UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, una chiosa di Massimo Morigi

Al netto del lucido ragionamento di Gianfranco Campa – il quale, sia detto per inciso, denota una conoscenza diretta dell’odierno scenario politico statunitense, una conoscenza di prima mano e non ridicolmente libresca come quella di molti italici e professorali tromboni che vanno per la maggiore e che inquinano le fonti di una sempre più sprovveduta pubblica opinione e tanto sono graditi al ceto dei “semicolti di sinistra, ma per essere equanimi anche di destra – l’ “Analisi dettagliata del voto statunitense” non è solo un ottimo rapporto di servizio su come sono andate effettivamente le cose in questa elezione e sul perché Trump è stato eletto ma in questa analisi traslùce anche una lezione di teoria (e prassi) politica. Scrive Campa in relazione della vittoria di Trump ottenuta tramite la prevalenza dei voti dei collegi elettorali ma non attraverso la maggioranza dei voti degli elettori (i quali con un buon margine hanno favorita la sua rivale Clinton): “In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi: il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sistema a collegio elettorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.” Con queste poche righe sono così demolite tutta l’attuale retorica politica italiana che, indifferentemente da destra come da sinistra, indica come uno dei peggiori mali in assoluto il fatto che l’Italia non sia un paese democratico perché la mediazione fra corpo elettorale e ceto politico impedisce l’espressione delle migliori energie del paese e la retorica che ha come sottotitolo la seguente scritta: “bisogna imitare le istituzioni politiche degli Stati uniti, che è il vero paese dove il potere viene espresso direttamente dal popolo”. Nella realtà, non ci potrebbe essere più grande mistificazione; nella realtà, anche non volendo tener conto dell’elementare fatto che nella democrazia americana, in misura immensamente maggiore di tutte quelle che si sono affacciate nell’epoca moderna, sono i grandi apparati e le grandi corporation ad essere i veri decisivi elettori e che il popolo non conta un emerito …, si ignora l’elementare fatto che i padri costituenti di quel paese non vollero costruire una democrazia, che ritenevano potesse cadere in mano della dittatura di una maggioranza o di una minoranza, ma vollero costruire una repubblica che in virtù della presenza nel suo corpo politico di diversi e configgenti interessi – e in virtù del fatto che questi diversi e configgenti interessi erano sparsi su un grande territorio, gli Stati uniti appunto – molto difficilmente sarebbe scivolata in una dittatura, che per la maggior parte di questi padri costituenti era la naturale evoluzione della democrazia. La più significativa espressione di questa modalità di pensiero è la teoria dell’ “extended republic” di James Madison, il quale nel Federalista n. 10 scriveva a proposito dei pericoli della dittatura di una parte politica, non importa se questa parte sia, rispetto alla popolazione, una minoranza od una maggioranza. “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.” Quindi per Madison repubblica è da contrapporsi a democrazia (potenzialmente illiberale), e deve essere una repubblica basata sulla delega della rappresentanza piuttosto che una democrazia (nella descrizione che ne fa Madison noi diremmo una democrazia diretta, ma, alla luce dell’insoddisfazione non molto meditata delle odierne masse per una democrazia avvertita distante, siamo sicuri che Madison non cogliesse nel segno nella sua critica alla democrazia?) : “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.”, e deve essere per Madison una repubblica che per estensione di territorio abbia come costituzione materiale il bilanciamento effettivo delle varie forze politiche, economiche e sociali: “The other point of difference is, the greater number of citizens and extent of territory which may be brought within the compass of republican than of democratic government; and it is this circumstance principally which renders factious combinations less to be dreaded in the former than in the latter. The smaller the society, the fewer probably will be the distinct parties and interests composing it; the fewer the distinct parties and interests, the more frequently will a majority be found of the same party; and the smaller the number of individuals composing a majority, and the smaller the compass within which they are placed, the more easily will they concert and execute their plans of oppression. Extend the sphere, and you take in a greater variety of parties and interests; you make it less probable that a majority of the whole will have a common motive to invade the rights of other citizens; or if such a common motive exists, it will be more difficult for all who feel it to discover their own strength, and to act in unison with each other. Besides other impediments, it may be remarked that, where there is a consciousness of unjust or dishonorable purposes, communication is always checked by distrust in proportion to the number whose concurrence is necessary.” L’attuale “extended republic” statunitense ha fatto sì che venisse eletto un uomo che non ha ricevuto la maggioranza dei voti popolari ma, quale che sia il giudizio sul personaggio, ha fatto sì che una maggioranza che per ignoranza si suole definire di sinistra ma che in realtà viene turlupinata con una ideologia (e pratica operativa) composta da un feroce mercatismo e dall’esaltazione di farlocchi diritti non attinenti ai rapporti di forza e/o di collaborazione fra le varie classi ma al pubblico riconoscimento delle proprie intime pulsioni (che proprio perché intime, dovrebbero accuratamente rimanere fuori dalla sfera pubblica) sia rimasta a bocca asciutta facendo invece prevalere rozzi contadini, piccoli proprietari, operai, casalinghe, persone certamente con poca cultura libresca ma con grande cultura per quanto riguarda il senso di responsabilità e la comprensione che una “vita buona” non può certo venire dal proclamare il proprio orientamento sessuale (il quale è una cosa che va praticata e non certo declamata) e facendosi invadere da esotiche masse di disperati ma cercando di costruire col lavoro la propria esistenza. Saprà Trump tenere fede, seppur in minima misura, alle promesse fatte e riorientare nel senso dei padri fondatori, la vecchia “extended republic” che col magnate sta cercando di ottenere una sua reviviscenza? Difficile dirlo, Campa in proposito non è ottimista ma al di là di previsioni sempre molto difficili da formulare, bisogna riconoscere che Trump, nolens volens, ha innestato un processo con grandi potenzialità rivoluzionarie. Ma tornando alla lezione che l’America ha saputo dare in questa occasione al Vecchio continente e all’Italia in particolare, non si può pretendere che ciò venga oggi compreso dai ceti semicolti di sinistra e di destra e tantomeno dalle masse instupidite da settant’anni di pseudodemocrazia (e, ancor peggio, di pseudocomprensione del significato della stessa). Forse la lezione dovrebbe però essere compresa da coloro (molto pochi per la verità, temo) che un tempo furono ammiratori di un tale che sosteneva in politica valeva la massima dell’ “analisi concreta della situazione concreta”. Leniniana “analisi concreta della situazione concreta” che ha permesso a Trump di ottenere la presidenza degli Stati Uniti d’America e rifiuto della quale che fa sì che i ceti semicolti di destra e sinistra possano fare i cani da guardia delle masse sempre anonime e conculcate (brutto sogno quelle della moltitudine negriana!). Anche da Trump e dell’ “extended republic” statunitense (per carità, non dalla democrazia americana, mai esistita, nemmeno nei sogni dei maggiori fra i fondatori di quella nazione) bisogna quindi ripartire per impostare ex novo un discorso ed una pratica rivoluzionaria che basata sul lagrassiano conflitto strategico getti nella pattumiera della storia gli ultimi settant’anni di primitivismo teorico e pratico della politica italiana e dei cosiddetti paesi democratici occidentali.
Massimo Morigi – 15 dicembre 2016

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, di Gianfranco Campa

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, di Gianfranco Campa
Le elezioni presidenziali americane sono finite da più di un mese e solo ora, escluso qualche centinaia di migliaia di voti rimasti da contare, voti di americani residenti all’estero, i numeri definitivi delle elezioni danno un quadro preciso della situazione politica a stelle e strisce.
In attesa di scoprire tutte i nomi del gabinetto del governo Trump e le circa quattro mila nomine necessarie per riempire le posizioni vitali di competenza della nuova amministrazione, la cosa che possiamo fare è analizzare i dati definitivi del voto per comprendere meglio come l’evolversi della politica Americana e soprattutto cosa aspettarsi nel futuro.
Trump ha vinto la presidenza grazie al maggior numero di voti del collegio elettorale; 306 elettori contro i 232 di Clinton. Il voto popolare invece è appannaggio di Hillary Clinton; con qualche migliaio di voti ancora da contare, la Clinton è avanti di quasi 3 milioni di voti: intorno ai 65,800,000 voti contro i 62,900,000 di Trump. La composizione del collegio elettorale è ciò che ha spostato la bilancia in favore di Trump.
Una curiosita` statistica. Nessun altro candidato presidenziale aveva mai perso il voto popolare con un margine così largo, per poi vincere ugualmente le elezioni grazie ad una schiacciante vittoria nel collegio elettorale. Nel 2000, Bush aveva vinto la maggioranza del collegio elettorale battendo Al Gore, ma aveva perso il voto popolare di qualche migliaio di voti, una miseria.
Con quasi 63 milioni, Trump ha ottenuto il record per un candidato Repubblicano, superando il consenso ottenuto da Bush nel 2004 con poco più di 62 milioni di voti i quali permisero a Bush di battere John Kerry. L’elettorato Repubblicano ha quindi fatto la propria parte andando in massa a votare e raccogliendo anche il voto dei cosiddetti “democratici reganiani” i quali hanno sopperito alla mancanza di sostegno per Trump da parte dell’establishment repubblicano. Clinton d’altro canto non è riuscita a ricreare la coalizione Obamiana del 2008, quando Barak riuscì a portare alle urne una massa di elettori appartenenti sia al blocco democratico tradizionale, sia alle minoranze etniche, sia alla massa dei giovani, particolarmente quelli appartenenti al mondo studentesco. Obama nel 2008 ottenne quasi 69,500,000 di voti, il record assoluto per un candidato presidenziale americano. Obama si confermò Presidente nel 2012 aggiudicandosi quasi 66 milioni di voti contro i quasi 61 milioni di Romney. A conti fatti si deduce che ai democratici mancano 4-5 milioni di elettori rispetto al 2008, mentre Trump ha rivitalizzato il partito repubblicano rendendolo più competitivo rispetto al passato e posponendone l’annunciato declino ancora di qualche anno. Più che il voto sommerso, Trump è stato bravo a raccogliere in massa l’elettorato repubblicano, mentre per la Clinton ha ceduto il muro blu del “Rust Belt.”
In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi:
• il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sitema a collegio elletorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.
• Il secondo motivo era di dare più equilibrio ai singoli Stati dell’Unione assegnando potere anche agli Stati più piccoli. Per esempio in un sistema maggioritario, stati e centri urbani più popolosi decidono le sorti dell’intera nazione, lasciando larga parte del paese alla mercé decisionale di chi vota in posti come la California, New York, Washington e Chicago. Essendo gli Stati Uniti un paese enorme, ci sono rimarcate differenze culturali ed esistenziali fra le varie zone del paese; i cittadini di San Francisco ad esempio hanno esigenze e ideologie diverse rispetto a chi vive nell’Idhao oppure nella Louisiana. Per quanto riguarda il collegio elettorale, la vittoria di Trump non è stata ancora ufficializzata, poiché il collegio si riunirà solo il 19 di dicembre. In teoria Trump non è ancora il presidente eletto.
Tornando ai numeri. Trump ha vinto in 30 Stati più il secondo distretto congressionale dello Stato del Maine. Clinton ha vinto 20 Stati piu il Distretto di Columbia. Clinton ha vinto in California con più del doppio dei voti, 8,600,000, contro i 4,400, 000 di Trump; da qui la ragione della larga differenza nel voto popolare a favore di Clinton. Trump ha vinto in più contee rispetto alla Clinton, 2,623 contro le 489, dipingendo la mappa poltica americana di un profondo Rosso repubblicano e marginalizzando il potere democratico agli stati costieri e ai grossi centri urbani. Nel mezzo la maggior parte del paese è conservatore, dando così ancor più risonanza alle differenze tra i vari centri del paese. Il contadino texano è lontano anni luce dal professionista High Tech della Silicon Valley. Il metalmeccanico dell’Ohio vede il mondo completamente agli antipodi rispetto al cittadino elitista di Manhattan. Il minatore del West Virginia concepisce la vita in maniera porfondamente diversa rispetto all’intelletuale Bostoniano. Il piccolo imprenditore della Florida vive la vita in maniera più articolata rispetto al fumatore di marijuana del Colorado.
La sconfitta di Clinton è stata sì una sorpresa, ma i sondaggi non erano poi così sbagliati, vista la differenza nel voto popolare tra la Clinton e Trump. Alla fine la Clinton ha vinto il voto popolare con una percentuale di 3-4 punti il che è in linea con i sondaggi preelettorali.
La Clinton ha perso per un motivo tattico più che per uno sbaglio di interpretazione del voto popolare. I democratici sapevano che la larga popolazione minoritaria degli Stati Uniti, in particolare quella latina, avrebbe fatto la differenza in Stati come il Nevada, il Colorado e il Nuovo Messico. L’avanzata dell’immigrazione latina, sempre favorevole ai Democratici, ha trasformato, nell’ultimo decennio, stati tradizionalmente più conservatori come per esempio il Nevada, in Stati solidamente Blu. L’onda blu si è arrestata temporaneamente, grazie agli Stati cosidetti del Rust Belt, cioe` Indiana, Michigan, Pensylvania, Ohio, Wisconsin. Questi sono stati tradizionalmenti democratici, che hanno votato fedelmente il partito democratico per quasi 30 anni. Clinton qui ha commesso il suo errore tattico; considerare come sicuri questi Stati, tanto da visitare, durante tutta la campagna presidenziale, tra gli stati del Rust Belt, una sola volta il Wisconsin.
I democratici hanno fallito nel capire che in questi Stati la perdita di quei posti manifatturieri impacchettati e spediti oltre i confini nazionali, in Messico, Cina, Vietman, Canada ect. ha alienato una popolazione che aveva un disperato bisogno di un cambio epocale. In questi stati la tradizionale classe media bianca, forma ancora la maggioranza della popolazione e non ha subito, per il momento, un impatto decisivo nei flussi immigratori, come per esempio in California. L’ultima volta che questi Stati hanno votato Repubblicano è stato con la candidatura di Reagan; ecco perché gli elettori che hanno eletto Trump, nel Rust Belt, portano la nomina di democratici reganiani.
Quando Trump, nell’ultimo mese della campagna, visitava freneticamente la Rust Belt, i mass media lo tacciavano di essere alla disperazione; in realtà Trump aveva capito che in questi Stati, per la prima volta in decenni, il voto era di nuovo in gioco a favore dei Repubblicani.
Il cambio demografico dell’America avvantaggia i liberali progressisti, la larga maggioranza dei non-bianchi vota democratico. I bianchi ora sono il 62% della popolazione, in 10 anni saranno appena il 48-50%. Il futuro è in mano esclusivamente ai democratici con la conferma di queste dinamiche. Credo fortemente che queste elezioni siano state il colpo di coda di un partito Repubblicano che, se non si rifonda completamente, non governerà più per i prossimi cento anni. Trump ora dovrà, per arginare l’onda blu, posizionarsi verso il centro e ammorbidire alcune delle sue vedute (soprattutto in termini di leggi immigratorie) per potersi assicurare fra quattro anni la rielezione; anche perché difficilmente i democratici rifaranno lo stesso errore due volte, scordarsi cioè di fare appello all’elettorato del Rust Belt.
Nel frattempo, per i prossimi quattro anni i Repubblicani avranno la maggioranza sia alla Camera che al Senato. L’en plein elettorale repubblicano non deve però confondervi. I repubblicani hanno sì il controllo virtualmente dell’intero apparato politico a Washington, ma rispetto alle elezioni intermedie del 2014 hanno perso qualche rappresentante al Senato. I repubblicani passano da 54 a 52 rappresentanti perdendo due senatori; una maggioranza sì, ma striminzita visto che non è a prova di “filibuster”. Va un po’ meglio alla Camera, dove i repubblicani hanno 238 seggi contro i 194 dei democratici. Un margine a prova di qualsiasi ostruzionismo democratico. Anche qui bisogna dire però che i Repubblicani hanno perso, rispetto al voto del 2014, sei seggi andati a favore dei Democratrici.
I numeri quindi ci dicono che i Repubblicani hanno vinto su tutta la linea, anche se il credito va dato non alla capacità dei repubblicani di stimolare i propri votanti, bensì al carisma di Donald Trump che è riuscito con la sua personalità e idea politica a creare un movimento d’urto, uno sbarramento all’avanzata blu democratica che dopo le elezioni di Obama nel 2008 sembrava inarrestabile, portando a votare ai seggi gente che non era stata certamente ispirata ad andare alle urne a votare candidati presidenziali come McCain o Romney.
Le elezioni intermedie per la Camera e Senato del 2018, ci diranno quale giudizio gli americani si saranno fatti della presidenza di Trump. Se i Repubblicani manterrano il controllo del Senato e della Camera, allora il 2020 farà loro meno paura e Trump avrà una seria possibilità di essere rieletto.

DIALECTICUS NUNCIUS, di Massimo Morigi

Alfred Eisenstaedt – ‘Weathervane in Vermont’, early 1940

Dialecticvs Nvncivs, di Massimo Morigi

Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis

Il momento dialettico è il superarsi proprio di tali determinazioni finite e il loro passare nelle determinazioni loro opposte. La dialettica viene usualmente considerata come un’arte estrinseca che arbitrariamente porta confusione in concetti determinati e produce una semplice apparenza di contraddizioni in essi, in modo che non queste determinazioni, ma quest’apparenza sarebbe un nulla e l’intellettivo invece sarebbe il vero. Spesso la dialettica è anche nient’altro che una sorta di altalena soggettiva di ragionamenti che vanno su e giù e dove manca ogni contenuto effettivo e la nudità viene nascosta semplicemente dalla sottigliezza che produce un tale raziocinare. – Nella sua determinatezza peculiare la dialettica è piuttosto la natura propria, vera, delle determinazioni dell’intelletto, delle cose e del finito in generale. La riflessione è dapprima l’oltrepassare la determinazione isolata e il metterla in relazione; così questa determinatezza viene messa in rapporto e, per il resto, viene conservata nella sua validità isolata. La dialettica invece è questo immanente oltrepassare, in cui l’unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell’intelletto si espone per quello che è, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l’anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, § 81

Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico,(1) oltre alla “falsificazione” di Marx, innumeri volte rappresentata da La Grassa in tutta la sua opera e ora per ultimo di nuovo molto opportunamente ripetuta nella Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli), la nascita mai avvenuta della nuova classe al potere del lavoratore collettivo cooperativo associato, sulla quale ci soffermeremo fra poco, siamo di fronte a due ulteriori “crampi” del pensiero marxiano che, uniti alla “falsificazione” di cui sopra ci consentono davvero, alla luce dell’impostazione conflittuale-strategica lagrassiana, di compiere un passo decisivo per lo sviluppo delle scienze sociali e storiche che, non solo rivoluzionino gli attuali paradigmi teorici, ma anche possano dare l’inizio ad una reale prassi sociale anch’essa rivoluzionaria rispetto agli stantii paradigmi politici democraticistici. Partiamo, molto semplicemente, dal passo fondamentale del Capitale dove Marx individua il carattere del tutto ideologico dell’allora (e tuttora) imperante economia politica: «Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.»(2) Marx ci dice quindi, al contrario di quanto sostenevano gli economisti classici (e di quanto sostengono ancor oggi gli attuali economisti), che è la storia e non la natura a produrre la società dominata dal capitalismo e che, di conseguenza, le presunte leggi economiche non sono per niente naturali ma totalmente dovute all’umana evoluzione storica. Questo totale cambio di paradigma segna ad un tempo la grandezza ed anche l’enorme ed invalicabile limite di Marx (e di tutte le varie scuole di pensiero e di azione che da lui prenderanno origine). Detto in estrema sintesi: vero è che la società capitalistica e le presunte leggi dell’economia non hanno affatto l’ineluttabilità della natura ma sono di pura origine storico-sociale. Falso è, come invece traspare chiaramente dal testo appena citato, che sussista una suddivisione reale fra natura e storia. Come ho già affermato in altri luoghi, questa errata epistemologia è l’errore più grande di tutta la tradizione filosofica occidentale, alla quale, con risultati del tutto insoddisfacenti, cercarono di porre rimedio Hegel e Schelling e che, quindi, non si può fare particolare biasimo a Marx per esservi ricaduto. Ma se non si può certo biasimare in particolare Marx per questo errore, sul piano del giudizio storico sono del tutto da deprecare i problemi derivatine. La conseguenza, veramente nefasta, è stata una visione terribilmente ristretta del metodo dialettico dove da una parte, cioè nel cosiddetto Diamat – sviluppo teorico finale delle cosiddette tre pseudoleggi dialettiche di Engels illustrate nella sua Dialettica della Natura e nell’Anti-Dühring (conversione della quantità in qualità, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione, tre leggi che sono la scimmiottatura della logica aristotelica) –, la dialettica è diventata una forma corrotta di pensiero positivistico e che, sulla linea dell’ineluttabilità di queste leggi pseudodialettiche engelsiane, ha smesso, appunto, di essere dialettica per trasformarsi in instrumentum regni dei regimi totalitari del socialismo reale; dall’altra parte, invece, cercando di preservare i limiti di libertà e di creazione prassistica dell’azione che dovrebbe consentire la dialettica stessa, si è cercato di staccare la dialettica dalla comprensione dei fenomeni naturali, gravissima perdita gnoseologica il cui esempio più famoso è quello di György Lukács, dove in Storia e Coscienza di Classe affermò che «Questa limitazione del metodo alla realtà storico-sociale è molto importante. I fraintendimenti che hanno origine dall’esposizione engelsiana della dialettica poggiano essenzialmente sul fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura. Mentre nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l’interazione tra soggetto ed oggetto, l’unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione nel pensiero, ecc. Purtroppo è qui impossibile discutere di questi problemi in modo più minuzioso.»(3) Altrove, sempre in Storia e Coscienza di Classe, Lukács sembra arrivare quasi ad un passo dallo scioglimento del nodo gordiano fra storia e natura che lo ha bloccato nel passo appena citato. Ad un passo senza mai arrivarci e non ci vuole molta immaginazione per vedere dove poggiasse questa impossibilità di “discutere di questi problemi in modo più minuzioso”: certamente non solo di natura teorica ma, soprattutto, di natura molto, molto pratica …(4) Torniamo ora a Marx, quando afferma nella prefazione alla prima edizione del Capitale con una evidente contraddizione (per niente dialettica) rispetto al passo sempre del Capitale appena citato: «Una parola ad evitare possibili malintesi. Non ritraggo per niente le figure del capitalista e del proprietario fondiario in luce rosea. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto sono la personificazione di categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti e determinati interessi di classe. Il mio punto di vista che considera lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi.»(5) Qui la società è quindi per Marx assimilabile ad una sorta di processo naturale, gli uomini piuttosto che agire in esso sono agiti da forze che li sovrastano e la loro natura, insomma, è quella del Gattungswesen, un ente naturale generico determinato dalle leggi e dalle forze che agiscono nella società stessa.(6) In questo passaggio si sviluppa sì una linea di pensiero che unisce società e natura ma è una linea di pensiero similpositivistica, anticipatrice della Dialettica della Natura e dell’ Anti-Dühring di Engels prima e poi del Diamat di cui abbiamo già detto. Veniamo ora ai nostri giorni. IL conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa nasce dopo la definitiva consunzione, filosofica prima che politica, di tutta la tradizione marxista che, se a livello storico-politico, è crollata per la tragicomica inefficienza economica dei vari sistemi socialisti effettivamente storicamente realizzatisi unito alle lusinghe (totalmente) false del paese dei balocchi della forma di stato “democratico-capitalistica”, sul piano teorico e filosofico aveva fatto bancarotta in ragione del suo economicismo, che prendeva le forme ideologiche di stato “diamattine”, di un positivismo degradato, di modelli economici meno inefficienti di quelli del cosiddetto “libero mercato” capitalistico e, last but not the least, di una visione filosofica dell’uomo come Gattungswesen, un ente naturale generico completamente sottoposto alle determinazioni sociali, con la non irrilevante conseguenza che alla mitizzata classe operaia (mito che era una versione degradata del marxiano lavoratore collettivo cooperativo associato) veniva riservato un trattamento da Gattungswesen, appunto, mentre alla nomenklatura veniva, in pratica, violentemente concesso di “elevarsi al di sopra” di essa; realizzando cioè nella prassi, a solo uso e consumo della burocratica classe dominante, un compiuto modello conflittuale-strategico, in cui il dominato era la tanto mitizzata (e presa per il fondelli) classe operaia-gattungswesen. Il conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa, portando esplicitamente il conflitto al centro dell’interpretazione della società, mantiene e approfondisce la fondamentale critica marxiana sulla naturalità dell’economia politica, chiude quindi definitivamente con tutta questa tradizione marxista economicistico-positivistica da una parte (diamat, altrimenti detto marxismo orientale) o dialettico-dimidiata dall’altra (il cosiddetto marxismo occidentale: uno dei massimi esempi di questa seconda – ben più feconda però per il futuro, nonostante le segnalate contraddizioni, della derivazione diamattina – quella avanzata da György Lukács in Storia e Coscienza di Classe) e però, per il completo sviluppo rivoluzionario del suo paradigma, è per il Repubblicanesimo Geopolitico assolutamente necessario un dialettico riorientamento gestaltico sia del conflitto strategico che del suo stesso concetto.(7) Questo riorientamento passa A) attraverso un deciso abbandono della mainstream impostazione della cultura occidentale che vede una suddivisione fra storia e natura (o cultura e natura: sotto questo punto di vista, l’annullamento cioè dell’antidialettico discrimine fra natura e cultura, è possibile ricuperare e superare, rovesciandolo, il significato del concetto di alienazione, facendolo, cioè, poggiare saldamente sui piedi di un sodo realismo politico e di un’altrettanto concreta epistemologia politico-filosofica prassistica anziché su una testa positivista e/o genericamente gattungsweniana; l’uomo, comunque si intenda il marxiano Gattungswesen – in senso deterministico-positivista o come un segno delle sue potenzialità e libertà – non è un ente generico, ma, se vogliamo, un ente naturale strategico, anzi il massimo ente strategico prodotto dalla natura, o per dare conseguente e migliore definizione a quanto fin qui affermato, il massimo ente strategico prodotto dalla natura/cultura – per un approfondimento su questo inestricabile rapporto natura/cultura e sull’uomo ente naturale strategico, il presente nunzio anticipa Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico per una Fenomenologia della Dialettica della Natura e della Cultura attraverso il Conflitto Espressivo-Cognitivo-Evoluzionistico-Strategico. Nuovo Nomos della Terra, Nuovo Principe, Rivoluzione e Dialettica della Filosofia della Praxis Espressiva, Conflittuale e Strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (Aufhebung della Rivoluzione e dell’Azione Strategica nello Sviluppo Storico-Dialettico della Cultura e della Natura), di prossima pubblicazione –, una nuova semantica dell’alienazione così interpretata ed indagata, contrariamente all’ accezione negativa marxiana, attraverso il rioerientamento compiuto su di questa dal concetto e dalla prassi dell’azione-conflitto strategico e, perciò, come la felice concreta manifestazione della dialettica di tale conflitto; felice da un punto soggettivo, è ovvio, solo se questo processo alienante è vissuto consapevolmente e strategicamente da un agente alfa-strategico e non risulta, invece, dall’imposizione di un dominio esterno di un agente alfa-strategico su un agente omega-strategico – sulle dinamiche dei rapporti fra agenti alfa-strategici e agenti omega-strategici, i portatori storici, quest’ultimi, del negativo marxiano significato originario di ‘alienazione’ e, quindi, il permanente lato ‘infelice’ dell’alienazione, cfr. la Teoria della Distruzione del Valore. Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo, riferimenti bibliografici in nota 1) e passa quindi B) attraverso un ripudio delle categorie positivistiche, in primis quella di legge di natura deterministica e immodificabile ed immutabile. Insomma, e qui dissento da La Grassa, il punto non è se il pensiero possa o meno riprodurre la realtà, il punto è che il pensiero, se realmente pensiero strategico, produce la realtà. E ora mi taccio, in parte perché la giustificazione di questa mia ultima affermazione dovrebbe essere trovata nelle parole che l’ hanno qui preceduta (e che, oltre a quanto si è già precedentemente scritto o ora espresso nel presente Dialecticvs Nvncivs – che introduce le prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico che svolgono, attraverso il taglio del nodo gordiano natura/cultura o storia/natura, la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico stesso –, sono sulla falsariga di una filosofia della praxis che, partendo dalle marxiane Glosse a Feuerbach, approda prima in Giovanni Gentile – cfr. del filosofo dell’attualismo La Filosofia di Marx del 1899 – e poi nella filosofia della praxis compiutamente espressa da Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere)(8) e in parte perché, oltre La Grassa, altri grandi (vedi la teoria del rispecchiamento di Lenin(9) in Materialismo e Empiriocriticismo), hanno sempre espresso una differente opinione, un contraddittorio che necessita acribia e una puntuta analisi delle relative fonti e non certo il presente discorso da intendersi solo come inquadramento generale – anche se con tutta la dignità ed autorevolezza che, in via di consolidata storica consuetudine, ogni nunzio merita che gli si accordi – del necessario e, ormai, non più rinviabile dibattito.

Massimo Morigi, luglio-dicembre 2016

NOTE

1-L’occasione per l’elaborazione di questo punto di vista, Dialecticvs Nvncivs, oltre che dai precedenti lavori sul Repubblicanesimo Geopolitico, nasce originariamente come commento di Massimo Morigi in data 16 luglio 2016 all’intervista a Gianfranco La Grassa Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli). Il commento all’intervista è agli URL http://www.conflittiestrategie.it/commento-di-massimo-morigi-allintervista-di-gianfranco-la-grassa-intervista-teorica-di-g-la-grassa-di-f-ravelli-pubblicata-su-conflitti-e-strategie; http://www.webcitation.org/6j4Ecswj9;
http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.conflittiestrategie.it%2Fcommento-di-massimo-morigi-allintervista-di-gianfranco-la-grassa-intervista-teorica-di-g-la-grassa-di-f-ravelli-pubblicata-su-conflitti-e-strategie&date=2016-07-17 ed è presente pure come commento sulla pagina di presentazione dell’intervista stessa caricata su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi (l’intervista è poi scaricabile direttamente sempre su Internet Archive all’URL
https://ia601204.us.archive.org/32/items/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi/IntervistateoricaAG.LaGrassadiF.Ravelli.html). L’ Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli) è stata inizialmente pubblicata in data 15 luglio 2016 sul sito di “Conflitti e Strategie” e su questo sito è all’URL http://www.conflittiestrategie.it/intervista-teorica-a-g-la-grassa-di-f-ravelli e, vista la sua importanza si è pure provveduto di caricarla, oltre presso i già citati https://archive.org/details/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi e https://ia801204.us.archive.org/32/items/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi/IntervistateoricaAG.LaGrassadiF.Ravelli.html, anche ricorrendo alla ridondanza di WebCite all’URL http://www.webcitation.org/6jFLY1dNh. Per ultimo si segnala che il Dialecticvs Nvncivs è stato preceduto, oltre che da tutta la precedente elaborazione presente nel Web sul Repubblicanesimo Geopolitico, specificatamente da tre lavori: la Teoria della Distruzione del Valore. (Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo), Repubblicanesimo Geopolitico. Intervista al professor Massimo Morigi e Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Saggio sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi). La Teoria della Distruzione del Valore, oltre che essere sparsa in vari luoghi del Web, è recuperabile agli URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore;https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04 e http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n. L’intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico, curata da Giuseppe Germinario, oltre ad essere visionabile su “Conflitti e Strategie” e su YouTube, rispettivamente agli URL http://www.conflittiestrategie.it/repubblicanesimo-geopolitico-intervista-al-professor-massimo-morigi e https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8, è stata anche caricata su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi e https://ia600508.us.archive.org/8/items/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi.mp4. Infine Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Saggio sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), prima parte sotto l’aspetto di una morale pubblica dialettica e di una conseguente filosofia della prassi che trovi la sua raggiunta entelechia in una pienamente manifestata epifania strategica di un trittico sul Repubblicanesimo Geopolitico che comprende oltre il presente lavoro anche il di prossima pubblicazione Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico (cfr. in proposito la nota introduttiva di Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats), è anch’esso tramite motori di ricerca reperibile in vari luoghi del Web o può essere direttamente visionabile e scaricabile ai seguenti URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297;https://ia801501.us.archive.org/11/items/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSullaMoralitaDelRepubblicanesimoGeopolitico.pdf;http://www.webcitation.org/6lXceRo2L;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Farchive.org%2Fdetails%2FRepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297&date=2016-10-26; https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf:DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320.

2- Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200.

3- György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, Milano, Sugar Editore. p. 6. In Codismo e Dialettica, concepito per rispondere alle accuse di chi aveva giudicato Storia e Coscienza di Classe di non essere opera marxista ma bensì idealista, Lukács comincia a rispondere a questi problemi davvero in modo più minuzioso e, a proposito del problema dell’applicabilità nei vari campi del sapere e dell’attività umana del metodo dialettico, fornisce una regola veramente aurea che oggi è anche fatta propria – ma poco merito, un po’ di storia, di tragedie, di filosofia, di scienze biologiche, informatiche, fisiche, di epigenetica, di teoria del caos e di meccanica quantistica sono da allora passate sotto i ponti, discipline per una trattazione delle quali, sotto l’aspetto del loro decisivo apporto per una rifondazione della dialettica, il nunzio rimanda ancora a Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, cit., di imminente pubblicazione – dalla dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico. Questa regola si esprime in questi termini: non è che la spiegazione dialettica debba sostituire in toto la spiegazione meccanicistico-causale ma deve essere in testa, rispetto a quella meccanistico-causale, nella gerarchia della preferenza fra le due (e oltre sotto l’aspetto dell’explanandum per il quale deve occupare questo primo posto, dal punto di vista dell’explanans, cioè della dialettica dell’origine del modello teorico stesso, occupa questo primato gerarchico perché 1) per quanto sia meccanico, un modello esplicativo esso come modello risale come genesi alla struttura dialettica della totalità, se no si è in presenza, per la sua isolata e presunta autosufficienza, ad un principio teologico, valido unicamente in ragione di una cieca fede nello stesso e quindi 2) esso è concretamente ed operativamente costituito da elementi del mondo anch’essi rapportati empiricamente e dialetticamente con la totalità, se no si ricade in fattispecie religiose già evidenziate in 1). Che poi non tutte le spiegazioni impiegate dalle scienze, allo stato attuale dello sviluppo delle conoscenze e del conseguente concreto sviluppo della dialettica della filosofia della praxis, non rispondano formalmente ad una legalità dialettica, poco importa. Quello che importa realmente è essere consapevoli della necessità di questo rovesciamento nella gerarchia delle spiegazione e della dialetticità del reale, quella dialetticità che se assunta come forma mentis ed agendi è la sola condizione necessaria e sufficiente per generare mutamenti autenticamente rivoluzionari e quindi veritativi: «Nel materialismo dialettico il problema strutturale viene risolto storicamente (cioè mostrando la genesi concreta, reale e storica della struttura data), e il problema storico viene risolto teoricamente (cioè mostrando la legge che ha prodotto il contenuto concreto dato) [il Repubblicanesimo Geopolitico dice: cioè mostrando che è il principio dell’azione/conflitto/dialettico/epressivo/strategico – e non una galileana meccanica e predestinante legalità esemplata sul modello di presunte leggi di natura – ad avere prodotto il contenuto concreto dato, ndr]. Ecco perché Marx, a proposito del susseguirsi delle categorie economiche, scrive: “La loro successione è determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico”. [ndr: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, introduzione di Maurice Dobb, traduzione di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 196] Da ciò comunque, cioè dal fatto che il processo oggettivamente reale è esso stesso dialettico e che l’origine reale e l’intreccio della conoscenza che gli corrisponde adeguatamente siano essi stessi dialettici, non segue affatto che ogni conoscenza debba apparire nella forma di conoscenza del metodo dialettico [corsivo di Lukács: nel Dialecticvs Nvncivs le evidenziazioni del testo delle citazioni, dove non di mia espressa autoattribuzione, sono di Lukács]. L’affermazione del giovane Marx: “La ragione è sempre esistita ma non sempre in forma razionale” [ ndr: lettera di Karl Marx ad Arnold Ruge scritta nel settembre 1843 da Kreuznach, in Arnold Ruge, Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo e traduzione di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Milano Edizioni del Gallo, 1965, p.81] vale anche per la dialettica. Dipende dalla struttura economica della società e dalla posizione di classe che il conoscente assume in essa, se fino e a che punto un rapporto oggettivamente dialettico assuma forma dialettica nel pensiero, se e fino a che punto gli uomini possano diventare coscienti del carattere dialettico del rapporto dato. In determinate circostanze può accadere che esso non appaia affatto dal punto di vista del pensiero conoscitivo; oppure può apparire sotto forma di contraddizione irrisolvibile, come antinomia; può essere compreso adeguatamente sotto certi aspetti, senza che possa essere determinato correttamente il suo giusto posto nello sviluppo complessivo etc. Da quanto abbiamo detto finora è chiaro che tali conoscenze possano comunque essere, almeno in parte, oggettivamente giuste. Ma solo quando lo sviluppo storico della società è progredito fino al punto che i problemi reali che stanno alla base di queste contraddizioni etc. sono storicamente risolti, oppure che la loro soluzione non è lontana, solo allora può essere trovata la conoscenza teoricamente giusta e dialettica. In altre parole: la soluzione, il superamento di una contraddizione dialettica viene prodotta dalla realtà nel processo storico reale. Il pensiero può, a certe condizioni, anticipare mentalmente questi processi, ma solo quando il loro superamento esiste oggettivamente nel processo storico effettivo come una reale tendenza di sviluppo (anche se magari come tendenza ancora immatura dal punto di vista della prassi). E se questo rapporto con il processo storico reale non è divenuto pienamente cosciente, se quel problema dialettico non viene ricondotto al suo fondamento concreto e materiale, l’anticipazione mentale deve necessariamente rimanere incastrata nell’astrazione e nell’idealismo (Hegel).»: György Lukács, Codismo e Dialettica (titolo originale del manoscritto: Chvostismus und Dialektik), ed. it. Idem, Coscienza di Classe e Storia: Codismo e Dialettica, postfazione di Slavoj Žižek, Roma, Alegre, 2007, pp. 86-88. Purtroppo, la succitata regola d’oro non doveva risultare, evidentemente, di facile applicazione, perché costante è in Codismo la tensione fra la piena applicazione della predetto ordine gerarchico fra i due tipi di spiegazione e un piegarsi agli idola fori della gnoseologia del tempo che, nonostante quanto avrebbe voluto una conseguente ed integrale applicazione della appena esposta filosofia della prassi, finiva con l’accettare, de facto, una divisione di ambiti – usando un’area semantica compatibile con la Weltanschauung conflittuale/strategica della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico, noi ancor meglio diremmo una divisione delle sfere d’influenza – fra spiegazione meccanicistica e spiegazione dialettica, con complementariamente inevitabile separazione ontologica fra società e natura che da questa impostazione natural-meccanicistica consegue: «Fino a che, tuttavia, non siamo in grado di mostrare in senso storico-genetico l’origine delle nostre conoscenze a partire dalla loro base materiale concreta – cioè non solo il fatto “che” esse siano, ma anche “cosa” e “come” – come fece Marx per le nostre conoscenze storico-sociali, la nostra visuale sarà manchevole di un importante e oggettivo momento della dialettica: la storia. Ribadisco che non mi passa affatto per la testa di negare che le scienze della natura comprendano elementi della visione storica, che in essi ci sono gli inizi (Kant-Laplace, Darwin etc.) di quella “scienza unitaria della storia” richiesta da Marx. Anche la conoscenza sociale premarxista conteneva elementi storici (Steuart, Hegel, gli storici francesi etc.) ma una conoscenza realmente e storicamente dialettica la si trova solo in Marx ed è sorta come conoscenza dialettica del presente in quanto momento del processo complessivo. Nessuno vorrà però sostenere che questi elementi storici si trovino al centro delle problematiche delle moderne scienze della natura o che proprio le scienze naturali più sviluppate e che fanno da modello metodologico per le altre si occupino coscientemente di queste problematiche. Viste tali questioni, sarebbe necessario, da un lato, chiarire per quali epoche o periodi valgano determinate conoscenze, poiché esse colgono col pensiero i loro rapporti specifici, storici, oggettivi e reali; dall’altro comprendere dialetticamente la genesi necessaria delle conoscenze a partire dallo stesso processo storico oggettivo e reale. (Per quanto concerne le conoscenze economiche si esprime chiaramente Engels). In che misura le conoscenze della natura possono essere trasformate in conoscenze storiche, ovvero, se si diano fatti materiali in natura che non mutano mai la loro struttura, oppure soltanto in periodi di tempo così lunghi che essi non possono essere percepiti come mutamenti dalla conoscenza umana, non è questione che possa essere trattata qui, poiché anche laddove ci sembra che sviluppi storici sono avvenuti, il loro carattere storico può ora essere affermato solo in misura molto limitata. Ciò significa che noi siamo spinti fino a conoscere che la storia dell’umanità deve essere preceduta da uno sviluppo storico oggettivo che copre un infinito lasso temporale, ma le fasi di passaggio tra questa storia e la nostra ci sono tuttavia note solo in piccola parte o, addirittura, per nulla. E ciò non avviene perché materiali a disposizione oggi siano ancora insufficienti o a causa del temporaneo sottosviluppo dei nostri metodi di ricerca (molte scienze della natura surclassano le scienze della storia per quanto concerne la precisione [sottolineatura nostra ad evidenziare quanto anche in Lukács agisse prepotentemente il pregiudizio di una maggiore “scientificità” delle cosiddette scienze della natura rispetto alle scienze sociali e storiche: per un definitivo e minuziosamente argomentato rigetto di questo fondamentale e fondante errore di tutta la tradizione filosofica della modernità occidentale, errore che non è altro il negativo fotografico dell’altro fondante e fondamentale errore di questa tradizione, cioè l’illusoria e fantasmatica separazione ontologica ed empirica fra natura e cultura, Dialecticvs Nvncivs rinvia per l’ennesima volta a Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, cit., di prossima pubblicazione]) ; ciò avviene perché la capacità di scoprire i fondamenti materiali della conoscenza e di derivare dialetticamente quest’ultima dalla sua base materiale, non è stata ancora prodotta dallo sviluppo oggettivo reale. Gli scienziati migliori si trovano perciò dogmaticamente prigionieri, come ad es., Ricardo rispetto alla società capitalistica (i peggiori sono divorati dallo scetticismo e possono essere qui considerati solo come sintomo di una crisi). Ciò non impedisce loro affatto – come mostra l’esempio di Ricardo – di raggiungere conoscenze oggettivamente valide, lo stesso Ricardo ne ebbe in alcuni campi. Ciò che è loro impossibile è di chiarire le contraddizioni che sorgono dal materiale concreto e mostrarle come contraddizioni dialettiche, di mostrare i momenti singoli come momenti di un processo storico unitario e, come è stato indicato prima, di ordinarli al tempo stesso teoricamente e storicamente in un contesto complessivo. Una tale storicizzazione delle scienze della natura, una crescente penetrazione nella loro origine (ad es., la consapevolezza del loro carattere geocentrico) le renderebbe tanto poco “relativiste” quanto lo sono diventate le scienze sociali come risultato della penetrazione marxista nella genesi reale della [sic] loro conoscenze. Tutto l’opposto. »: Ivi, pp. 96-97. È sempre difficile discernere in un autore (come nella vita di tutti i giorni) quanto una scelta sia dettata da convinzione e quanto, invece, dalla preoccupazione – molto concreta e realistica nel caso di Lukács – delle conseguenze personali e politiche del comportamento o del messaggio che si intende rendere pubblico. Le parole conclusive di Codismo appena citate, nel loro incerto e tortuoso procedere teorico, ci fanno propendere per la seconda ipotesi ma non nel senso di una egoistica tutela personale ma nel significato di un tentativo di tutela, anche se solo difensivistico, della dialettica dalla deriva positivistica che poi avrebbe definitivamente preso la forma del Diamat staliniano: «Per Engels, dunque, l’aver parzialmente omesso le mediazioni che gli hanno reso possibile la sua conoscenza dialettica e che appartengono oggettivamente a questa conoscenza, costituisce semplicemente un episodio. E se si trattasse solo di Engels, si potrebbe tranquillamente lasciare cadere la questione, oppure essa potrebbe essere una questione inessenziale da trattare in modo storico-filologico. Poiché però queste lacune vengono ampliate entusiasticamente ed erette a Sistema del Marxismo allo scopo di liquidare la dialettica, allora bisogna sottolineare con forza questi aspetti. La tendenza di Deborin e Rudas è evidente: essi vogliono – usando le parole di Marx ed Engels – fare del materialismo storico una “scienza” nel senso borghese, poiché essi non possono rinunciare a ciò che tiene in vita la società borghese e la sua concezione della storia, né al carattere puramente spontaneo dell’accadere storico, perché essi […: periodo non completo perché la pubblicazione di Codismo si è basata su un manoscritto mutilo di alcune pagine, ndr ]. »: Ivi, p. 118. La realtà teorica e politica era invece molto più cruda e (in tutti i sensi) molto più pericolosa di quella che in queste parole conclusive di Codismo Lukács si sforzava di voler rappresentare. L’abbandono e/o il depotenziamento della dialettica con la conseguente deriva positivistica in Engels non era un episodio ma la sua vera nota di fondo (vedi Anti-Dühring e Dialettica della Natura, opere nelle quale vengono esplicitate, in una vera e propria inconsapevole parodia della logica aristotelica, le tre farlocche engelsiane leggi dialettiche: la legge della conversione della quantità in qualità, la legge della compenetrazione degli opposti, la legge della negazione della negazione) e Deborin e Rudas non intendevano affatto perpetuare culturalmente e socialmente la società borghese ma criticando Storia e Coscienza di Classe (anche se la critica partiva dal corretto presupposto dell’insostenibile e niente affatto dialettica contraddittorietà dell’impostazione lukacsiana di una divisione fra società e natura – separazione, fra l’altro, come abbiamo visto, molto “opportunistica” e alla quale nemmeno Lukács, ad attenta analisi, mostra di credere – dove per la natura non sarebbero valse le impostazioni dialettiche), agivano oggettivamente e con convinzione nel senso di creare sì una dialettica unificata fra questi due ambiti ma una dialettica falsa e positivizzata alla Engels. Il senso profondo quindi della reazione di Lukács, vero e proprio Defensor Dialecticae, era di creare una sorta di ridotta gnoseologica dove almeno lì sarebbe valsa la vera dialettica. Evidenti ragioni storico-politiche del secolo della violenza e degli sterminii organizzati su base scientifica e dei totalitarismi prima ancora che ragioni teoriche, resero questa difesa impossibile. Compito di chiunque voglia lasciarsi per le generazioni future lo strazio novecentesco alle spalle non è tanto proclamare vuoti slogan politici (oggi dopo la caduta dei regimi socialisti, totalmente di marca democratico-liberal-liberista) ma raccogliere quella bandiera dialettica che all’insegna di una vera filosofia della prassi possa costituire un reale progresso (per una volta sia consentito usare questo termine) rispetto agli immani lutti che non solo non ci siamo lasciati alle spalle ma che continuano non contrastati se non dalle vuote retoriche democraticistiche, una “distrazione/distruzione di massa” democraticistica vero frutto autentico e legittimo del secolo che ci ha lasciati poco più di un decennio fa e che non contrastato continua nei suoi nefasti – ma perciò pure rivoluzionari – effetti anche nel presente.

