NOTTE FONDA, MA SOLO IN OCCIDENTE_di FF
I disastri sanitari della gestione della pandemia in Italia
Davide Gionco
08.04.2021
Dopo 14 mesi di pandemia del covid-19, cerchiamo di fare il punto della situazione sanitaria in Italia. Non dal punto di vista di un medico professionista, ma dal punto di vista di un cittadino che cerca di informarsi e di ragionare su quello che vede.
La prima constatazione è che, pur avendo l’ISTAT registrato un aumento del tasso di mortalità del 15% rispetto agli anni precedenti, l’aumento sarebbe probabilmente passato inosservato, se non ci fosse stato l’amplificatore dei mass media.
Se questo virus fosse arrivano 30 anni fa, nessuno si sarebbe accorto di nulla, in quanto ci sono sempre state delle oscillazioni statistiche sul numero annuale di morti. Chi viene a sapere della morte di una persona cara a motivo di malattia non ha la percezione dell’incremento statistico complessivo del numero di decessi in un intero paese. Se non ci avessero detto nulla, avremmo continuato a vivere normalmente.
Se il coronavirus fosse arrivato 30 anni fa sarebbe stato trattato come una influenza “più virulenta” fra quelle che ciclicamente. La febbre asiatica degli anni ’50 fece molti più danni del covid-19, per intenderci, perché colpì soprattutto i bambini, segnandoli per tutta la vita. Una mia zia, colpita dall’asiatica quando aveva 4 anni, rimase colpita al cervello è rimasta debilitata mentalmente, causando 44 anni di progressivo decadimento fisico e di crescente disabilità, fino alla morte.
La situazione ci è stata presentata come “senza precedenti” dai mass media, i quali l’hanno da subito presentata come una malattia pericolosa e incurabile, tale da giustificare i ripetuti lockdown, con gravissimi danni all’economia e impedendo a molta gente di analizzare in modo ragionevole la situazione.
E’ una delle famose tecniche di manipolazione delle masse: “Crea il problema ed offri l'(unica) soluzione”.
Non ci hanno mai detto che avremmo probabilmente evitato i 3/4 dei morti se:
1) Se avessimo avuto il piano pandemico nazionale aggiornato. Il piano pandemico esistente risaliva addirittura al 2006. E nel 2016 Matteo Renzi aveva fatto chiudere il CNESPS, istituto specializzato nella individuazione tempestiva delle epidemie. Un’azione tempestiva del CNEPS avrebbe probabilmente consentito di confinare l’epidemia fin dagli inizi, evitando che si diffondesse in tutta Europa.
2) Se avessimo avuto come dirigenti presso il Ministero della Sanità (da Roberto Speranza in giù) e presso le aziende sanitarie pubbliche territoriali delle persone assunte per le loro competenze e capacità e non i soliti “amici dei politici”.
3) Se non avessimo tagliato decine di miliardi sulla spesa sanitaria, riducendo i posti letto per le cure, il personale, i macchinari, la formazione.
4) Se non avessimo trasformato i medici di famiglia in passacarte per indirizzare i pazienti verso le strutture specialistiche, mentre una volta erano responsabili delle prime cure domiciliari in caso di malattia.
5) Se non avessimo imposto da qualche decennio il numero chiuso nelle facoltà di medicina e limitato le assunzioni di infermieri, riducendo il numero di personale sanitario disponibile per le cure. Per formare un medico servono 10-15 anni di studi. Non è cosa che si può improvvisare quando arriva una pandemia. Ci si deve pensare per tempo, almeno 10-15 anni prima. Ovvero: abbiamo bisogno permanentemente di più medici e di più infermieri.
6) Se in questi mesi avessimo assunto più personale sanitario, ora dovremmo temere molto meno l’afflusso di persone nelle terapie intensive. E ci sarebbero risorse per curare adeguatamente le persone colpite da altre patologie. E non si trovi la scusa della mancanza di soldi, dato che per il 2020 e il 2021 la UE ha concesso di sforare i limiti al deficit pubblico, per cui per avere soldi basta chiederli alla BCE.
7) Se, dopo oltre un anno dall’arrivo della pandemia, avessimo aggiornato i protocolli di cura domiciliare per le persone con sintomi da covid-19, sulla base delle esperienze di molti medici. Come ad esempio quelli del Movimento Ippocrate, che hanno sviluppato dei protocolli di cura basate sul trattamento precoce della malattia. Purtroppo, dopo oltre un anno di esperienze, i protocolli di cura sono sempre gli stessi, basati sull’attesa dello sviluppo dei sintomi e sui tamponi. Sono i protocolli che hanno portato decine di migliaia di persone nelle terapie intensive ed alla morte. Sbagliare è umano, quando la malattia non è conosciuta, ma perseverare…
8) Se in televisione avessero spiegato ogni giorno, anziché martellare inutilmente la gente con i soliti bollettini di guerra, che il covid-19 si combatte prima di tutto con la prevenzione, fatta di costante assunzione di vitamina C e D, disponibili per tutti a costi molto accessibili, e fatta di permanenza il più possibile all’aria aperta ed al sole (anziché tenere la gente chiusa in casa).
9) Se in televisione ci avessero spiegato la differenza fra le mascherine FFP2 e le mascherine chirurgiche.
Le mascherine FFP2 sono di tipo passivo ovvero “filtrano” l’aria che respiriamo, riducendo del 95% la quantità di agenti patogeni che ci colpiscono tramite la respirazione. Sono mascherine che ci proteggono dal contagio. Ideali per le categorie a rischio di morte per covid (anziani, malati di altre patologie), per ridurre il rischio che vengano contagiati.
Le mascherine chirurgiche, invece, riducono del 95% la quantità di agenti patogeni che emettiamo verso l’ambiente tramite la nostra espirazione. Sono mascherine che riducono la contagiosità verso gli altri delle persone infettate. Ideali per le categorie non a rischio di morte per covid (probabilmente almeno l’80% della popolazione), per ridurre la diffusione della malattia.
Tutto questo non è mai stato spiegato, per cui abbiamo dotato gli anziani di mascherine chirurgiche che non li proteggono dal contagio ed abbiamo dotato molti giovani sani di mascherine FFP2, che non hanno impedito il diffondersi della malattia.
10) Se avessimo spiegato per evitare i contagi per contatto con superfici infettate è opportuno disinfettarsi le mani non solo all’entrata dei supermercati, ma soprattutto all’uscita, per non portarsi dietro i virus raccolti toccando le superfici infettate da altri. Eppure continuiamo a trovare il gel disinfettante solo all’ingresso e non all’uscita dei punti vendita e dei mezzi di trasporto.
11) Se avessimo (dopo un anno) raddoppiato il numero dei mezzi pubblici di trasporto, magari assumendo gli autisti licenziati dei servizi turistici, si sarebbe dimezzato l’indice di affollamento dei mezzi di trasporto pubblico, riducendo i rischi di contagio. Ma non è stato fatto,
Si potrebbe continuare con l’elenco…
La responsabilità di tutto questo, con le decine di migliaia di morti che ne sono seguiti, non è della fatalità, né del popolo italiano. La responsabilità è della classe dirigente che ha governato e che governa tutt’ora il nostro Paese. Persone che, per incompetenza o mala fede, hanno preso le decisioni sbagliate, senza preoccuparsi delle conseguenze e senza farsene carico. Il risultato è stato un tasso per mortalità per covid-19 fra i più elevati d’Europa.
Nel contempo i mezzi di informazione, altrettanto asserviti alla classe di potere, anziché svolgere un corretto servizio di informazione e di controllo critico sul disastroso operato della classe dirigente, hanno dedicato gli ultimi 14 mesi di informazione unicamente a colpevolizzare gli italiani come unici responsabili di quanto accaduto.
