🇺 Alla Duma di Stato si è parlato della rotazione dei militari a contratto a scapito dei mobilitatiIn Russia non è necessaria una nuova mobilitazione per ruotare il personale militare nella zona delle operazioni militari speciali. Ne ha parlato il presidente della commissione Difesa della Duma di Stato, Andrey Kartapolov. Secondo lui, i soldati a contratto saranno utilizzati per questo: “È per questo che sono stati reclutati”. Sono già stati reclutati più di 200 mila, e grazie a loro ci sarà una rotazione. Nell’ambito della mobilitazione parziale sono state reclutate 300.000 persone. Oggi, ci sono più di 200.000 militari sotto contratto solo per quest’anno, quindi entro la fine dell’anno sarà quasi uno a uno, e forse anche di più”, ha spiegato il deputato.
Questo è molto interessante perché, se ricordate, in precedenza avevo riferito che c’era una “voce” che Putin avrebbe usato i nuovi mobilitati solo per “ruotare” i 300 mila dello scorso settembre, parzialmente mobilitati, piuttosto che aggiungerli a una forza continua molto più grande.

C’è stato un grande mistero riguardo a cosa servano esattamente gli oltre 420 mila arruolati che la Russia prevede di avere entro la fine di quest’anno. Abbiamo ipotizzato che si trattasse di riserve per i nuovi distretti militari e corpi d’armata creati da Shoigu, e/o anche di nuove forze da aggiungere alle formazioni esistenti nell’SMO.

Ora, Kartapolov sembra aver confermato che lo scopo principale dei nuovi quadri è quello di far ruotare i 300.000 mobilitati in precedenza, convalidando apparentemente le voci precedenti. Ha detto che entro la fine dell’anno saranno più di “uno a uno”, il che significa che corrisponderanno ai 300 mila mobilitati l’anno scorso. La domanda principale è: cosa comporta esattamente questa “rotazione”? È temporanea o è una smobilitazione permanente dei numeri dell’anno scorso?

Mentre molti si opporranno con furore al pensiero di una smobilitazione permanente, a causa del desiderio della Russia di accumulare il maggior numero di uomini possibile per un enorme pugno di sfondamento che possa porre fine rapidamente alla SMO, mi sembra più probabile che gli uomini dell’anno scorso vengano smobilitati. Perché?

Perché: in primo luogo, le nuove reclute di quest’anno sono arruolate volontariamente. Cioè, sono entrati in un ufficio di reclutamento e hanno voluto entrare nelle SMO. I mobilitati dell’anno scorso sono tecnicamente arruolati contro la loro volontà, in una certa misura, quindi ha senso sostituirli con veri e propri militari a contratto pienamente disponibili.

Perché ho detto “tecnicamente” arruolati contro la loro volontà? È un po’ più complicato di così. La mobilitazione dello scorso anno è stata condotta attingendo al bacino dei riservisti russi. Tuttavia, quasi ogni maschio adulto in Russia è tecnicamente un riservista, almeno tutti quelli che hanno svolto il servizio di leva obbligatorio. Ma la mobilitazione ha richiamato solo i riservisti che appartenevano a una categoria speciale che si era specificamente riservata un futuro richiamo. Quindi, da un lato, sono effettivamente disposti a farlo, in quanto si sono offerti volontariamente di essere i riservisti in cima alla lista di richiamo. Ma in fin dei conti erano ancora riservisti che vivevano la loro vita normale e non avevano davvero “bisogno” che lo SMO arrivasse e li strappasse improvvisamente alle loro famiglie, al loro lavoro, alla loro vita, ecc.

Gli arruolati di quest’anno, invece, sono letteralmente entrati nell’ufficio di reclutamento con la piena intenzione di prestare servizio, quindi, come ho detto, ha senso che sostituiscano i mobiks che, in qualche modo, erano più che altro una misura d’emergenza “tappabuchi” per arginare le inaspettate perdite territoriali dell’offensiva di Kharkov/Kherson dell’anno scorso.

Non lo so per certo – c’è ancora la possibilità che questa “rotazione” comporti semplicemente l’invio dei mobiks in un lungo periodo di riposo, e poi forse la loro rotazione semplicemente verso le “retrovie” piuttosto che la loro completa smobilitazione e il loro ritorno alle loro vite precedenti. Sto solo dicendo che logicamente avrebbe senso se ciò accadesse. Tutto dipende da quanti uomini la Russia ritiene di avere bisogno per battere l’Ucraina, e questo dipende da quali sono i piani militari effettivi dello stato maggiore russo.

Se la Russia prevede che questo conflitto sarà a lungo termine, potrebbe semplicemente scegliere di continuare ad arruolare 30-45 mila uomini al mese, il che le permetterebbe di avere più di 500 mila uomini in più entro la fine del prossimo anno. Quindi, anche se smobilitassero tutti i mobik dell’anno scorso, alla fine otterrebbero comunque abbastanza uomini per conquistare l’Ucraina.

L’unica domanda è: chi sono esattamente questi arruolamenti? Se una gran parte di loro è costituita da persone che si arruolano per strada, con un addestramento precedente scarso, allora potrebbero aver bisogno di un lungo addestramento anche solo per essere trasferiti in un’unità di prima linea, per non parlare della capacità di compiere assalti offensivi. Ma come ho detto un’altra volta, pochi uomini russi non dovrebbero avere alcun addestramento, dal momento che nel Paese vige il servizio obbligatorio a 18 anni.

Da parte ucraina circolano ancora notizie secondo cui la Russia mobiliterà presto una sorta di nuova forza gigantesca:

Tuttavia, nello stesso articolo sopra citato, un rappresentante dell’intelligence militare ucraina di nome Vadym Skibitskyi afferma di dubitare che tale mobilitazione palese avrà luogo, dato che la Russia si appresta a sostenere le elezioni, e che la Russia continuerà invece le mobilitazioni segrete.

Skibitskyi è citato anche in un nuovo articolo di Bloomberg che riporta che la Russia ha 420.000 truppe totali in Ucraina, secondo questa direzione dell’intelligence militare.

Ricordiamo che è stato un thread in corso qui per dedurre il numero totale di truppe della Russia. Molti, come MacGregor, ritengono che la Russia abbia 700-800 mila uomini in totale. Io sono stato uno dei pochi a sostenere che il numero è molto più basso. L’ultima volta che ho fatto il calcolo in un rapporto, ho stimato che la Russia potrebbe avere meno di 370-450k forze o giù di lì. Questo si basa sul fatto che nel primo anno di guerra ne ha utilizzati solo meno di 100k, ne ha aggiunti altri 300k mobilitati, ma probabilmente ne ha persi 50-100k sia per le perdite che per la scadenza dei contratti o per coloro che hanno semplicemente lasciato il servizio.

Se a quanto sopra aggiungiamo il fatto che decine di migliaia di nuovi arruolati di quest’anno sono stati inviati al fronte piuttosto che inseriti nei nuovi corpi di Shoigu, allora possiamo arrivare a circa 400k, più o meno. Naturalmente ora ci sono 200-300k in riserva che possono entrare in qualsiasi momento, ma il numero di 420k citato nell’articolo afferma che si tratta del numero di partecipanti alla SMO.

Il fatto che il rappresentante dell’intelligence ucraina sia citato per dire che si tratta di un numero molto impressionante mi sembra indicare che il numero dell’Ucraina è simile se non inferiore, piuttosto che gli 800k-1M di truppe che Zelensky vorrebbe farci credere di avere attualmente.

E sulla questione della durata del conflitto, abbiamo le seguenti nuove dichiarazioni. Il generale di brigata tedesco Christian Freiding ha dichiarato di essere pronto a sostenere l’Ucraina fino al 2032:

Un’altra figura di spicco russa ha recentemente affermato che il conflitto durerà probabilmente altri 2-3 anni.

In un nuovo articolo del Washington Post, Fareed Zaharia afferma che a Kiev, dove ha scritto l’articolo, alcuni funzionari “senza nome” gli hanno detto tranquillamente che sarebbero disposti a prendere in considerazione un “cessate il fuoco temporaneo” in cambio di garanzie di sicurezza. Scrive anche che la perdita è diventata uno status quo accettato nella vita degli ucraini.

Non sta scherzando. Continuano ad arrivare numerosi video e storie sulle perdite dell’Ucraina. Qui il capo dei servizi medici ucraini ammette che le perdite sono “enormi”:

Putin riferisce che finora 71.000 ucraini sono stati uccisi nella controffensiva:

Inoltre, come notizia rialzista, Putin è sembrato indicare di essere pronto a un lungo conflitto piuttosto che alla capitolazione a un armistizio in stile Accordo di Khasavyurt, quando ha dichiarato, durante gli stessi colloqui del Forum Economico Orientale, che i colloqui di pace porterebbero solo al riarmo dell’Ucraina. Il fatto che segnali la sua comprensione di ciò è una notizia positiva.

Nel frattempo il Quarto Reich ucraino sta cominciando ad assomigliare al Terzo verso la fine della Seconda Guerra Mondiale:

Ecco un candido aggiornamento di un mercenario della British Foreign Legion sui progressi della guerra:

Un rappresentante dell’AFU della 47ª brigata “d’élite” ha raccontato con rabbia di aver subito 13 KIA (200) e 63 WIA (300) al giorno.

Se vogliamo estrapolare questo dato per un’offensiva di 90 giorni x 13 = 1.170 morti per quella brigata. E non sorprende che questo sia esattamente ciò che ho riportato qui, da un rapporto ufficiale che diceva che le perdite della 47ª erano “a 4 cifre”.

Estrapolando queste perdite di 13 KIA al giorno alle 10-15 brigate che operano solo sul fronte occidentale del Rabotino, aggiungendo poi i fronti di Donetsk/Bakhmut, Staryomayorsk e Kupyansk, si arriva facilmente a 500-1000 KIA al giorno.

La Russia, d’altra parte, ha subito la più bassa diffusione di KIA di tutta la guerra fino ad ora. Le ultime notizie da MediaZona, che segue meticolosamente i necrologi:

Mostra che per il mese di agosto, la Russia sta registrando una media di circa 70 vittime a settimana, mentre a settembre se ne registra una frazione. Si tratta di circa 10 vittime al giorno. Questo per le intere forze armate russe. L’Ucraina sta registrando più perdite da una sola brigata delle 50-70 rimaste. È una disparità sconcertante. Questo è il motivo per cui Putin ha detto onestamente che durante la “controffensiva” la Russia ha mantenuto un rapporto di uccisioni anche di molto superiore a 10:1.

I russi sono letteralmente seduti e sparano alle anatre in un barile mentre l’Ucraina attraversa infruttuosamente i campi aperti e viene annientata dall’artiglieria.

Le partite di prigionieri ucraini catturati sono sempre più numerose:

La settimana scorsa, infatti, è stato prelevato il lotto più grande degli ultimi mesi nei pressi di Klescheyevka:

Decine di prigionieri di guerra ucraini in una cattura sono stati portati via. Tanto che i sostenitori dell’UA, presi dal panico, hanno cercato di diffondere disinformazione sul fatto che si trattasse di prigionieri di guerra russi, dato che anche i canali ucraini avevano pubblicato il video. Sfortunatamente per loro, i principali canali ucraini hanno successivamente tolto il video dopo che è stato geolocalizzato e dimostrato che si trattava di forze russe che spostavano prigionieri di guerra ucraini nel territorio controllato dalla Russia:

Infatti, un nuovo rapporto afferma che la Russia ha di nuovo più di 18.000 prigionieri di guerra ucraini attualmente detenuti:

Il numero di prigionieri di guerra delle Forze armate ucraine nelle carceri e nelle colonie della RPD e della Federazione Russa si è avvicinato alla cifra di 18 mila… La Verkhovna Rada proibisce il loro scambio e il loro ritorno in patria, perché un tale numero di prigionieri direbbe che nelle Forze Armate non è tutto rose e fiori… Ebbene, gli Azov vengono scambiati all’istante, possono persino ricevere un Nobel…
Tanto che il nuovo portavoce dell’AFU ha dovuto emettere una smentita d’emergenza:

Scusa, “Sarah”, ma solo le repubbliche del Donbass ne avevano quasi la metà all’inizio del 2022.

E all’inizio di quest’anno, si dice Russia ne abbia avuti oltre 10.000:

Ogni giorno ne vengono scattati a frotte. Solo negli ultimi giorni, oltre ai video di cui sopra, abbiamo questo, e questo, e questo, e questo, e questo.

Ma nonostante tutto ciò, l’AFU continua ad avanzare un po’ alla volta, quindi non si può festeggiare troppo.

La Russia avrebbe costruito nuove trincee dietro la prima linea vicino a Verbove:

Questo nuovo servizio della CBS mostra quanto gli Stati Uniti continuino a coordinarsi quotidianamente con l’AFU. È assolutamente da vedere:

Si dice che gli attacchi russi abbiano già spazzato via il centro di comando di una brigata ucraina, basandosi sulla geolocalizzazione delle mappe mostrate nel video qui sopra.

Altri hanno sottolineato come le forze armate statunitensi ottengano la maggior parte delle loro informazioni da mappe “brOSINT” open source:

A quanto pare, questo è il Generale Milley che viene istruito su una mappa del terreno brOSINT piuttosto che su una vera mappa tattica. Ho lanciato l’allarme su questo punto molto presto nella guerra – che i responsabili delle decisioni degli Stati Uniti stavano per usare fonti OSINT spazzatura su Internet per prendere decisioni critiche, perché sono molto più convenienti che raccogliere e analizzare realmente l’intelligence all’interno. Ed eccoci qui, con il CJCS che viene informato su un prodotto di intelligence uscito dalla scatola nera di Internet.
Questo è un aspetto che è stato già sottolineato in precedenza come potenziale causa del disastro della controffensiva. Le forze armate statunitensi hanno usato pigramente OSINT open source amatoriali su Twitter per tracciare le fortificazioni russe della “linea Surovikin” e poi hanno aiutato l’Ucraina a pianificare un’intera offensiva sulla base di quei dati. Quando le prime colonne di corazzati ucraini hanno sfondato e si sono rese conto che il posizionamento reale delle fortificazioni era molto diverso dalle loro “mappe”, si è rapidamente trasformato in una catastrofe. Si dice che la Russia sapesse di utilizzare dati satellitari open source e collettori OSINT amatoriali, e che quindi abbia semplicemente creato nuove fortificazioni, obsoletizzando i dati più vecchi.

A proposito, il video qui sopra parla di campi minati. L’ultima volta ho detto che l’Ucraina ha fatto ricorso allo sminamento dei campi semplicemente con truppe d’assalto di carne. Probabilmente qualcuno ha pensato che si trattasse di una grossolana esagerazione a fini di effetto. Ora ci sono le prove.

Prima un video di un ufficiale geniere russo che descrive come si fa:

Ecco un nuovo video che mostra le squadre d’assalto ucraine che attraversano un campo minato e vengono fatte saltare in aria:

Questo è confermato da un nuovo rapporto dettagliato che rivela che l’Ucraina soffre di una carenza di massa di genieri capaci. Leggete la sezione sullo “sminamento dal vivo”: siamo quasi tornati ai tempi dei “biorobot” di Chernobyl:

Le Forze armate ucraine devono affrontare una carenza di genieri a Zaporozhye: l’analisi di Military ChronicleLa situazione per le truppe ucraine nel settore di Rabotino-Verbovoe è complicata per diversi motivi.In primo luogo, tutti i movimenti attivi delle unità ucraine sono limitati a un’area di 105-110 metri quadrati. km nel triangolo tra Novodanilovka, Orekhov e Malaya Tokmachka. In secondo luogo, i campi minati sono ancora un problema irrisolvibile per le unità delle Forze Armate ucraine. I sistemi di sminamento a distanza continuano a permettere alle Forze armate russe di complicare l’intera logistica delle forze di terra ucraine nell’area. È impossibile eliminare le barriere appena installate: i genieri militari regolari delle Forze armate ucraine vengono eliminati dai gruppi di ricognizione e dall’artiglieria delle Forze armate russe. È impossibile addestrare nuovi genieri e inviarli rapidamente sul campo di battaglia. Di conseguenza, le formazioni chiave dell’avanguardia delle Forze Armate ucraine in questa direzione, tra cui la 46ª Brigata d’assalto aviotrasportata, l’82ª Brigata d’assalto aviotrasportata e la 47ª Brigata di fanteria meccanizzata, hanno dovuto far fronte a una forte carenza di genieri. La situazione dello sminamento dei campi minati è parzialmente risolta attraverso il cosiddetto sminamento dal vivo, quando le reclute mobilitate vengono inviate in un’area offensiva inesplorata a bordo di pick-up. I genieri esperti rimasti a disposizione delle Forze armate ucraine lavorano spesso senza copertura di fuoco e senza equipaggiamento, motivo per cui muoiono rapidamente sotto il fuoco dell’artiglieria o durante le incursioni delle unità speciali delle Forze armate russe. L’intero vettore di attacco delle Forze armate ucraine in quest’area è costruito per aggirare le principali alture occupate dall’esercito russo. Di conseguenza, le truppe ucraine sono costrette ad avanzare in pianura (principalmente solo lungo la parte rimanente delle strade asfaltate), sotto il controllo del fuoco delle Forze Armate russe. A causa delle peculiarità del terreno e del sistema di sorveglianza ben costruito delle Forze Armate russe, qualsiasi attività delle truppe ucraine, compresi i tentativi di sminamento, viene rapidamente scoperta e fermata dalle truppe russe.
Passiamo agli ultimi elementi disparati.