4- Se non arrivò mai a compiere questo passo, Lukács, attraverso il magistero marxiano ed in asprissimo contrasto col revisionismo, comprese assai bene la falsa “naturalità”, la farlocca “inevitabilità” ed il presunto “determinismo” delle presunte “leggi naturali” dell’economia. Storia e Coscienza di Classe è totalmente percorsa da questa consapevolezza prassistica e citando forse il più efficace di uno dei suoi tanti passaggi in proposito, il presente Dialecticvs Nvncivs ribadisce con ancora maggiore energia e convinzione, se possibile, la ridicolaggine della credenza nell’esistenza di leggi di natura economiche che non derivino dalle decisioni degli uomini (o, per meglio dire, da azioni/conflitti strategici che vengono compiuti più o meno consapevolmente da agenti singoli o collettivi: per un primo approccio del Repubblicanesimo Geopolitico sulla problematica del conflitto strategico, cfr. Teoria della Distruzione del Valore agli URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore;https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04;http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n). Ovviamente, tutta la filosofia della praxis del discorso marxiano e lukacsiano deve essere riorientato smontando la controdialettica (e veramente oggettivamente controrivoluzionaria) divisione fra natura e cultura: «Solo in questa coscienza [di classe, ndr] infatti viene in luce la profonda irrazionalità che sta in agguato dietro i sistemi razionalistici parziali della società borghese e che si manifesta altrimenti in modo catastrofico, in eruzioni improvvise, e proprio per questo senza modificare alla superficie la forma e la connessione degli oggetti. Si può senz’altro riconoscere questa situazione negli avvenimenti più semplici della vita quotidiana. Il problema del tempo-lavoro che abbiamo considerato provvisoriamente, dal punto di vista dell’operaio, come momento in cui nasce la sua coscienza in quanto coscienza della merce (quindi come coscienza del nucleo strutturale della società borghese), mostra nell’istante in cui essa sorge ed oltrepassa la mera immediatezza della situazione data, concentrato in un punto, il problema fondamentale della lotta di classe: il problema della violenza, come il punto in cui, in seguito al fallimento delle “leggi eterne” dell’economia politica , in seguito al loro dialettizzarsi, la decisione sul destino dello sviluppo viene necessariamente rimessa all’attività cosciente degli uomini. Marx sviluppa questa idea nel modo seguente. “È evidente: prescindendo dai limiti del tutto elastici, dalla stessa natura dello scambio delle merci non risulta nessun limite della giornata lavorativa, quindi nessun limite al plus-lavoro. Quando cerca di prolungare al massimo la giornata lavorativa fino al punto di giungere, se è possibile, a raddoppiarla, il capitalista non fa altro che affermare il proprio diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, e l’operaio afferma il proprio diritto di venditore, quando vuole limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata. Qui ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la violenza. Così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa – lotta tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. [Karl Marx, Il Capitale, cit., p. 284]”»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 234-235.

5-Karl Marx, Il Capitale, cit., pp.6-7.
6-«Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.»: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, cit., p.5]: per i due maggiori interpreti del marxiano Gattungswesen come un ente generico che proprio in ragione di questa sua genericità non è meccanicamente determinato dalla società ma in questa consapevolmente, culturalmente e pubblicamente vi agisce in analogia all’aristotelico Zoon Politikon e del marxismo come una teoria della libertà in cui questa libertà è data dal rapporto dialettico dell’uomo con la storia e la società, confronta, in particolare, Costanzo Preve e Giorgio Agamben e segnatamente: Costanzo Preve, L’Eguale Libertà. Saggio sulla Natura Umana, Vangelista, Milano, 1994; Id., I Secoli Difficili. Introduzione al Pensiero Filosofico dell’Ottocento e del Novecento, Petite Plaisance, Pistoia, 1999; Id., Marx Inattuale. Eredità e Prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; Giorgio Agaben, Mezzi senza Fine. Note sulla Politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996; Id., La Comunità che Viene, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.

7-Una interpretazione dialettica dimidiata quella di Lukács e, allo stesso tempo, in contraddizione, con una precisa visione di quello in cui deve consistere il metodo dialettico. In vari luoghi successivi al passaggio citato alla nota 1, Storia e Coscienza di Classe mostra ad un tempo la natura totale e “anticosale” della dialettica – che sembra già una prefigurazione della consapevolezza dell’intima natura dialettica del conflitto-scontro strategico che modella di continuo e trasforma la realtà stessa – unita, però, contraddittoriamente, ad una interpretazione del tutto “cosale” dello scontro sociale che inevitabilmente da questa dialettica avrebbe dovuto scaturire (contro una lettura mitologica ed ipostaticizzata delle due classi antagoniste capitalistica ed operaia, il conflittualismo strategico lagrassiano costituisce il primo indispensabile passo per questo riorientamento. Per il Dialecticvs Nvncivs – e come si vedrà poi più per esteso nelle Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione – sarà necessario poi riorientare a sua volta anche il conflittualismo strategico di La Grassa sulla falsariga dell’abolizione della divisione fra natura e cultura): «Ma anche in questo caso si deve sottolineare che la violenza, che appare come figura concreta dei limiti di irrazionalità del razionalismo capitalistico, del punto di intermittenza delle sue leggi, è per la borghesia qualcosa di completamente diverso che per il proletariato. Per la borghesia, la violenza è la continuazione immediata della sua vita quotidiana: essa non rappresenta dunque un problema nuovo: d’altro lato, e proprio per questo, essa non è capace di risolvere nemmeno una delle contraddizioni sociali che si autogenerano. Il suo intervento e la sua efficacia, la sua possibilità e la sua portata dipendono del resto dal grado in cui è stata superata l’immediatezza dell’esistenza. Certo, la possibilità di questo oltrepassamento, quindi la estensione e la profondità della coscienza stessa, è un prodotto della storia. Ma questo livello storicamente possibile non consiste qui nella continuazione graduale e rettilinea di ciò che si trova già nell’immediatezza (e delle sue “leggi”), ma nella consapevolezza, raggiunta attraverso molte mediazioni delle tendenze dialettiche dello sviluppo. E la serie delle mediazioni non può concludersi nella contemplazione ma deve dirigersi alla novità qualitativa che scaturisce dalla contraddizione dialettica: essa deve essere un movimento di mediazione tra il presente e il futuro. Tutto ciò presuppone ancora una volta che il rigido essere cosale degli oggetti dell’accadere sociale si scopra come mera parvenza, che la dialettica – la quale rappresenta un’autocontraddizione, un’assurdità logica, finché si tratta del passaggio di una “cosa” ad un altro – trovi la propria conferma in tutti gli oggetti e che le cose si mostrino perciò come momenti che si risolvono nel processo. Siamo così pervenuti al limite della dialettica antica, al punto che separa questa dialettica da quella del materialismo storico. (Hegel rappresenta il momento di transizione metodologica, in lui si trovano cioè gli elementi di entrambe le concezioni in una funzione non interamente chiarita in rapporto al metodo). Infatti, la dialettica eleatica del movimento indica appunto le contraddizioni immanenti nel movimento in generale, ma essa lascia intatta la cosa che si muove. Sia che la freccia in volo si muova o si trovi in quiete – all’interno del vortice dialettico – essa resta nella sua oggettualità, come freccia, come cosa. Stando ad Eraclito, è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: ma poiché lo stesso eterno mutamento non diviene, ma è, non produce nulla di qualitativamente nuovo, esso è un divenire soltanto rispetto all’essere rigido delle cose singole. […] In Marx, invece, il processo dialettico trasforma le forme di oggettualità degli oggetti in un processo, in un flusso. Nella riproduzione semplice del capitale appare in tutta la sua chiarezza questa sovversione delle forme di oggettualità che caratterizza in modo essenziale il processo. […] Non appena si abbandona quella realtà immediata, che si presenta come già definita, nasce così l’interrogativo: “Un lavoratore in una fabbrica di cotone produce soltanto cotone”? No, produce capitale. Produce i valori che serviranno di nuovo a comandare il suo lavoro, a creare, per suo mezzo, nuovi valori” [Karl Marx, Lavoro Salariato e Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 51]»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 235-238. «Hegel stesso distingue tra dialettica meramente negativa e dialettica positiva, dove per dialettica positiva si deve intendere l’emergere di un determinato contenuto, il venire alla luce di una totalità concreta. Ed in sede di esecuzione effettiva, anch’egli percorre quasi sempre nello stesso modo la via che conduce dalle determinazioni della riflessione sino alla dialettica positiva, benché ad esempio, quest’ultima venga direttamente esclusa dal suo concetto di natura come “essere altro”, come essere “esterna a sé stessa” dell’idea (e indubbiamente qui si potrà trovare uno dei motivi metodologici delle costruzioni spesso forzate della sua filosofia della natura). D’altra parte, dal punto di vista storico, Hegel stesso vede chiaramente che la dialettica della natura – dove, almeno al grado finora raggiunto, il soggetto non può essere inserito nel processo dialettico – non è in grado di oltrepassare il piano di una dialettica del movimento che si presenta ad uno spettatore che non vi partecipa. Egli sottolinea, ad esempio, che le antinomie di Zenone si sono elevate sino all’altezza conoscitiva delle antinomie kantiane e che quindi non è possibile qui procedere oltre. Con ciò risulta la necessità della separazione metodologica della dialettica del movimento puramente oggettivo della natura dalla dialettica sociale, nella quale anche il soggetto è inserito nell’interazione dialettica, la teoria e la praxis debbono entrare in un reciproco rapporto dialettico ecc. (Va da sé che lo sviluppo della conoscenza della natura come forma sociale è sottoposto alla dialettica del secondo tipo). Inoltre, sarebbe tuttavia assolutamente necessario per la concreta costruzione del metodo dialettico illustrare concretamente i diversi tipi di dialettica. In tal caso, le distinzioni hegeliane di dialettica positiva e negativa così come quelle relative ai livelli dell’intuizione, della rappresentazione e del concetto (senza che ci si debba necessariamente attenere a questa terminologia) caratterizzerebbero soltanto alcuni tipi di differenze. Per gli altri, nelle opere economiche di Marx si trova un ricco materiale per un’analisi strutturale chiaramente elaborata. In ogni caso, una tipologia di queste forme dialettiche, sia pure presentata con pochi cenni, andrebbe ampiamente oltre i limiti di questo lavoro. »: Ivi, pp. 272-273. Prima Lukács afferma la necessità della separazione fra la dialettica della natura e la dialettica sociale improntata alla filosofia della praxis e poi, sentendo tutta la debolezza di questo ragionamento, rimanda la precisazione del suo pensiero ad un ulteriore lavoro. Conscio quindi della fragilità di tutto il suo ragionamento – e conscio che se si vuole dare una chance al proletariato è assolutamente indispensabile fuoruscire integralmente dal vecchio materialismo meccanicista – immediatamente dopo avere affermato che l’affrontare la questione della separazione fra dialettica della natura e quella sociale sarebbe andare “oltre i limiti di questo lavoro”, riprende il ragionamento sminuendo l’importanza della predetta distinzione dialettica e insistendo sull’importanza del processo di reificazione che, secondo Lukács, avrebbe un intimo legame diretto con la dialettica della natura: «Ma ancora più importante di queste distinzioni metodologiche è il fatto che anche quegli oggetti che si trovano manifestamente al centro del processo dialettico, possono rendere esplicita la loro forma reificata solo in un lungo e difficile processo. In un processo, nel quale la presa del potere del proletariato e la stessa organizzazione socialista dello Stato e dell’economia rappresentano soltanto tappe, certo molto importanti, ma non il punto di arrivo. Sembra anzi che il periodo in cui il capitalismo entra in una crisi decisiva abbia la tendenza ad accrescere ancor più la reificazione, a spingerla ai suoi estremi. All’incirca nel senso in cui Lassalle scriveva a Marx: “Il vecchio Hegel soleva dire: immediatamente prima del sorgere di qualche cosa di qualitativamente nuovo, il vecchio stato qualitativo si raccoglie nella sua essenza originaria puramente generale, nella sua totalità semplice, superando ancora una volta e riprendendo in sé tutte le sue marcate differenze e le sue peculiarità che esso aveva posto quando era ancora vitale”. D’altro lato, ha ragione anche Bucharin quando osserva che nell’epoca della dissoluzione del capitalismo le categorie feticistiche falliscono, ed è necessario risalire alla “forma naturale” che si trova alla loro base. Questi due modi di vedere sono contraddittori solo in apparenza. O più esattamente: il segno che contraddistingue la società borghese al suo tramonto è proprio questa contraddizione: da un lato, il crescente svuotamento delle forme della reificazione – si potrebbe dire, il lacerarsi della loro crosta per via del loro vuoto interno –, la loro crescente incapacità di comprendere i fenomeni, sia pure nella loro singolarità e secondo modi calcolistici-riflessivi; dall’altro la loro crescita quantitativa, il loro vuoto diffondersi estensivamente sull’intera superficie dei fenomeni. E con il crescente acuirsi di questo contrasto, aumenta per il proletariato sia la possibilità di sostituire i propri contenuti positivi a veli svuotati e lacerati, sia il pericolo – almeno temporaneo – di soggiacere ideologicamente a queste vuote ed esautorate forme della cultura borghese. In rapporto alla coscienza del proletariato, non vi è automatismo di sviluppo. Per il proletariato è quanto mai vero che la trasformazione e la liberazione può essere solo opera della sua azione, che “l’educatore stesso deve essere educato”: cosa che il vecchio materialismo meccanicistico-intuitivo non riuscì a comprendere. Lo sviluppo economico oggettivo ha potuto soltanto creare la posizione che il proletariato occupa nel processo di produzione e dalla quale viene determinato il suo punto di vista; esso può solo far sì che la trasformazione della società diventi per il proletariato possibile e necessaria. Ma questa trasformazione può essere operata soltanto dalla libera azione del proletariato stesso.»: Ivi, pp. 273-274. Lukács era completamente nel giusto nel dire che le forme feticistiche e reificate abbiano un intimo legame con la dialettica della natura (volendo, però, così suggerire un legame errato della filosofia della praxis con la filosofia della natura, attraverso cioè il negativo, o meglio, la negazione della filosofia della praxis stessa, la reificazione e le forme di feticismo appunto; reificazione che, invece, non è che una delle manifestazioni della dialettica del confronto/scontro strategico, che a sua volta non è che la traduzione in atto concreto della filosofia della prassi, consapevoli o no che siano di questa Weltanschauung/Forma mentis/Forma mundi gli attori – alfa-strategici o omega-strategici, per i quali cfr. Teoria della Distruzione del Valore, cit. – del confronto/scontro strategico stesso), era però completamente in errore, ma questo è l’errore che attraversa praticamente tutte le varie scuole marxiste, pensando che le forme feticistiche e la reificazione possano e debbano essere superate nella rivoluzione prossima ventura in cui il proletariato avrebbe dovuto essere la classe universale che avrebbe dissolto queste forme alienanti. Alla base di questo errore sta, lo ripetiamo, l’artificiale suddivisione marxiana (ma non di origine marxiana, non ci stancheremo mai di ripetere) fra natura e cultura, uno scenario artificiale nel quale il capitalismo frutto di una “cattiva” cultura umana avrebbe imposto agli uomini delle scelte del tutto innaturali, scelte innaturali alle quali sarebbe stato compito del proletariato, la classe universale ed erede della filosofia classica tedesca, porre rimedio. In realtà, questa suddivisione fra natura e cultura è del tutto innaturale; in realtà l’alienazione/reificazione/feticismo non è, di per sé, un fatto negativo, ma rappresenta il fondamentale momento di trasformazione dialettico-strategica del soggetto per venire incontro e incorporare l’oggetto che inizialmente gli si pone di fronte: insomma l’alienazione/reificazione/forme di feticismo non è che lo sviluppo concreto del processo dell’ Aufhebung; infine, in questo processo dialettico-strategico di conservazione/superamento del soggetto nell’oggetto e viceversa, credere che il proletariato, nelle condizioni storiche di allora, fosse l’unica classe in grado di interpretarlo e di dargli compiuta espressione è stato il più grande errore del marxismo essendo il processo dialettico-strategico un processo – giusto l’attualismo di Giovanni Gentile – cognitivo-attivo-creativo, un processo che può essere sì guidato da una classe – storicamente non è mai stato guidato, ma semmai solo innescato, dalle classi subalterne ma per questo non si può certo affermare che, in un futuro totalmente imprevedibile dal punto di vista di una conseguente antideterministica filosofia della prassi, le classi subalterne, proprio per la natura dialettica e pantocratrice di questo processo, non possano farlo proprio e recitarvi una parte da protagoniste: la dittatura del proletariato altro non è che l’ingenua espressione utopico-mitologica di una potenzialità reale della dialettica del confronto/scontro strategico – ma che attraversa tutte le classi e categorie della società. E volendo far sì che questo processo alienanante-reificante di trasformazione dialettica attraversi in senso rivoluzionario tutti gli strati della società, rende il Repubblicanesimo Geopolitico l’erede diretto – anche se sotto l’insegna dell’ Aufhebung, del suo, cioè, conservazione/superamento nel quadro di un totale rinnovamento che abolisca la suddivisione fra natura e cultura – di quella linea di realismo dialettico-cognitivo che corre lungo Machiavelli, Vico, Hegel e che culmina in Marx, l’erede diretto, quindi, anche di quella tradizione marxista – ci riferiamo in specie al quel marxismo occidentale che al contrario del diamattino marxismo orientale, oppose strenua resistenza alla deriva positivistica del marxismo – che sempre fu ai ferri corti con l’interpretazione meccanicistica e fatalistica del marxismo stesso, quest’ultima conseguenza inevitabile – ed anche voluta per le ovvie ragioni di più facile dominio delle masse Gattungswesen composte da miriadi di esseri naturali generici – della versione positivistica e eterodiretta dall’alto della lezione del pensatore di Treviri. A suivre, anche in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione, ulteriore giustificazione di questa impegnativa affermazione del Dialecticvs Nvncivs …