Misure di limitazione delle libertà personali prive di fondamento costituzionale e medico-scientifico, come il divieto di uscire di casa fra le 22 e le 5 del mattino o di varcare il pericoloso confine fra una regione e l’altra sono state costantemente sostenute come “normali” dai mezzi di informazione. Questo mentre paesi “normali” e guidati da politici più seri, come la vicina Svizzera, hanno giustamente vietato unicamente gli assembramenti fra persone estranee e non gli spostamenti. Il contagio, infatti, non avviene quando le persone si spostano, ma solo quando si avvicinano fra loro.
Ci hanno trattati da bambini, come se fossimo un popolo di pecore.
Per quale motivo fra le soluzioni molteplici prospettate non ce n’è nessuna di quelle sopra elencate, ma si propone come una via di uscita possibile la vaccinazione di 60 milioni di italiani, fra i quali almeno 50 milioni di persone sane, che non correrebbero alcun rischio ad essere contagiate dal virus, se curate per temo.
Non era mai storicamente accaduto che venissero isolati i sani per proteggere i malati.
Non era mai storicamente accaduto che si vaccinasse una intera popolazione somministrando dei prodotti sperimentali di ingegneria genetica (quelli di Pfizer & c. non hanno nulla a che vedere con i vaccini tradizionali). Sperimentali, perché non c’è stato il tempo di testarli.
Non era mai accaduto che si sottoponesse una intera popolazione sana ai rischi della vaccinazione, con una malattia avente un tasso di mortalità molto basso fra le persone non a rischio.
(Fonte: Dati ISS)
Non era mai accaduto che si volesse imporre agli operatori sanitari (e in futuro forse a tutta la popolazione) di assumere un vaccino che non riduce in alcun modo i rischi di contagio verso altri. Gli attuali vaccini garantiscono (probabilmente) un decorso sostenibile della malattia, ma non evitano la trasmissione verso terzi nel caso si sia contagiati.
Ricordiamoci di tutto questo, la prossima volta che andremo a votare.
E, nel frattempo, chiediamoci il perché di tutto questo.
NB_apparso anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/04/08/i-disastri-sanitari-della-gestione-della-pandemia-in-italia/
L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI
A seguito delle manifestazioni contro le chiusure del Covid, per la sopravvivenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, siamo tornati a intervistare il nostro Machiavelli che ci ha ricevuto con la consueta gentilezza.
Caro Segretario, che ne pensa delle manifestazioni contro le restrizioni?
Che è poco crederle dovute (solo) alla pandemia e che nuocciano alla libertà: gli è che i tumulti fanno bene alle repubbliche, almeno a quelle ben ordinate, come era Roma, sicché ho scritto “coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano”.
Ma i manifestanti hanno fatto dei danni, rimosso le transenne, resistito alla polizia.
E con ciò? A Roma facevano anche di peggio ed hanno comunque conquistato il mondo, mantenendo la loro libertà: “i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi”.
Ma li accusano di essere degli incompetenti e di far politica con la pancia e non con il cuore. Di essere fuorviati da demagoghi e da fake news.
E per tutelare la verità, vogliono impedirne la diffusione! Come dicono a Vinegia “pezo el tacon del buso” E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ci s’ingannano. Gli è che non essendo i vostri vecchi governanti degni di fede, non potendo convincerle con le loro parole cercano d’impedire agli altri di parlare. Sanno bene che il popolo non chiede loro neppure l’ora, perché s’aspetta che cerchino anche in ciò di truffarlo.
E come biasimare il popolo: negli ultimi trent’anni è stato il più impoverito d’Europa e forse del pianeta. Dove stavano i vostri governanti? Su Marte o al potere?
Ma i governanti avevano fatto i piani per la ricostruzione, per la next-generation, per una nuova ripartenza.
E sono gli stessi – o i loro, meno degni, successori – che hanno lasciato quello che si fa per quello che si dovrebbe fare; sono andati dietro all’immaginazione della realtà, piuttosto che alla verità effettuale. Parlo dei comunisti. Volevano cambiare la natura umana ma gli uomini sono sempre gli stessi: per questo nei miei scritti ho ragionato sulle cose d’Italia prendendo a criterio le azioni degli antiqui. E non ho errato: i Romani che non s’illudevano sugli uomini e avevano tanta virtù, hanno costruito un impero durato in occidente cinque secoli, e in oriente assai di più. I vostri post – o neo-comunisti sono arrivati – al massimo – a governare settant’anni, e il loro impero è crollato da solo. Bel risultato! Invece della fine della storia, ne hanno realizzato un caso unico. Un misero esito per un vasto programma. Onde quanto sostengono, deve tener conto della loro credibilità – modestissima.
Ma almeno certe illusioni servono a temperare la crisi, a evitare sconvolgimenti dolorosi.
Come se le crisi non facciano parte della storia, la quale è, come diceva un mio allievo mezzo francioso, il cimitero delle élite. Le vostre, pensano alla crisi come il loro cimitero. E dato che hanno di mira il loro particolare, ne sono terrorizzati. Ma la crisi non significa solo fine: ma anche nuovo inizio, come scrivevo nei Discorsi. Se un ordinatore di repubblica fonda uno Stato, lo fonda per poco tempo perché nessun rimedio può farci a fare che non sdruccioli nel suo contrario. Credere d’ordinarla in eterno è opera non umana, ma divina. Ma il Padreterno non ha voluto mai realizzarla. Rassegnatevi: come scrisse un filosofo, le costituzioni nascono dal sangue e dalla lotta. Cercate di evitare se possibile il sangue. Ma non lo è schivare la lotta. Chi sostiene ciò vuole evitare la lotta, quella dei suoi nemici. E lui vuol fare la guerra, ma spuntando le armi dell’avversario.
Bisogna quindi “ritornar al principio”?
Anche, ma soprattutto, più la fortuna batte, più occorre virtù, più uomini che ne sono dotati hanno l’occasione per emergere.
La crisi è l’opportunità per domare la fortuna; e gli uomini e le comunità virtuose non la possono tralasciare. A trascurarla si prolunga solo la decadenza e se ne ampliano gli effetti. Voi è almeno da trent’anni che decadete. E tutti i Paternostri recitati dai vostri governanti servivano solo ad occultarla; col solo risultato di prolungarla. Ma per batterla occorre tanta virtù: più in basso siete caduti più ne occorre per rialzarsi. Ma la troverete? Ai miei tempi no, Spero che i vostri siano più fausti.