Al Forum economico orientale, Putin ha raccontato la storia dell’incursione ucraina di sabotaggio nella regione russa di Bryansk, brutalmente fermata di recente dall’FSB. La cosa più degna di nota è che durante l’interrogatorio i sabotatori catturati hanno rivelato che avrebbero danneggiato la centrale nucleare russa bombardando le linee di trasmissione dell’energia che la alimentano:

Il video è un po’ grafico (18+), ma per chi volesse vedere le conseguenze del fallito raid transfrontaliero dell’AFU, con interrogatori improvvisati dell’FSB, può farlo qui Video Link.

Il prossimo:

Il sito ufficiale del Ministero della Difesa russo ha silenziosamente rimosso Surovikin come capo delle forze aerospaziali giorni fa:

Tuttavia, una nuova voce sostiene che al generale sia stata assegnata una sorta di cattedra nell’entroterra come capo di un comitato di coordinamento per la CSI:

☄️☄️☄️ SuInformation on line è apparso che il generale russo Surovikin è stato nominato capo del comitato di coordinamento per le questioni di difesa aerea sotto la consulenza del Ministero della Difesa della CSI.

Non ci sono conferme dirette, ma visto che le voci precedenti sulla sua sorte si sono rivelate veritiere, è molto probabile che questa sia fondata. Se fosse vero, si tratterebbe certamente di una sorta di retrocessione silenziosa e salva-faccia, con una notevole “clemenza” nei confronti delle sue presunte trasgressioni.

Il prossimo:

Un rapporto sul Challenger da Slavyangrad:

Il carro armato Challenger 2 si è rivelato difettoso; la sua corazza frontale si è staccataCome dimostrato dalle operazioni di combattimento nella zona del Distretto militare settentrionale, la qualità dei carri armati britannici Challenger 2, due unità dei quali sono state distrutte dagli ATGM russi Kornet, lascia molto a desiderare.Il primo dei carri armati distrutti, come scrivono sui social network e sui forum, aveva la piastra anteriore dello sponson dello scafo strappata. Inoltre, un’esplosione interna di munizioni ha strappato una torretta di diverse tonnellate. E tutto questo per un veicolo da combattimento che per molti anni è stato presentato come lo standard di sicurezza. In realtà, si è scoperto che non ha praticamente alcun vantaggio rispetto alla generazione precedente.Attualmente, delle 14 unità consegnate, ne rimangono 12 e non sono previste consegne future. Su Internet ci sono già battute che chiamano i carri armati rimanenti “i dodici amici di Zeloushen”.
La cosa interessante è che nel  video del comandante della squadra ATGM che ha distrutto il Challenger, si dice che il carro armato fa un tipo speciale di “fuoco” con molte scintille. Quando la Russia ha colpito Khlemnitsky con un attacco massiccio mesi fa, se ricordate, c’erano molte cose “scintillanti” nell’aria e segnalazioni di grandi aumenti nel fondo di radiazioni, perché si diceva che il deposito ospitasse una grande quantità di munizioni britanniche DU.

Ora ha senso che i soldati abbiano assistito a strani scintillii dovuti alle esplosioni del Challenger. Dopo tutto, il carro armato ha una canna rigata unica che non può utilizzare le stesse munizioni degli altri carri armati occidentali, quindi è molto probabile che fosse pieno di DU fornito dagli inglesi. Ma non preoccupatevi, il sempre incorruttibile Rafael Grossi dell’AIEA non vede nulla di male nel DU:

Il capo dell’esercito britannico, da parte sua, si è sentito “emozionato” quando il Challenger è stato distrutto:

Che tristezza!

Infine, al momento in cui scriviamo, Kim Jong Un è finalmente arrivato in Russia e si sta incontrando con Putin al Cosmodromo di Vostochny, nell’Estremo Oriente russo:


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L’espansione dei BRICS e la battaglia per il nuovo ordine mondiale, di ROBERTO IANNUZZI

L’espansione dei BRICS e la battaglia per il nuovo ordine mondiale

L’ascesa dei BRICS, confermata dal recente vertice di Johannesburg, è impressionante, ma il nascente mondo multipolare sarà all’insegna dell’incertezza.

8 SET 2023
Il logo dei BRICS (Wikimedia CommonsCC BY-SA 4.0)

Il vertice dei BRICS, recentemente tenutosi a Johannesburg in Sudafrica, ha attirato grande interesse a livello globale, ed in particolare in Occidente, nel teso contesto internazionale che ha visto il cosiddetto “Sud del mondo” in gran parte dissociarsi dai paesi occidentali sul conflitto tra Russia e Ucraina, e la competizione economica fra USA e Cina inasprirsi fino a divenire un’aperta contrapposizione geopolitica.

Sullo sfondo della crisi del sistema internazionale che si protrae almeno dal tracollo finanziario americano del 2008, molti paesi del “Sud del mondo” (una definizione imperfetta che racchiude gli stati non appartenenti al blocco occidentale) ritengono urgente una riforma dell’ordine globale a guida USA, considerato un residuo della Guerra Fredda discriminatorio e non rappresentativo dell’attuale realtà mondiale.

Alla luce di queste tensioni, l’Occidente ha cominciato a guardare ai BRICS (in realtà un’organizzazione abbastanza informale, che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) attraverso la lente della competizione con Cina e Russia.

Al vertice di Johannesburg, la presidenza dei BRICS ha annunciato l’imminente ingresso di ben sei nuovi membri nell’organizzazione: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti (EAU), Etiopia e Iran. Essi aderiranno ufficialmente al gruppo il 1° gennaio del 2024.

Soprattutto in Occidente, molti hanno visto l’annuncio come una mossa finalizzata a permettere ai BRICS di competere con raggruppamenti occidentali come il G7 o con istituzioni finanziarie internazionali (dominate dall’Occidente) come la Banca Mondiale.

L’espansione dei BRICS ha un notevole valore simbolico. Per i sostenitori del gruppo, il suo rafforzamento potrà dare una spinta al tentativo di riformare l’ordine mondiale, contribuendo a definire i contenuti del nuovo sistema e avanzando la causa del multilateralismo.

Uno schieramento dei BRICS più forte – si augurano i suoi sostenitori – favorirà la nascita di una nuova architettura finanziaria globale, dedollarizando l’economia internazionale e spuntando l’arma occidentale delle sanzioni.

Potenziale ostacolo al raggiungimento di tali obiettivi è la natura eterogenea del raggruppamento, ulteriormente accentuata dalla recente espansione, e le posizioni divergenti dei suoi membri su svariate questioni, prima fra tutte il rapporto con l’Occidente.

Una formidabile potenza economica

I BRICS hanno già sorpassato le economie “avanzate” del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, e Stati Uniti) in termini di contributo al PIL mondiale. Essi determinano circa un terzo dell’attività economica globale (a parità di potere d’acquisto), mentre l’apporto del G7, in continuo calo dagli anni ’70 del secolo scorso, è oggi sceso al 30%. I due raggruppamenti seguono dunque traiettorie economiche divergenti.

Andamento del PIL dei BRICS e del G7 a confronto (Screenshot, Visual Capitalist)

Con i nuovi membri, il partenariato dei BRICS (che ora alcuni indicano con l’acronimo BRICS+) arriverà a comprendere il 47,3% della popolazione mondiale, contro il mero 10% rappresentato dal G7.

I BRICS+ costituiscono anche un formidabile raggruppamento energetico. Iran, Arabia Saudita ed EAU (membri dell’OPEC), insieme alla Russia (un membro chiave dell’OPEC+), producono 26,3 milioni di barili al giorno, quasi il 30% della produzione mondiale.

Oltre ad includere alcuni fra i maggiori esportatori di petrolio e gas, i BRICS+ comprendono anche due dei maggiori importatori, Cina e India. Produttori e consumatori presenti in questo gruppo hanno un interesse condiviso a creare meccanismi per scambiare le materie prime al di fuori della portata del settore finanziario del G7 e dei suoi sistemi sanzionatori.

Sia Cina che India ed Arabia Saudita si sono opposte all’imposizione di un tetto al prezzo del petrolio, avanzata dai paesi occidentali per colpire la Russia.

Con l’ingresso dei nuovi membri, il BRICS allargato avrà inoltre il controllo sul 72% delle terre rare a livello mondiale (includendo tre dei cinque paesi con le maggiori riserve), sul 75% del manganese, sul 50% della grafite, e sul 28% del nickel – ovvero su molti dei minerali essenziali per la transizione energetica e la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.

Questo schieramento esteso di paesi potrà investire in progetti e luoghi finora trascurati o esclusi dall’Occidente, come ad esempio l’Iran che possiede quantità significative di minerali strategici, fra cui le maggiori riserve mondiali di zinco e il secondo maggior giacimento di rame.

Nuovi membri, aspiranti candidati, e criteri di adesione

Oltre quaranta paesi hanno manifestato interesse ad aderire ai BRICS, di cui ventitré hanno fatto esplicita richiesta di adesione prima del vertice di Johannesburg (fra essi anche sette delle tredici nazioni che compongono l’OPEC). Rimangono in lista d’attesa paesi come Algeria, Indonesia, Kazakistan, Messico, Nigeria, Turchia ed altri.

BRICS, membri e aspiranti candidati. Blu: stati membri; Azzurro: nuovi membri; Arancione: candidati; Giallo: manifestazione di interesse ( By MathSquare – Author: Dmitry Averin (Дмитрий-5-Аверин), CC BY-SA 3.0)

Data la natura alquanto informale del raggruppamento dei BRICS, non vi erano specifici criteri di adesione. E’ stato perciò necessario stabilire dei parametri e delle procedure. Ma essenzialmente i sei nuovi membri sono stati selezionati attraverso negoziati diretti e decisioni ad hoc, in particolare cercando di conciliare l’approccio più entusiastico della Cina con quello più cauto di India e Brasile.

A giudicare dalle testimonianze, la discussione è stata lunga e tutt’altro che facile.

L’adesione di diversi paesi mediorientali testimonia non soltanto l’interesse del gruppo nei confronti di una regione strategica per le risorse energetiche e le rotte commerciali. E’ anche un’ulteriore conferma dell’intenzione della Cina di rafforzare il suo ruolo regionale dopo che la sua mediazione diplomatica ha favorito il riavvicinamento fra Arabia Saudita e Iran.

Anche grazie a questo riavvicinamento è stata possibile l’inclusione di Teheran, che altrimenti sarebbe forse risultata troppo controversa.

Il peso economico di Arabia Saudita ed EAU potrà essere utile per sostenere la New Development Bank (NDB), istituto fondato dai BRICS per finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo nei paesi membri.

Con la Cina in ascesa e l’Occidente in declino, paesi come Arabia Saudita, EAU ed Egitto, che tuttora subordinano la loro sicurezza ad accordi militari con Washington, hanno puntato a diversificare le proprie scelte di politica estera ed economica entrando nei BRICS.

Integrazione energetica e commerciale

Dal canto loro, i BRICS mirano non solo ad assicurarsi le fonti energetiche, ma anche a controllare le rotte che ne consentono la fruizione. La Belt and Road Initiative cinese (la cosiddetta “nuova via della seta”) ha già creato una rete di snodi energetici e commerciali che collegano il “Sud globale” sfruttando in particolare i porti degli EAU.

L’adesione dell’Egitto non solo introduce nel gruppo la seconda economia dell’Africa e un importante membro dell’Unione Africana, ma anche il paese che controlla lo strategico Canale di Suez.

L’inclusione di Teheran è rilevante soprattutto per la Russia, integrando nelle reti commerciali dei BRICS l’International North–South Transport Corridor (INSTC), corridoio logistico che consente a Mosca di esportare i propri beni verso l’Asia e l’Africa attraverso l’Iran, bypassando il Baltico, il Mar Nero e il Canale di Suez.

L’INSTC (in rosso) e la rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez (in blu) (Public Domain)

L’interconnettività e lo sviluppo infrastrutturale dei BRICS costituiranno i temi chiave della presidenza russa del gruppo nel 2024. Il presidente russo Putin intende creare una commissione dei BRICS per i trasporti finalizzata alla creazione di arterie di transito a livello dell’Eurasia e globale.

Altro obiettivo della presidenza russa sarà quello di creare un’Agenzia energetica del gruppo finalizzata ad una maggiore cooperazione dei paesi membri nella definizione degli obiettivi di produzione e dei prezzi energetici.

Le sfide dell’allargamento

Dal canto suo, l’Iran vede l’adesione ai BRICS come un modo per attenuare il peso delle sanzioni occidentali che hanno soffocato la sua economia. La prospettiva che gli scambi commerciali all’interno del gruppo vengano condotti nelle valute nazionali, e quella (più lontana) di una “valuta dei BRICS”, promettono importanti vantaggi a Teheran sotto questo profilo.

L’adesione dell’Etiopia consente ai BRICS di integrare nel gruppo un altro importante paese africano assieme all’Egitto. L’Etiopia è il secondo stato più popoloso dell’Africa ed una delle economie emergenti del continente. Essa occupa una posizione strategica nel Corno d’Africa ed ospita la sede dell’Unione Africana.

Infine vi è l’Argentina, che è stata accolta in quanto importante rappresentante dell’America Latina (e unico nuovo membro dell’emisfero occidentale). L’ingresso di questo paese rappresenta però anche una sfida per i BRICS a causa del suo dissesto economico e della sua valuta in caduta libera.

L’Argentina è la nazione più indebitata con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Inoltre, se il candidato di estrema destra Javier Milei dovesse vincere le elezioni presidenziali di ottobre, ha già promesso di spezzare i legami con la Cina e di riorientare l’Argentina verso l’Occidente – cosa che potrebbe implicare una rinuncia all’adesione ai BRICS.

Potenziali problemi per i BRICS potrebbero emergere anche dall’ingresso di Egitto ed Etiopia. Il primo attraversa una grave crisi economica. Dopo lo scoppio del conflitto ucraino, la valuta egiziana ha perso più del 50% del suo valore mentre l’inflazione ha raggiunto il 36% lo scorso giugno.

L’Etiopia, dal canto suo, deve riprendersi da due anni di devastante guerra civile che ha coinvolto soprattutto la regione settentrionale del Tigray.

E’ importante ricordare anche che esistono annose tensioni fra alcuni dei nuovi membri che i BRICS si apprestano ad accogliere. Abbiamo già ricordato il caso di Iran e Arabia Saudita, che hanno solo da poco riallacciato i rapporti diplomatici grazie alla mediazione cinese. Vi è poi il teso rapporto fra Egitto ed Etiopia a causa della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la gigantesca diga sul Nilo Blu che secondo il Cairo rischia di minacciare la sicurezza idrica egiziana.

Sarà interessante vedere se i BRICS rappresenteranno un forum in grado di contenere ed eventualmente risolvere queste tensioni.

Un raggruppamento molto eterogeneo

Complessivamente, tuttavia, tra democrazie vere o presunte (Argentina ed Etiopia), una repubblica autocratica (Egitto), due monarchie (Arabia Saudita ed EAU), ed una teocrazia (Iran), il diversificato schieramento di paesi che si appresta ad entrare nei BRICS è destinato a rendere il gruppo ancor più eterogeneo.