8- Dai Quaderni del Carcere emerge lo scarto decisivo gramsciano per una filosofia della praxis che non solo aveva superato in maniera definitiva ogni residuo positivistico (consapevolmente ma, purtroppo, come abbiamo visto, in maniera non del tutto conseguente ciò era avvenuto anche nel Lukács di Storia e Coscienza di Classe, di Codismo e Dialettica, per terminare – e in una prospettiva che, complici la sua travagliata vita personale sempre all’insegna, negli anni che seguirono alle critiche a Storia e Coscienza di Classe e fino alla sua morte, di una straussiana ermeneutica della reticenza e le non brillantissime prove che aveva dato il socialismo reale, aveva ridimensionato le originarie speranze millenaristiche e rivoluzionarie del comunismo novecentesco – nel Lukács di Ontologia dell’Essere Sociale – «É anche giusto, anche se del tutto evidente, ricordare che in Storia e Coscienza di Classe si riflette teoricamente il carattere messianico ed ottimistico del comunismo degli anni Venti, mentre nella Ontologia dell’Essere Sociale è presente l’inevitabile metabolizzazione della delusione staliniana e della sensazione di blocco e di crisi del processo rivoluzionario. Sarebbe sciocco se una grande opera filosofica non rispecchiasse anche le attese, le illusioni e le consapevolezze diffuse del tempo.»: Costanzo Preve, Il Testamento Filosofico di Lukács. II Parte, agli URL http://www.kelebekler.com/occ/lukacs02.htm, WebCite: http://www.webcitation.org/6mHHmUGbL e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.kelebekler.com%2Focc%2Flukacs02.htm&date=2016-11-25 –, una Ontologia dell’Essere Sociale anch’essa preda di questa illusoria separazione fra cultura e natura o storia e natura), ma anche che, sull’onda dell’attualismo gentiliano, additava il positivismo come uno dei principali nemici da battere – ma non ricadendo negli errori del filosofo di Castelveltrano di derivazione ficthiana dell’atto puro, dove in Gentile l’atto puro soggettivistico era il creatore di tutta la realtà, la cosiddetta autoctisi, mentre in Gramsci, correttamente, non poteva sussistere l’autoctisi, non poteva esservi un “atto puro” soggettivo che crea la realtà ma un soggetto che agendo sull’oggetto trasforma e crea sé stesso e nel corso di questa attività morfogenetica interna/esterna si unisce inscindibilmente e dialetticamente con l’oggetto: «Idealismo-positivismo [“Obbiettività” della conoscenza.] Per i cattolici: “… Tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell’obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello “Spirito” (equivalente, in quanto monismo, al quello positivista della “Materia”) per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell’intelletto. Pertanto l’idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione” (padre Mario Barbera, nella “Civiltà Cattolica” del I°-VI-1929). Per la quistione della “obbiettività” della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che “gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terreno ideologico” delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche. Né il monismo materialista né quello idealista, né “Materia” né “Spirito” evidentemente, ma “materialismo storico”, cioè attività dell’uomo (storia) [sottolineatura nostra] in concreto, cioè applicata a una certa “materia” organizzata (forze materiali di produzione), alla “natura” trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’ “atto puro”, ma proprio dell’atto “impuro”, cioè reale nel senso profano della parola. [sottolineatura nostra] »: Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, vol. I, Torino, 1975, pp. 454-455. Gramsci, in altre parole, era fortissimamente refrattario ad ammettere la separazione fra cultura e natura, e questo profondissimo rifiuto di uno dei più inveterati paradigmi della civiltà occidentale veniva inquadrato in una Weltanschauung dove filosofia della prassi si traduceva direttamente in una prassi, appunto, – al contrario delle visioni elitaristiche alla Mosca, alla Pareto o alla Michels – dove il vertice non doveva regnare dispoticamente ma fra l’alto (il nuovo Principe, cioè il partito comunista, e con questa immagine machiavelliana, unendo la filosofia della praxis con l’insegnamento del realismo politico del Segretario fiorentino Antonio Gramsci si pone anche come il più grande erede, nella teoria e, appunto, nella prassi, del magistero di Niccolò Machiavelli) e il basso della società (la classe operaia e contadina) si doveva dialetticamente istituire un’azione politica e sociale di continuo mutuo arricchimento cognitivo ed accrescimento di potenza politica, che avrebbe costituito, ancor prima e premessa ineludibile della pur necessaria lotta di classe condotta su base ed in prospettiva economicista, la vera ragion d’essere ed energia generatrice del costituito e sempre evolutivamente costituendo partito comunista-Nuovo principe, una dinamica della conoscenza e del potere che è praticamente sovrapponibile con la visione dialettico-conflittualistica-strategica del Repubblicanesimo Geopolitico: «“Marx e Machiavelli”. Questo argomento può dar luogo a un duplice lavoro: uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell’azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe. L’argomento sarebbe il partito politico, nei suoi rapporti con le classi e con lo Stato: non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato. In realtà, se bene si osserva, la funzione tradizionale dell’istituto della corona è, negli stati dittatoriali, assolta dai partiti: sono essi che pur rappresentando una classe e una sola classe, tuttavia mantengono un equilibrio con le altre classi, non avversarie ma alleate e procurano che lo sviluppo della classe rappresentata avvenga col consenso e con l’aiuto delle classi alleate. Ma il protagonista di questo “nuovo principe” non dovrebbe essere il partito in astratto, una classe in astratto, uno Stato in astratto, ma un determinato partito storico, che opera in un ambiente storico preciso, con una determinata tradizione, in una combinazione di forze sociali caratteristica e bene individuata. Si tratterebbe insomma, non di compilare un repertorio organico di massime politiche, ma di scrivere un libro “drammatico” in un certo senso, un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero presentate come necessità individualizzata e non come principi di scienza. [sottolineatura nostra per evidenziare l’antipositivitismo e l’impostazione dialettica del conflittualismo strategico di Antonio Gramsci]»: Ivi, vol. I, p. 432; «Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna. Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l’organizzatore e l’espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti del programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero “drammaticamente”, risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini [sottolineatura nostra sempre le ragioni di cui sopra]. Può esserci riforma cultuale e cioè elevamento degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di una laicismo moderno o di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.»: Ivi, vol. III, pp. 1560-1561; «“La tesi XI”: “I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo; si tratta ora di cangiarlo”, non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica. […] Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una “terrestrità assoluta” – si può ancora giustificare con la famosa proposizione che “il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca”, la quale non significa già, come scrive il Croce: “erede che non continuerebbe già l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria” ma significherebbe proprio che l’ “erede” continua il predecessore, ma lo continua “praticamente” poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la “conoscenza” che solo anzi nell’attività pratica è “reale conoscenza” e non “scolasticismo”. Se ne deduce anche che il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma “generalizzate” nella realtà sociale. E l’attività del filosofo “individuale” non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica.»: Ivi, vol. II, pp.1270-1271; «La posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica. Tuttavia questa concezione “verbale” non è senza conseguenze: essa riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere ad una elaborazione superiore della propria concezione del reale [evidenziazione nostra]. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per un’ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di “distinzione”, di “distacco”, di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pur entro limiti ancora ristretti, critica [evidenziazione nostra]. Tuttavia, nei più recenti sviluppi della filosofia della prassi, l’approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: rimangono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria come “complemento”, “accessorio” della pratica, di teoria come ancella della pratica. [evidenziazione nostra]. Pare giusto che anche questa quistione debba essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione politica degli intellettuali. Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali: una massa umana non si “distingue” e non diventa indipendente “per sé” senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e ritirate, di sbandamenti e di riaggrupamenti, in cui la “fedeltà” della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume l’adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell’intero fenomeno culturale) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova “ampiezza” e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati. Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi l’impressione di “accessorio”, di complementare, di subordinato. L’insistere sull’elemento “pratico” del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e convenzionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase ancora economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della “struttura” e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora organicamente formata. […] Una di queste fasi si può studiare nella discussione attraverso la quale si sono verificati i più recenti sviluppi della filosofia della praxis, discussione riassunta in un articolo di D. S. Mirsckij, collaboratore della “Cultura”. Si può vedere come sia avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica e puramente esteriore a una concezione attivistica, che si avvicina di più, come si è osservato, a una giusta comprensione dell’unità di teoria e pratica [evidenziazione nostra], sebbene non ne abbia ancora attinto tutto il significato sintetico. Si può osservare come l’elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un “aroma” ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere “subalterno” di determinati strati sociali. Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata [evidenziazione nostra]. “Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.”. La volontà reale si traveste in atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una forte attività volitiva, un intervento diretto sulla “forza delle cose” ma appunto in una forma implicita, velata, che si vergogna di se stessa e pertanto la coscienza è contraddittoria, manca di una critica, ecc. Ma quando il “subalterno” diventa dirigente e responsabile dell’attività economica di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo sociale di essere [evidenziazione nostra]. I limiti e il dominio della “forza delle cose” vengono ristretti perché? perché, in fondo, se il subalterno era ieri una cosa, oggi non è più una cosa ma una persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché “resistente” a una volontà estranea, oggi si sente responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente. Ma anche ieri era egli stato mera “resistenza”, mera “cosa”, mera “irresponsabilità”? Certamente no, ed è anzi da porre in rilievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da deboli di una volontà attiva e reale. Ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e in quanto solo tale elemento intrinseco di forza, quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente responsabile [evidenziazione nostra]. Una parte della massa anche subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale. Che la concezione meccanicistica sia stata una religione di subalterni appare da un’analisi dello sviluppo della religione cristiana, che in un certo periodo storico e in condizioni storiche determinate è stata e continua ad essere una “necessità”, una forma necessaria della volontà delle masse popolari, una forma determinata della razionalità del mondo e della vita e dette i quadri generali per l’attività pratica reale. »: Ivi, vol. II, pp. 1384-1389; «Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come “soggettività storica di un gruppo sociale”, come fatto reale, che si presenta come fenomeno di “speculazione” filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di “apparenza”, non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua “storicità”, del suo essere “morte-vita”, del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola “vita”, come sola realtà in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata di ogni rediduo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa. [evidenziazione nostra]»: Ivi, vol. II, pp. 1225-1226. A parte la mitizzazione della classe operaia e contadina che costituisce la parte oggi caduca dei Quaderni ma nei quali la gramsciana filosofia della praxis segna un decisivo distacco da una visione cosale delle classi e dove decisivo è per queste classi, proprio come nel Repubblicanesimo Geopolitico, il processo cognitivo legato all’aquisizione, mantenimento e creazione di nuovo potere, la forma della filosofia della praxis espressa nei Quaderni del Carcere rappresenta uno dei capisaldi per il Repubblicanesimo Geopolitico. Per l’approfondimento della decisiva importanza della filosofia della praxis per il conflittualismo dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico (e su come sia possibile far definitivamente evolvere questa filosofia della praxis in una dialettica in cui l’azione-scontro strategico – compiendo, sia individualmente che socialmente, la sua piena entelechia attraverso una consapevole ed attiva epifania strategica – sia il principio unificante dell’agire conoscitivo/teorico/pratico dell’uomo e perciò dissolvente della illusoria diarchia cultura/natura e quindi, in ultima istanza, generante quella vera e profonda rivoluzione politica e culturale inseguita con risultati del tutto deludenti – ma non per questo inutili, anzi! – durante tutto il Novecento), si rinvia ancora Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico.