Teodoro Klitsche de la Grange
La Cina come Paese del Terzo MondoDi: George FriedmanSi discute molto sulla crescita dell’economia cinese e sull’espansione dell’influenza internazionale della Cina. Non c’è dubbio che l’economia cinese si sia costantemente espansa negli ultimi 40 anni, dalla morte di Mao Zedong. Ma Mao aveva creato una Cina straordinariamente povera, basata sull’ideologia e sul desiderio di eliminare il potere della vecchia élite economica concentrata lungo la costa. Mao li temeva come una minaccia alla rivoluzione. In effetti, temeva la tendenza borghese verso la ricchezza e il comfort come sfida alla rivoluzione. Ha soffocato l’economia cinese e, di conseguenza, praticamente qualsiasi comportamento razionale da parte dei governanti cinesi avrebbe generato una crescita drammatica. La Cina, con una vasta forza lavoro potenziale e una cultura fondamentalmente sofisticata, inevitabilmente si sollevò perdendo la strana e malevola morsa di Mao. Quarant’anni dopo, con una struttura politica ragionevolmente razionale, la Cina è diventata una delle più grandi economie del mondo, seconda solo agli Stati Uniti. Il divario tra Stati Uniti e Cina è ancora sostanziale, con il prodotto interno lordo cinese solo al 70% degli Stati Uniti. Questo è ovviamente molto più stretto di 40 o addirittura 20 anni fa. Tuttavia, è un divario sostanziale. Ma il PIL rappresenta la produzione aggregata di una nazione e, da un punto di vista aggregato, l’economia cinese di 14 trilioni di dollari è un miracolo. Ma semplicemente non è il miracolo che sembra essere. Una misura di un’economia tra le tante è il PIL, l’economia nel suo insieme. Un altro modo di guardare a un’economia è il PIL pro capite, l’aggregato diviso per la popolazione. Questo dà un senso, imperfetto ma utile, di come stanno i cittadini cinesi rispetto ai cittadini di altri paesi. Guardando l’economia nel suo insieme, la Cina è impressionante. Nel PIL pro capite, è un’altra questione. Ci sono due modi per misurare queste cose. Uno è il PIL nominale, misurato rispetto al dollaro USA, la valuta di riserva mondiale. L’altro modo per misurare è la parità del potere d’acquisto (PPP). Questo esamina la quantità di alloggio o cibo che può essere acquistato per un importo fisso di denaro. In apparenza questo è il modo migliore, ma soffre di due difetti. Uno è che in un paese vasto come gli Stati Uniti o la Cina, il costo degli alloggi o di altri beni varia notevolmente. Trovare un unico valore per l’alloggio – e la miriade di altri punti dati – che include San Francisco e Little Rock, Arkansas, può essere fatto, se accetti di essere lontano molte volte. Inoltre, questi sono ovviamente manipolati per ragioni politiche. Tuttavia, il PIL nominale e il PPA insieme danno un buon senso della realtà. Nel PIL nominale pro capite, la Cina è al 59 ° posto nel mondo, dietro Costa Rica, Seychelles e Maldive. In termini di PPP, la Cina è classificata 73, subito dietro Guyana e Guinea Equatoriale. In confronto, gli Stati Uniti sono al quinto posto nominalmente, dietro a Lussemburgo, Svizzera, Irlanda e Norvegia. Gli Stati Uniti sono settimi in termini di PPP. Il PIL pro capite tende ad essere più elevato nei paesi relativamente piccoli, socialmente ed etnicamente omogenei, costruiti attorno alla finanza o ad una singola merce di alto valore. Gli Stati Uniti sono grandi e socialmente ed etnicamente diversi, con un’economia molto diversificata. Date le circostanze, classificarsi al quinto posto nel mondo è un risultato significativo. Le classifiche della Cina di 59 e 73, e dei paesi a cui si colloca accanto, offrono un’immagine molto diversa dello status della Cina. Su base aggregata, è battuto solo dagli Stati Uniti. Su base pro capite, si colloca tra i paesi del Terzo mondo molto più poveri. Quindi ci sono almeno due modi per guardare alla Cina: come potenza economica di livello mondiale e come paese del Terzo Mondo. È possibile essere entrambi. Quando aggreghiamo la ricchezza della Cina, ha la capacità di plasmare parti dell’economia globale e di costruire una capacità militare significativa, ma quando aggrega valore economico, può farlo solo trasferendo ricchezza ad alcuni settori della società e lontano da altri settori. In altre parole, coloro che beneficiano della strategia cinese controllano e consumano una ricchezza molto maggiore rispetto al PIL medio. Per estensione, coloro che non fanno parte di questo gruppo possiedono una quota sostanzialmente inferiore. In termini comparativi, i cinesi più ricchi godono di uno status alla pari degli americani più ricchi; la maggior parte degli altri vive peggio di qualcuno in Guyana o in Guinea Equatoriale. Tutti i paesi hanno la disuguaglianza. A volte può non avere alcun effetto, altre volte può destabilizzare il paese. La Cina è cresciuta creando un’economia vasta e significativa. La maggioranza della società che non fa parte dell’élite costiera che gestisce il commercio internazionale, le banche e gli investimenti, o che fa parte della struttura militare-industriale, vive vite almeno paragonabili ai loro equivalenti negli Stati Uniti. La grande maggioranza all’interno del paese vive nell’ordine della Guinea Equatoriale. Pochi americani vivono vite in quest’ordine, anche se indubbiamente alcuni possono essere trovati. Il PIL pro capite fornisce un numero irreale. Ma ti permette di vedere come una nazione si confronta con i suoi pari. Ma poi devi immaginare il grado di disuguaglianza richiesto per mantenere il PIL aggregato e il modo in cui si concentra la ricchezza, e quindi considerare le conseguenze di vivere ben al di sotto del reddito pro capite. Nel caso della Cina, crea una vita di massa vasta ma a volte difficile da vedere come il Terzo Mondo. Negli Stati Uniti, anch’essi pieni di disuguaglianze, gli esclusi vivono ancora nel contesto delle aspettative euro-americane. Con le eccezioni, non vivono al di sotto delle vite di quelli della Guinea Equatoriale. Il PIL aggregato concentrato per l’alta tecnologia o la finanza può avere un potere significativo nel mondo. Il rischio è il malcontento sociale degli esclusi. Va ricordato che quando Mao fallì in una rivolta a Shanghai, portò la Lunga Marcia verso l’interno per radunare un esercito di contadini tra quelli esclusi dalla ricchezza accumulata tra alcuni impegnati nel commercio internazionale lungo la costa, e usò quell’esercito per rovesciare il regime che hanno accusato della loro miseria. Xi Jinping ovviamente conosce bene la storia e il giro di vite su alcuni dei più ricchi in Cina, fatto in modo molto visibile, credo sia inteso a dimostrare l’impegno del Partito Comunista Cinese nei confronti dei poveri. La domanda è se può fare di più senza danneggiare la macchina che ha creato il PIL aggregato del suo paese. Potrei sbagliarmi nella mia speculazione sulla natura delle sue azioni, ma il fatto è che lo status della Cina, sotto ogni punto di vista, ha generato una ricchezza pari alla migliore del mondo e una povertà pari alla peggiore. |
DISTRUZIONE E PROTEZIONE
Si sente sempre più spesso ripetere quanto sosteneva (tra gli altri) Schumpeter che il capitalismo induce un processo di distruzione creatrice selezionando gli imprenditori più efficienti ed espellendo gli altri. L’occasione per incentivare questa selezione – un aspetto di darwinismo sociale – sarebbe la pandemia: le imprese che riescono a superare la crisi sono le più efficienti, mentre quelle che non sopravvivono, meritano di essere chiuse.
Anche se il ragionamento ha una sua validità e in Italia spesso si è fatto il contrario – con risultati deludenti – invocarlo in relazione alla pandemia è errato per due motivi, che poco hanno a che fare con l’efficienza economica.
Il primo è che l’uomo non è solo homo aeconomicus ma, tra l’altro – Aristotele docet – zoon politikon: e per l’appunto tale caratteristica lo porta a costituire gruppi politici il cui fondamento è, come scriveva Hobbes, lo scambio tra protezione e obbedienza: si deve obbedire a chi da protezione e, in cambio, si ha il dovere di proteggere chi obbedisce. Se però tale rapporto diviene impossibile, viene meno sia il dovere d’obbedienza che quello di protezione, come scriveva il filosofo di Malmesbury. Ne consegue che ciò che economicamente è condivisibile può essere politicamente da evitare (e viceversa). Anzi tante politiche di sostegno a imprese, e ancor più, a settori economici poco efficienti sono state motivate con argomentazioni di carattere politico, nel senso suddetto.