Come ha confermato lo stesso presidente brasiliano Lula da Silva, il criterio di scelta principale nel selezionare i nuovi membri non è stata la loro forma di governo ma il loro rispettivo peso geopolitico.

Quando nel 2009, su iniziativa russa, si tenne a Yekaterinburg il primo vertice dei BRIC (allora ancora privi del Sudafrica, che avrebbe aderito l’anno successivo), vi era un criterio, sebbene non scritto, ad unire i quattro membri del nuovo raggruppamento: quello della piena sovranità, ovvero della capacità di perseguire una politica estera ed economica indipendente.

Il variegato insieme di paesi che sono stati scelti come nuovi membri non risponde pienamente a questo criterio. Da ciò segue – osserva il noto analista russo Fyodor Lukyanov – che i leader dei BRICS, approvando questo allargamento, hanno preferito il principio di diversificazione a quello del consolidamento dell’organizzazione.

Se già in precedenza i BRICS erano un raggruppamento che mancava di un definito meccanismo istituzionale, con la sua espansione a undici membri che hanno visioni spesso divergenti, la creazione di un simile meccanismo appare ancor più lontana.

In realtà, fin dall’inizio i BRICS erano un insieme di paesi con visioni differenti, in particolare riguardo agli Stati Uniti. In contrasto con Russia e Cina, che cercano di riformulare l’ordine globale a guida USA, India e Brasile hanno adottato posizioni più neutrali, e talvolta, soprattutto nel caso indiano, di cooperazione con Washington.

Per l’India, la vicina Cina non è soltanto un competitore economico ma anche un paese con cui i rapporti sono guastati da serie dispute territoriali. Nuova Delhi è invece un partner di Washington all’interno del   Quadrilateral Security Dialogue (Quad), raggruppamento nell’Indopacifico che include anche Giappone ed Australia, a cui gli USA hanno cercato di dare nuovo impulso a seguito della loro crescente rivalità con Pechino.

Né con l’Occidente né contro di esso

Come abbiamo visto, sono molteplici anche le motivazioni che hanno indotto i nuovi membri ad aderire ai BRICS. Un paese come l’Iran è spinto dalla speranza che il suo ingresso nel raggruppamento contribuisca ad alleviare il fardello delle sanzioni (un problema peraltro condiviso anche dalla Russia, e in misura minore dalla Cina) ed a contenere l’egemonia occidentale.

Produttori energetici come l’Arabia Saudita e gli EAU, dotati di ingenti risorse finanziarie, sono motivati dal desiderio di allargare la platea dei propri partner e di diversificare i propri investimenti, ma non hanno interesse a trasformare i BRICS in uno schieramento antioccidentale.

I leader di questi paesi hanno messo in chiaro che non intendono “scegliere” fra Oriente e Occidente, ma fare affari con tutti.

Infine, paesi come Argentina, Egitto ed Etiopia si augurano che l’ingresso nei BRICS possa alleviare le loro difficoltà economiche, anche attraverso la possibilità di accedere ai finanziamenti della NDB, la quale non applica condizionalità come invece fanno la Banca Mondiale e l’FMI. Ma neanche loro sono marcatamente ostili all’Occidente.

Dunque i BRICS+ difficilmente avranno un orientamento spiccatamente antioccidentale, ma piuttosto saranno un insieme di paesi intenzionati a scegliere i propri partner a seconda delle proprie esigenze politiche ed economiche del momento.

Tuttavia, benché il raggruppamento dei BRICS non costituirà mai un’alleanza politica, un forum di paesi determinati ad estendere uno spazio di azione indipendente all’interno dell’attuale sistema internazionale è di per sé in grado di favorire dei cambiamenti importanti – sostiene Lukyanov.

Anche per paesi in aperto conflitto con l’Occidente, come Russia e Iran, il mero ampliamento di uno spazio indipendente nel panorama internazionale, composto da paesi che interagiscono fra loro al di fuori del sistema occidentale di incentivi e sanzioni, è una prospettiva augurabile e in armonia con i loro interessi.

Riformare le istituzioni internazionali, non smantellarle

Conseguentemente, i BRICS non hanno fra i loro principali obiettivi quello di smantellare le istituzioni dell’attuale ordine internazionale, come il WTO, la Banca Mondiale e l’FMI.

Anche nella dichiarazione conclusiva del vertice di Johannesburg, i paesi membri hanno ribadito il loro appoggio ad un sistema commerciale multilaterale ed inclusivo che sia “incentrato sul WTO”.

La dichiarazione ha anche espresso l’approvazione dei paesi membri per una rete di sicurezza finanziaria globale che abbia al proprio centro “un FMI adeguatamente finanziato e basato su quote”.

L’agenda dei BRICS segue dunque due binari paralleli.

Il primo consiste nel cercare di acquisire maggiore influenza e capacità di controllo sulle istituzioni internazionali finora dominate dall’Occidente (ad esempio attraverso la riforma delle quote dell’FMI, e la riorganizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU).

Il secondo sta nel rafforzare proprie istituzioni parallele, come la NDB, alle quali ricorrere laddove le istituzioni consolidate dell’ordine globale non rispondano alle loro aspirazioni e ai loro interessi.

Da ciò si deduce che i BRICS, i quali ovviamente non rappresentano un’alternativa al sistema capitalistico, non incarnano neanche una sfida frontale all’egemonia americana ed occidentale, ma più modestamente il tentativo di ridurre le disparità e gli squilibri dell’attuale ordine.

Dedollarizzazione sì o no?

E’ in questo contesto che si inserisce il dibattito sull’impulso alla dedollarizzazione del sistema finanziario internazionale che i BRICS potrebbero imprimere.

Paesi direttamente sottoposti alle sanzioni americane, come Russia e Iran, certamente sono i primi a voler porre fine alla dipendenza dal dollaro.

Il desiderio di emanciparsi dalla valuta statunitense, e dal fardello che l’indebitamento in dollari comporta (basti pensare all’effetto disastroso che ogni rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve americana ha sulle economie dei paesi emergenti), è però generalmente diffuso fra vecchi e nuovi membri del gruppo.

Malgrado ciò, la prospettiva di una valuta di riserva comune dei BRICS non sembra al momento imminente.

Perfino se i membri del raggruppamento fossero geopoliticamente allineati, l’adozione di una valuta comune presenterebbe una serie di problemi, già messi in evidenza dalla natura zoppicante dell’euro: l’esigenza di una convergenza macroeconomica, la scelta di un meccanismo di cambio, la creazione di un sistema di pagamenti e di compensazione multilaterale che sia efficiente, la necessità di disporre di mercati finanziari caratterizzati da liquidità e stabilità.

Una possibile alternativa sarebbe quella di adottare il renminbi cinese come valuta comune dei BRICS. Ma la valuta di Pechino non è sufficientemente convertibile, e non dispone di un mercato finanziario abbastanza liquido. La Cina adotta ancora un regime di controllo dei capitali, a cui non sembra intenzionata a rinunciare. E paesi come l’India non accetterebbero il renminbi come valuta comune per paura di concedere a Pechino un ruolo troppo dominante.

E’ per questa ragione che il vertice di Johannesburg non si è concentrato su una potenziale valuta dei BRICS, ma sulla decisione di promuovere l’impiego delle valute nazionali nelle transazioni transfrontaliere – un fenomeno già in atto da tempo.

Sebbene Cina e India abbiano interessi di sicurezza divergenti, entrambe traggono beneficio da un aumentato ricorso alle valute locali. L’Arabia Saudita, dal canto suo, sta esaminando la possibilità di ricorrere al renminbi per regolare le transazioni petrolifere con Pechino. Nuova Delhi sta invitando molti paesi a intrattenere transazioni commerciali in rupie. Il mese scorso, l’India ha effettuato il suo primo pagamento petrolifero in rupie agli EAU.

Tuttavia, per due paesi ha senso commerciare nelle rispettive valute nazionali (non pienamente convertibili) solo se il saldo commerciale fra essi è più o meno in equilibrio.

A titolo di esempio, la Russia ha recentemente venduto ingenti quantità di petrolio all’India, la quale ha pagato Mosca in rupie. Ma siccome Nuova Delhi esporta in Russia molto meno di quanto importi da essa, Mosca si trova con una grossa somma di rupie che non sa come spendere o convertire, potendo utilizzarle solo per acquistare prodotti dell’India.

A questo problema potrebbe ovviare solo l’introduzione di una valuta comune per l’intero raggruppamento dei BRICS.

Il lento declino del dollaro

Sebbene i volumi commerciali fra i paesi BRICS non siano al momento sufficienti a sostenere una simile soluzione, le cose potrebbero cambiare con un ulteriore allargamento del raggruppamento ad altri paesi.

In tale contesto, si potrebbe passare da sistemi di compensazione bilaterali (che hanno i limiti appena esposti) ad un sistema di compensazione multilaterale, ed infine ad una valuta comune.

In un simile scenario, alcuni ipotizzano la creazione di una valuta condivisa che verrebbe utilizzata solo nelle transazioni fra gli stati membri, mentre i cittadini dei singoli paesi continuerebbero ad impiegare le proprie valute nazionali.

Un ulteriore allargamento dei BRICS tuttavia presenta sfide di altra natura, legate agli interessi eccessivamente divergenti che un numero troppo esteso di paesi potrebbe determinare, mettendo a rischio la coesione del gruppo.

Per queste ragioni, il dollaro è destinato a rimanere ancora per diversi anni la valuta dominante a livello internazionale.

Il biglietto verde comincerà a perdere sensibilmente potere nel momento in cui i prezzi di gas e petrolio non saranno più fissati in dollari. Ed è questa probabilmente una delle principali considerazioni che hanno spinto i membri fondatori ad includere nei BRICS l’Arabia Saudita, l’Iran e gli EAU. Tuttavia, Riyadh e Abu Dhabi hanno ancora un legame abbastanza stretto con Washington.

Dunque sul medio periodo, piuttosto che una singola alternativa al dollaro, emergeranno probabilmente blocchi regionali di valute, mutevoli e porosi, fondati su scambi commerciali bilaterali e multilaterali, accompagnati da una lenta perdita di influenza da parte del biglietto verde.

Un caotico mondo multipolare

Il nascente mondo multipolare sarà quindi, ancora per anni, segnato dal disordine e dall’incertezza. Esso sarà caratterizzato da alleanze variabili e da paesi – le cosiddette “medie potenze” – che cercheranno di giostrarsi fra tali alleanze senza aderirvi pienamente, mantenendo una posizione “non-allineata”.

Si è parlato a tale proposito di swing states (paesi “oscillanti fra i vari schieramenti) e di mondo à la carte.

Raggruppamenti come i BRICS e il G20 (più vicino agli USA) competeranno fra loro per assicurarsi la lealtà dei paesi in via di sviluppo.

Per diverso tempo i paesi emergenti continueranno ancora a dipendere dal loro debito denominato in dollari, e persino istituzioni finanziarie dei BRICS come la NDB (finché saranno legate all’impiego della valuta americana) resteranno potenzialmente esposte alle sanzioni secondarie di Washington.

Mentre la Cina rimarrà al centro delle catene di fornitura, e dunque del sistema produttivo mondiale, gli USA, più deboli dal punto di vista industriale, resteranno però almeno per qualche tempo al centro di forti alleanze geopolitiche nell’Atlantico e nel Pacifico.

La debolezza del sistema americano sta però nel fatto che, per molti alleati degli USA, sarà virtualmente impossibile sganciarsi dalle catene di fornitura e dai nodi di produzione legati alla Cina, se non vorranno andare incontro ad un repentino declino industriale e tecnologico.

In assenza di alternative industriali e di sviluppo, un’eccessiva fedeltà agli USA impedirà agli alleati di Washington di accedere alle reti produttive più avanzate e ai prodotti più competitivi, ed allo stesso tempo a rinunciare ad importanti mercati di esportazione.

La divergenza fra interessi economici e fedeltà politiche creerà tensioni e fratture che caratterizzeranno la transizione verso il nuovo ordine multipolare, e che sono destinate ad accrescere il rischio geopolitico e la possibilità di conflitti.

https://robertoiannuzzi.substack.com/p/lespansione-dei-brics-e-la-battaglia?utm_source=post-email-title&publication_id=727180&post_id=136847064&isFreemail=true&r=9fiuo&utm_medium=email

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Sovraestensione imperiale, parte 1_di SAM MCCOMMON


Sovraestensione imperiale, parte 1

Was 9/11 a Turning Point or an Accelerant?

Immaginate di viaggiare nel passato e di mostrare a qualcuno con una conoscenza decente degli eventi attuali del 10 settembre 2001 questi due Tweet. Non importa spiegare cosa sia un Tweet. Considerate solo lo spostamento contestuale e i salti logici che dovrebbero fare per indovinare le circostanze future dell’America.

La risposta sarebbe probabilmente del tipo: “Aspetta, cosa? L’aggressione russa? La competizione con la Cina? Ripristino dell’arsenale americano? Avversari strategici? Russia e Cina sono praticamente alleate e noi siamo preoccupati? Che diavolo è successo?”.

Avrebbero ragione ad essere confusi.

Dopo tutto, il 10 settembre 2001 è stato un giorno come tanti (a parte un piccolo discorso di Donald Rumsfeld). Non ricordo alcun particolare personale. A meno che quel giorno non abbiate avuto un evento che vi ha cambiato la vita, è probabile che non lo ricordiate nemmeno voi. Ma se avete più di 30 anni e soprattutto siete americani, potete ricordare esattamente dove eravate l’11 settembre 2001 quando avete sentito la notizia.

Dire che è stato traumatico è un eufemismo, soprattutto perché è sembrato un evento improvviso. Le cose sembravano certamente tranquille nel periodo precedente l’autunno del 2001. Dopo aver ucciso il drago dell’URSS dieci anni prima, gli Stati Uniti erano l’unica e incontrastata potenza mondiale. Un momento così unipolare è una cosa rara nella storia, ma all’epoca sembrava del tutto normale. L’ascesa dell’America aveva perfettamente senso per chiunque vi vivesse.

Ma poi l’11 settembre ha segnato ufficialmente un punto di svolta nella storia del Paese, e di fatto nella storia del mondo fino ad oggi. Se credete nell’Effetto Mandela, si è trattato di un cambiamento radicale della linea del tempo in una linea molto più oscura.

Si noti che nella frase precedente la parola “ufficialmente” è molto importante. Tuttavia, i semi della torreggiante foresta di problemi di oggi erano già stati piantati al momento dell’attacco dell’11 settembre, e l’11 settembre è stato un evento scatenante che ha spinto in avanti eventi già probabili e tendenze esistenti.

Si consideri che prima dell’11 settembre, a titolo di esempio:

Il debito a basso costo alimentava bolle speculative sempre più grandi, mentre l’inflazione non si fermava mai.

L’ideologia della politica estera, che uccide i draghi, dominava e ostacolava qualsiasi potenziale transizione verso un’economia di pace a tempo pieno.

Il potere si stava concentrando in un numero sempre minore di entità in molti settori aziendali, il che consentiva una maggiore influenza sul governo.

La tecnologia delle comunicazioni stava subendo una rivoluzione che non ha ancora finito di svilupparsi.

La politica dei partiti stava diventando sempre più sgradevole e tribale, mentre cresceva l’influenza del governo nella vita quotidiana.

La produzione statunitense veniva trasferita all’estero, in gran parte in Cina, a ritmi mai visti prima.

E un patto faustiano che scambiava l’anima di una nazione per un profitto a breve termine era stato siglato, con le sue ramificazioni che serpeggiavano nella cultura.

Quindi, riflettete: L’11 settembre è sembrato sicuramente un punto di svolta, ma ha agito più come un acceleratore di un percorso già stabilito che come un punto di snodo. Sul momento è stato molto sconcertante, certo. Ma essenzialmente, ha fatto sì che il Grande Conducente della Storia schiacciasse il piede sull’acceleratore.

Oggi gli Stati Uniti si trovano in un periodo di sovraestensione imperiale che non può durare ancora a lungo. Ha superato il suo punto di massimo splendore, anche se su quanto sia stato superato si può discutere. Il Paese è stato svuotato sotto molti punti di vista e la sua posizione geopolitica è minacciata e appare sempre più vacillante.