9- Riguardo la teoria leniniana del rispecchiamento, radicale è il rifiuto espresso in Storia e Coscienza di Classe: «La coscienza del proletariato può chiamare in vita, nella sua riconversione pratica, soltanto ciò che viene spinto ad una decisione dalla dialettica storica, ma non può disporsi “praticamente” al di sopra del corso della storia ed imporre ad essa puri e semplici desideri e conoscenze. Infatti, essa stessa non è altro che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale. D’altro lato, una necessità dialettica non è affatto identica ad una necessità meccanico-causale. Nel passo citato in precedenza Marx dice: “la classe operaia non deve far altro che mettere in libertà gli elementi della società nuova, che si sono sviluppati nel seno della società borghese nella fase del suo crollo”. Alla semplice contraddizione – che è un prodotto automatico secondo legge, dello sviluppo capitalistico – deve dunque aggiungersi qualcosa di nuovo: la coscienza del proletariato che si trasforma in azione. Tuttavia, poiché la semplice contraddizione si eleva così ad una contraddizione dialettica, poiché la presa di coscienza si trasforma in punto di passaggio per la praxis, appare ancora una volta e con maggior concretezza, il carattere essenziale, che abbiamo già più volte ricordato, della dialettica proletaria: la coscienza non è qui coscienza di un oggetto che si contrappone, ma autocoscienza dell’oggetto stesso – e per questo l’atto della presa di coscienza rovescia le forme di oggettività del proprio oggetto.»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., p. 234; un rifiuto in cui il proletariato è la classe universale che attraverso la sua dialettica realizza con la sua praxis l’unione fra soggetto ed oggetto e dove a sottolineare l’improponibilità di una pensiero che rifletta meccanicamente la realtà, Lukács arriva a cogliere l’inizio dell’ errore della teoria del riflesso nel mito della cosa in sé kantiana e nel mito platonico delle idee, entrambe posizioni che sono queste sì il riflesso di una concezione mitica e cosale della realtà: «Soltanto se comprendiamo tutto ciò siano in grado di penetrare sino all’ultimo residuo della struttura coscienziale reificata e della sua forma concettuale, del problema della cosa in sé. Anche Friedrich Engels si è una volta espresso a questo proposito in modo facilmente equivocabile. Descrivendo il contrasto che divedeva Marx e lui stesso dalla scuola hegeliana, egli dice: “Noi intendevamo i concetti della nostra testa ancora una volta materialisticamente come riflessi (Abbild) delle cose reali in luogo di considerare le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto”. [Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il Punto di Approdo della Filosofia Classica Tedesca, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, p. 41] Tuttavia, si deve porre qui l’interrogativo che del resto si pone lo stesso Engels ed al quale egli dà anzi, nella pagine [sic] seguente, una risposta del tutto conforme a ciò che noi pensiamo: “Il mondo non è da comprendere come un complesso di cose già definite, ma come un complesso di processi”. Ma se non vi sono due cose – che cosa viene “riflesso” dal pensiero? Qui non è possibile, neppure per cenni, tracciare la storia della teoria della riflessione immaginativa, benché essa sola possa mostrare tutta la portata di questo problema. Infatti, in questa teoria si oggettiva teoricamente la dualità insuperata – per la coscienza reificata – tra pensiero ed essere, coscienza e realtà. E da questo punto di vista è lo stesso che le cose vengano intese come riflessi dei concetti o i concetti come i riflessi delle cose, dal momento che in entrambi i casi questa dualità riceve un’insuperabile fissazione logica. Il grandioso e coerente tentativo di Kant di superare logicamente questa dualità, la teoria della funzione sintetica della coscienza in generale nella creazione della sfera teoretica, non poteva portare alcuna soluzione filosofica alla questione, perché la dualità, allontanata dalla logica, veniva resa eterna come problema filosoficamente insolubile nella forma della dualità tra fenomeno e cosa in sé. Che questa soluzione kantiana possa difficilmente essere riconosciuta come soluzione in senso filosofico, è dimostrato dal destino della sua teoria. Le radici di questo equivoco si trovano tuttavia nella teoria stessa: certo, non direttamente nella logica, ma nel rapporto tra la logica e la metafisica, tra il pensiero e l’essere. Ora, bisogna comprendere che ogni comportamento contemplativo, quindi ogni pensiero “puro” che si assume come compito la conoscenza di un oggetto che gli sta di fronte, solleva al tempo stesso il problema della soggettività e dell’oggettività. L’oggetto del pensiero (come contrapposto) si trasforma in qualcosa di estraneo al soggetto ed ha origine così il problema se il pensiero concordi con l’oggetto. Quanto più il carattere conoscitivo del pensiero viene elaborato nella sua “purezza”, quanto più il pensiero diventa “critico”, tanto più grande ed incolmabile appare l’abisso tra la forma “soggettiva” del pensiero e l’oggettività dell’oggetto (essente). Ora, è possibile, come accade in Kant, intendere l’oggetto del pensiero come “generato” dalle forme del pensiero. Ma con ciò il problema dell’essere non viene risolto, ed in quanto Kant allontana questo problema dalla teoria della conoscenza, sorge per lui la questione filosofica: anche i suoi oggetti pensati debbono concordare con una “realtà” qualsiasi. Ma questa realtà viene tuttavia posta – come cosa in sé – al di fuori di ciò che è “criticamente” conoscibile. Nei confronti di questa realtà (che anche per Kant, come dimostra la sua etica, è la realtà vera e propria, la realtà metafisica) il suo atteggiamento resta lo scetticismo, l’agnosticismo: anche se l’oggettività gnoseologica, la teoria della verità immanente al pensiero ha trovato una soluzione ben poco scettica. Non è dunque affatto un caso che abbiano trovato un aggancio in Kant indirizzi agnostici di genere diverso (basti pensare a Maimon od a Schopenhauer). E lo è ancora meno il fatto che proprio Kant cominciò a reintrodurre nella filosofia quel principio che si trova in netto contrasto con il suo principio sintetico della “generazione”: la teoria delle idee di Platone. Infatti, questo è l’estremo tentativo di salvare l’oggettività del pensiero, la sua concordanza con il suo oggetto, senza essere costretti a ricercare il criterio della concordanza nell’essere empirico materiale degli oggetti. Ora è chiaro che in ogni conseguente riformulazione della teoria delle idee un principio che, da un lato, connette il pensiero con gli oggetti del mondo delle idee, dall’altro questo mondo con gli oggetti della conoscenza empirica (rimemorazione, intuizione intellettuale, ecc.) [errore sintattico, ndr] Con ciò tuttavia la teoria del pensiero viene spinta oltre il pensiero stesso: essa si trasforma in teoria dell’anima, in metafisica, in filosofia della storia. Anziché essere risolto, il problema assume una duplice o triplice forma. Infatti, la comprensione dell’impossibilità di principio di una concordanza, di un rapporto di “riflessione immaginativa” tra forme oggettuali che sono per principio eterogenee, è il motivo che guida ogni interpretazione di questo genere di teoria delle idee. Essa intraprende il tentativo di dimostrare questa stessa ultima essenzialità come nucleo negli oggetti del pensiero o nel pensiero stesso. Così Hegel caratterizza da questo punto di vista molto giustamente il motivo filosofico fondamentale della teoria della rimemorazione: in essa il rapporto fondamentale dell’uomo verrebbe presentato miticamente, “la verità si troverebbe in lui e si tratterebbe perciò soltanto di portarla alla coscienza”[Nota a piè di pagina di Lukács: «Werke, XI, p.160»]. Ma in questo modo è possibile dimostrare nel pensiero e nell’essere questa identità – dopo che, per via del modo in cui si presentano necessariamente all’atteggiamento intuitivo e contemplativo, il pensiero e l’essere sono stati già intesi nella loro reciproca eterogeneità di principio? Qui deve appunto intervenire la metafisica, per unificare ancora una volta in qualche modo, attraverso mediazioni apertamente e implicitamente mitologiche, il pensiero e l’essere, la cui separazione, oltre a formare il punto di vista di avvio del pensiero “puro”, deve anche essere – volenti o nolenti – costantemente mantenuta. E questa situazione non muta minimamente, se la mitologia viene capovolta e il pensiero viene spiegato a partire dall’essere empiricamente materiale. Rickert definì una volta il materialismo un platonismo di segno rovesciato. A ragione. Infatti, finché il pensiero e l’essere mantengono la loro vecchia e rigida contrapposizione, finché essi restano immodificati nella struttura loro propria, ed in quella dei loro reciproci rapporti, la concezione secondo la quale il pensiero è un prodotto del cervello e concorda perciò con gli oggetti dell’empiria, non è meno mitologica di quella della rimemorazione del mondo delle idee. Ed anche questa mitologia non è in grado di spiegare a partire da questo principio i problemi specifici che qui emergono. Essa è costretta ad abbandonarli irrisolti a mezza via oppure a risolverli con i “vecchi” mezzi: la mitologia entra in scena soltanto come principio di soluzione del complesso non analizzato nel suo insieme. [ nota a piè di pagina di Lukács: «Questo rifiuto del significato metafisico del materialismo borghese non muta nulla nella sua valutazione storica: esso fu la forma ideologica della rivoluzione francese e resta come tale praticamente attuale, finché resta attuale la rivoluzione borghese (anche come momento della rivoluzione proletaria). Cfr. in proposito i miei saggi su Moleschott, Feuerbach e l’ateismo in “Rote Fahne”, Berlino; e soprattutto l’ampio saggio di Lenin, Unter der Fahne des Marxismus, in “Die kommunitische Internationale”, 1922, n. 21.»] Ma, come sarà ormai chiaro da quanto precede, è impossibile anche togliere di mezzo questa differenza ricorrendo ad un progresso all’infinito. Allora ha origine una soluzione apparente oppure si ripresenta in una forma modificata la questione della riflessione immaginativa. [nota a piè di pagina di Lukács: «Molto coerentemente Lask introduce nella logica stessa una regione pre-immaginativa e post-immaginativa (Die Lehre vom Urteil). Benché egli escluda criticamente il platonismo puro, la dualità riflessiva tra idea e realtà, essa rivive in lui sul terreno della logica.»] Proprio nel punto in cui al pensiero storico si rivela la concordanza tra pensiero e essere, il fatto che entrambi hanno nell’immediatezza (e solo in essa) una rigida struttura di cosa, il pensiero dialettico viene costretto ad assumere questa insolubile impostazione del problema. Dalla rigida contrapposizione di pensiero ed essere (empirico) segue, da un lato, che essi non possono trovarsi l’uno con l’altro in un rapporto di riflessione immaginativa, ma dall’altro che solo in essa si deve ricercare il criterio del pensiero corretto. Finché l’uomo si comporta in modo intuitivo-contemplativo, egli può riferirsi al suo proprio pensiero ed agli oggetti dell’empiria che lo circondano solo in modo immediato. Egli li assume nel loro carattere di definitiva compiutezza, che è stato prodotto dalla realtà storica. Poiché vuole soltanto conoscere il mondo e non modificarlo egli è costretto ad assumere come inevitabile sia la fissità empirico-materiale dell’essere che la fissità logica dei concetti: e le sue impostazioni mitologiche dei problemi non sono orientate nel senso di accertare da quale terreno concreto abbia avuto origine la fissità di queste due datità fondamentali, quali siano i momenti reali che in esse si celano e che operano nel senso del superamento di queste fissità, ma tendono unicamente ad accertare in che modo l’essenza immutata di queste datità possa essere ricomposta nella sua immutabilità e spiegata in quanto tale. La soluzione che Marx indica nelle sue tesi su Feuerbach è la conversione della filosofia nella praticità. Tuttavia, come abbiamo visto, l’aspetto complementare ed il presupposto strutturale oggettivo di questa praticità è la concezione della realtà come un “complesso di processi”, la concezione secondo cui le tendenze evolutive della storia rappresentano una realtà superiore, la vera realtà rispetto alle fatticità rigide e cosali dell’empiria, pur emergendo dall’empiria stessa, e quindi senza essere al di là di essa. Ora, per la teoria del riflesso ciò significa che il pensiero, la coscienza deve orientarsi appunto alla realtà, che il criterio della verità consiste nell’incontro con la realtà. Tuttavia, questa realtà non è per nulla identica all’essere empirico fattuale. Questa realtà non è, essa diviene. Ed il divenire va inteso in due sensi. Da un lato, in quanto divenire, in questa tendenza, in questo processo si scopre la vera essenza dell’oggetto. E precisamente nel senso – si pensi agli esempi citati, che possono essere moltiplicati a piacere – che questa trasformazione delle cose in un processo porta concretamente a soluzione tutti i problemi concreti posti dal pensiero dai paradossi della cosa essente. Riconoscere che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume è soltanto un’incisiva espressione per indicare l’incolmabile contrasto tra concetto e realtà, ma non aggiunge nulla di concreto alla conoscenza del fiume. Invece, riconoscere che il capitale come processo può essere soltanto capitale accumulato o meglio capitale che si accumula, rappresenta una concreta e positiva soluzione di un complesso di problemi concreti e positivi, di contenuto e di metodo, che concernono il capitale. Quindi soltanto se viene superata la dualità tra filosofia e conoscenza particolare, tra metodologia e conoscenza dei fatti, si può aprire la via verso il superamento nel pensiero della dualità tra pensiero ed essere. Ogni tentativo orientato – come nel caso di Hegel, nonostante i molti sforzi nella direzione opposta – verso il superamento dialettico di questa dualità nel pensiero liberato da ogni rapporto concreto con l’essere, nella logica, è condannato al fallimento. Infatti, ogni logica pura è platonica: è pensiero separato dall’essere e fissato in questa separazione. Solo nella misura in cui il pensiero appare come realtà, come momento del processo complessivo, esso può andare dialetticamente al di là della propria fissità, assumere il carattere del divenire. [nota a piè di pagina di Lukács: «Le indagini puramente logiche e puramente metodologiche non fanno dunque altre che contrassegnare il punto nel quale storicamente ci troviamo: la nostra provvisoria incapacità di afferrare e presentare i problemi categoriali nel loro complesso come problemi della realtà che si trasforma storicamente.»] D’altro lato, il divenire è al tempo stesso mediazione tra passato e futuro: tra il passato concreto, cioè storico ed il futuro altrettanto concreto, cioè altrettanto storico. Il concreto qui ed ora nel quale il divenire si risolve nel processo, non è più un istante passeggero ed inafferrabile, sfuggente immediatezza [nota a piè di pagina di Lukács: «Cfr. in proposito, la Fenomenologia di Hegel (in particolare Werke, II, pp. 73 sgg) dove questo problema viene trattato con maggiore profondità, ed anche la teoria di Ernst Bloch dell’ “oscurità del momento vissuto” e del “sapere non ancora cosciente”.»], ma il momento della mediazione più profonda ed articolata, il momento della decisione, della nascita del nuovo. Finché l’uomo rivolge intuitivamente e complessivamente il proprio interesse verso il passato o verso il futuro, entrambi si fissano in una estraneità d’essere – e tra soggetto ed oggetto si estende l’incolmabile “dannoso spazio” del presente. Soltanto se l’uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto dialettico egli è capace di creare il futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo presente. “Infatti, la verità – dice Hegel – consiste nel non atteggiarsi nell’oggetto come verso qualcosa di estraneo”. [nota a piè di pagina di Lukács: «Werke, XII, p. 207.»] Ma se la verità del divenire è rappresentata dal futuro non ancora sorto, che deve essere reso prossimo, dal nuovo che emerge dalle tendenze che si realizzano (con il nostro ausilio cosciente), allora la questione della riflessività immaginativa del pensiero appare completamente priva di senso. Il criterio della correttezza del pensiero è appunto la realtà. Ma questa non è, diviene – non senza l’intervento del pensiero. Qui si realizza dunque il programma della filosofia classica: il principio della genesi e di fatto il superamento del dogmatismo (in particolare nella sua massima figura storica, nella teoria platonica del riflesso). Ma la funzione di questa genesi può essere svolta soltanto dal divenire concreto (storico). Ed in questo divenire, la coscienza (la coscienza di classe divenuta pratica nel proletariato) è un elemento costitutivo necessario ed indispensabile. Il pensiero e l’essere non sono quindi identici nel senso che essi si “corrispondono” reciprocamente, si “riflettono” l’uno nell’altro, procedono “parallelamente” o “arrivano a coincidere” (tutte queste espressioni sono soltanto forme dissimulate di un rigido dualismo): la loro identità consiste piuttosto nel loro essere momenti di uno stesso processo dialettico storico-reale. Ciò che la coscienza del proletariato “riflette” è quindi il positivo e il nuovo che scaturisce dalla contraddizione dialettica dello sviluppo capitalistico. Non dunque qualcosa che il proletariato trova o “crea” dal nulla, ma una conseguenza necessaria del processo di sviluppo nella sua totalità: qualcosa che, non appena arriva alla coscienza del proletariato e viene da esso reso pratico, si trasforma da astratta possibilità in realtà concreta. Questa trasformazione non è tuttavia meramente formale, dal momento che il realizzarsi di una possibilità, l’attualizzarsi di una tendenza significa appunto trasformazione oggettuale della società, modificazione delle funzioni dei suoi momenti e quindi modificazione sia strutturale che contenutistica di tutti gli oggetti particolari. Ma non si deve dimenticare: soltanto la coscienza di classe divenuta pratica del proletariato possiede questa funzione trasformatrice. In ultima analisi, ogni comportamento contemplativo puramente conoscitivo si trova in un rapporto duplice rispetto al suo oggetto: e la semplice introduzione della struttura qui riconosciuta in un altro comportamento qualsiasi che non sia l’agire del proletariato – dal momento che solo la classe nel suo riferirsi allo sviluppo complessivo può essere pratica – riconduce necessariamente ad una nuova mitologia del concetto, ad una ricaduta nel punto di vista della filosofia classica superato da Marx. Infatti, ogni comportamento puramente conoscitivo resta affetto dalla macchia dell’immediatezza: cioè, in ultima analisi, trova di fronte a sé una serie di oggetti finiti, non risolubili in processi. La sua essenza dialettica può consistere soltanto nella tendenza alla praticità, nell’orientamento verso le azioni del proletariato. Nel fatto che esso si rende criticamente cosciente di questa sua tendenza all’immediatezza, insita in ogni comportamento non-pratico e tende di continuo a chiarire criticamente le mediazioni, i rapporti con la totalità come processo, con l’azione del proletariato in quanto classe. Il sorgere ed il realizzarsi del carattere pratico nel pensiero del proletariato è tuttavia anch’esso un processo dialettico. In questo pensiero, l’autocritica non è soltanto autocritica del suo oggetto, la società borghese, ma è anche il riesame critico tendente ad accertare in che misura la propria natura pratica sia realmente arrivata a manifestarsi, quale grado di vera praticità sia oggettivamente possibile e quanto sia stato praticamente realizzato di ciò che era oggettivamente possibile. È chiaro infatti che la comprensione del carattere processuale dei fenomeni sociali ed il disvelamento della parvenza della loro rigida cosalità, per quanto possano essere corretti, non possono tuttavia sopprimere praticamente la realtà di questa parvenza nella società capitalistica. I momenti in cui questa comprensione può realmente convertirsi nella praxis sono determinati appunto dal processo sociale di sviluppo. Perciò il pensiero proletario è anzitutto soltanto una teoria della praxis, per trasformarsi poi a poco a poco (e indubbiamente spesso a salti) in una teoria pratica che trasforma la realtà. Solo le singole tappe di questo processo – che non è possibile qui neppure schizzare – potrebbero mostrare in piena chiarezza la via dello sviluppo della coscienza proletaria di classe (del costituirsi del proletariato in classe). Soltanto qui si illuminerebbero le intime interazioni dialettiche tra la situazione oggettiva, storico-sociale, e la coscienza di classe del proletariato; solo qui si concretizzerebbero realmente l’affermazione che il proletariato è il soggetto-oggetto identico del processo di sviluppo sociale.»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 263- 271. Per quanto la critica lukacsiana alla teoria del rispecchiamento arrivi con estrema precisione a minarne le fondamenta filosofiche e, come abbiamo visto, pagando un inevitabile pesantissimo pedaggio al mito del proletariato come classe universale in Storia e Coscienza di Classe non si troverà un passo dove verrà attaccato Materialismo ed Empiriocriticismo. Nella edizione impiegata nel Dialecticvs Nvncivs di Storia e Coscienza di Classe, alla prefazione, alle pp. XXXV-VI, Lukács fornisce il seguente ritratto di Lenin come interprete della filosofia della praxis che, oltre ad avere una indubbia aderenza col personaggio storico reale, rappresenta anche una sorta di Imitatio Lenini, alla quale ogni vero rivoluzionario per Lukács avrebbe dovuto trarre ispirazione seguendo una corretta – e concreta – filosofia della praxis (ma avrebbe dovuto trarre, pure questo traspare dalle parole di Lukacs, se non dalla vita di Lenin, dalla storia del movimento comunista anche motivi di meditata e sorvegliata prudenza: questa prefazione fu apposta da Lukács all’edizione di Storia e Coscienza di Classe del 1967 e dal 1923 fino all’anno dell’edizione del 1967 utilizzata nel presente lavoro Lukács non aveva autorizzato nessun’altra edizione ufficiale: fra l’edizione del 1923 e quella del 1967 tutta l’operato di Lukács fu teso – se escludiamo l’episodio di Codismo e Dialettica, opera, fra l’altro, rimasta per oltre settant’anni solo manoscritta, che se fu verosimilmente conosciuta, direttamente o indirettamente, nei circoli ristretti degli addetti ai lavori della rivoluzione, non poté mai dispiegare quella carica dirompente che avrebbe avuto se, in occasione delle critiche paleodiamattine di Rudas e Deborin a Storia e Coscienza di Classe, fosse stato data allora alle stampe – a smorzare sul piano personale e su quello politico le gravissime potenzialità di frattura che all’interno di un movimento comunista dominato dall’incipiente sovietico Diamat recava con sé Storia e Coscienza di Classe): «Già nella prefazione che scrissi recentemente per la riedizione separata di questo breve studio ho tentato di mettere in luce con una certa precisione ciò che io ritengo ancora vitale ed attuale nel suo atteggiamento di fondo. Ciò che importa a questo proposito è anzitutto intendere Lenin nella sua vera peculiarità spirituale, senza considerarlo come un prosecutore rettilineo sul piano della teoria di Marx e di Engels e neppure come un geniale e pragmatico “politico realistico”. Nel modo più conciso si potrebbe formulare questo ritratto di Lenin come segue: la sua forza teorica poggia sul fatto che egli considera qualsiasi categoria – per quanto possa essere astrattamente filosofica – dal punto di vista della sua efficacia all’interno della praxis umana e al tempo stesso porta l’analisi concreta della situazione concreta data di volta in volta, su cui si basa costantemente ogni sua azione, in una connessione organica e dialettica con i principi del marxismo. Così egli non è nel senso stretto del termine, né un teorico né un pratico, ma un profondo pensatore della praxis, un uomo il cui penetrante sguardo è sempre rivolto al punto in cui la teoria trapassa nella praxis e la praxis nella teoria. Il fatto che la cornice storico-spirituale di questo mio vecchio studio all’interno del cui ambito si muove questa dialettica, porti ancora in sé i tratti tipici del marxismo degli anni venti, altera indubbiamente alcuni elementi della fisionomia intellettuale di Lenin, dal momento che soprattutto nei suoi ultimi anni di vita egli sviluppò molto più di quanto faccia il suo biografo la critica del presente, ma riproduce anche i suoi lineamenti fondamentali in modo sostanzialmente corretto, poiché l’opera teorico-pratica di Lenin è anche oggettivamente inscindibile dai momenti preparatori del 1917 ed associata alle loro conseguenze necessarie. Oggi io credo che il tentativo di cogliere la peculiarità specifica di questa grande personalità riceva una sfumatura non del tutto identica, ma non per questo completamente estranea, attraverso l’illuminazione compiuta a partire dalla mentalità degli anni venti.» : György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. XXXV-VI. Gramsci, a differenza di Lukács, non ebbe la felice sorte di vivere abbastanza a lungo per vedere il fallimento dei regimi che iniziarono dalla Rivoluzione d’ottobre; ebbe però la fortuna di consegnarci un pensiero che giganteggia, forse anche per le sue eccezionali sventure personali, su tutti quanti coloro, fra questi indubbiamente Lukács, diedero fondamentali contributi per la fondazione di una filosofia della praxis che sapesse rompere definitivamente con tutti i positivismi e meccanicismi (e, conseguentemente, con tutti i postmodernismi liberal-liberisti) che hanno sempre tarpato le ali a coloro che vollero cogliere il vivo dell’insegnamento di Marx (e, ovviamente, della dialettica di Hegel: fra i giganti di quel marxismo occidentale che felicemente seppero far evolvere l’idealismo in una feconda filosofia della prassi nominiamo qui solo di sfuggita Karl Korsch e il suo Marxismo e Filosofia: autore ed opera che troveranno una ben più completa disamina in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico). Il conflittualismo dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico, forse immodestamente ma, si spera, anche con la consapevolezza di Bernardo di Chartres, a questo aspira.