Ad esempio la politica europea di sostegno all’agricoltura (a cominciare dal MEC), molto costosa, era volta al sostegno della produzione, tesa anche (e probabilmente soprattutto) ad evitare che la carenza alimentare fosse utilizzata da altre potenze per motivi ostili. Come capitato agli Imperi centrali nella prima guerra mondiale.
Ed è meno evidente, ma d’importanza considerevole che politiche economicamente valide, specie nel breve periodo, in una visione più ampia e di lungo periodo, siano controproducenti sul piano politico. Così la distruzione di piccole aziende, tenuto conto che i piccoli imprenditori, e, in genere i ceti medi, sono il sostegno sociale decisivo, oggi, delle democrazie liberali.
E, a tale proposito, non è detto che la “distruzione creatrice” di tante piccole imprese, vada a favore di un migliore “funzionamento” del mercato. La concentrazione del capitale in poche grosse aziende, rende assai più facile gestire il mercato in funzione non della libera concorrenza e del favor consumatoris, ma di accordi oligopolistici tendenti a limitarlo o eluderlo.
Il secondo: per quale ragione qualche milione di piccoli imprenditori dovrebbe essere a favore di politiche che non garantiscono protezione? Al punto che coloro che le sostengono tendono a vagheggiare l’opportunità della loro distruzione?
Se Hobbes si era sforzato di dimostrare la razionalità del potere (e dell’associazione) politica proprio per lo scambio protezione-obbedienza, per quale ragione l’individuo razionale del filosofo inglese dovrebb’essere diventato un Tafazzi, tutto contento di soffrire e insieme mantenere e votare governanti intenzionati – e giulivi nel manifestarlo – a farlo morire socialmente ed economicamente (e talvolta, complice la pandemia, anche fisicamente)?
In realtà la tesi criticata è frutto di due postulati: che ciò che è economicamente valido esaurisce il “bene” (sociale e individuale). Come se l’uomo fosse solo un essere economico. E non anche economico. La storia prova che non è così: vi sono state nazioni non disponibili a barattare il benessere economico con l’indipendenza politica.
Anche perché nel lungo periodo, è questa a garantire quello, più che l’inverso.
De Bonald scriveva che durante la Rivoluzione e le guerre napoleoniche gli svizzeri, un popolo (all’epoca) di “pastori e frati” avevano difeso la propria indipendenza assai meglio dei Paesi Bassi che “contavano i più ricchi uomini d’affari del mondo” (forse è anche per quello che gli svizzeri sono diventati assai più ricchi dei pur benestanti olandesi).
In secondo luogo c’è il (consueto) modo di ragionare consistente nel confrontare una “legge” generale e soprattutto astratta (anche tendenzialmente valida), applicandola a una situazione specifica e concreta, senza adeguarla. Con il risultato che l’abito confezionato da pensatori (talvolta neppure da talk-show) vesta male chi l’indossa, magari non per colpa del sarto, ma perché l’abbigliando ha la gobba. E l’abilità del politico, come diceva Giolitti, è quella del bravo sarto che confeziona il vestito adatto a chi lo deve portare. Chi pensa il contrario è, come donna Prassede, troppo affezionato alle proprie idee (con la conseguenza di non cambiarle e spesso neppure di adattarle): è un puro “ragionare” ideologico.
E non può quindi pretendere che venga condiviso, perfino con entusiasmo, da coloro che ne pagano il conto.
Avv. Teodoro Klitsche de la Grange
EMERGENZA E VIRTÚ
Ho già scritto (Per qualche migliaio in più) che l’emergenza pandemica è stata l’occasione perché le élite decadenti cambiassero, in parte, le loro litanie abituali, aggiungendovi la strofa sull’inefficienza delle pubbliche amministrazioni, alla quale peraltro avevano concorso – e non poco – attraverso nomine e norme. Aggiungevo che più che salmodiare litanie avrebbero dovuto agire in modo conseguente in primo luogo nominando per affrontare la pandemia, funzionari efficienti e nuovi, (perché dalle vecchie pecore esce sempre lo stesso latte) e in secondo luogo – cosa in parte fatta – promulgando normative d’emergenza. Ma quanto al primo, più importante aspetto, abbiamo dovuto attendere il governo Draghi: ad affrontare l’emergenza pandemica sono stati i soliti. Quando è stato nominato un commissario come il dr. Arcuri, si è scelto un “boiardo di Stato” da quasi quindici anni alla guida di Invitalia, ente, pardon Agenzia, o meglio Agency che dovrebbe promuovere lo sviluppo d’impresa, e che, purtroppo per noi italiani risulta dai dati statistici che non vi riesce granché
Ma non vogliamo insistere su colpe, professionalità, responsabilità concrete, perché preme valutare se l’emergenza richiede, per essere affrontata, dati e attitudini diverse a quanto richiesto in una situazione normale.
E per far ciò è utile – come sempre per gli affari politici – vedere che ne pensa Machiavelli.
Secondo il segretario fiorentino l’azione del governante dev’essere adatta ad affrontare la situazione; sono le caratteristiche di quest’ultima a determinare la condotta ed il soggetto stesso designato a governarla. Il fatto che l’emergenza sia punto (o poco) prevedibile, si presenti la prima volta o no, che ne siano ignote le cause (se naturali) che la creano od oscura ed irragionevole la volontà umana che l’ha generata (ove ne sia la causa), fa si che fronteggiarla sia difficile e richieda (tanta) virtù.
Che cosa sia secondo Machiavelli la virtù è argomento assai frequentato dagli studiosi, con esiti molto diversi, tenuto conto che il segretario fiorentino non la definisce mai (come, d’altra parte, gli altri concetti fondamentali del suo pensiero).
Per lo più la si ritiene la capacità politica di affrontare le situazioni, ossia la fortuna, con successo.
A cercare qualche ulteriore specificazione è connotabile più che in se, in relazione al suo antagonista, cioè la fortuna. La quale va governata e anche sfruttata, usando le occasioni che crea sia per l’interesse della comunità che per quello del Principe, evitandone gli effetti deleteri[1].
Anche se la virtù è necessaria al governante (ed ai popoli) in ogni situazione, nel pensiero di Machiavelli lo è particolarmente nelle situazioni di emergenza, fino a quelle che inducono cambiamenti epocali[2].
E non è detto che sia sufficiente, d’altra parte, a battere la fortuna, anche per gli uomini che il Segretario fiorentino reputava più virtuosi, come Cesare Borgia. Il quale aveva preparato tutto per assicurarsi il potere alla morte del padre, ma non aveva previsto d’essere gravemente malato in quel momento, il che ne provocò la caduta[3].
Proprio l’imprevedibilità, la novità, l’inconoscibilità delle situazioni d’emergenza rende necessario per affrontarle, delle doti che in frangenti normali non avrebbero alcuna rilevanza, e di converso, rende incongrue le altre, utili in quelli.
Compito di chi governa l’emergenza è di raggiungere un risultato concreto: vincere il nemico, ricostruire una città distrutta dal terremoto, superare un’epidemia.
A tal fine osservare delle norme generali può essere d’impedimento (e spesso lo è). Anche nella tranquilla prima Repubblica italiana i commissari nominati per il sisma campano-lucano del 1980 avevano il potere di porre in essere ordinanze anche contra legem, col limite dell’osservanza dei principi generali dell’ordinamento giuridico[4] allo scopo di soccorrere le popolazioni terremotate. In una situazione normale un simile potere, peraltro conferito ad un organo amministrativo straordinario, sarebbe considerato – ed è – incostituzionale, essendo l’Italia uno Stato legislativo-parlamentare.