Aggiornamento a pagamento

Un nuovo formato per una nuova era
Ho intenzione di provare un nuovo formato per questo blog: Una serie di brevi post che coprono argomenti specifici sotto un’ampia copertura. In parte per dare ai lettori delle chicche più semplici da masticare, in parte per evitare che io cerchi di collegare tutti i punti del mondo in un solo articolo. Sono curioso di sapere come andrà a finire e sono felice di ricevere un feedback su questa nuova direzione.

Quindi, considerate questo il post inaugurale di una serie sulla sovraestensione imperiale. Parlerò degli aspetti economici, politici, militari e sociali che ci hanno portato a questa strana e critica congiuntura della storia. Stiamo calpestando un terreno unico, quindi prima di proporre soluzioni è necessario avere un quadro chiaro del contesto.

Un piano provvisorio di pubblicazione di articoli per le prossime settimane è simile a questo, in ordine sparso:

La grande bugia dell’inflazione: di bolla in bolla

Gli uccisori di draghi: I neoconservatori e la ricerca dell’Eurasia

L’High Water Mark dell’America

Monopolio: Il consolidamento del potere aziendale americano

La destra e la sinistra sono obsolete

Il cancro a Washington: Lo Stato di sicurezza in fuga

Industria in vendita: Lo svuotamento dell’industria americana

Il patto culturale faustiano dell’America

Ogni argomento potrebbe essere un libro intero, ma farò del mio meglio per non superare le 2.000 parole. Soprattutto, non voglio scrivere un libro intero su ciascuno di essi. Quindi, sentitevi liberi di ammonirmi se gli articoli dovessero essere troppo lunghi.

È giusto, credo, usare l’11 settembre come data di inizio di questa serie, poiché la data stessa è stata davvero l’inaugurazione della nuova e sgradevole era in cui ci troviamo.

Vorrei che fosse vero che ciò che gli Stati Uniti fanno da qui in poi fosse relegato a un solo angolo del mondo. Purtroppo non è così. In quanto leader dell’autoproclamato Ordine Internazionale Basato sulle Regole (o Impero, per molti), ciò che gli Stati Uniti scelgono di fare avrà effetti su tutto il mondo. Ecco perché è fondamentale che tutti comprendano la nostra situazione attuale, e non solo gli americani.

I hope readers will enjoy this series and am happy to hear feedback or suggestions along the way. May the wind be ever at your back.

https://www.thepropergander.org/p/imperial-overextension-part-1?utm_source=post-email-title&publication_id=1115963&post_id=136943030&utm_campaign=email-post-title&isFreemail=true&r=9fiuo&utm_medium=email

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Rompere i legami con la Russia e puntare sulla Francia, di Drago Bosnic

La NATO, nella fattispecie soprattutto l’attuale leadership statunitense, riesce a trovare nuovi aspiranti suicidi, abbacinati dalle lusinghe e dall’incapacità di risolvere i contenziosi riemersi con l’implosione della Unione Sovietica. Il serbatoio dell’Ucraina è in via di esaurimento. E’ la volta della Armenia, non ostante l’esistenza di una opposizione interna ancora attiva. Folle festanti hanno accolto i leader statunitensi che si sono avvicendati nella veste di salvatori in Armenia. Il prodromo di una tragedia che investirà un altro popolo ai confini della Russia, ma anche della Turchia, poco consapevole dell’estremo sacrificio al quale sarà chiamato in nome di disegni geopolitici ostili alla Russia, ma che rischiano di rinsaldare paradossalmente il sodalizio circospetto di questa con la Turchia e con l’Iran. Il regime iraniano, del resto, alleato sino ad ora dell’Armenia, ha ammonito severamente il governo armeno a non consentire l’ingresso della NATO nell’area caucasica. La Francia, a sua volta, ambisce ad assumere un ruolo attivo nella regione. Potrà esercitarlo, ma a costo di un ulteriore asservimento. “Armiamovi e partite” sarà il motto rimasticato e la lezione che si fatica ad apprendere. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Rompere i legami con la Russia e puntare sulla Francia

Drago Bosnic, analista geopolitico e militare indipendente

Rompere i legami con la Russia e puntare sulla Francia potrebbe distruggere l’Armenia
Secondo la “logica” di Pashinyan, la Francia entrerà in un confronto con la Turchia, uno dei suoi alleati della NATO, per il bene dell’Armenia, un Paese distante quasi 3.500 km che può raggiungere Yerevan solo attraverso la vicina Georgia. Tutto ciò senza considerare i problemi che Parigi sta attraversando, dato che il suo sistema neocoloniale in Africa sta affrontando un disfacimento senza precedenti.
Drago Bosnic, analista geopolitico e militare indipendente
Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan sembra essere un “dono che continua a dare“, anche se l’unico problema è che il beneficiario è chiunque tranne l’Armenia. Al contrario, con il suo arrivo al potere nel 2018, all’indomani della cosiddetta “Rivoluzione di velluto” (lo stesso nome usato in Cecoslovacchia nel 1989 e opportunamente riciclato dallo stesso Pashinyan), la Turchia e l’Azerbaigian non avrebbero potuto ricevere un regalo strategico migliore di questo. I risultati del suo governo sono stati un disastro totale per l’Armenia, come dimostra la perdita della maggior parte del territorio dell’Artsakh (più noto come Nagorno-Karabakh), che ha ulteriormente galvanizzato le ambizioni neo-ottomane della Turchia.
Prima della rivoluzione cromatica di Pashinyan del 2018, l’Azerbaigian si impegnava regolarmente in schermaglie con le forze locali dell’Artsakh nel tentativo di “scongelare” e inasprire il conflitto che era più o meno congelato dal 1994. Ogni volta la Russia è intervenuta per impedire tale escalation, anche nel 2014, 2015, 2016 e 2018. Tuttavia, quell’anno, dopo che Pashinyan è salito al potere, ha avviato una campagna di “riforme” antirusso e di mosse che hanno essenzialmente allontanato Mosca da Yerevan. Tra queste, la chiusura delle scuole in lingua russa e l’intenzione apertamente dichiarata di aderire alle cosiddette “integrazioni euro-atlantiche”, il che significa di fatto aderire all’Unione Europea e alla NATO.
A quel punto, la Russia si è trovata di fronte a una scelta molto difficile: aiutare il suo alleato storico che si stava (lentamente ma inesorabilmente) trasformando in tutt’altro, oppure abbandonare l’Armenia a se stessa per non rischiare di far deragliare l’importantissimo riavvicinamento con Ankara e Baku. Anche in questo caso, Mosca ha deciso di intervenire tempestivamente per evitare la perdita totale dell’Artsakh, dispiegando rapidamente 2000 soldati nell’area. Come ha reagito Pashinyan? Ha iniziato uno scaricabarile nel tentativo di spostare la responsabilità da se stesso e di gettare semplicemente la Russia sotto l’autobus. Questo non ha portato ad altro che a un ulteriore raffreddamento delle relazioni tra Erevan e Mosca, l’ultima cosa di cui il popolo armeno ha bisogno.
E mentre 2000 soldati russi continuano a proteggere gli armeni indigeni dell’Artsakh, Pashinyan ha permesso la massiccia espansione dell’ambasciata americana a Yerevan, che ora ospita oltre 2000 membri del personale, molti dei quali sono agenti dei servizi segreti il cui unico scopo è danneggiare gli interessi della Russia nella regione. Come se non bastasse, in una recente intervista rilasciata al quotidiano italiano La Repubblica, il Primo Ministro armeno ha di fatto annunciato la rottura degli stretti legami con la Russia. Allo stesso tempo, è in corso uno spostamento strategico verso la Francia, il Paese che Pashinyan pensa, stupidamente, possa entrare in un confronto aperto con la Turchia sull’Armenia (per non parlare dell’Artsakh).
In particolare, all’inizio di luglio, diverse fonti hanno rivelato che la Francia avrebbe consegnato armi a Yerevan, tra cui veicoli blindati e sistemi SAM (missili terra-aria) a corto raggio. Non si è parlato di acquisizioni di droni, sebbene i sistemi senza pilota si siano rivelati il principale fattore decisivo durante l’invasione azera dell’Artsakh nel 2020. Proprio la Russia è uno dei leader mondiali in questo ambito, come dimostrano le superbe prestazioni dei suoi droni in Ucraina. Perché Pashinyan non si è rivolto a Mosca per procurarsi migliaia di droni d’attacco che potrebbero fornire un significativo vantaggio asimmetrico sulle forze azere, più numerose e pesantemente armate? Questo aiuterebbe sia l’Artsakh che l’Armenia vera e propria.
Tuttavia, Pashinyan ha altri piani, tra cui lo spreco delle modeste risorse dell’Armenia in costose armi francesi che ora stanno bruciando nelle sterminate steppe dell’Ucraina, insieme a innumerevoli altri carri armati e veicoli blindati occidentali, molti dei quali distrutti proprio dai suddetti (e poco costosi) droni russi. Nel frattempo, l’Azerbaigian continua a militarizzare il confine con l’Armenia, mentre l’Artsakh è ancora in pericolo. L’unica cosa che si frappone tra le forze di Baku e la popolazione armena nella zona sono le forze di pace russe. Inoltre, le forze di Mosca in Armenia sono l’unico motivo per cui la Turchia non osa attaccare il Paese. Tuttavia, tutto ciò non significa molto per Pashinyan.
In un evidente riferimento alla Russia, durante la già citata intervista a La Repubblica, ha affermato che avere “un solo partner è un errore strategico”. Secondo la “logica” di Pashinyan, la Francia entrerà in un confronto con la Turchia, uno dei suoi alleati della NATO, per il bene dell’Armenia, un Paese distante quasi 3.500 km che può raggiungere Yerevan solo attraverso la vicina Georgia. Inoltre, è estremamente improbabile che Tbilisi lo permetta, poiché non ha alcun motivo per peggiorare le sue relazioni ampiamente cordiali con la Turchia e l’Azerbaigian a favore dell’Armenia. Tutto questo senza nemmeno considerare i problemi che Parigi sta attraversando, dato che il suo sistema neocoloniale in Africa sta affrontando un disfacimento senza precedenti.
È inoltre improbabile che gli Stati Uniti permettano il peggioramento dei legami all’interno della NATO nel momento in cui stanno cercando di tenere insieme l’alleanza belligerante o almeno di mantenere una parvenza di unità durante la controffensiva strategica della Russia. Per il bene del popolo armeno e per la conservazione del suo magnifico patrimonio di civiltà, Erevan dovrebbe cercare di ristabilire stretti legami con la Russia, l’unico vero garante della sicurezza dell’Armenia.

Grigoryan rischia la sovranità dell’Armenia cambiando alleanze quando l’Azerbaigian minaccia la guerra

L’Armenia sta rafforzando l’influenza della NATO nel Caucaso ospitando esercitazioni con gli USA

Ahmed Adel, ricercatore di geopolitica ed economia politica del Cairo
Il segretario del Consiglio di sicurezza armeno Armen Grigoryan sta facendo perno sul Paese caucasico verso l’Occidente, quando la sua priorità immediata dovrebbe essere quella di mettere in sicurezza l’Armenia, visto che il conflitto con l’Azerbaigian sembra prossimo a scoppiare. Non è un segreto che la sua nomina a capo del Consiglio di sicurezza abbia inizialmente suscitato legittime preoccupazioni tra gli armeni, poiché si allontanava dalle relazioni tradizionali e di lunga data che l’Armenia intrattiene con la Russia. Tuttavia, la sua missione di far deragliare i legami armeno-russi non sorprende se si ricorda che è stato l’ex coordinatore dei programmi elettorali di Transparency International, una ONG finanziata da Soros con un’evidente agenda liberale.
Di recente Grigoryan ha fatto un altro viaggio, ma piuttosto concettuale, a Bruxelles e ha avuto un pranzo di lavoro con il rappresentante speciale del Segretario generale della NATO per il Caucaso e l’Asia centrale, Javier Colomina. Secondo i media armeni, Grigoryan ha spiegato a Colomina “la situazione della sicurezza intorno all’Armenia e al Nagorno-Karabakh, e ha anche discusso le conseguenze del blocco illegale del corridoio di Lachin da parte dell’Azerbaigian”.
Con il pretesto della “protesta ecologica”, Baku ha prima bloccato e poi istituito un proprio posto di blocco sulla strada tra Goris e Stepanakert, la capitale della regione separatista a popolazione armena dell’Azerbaigian riconosciuta a livello internazionale. Questo blocco ha portato 120.000 armeni della regione a soffrire la fame e la penuria.
Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri Paesi occidentali, in particolare la Francia, stanno cercando di livellare qualsiasi accordo raggiunto con la partecipazione della Russia. Da qui i numerosi giri di consultazioni con il Segretario di Stato americano Antony Blinken, il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel e altri. Ciò non esclude il recente formato di negoziazione un po’ oscurato tra Grigoryan, l’assistente del presidente dell’Azerbaigian Hikmet Hajiyev e il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan.
Non c’è dubbio che Grigoryan partecipi attivamente alla lobby che mira sia al siluramento della Dichiarazione congiunta del 10 novembre 2020 sia all’uscita dell’Armenia dalla CSTO, come ha ammesso lui stesso in un’intervista rilasciata a Novaya Gazeta a maggio. In questo momento, l’Azerbaigian si sta preparando alla guerra mobilitando truppe ed equipaggiamenti ai confini del Nagorno-Karabakh, eppure questo è il momento in cui il governo di Nikol Pashinyan al potere a Yerevan sta cercando di rivedere completamente l’architettura di sicurezza dell’Armenia.
Si tratta di una mossa ad alto rischio, considerando che l’esito del prossimo conflitto militare è molto chiaro: una grave sconfitta militare per l’Armenia, che sarà quindi costretta a umiliazioni e perdite territoriali ancora maggiori, con la prospettiva di una perdita definitiva di sovranità de facto. Questa opzione è più probabile con la completa rottura delle relazioni dell’Armenia con la Russia, che Pashinyan e Grigoryan stanno portando avanti. L’onere maggiore di questa tragedia ricade su Gigoryan, poiché egli, a differenza di Pashinyan, è un armeno karabakhi.
Circa un mese fa Grigoryan ha annunciato progressi nelle relazioni tra Armenia e Stati Uniti nella sfera economica, ma ha lamentato che “la cooperazione tra Erevan e Washington in senso politico-militare non è ancora allo stadio di essere discussa”. Tuttavia, l’11 settembre, circa 175 truppe armene e 85 statunitensi inizieranno delle esercitazioni incentrate su operazioni di mantenimento della pace.
In una conferenza stampa successiva al vertice del G20, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha commentato le prossime esercitazioni militari: “Naturalmente non vediamo nulla di buono nel fatto che un paese aggressivo della NATO stia cercando di penetrare in Transcaucasia. Non credo che questo sia positivo per nessuno, compresa la stessa Armenia”.
Secondo il capo del Ministero degli Esteri russo, “ovunque gli americani appaiano (hanno centinaia di basi in tutto il mondo), da nessuna parte questo porta a qualcosa di buono. Nel migliore dei casi, siedono lì con calma, ma molto spesso cercano di adattare tutto a se stessi, compresi i processi politici”.
I canali mediatici pro-Pashinyan sono sovraccarichi di inviti da parte di esperti di parte a minimizzare qualsiasi legame con la Russia. Spesso promuovono la favola di rimuovere le basi militari russe in Armenia e sostituirle con quelle americane, mentre sostengono lo sviluppo di legami militari con l’Iran, nonostante la Repubblica islamica sia un nemico giurato degli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, rifiutando di dispiegare una missione di monitoraggio della CSTO al confine con l’Azerbaigian a favore di osservatori europei, Pashinyan e Grigoryan stanno riducendo al minimo qualsiasi contatto significativo con Mosca. L’attuale élite al potere in Armenia considera gli Stati Uniti e i loro alleati come benefattori affidabili, ritenendo che il loro servizio dedicato garantirà la loro prosperità personale ed economica, assicurando al contempo il Paese dalla minaccia azera.
In questo contesto, Grigoryan è quasi l’incarnazione del collaborazionismo filo-occidentale e del tradimento nazionale.
La tendenza degli armeni a credere a voci ridicole e a teorie di cospirazione offre un terreno fertile per varie manipolazioni. Ma a prescindere dalle istruzioni che Grigoryan ha ricevuto dai suoi supervisori occidentali, l’ulteriore rafforzamento della sua posizione in Armenia non porta nulla di buono al popolo della Repubblica e crea maggiori rischi per esso.

http://infobrics.org/post/39323/

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I BRICS stanno percorrendo una strada lunga e tortuosa verso un mondo multipolare, di ALEX WANG

I BRICS stanno percorrendo una strada lunga e tortuosa verso un mondo multipolare

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Il vertice in Sudafrica (22-24 agosto) ha presentato la nuova tabella di marcia dei BRICS per lo sviluppo. Un’analisi di un gruppo che vuole avere voce in capitolo negli affari mondiali.