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Alfred Eisenstaedt – ‘Weathervane in Vermont’, early 1940

Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia, di Massimo Morigi… prosecuzione del dibattito

Nell’ottima – e per molti versi condivisibile – analisi dell’amico Roberto Buffagni ne ” Le probabilità (scarse) di affermazione di un fronte nazionale in Italia” si rileva un soggetto che brilla per assenza, il movimento cinque stelle. Oltre che per le rilevate ragioni da Buffagni che ostacolano in Italia l’affermazione di qualcosa di simile a un fronte nazionale modello francese (e anche al di là della sacrosanta necessità di disintegrare la sinistra italiana), è da rilevare che, allo stato attuale, il principale ostacolo in Italia per innestare un reale ed efficace movimento sovranista è il movimento cinque stelle che ha fatto dell’assenza assoluta di un qualsiasi programma con un minimo di intelliggibilità la sua formula vincente (non dell’ ambiguità e/o della scarsa credibilità: questa è roba da vecchi arnesi della politica: onestà, onestà è il suo grido di battaglia. Ergo si è in presenza – come fra l’altro è stato ampiamente dimostrato – di un movimento che può assumere tutte e nessuna posizione politica e che proprio per questa sua aurea caratteristica, oltre a far man bassa di voti fra le fasce di elettori la cui educazione è solo quella di tipo informatico, è lo strumento ideale per eterodirezioni di ogni tipo e provenienza). In presenza di questa tragica immaturità dello scenario politico italiano, temo fortemente che i rimedi proposti dall’amico Buffagni ( legarsi a movimenti antisinistra e all’interno di questi condurre una battaglia culturale oltre che politica) sconti con eccessivo ottimismo questa ulteriore degenerazione politico-culturale rappresentata dal movimento cinque stelle. Giudico pertanto unica soluzione razionalmente possibile non tanto associarsi a stanchi movimenti e partiti che, sfibrati eredi della destra della prima repubblica – o eredi delle disillusioni di questa – dell’ambiguità e del gabbare il povero elettore han fatto bandiera (mi vien da ridere pensare che costoro non solo dovrebbero combattere con efficacia la sinistra ma dovrebbero anche contrapporsi al vivacissimo e – letale per le sorti d’Italia – movimento cinque stelle) ma al contrario, impegnarsi per la costruzione ab imis di un movimento politico-culturale che sulla scorta, fra l’altro, dell’inquadramento teorico (ma anche pratico, molto pratico, anche se non di facile implemetazione: a questo proposito si rimanda al Vom Kriege di Von Clausewitz e alle sue considerazioni sulla semplicità teorica e complessità applicativa dell’ arte della guerra …) di Gianfranco La Grassa possa veramente generare quel previano riorientamento gestaltico che investa in una indissolubile e al tempo stesso dinamica unità dialettica il momento culturale e quello politico. Oltre a Gianfranco La Grassa e a Costanzo Preve, riaffiorano così certe presenze che ci sono state sempre care: un certo Machiavelli, un certo Gramsci, un certo principe rinascimentale, un certo principe moderno. Se ne può parlare , se ne deve parlare (e, ovviamente, si deve anche agire) …

IL GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO, di Giuseppe Germinario

Un epilogo beffardo!
Appena sette settimane fa Renzi era accolto a tavola del Presidente degli Stati Uniti d’America, uscente ma pur sempre il Presidente.
Trattandosi dell’Ultima Cena, non risulta alcun gesto scaramantico da parte di Renzi al suo ingresso a tavola.
Il suo futuro del resto si prospettava fulgido e pregno di aspettative. Uno dei suoi mentori principali presiedeva lo staff elettorale della pressoché certa nuova Presidente statunitense e da quegli ambienti aveva attinto buona parte dei propri consiglieri; con l’uscita, al momento proclamata, della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’Italia si accingeva a sostituirla nel ruolo primario di contraddittorio dell’asse franco-tedesco e di portavoce diretto dell’alleato d’oltreatlantico in sede europea.
Un Capo di Governo che deve la propria fortuna soprattutto all’investitura esterna più che al radicamento negli interessi forti e diffusi del proprio paese, non poteva del resto che costringere le proprie sorti principalmente alle vicende d’oltre confine.
L’elezione di Trump ha rappresentato la rottura della faglia principale su cui era costruito il castello delle aspettative. La sua politica estera e la sua politica economica, almeno nei proclami e nelle intenzioni, sono antitetiche rispetto al progetto e ai legami esibiti sin troppo spavaldamente dal nostro indomito.
La vittoria di Fillon alle primarie repubblicane francesi prefigura una particolare interpretazione della svolta trumpiana fondata su un asse tattico franco-russo-americano potenzialmente antitedesco e, in una prospettiva più larga, anticinese.
La ricandidatura di Angela Merkel, lo sponsor più controproducente da esibire, rappresenta invece il probabile tentativo di conservare la preminenza del sodalizio tedesco-americano in Europa fondato sulla permanenza esplicita o surrettizia del vecchio establishment americano e sulla sconfitta o neutralizzazione della svolta trumpiana.
Sono le due faglie secondarie destinate a rendere ancora più precaria la condizione del paese e la posizione del Matteo dimissionario. Meriteranno assieme alla prima senz’altro un articolo a parte.
Si tratta comunque di uno sciame sismico che ha dissestato le fondamenta e messo a nudo la precarietà dell’edificio renziano.
Un edificio che aveva come tetto una riorganizzazione istituzionale e amministrativa che tendeva correttamente ad una centralizzazione, ad un riordino e ad una semplificazione delle competenze e delle funzioni ma le cui pareti erano costituite da una politica economica e sociale del paese disastrosa non solo per le ripercussioni, la disgregazione, i corporativismi che stanno innescando nella formazione sociale ma soprattutto perché porta a perdere il controllo della produzione di quelle risorse necessarie a garantire l’autonomia politica, la riorganizzazione istituzionale, la coesione della formazione sociale e la prospettiva del nostro paese.
Il risultato è stato una riforma pasticciata della quale si è assunto il patrocinio Renzi ma della quale sono responsabili tutti i partiti; un tentativo di centralizzazione di stampo oligarchico perché incapace di dare una prospettiva di sviluppo e di autorevolezza politica, frutto quindi di un compromesso precario estorto a quelle stesse forze che avrebbe dovuto sconfiggere ed emarginare.
Il piano di implementazione dell’industria 4.0, presentato dal serissimo ministro Calenda, rappresenta l’emblema di quella politica economica. Un piano fondato su incentivi generalizzati ed investimenti di ricerca tesi a digitalizzare, informatizzare ed integrare i processi industriali assecondando però il processo di periferizzazione della merceologia e della tecnologia di prodotto. Una politica antitetica rispetto a quei paesi emergenti tesi a competere con gli Stati Uniti, ma soprattutto del tutto disallineata rispetto alla politica economica tracciata da Donald Trump in America.
Una vittoria non troppo schiacciante del sì probabilmente avrebbe segnato il destino delle due componenti, accorciato una loro agonia comunque in corso e reso più trasparente il sistema politico.
Sta di fatto che l’esito del referendum ha riportato in campo almeno temporaneamente e più saldamente Silvio Berlusconi e la componente minoritaria del PD. Assisteremo al tentativo di ricostituire il gioco destra-sinistra e con questo puntare ad ingabbiare la Lega e Fratelli d’Italia nel centrodestra e rinsaldare una sinistra progressista comunque minoritaria. Alla bisogna si troveranno le forme di collusione necessarie a neutralizzare l’ascesa del Movimento Cinque Stelle (M5S). La Lega, dal canto suo, sino a quando non si emanciperà dal proprio peccato originale di forza localistica ed autonomistica difficilmente potrà resistere a lungo alle sirene dei vecchi schieramenti. Non si conoscono però ancora casi di emancipazione dal peccato originale se non rinnegando la religione che lo inculca.
Il risultato, però, ha anche confermato l’esistenza di tante talpe capaci di rendere instabile il terreno ma ancora cieche ed incapaci di individuare la via di uscita in superficie. Una luce fioca ma esposta attualmente alla disgrazia di avere, quelle stesse talpe, delle guide le quali piuttosto che indirizzarle e tracciare loro la strada pretendono direttive precise da loro stesse.
È appunto la retorica della democrazia dal basso e dell’annichilimento dei poteri forti, tanto cara alle forze politiche proclamatesi alternative, in particolare il M5S, tanto loquaci quanto in realtà inconcludenti; è questo l’aspetto oscuro e paralizzante del cosiddetto populismo. Il paese, al contrario, ha disperatamente bisogno di un ceto politico deciso ed autorevole, di poteri forti capaci di aggregare la pletora di interessi in cui è frammentato il paese in un progetto di emancipazione politica.
L’elezione di Trump da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di studio.
Il declino drammatico del nostro paese è passato d’altro canto proprio attraverso l’annichilimento e la subordinazione di questi poteri piuttosto che dal loro rafforzamento.
All’inizio ho parlato di epilogo. Forse è una affermazione troppo drastica.
Renzi è stato colpito e probabilmente si metterà da parte per qualche tempo. La personalizzazione dello scontro non è stato solo un calcolo sbagliato del protagonista, ma era intrinseca al fatto che il suo governo è nato per fare le riforme istituzionali. Il suo destino sarebbe stato comunque legato all’esito del referendum. Se riuscirà a conservare la carica di Segretario avrà ancora diverse carte da giocare anche nell’immediato; dovesse perdere anche quella, dovrà altrimenti attendere le eventuali invocazioni dei ribelli che lo hanno scalzato ma che si sono dispersi nella palude. A quel punto il suo progetto di Partito della Nazione circondato da satelliti assumerebbe un significato del tutto diverso e più integrato nella logica degli schieramenti classici.
Con un Trump però forte e soprattutto coerente con se stesso difficilmente potrà assurgere ad un ruolo di primo piano.
Piuttosto cresceranno spazi per un Berlusconi quasi esanime o qualcuno dei suoi eventuali eredi, ma con scarsi benefici per il paese; oppure, ma è solo una speranza poco corroborata, qualcosa di realmente nuovo potrebbe sorgere dalle macerie delle forze di opposizione e mettere in condizione di trattare su basi più dignitose e paritarie la nostra collocazione estera e le nostre condizioni di sviluppo.
Dipenderà ancora una volta soprattutto dal comportamento dei nostri vicini di casa.

ps_ per una ricostruzione storica del Governo Renzi consiglio la seguente lettura http://italiaeilmondo.com/2016/12/05/%CE%BC%CE%B1%CE%B8%CE%B8%CE%B1%CE%B9o%CE%BD-matteo-dono-di-dio-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-apparso-il-12-novembre-2014-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/

ΜΑΘΘΑΙOΝ (MATTEO), “DONO DI DIO” (2A PARTE) DI GIUSEPPE GERMINARIO, già apparso il 12 novembre 2014 sul sito www.conflittiestrategie.it

Ripubblico due miei articoli su Matteo Renzi apparsi nel novembre 2014 sul sito www.conflittiestrategie.it
per leggere la prima parte, ecco il link http://www.conflittiestrategie.it/%ce%bc%ce%b1%ce%b8%ce%b8%ce%b1%ce%b9o%ce%bd-matteo-dono-di-dio-1a-parte-di-giuseppe-germinario

Nei pochi momenti riservati nei quali può concedersi il lusso di gettare la maschera dell’ottimismo ad oltranza, Matteo Renzi confida di aver legato il proprio destino all’esito del confronto in Europa.

Probabilmente si è trattato di un balon d’essai in vista di quello che potrà succedere nell’Unione Europea dalla prossima primavera; probabilmente Matteo Renzi è uno degli ami cui è attaccata l’esca che dovrà catturare i tedeschi, piuttosto che il rugoso pescatore che brandisce la canna. Non si può dire che abbia sortito l’effetto desiderato. Le sue richieste hanno assunto inizialmente l’aspetto di un atto d’imperio di un capo di governo, di uno statista; un impeto volitivo cui i nostri statisti negli ultimi trent’anni ci avevano del tutto disabituato.

In verità già il contenuto del contenzioso era assai modesto: il mantenimento del deficit sostanzialmente al 3% piuttosto che l’approssimarsi allo zero, l’abbattimento dello stock del debito di uno 0,1%, piuttosto che di uno 0,5, l’estrapolazione degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit nella speranza di un prossimo varo del piano di 300 miliardi di investimenti europei.

I possibili compagni di strada, i francesi compagni di partito, si sono ovviamente dileguati ed hanno preferito negoziare e mendicare per proprio conto, direttamente con la Cancelliera tedesca, le garanzie per le loro trasgressioni; lungo il percorso ne ha trovato un altro, l’inglese Cameron, la qual cosa lascia sospettare la reale finalità di quel test e i suoi possibili sponsor dalla “manina discreta d’oltreoceano”.

Il parto ha generato poco meno di un topolino con l’abbattimento dello stock ad uno 0,3% nominale e 0,4 effettivo rispetto allo 0,5 % preventivato dalla CE ed il mantenimento del deficit al 3%; la differenza tra la prosopopea e l’accondiscendenza sarà coperta dai fondi per gli investimenti degli enti locali, dal fondo per l’abbassamento delle imposte dirette e con il drenaggio di qualche ennesimo balzello; la quota di deficit da destinare alla domanda si riduce quindi drasticamente. Il carattere espansivo della manovra, già viziato, come vedremo, da una larga presunzione, subisce ahimè un ulteriore serio contraccolpo, sino ad invertirne gli effetti.

Rimane l’aspettativa recondita sui trecento miliardi aggiuntivi, così recita, almeno, il comunicato dell’ultimo Consiglio Europeo, da rimediare in parte dalle contribuzioni degli stati europei, in parte da finanziamenti privati; i primi proverranno comunque da fondi dei vari stati nazionali, quindi sotto forma di contribuzioni oppure dal dirottamento dei fondi strutturali inutilizzati; i secondi verranno elargiti con le necessarie garanzie sugli interessi oppure sulla possibilità di riscossione di rendite legate ad eventuali concessioni di sfruttamento. Dal punto di vista macroeconomico, l’eventuale carattere espansivo dipende dalla differenza tra contribuzione, rendite ed investimento e dalla capacità produttiva dei singoli paesi. L’eventuale saldo positivo per l’Italia dipenderà dalla capacità del Governo di ribaltare la posizione di contribuente europeo attivo, di riorientare i flussi destinati, anche per evidenti ragioni geopolitiche, in Europa Orientale a beneficio indiretto prevalente di Germania e Stati Uniti, di proporre ed utilizzare con efficienza gli investimenti eventuali. Un bel salto di autorevolezza che farebbe impallidire l’impulso volitivo manifestato da Matteo come poc’anzi descritto, ma con scarso costrutto. La sostanza, purtroppo, non pare molto diversa dalle aspettative illusorie manifestate da Bersani tempo fa in campagna elettorale.

L’analisi qualitativa dell’intervento di investimento dell’Unione Europea richiede, per di più, ancora ulteriore cautela nelle aspettative e nei giudizi. E’ indubbio che l’avvio di appalti e l’organizzazione di servizi innescano un incremento immediato ma temporaneo di redditi e domanda; rimane problematica l’analisi sugli effetti strutturali di questi interventi.

Esiste ormai una ampia letteratura, anche la più europeista, la quale esprime perplessità sugli effetti strutturali di questi investimenti. La conclusione più accettata e benevola, in quegli stessi ambienti, propende ormai per una ambivalenza degli effetti. Gli interventi sulle infrastrutture, sulle reti, sulla formazione comportano generalmente un miglioramento della qualità di vita, ma non innescano di per sé un processo di sviluppo ed innovazione diffusa; in mancanza di una politica industriale generatrice di attività e capacità autoctone possono al contrario acuire la polarizzazione e innescare una progressiva regressione. Occorre infatti contribuire a tessere tutta una trama di relazioni tra ricerca fondamentale, ricerca applicata, piattaforme industriali, commercializzazione, formazione professionale ed incentivazioni tali da innescare un processo endogeno di sviluppo e di formazione imprenditoriale. Una trama dall’esito incerto che può raggiungere vari livelli di complessità e di successo. In nome del libero mercato interno comunitario, della necessità di non penalizzare il libero gioco tra le imprese, ma anche della incapacità di gestire le rivalità tra gli stati nazionali, le politiche comunitarie si fermano alla fase propedeutica ed impediscono e ostacolano di norma e di fatto il più delle volte la formazione sia di nuova imprenditoria nei settori innovativi e nelle aree depresse, sia la formazione di aziende dalle dimensioni necessarie a sostenere la competizione internazionale anche oltre i confini della comunità europea.

Occorre, quindi, una politica nazionale di intervento parallela ed autonoma dalle direttive comunitarie che poggi su finanziamenti svincolati da tali direttive, sull’istituzione di agenzie dedicate capaci di coordinare i vari ambiti, sulla partecipazione delle grandi aziende strategiche superstiti e sul sostegno e il controllo di un sistema finanziario in grado di raccogliere il risparmio nazionale e orientarlo agli investimenti industriali; una politica consapevole dei limiti operativi della stessa grande imprenditoria privata, tutt’altro che propensa, il più delle volte, a superare determinate basse soglie di rischio non ostante l’epica dei capitani d’industria tuttora in auge. Lo hanno compreso da tempo al centro dell’impero; in Italia siamo ancora suggestionati dalle favole, salvo i pochi ben introdotti ai banchetti già imbanditi.

Dalla metà degli anni ’80, i governi del nostro paese hanno seguito una strada opposta: hanno liquidato e ceduto gran parte delle grandi imprese senza particolari riguardi alle loro prospettive; innescato processi di privatizzazione e di riorganizzazione in gran parte di tipo estorsivo e speculativo e riduttivi rispetto alle potenzialità di sviluppo; soppresso le agenzie dedicate, a cominciare dalla Cassa per il Mezzogiorno, dilapidando capacità professionali e trasferendo competenze a strutture decentrate inadeguate per massa critica e formazione necessaria; parallelamente alla drastica riduzione dei fondi europei destinati all’Italia, hanno ridotto progressivamente quelli nazionali e hanno convogliato quelli residui verso forme generiche e diffuse di agevolazioni dirette alle aziende sopprimendo contestualmente la defiscalizzazione dei salari nelle industrie meridionali; ridotto progressivamente e sterilizzato negli effetti applicativi gli investimenti in ricerca e trascurato ogni indirizzo nei pochi punti di forza del sistema economico come i distretti industriali.

Un processo scellerato che non si è ancora compiuto e promette ulteriori sviluppi nefasti; il ministero di Matteo, non ostante il petto gonfio, l’impeto patriottardo e il proposito rottamatorio, prosegue esattamente in questo solco: la politica di deficit, per quanto ampiamente ridimensionata dalle ingiunzioni comunitarie, rischia di essere velleitaria e controproducente in mancanza di un controllo e di un orientamento verso gli investimenti di lunga durata dei flussi finanziari e della moneta; gli investimenti nel solco delle attuali politiche comunitarie rischiano di assecondare, in cambio di benefici immediati fatui, processi di periferizzazione ormai innescati da alcuni anni.

Il risultato è l’impressione immediata di leggerezza, contraddittorietà e scarsa credibilità dei propositi governativi e soprattutto l’errore strategico dovuto all’incomprensione più o meno beata dei motivi dell’attuale politica di austerità a trazione tedesca; non solo di penalizzazione e soggezione della periferia e dei rivali economici europei, in primo luogo mediterranei, ma soprattutto di resistenza passiva ad una più accentuata dipendenza e soggezione alla potenza americana senza l’ambizione di rimettere in discussione le attuali gerarchie.

La conseguenza è una gestione dirompente e tendenzialmente antagonistica, ma incoerente delle contraddizioni tra i paesi europei e la tentazione sempre più irresistibile di dare ascolto alle sirene americane e di cercarne il sostegno in funzione antitedesca. Una tentazione ricorrente coltivata soprattutto nei momenti peggiori della storia repubblicana.