Consegue da ciò che, in qualche misura il funzionario (inteso lato sensu) incaricato di superare l’emergenza oltre che a non essere più vincolato alla norma, e così un mero esecutore della norma (perché ne può – almeno in parte – farne a meno e porne di nuove), ha minore bisogno anche delle doti professionali relative. Scrive Max Weber che “il tipico detentore del potere legale… mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisce all’ordinamento impersonale in base al quale prende le sue prescrizioni…”[5] e prosegue “le categorie fondamentali del potere razionale sono pertanto: a) un esercizio continuativo, vincolato a regole di funzioni d’ufficio…”. “Le regole secondo le quali si procede possono essere regole tecniche oppure norme”[6]. Invece, nell’emergenza, l’importanza delle regole e della loro osservanza passa in secondo piano, al punto di poter rivelarsi d’impaccio al raggiungimento dello scopo. E così consigliare il conferimento di un generale potere di deroga (v. anche art. 25 D.lgs. 1/2018). L’antico detto di Publilio Siro divenuto una massima giuridica (da Graziano a Santi Romano): necessitas non habet legem sed ipsa sibi facit legem, è ancora diritto vivente ed applicato. La necessità è come la guerra secondo Clausewitz: dove sono i nemici ad imporsi mutualmente legge. Così è la necessità a determinare le misure opportune a contrastarla.
Se quindi è di nessuna utilità (nel migliore dei casi) l’applicazione della legge, l’essere doctor in utroquo jure (diverso – in parte – è per le regole di altro genere) quali sono le doti più adatte a fronteggiarla? Coraggio, propensione al rischio, audacia hanno indubbiamente un ruolo accresciuto. E la virtù machiavellica?
Machiavelli tiene la virtù in grande considerazione, al punto da attribuirle il potere di piegare la fortuna (batterla); in particolare nelle situazioni di crisi, quando le cose peggiorano “Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell’Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perchè potesse rifulgere la “virtù” di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro”[7]. Alla virtù è connotato essenziale (anche) la capacità di prevedere, oltre quella di decidere e comandare. Come scrive Fusaro “Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante , volubile , e la virtù umana , che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La “virtù” di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico… in secondo luogo dalla capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni, il mutare dei rapporti di forza, l’incidenza degli interessi dei singoli ; infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la “virtù” del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche , che conferma che nel pensiero machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte”. A metà del secolo scorso un acuto giurista tedesco, Ernst Forsthoff scrisse un breve saggio su “Lo Stato moderno e la virtù”, facendo il punto sull’importanza (o meno) della virtù nello Stato costituzionale del XX secolo. Notava Forsthoff (che non considera il pensiero di Machiavelli e il di esso concetto di virtù, ma prende in esame quello di Platone ed Aristotele) che nel pensiero classico (cioè fino al XVIII secolo) era considerata la virtù (v. Montesquieu) nella dottrina dello Stato “Solo nel periodo più recente, certo come chiara ripercussione della rivoluzione francese, la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù… Come dottrina del sistema istituzionale e funzionale dello stato, la moderna dottrina dello stato non considera più l’uomo… Essa è divenuta una dottrina dello stato senza virtù”. Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, l’attitudine è cambiata ma “Per quanto sia importante collegare di nuovo la concezione dello stato alle qualità umane, ed in particolare alla virtù… è impossibile ignorare o cancellare con un colpo di penna due secoli di continua evoluzione”[8] (coincidenti con il XIX e, in parte, il XX secolo). Lo Stato di diritto del positivismo giuridico classico sarebbe stato impossibile senza l’alto livello di virtù specifiche della burocrazia professionale tedesca, la quale era il “vero legislatore” del Reich bismarckiano. Ovviamente tra virtù del Segretario fiorentino e quella che Forsthoff vede nella burocrazia del Secondo Reich c’è poco in comune. Quest’ultima è assai prossima a quella individuata da Max Weber nell’etica del funzionario.
Ma è altrettanto sicuro che anche lo Stato moderno non può fare a meno della virtù, come scrive Forsthoff: “il vero problema dello stato di diritto di fronte all’attuale sfacelo etico e morale, e così la nostra riflessione sbocca nella problematica attuale della teoria dello Stato moderno… uno stato le cui funzioni devono inevitabilmente aumentare in misura notevolissima, può evitare a lungo andare la intensificazione della coazione solo rafforzando la virtù – sia la sua che quella dei suoi cittadini. Solo uno stato moderno sostenuto dalla virtù può essere uno stato liberale”.
E tanto meno può prescinderne nelle situazioni d’emergenza e da una virtù che va coniugata più alla concezione machiavellica che a quella “classica”. E ne serve tanta. Per cui pensare che uno Stato sgangherato come la Repubblica italiana, governato nell’ultimo trentennio da élite decadenti possa farne a meno è del tutto incredibile. Ancor più se gli apparati sono sempre gli stessi. Come scriveva Machiavelli dei principi italiani suoi contemporanei non avendo previsto né avuto sentore degli impeti della fortuna, non dovevano accusare questa, ma la loro ignavia[9].
[1] Due passi – tra i tanti delle opere di Machiavelli – descrivono gli aspetti ricordati. Il primo è quello notissimo del cap. XXV del Principe col paragone della fortuna al “fiume rovinoso” e della virtù ai “ripari ed argini” che lo possono evitare o limitare i danni; l’altro nel cap. XX quando discorre della grandezza dei governanti “Senza dubio e principi diventano grandi quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, maxime quando vuole fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che un ereditario, gli fa nasce de’ nemici e fagli fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle e, su per quella scala che gli hanno porta li inimici suoi, salire più alto”; onde la fortuna può diventare un’occasione favorevole.
[2] Come scrive nel XXVI capitolo del Principe “B”; è più vero che l’antitesi fortuna/virtù non è solo vista in funzione dell’azione di singoli individui ma anche dei popoli (v. Discorso, II, 1).
[3] V. Il Principe cap. VII.
[4] V. art. 1 D.L. 26/11/1980 n. 776.
[5] Economia e società, Milano 1980, p. 212.
[6] Op. cit., p. 213.
[7] V. D. Fusaro Nicolò Machiavelli in rete.
[8] E prosegue “Il superamento di una dottrina dello stato, impantanata nel formalismo e nel funzionalismo, è possibile solo sulla base di un’analisi di questa evoluzione e della situazione creatasi con essa… La constatazione che la dottrina dello stato ha perduto, nel secolo XIX, il contatto con le qualità umane, ed in particolare con la virtù, non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli stati… Essa è impensabile senza una certa dose di virtù. Lo stesso vale per il diritto – inteso nel suo vero significato etico. L’emancipazione del positivismo giuridico dal diritto (inteso in questo senso) e l’emancipazione della dottrina dello stato dalla virtù sono strettamente connesse fra loro”.
[9] V. “Pertanto questi nostri principi, e quali erano stati molti anni nel loro principato, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai ne’ tempo quieti pensato ch’e’ possino mutarsi – il che è comune difetto degli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta” (v. Principe, cap. XXIV).
Quando l’ingustizia e la sopraffazione diventano un alibi per giustificare la propria esistenza e protrarre la propria agonia_Giuseppe Germinario
Il “sistema” algerino e i “decoloniali” accusano la Francia di essere responsabile dei loro problemi. Un atteggiamento edipico già ben descritto a suo tempo da Agrippa d’Aubigné quando scrisse che:
“Il cadavere della Francia si sta decomponendo sotto gli occhi di due bambini: il primo è un criminale e il secondo un parassita. Uno è rivolto alla morte e l’altro alla devastazione. ”
Nel gennaio 2021, un giornalista algerino, rilanciato compiacentemente dai media francesi, ha persino chiesto un risarcimento alla Francia per il “saccheggio” del ferro “algerino” che, secondo lui, sarebbe stato utilizzato per realizzare la Torre Eiffel !!!