L’articolo originale è stato pubblicato in inglese su India Foundation Journal, September – October 2023, pp. 32-36.

La nascita dei BRICS era inevitabile, anche se la nascita del suo nome è aneddotica. Il raggruppamento rappresenta un progresso fondamentale verso un mondo più imparziale e multipolare, grazie all’emancipazione dal sistema egemonico. La sua forza e il suo fascino crescenti sono sempre più evidenti. Per questo gli occhi del mondo erano puntati sul suo 15° vertice, tenutosi in Sudafrica dal 22 al 24 agosto. Crediamo che dovremmo concentrare la nostra attenzione più sul piano d’azione a lungo termine che sul vertice stesso, che è solo un momento della sua attuazione.

I membri dei BRICS hanno deciso di accogliere nel gruppo Arabia Saudita, Iran, Etiopia, Egitto, Argentina ed Emirati Arabi Uniti. Inoltre, la porta rimane aperta: decine di altri Paesi potrebbero entrare nel blocco in un secondo momento.1 Questo allargamento rappresenta un importante passo avanti nello sviluppo dei BRICS, ma anche nella trasformazione del mondo.

Nascita e sviluppo
Raggruppando sotto l’acronimo BRICS i quattro Paesi con i più alti tassi di crescita – Brasile, Russia, India e Cina, e successivamente il Sudafrica – i banchieri di Goldman Sachs non si sono resi conto che stavano dando un’identità a un cambiamento tettonico su scala globale in ambito economico e finanziario e anche oltre.

Questo movimento riflette un’esigenza fondamentale di sviluppo dei Paesi del Sud globale: la ricerca e la creazione di un sistema mondiale più equo ed equilibrato per il maggior numero di Paesi. Nei suoi 15 anni di esistenza, questa alleanza informale è già riuscita a reggersi sulle proprie gambe e ad acquisire maggiore consistenza e legittimità. Rivoluzionerà e ristrutturerà il mondo. In occasione del loro vertice, i BRICS hanno sostenuto e lanciato la loro nuova tabella di marcia, di fronte a una platea di oltre 60 Paesi partecipanti provenienti da tutto il mondo.

Perché i BRICS si sforzano di creare un sistema alternativo a quello in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale? È vero che quest’ultimo, che ha dimostrato la sua validità, ha fornito un quadro stabile per il mondo intero per decenni, e che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno unito le forze per la ripresa da una massiccia distruzione.2 Ma questo sistema, sotto il controllo americano, è tutt’altro che equo ed equilibrato nei confronti dei Paesi dell’Est e del Sud del pianeta. Gli aiuti vengono concessi a condizione che vengano attuati i cambiamenti imposti, senza tenere conto della realtà del Paese, e l’importo concesso è soggetto a tassi elevati in linea con la logica del programma di aggiustamento strutturale. Ciò ha creato più problemi che soluzioni, ad esempio nel caso dei Paesi asiatici dopo la crisi finanziaria del 1997-1998.

Un’architettura alternativa è più che necessaria, perché il G7 non può rappresentare e non riflette il mondo in termini di criteri politici, economici e demografici. Il gruppo BRICS rappresenta attualmente oltre il 40% della popolazione mondiale e oltre il 26% dell’economia globale, e costituisce un forum alternativo per i Paesi al di fuori delle piattaforme dominate dalle tradizionali potenze occidentali. Con l’arrivo di nuovi membri, la sua influenza e il suo peso economico incoraggeranno altri Paesi ad aderire.

Risultati incoraggianti, ma alcune lacune ancora da colmare
In termini di strategia, i BRICS stanno seguendo un duplice approccio: pur cercando di riformare il più possibile il sistema esistente, in particolare la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, stanno adottando misure per creare e far funzionare un nuovo sistema finanziario, oltre a rafforzare l’autonomia delle valute nazionali e a preparare la creazione di una moneta comune.

In termini di metodi di lavoro, all’interno del gruppo viene praticata una filosofia step-by-step, in particolare per i progetti strategici.

In questo mondo reale, i BRICS non stanno a guardare e non si perdono in vuota retorica. Si sforzano di aiutare i Paesi dell’Est e del Sud in particolare nei casi concreti in cui è urgente e possibile intervenire. I BRICS hanno creato la Banca BRICS, la Nuova Banca di Sviluppo (NDB), incoraggiato l’uso di valute locali e istituito il Contingent Reserve Arrangement (CRA).

La NDB è uno strumento utile per aiutare i Paesi in difficoltà finanziando progetti a tassi accettabili, come il passaggio agli autobus elettrici (Brasile), le centrali idroelettriche (Russia) e l’approvvigionamento idrico (India), ecc.

Incoraggiare l’uso delle valute nazionali per le transazioni riduce la dipendenza dal dollaro USA.

Il Contingent Reserve Arrangement (CRA) dei BRICS, creato nel 2015, è un quadro di riferimento per fornire sostegno attraverso strumenti di liquidità e precauzione in risposta a pressioni effettive o potenziali sulla bilancia dei pagamenti a breve termine. Con il CRA, i BRICS vengono in aiuto dei Paesi che si trovano ad affrontare difficoltà di pagamento a breve termine.

Grazie alla buona volontà e agli sforzi dei suoi membri, i BRICS sono gradualmente diventati una piattaforma di cooperazione efficace e operativa. Oltre a questi benefici tangibili, i BRICS hanno dato più voce ai loro membri e al Sud globale, strutturando una nuova narrativa geostrategica e facendo sperare nell’arrivo di un nuovo ordine mondiale.

Allo stesso tempo, i BRICS devono porre rimedio ad alcune carenze se vogliono avanzare più rapidamente e più solidamente.

I BRICS non esistono ancora come organizzazione formale, ma esistono come vertice annuale tra i leader supremi di cinque nazioni. La presidenza del forum ruota ogni anno tra i membri. Si tratta di una piattaforma di cooperazione. Le circostanze giocano un ruolo importante. I membri hanno un rapporto abbastanza rilassato. Nonostante gli interessi comuni, hanno interessi nazionali divergenti determinati dalla geografia, dalla storia, dalla cultura e dalla strategia. Articolare questi interessi richiede molto lavoro e formalismo.

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Les BRICS, de l’économie vers la construction d’un monde multipolaire

Le principali sfide
Alcuni progetti devono essere avviati o portati avanti con maggior vigore e rapidità.

Processo di estensione

Dato il crescente numero di candidati che desiderano aderire formalmente o informalmente (più di 40 secondo il Sudafrica3), è diventato urgente concordare i dettagli delle condizioni e del processo di adesione, sia per i candidati ufficiali che per i candidati osservatori, che dovrebbero aspettare prima di entrare nei BRICS. L’India si sta muovendo verso un processo di controllo più severo, mentre la Cina sembra spingere per una maggiore apertura. L’idea del “BRICS +”, avanzata da Yaroslav Lissovolik, merita di essere rivista4 .

Dobbiamo evitare di espandere il gruppo troppo rapidamente prima che tutti abbiano un’idea chiara di ciò che vogliono. L’esperienza dell’Unione Europea è un caso di studio interessante a questo proposito. C’è stata una convergenza sul primo gruppo di nuovi membri. Altri Paesi candidati dovrebbero diventare Paesi partner entro il prossimo vertice organizzato dalla Russia. Questa aggiunta rende i BRICS anche un forum per alcuni dei maggiori produttori ed esportatori di combustibili fossili del mondo.

Creazione della moneta BRICS

È in corso un dibattito sulla necessità di una moneta comune dei BRICS basata sull’oro.

Questa nuova moneta comune ridurrebbe notevolmente la dipendenza degli attuali e futuri Paesi membri dei BRICS dal dollaro e garantirebbe autonomia, stabilità finanziaria e protezione da eventuali sanzioni e turbolenze legate ai cicli economici statunitensi. Una volta concordata, è destinata a minare l’egemonia esistente e a spianare la strada all’avvento del nuovo ordine mondiale.

Per un tema di tale importanza e complessità, è necessario perseguire il processo di convergenza tra i Paesi BRICS, in particolare tra Cina e India, per consentire e sviluppare ulteriormente l’uso delle valute nazionali. In particolare, per quanto riguarda l’internazionalizzazione del Rupiah, l’India sta adottando un approccio cauto all’iniziativa, temendo che tale mossa introduca complessità e incertezze inaspettate nelle sue consolidate relazioni commerciali con i partner5. Nel suo discorso al vertice, Vladimir Putin ha parlato a lungo del processo “irreversibile” di de-dollarizzazione, sottolineando la crescente dipendenza dalle valute nazionali per gli scambi commerciali tra i membri dei BRICS e la diminuzione del ruolo della valuta statunitense.

Tra gli altri temi all’ordine del giorno, le discussioni sulla geopolitica, lo sviluppo del commercio e le infrastrutture. Putin ha descritto gli sforzi della Russia per sviluppare la Northern Sea Route (lungo la costa siberiana) e il corridoio Nord-Sud tra l’Oceano Indiano e il Mar Baltico.

Convergenze e divergenze tra i membri
I membri dei BRICS hanno tutti un interesse comune: vogliono stabilire un ordine mondiale alternativo, diverso da quello a guida americana. Allo stesso tempo, possono avere analisi e posizioni divergenti su una serie di questioni, ad esempio nel caso di India e Cina.

Questi due grandi Paesi sono vicini con un’importante frontiera comune. Anche se in passato ci sono stati conflitti, condividono un interesse comune nella ricerca dell’autonomia e dello sviluppo del Sud globale. Ciò non impedisce loro di avere atteggiamenti e posizioni divergenti su alcuni temi, come l’estensione e la creazione di una moneta comune.

Come tutti gli altri membri dei BRICS, l’India si è resa conto che i Paesi occidentali (Stati Uniti, Europa, Giappone, ecc.) sono in relativo declino. Allo stesso tempo, l’India si rende conto che questi Paesi rimangono attori importanti e potenti, con enormi risorse in termini di capitale, tecnologia e mercati. È fondamentale che l’India continui a cooperare con loro, pur perseguendo la sua partnership con la Cina. Non si tratta di allinearsi con qualcun altro: l’India decide in base ai propri interessi. L’India ha il diritto di allinearsi a se stessa.6 Questo è perfettamente comprensibile.

Anche per quanto riguarda l’espansione dei BRICS, Cina e India hanno atteggiamenti diversi. La prima è propensa ad andare più veloce, mentre la seconda sostiene un approccio più cauto.

La creazione di una moneta BRICS è oggetto di intense discussioni tra i due partner. La Cina è pronta a fare il grande passo, mentre l’India vede questa prospettiva in modo diverso, come spiega S. Jaishankar, ministro indiano dell’Economia e delle Finanze. Jaishankar, Ministro degli Affari Esteri indiano.7 La creazione di una valuta è un processo lungo che avrà un impatto notevole sulle economie dei Paesi interessati e stravolgerà l’economia mondiale. Alcune precauzioni e preparativi sono semplicemente di buon senso.

In attesa di una piena convergenza, si potrebbe prendere in considerazione l’idea di una sorta di zona valutaria BRICS sul modello della zona euro.

Sono questi i semi di una separazione? Assolutamente no. Questo tipo di discussione è salutare in una struttura di tale portata e dimensione. Finché l’area di divergenza non supera quella di convergenza, rimane una questione interna, gestibile all’interno dei BRICS.

Pericolo di una guerra ibrida contro i BRICS?
Non tutti vogliono vedere la creazione e lo sviluppo di un ordine mondiale alternativo incarnato dall’iniziativa dei BRICS. I BRICS sono l’obiettivo di tentativi di guerra ibrida che mirano a rallentarli o addirittura a fermarli.8 Naturalmente, non è il caso di agitarsi per nulla, ma allo stesso tempo sono necessarie consapevolezza e contromisure.

L’evoluzione verso un nuovo ordine mondiale non è uno sprint, ma una vera e propria maratona.9 Il Vertice ha offerto l’opportunità di un intenso lavoro tra i membri al più alto livello e ha contribuito a perfezionare la tabella di marcia che porterà a una nuova fase nello sviluppo dei BRICS.

Come molti avevano previsto, non ci sono stati annunci sensazionali e dirompenti all’altezza delle aspettative dei media sull’introduzione della moneta BRICS. La convergenza è un processo lento e complesso. D’altro canto, è stato fatto un passo avanti in termini di aumento del numero di membri.

Una cosa è certa: anche se la strada è lunga e tortuosa, i BRICS, come movimento potente e irresistibile, continueranno a svilupparsi, spazzando via tutti gli ostacoli, nonostante la lentezza e le turbolenze che li attendono lungo il cammino. Un nuovo mondo è possibile.

Allo stesso tempo, non si può escludere la possibilità di un dialogo tra i BRICS e il G7 nel medio e lungo termine. Forse un giorno troveranno il modo di lavorare insieme in una struttura multipolare senza precedenti, iniziando con l’accettazione di uno o due membri del G7 come osservatori al vertice dei BRICS, per poi coinvolgerli in una più stretta cooperazione tra queste due strutture nel quadro del G20.

  1. Reuters, August 24th.

  2. Michel Camdessus, La scène de ce drame est le monde, treize ans à la tête du FMI, Les Arènes, 2014.

  3. Plus de 40 pays veulent rejoindre le groupe des BRICS, selon l’Afrique du Sud, TRT AFRIKA, 21 juillet 2023.

  4. Yaroslav D. Lissovolik, BRICS-Plus: the New Force in Global Governance, RIAC, Moscow, Russia.

  5. Balinder Singh and Dr. Jagmeet Bawa, Reshaping Global Dynamics: BRICS Summit 2023 And Emergence Of New Geopolitical Era – Analysis, August 15, 2023.

  6. S. Jaishankar, The India Way: Strategies for an uncertain world, HarperCollins, 2020.

  7. Balinder Singh and Dr. Jagmeet Bawa, Reshaping Global Dynamics: BRICS Summit 2023 And Emergence Of New Geopolitical Era – Analysis, August 15, 2023.