Ulisse conosceva gli appetiti delle sirene; Renzi, in qualità di traghettatore, probabilmente ritiene di avere una particolare immunità da quegli appetiti; una condotta dal probabile esito da sposo “mazziato e cornuto”; oppure, molto più verosimilmente, conta di offrire in sacrificio prede sufficienti a saziare il dio crudele e a risparmiare i sacerdoti del tempio.

IL VANGELO SECONDO MATTEO

I detrattori più sanguigni e superficiali tendono ad attribuire a Renzi l’assenza di pensiero e una contestuale sfrenata ambizione fine a se stessa; un errore madornale che induce alla sottovalutazione sistematica degli avversari politici e alla ricerca di una comoda posizione di testimonianza, predisposizione comune ormai ad intere generazioni di contestatori.

Nella fattispecie un equivoco nato anche dall’assenza di una esposizione sistematica della sua visione in prima persona.

L’apostolo Matteo, anche per l’innegabile arretratezza tecnologica dell’epoca fatta tutt’al più di tavolette piuttosto che di “tablet”, ma soprattutto per il suo fervore religioso, non ha esitato a mettere a repentaglio la propria vita pur di esporre la propria verità profonda.

Il Matteo contemporaneo fa invece il misterioso; si può dire che nasca già più “scafato”; affida al vate l’esposizione del pensiero profondo, riservando a se stesso la ben più divertente opera di divulgazione.

Il più accreditato in questa funzione è l’economista-matematico Gutgeld dal cui libro “più uguali, più ricchi” traggo alcune considerazioni utili a comprendere le linee di condotta e le contraddizioni del ministero renziano.

Vediamo di riassumere il pensiero in poche righe. Si parte dall’assunto della necessità di superare la contrapposizione tra la sinistra impegnata a garantire l’uguaglianza con l’aumento della tassazione e la destra intenzionata a stimolare l’iniziativa privata e la promozione individuale con la riduzione della tassazione, specie nella sua modalità progressiva, attraverso il taglio della spesa pubblica e il ridimensionamento dei servizi pubblici. Si tratta invece di passare dal principio di uguaglianza, reo di appiattire indistintamente il riconoscimento delle competenze e di impedire lo sviluppo, al principio di equità, in grado di garantire il merito e di estendere le occasioni di opportunità a prescindere dallo status sociale degli individui, capace di innescare sviluppo economico ma anche il più delle volte diseguaglianza. L’attuale condizione dell’Italia consente di sfuggire da questa dinamica; con l’eccezione della pubblica amministrazione, l’applicazione del criterio di equità riuscirebbe a garantire sia sviluppo che maggiore eguaglianza. Lungo la strada obbligata dell’integrazione europea, la chiave dello sviluppo si trova nella riorganizzazione radicale dell’amministrazione pubblica e dei servizi a parità di prestazioni, nell’abbattimento della spesa e dei livelli di tassazione e nella conseguente liberazione di risorse nel settore privato di per sé efficiente, meritocratico e fautore di sviluppo. Una gestione manageriale e l’adozione di criteri meritocratici sono gli strumenti necessari imprescindibili di questa riorganizzazione dello Stato. Si tratta, in questo contesto, di garantire servizi essenziali, in primo luogo scuola e sanità, di passare da una politica di monetizzazione del disagio ad una di offerta di servizi pagati secondo la capacità di reddito e di trasferire reddito da ambiti privilegiati, ad esempio i pensionati a sistema retributivo di fascia medio-alta, alle fasce più basse.

Tutto deve, quindi, concorrere alla liberazione della intraprendenza e della energia della società civile, garantendo comunque soglie minime di reddito .

COME LA GERMANIA, COME L’AMERICA

Indicata la bussola, a questo punto non resta che individuare meglio la rotta che Renzi intende intraprendere e i modelli di riferimento.

Da anni è invalsa l’abitudine, da parte dei responsabili politici, di aggrapparsi alle esperienze degli altri paesi pur di sostenere proposte evidentemente non in grado di affermarsi per forza intrinseca e per l’autorevolezza dei fautori.

Renzi non è da meno.

Il “jobs act” e la riduzione degli oneri fiscali societari (IRAP) sono i vessilli scelti dall’attuale nostro condottiero. In realtà sono una rappresentazione caricaturale delle politiche ben più organiche e radicali di quei due paesi.

Il “jobs act” statunitense è, in realtà, un insieme complesso di provvedimenti che riguarda del tutto marginalmente la regolazione giuridica del rapporto di lavoro dipendente; riguarda al contrario, tra i vari aspetti, una politica di investimenti che spazia da interventi keynesiani minimalisti al limite di un mero assistenzialismo ad investimenti importanti nei settori strategici ed innovativi; di modularizzazione e riorganizzazione del sistema di funzionamento della ricerca scientifica e dell’innovazione tali da integrare e fondere ulteriormente la ricerca scientifica militare e quella civile, quindi in grado di coordinare la ricerca fondamentale, quella applicata, la trasformazione in prodotti commerciabili attraverso piattaforme industriali adeguate per il tramite di una cooperazione e competizione dei vari soggetti pubblici e privati laddove le agenzie pubbliche, in particolare la DARPA, assumono un ruolo sempre più preminente. Il tutto supportato da una politica monetaria e finanziaria controllata e confortato dal peso della potenza di quella formazione sociale. Una politica che meriterebbe un’analisi adeguata, specie se comparata con le politiche europee e delle potenze rivali, la quale permetterebbe di valutare con più realismo i rapporti di forza attuali. Qualcosa di ben più complesso e paradossale rispetto alle favolette che ci propinano sui miracoli esclusivi dell’imprenditoria privata e alle prodezze mirabolanti degli imprenditori sorti dal nulla in quel paese delle quali si nutrono le stesse infatuazioni del nostro apostolo contemporaneo.

Il trasferimento fiscale dall’imposizione diretta, in particolare delle imprese, a quella indiretta sui consumatori e il dualismo nel mercato del lavoro introdotti più di dieci anni fa in Germania, sono anch’essi una piccola parte di una serie di provvedimenti e politiche; questi spaziavano da un controllo ferreo ed un intervento attivo del sistema finanziario centrale e delle banche locali, queste ultime rimaste fuori dai controlli comunitari, ad una integrazione pubblica dei redditi intaccati dal precariato, ad un sostegno importante alla ricerca scientifica anche se del tutto inadeguato rispetto a quello americano ed ora anche cinese, ad una politica di svalutazione, con l’introduzione dell’euro, rispetto alla rivalutazione di altri paesi europei in grado di favorire i volumi produttivi a scapito però, nel lungo periodo, della profittabilità e degli investimenti strategici. Sono politiche che possono poggiare sul punto di forza determinante di quel paese: la forza, il ruolo e la partecipazione pervasiva delle associazioni, specie professionali (sindacato, associazioni imprenditoriali e professionali) e dei partiti ed una struttura istituzionale sufficientemente coesa e molto più ordinata nelle gerarchie e nelle competenze rispetto a quella italiana

I MERITI, LE CONTRADDIZIONI E LE MILLANTERIE DI RENZI

Una analisi statica dell’azione di governo del nostro protagonista rischia tuttavia di portare ad una sottovalutazione della sua capacità di cambiamento e di dominio dell’onda giusta, spesso al di là delle sue stesse intenzioni; di dar torto ai “meriti storici”, probabilmente involontari che i posteri gli dovranno, forse a denti stretti.

Il modo con il quale Matteo Renzi sta gestendo i rapporti con l’Unione Europea e i suoi Stati più importanti sta sancendo definitivamente, grazie anche all’affermazione parallela dell’euroscetticismo, il declino della retorica europeista universalistica della quale in Italia Letta e Bersani sono stati gli ultimi malinconici e rassegnati epigoni; sta evidenziando che l’ambito europeista non è altro che un campo di azione particolare entro cui si esercita, dal dopoguerra, l’attività degli stati nazionali europei, più o meno indeboliti, e di quello statunitense attraverso i suoi vari centri di potere. L’esito delle prime esplicite scaramucce, accennate all’inizio di questo scritto, lascia però intravedere rapidamente il velleitarismo e la mistificazione della sua particolare conduzione del confronto; lascia presagire anche l’amaro destino cui rischia di andare incontro un paese esposto agli appetiti dei contendenti.

Ha saputo rappresentare con enfasi la necessità inderogabile di una riorganizzazione e di una gerarchizzazione dei vari livelli della struttura statale e degli organi istituzionali e probabilmente riuscirà a portare a termine l’incipit di quest’ultimo programma pur con tutti i limiti evidenziati nella prima parte dell’articolo.

L’aspetto costruttivo del suo dinamismo mi pare che si stia tuttavia arrestando qui.

Sulle conseguenze della sua politica europea mi soffermerò nella terza parte di questo scritto.

Sul secondo aspetto, già affrontato precedentemente, mi pare che il suo livore antiburocraticistico, giustificato dall’attuale conformazione degli ordinamenti amministrativi e delle loro funzioni, sottenda in realtà un’avversione a qualsivoglia modello operativo burocratico, quando proprio questa modalità operativa sta compenetrando, in forme più flessibili, sia la gestione pubblica che quella privata delle grandi imprese e delle grandi unità amministrative delle formazioni sociali dominanti in un processo avviato già negli anni del “new deal” americano. La spinta modernista rischia quindi di trasformarsi in una riproposizione retriva della contrapposizione tra l’immobilismo del burocratismo pubblico e la virtù della libera iniziativa individualistica in un paese che ha proprio nelle dimensioni ridotte delle aziende, nella loro gestione familistica e nella pletoricità e parassitismo di buona parte del ceto medio stesso, uno dei punti di debolezza più drammatici. Gli stessi propositi di trasferimento di risorse dai ceti cosiddetti privilegiati, titolari ad esempio della pensione retributiva a quelli più umili, titolari ad esempio delle pensioni sociali, non fa che accentuare significativamente quell’appiattimento verso il basso dei redditi a prescindere dal contributo professionale che le singole persone sono state e sono in grado di offrire, già innescato dai mutamenti tecnologici, dai modelli organizzativi adottati dalle aziende specie in una economia declinante come quella italiana. Una tendenza che, stando all’enfasi meritocratica strombazzata, dovrebbe essere contrastata vivacemente a favore di un dirottamento verso gli investimenti di risorse altrimenti immobilizzate in rendite, tesaurizzazioni o disperse fuori del paese.

E’ il momento quindi di passare alle contraddizioni stridenti e alle manifestazioni di ottimismo oltranzistico che caratterizzano sempre più gli atti di un politico stretto tra i proclami modernisti e le rappresentazioni bellicose dei propri comportamenti e la realtà di uno spazio di intervento circoscritto innanzitutto dalla sua collocazione politica e dai limiti che si è definito, quindi dalla precarietà e ambiguità delle forze disposte a sostenerlo, da una parte ed il contenuto reale, decisamente conformisti, di gran parte dei compromessi in via di maturazione sino a spingere il nostro a rifugiarsi progressivamente nelle proprie debolezze e a cedere alla propria indole di giocoliere.

Tralascio i giochini sulla realtà delle cifre riguardanti il taglio dell’IRAP e la restituzione degli ottanta euro. Sono somme al lordo di compensazioni o che comprendono conferme di agevolazioni degli anni precedenti

Più grave la rappresentazione della gestione delle vertenze riguardante aziende in crisi; sono regolarmente presentate come soluzioni positive semplici rinvii di liquidazioni e chiusure comunque in atto. Lo abbiamo visto, tra i tantissimi casi, con l’Elettrolux, con l’AST; tanto sotto traccia viene mantenuto il dibattito sulla quantità impressionante di aziende in via di chiusura e sulla sparizione di interi settori produttivi, compresa l’industria di base, quanto è incalzante la adulazione “dell’Italia che ce la fa”. La perdita di controllo di interi settori anche complementari è celebrata come un inno alla libertà imprenditoriale. Nessuna analisi qualitativa delle trasformazioni in corso nell’apparato produttivo del paese e soprattutto una spessa coltre omertosa a coprire la disastrosa continuità tra la liquidazione e destrutturazione del patrimonio industriale avvenute con le cessioni negli anni ’90 e l’attuale politica di privatizzazione e depotenziamento del residuo patrimonio industriale strategico e di base.

I suoi atti, spesso sono azzardi, come le defiscalizzazioni, giustificati anche come azioni propedeutiche alle contestuali riduzioni di spesa e riorganizzazioni delle strutture amministrative; con ciò ignorano bellamente la discrasia di tempi evidente tra i due processi.

Si sbandierano come alleggerimenti fiscali una politica di mero trasferimento dall’imposizione diretta a quella indiretta e tributaria senza riuscire a dirottare e concentrare le risorse verso quei settori in grado di far invertire l’inesorabile tendenza al degrado.

In nome della fruibilità immediata, si cerca di concentrare la spesa in interventi diffusi (edilizia scolastica), in grado forse di alleviare la crisi edilizia e riavviare il volano, in contrapposizione alle grandi opere; una presa d’atto, in pratica, della scarsa capacità di gestione di interventi più complessi, ma più incisivi nella prospettiva.

L’urgenza del consenso spinge, non ostante le nobili intenzioni, verso la scorciatoia facile della monetizzazione piuttosto che lungo la strada complessa dell’organizzazione dei servizi, come celebrato nelle pie intenzioni iniziali.

Più che la spinta dell’ottimismo, mi pare che a muovere le anime sia sempre più la frenesia e la fibrillazione dettate dal senso di claustrofobia.

Una frenesia condita di una retorica che lo sta rendendo sempre più prigioniero di ambiti ristretti della società, ma rappresentativi della direzione tutt’altro che attraente che sta prendendo il paese, almeno nella sua grande maggioranza.

Lo vedremo meglio nella terza parte dello scritto.

Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia, di Roberto Buffagni

Traggo dal sito http://ilblogdilameduck.blogspot.it/2016/11/make-italy-great-again.html#comment-form un interessante intervento di Roberto Buffagni
In effetti e *oggettivamente*, secondo la formula prediletta da Stalin, oggi il clivage principale dello scontro politico non è tra sinistra e destra, ma tra forze favorevoli e contrarie alla UE e all’euro, quali che ne siano provenienza e cultura politica. In linea di principio e in un mondo migliore, la strategia del superamento del clivage destra/sinistra e della costruzione di un’alleanza – o addirittura dell’integrazione in nuovo partito – tra forze politiche provenienti da sinistra e da destra, allo scopo di uscire dall’eurozona e di riappropriarsi della sovranità nazionale alienata alla UE, sarebbe la più adeguata alla fase politica.

Peccato che secondo la mia valutazione – che può, beninteso, essere sbagliata – in Italia l’edificazione di questa alleanza è impossibile in tempi politici prevedibili (5-10 anni); non solo, ma il tentativo di crearla può rivelarsi gravemente controproducente.

Una forza politica che – pur tra limiti e contrasti interni – da anni si sta trasformando per superare il clivage destra/sinistra ed opporsi efficacemente a UE ed euro è il Front National di Marine Le Pen. Sinora, la riconversione strategica ha avuto successo, tant’è vero che il FN è il primo partito di Francia, e Marine Le Pen ha la reale possibilità di vincere le presidenziali del 2017. Il Front National, nato da Vichy e dall’OAS contro il gaullismo e de Gaulle, ha oggi una linea gaulliana, cioè a dire una linea politica patriottica che difende insieme l’interesse nazionale e l’interesse dei ceti popolari (il FN oggi si prende il voto operaio che fino a poco fa andava a sinistra). Questa metamorfosi ha dovuto innestarsi su una solida base di nazionalismo “di destra”, per il fatto elementare che il nazionalismo “di sinistra”, che pure in Francia c’era, è stato cancellato dall’adesione della sinistra alla UE.

In Italia, purtroppo, una riedizione come che sia aggiornata dell’esperimento FN è impossibile – almeno per un’ “ora” nient’affatto breve – perché l’Italia non ha avuto un Charles de Gaulle, cioè un nazionalista antifascista che, rappresentando nella sua persona la continuità dello Stato e l’indipendenza della patria dopo la sconfitta bellica e la collaborazione col nemico occupante, ha saputo risparmiare alla Francia il destino di nazione vinta e occupata dalle forze vincitrici della IIGM. L’Italia ha avuto Benito Mussolini e Pietro Badoglio, il 25 luglio e l’8 settembre: la continuità dello Stato, l’indipendenza della patria, persino l’idea di nazione e di interesse nazionale come valori sovraordinati alle appartenenze politiche, sono stati travolti dal disastro fascista, dalla fine disonorevole della dinastia, da una guerra civile in cui entrambi i campi si sono subordinati a potenze straniere, dalla sconfitta bellica e dall’occupazione militare alleata.
In Italia, quindi, manca la base – ancor prima culturale e ideologica che politica – su cui innestare un progetto di fronte nazionale, che, lanciando una parola d’ordine del tipo “la destra dei valori, la sinistra del lavoro”, si proponga di superare contrapposizioni politiche ormai incapacitanti in nome dell’indipendenza della patria, della sovranità dello Stato, dell’interesse della nazione e del popolo italiano.
Mi si obietterà: ma certo che c’è, la carta dei valori intorno alla quale costruire il Fronte Nazionale di Liberazione! C’è la Costituzione! La Costituzione italiana, che presidia la sovranità popolare, difende la democrazia e il lavoro, ed è incompatibile tanto con le usurpazioni di sovranità e legittimità commesse dalla UE con la complicità dei governi italiani, quanto con le politiche economiche imposte da UE ed euro, che intenzionalmente producono disindustrializzazione, disoccupazione di massa e progressivo peggioramento delle condizioni di vita del popolo italiano.

E’ così? Davvero la Costituzione italiana può far da base all’alleanza politica che darà vita al Fronte Nazionale di Liberazione dall’euro e/o dalla UE? Io penso di no. Spiego perché.

La Costituzione antifascista non è un valore o una piattaforma che possa accomunare destra e sinistra italiane antiUE/antieuro e farle ritrovare intorno a un programma minimo comune. L’aggettivo “antifascista” non è un fatto accessorio, è una qualificazione decisiva. Nella destra italiana, il fascismo è un residuo minimo, e dunque non è questo l’ostacolo. L’ostacolo principale è invece un fatto storico molto rilevante: che dopo il 1945, con la (benemerita) decisione di Togliatti e di Stalin di conformarsi a Yalta, e cioè di non perseguire anche qui la linea della guerra civile in vista dell’instaurazione di una “democrazia popolare” (come invece fu tentato proprio in Grecia), il PCI ha sostituito la linea “rivoluzionaria di classe” con la linea “antifascista e interclassista” e il mito (sottolineo due volte mito) della Resistenza. Cioè a dire, la linea del CLN.
Quando si proclamano “i valori della Costituzione” a un elettore di destra, automaticamente egli intende “valori di sinistra”. Non conta, qui, se l’elettore di destra sia un liberale, un leghista, un fascista, un cattolico tradizionalista, un nazionalista, etc.: conta che “la Costituzione più bella del mondo” per l’elettore di destra è anzitutto la Costituzione di una parte politica (non la sua). Quando la sente nominare, assocerà mentalmente cose diverse, a seconda dei suoi interessi e della sua ideologia: assistenzialismo e Roma ladrona se è leghista, sindacati e tasse se è un liberale, divorzio e aborto se è un cattolico tradizionalista, stragi partigiane e tradimento dell’alleato se è un fascista, occupazione americana e perdita dell’indipendenza se è un nazionalista, etc.: non assocerà mai “la preziosissima carta fondamentale della nostra patria”. La realtà a lui più simpatica a cui la potrà associare è la Prima Repubblica, per la quale alcuni (non tutti) gli elettori di destra provano una certa nostalgia, specie se non sono più giovani.
Qui non affronto il tema se l’elettore di destra abbia torto, ragione, torto e ragione insieme, etc.: segnalo soltanto il fatto che è così, e aggiungo un paio di esempi che possono illustrare meglio questa realtà.