Tuttavia, come ha mostrato Paul Sugy, i pezzi che compongono il monumento emblematico sono stati fusi in Lorena, nelle acciaierie di Pompeo, dal minerale di ferro estratto dalla miniera di Lurdres, anch’essa situata a Meurthe-et-Moselle …
L’affermazione tanto esorbitante quanto surrealista di questa borsa di studio del “Sistema” algerino non è la follia di un miniato. Al contrario, fa parte di una strategia di richieste eccessive intese a ottenere scuse, quindi riparazioni “dure e veloci” dalla Francia.
Tuttavia, bisogna vedere che, fino all’arrivo al potere di François Hollande, la posizione algerina era stata relativamente “mantenuta”. Né Georges Pompidou, né Valéry Giscard d’Estaing, né François Mitterrand, né Jacques Chirac né Nicolas Sarkozy avrebbero accettato tali richieste di scuse. Tuttavia, tutto è cambiato con le dichiarazioni irresponsabili di François Hollande seguite da quelle di Emmanuel Macron sul tema della colonizzazione. Da lì, essendosi autoumiliata la Francia, l’Algeria si è trovata quindi in una posizione di forza per pretenderne sempre di più. Tanto più che messo alle strette dalla strada, pur essendo in gioco la sua sopravvivenza, il “Sistema” algerino ha solo due mezzi per cercare di deviare la marea della protesta popolare che minaccia di prevalere:
1) Attacco al Marocco, come nel 1963, quando la “Guerra delle Sabbie” gli permise di mettere da parte la rivolta Kabyle. Ma, con il Marocco, che si strofina contro di esso …
2) Niente del genere con il cappone francese i cui attuali leader non osano ricordare ai loro omologhi algerini che nel 1962, la Francia “madre generosa”, lasciò in eredità alla sua “cara Algeria” secondo l’espressione del compianto Daniel Lefeuvre, un’eredità composta da 54.000 chilometri di strade e binari (80.000 con binari sahariani), 31 strade nazionali di cui quasi 9.000 km asfaltate, 4.300 km di ferrovie, 4 porti attrezzati a standard internazionali, 23 porti sviluppati (di cui 10 accessibili a grandi cargo e di cui 5 che potrebbero essere serviti da navi di linea), 34 fari marittimi, una dozzina di aeroporti principali, centinaia di strutture ingegneristiche (ponti, gallerie, viadotti, dighe, ecc.), migliaia di edifici amministrativi, caserme, edifici ufficiali, 31 idroelettrici o centrali termiche, un centinaio di importanti industrie nell’edilizia, metallurgia, cemento, ecc. dic scuole, istituti di formazione, scuole superiori, università con 800.000 bambini iscritti a 17.000 classi (cioè altrettanti insegnanti, due terzi dei quali francesi), un ospedale universitario da 2.000 posti letto ad Algeri, tre grandi ospedali della capitale ad Algeri, Orano e Costantino , 14 ospedali specializzati e 112 ospedali polivalenti, l’eccezionale cifra di un letto ogni 300 abitanti. Per non parlare del petrolio scoperto e messo in funzione dagli ingegneri francesi. Nemmeno un’agricoltura fiorente è rimasta incolta dopo l’indipendenza, a tal punto che oggi l’Algeria deve importare anche concentrato di pomodoro, ceci e persino semola di cuscus …
Tutto ciò che esisteva in Algeria nel 1962 era stato pagato con le tasse francesi. Nel 1959, l’Algeria ha così assorbito il 20% del bilancio statale francese, vale a dire più dei bilanci combinati di istruzione nazionale, lavori pubblici, trasporti, ricostruzione e alloggi, industria e commercio! E tutto ciò che la Francia ha lasciato in eredità all’Algeria era stato costruito dal nulla, in un paese che non era mai esistito da quando era passato direttamente dalla colonizzazione turca alla colonizzazione francese. Anche il suo nome gli era stato dato dalla Francia …
L’atteggiamento dei “decoloniali”, da parte sua, nasce da un complesso edipoesistenziale accoppiato con una dose di schizofrenia.
Secondo loro, la Francia, che li accoglie, li nutre, li veste, li accudisce, li ospita e li educa, è una nazione “geneticamente schiava, razzista e colonizzatrice”, in cui i discendenti dei colonizzati sono in una situazione ”, cioè di” dominato “. Da qui la loro cosiddetta “emarginazione”. A questa affermazione di vittimismo si aggiunge un sentimento vendicativo e conquistatore, ben riassunto da Houria Bouteldja, una delle figure di spicco di questa corrente:
“La nostra semplice esistenza, unita a un peso demografico relativo (da 1 a 6) africanizza, arabizza, berberizza, creolizza, islamizza, i neri, la figlia maggiore della Chiesa, una volta bianca e immacolata, come sicuramente lucidano il sacco e le onde del surf e ripulire i blocchi di granito con pretese di eternità (…) ”.
Autenticamente francofobici, odiando la Francia, i “decoloniali” rifiutano quindi tutto ciò che è connesso ad essa. Hafsa Askar, vicepresidente del sindacato studentesco UNEF, ha scritto il 15 aprile 2019, il giorno del suo incendio:
“Non mi interessa Notre-Dame de Paris, perché non mi interessa la storia della Francia … Wallah … non ce ne frega niente (traduzione: combattiamo la c …), oggettivamente, è il tuo delirio di piccoli bianchi.
Tuttavia, esprimendo il loro risentimento e il loro odio per la Francia nella lingua dell’odiato “colono”, e affermandosi intellettualmente attraverso i suoi riferimenti filosofico-politici, i “decoloniali” hanno un atteggiamento schizofrenico …
Tuttavia, non c’è il minimo paradosso di questi adulatori il cui “pensiero” è germogliato sul suolo filosofico della rivoluzione del 1789. Attaccando frontalmente, e in modo edipico, i dogmi dei loro genitori – “valori della Repubblica” , “diritti umani”, “convivenza” e “secolarismo” – i “decoloniali” hanno infatti polverizzato il quadro dottrinale e morale di questa sinistra universalista che, per decenni, è stata il vettore della decadenza francese. Poiché non sopravviverà alla morte della sua ideologia e dei suoi “valori fondanti”, qui lascia gradualmente la storia, aprendo così la strada a un cambio di paradigma.
Spetta ai portatori di forze creative cogliere questa storica opportunità!
– Per la critica alla storia ufficiale dell’Algeria scritta dall’FLN e da Benjamin Stora, faremo riferimento al mio libro Algeria, la storia sottosopra .
– Per l’analisi e la confutazione dell’ideologia “decoloniale” si consulti il mio libro Responding to the decolonials, the islamo-leftists and the terrorists of pentance .
Come pensare a livello strategico per trarre conclusioni operative e anche tattiche? Quali attori si affronteranno domani su questi spaventosi campi di battaglia? Come simboleggiare la vittoria sul campo di battaglia urbano che mescola all’infinito le combinazioni di oggetti connessi, monumenti della memoria secolari, la distruzione fisica degli edifici, ma anche la distruzione morale dei luoghi della vita, luoghi del potere simbolico e occulto, sociale, etnico o linee di faglia religiose? Insomma, quali opzioni strategiche vengono offerte al decisore che cerca, al minor costo, una vittoria negli spazi urbanizzati, suburbani e periferici? In spazi urbanizzati che ormai rasentano il gigantesco, le opzioni strategiche saranno suddivise a livello operativo e tattico in base alle risorse umane e tecnologiche disponibili. L’economia delle forze e la concentrazione delle risorse saranno tanto più importanti in quanto la libertà di azione potrebbe essere molto ridotta, bloccata negli spazi compartimentati delle metropoli moderne.[2] .