  8. Pepe Escobar, The Hegemon Will Go Full Hybrid War Against BRICS+, June 10, 2023.

  9. Ray Dalio : Principles for dealing with the changing world order, Simon & Schuster, 2021.

https://www.revueconflits.com/determines-les-brics-sont-sur-une-route-longue-et-sinueuse-vers-un-monde-multipolaire1/

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LA CONOSCENZA MIT-DISCIPLINARE, il SOTTOSTANTE ed altro _ di Pierluigi Fagan

LA CONOSCENZA MIT-DISCIPLINARE. MIT qui sta non per il noto istituto tecno-scientifico americano, ma per Multidisciplinare-Interdisciplinare-Transdisciplinare. La forma della conoscenza MIT-disciplinare è una necessaria evoluzione della forma della nostra conoscenza.
Da quando abbiamo fonti scritte sufficienti, quindi più o meno da soli duemilatrecento anni e solo per alcune selezionate aree del mondo (Occidente, India, Cina), rileviamo gli sforzi conoscitivi umani in senso allargato e precisato. Al tempo dei Greci, la prima rivoluzione fu quella del logos, l’approccio logico-razionale che sfidava il precedente dominio dello spirito mitico-religioso-superstizioso. La conoscenza è ancora un tutto, diviso al suo interno ma indiviso nel suo intero. Lo testimoniano l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico in cui c’erano studiosi che pur condividendo una filosofia comune, seguivano poi linee di ricerca specifiche, dalla aritmo-geometria alla fisica, dalla politica alla grammatica/retorica. La forma “scuola” risaliva a Pitagora e Parmenide ed era condivisa dagli atomisti, poi dagli stoici e dagli epicurei a modo loro anche dai cinici e megarici, infine pure dagli scettici e zetetici. Il tutto culmina in ambiente alessandrino.
Coi Romani, si eclissa il ruolo collante dell’impostazione filosofica comune e si sviluppano saperi pratici, giuridici, ingegneristici, storici. Dopodiché c’è una presa di potere epistemico della religione cristiana che sormonta l’ordinatore filosofico e lo sottomette nel cortile logico mentre a valle si aprono le scuole del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia) ma anche i saperi artigiani e le prime università.
Nel Rinascimento c’è un ritorno della filosofia (e della forma “scuola”) anche in seguito ad alcuni fallimenti concreti della conoscenza religiosa nel secolo che seguì la Peste Nera. Qui si manifesta uno spirito diverso, “olistico”, da “hòlos” ovvero “totale-globale” che ha in Pico della Mirandola il suo profeta.
Ma essendo epoca di transizioni, accanto a questo movimento, si sviluppano i saperi pratici del mondo. Dall’artigianato esplorativo olandese viene fuori il cannocchiale, Galileo incuriosito se ne fabbrica uno suo (con prime nozioni di ottica) e lo puntò su Giove. Copernico aveva già proposto una rivoluzione del punto di vista ponendo il Sole al centro con tutto il resto attorno, cosa per altro proposta già da alcuni Greci, ma a volte le idee non sono importanti solo in sé ma per la posizione che occupano nel contesto.
Da qui inizia un doppio corso della conoscenza. Una linea sviluppa di nuovo la filosofia generale e sempre più diramata nel particolare, che dialoga con la religione con sorti alterne. Dall’altra inizia il percorso delle scienze moderne. Nel XIX secolo accade un terremoto, alcuni sguardi che erano ancora pensati in filosofia (antropologia, cosmologia, psicologia razionali) si emancipano e si fondano come “scienze” propriamente dette. Compare la geologia e la moderna geografia, l’economia si emancipa dalla filosofia morale e si mette in proprio, la grande espansione coloniale porta l’antropologia a contatto con nuovi modi e nuovi mondi concreti. La “società” diventa un ente che merita un suo studio e così la sociologia. La chimica si emancipa dall’alchimia e la biologia prende ramificazioni sempre più complesse. Lingua e linguaggio abbandonano la culla della logica e si mettono in proprio anch’esse. Il movimento all’arborizzazione dei saperi continua lungo tutto il XX secolo, mentre nascono ulteriori sguardi, tra cui l’ecologia e le scienze cognitive mentre lo sviluppo tecnico, dopo il big bang del secolo precedente, arriva a livelli di inimmaginabile potenza e precisione accompagnato da linguaggi e logiche geometrico-matematiche sempre più sofisticate.
Qui, va segnalato lo sconcerto filosofico. Aggrediti da una forma filosofica detta “positivismo” che poi arriva ad occuparsi anche di conoscenza con il “positivismo logico” da cui promanano i presupposti della successiva “svolta linguistica” e l’intero approccio della filosofia anglosassone analitica, i filosofi sembrano perdere ogni oggetto. Ogni oggetto, ogni fenomeno sembra correre verso un suo proprio pensiero.
Ne rimangono smarriti e risentiti. Si creerà una frattura che crescerà sempre più tra gli umanisti che disdegnano il potere epistemico scientifico e quest’ultimo che si autonomina paradigma primo retrocedendo la filosofia e musica per musicisti senza armonia. E dire che sul frontone dell’Accademia platonica, leggenda vuole ci fosse scritto “Non entri chi non è geometra” e del resto l’aritmosofia pitagorica era la base delle famose “dottrine segrete” di Platone, eredità ben conosciuta dall’ultimo “mago”: Newton.
Arriviamo così all’oggi. Oggi i saperi sono esplosi in un albero ormai ampio almeno quanto le sue radici, con saperi, saperi di saperi, specializzazioni che tendono a sapere tutto di niente mentre, sempre più, si sa niente del tutto. Ognuno ha la sua lingua, le sue pratiche, i suoi metodi, la sua gelosa specificità e la presunzione -come le monadi leibniziane- di poter osservare l’universo dalla propria regionalizzata e temporizzata specificità. In effetti, questo corso è parallelo a quello sociale-produttivo della fabbrica, ne riflette la forma.
Due enti, nel frattempo, hanno avuto il loro pari sviluppo di complessità. L’uomo che dal “bipede implume” dei platonici sfottuti dai filosofi delle altre scuole che andavano e gettare polli spennati al di là del muro di cinta della loro comunità di studio e pensiero, ha oggi descrizioni in: fisica, chimica, biologia, scienze cognitive, psicologia, antropologia, sociologia, linguistica, scienze politiche e giuridiche, economia, storia ed ovviamente filosofia, più qualche disciplina intermedia. Ogni studioso di campo, che è finito in una facoltà a volte per puro caso, si è formato a lungo, è diventato un esperto e coltiva il suo sguardo pensando che questo spieghi tutto ed il suo contrario. Oggi poi ogni sguardo disciplinare ha al suo interno svariate teorie per cui lo studioso non pensa solo che con quello sguardo può spiegare tutto ma in particolare con la sua versione teorica. L’altro ente esploso è il mondo la cui complessità è diventata ingovernabile per il pensiero aggiungendovi le forme di conoscenza e pensiero aliene, quelle asiatiche per esempio.
Eccoci qui allora a segnalare il bisogno di una nuova evoluzione della forma della conoscenza umana. Non si tratta, per una volta, di dire questo è meglio di quello, ma di cucire tutti i questi e tutti i quelli, o almeno tendere a…, per affiancare a questo albero sempre più ramificato di particolari, nuove visioni generali composte dal portato delle particolari più la riflessione generale su tutto questo nuovo intero. Una sorta di dialettico ritorno all’olismo, ovvero ritornare all’aspirazione naturale ed umana al sapere qualcosa del tutto o di enti molto complessi, ma con il portato dello sviluppo di tutti i saperi più specifici che nacquero in risposta alle vaghezze quasi sempre a destinazione mistica dell’olismo rinascimentale.
Questo è il sapere complesso, formato dai tanti sguardi specialistici, interrelazioni concettuali tra questi, osservazione dei punti ciechi e parziali che la divisione disciplinare ha creato, messa a dinamica nel contesto storico-sociale, pensando il tutto con le facoltà logico-razionali riflessive e parimenti pensando a come lo pensiamo.
Ne vengono così gli approcci transdisciplinari che cioè attraversano più discipline. Ad esempio, la nozione di “sistema” lavora in fisica, chimica, biologia, scienze cognitive, psicologia, antropologia (in cui per complesse vicende epistemiche lo rinominano “struttura”), linguistica, sociologia, economia, giurisprudenza, scienze politiche, storie e naturalmente filosofia. Cosa ci dice questa applicazione di una forma a priori dello sguardo in così tanti campi, che utilità mostra, che ricchezza esplicativa ha portato, come si fa a mettere assieme tutta questa varietà in una sintesi utile poi per ogni studioso specifico di campo che usa il concetto?
Gli approcci interdisciplinari convergono due o tre discipline sullo stesso oggetto a fenomeno. In biologia è la norma, ma ne nasce anche la geopolitica (geoeconomia), la sociobiologia, l’antropologia economica e molto altro. Si tratta poi di stabilire il metodo, i linguaggi e le logiche comuni di questi approcci che mutuano forme contigue ma diverse.
Infine, il modo multidisciplinare vale soprattutto per gli enti generali e più complessi, l’uomo ed il mondo più di ogni altro. Si tratta “semplicemente” di metterli in osservazione da tutti i punti di vista che pensano di aver qualcosa di utile da dire su quegli oggetti o fenomeni. Questa è, in grande e grossolana sintesi, l’evoluzione MIT-disciplinare, affiancare agli studiosi specifici, studiosi generalisti e farli dialogare per rimettere assieme lo specchio infranto delle nostre immagini di mondo.
Naturalmente questo è solo un post, non mi sfugge il riflesso socio-politico che oppone attrito a tutto questo “facile a dirsi”, solo che lo spazio è già da me abusato. Se ne riparlerà.
Da questo punto di vista si osserva il vociare scomposto degli scientifici contro gli umanistici e viceversa, con scoramento. Si osserva l’ignoranza spesso assai presuntuosa di ogni specializzato o seguace di teorie regionali che ambisce a dire cose significative ed ultime sui campi più vasti, con triste perplessità. Si osserva la patologica proliferazione dicotomica, ad esempio, tra fare e pensare, tra particolare e generale, tra contemporaneo e storico, tra razionale ed emotivo e così via, scuotendo il capo sempre più affranti. Si vede l’eterno ritorno del dogmatismo che è sintomo della fase troppo disordinata del pensiero e la sua pronta antitesi ovvero l’impeto scettico e zetetico, cose viste e riviste nella storia del pensiero ma che ogni volta accadono senza che noi se ne abbia memoria e se ne colga la sintomatologia, il problema sottostante. Tuttavia, proprio dalla conoscenza della storia del pensiero, si sa che è proprio da queste fasi di crisi profonda e necessaria che nasce la fase rifondativa successiva.
Al culmine della modernità abbiamo cambiato radicalmente il mondo, ora si tratta di capire come adattarci a questo nuovo contesto. Impossibile farlo senza considerare le società sistemi complessi, che hanno interrelazioni vitali con altri sistemi complessi, tutti immersi in un contesto o ambiente che perturbiamo, avendo a che fare con qualcosa di radicalmente nuovo sorto in brevissimo tempo e che ci dà pochissimo tempo per trovare la soluzione adattativa.
Occorre rivedere le basi logiche ed aggiornare l’antica dicotomia tra intero e parti, facendo pace col fatto che ogni intero è fatto di parti ed ogni parte dipende da un intero fatti di parti che a sua volta è parte di altri interi nel tutto diveniente. Questo è l’oggetto “mondo”, la sua immagine dovrebbe rifletterne la complessità, altrimenti l’adattamento sarà fallito e le conseguenze saranno assai problematiche, come da più parti e per più motivi stiamo vedendo.
IL SOTTOSTANTE (post di eco-geo-teologia). L’immagine di mondo è il complesso sia del come funziona una mente, sia di ciò che produce, sia di ciò che crede vero o utile. Dell’idm esistono versioni individuali (ognuno ne ha una), di un certo periodo storico, di una certa classe sociale (anche se il concetto di “classe” si è assai complicato da quando veniva usato da Marx), di un certo sesso o genere, di una certa età, di una certa etnia-nazione-civiltà, di vari orientamenti ideologici. Oggetto massimamente complesso, poco indagato, ai più sconosciuto.
Il fatto sia sconosciuto porta spesso a molto tempo buttato nel dibattito pubblico. È praticamente inutile discutere con qualcuno che ha una idm molto diversa dalla nostra, bisognerebbe discutere l’idm non i suoi portati. Discutere i portati è come litigare parlando due lingue diverse e reciprocamente incomprensibili, si capisce che stiamo litigando ma non si capisce su cosa.
Vorrei indicare un sottostante che presto diventerà protagonista delle tempeste polemiche su questo ed altri social.
Il 4 ottobre, papa Francesco (per correttezza voglio specificare che chi scrive non ha credenze religiose) rilascerà la seconda puntata della sua enciclica Laudato sì (2015), nelle intenzioni non una enciclica ma una esortazione. A sue parole: “E’ necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche sforzandosi di porre fine alla insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile” pronunciate nel viaggio di ritorno di quello che pare esser il suo ultimo viaggio apostolico, in Mongolia. Sebbene si chiami Francesco ed il 4 ottobre sia la festa di San Francesco, Bergoglio è gesuita.
Nel XVII secolo, i Gesuiti fecero enormi sforzi coordinati per portare il cristianesimo in Cina. Esemplificativo del movimento, fu Matteo Ricci. I gesuiti prima vissero in Cina per un po’ per capire meglio come funzionava da quelle parti. Conosciuto l’ambiente, cominciarono a tessere le loro reti per cercar di arrivare alla corte imperiale. Capivano che lì bisognava andare alla testa per produrre qualche effetto, ma capivano anche che quella testa era molto complessa ed ereditava credenze secolari difficili da cambiare oltretutto in un auspicato movimento di auto-riforma. Contavano su un set di conoscenze tecno-scientifiche che promettevano di condividere in modo da invogliare ad accettarli a corte, in pratica cercavano di sedurre la casta dei funzionari confuciani stante che il sapere e la conoscenza era centrale nell’idm confuciana.
Nel far ciò si trovarono nel difficile problema della traduzione concettuale e rituale ovvero come rendere compatibili i sistemi di immagine di mondo e rito di celebrazione della sua condivisione, tra confucianesimo e cristianesimo. L’idm confuciana ha al vertice il Cielo che è un concetto di ordine-armonia naturale. L’imperatore -ad esempio- ha o non ha il “mandato celeste” ovvero agisce in armonia all’ordine naturale o meno. Dire che l’imperatore ha perso il “mandato celeste” è metafora del fatto che non va bene, sta deragliando, è fuori il novero dell’armonia naturale. Delle nostre élite contemporanee, potremmo ben dire che hanno perso il mandato celeste anche se per ora vediamo solo la triste collezione degli effetti e non ancora una auspicata loro sostituzione.
I gesuiti pensarono (la faccio facile quindi riduco parecchio la storia) che questo era un buon punto di partenza, il cielo era la casa di Dio, certo tra cielo e Cielo cambia non solo la maiuscola ma il concetto, tuttavia ci si poteva lavorare. Forse però sottovalutarono il problema dei Riti, centrale nella tradizione confuciana. Per mantenere l’obiettivo grosso (la Cina già ai tempi era demograficamente ben più popolosa dell’intera Europa e centrale nell’Asia), si mostrarono molto accomodanti con il problema dei riti che erano immodificabili per i confuciani.
Nella Chiesa, l’ordine gesuita ha un suo concorrente totale, totale significa irriducibile, cani e gatti, juventini ed interisti, progressisti e conservatori, i simmetrici contrari. Questo altro specchiato sono i domenicani. Impegnati in Asia, i gesuiti trascurarono le faide vaticane a cui invece si dedicarono attivamente i domenicani. Così, dal 1704, iniziò la resa dei conti che vide domenicani e francescani prevalere sull’elasticità gesuita, fino a che nel 1742, Benedetto XIV mise la parola fine condannando ogni sincretismo. Qualcuno forse si ricorderà l’omelia di Benedetto XVI la notte in cui stava morendo Giovanni Paolo II in cui chiarì il programma teologico del suo futuro papato puntato prioritariamente contro il “relativismo ed il sincretismo”. “Sincretismo” è quando tenti di mischiare ed amalgamare due cose che c’azzeccano poco una con l’altra. Come si noterà nomi papali e temi ideologici sono collegati ed hanno longeve tradizioni ideologiche. Diventati per ordine papale rigidi sulla faccenda dei nomi e dei Riti, i sacerdoti cristiani vennero espulsi dalla Cina, il progetto gesuita era fallito.
Non è quindi un caso che non potendo andare in Cina, Francesco sia andato almeno in Mongolia lanciando messaggi di pace ed amore verso i cinesi (sono anni ed anni che si lavora per un viaggio del papa in Cina, invano), l’ultimo viaggio, l’ultima missione, l’ultimo onore a Matteo Ricci ed al sogno di portare Cristo e Pechino.
Questa è metà della storia, l’altra metà è l’impegno del papa per la giustizia sociale ed ambientale, da cui sorgerà l’esortazione a sua volta fondata sull’enciclica. Penso sarà il suo ultimo atto significativo per cui prepariamoci per le complesse procedure per avere un nuovo papa, Francesco ha più volte fatto capire che non gliela fa più e da quando Benedetto ha sdoganato le dimissioni papali (atto invero rivoluzionario per un papa ritenuto ultraconservatore, ma Benedetto è anche filosofo e coi filosofi le cose non sono mai semplici), il papa può rimettere il suo mandato celeste. Ratzinger ci ha lasciati l’anno scorso e quindi il ruolo di ex-papa è libero, non si potevano avere due ex-papi quindi Bergoglio ha resistito, ma a fatica.
Visto che andremo prima o poi a nuovo papa, aspettiamoci la guerra dei mondi vaticana ovvero le grandi manovre per spingere un po’ di qui ed un po’ di là, il Conclave. Conclave che Francesco ha riempito di suoi eletti, per pilotare la successione, un po’ come fanno i presidenti americani con le nomine dei giudici della Corte Suprema (analogia stiracchiata ma di qualche utilità per capire le dinamiche dei poteri nelle loro istituzioni).
Grande battaglia sarà svolta con i commenti all’esortazione, soprattutto per quanto riguarda la sensibilità eco-ambientale mostrata in Laudato sì. Tanto per render chiaro il sottostante, il prode Franco Prodi che molti ammirano per le sue sfuriate contro l’ingiustificato allarmismo climatico, è tendente domenicano. Il più anziano dei Prodi, Giovanni, fondò il gruppo Scienza, Fede e Società oggi condotto da padre Sergio Parenti, domenicano, come si evince dal filmato che allego nel primo commento. Secondo questo punto di vista, è impossibile e forse anche un po’ blasfemo pensare che l’uomo possa davvero alterare il clima e l’atmosfera, un ardire prometeico ed al contempo un’ombra su Dio stesso che avrebbe creato una creatura in grado di rovinare la Sua creazione. Un Dio che fa tali errori è un po’ un orrore secondo questa linea deduttiva. Come per altro il simpatico e folkloristico Zichichi, la sciiiiensa, deve dimostrare l’infondatezza di questa assunzione checché ne dicano quelli dell’IPCC ed altri creatori ingiustificati di panico a fini di profitto. Altresì, i gesuiti pensano all’opposto che proprio perché la creazione è di Dio e quindi sacra oltreché vitale, l’uomo deve darsi una regolata se non vuol bruciare prima che nelle fiamme dell’Inferno, in quelle dell’effetto serra e visto che ci siamo, della guerra mondiale a pezzi.
Da dopo il 4.10, quindi, preparatevi alla pioggia di post che ignari del tutto del sottostante confronto tra immagini di mondo tra due longevi ed influenti ordini religiosi cristiani in lotta per l’egemonia della dottrina, inonderanno il social allietandoci per una settimana e passa quando poi verrà fuori un altro Vannacci, Giambruno o un colpo di stato ad Andorra che non è Africa ma come coi virus, quando iniziano i contagi si sa come si va a finire.
Fra un mese potrete sfoggiare le vostre conoscenze sul sottostante teologico tra ordini cattolici facendo un figurone che vi eleverà dalla suburra delle opinioni combattenti.
INIZIARE LE PRATICHE DI DIVORZIO OCCIDENTALE. Abbiamo da una parte società complesse e dall’altra un mondo sempre più complesso a cui queste debbono adattarsi.
Il mondo non è in uno stato omogeneo quindi non possiamo usare il concetto di società complesse come un universale, dobbiamo socio-storicamente determinarle. Altresì, la complessità del mondo è invece un universale, vale per tutti anche se con aspetti e declinazioni diverse.
La determinazione socio-storica che qui ci è propria è inquadrare le società complesse della sfera occidentale. Ma, a sua volta, la sfera occidentale non è un omogeno. Gli interi Stati Uniti hanno pari popolazione ai 20 Paesi dell’euro e per Pil assoluto, UE (27 Paesi) è solo l’80% del Pil americano, UEM (20 Paesi) è solo il 70% del Pil americano.
UE ed Unione europea monetaria sono aggregazioni non sovrane quindi sono imparametrabili, al di là della dimensione (imparametriabile), con una entità sovrana come gli US. Non sono sovrane nel senso che non hanno unità giuridica e politica oltreché fiscale ed economica interna ad una unica sovranità.
Sono profondamente differenti in storia e geografia, gli US, addirittura, sono su un altro continente e la loro superficie totale, quindi l’insieme delle proprie risorse naturali, è il doppio di quello dell’Unione che è comunque una collezione di 27 diversi soggetti.
Sistematicamente, le aziende, il complesso di ricerca, il sistema militare, quello commerciale oltreché industriale, ancora di più quello banco-finanziario americani, hanno molta più massa di ogni pari comparabile europeo vista la diversa demografia. Gli statunitensi sono tra l’altro autonomi energeticamente, gli europei no.
Con il 4,2% della popolazione mondiale, gli americani fanno il 25% del Pil globale mentre con il 5,6% della popolazione mondiale, l’Unione (che è un aggregato statistico) fa solo il 20%, sono quindi e di nuovo condizioni imaparametrabili.
Ne consegue che il problema adattativo per gli americani, per quanto siano “occidentali”, è ben diverso da quello europeo, ammesso esista un soggetto definibile Europa cosa che non è in tutta evidenza.
Onto-politicamente (quindi giuridicamente e militarmente i due fondamentali della sovranità), gli Stati Uniti sono un soggetto, l’Europa è tra una collezione statistica ed una debole e parziale confederazione di soggetti autonomi ed i due comparati, come detto, sono ampiamente difformi e reciprocamente disomogenei, oltre a trovarsi in condizioni di contesto del tutto differenti. Se su taluni aspetti parziali del problema adattativo, questi due diversi mondi possono trovare comune intesa e finalità particolari, sul problema adattativo nel suo complesso non può usarsi la categoria “occidentali” poiché contiene oggetti troppo eterogenei sotto più punti di vista fondamentali.
Non abbiamo ancora invocato altre variabili quali la religione, il pluripartitismo e spesso meccaniche elettive proporzionali, il welfare state, la geografia che vede l’Europa essere una propaggine del continente euroasiatico dirimpetta il continente africano ed il non avere due immensi oceani che la isolano e la difendono dal resto del mondo, la pluralità etno-linguistica, la demografia anagrafica e l’indice di riproduzione, la metafisica. Alcuni, per altro, potrebbero ritenere questo parziale ultimo elenco di tratti soft, anche più decisivi in descrizione di quelli hard prima esposti, tuttavia rimaniamo nelle scansioni logiche quantitative dominanti.
“Occidente” è una categoria parziale e vaga che rischia di dare un senso di unità a qualcosa che non ce l’ha e non può avercela nel profondo. Non ce l’ha a livello descrittivo e non può avercela a livello prescrittivo. Europa è in tutt’altro contesto, ha tutt’altri problemi, ha tutt’altra potenza per poterli affrontare, ha tutt’altra mentalità. Oltre a non essere a sua volta un soggetto ma una categoria in cui infiliamo a forza poco meno di trenta soggetti altamente disomogenei tra loro.
Poiché ogni problema adattativo presuppone un soggetto con una per quanto complessa identità, facoltà e potenza relativa che è colui che deve adattarsi, ne consegue che il principale problema della nostra fase storica ovvero l’adattamento ad un mondo di 8 miliardi di persone che usano i metodi dell’economia moderna per cercare di vivere il più a lungo ed al meglio possibile nel contenitore planetario finito, va affrontato ognun per le proprie condizioni. Ne consegue, in via prioritaria poiché ontologica, che riguarda le fondazioni di ciò che si è, la necessità di prevedere una separazione degli occidenti. Separarsi non è esser contro, è passare da una inesistente comunione ad una possibile e variabile cooperazione o meno.
Chi non segue questo imperativo, presceglie una posizione subordinata del minore (collezione europea) al maggiore e quindi si troverà in condizioni adattative ancora peggiori che non quelle in cui si troverebbe data la sua per altro assai problematica composizione, si troverà cioè strutturalmente in condizione di dipendenza.
La sfida adattiva ha contorni terribili per quantità e qualità delle problematiche, dei cambiamenti, della gestione e dei tempi coinvolti e presupposti, giocarla senza aver capito che l’Occidente è una costruzione fallace e disfunzionale, è condannarsi a fallirla prima ancora di giocarla.
COMPLESSISSIMI NODI. Simpatica intervista a Cacciari che ci illustra temi di dibattito intellettuale italico in quel di Mestre, su cosa ne sarà della globalizzazione in un mondo globalizzato. A me Cacciari sta pure simpatico, quindi nulla di personale, dimentichiamoci il riferimento, seguiamo gli argomenti o meglio le opinioni sugli argomenti. Gli argomenti trattati esistono a prescindere il come e da chi verranno discussi in quel convivio.
C. ha gioco facile a segnalare che il sogno americano del mondo piatto con loro al centro non teneva conto dell’eterogeneità del mondo stesso e della multidimensionalità politico-culturale, ma se è per questo anche economica e finanziaria. Ma fu questo a muovere la prima globalizzazione, quella iniziata col WTO-1994? Questo è quello che hanno raccontato, ma questo “racconto” veniva prima o dopo i fatti? Nel senso, era una strategia pensata o una narrazione posta a dar veste razionale a spinte incoerenti e di breve respiro? Credo che il vero problema di questa storia non stia nel fatto che il racconto s’è rivelato basato su un calcolo sbagliato, ma che è stato steso sopra i fatti “dopo” o “durante” non prima. Non era una vera strategia, in Occidente non si fanno strategie serie da decenni e per l’ottimo motivo che si incontrano difficoltà letteralmente “insormontabili”, si “compra tempo” come ebbe felicemente a notare W. Streeck.
Forse non è ai più chiaro che siamo davvero in un mare di guai sotto diversi aspetti che riguardano potenti e complesse dinamiche storiche, epocali, inedite in senso assoluto. La critica è facile, a seconda di quanto siamo colti sarà più o meno ficcante e precisa, ma il problema sono le soluzioni, non ci sono soluzioni che non implichino fatti che fanno tremare le vene dei polsi, comunque la si pensi in ideologia.
Il personaggio che qui più che filosofo fa il critico letterario cioè tratta narrazioni, passa poi all’UE che -mannaggia- non ha saputo saltare al gradino superiore di unione politica rimanendo in un limbo di vaga struttura economico-monetaria-normativa. Io non so se davvero chi fa questi discorsi crede a quello che dice, sarebbe allarmante. Sono letteralmente anni, più di un decennio che quando sento questi discorsi trasecolo “ma ci fanno o ci sono?”. Non sto dicendo che sono contro o a favore di Europa A o B o C, sto dicendo che sono anni o un decennio che quando sento questa storia dell’unificazione politica dell’Europa rimango allibito come se qualcuno si lamentasse seriamente del fatto che gli asini non volano. Ma c’è qualcuno che davvero dopo l’enunciazione del titolo “Uniamo l’Europa!” ha mai fatto non dico un chilometro, ma almeno qualche metro avanti nella proiezione dell’enunciato? Come? Perché? Con chi? Quando?
Immaginate un parlamento della zona euro, la Germania avrebbe in proporzionale il 25% del parlamento, anche si portasse appresso i voti di Austria, Finlandia, Paesi Bassi ed i tre baltici, arriverebbero scarsi al 35%. Secondo quale razionale questi popoli con loro tradizioni e cultura dovrebbero esser felici di unificarsi col restante 65% che ha tutt’altre tradizioni, culture, modi di intendere l’economia, i valori immateriali e quelli materiali?
Alla prima seduta del parlamento democratico (si spera che questi sognatori dell’Europa Unita vogliano immaginarsela se non davvero democratica quantomeno demo-rappresentativa), il primo ordine del giorno sarebbe la riforma della moneta e l’emissione di debito comune ed i nordici stabilirebbero il primato continentale dei cento metri scappando inorriditi. Da qui, una sfilza interminabile di questioni divisive assolutamente non componibili, sotto nessun aspetto o invocazione di buona volontà. Neanche l’idealista più sfrenato potrebbe davvero prender sul serio una cosa del genere, a meno non sia psicotico. Qui si tratta di avere o non avere in testa minime nozioni di: storia, geografia, demografia, sociologia, economia, finanza, analisi approfondita delle strutture, delle istituzioni e delle culture di tre decine di paesi che vanno dai 400.000 maltesi (fieri di esserlo) agli 80 milioni di tedeschi, cattolici, protestanti, atei, con trenta e più lingue e tradizioni millenarie o secolari divergenti tra cui sistemi giuridici, di educazione, militari, sanitari etc.. Ma di cosa stiamo parlando? Di letteratura e di critica letteraria, appunto.
E di contro, pensate andrebbe meglio riconquistando la piena sovranità (“piena”, si fa per dire, provate gentilmente ad andare a dire a gli americani che dopo la Via della Seta, volete uscire anche dalla NATO) di un paese che perderà altri 5 milioni di abitanti nei prossimi trenta anni? Un paese dipendente strutturalmente ed inevitabilmente su molti aspetti, di 55 milioni di persone con un terzo di anziani, in un mare agitato con americani (330 mio), russi (150 mio ma con 5000 testate nucleari), cinesi, indiani (1,4 mld cad.), arabi e nel 2050, 2,5 miliardi di giovani africani davanti casa?
E la guerra in Ucraina? Come se ne esce? Non come se ne esce, come ci siamo entrati!? È mai possibile che nessuno si domandi come diavolo è possibile che trenta e passa paesi con centri strategici, servizi, think tank, ministeri degli esteri, dell’economia e del commercio, non abbiamo minimamente osservato quale immane casino si stava creando al bordo ucro-russo da almeno sette anni prima che la guerra scoppiasse? È mai possibile che nessuno abbia chiesto il perché di questo immane fallimento predittivo ai propri governi? Ma qualcuno pensa davvero che USA, Russia, Cina, India ma anche molti altri come i sauditi che fanno piani strategici a trenta anni, campino così? Ah oggi, guarda un po’, è scoppiato un conflitto al confine ucro-russo, strano, sarà quel pazzo di Putin che s’è svegliato male, che dici mandiamo un cannone, ma no io sono pacifista. Ma davvero c’è qualcuno che pensa normale pensare che il mondo funzioni così?
E la Cina? Be’ lì c’è il “pazzesco casus belli di Taiwan” dice il nostro. Ma quale diavolo “casus belli”? I cinesi, parecchio tempo fa, avevano annunciato che Taiwan sarebbe tornata in amministrazione cinese entro il 2049. Dopo che l’anno detto nulla è successo, chi mai si occupa di cose così vaghe e lontane nel tempo? Non gliene è fregato niente a nessuno. Ma dopo un bel po’, un secondo dopo l’inizio del conflitto ucro-russo, gli americani hanno cominciato a starnazzare isterici che i cinesi stavano pensando di invadere Taiwan. Prove? Nessuna, non potevano esserci perché era tutto palesemente inventato. Lo stanno creando loro il casus belli, con due anni di continue provocazioni. Queste non sono opinioni, sono fatti, non c’è alcun fatto alternativo che dimostri che i cinesi avrebbero voluto e potuto invadere Taiwan anche perché non sono così dissennati da pensar di fare una cosa del genere, né oggi, né domani. Taiwan al massimo si manipola per qualche decennio fin quando risulterà “naturale” il suo ritorno al limite con vari caveat di statuto più o meno speciale come Hong Kong o Macao. Per i cinesi, ne va della loro reputazione in Asia e nel mondo, prima che preoccuparsi delle nostre paturnie.
Qui il punto è sempre lo stesso, di cosa stiamo parlando di letteratura o realtà? Perché passi l’amore per il genere fantapolitica o fantageopolitica, ma qui il punto, l’urgenza, è che ci stiamo perdendo il mondo, siamo su un binario morto, andiamo a schiantarci e se non parliamo di realtà, finiremo spiaccicati tutti contro spessi muri di fatti duri.
E così arriviamo all’ultima domanda che cita i “complessissimi nodi” di cui il forum discuterà. Ma da questi presupposti i fatti sono esclusi, sono tutti e solo raccontini, desideri, immaginazioni, sarebbe bello che, oh ma guarda come il mondo si sta incasinando eh? Ma a me piacerebbe così e tu? Ah, a me invece anche un po’ così! Eh sì magari hai ragione, dove andiamo a cenare dopo?
Più che discutere il disordine globale, urge discutere il nostro disordine mentale.
Ripeto, non si tratta di un problema Cacciari a cui anzi va riconosciuta almeno una sensibilità politica non banale (almeno in politica interna) e senz’altro un pensiero altrimenti corposo e ben formato (avercene!), è che questo è lo standard intellettuale contemporaneo, a livello europeo direi, non solo italiano. Questo è il modo ed il livello in cui discutiamo di noi, del mondo e della terribile fase storica. L’Europa tutta rifugge la realtà perché troppo complesse le questioni da leggere ed ancor più stretti e radicali i nodi se non da sciogliere almeno da ridurre. E tutti con popolazioni sideralmente lontane dalla corretta percezione dei pericoli che sempre più corriamo e correremo. Vale per il mainstream ma ahinoi anche per molto pensiero critico, vale per gli intellettuali come per la gente comune, passando per politici e giornalisti. Tutti questi strati sono strati di una stessa cosa, non s’è mai visto che al declino di una civiltà ci fosse uno strato (esclusi i visionari individuali che comunque, da soli, possono sì e no andare verso qualche intuizione grezza) che sa quello che gli altri non sanno, vede quello che gli altri non vedono, siamo tutti embedded gli uni con gli altri, siamo tutti nello stesso sistema.
La realtà ci è aliena, siamo tutti seguaci di Calderon de la Barca (La vida es sueño 1635) e siamo in una barca che è “come nave in tempesta” in cui si sogna altri mari, altri tempi, altri futuri o più spesso, passati.
Segue dibattito… (su dove andiamo a cena, s’intende)
[Grazie a G. Passalacqua per lo screenshot, lo posto solo per corredo non è poi così interessante leggerlo davvero]

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Q & A WITH JACQUES SAPIR – WESTERN ELITES AND REALITY

italiaeilmondo.com began putting these four questions to Aurélien[1], and continues to put them, in the same way, to various Italian and foreign friends, analysts and researchers.