È ormai noto che la crescente urbanizzazione del mondo è un fenomeno che ha rivoluzionato lo spazio geografico e sociale degli uomini. Grandi città, megalopoli secondo la terminologia delle Nazioni Unite che stanno moltiplicando le loro popolazioni a un ritmo mai visto prima. Una città come Bamako è praticamente raddoppiata in dieci anni all’inizio degli anni 2000 senza però che le infrastrutture collettive siano in grado di tenere il passo con questo ritmo frenetico. Grandi città che superano i dieci milioni di abitanti e addirittura raddoppiano in molti paesi. Città che sono diventate obiettivi fuori dalla portata della maggior parte degli eserciti, a meno che non ci sia uno sforzo immenso in termini di personale. Città del mondo [3], veri e propri attori strategici dei sistemi informativi, della telefonia, dei social network, dei flussi economici e culturali quasi indipendenti dai paesi di origine. Gruppi sociali molto diversi e, in ultima analisi, molto distanti possono popolarli. Periferie incontrollate, quartieri ad accesso limitato, infrastrutture suburbane difficili da attraversare, si mescolano in maniera anarchica. I brownfields, vere e proprie giungle di cemento e acciaio, si dimostrano tanti ostacoli all’avanzamento anche di eserciti moderni e ben equipaggiati. Si distinguono le periferie costruite dall’uomo per usi di utilità civile come metro o fognature; e il sottosuolo scavato nel terreno per mimetizzarsi o occultamento militare.
Anche per ascoltare: Podcast. Rintraccia il terrorismo. Comandante Vincent
Città troppo grandi per essere governate da un solo funzionario eletto. Città dove a volte popolazioni molto privilegiate sono concentrate accanto ad altre che sono molto povere. Città la cui demografia non deve più essere studiata globalmente, ma lungo possibili linee di tensione e frattura per trovare un senso strategico. In Irlanda del Nord, il calo del tasso di natalità in tutte le comunità, la diminuzione delle famiglie numerose (soprattutto cattolici) e la stanchezza di fronte al terrorismo sono forse le migliori spiegazioni del desiderio di pace. In Libano, lo sviluppo della comunità sciita dagli anni ’80 ha cambiato gli equilibri di potere nei confronti dei maroniti e dei sunniti, anche a Beirut. In altri casi, è il vertiginoso aumento della popolazione nelle grandi città che è fonte di conflitti più o meno a lungo termine. Quale potere politico può allora affermare di arginare questo problema, quando anche un tasso di crescita a due cifre non sarebbe sufficiente? La violenza sociale e civile sotto le spoglie della lotta armata favorisce quindi l’emergere e il rafforzamento di gruppi politico-mafiosi che vivono di questo caos. Questa è senza dubbio la più grande rottura con la Guerra Fredda.“Se il partigiano è l’irregolare della Guerra Fredda, l’ibrido è l’irregolare dell’era del caos [4] . “
Come si può allora esercitare questa violenza? Dipenderà da una serie di fattori locali. Terrorismo, rivolte urbane, guerriglia urbana, guerra classica e già, nel frattempo, una guerra non dichiarata nel cyberspazio, sotto forma di attacchi informatici contro sistemi organizzati (servizi pubblici, amministrazioni, sistema bancario) o semplicemente di cyberpropaganda (bias di presentazioni, fake news, ecc.) sono in aumento. Le città, per definizione spazi iperconnessi, sono ovviamente campi di confronto quasi ideali per queste tecnologie. Anche nella circondata Aleppo, la rete Facebook non viene tagliata. I vari campi sono quindi indignati, cercando di vincere la battaglia per l’informazione e la giusta causa.
Da Madrid nel 1936 e Shanghai nel 1937, il campo di battaglia urbano si è affermato come luogo di battaglie gigantesche, non solo intorno alla città, ma soprattutto al suo interno. Siamo poi passati improvvisamente dalla poliorcetica, cioè l’arte dell’assedio, a un vero campo di battaglia, come la pianura o il deserto. Non si tratta più solo di assediare una roccaforte, ma di combattere lì per le sue strade, i suoi palazzi, le sue piazze, i suoi ponti, le sue opere d’arte. Certo, una tendenza stava già emergendo durante le guerre civili o le guerre di insurrezione. La battaglia di Cahors nel 1580 tra protestanti e cattolici durante le guerre di religione o quella di Saragozzagià nel 1809 tra partigiani spagnoli e truppe napoleoniche lo anticipano. Ma nel complesso, i generali in capo erano restii a combattere nella città e persino ad assediarla. I terribili combattimenti per ridurre la Comune di Parigi nel maggio 1871 tra ribelli (comunardi) e soldati dell’esercito governativo (Versaillais) ordinati dal governo di Adolphe Thiers, durante quella che allora veniva chiamata la settimana sanguinosa del maggio 1871 sono un esempio dell’evoluzione di guerra nelle città. Ma fu soprattutto dopo la prima guerra mondiale che il ruolo della città come campo di battaglia e equalizzatore di forze tra attaccanti e difensori si affermò davvero. Le truppe e soldati nazionalisti di Franco o miliziani della Repubblica spagnola combattono nella prima battaglia moderna con carri armati e aerei nella capitale spagnola dall’ottobre 1936, mentre a Shanghai l’anno successivo è tra le truppe cinesi di Tchang Kaï-shek e giapponesi che la battaglia viene combattuto in città. Questo prefigura già il titanico confronto di Stalingrado nel 1942.
I tedeschi, dopo aver perso la loro superiorità di manovra agli alleati anglosassoni e sovietici, cercano disperatamente di aggrapparsi alle città fortezza ( festungsecondo la terminologia tedesca). A Budapest, dal novembre 1944 al febbraio 1945, riuscirono a mettere in sicurezza 300.000 soldati sovietici agli ordini di Malinovski senza riuscire ad allentare il cappio. L’11 febbraio, i sopravvissuti della guarnigione (circa 30.000 uomini su 80.000) tentarono una sortita in forza che meno di 800 uomini sarebbero riusciti a unirsi alle linee tedesche. Combatterono ancora ferocemente ad Aquisgrana nel settembre-ottobre 1944 e, naturalmente, a Berlino nel maggio 1945. Battaglie titaniche che difficilmente possiamo immaginare ancora oggi possibili. Tuttavia, a Mosul, le forze di sicurezza irachene (esercito, polizia federale, servizio antiterrorismo), è vero, rafforzate da numerose milizie popolari,
Forse allora, per mancanza di manodopera, assisteremo a battaglie tra castelli urbani fortificati. Se nessuno degli avversari è in grado di surclassare l’altro per mancanza di mezzi (la battaglia in un’area urbana richiede manodopera, perché le armi non possono dare il loro pieno rendimento lì a causa del telaio), i combattenti si aggrapperanno a quartieri favorevoli dove la popolazione non è loro ostile. Le linee del fronte seguiranno quindi generalmente le linee del confronto politico, etnico o religioso come a Sarajevo, Beirut, Aleppo e Damasco. Fino a quando uno dei due (o anche più) campi finalmente ha vinto grazie a rinforzi esterni. Così, il campo del governo siriano, con i suoi rinforzi russi e soprattutto Hezbollah e gli iraniani, riprende Aleppo dalle tante fazioni ribelli più o meno dominate dagli islamisti sotto l’obbedienza dell’Isis. Mentre i curdi e altre minoranze cercavano di resistere nei loro quartieri. L’utilizzo di artiglieria e mezzi corazzati permette di sopperire parzialmente alla carenza di combattenti a piedi (fanti, genieri e osservatori di artiglieria) senza però avere un completo successo. A volte la lotta si spegne un po ‘per stanchezza o per un accordo di pace più o meno imposto dall’esterno dopo mesi o anni di scontri sterili come a Beirut (1975-1990) oa Sarajevo (1992-1995). genieri e osservatori di artiglieria) senza riuscirci completamente. A volte la lotta si spegnerà un po ‘da sola per stanchezza o per un accordo di pace più o meno imposto dall’esterno dopo mesi o anni di scontri sterili come a Beirut (1975-1990) oa Sarajevo (1992-1995). genieri e osservatori di artiglieria) senza riuscirci completamente. A volte la lotta si spegne un po ‘per stanchezza o per un accordo di pace più o meno imposto dall’esterno dopo mesi o anni di scontri sterili come a Beirut (1975-1990) oa Sarajevo (1992-1995).
Altri tentativi si basano sul modello di Hue, come a Bombay nel novembre 2008, quando una dozzina di terroristi armati di fucili d’assalto seminavano il terrore nella città. Le forze di sicurezza indiane impiegano diversi giorni per individuarli e neutralizzarli. Quasi 200 persone perderanno la vita lì. Come a Hue nel 1968, i commando possono infiltrarsi discretamente in una città per poi rivelarsi simultaneamente in una serie di attacchi contro la popolazione e i servizi pubblici. Gli americani ei sud vietnamiti dovettero assumere diverse migliaia di uomini per ridurre i due reggimenti nordvietnamiti infiltrati che massacrarono sistematicamente funzionari e simpatizzanti del governo di Saigon. La battaglia durò quasi due mesi tra il 31 gennaio e il 2 marzo 1968.
Infine, in quest’epoca di caos, potrebbero essere potenti bande mafiose che cercheranno di sfidare Stati indeboliti dalla corruzione o da numerosi vincoli di ogni tipo. Come veri signori della guerra e in una sorta di remake di un Medioevo creduto finito, i trafficanti di droga (con o senza giustificazione politica e religiosa) si sentiranno abbastanza forti da impegnarsi in combattimento per preservare il loro sistema di predazione e di saccheggio. Già in Giamaica, nel maggio 2010, il governo ha deciso di inviare l’esercito per ridurre la banda del potente spacciatore Christopher Coke ha detto Dudusnella zona dei Giardini di Tivoli a Kingston. Per la prima volta nella sua storia, la piccola Forza di difesa giamaicana (che schiera l’equivalente di una brigata di fanteria leggera) è stata impegnata in una guerra ad alta intensità contro combattenti dal cappuccio nero. Ci è voluto quasi un mese di combattimenti e più di 70 morti per riprendere il controllo di questi quartieri. In Messico o in Brasile in certe favelas di Rio [5] , e in molti altri distretti di altri paesi, solo l’esercito (o una forza di polizia molto militarizzata) può avventurarsi nelle zone tenute da queste stesse bande. . Eppure queste incursioni sono solo in vigore e in un tempo limitato!
Solo coloro che possono allineare le truppe conducono guerre classiche di tipo Stalingrado con assedi su larga scala. Gli altri devono trovare soluzioni, o nelle tattiche utilizzate, o compensando con una tecnologia adattata. Droni, robot, munizioni itineranti, manovre di guerra elettronica possono compensare utilmente la mancanza di manodopera. Ma le lezioni della storia insegnano che tutta la tecnologia dura solo un momento e alla fine viene contrastata o aggirata. Se i droni appaiono oggi come un insuperabile cambio di gioco , non c’è nulla da dire che non saranno esposti a una parata nel breve futuro. Guderian non dichiarò durante la vigorosa traversata della Mosa a Sedan il 13 maggio 1940 che “è il giorno di gloria di FLAK?[6] ” . Ma è chiaro che i robot di terra, ben diretti e in grado di impegnarsi con meno costi umani nel labirinto urbanizzato, rappresentano una strada interessante da seguire per i tattici della città in guerra.
È necessaria una formazione specifica prima dell’ingaggio di una forza militare in un’area urbana. Dopo i furiosi combattimenti ad Aquisgrana nel 1944, sappiamo che il coordinamento degli armamenti combinato al livello più basso è la condizione sine qua non per il successo. Dallo sbarco in Normandia, i giovani soldati americani non avevano cessato di indurirsi. Mescolando sezioni di fanteria con carri armati ed elementi di ingegneri, formarono distaccamenti di armi combinati da cui si ispirarono gli eserciti moderni. Lo abbiamo visto di nuovo in molte battaglie recenti come quella di Falluja nel 2004, così come nei vari impegni israeliani. Questi ultimi utilizzano anche grossi bulldozer corazzati in stretta collaborazione con gruppi di fanteria a bordo di mezzi cingolati abbastanza pesanti supportati a brevissima distanza da carri armati Merkava. La recente aggiunta di munizioni da caccia, una sorta di piccoli droni dotati di una carica in grado di piombare in picchiata su qualsiasi nemico individuato, ha rafforzato la consueta combinazione di fanteria, ingegneri e carri armati.
Il coordinamento dei vari mezzi attraverso sistemi di informazione e geolocalizzazione rimane una delle maggiori sfide delle unità coinvolte. La corsa agli armamenti e agli equipaggiamenti è particolarmente feroce in questo settore. Gli occidentali, leader a lungo incontrastati, devono ora affrontare una forte concorrenza da parte di altre potenze.
Da leggere anche: La politica francese di lotta al terrorismo dall’11 settembre 2001
Anche se faceva affidamento sulle campagne per vincere, Mao Zedong sapeva che l’unico simbolo di vittoria sarebbe stata la cattura di Pechino da esibire agli occhi del mondo oltre a quelli del popolo cinese. De Gaulle, a fine politico, impone agli americani l’ingresso a Parigi della 2 ° divisione corazzata di Philippe Leclerc de Hauteclocque dell’armata libera francese. Questa grande unità gollista è il miglior simbolo della sua vittoria politica, affermando brillantemente la correttezza della sua scelta nel giugno 1940.
La capitale è il simbolo per eccellenza della vittoria strategica. Occorre anche avere i mezzi per prenderlo o per difenderlo.
Appunti
[1] Frédéric Chamaud e Pierre Santoni, Il campo di battaglia definitivo, per combattere e vincere in città , edizioni Pierre de Taillac. Nuova edizione ampliata nel 2019.
[2] Il lettore ovviamente avrà riconosciuto i tre principi della guerra del maresciallo Foch.
[3] Secondo l’espressione di Fernand Braudel.
[4] Jean-François Gayraud, Teoria degli ibridi, terrorismo e criminalità organizzata , CNRS edizioni, 2017, p. 31-90.
[5] Per una panoramica tattica di queste operazioni: “Guerra Irregular: A Brigada de Infantaria Paraquedista do Exército Brasileiro na Pacificação de Favelas do Rio de Janeiro”, General Roberto Escoto, Military review , gennaio 2016.
[6] Flieger Abwehr Kanone : artiglieria antiaerea.
https://www.revueconflits.com/guerre-urbaine-megacities-terrorisme-narcotrafic-pierre-santoni/
Israele è una realtà complessa e originale nello scacchiere mediorientale. E’ un oggetto di contesa, ma anche un pretesto di contesa tra i paesi che lo circondano. Dalla sua fondazione è un attore che si è imposto di fatto, ma negli ultimi decenni, in particolare dalla caduta del blocco sovietico, è un protagonista riconosciuto da una parte sempre più larga di stati e comunità arabe. Il cammino verso un definitivo riconoscimento reciproco è però ancora irto di ostacoli ed incognite in un quadro nel quale le opzioni militari assumono ancora grande spazio assieme a processi di convivenza ed integrazione_Giuseppe Germinario
https://rumble.com/vf2nxj-la-realt-di-israele-vista-da-un-israeliano-con-gabriele-levy.html