Today it’s Jacques Sapir’s[2] turn to answer, and we’d like to thank him sincerely for his kindness and generosity.

Q & A WITH JACQUES SAPIR – WESTERN ELITES AND REALITY

1) What are the main reasons for the serious errors of judgment made by Western political-military decision makers in the war in Ukraine?

These errors are of various kinds. First, there are errors of a ‘technical’ nature linked to a misunderstanding of the data, or of the nature of the data. For example, the oft-repeated assertion that Russia’s GDP was more or less equal to that of Italy or Spain stemmed from a lack of understanding – common among politicians and journalists alike – of statistics and how to use them. When you compare two economies, it’s important to use GDP calculated in Purchasing Power Parity (PPP) terms, because other methods are highly biased. This has led to an underestimation of Russia’s GDP (which is actually higher than Germany’s today) and therefore to a major error of judgement about Russia’s ability to cope with both the war and Western sanctions. Similarly, “technical” errors were also made regarding the capacity of Russian industry to produce large numbers of weapons and munitions. These errors are based on a lack of knowledge of Russia or on the fact that decision-makers (and journalists) have not listened to those with a real knowledge of Russia. This first level of error stems from a desire not to know, whether it concerns the subject (the war in Ukraine, Russia, Ukraine, etc.) or the way in which the data is collected. This is therefore an important error, because it reveals a form of intellectual ‘laziness’ on the part of decision-makers, a ‘laziness’ that can have many causes (from genuine laziness to forms of cognitive capacity saturation, particularly in the case of information presented in ‘technical’ forms).

 

Then we have errors that stem from the ideological filter that is present in the behaviour of all actors and decision-makers. This is an important point. No one can completely extricate themselves from their own ideological representations. To believe that we can arrive at a non-ideologised representation is a mistake (and an impossibility from the point of view of cognitive analysis). But you can know that your own representations are potentially biased, and listen to (or consult) other representations that carry a different ideology. Not that these ‘other representations’ are necessarily more ‘correct’ than one’s own. Nevertheless, the confrontation between different representations can be a warning signal as to the validity and operational relevance of one’s own representations.

The diplomatic and political discourse of the Russians since the early 2000s (since the Kosovo crisis) should have been listened to. After all, this discourse has varied remarkably little over time and shows strong discursive continuities. This does not, of course, imply that it is totally accurate, but it does suggest that it is based on real facts, on “docks of stability”, the representation of which does not change, and which should therefore be taken into account.

Proceeding in this way would undoubtedly have given a more accurate idea of the intentions of the Russian leaders and of the points which, for them, constituted “red lines”, the crossing of which would necessarily imply a large-scale response. If this was not done, the reasons may also be varied. It may be that Western decision-makers have locked themselves into a debate that is far too closed to representations other than their own. There are a number of reasons for this, including the way in which decision-makers do not accept ideological pluralism among their advisers, the pre-eminence of ideological representations which are no longer “debatable”, and finally, a “communication culture” which leads decision-makers to become increasingly dependent on “communicators” who themselves come from closed circles, favouring ideological conformity (both in training and in professional practice). The profound endogamy that exists in many countries between the world of political decision-makers and the world of journalists has exacerbated this phenomenon.

The fundamental causes of these errors can be summed up as a lack of curiosity, but also as a closed institutional system. What is interesting here is that in February-March 2022, this type of dysfunction was attributed to the Russian leaders, without Western decision-makers questioning the possibility that they themselves were victims of the same type of malfunction.

Finally, a third type of error can be attributed to a political and psychological resistance to considering that the world had profoundly changed between the 1990s and 2022. At the end of the 1990s, the dominance of the United States was accepted and, overall, Western countries exercised a form of supremacy, whether political, economic or military. But the world has changed profoundly in the last twenty years.

International economic relations have been marked by the emergence of China, which has supplanted the United States from an industrial and commercial point of view, but also by the global emergence of Asia, which has gradually supplanted Europe. At the same time, areas that were thought to be permanently sidelined by the United States and Europe, such as Latin America and the Middle East, and to a lesser extent Africa, have begun to emancipate themselves. The BRICS summit in Johannesburg at the end of August 2023 was a striking illustration of this.

This change is fundamental, because it brings to an end a period of domination over the world exercised by what can be called the “North Atlantic” zone that has lasted at least since the beginning of the 19th century. For Western decision-makers, it presents a twofold challenge: political (how to think about one’s country’s place in the international balance of power) and psychological (how to think about oneself when moving from a position of centrality to one of peripherality). Overall, however, decision-makers in Western countries were poorly prepared for this dual challenge. In some cases, they were relatively young people with limited experience. In other cases, the conditions of their training, whether this training is understood in the university sense of the term or in the political sense, had not prepared them to face a challenge of this importance. Faced, then, with major changes that are far beyond their control and which create situations of cognitive dissonance, these decision-makers opt either for strategies of denial (these changes do not exist, or are only temporary…) or for the reproduction of past behaviour. Thus, at best, they are prepared to engage in a “Cold War 2.0”, reproducing the behaviour of their predecessors from 1948 to 1952, but in a situation that is now radically different.

The causes of the mistakes made by “Western” leaders are probably as numerous as the mistakes themselves. They all add up to a major crisis of decision-making.

 

2) Are they errors of a ruling class or are they errors of an entire culture?

These errors are, of course, primarily the errors of the ruling class. But their scale, their diversity and their systematic nature are indeed striking. A modern Hamlet would no doubt exclaim: “something is rotten in Western countries“.

After that, there are many problems. The first is the tendency of the ruling elites to self-replicate. This is not entirely new. The ruling classes have always tended to operate in a vacuum. But from the 1950s to the 1990s, they became more open to the entry of people with no prior ties to these classes. Since the 2000s, they have tended to close in on themselves and, naturally, to produce a specific culture. This is true in France, the UK and Germany, but probably less so in the Scandinavian countries. We can now speak of a culture (or more precisely a sub-culture) of the elite that is largely distinct from the culture (or sub-cultures) of the working classes in terms of representations and behaviour, but not necessarily in terms of relationships with institutions.

This ‘elite’ subculture has certainly been one of the foundations of the mistakes made, in that it is characterised by a self-satisfied arrogance, by a contempt for anything that is not expressed in its own particular language, by a difficulty or even an impossibility of standing back and questioning its ‘values’, and finally by a fairly systematic form of hypocrisy. This elite subculture has facilitated the reproduction and perpetuation of the structures that we have mentioned and that have been at the root of these errors, such as the belief in simplified discourse, the absence of any criticism of one’s own representations (supposed to be “the best”), and forms of intellectual routine that have not prepared these ruling elites for the challenges of the period. From this point of view, it is not wrong to speak of the many errors committed by the Western ruling classes as being both practically and intellectually bankrupt.

But does this mean that ‘popular’ subcultures have been entirely preserved from the faults and defects of the elite subculture? Here, it would undoubtedly be necessary to specify the diagnosis country by country. If we take the case of the United States, American exceptionalism, its lack of interest in anything external, has undoubtedly played an important role in the non-contestation of certain statements of the elite subculture, and this has facilitated for a time the harmful work of neo-conservative circles in the ruling classes.

For European countries, on the other hand, this is much more difficult to demonstrate. Indeed, the need to maintain fairly crude propaganda about Ukraine in the mainstream media clearly shows that popular subcultures have remained relatively resistant to the discourse of the ruling classes. Here again, we need to refine our findings. The image of the “evil Russian” or the presence of a threatening “Russian imperialism” is certainly more present in the populations of Northern European countries, or certain former Warsaw Pact countries. It should be noted, however, that part of the Hungarian ruling class has a rather different discourse, which can be described as “realistic” (in the sense that this term has in international politics), and that this discourse seems largely in tune with the ideas conveyed among the population. The same thing seems to be happening in Austria. In France, Germany and Italy, despite the diversity of cultures, we can nevertheless observe a certain resistance of popular subcultures to the elite subculture. France is a case in point. Popular subculture has been profoundly affected by the American Holywood representation machine. Thus, the vision of the Soviet (and therefore Russian) contribution, which was extremely positive at the end of the forties and in the fifties and sixties, was gradually reversed. Nevertheless, the French popular subculture is not spontaneously convinced by the stereotypes of the “evil Russian” or the “Russian aggressor”. Various opinion polls show that there is still a “pro-Russian” base in the population. They also show that, spontaneously, the working classes have a more realistic, if necessarily sketchy, view of current geopolitical developments.

 

This inability of the elite subculture to fully influence and shape the popular subcultures is reflected today in the fact that the intermediate strata between the top of the ruling classes and the popular classes, those we might call the ‘petty-bourgeoisie culture’, have become a strategic target in the ‘cultural war’ being waged by the ruling classes. These classes, knowing that the “cultural petty-bourgeoisie” is particularly dependent on the media (whether traditional print or broadcast media or social networks), have undertaken a ferocious struggle to exclude from these media any opinion that is divergent on these points. But the sheer ferocity of this fight has led to the traditional press being discredited. The “cultural petty-bourgeoisie” now tends to seek information, and therefore representations, increasingly on social networks. Hence a shift in the struggle. The ruling classes are now seeking to muzzle these social networks, to legitimise the introduction of indirect or direct forms of censorship.

 

3) The war in Ukraine manifests a crisis of the West. Is it reversible? If so, how? If not, why?

It is indeed clear that the war in Ukraine manifests a crisis in the “collective West”, as the Russians call it. This “collective West” is proving incapable of allowing Ukraine to “win” and, beyond that, incapable of halting the transformations of a world that is increasingly beyond its control.

This process seems irreversible. We do not know whether Russia will have a “small” victory (maintaining the gains made since 2014) or a “big” victory (extending the gains and satisfying its main demands). But there seems to be little doubt about a Russian “victory”. More generally, it is hard to see how the “collective West” could return to the position it was in in 2010, or even before. So the real question is not whether these developments are reversible, but whether the “collective West” will continue to lose ground, economically, politically, militarily and, of course, culturally, or whether it will be able to stabilise its position over the next five to ten years.

To stabilise its position, the “collective West” needs to do two things: stabilise its economic situation and put a stop to the process of de-industrialisation that it has been undergoing for nearly forty years now, and change its attitude towards the rest of the world, to show that it is aware of its loss of hegemony and that it is, at last, ready to discuss things on an equal footing, without always wanting to set itself up as a teacher. But these two objectives will raise contradictions within the “collective West” itself.

On the subject of de-industrialisation, there is an internal conflict between the United States and the countries of the European Union. The United States is convinced that its own re-industrialisation must take place at the expense of Europe, in other words that it must cannibalise European industry. It is in the process of doing so, having forced the countries of the European Union to imitate it in a near-break-up with Russia over energy issues. Access to the low-cost energy Russia was selling was of particular importance to the economic and industrial development of the European Union. This is a zero-sum game between the United States and the EU. However, the current US strategy is contradictory to the economic stabilisation of the “collective West”. Whatever the US may gain from this strategy will be more than offset by the losses in Europe. True, the United States will become the undisputed leader of the “Western camp”, but the latter will continue to weaken and the United States will be the master of a group that will continue to decline and lose economic importance. Note that this strategy is the opposite of that pursued by the United States from 1948 to 1960, at the start of the “first” Cold War. At that time, the United States agreed to cede part of its growth to Western Europe, which was in the process of reconstruction. If we look at the two “major” crises of Cold War 1.0, the Korean War and the Cuban Missile Crisis, the “Western world”, as it was called at the time, was much stronger in 1962 than it was in 1950. The current American strategy therefore contradicts the objective of long-term economic stabilisation of the “collective West”.

 

On the second point, the problem is more ideological. Agreeing to treat the rest of the world as equals, and to stop constantly trying to teach lessons, means coming to terms with our former hegemony, but also with vulgar universalism. As far as the former hegemony is concerned, everyone will understand. As for what I call vulgar universalism, and this may come as a surprise from someone who claims to be a universalist, it concerns the belief, which I consider to be false, that there is only one way to achieve the universals enshrined in the Rights of Man (and therefore Woman’s) and Citizen, development for all, or more rational management of resources leading to carbon neutrality. The reality is that there are several different approaches, several possible trajectories, that can lead to these results. We cannot draw from the historical experience of our particular trajectories the conclusion that these are the only possible trajectories. We must therefore let other nations, other peoples, experiment, discover through historical processes of trial and error, which trajectories are appropriate to their cultures. True universalism is a universalism of objectives, not of trajectories. We can only demand respect for our own culture by respecting the culture of others, even if we may consider, and sometimes rightly so, that it is oppressive, backward and sometimes absolutely cruel. We must remember that all attempts to bring about progress and advance towards the universals set out above, by means of cannon, bombs or napalm, have been bloody failures and have actually caused societies to regress.

We can, however, measure what the simple objective of stabilising the position of the “collective West”, which is the only realistic objective, implies in terms of cultural and political revolution in the ruling elites. This is why I believe that this objective will not be achieved and that, as a “bloc”, this “collective West” no longer has a future.

 

4) China and Russia, the two emerging powers challenging U.S. and Western unipolar domination, have since the collapse of communism reconnected with their pre-modern cultural traditions: Confucianism for China, Orthodox Christianity for Russia. Why? Can the backward, literally “reactionary” return take root in a modern industrial society?

The return of China and Russia to their “traditional values” is more a part of the current discourse than a reality. In reality, Soviet and Chinese communism remained steeped in these “values”. The rhetoric of the Bolshevik and Chinese communist leaders should not be taken at face value when they claim to have made a radical break with their past. In these two revolutions, the elements of continuity are at least as important as the elements of rupture. Stalinist society remained largely within the framework of Orthodox values, even when the church was persecuted: reverence for a discourse conceived as a religion, the role of portraits of leaders in the image of ancient icons, social puritanism, etc, etc. Bolshevism was the form that modernising ideology adopted in Russia. This explains why a large part of the technical intelligentsia rallied to the new regime in 1918-1920. Similarly, the essence of Confucianism was always present in People’s China, even when Confucianism was officially opposed (the short-lived “Pi Lin, Pi Kong” campaign).

The end of the “Soviet” framework in Russia, and the gradual evolution of the system in People’s China, have led to a gradual rehabilitation of the classic forms of these “traditional values”. But these countries still look back on their recent past with some sympathy, whether it be the role of Stalin in Russia or that of Mao in China. In fact, it is more accurate to speak of evolutions in the synthesis between traditional values and the particular form taken by modernity for these countries than to speak of a return to ancient cultural traditions. The Chinese and Russian populations have evolved profoundly over the last century, in their relationship with children, in the role of women, in the balance between collective and individual values, and they will continue to evolve. But this evolution will not be (and has not been) an imitation of Western societies. It is the ideal example of what I have called different trajectories but a search for a common ultimate goal.

 

 

 

 

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/western-elites-and-reality-q-a-with-aurelien_edited-by-roberto-buffagni/

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Jacques_Sapir

 

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