Primo esempio. Al suo insediamento, il presidente Mattarella è andato a omaggiare i caduti delle Fosse Ardeatine. Così facendo, egli non ha reso omaggio alla nazione: altrimenti, avrebbe omaggiato l’Altare della Patria, che sta lì a due passi. Ha reso omaggio a una parte della nazione, quella che appunto si riconosce nella narrazione antifascista e di sinistra e nel mito della Resistenza. Però c’è anche un’altra parte della nazione che non vi si riconosce, e non è composta esclusivamente di nostalgici di Salò: anzi.
Secondo esempio. Quando gli antieuro/antiUE chiamano “fascista” la politica della UE e il meccanismo dell’euro, io capisco benissimo perché lo fanno: per sottolinearne l’antidemocraticità, l’illegittimità e l’incostituzionalità. Però, l’apposizione dell’etichetta “fascista” alla UE e all’euro segnala una contraddizione che rischia d’essere incapacitante, e un equivoco pericoloso. Perché?
In primo luogo, perché non tutti i regimi antidemocratici sono fascisti: anzi, in questo caso è vero l’esatto opposto. Sono proprio gli eredi legittimi dell’antifascismo (USA + classi dirigenti antifasciste europee, socialdemocratiche, liberali e cattoliche) ad avere impiantato e a sostenere UE ed euro. Mentre il fascismo (che si è reso storicamente responsabile di mali ben più gravi dell’euro e della UE) è affatto incompatibile con UE ed euro: il fascismo storico è una forma estrema di nazionalismo, che tutto avrebbe potuto fare tranne regalare sovranità a una entità sovranazionale come la UE; il fascismo storico fu anche antiliberale, statalista e dirigista, e dunque non avrebbe mai sostenuto il “più mercato meno Stato”, la libera circolazione di capitali e forza lavoro, la doverosa accoglienza di un numero imprecisato di stranieri sul suolo nazionale, e le altre formule liberali e liberiste care alla UE.
Insomma, la “democrazia”, cioè il principio legittimante secondo il quale la sovranità appartiene al popolo, può effettivamente essere un minimo denominatore comune tra destra e sinistra antiUE/antieuro, per la ragione principale che è l’unica arma di cui dispongono contro il comune nemico, che del parere dei popoli e delle elezioni fa volentieri a meno. Non può esserlo la Costituzione.

L’Italia è, malauguratamente, un paese profondamente diviso. Il giorno in cui, nei momenti solenni della vita nazionale, tutti gli italiani senza distinzione di parte politica trovassero naturale cantare insieme, spontaneamente e senza retropensieri, l’inno nazionale, si potrebbe pensare alla costruzione di un Fronte Nazionale di Liberazione. Oggi, questo può accadere – forse – solo quando la Nazionale italiana di calcio partecipa a una competizione internazionale importante. Purtroppo, non basta.
Segnalo un sincronismo assai significativo. La proposta di un Fronte Nazionale di Liberazione avanzata da più parti coincide con la proposta di un Partito della Nazione lanciata da Matteo Renzi. Lo trovo un sintomo da non trascurare, e anzi chiarificatore ed allarmante. Il più grave errore del fascismo storico, che origina dal suo rifiuto di principio del pluralismo politico, è proprio la pretesa di identificare, ossimoricamente, partito e nazione. La nazione, che è l’insieme di tutto un popolo che si radica nel passato dei suoi morti e si protende, attraverso i viventi, verso i suoi figli futuri, non può venire identificata con un partito, che ne è per definizione una parte, senza che ne conseguano due effetti: 1) chi non appartiene al partito non appartiene alla nazione, e dunque non gode, almeno sul piano etico e culturale, della piena cittadinanza 2) la nazione e l’interesse nazionale non potranno mai più essere valori sovraordinati alle altre appartenenze e lealtà, perché la nazione è stata identificata con una parte politica, e ne condivide la transeunte relatività e parzialità: simul stabunt, simul cadent.

In sintesi: chiunque fondi il “Partito della Nazione” prepara senza saperlo la dissoluzione, senz’altro spirituale ma in circostanze favorenti anche materiale e politica, della sua patria.

Nella lotta politica italiana dei prossimi tempi, il costituendo Fronte di Liberazione Nazionale potrebbe dunque contrapporsi al costituendo Partito della Nazione; e lo scontro si incentrerebbe, per forza di cose, intorno al quesito: “chi è autenticamente italiano? Chi appartiene davvero alla nazione?” Basta rifletterci un momento per accorgersi che questa è la ricetta della guerra civile, un piatto indigesto che ci siamo ammanniti più d’una volta, nella storia nazionale; e anche un buon compendio della tragedia politica nazionale italiana, inaugurata dal fascismo e solo rovesciata di segno dall’antifascismo.
Dunque, se non è possibile un Fronte Nazionale di Liberazione contro l’euro e/o la UE, è impossibile agire politicamente?
Io non penso. Spiego perché.

Si può sempre agire politicamente, non appena si sia designato il nemico : perché caratteristica fondante del politico è, appunto, la coppia di opposti amico/nemico.
La domanda a cui si deve rispondere è: la UE, con l’euro che della UE è strumento politico consustanziale, è un nemico? Personalmente, rispondo di sì.

Risponde di no, per esempio, la sinistra critica, che rappresenteremo in Stefano Fassina, perché sebbene egli constati che “nella gabbia liberista dell’euro” “la sinistra…è morta”, propone come sola “via d’uscita” “il superamento concordato della moneta unica, esemplificato ad esempio nella proposta di ‘Grexit assistita’ scritta dal Ministro Schäuble e avallata dalla Cancelliera Merkel”, e la giudica “l’unica strada realistica per evitare una rottura caotica dell’eurozona e derive nazionalistiche incontrollabili”.
Fassina dunque considera l’attuale UE un avversario, non un nemico; incardina il proprio disegno politico sullo spostamento degli equilibri politici interni alla UE, e lo subordina alla vittoria di una linea politica (minoritaria) interna al paese egemone. In sintesi Fassina ripropone, in forma più radicale, più seria e più coraggiosa – e dunque più dannosa perché più credibile – la tesi delle due UE: la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona).

Le obiezioni alla tesi delle due UE sono note, ma qui ne sottolineo una: e se ti dicono di no? se lo spostamento degli equilibri politici interni alla UE non riesce, se la linea Schäuble perde, che fai? Qual è la tua ragion d’essere politica e la tua strategia? Detto altrimenti, qual è il tuo nemico? La UE e l’euro nel cui quadro “la sinistra…è morta” o le “derive nazionalistiche incontrollabili”?
La tesi delle due UE non conduce a un’azione politica vera e propria, ma a un circolo vizioso nevrotico: avanzare petizioni farcite di appelli ai principi di sinistra della “buona e vera UE possibile”, facendole seguire da violente, isteriche proteste verbali ogni volta che la petizione non viene accolta e i principi vengono disattesi dalla “falsa e cattiva UE realmente esistente”: l’esatta dinamica della sciagurata trattativa tra governo Tsipras e vertici UE.

Certo: è probabile che una recisa dichiarazione di inimicizia verso UE ed euro condannerebbe Fassina a una posizione minoritaria o addirittura testimoniale all’interno dei dissidenti del PD, a cui si rivolge in vista della creazione di una nuova forza politica. Però, la tesi delle due UE da un canto condanna la costituenda nuova forza politica a una posizione minoritaria o addirittura testimoniale all’interno della “UE realmente esistente”, e dall’altro replica lo schema tipico del rapporto di subordinazione e reciproca strumentalità tra sinistra di governo e sinistra massimalista (PD e SEL, per intenderci). La sinistra massimalista intercetta il dissenso antisistemico, e poi, nei momenti decisivi, lo spende per sostenere la sinistra di governo, che in cambio garantisce ai suoi quadri posti e finanziamenti: priva com’è di una strategia politica autonoma da quella della sinistra di governo, se la sinistra massimalista non segue questo schema semplicemente sparisce.

Uno spazio di azione politica vera e propria si apre solo se si risponde, senza ambiguità, alla domanda: la UE, con l’euro che della UE è strumento politico consustanziale, è un nemico?
Se si risponde di no – quali che siano le aggettivazioni e le mezze tinte che si accludono alla risposta – si agisce politicamente all’interno del quadro UE così com’è, con i rapporti di forza, le ideologie e gli schieramenti nazionali e internazionali realmente esistenti: e ogni riferimento a “un’altra UE possibile” resta pura e semplice espressione di un desiderio e/o mozione degli affetti a uso interno + slogan propagandistico a uso elettorale.

Se si risponde di sì, ne consegue immediatamente che i propri alleati sono tutti coloro che condividono la stessa valutazione, a prescindere dal resto (cultura e linea politica). Si può fare eccezione solo per chi si ponga su posizioni incompatibili con la nostra civiltà (per esempio, l’ISIS è certamente nemica della UE, ma non è un alleato possibile).

Per le ragioni esposte nella terza parte di questo scritto, non credo praticabile in Italia la via della costruzione di un Fronte Nazionale di Liberazione, e dunque considero sbagliata – non in linea di principio, ma di fatto – ogni proposta di alleanza strategica tra forze politiche organizzate provenienti da destra e da sinistra.
A mio avviso, se si vuole agire politicamente contro la UE le vie da percorrere oggi sono tre.

Una: influire culturalmente, nei canali disponibili e ciascuno secondo le proprie forze individuali o collettive, senza aderire ad alcun partito. Risulterà naturale che chi sceglie questa via si rivolga, principalmente, a chi appartiene alla sua cultura politica di provenienza: anche se probabilmente è proprio lì che incontrerà gli ostacoli e le sordità maggiori, perché nemo propheta in patria. E’ un lavoro indispensabile, prezioso e ingrato.
Due: aderire a una delle due sole forze politiche organizzate e rilevanti che in Italia si dichiarino (con gradi diversi di chiarezza e coerenza) nemiche della UE: Lega, e Fratelli d’Italia. Aderirvi in forma individuale o se possibile organizzata, partecipare al dibattito interno, scontare i limiti dell’adesione a una linea politica che non persuade per intero, e tentare di influirvi, cioè fare carriera nel partito per consolidarvi la vittoria (tutt’altro che definitiva) della linea anti UE e antieuro.

Tre: lavorare per dividere, mandare in confusione e battere la sinistra italiana. A mio avviso, infatti, la sinistra italiana è il problema principale, e senza una vera e propria metamorfosi non sarà invece mai (so che è una parola grossa) la soluzione.

In altri termini: la sinistra italiana è il nemico principale, all’interno dei confini nazionali, perché è il principale collaboratore della UE, che senza di essa non sarebbe mai riuscita ad affermarsi, a convincere e a vincere. Lo è perché nella sinistra italiana, sia quella di provenienza comunista, sia quella di provenienza cattolica, l’internazionalismo farà sempre aggio sulla difesa dell’interesse nazionale, e oggi l’internazionalismo si declina solo nel quadro UE; mentre la battaglia per il ripristino della sovranità dello Stato contro un’istituzione sovrannazionale come la UE può appoggiarsi solo su fondamenta nazionaliste: per prendere un topo ci vuole un gatto, non un cane.

Dunque la sinistra italiana va, anzitutto, divisa e mandata in confusione. Sono benemerite tutte le iniziative interne alla sinistra, individuali o organizzate, che la dividono, la indeboliscono, la riempiono di contraddizioni e le mettono in qualsiasi modo i bastoni fra le ruote e lo zucchero nel carburatore, per esempio incrementando l’astensionismo e la disaffezione di elettori e militanti. Particolarmente importanti le iniziative interne alla sinistra che contribuiscano a farle perdere la superiorità morale, il “moral high ground”, perché la dimensione morale del conflitto è la più importante, sul piano strategico (poi vengono la mentale e la fisica). Sono invece deprecabili, dannose e da battere le iniziative interne alla sinistra che si ripromettono di dividerla per creare altre formazioni di sinistra “autentica”, comunque denominate, perché non fanno altro che perpetuare l’equivoco, dare ossigeno a un nemico in affanno, e resuscitare per qualche anno o mese la cantafavola della superiorità morale della sinistra e la velenosissima tesi delle due UE, che è attualmente l’arma ideologica più potente del nemico.

Soprattutto, la sinistra italiana va battuta. Il primo obiettivo da proporsi è che la sinistra italiana subisca una chiara sconfitta elettorale, chiunque sia a infliggergliela, fosse anche Attila re degli Unni. Ogni volta che la sinistra perde, perde la UE (anche se non è vero che quando vince la destra vincono le forze nemiche della UE).
Non lo dico per pregiudiziale ideologica avversa alla sinistra, anche se la cultura politica della sinistra non è la mia. Lo dico perché se vogliamo che la sinistra italiana sperimenti un “riorientamento gestaltico”, come lo definiva Costanzo Preve, ovvero la metànoia o conversione che la conduca a dichiararsi nemica della UE e dell’euro, dobbiamo sapere se ne verificheranno le condizioni di possibilità solo in seguito a un evento traumatico maggiore: cioè a un’inequivocabile, dura sconfitta.

Ricordo che la stessa identica dinamica si è verificata per la destra italiana: nella quale sono sorte e hanno conquistato la leadership posizioni nemiche della UE e dell’euro solo in seguito al processo dissolutivo da essa subito con l’avvento del governo Monti, la subordinazione e collaborazione del suo principale leader Silvio Berlusconi tramutato in prigioniero di Zenda e capo dell’opposizione di Sua Maestà, etc.

So che le posizioni che ho formulato qui sulla sinistra sono brutalmente semplificatorie. La cultura politica della sinistra non è la mia. La mia cultura politica è quella di un nazionalista moderato (moderato dal cattolicesimo, perché per me prima della patria viene Dio, e quindi non è lecito fare qualsiasi cosa in nome e nell’interesse della nazione). Non ritengo che la cultura politica della sinistra sia malvagia o irrimediabilmente erronea in sé. Ritengo che abbia bisogno di una profonda revisione, che può avvenire solo dal suo interno: per questo ho ammirato e incoraggiato l’opera di Costanzo Preve, del quale mi onoro d’essere stato amico. Lo stesso vale, d’altronde, per la cultura politica della destra: qui la più importante revisione è stata compiuta da Alain de Benoist; altre sono in corso d’opera e sono benemerite. Ritengo altresì che uomini degni di rispetto e ammirazione – o di avversione e disprezzo – ce ne siano in tutti i campi politici.
La brutale semplificazione che ho proposto è motivata da questo: che siamo in guerra, anche se non si spara. Scopo della guerra è imporre la propria volontà al nemico, i mezzi dipendono dalle circostanze. La guerra oggi in corso, che vede in un campo la UE e i ceti dirigenti proUE (alle spalle dei quali stanno gli USA), e nell’altro le nazioni e i popoli d’Europa, viene condotta con mezzi economici, giuridici, amministrativi, psicologici; il fatto che sia una guerra che non osa dire il proprio nome non la rende meno pericolosa e meno aspra.
Anzi: finché questa guerra rimane segreta e sottaciuta, è impossibile difendersi e combatterla, figuriamoci vincerla; l’esempio catastrofico di Tsipras mi pare esauriente.
Ora, per difendersi da una guerra di aggressione bisogna anzitutto: a) accorgersi che c’è, cioè accorgersi che qualcuno ti ha designato come nemico b) ricambiare il favore, cioè designare nemico lui c) delimitare i campi, che possono essere solo due, e chiarire chi sta nel campo nemico e chi sta nel campo amico d) situarsi di qua o di là e) dividere e battere il nemico usando tutti i mezzi atti allo scopo (dai quali escludo i mezzi violenti, per la ragione elementare che un passaggio al livello militare dello scontro importerebbe l’immediata e totale sconfitta del campo in cui mi situo io).
Designo la sinistra come nemico principale all’interno delle frontiere italiane perché la sinistra italiana si è totalmente identificata con la UE (salvo benemerite eccezioni, purtroppo quasi sempre individuali) e perché la sinistra è la principale portatrice della funesta tesi delle due UE, che, ripeto, è attualmente l’arma ideologica più potente del nemico: sinistra = UE dal volto umano.

In altri termini: finché la sinistra resterà maggioritaria nell’opinione italiana, la maggioranza degli italiani continuerà a credere che la UE sia riformabile, cioè che la UE sia un compagno che sbaglia o alla peggio un avversario, non un nemico. Io invece penso che la UE sia un nemico. La guerra semplifica brutalmente: nemico, amico; di qua, di là; perdere, vincere. E’ brutto, è peggio che brutto, ma è così: prima ce ne persuaderemo, meglio sarà.
Insomma: la sinistra può svegliarsi dal sogno europeo? E se la risposta è “sì”, in che modo?
Sì, la sinistra può svegliarsi dal sogno europeo. In che modo? Se dopo una dura, inequivocabile sconfitta, le voci di chi, dall’interno della cultura politica della sinistra, ha saputo operarne una profonda revisione e le ha indicato come nemico la Ue e l’euro che di essa è strumento consustanziale, vi troveranno ascolto e ne conquisteranno la leadership.

Roberto Buffagni

Vittoria Trump: in Scandinavia e Ucraina si sente odore di marcio, di Max Bonelli

Vittoria Trump: in Scandinavia e Ucraina si sente odore di marcio, di Max Bonelli
tratto da https://dnipress.com/it/posts/vittoria-trump-in-scandinavia-e-ucraina-si-sente-odore-di-marcio/
21 Nov 2016

Con Trump la politica occidentale in Nord Europa potrebbe cambiare radicalmente e da quelle parti lo hanno già capito bene.

Con la presidenza di Trump alla Casa Bianca aleggia una preoccupazione politica che è stata dipinta da un tipo raffinato come Lyasko, capo dei nazionalisti radicali nella Rada ucraina, con la seguente frase: “si sente un forte tanfo a Kiev dopo l’elezione di Trump”. Poi questa voce è stata corretta dicendo “tutti i discorsi di Trump in campagna elettorale non sono altro che retorica”.

In effetti Petro Poroshenko e i suoi accoliti non hanno molto da essere allegri con questa elezione, il nuovo presidente americano ha dichiarato chiaramente che non vuole avere un così alto livello di conflitto con la Russia come quello perseguito dall’amministrazione Obama. Inoltre ha rifiutato di incontrare il leader ucraino quando è venuto in visita a New York in modo tale che un deputato del partito di Poroshenko, Mustafa Nayyem si è lanciato addirittura in un parallelo tra Yanukovich e Donald Trump.

Difficile pensare che ci saranno delle inversioni a 360 gradi nella politica estera americana ma degli aggiustamenti significativi se li aspettano tutti e già un semplice restringimento dei flussi di dollari che tengono in vita il governo fantoccio di Kiev possono risultare fatali per un paese già in bancarotta dichiarata.

Lo stesso “tanto” investe tutti i paesi scandinavi che avevano rotto le loro linee guida di neutralità di fronte ai due candidati presidenziali ed avevano fatto tifo da curva per la Clinton con i media arruolati come se fossero elezioni in casa propria.

Sicuramente nei due mandati alla Casa Bianca del nobel della pace Obama con 7 guerre in 8 anni di mandato, gli scandinavi avevano ottenuto molto in termini di relazioni economiche e supporto nella loro politica espansionistica commerciale. Espansione che li ha visti sostituire la Russia come partner commerciale prima nei paesi baltici e poi dopo Maidan con pesanti investimenti in Ucraina insieme al supporto militare di Kiev (sono infatti secondi solo ai polacchi nelle operazioni in Donbass). Il caso dello sniper svedese Mikael Skilt che si vantava di aver ucciso 150 russi sul nostro Corriere della Sera è solo la punta di un iceberg composto di contractors scandinavi e polacchi, che sostenuti da Washington si sono aggirati nella steppa dell’Est Ucraina.

Basta leggere i giornali svedesi, danesi, norvegesi del 9 novembre per trovare dichiarazioni dove la flemma scandinava è “svampata” e tutti si lasciano andare a commenti che vanno dal premier svedese Löfven, che dice apertamente che avrebbe preferito la Clinton ma che farà comunque gli auguri a Trump, per passare a un preoccupato segretario della Nato, Jens Stoltenberg, che cercava di rassicurare i membri dell’Alleanza che in ogni caso verranno difesi, anche se non avranno raggiunto la cifra del 2% del PIL investita nella difesa. A tal proposito Trump aveva dichiarato che gli USA non si possono accollare la gran parte degli oneri finanziari di questa elefantiaca organizzazione che si chiama Nato e che ormai in Ucraina come piuttosto in Siria ha dimostrato di essere oltremodo aggressiva nei confronti del tranquillo (almeno fino al golpe di Kiev del 2014) orso russo. Ma queste sono le reazioni più equilibrate, la maggior parte degli articoli sui giornali rasentano l’isteria.

Commentatori di politica estera come Jonas Gummesson sullo Svenska Dagbladet vedono una minaccia per la sicurezza nazionale svedese in questo possibile non dico abbraccio ma affievolimento delle tensioni tra le due superpotenze. La Svezia solo formalmente è un paese neutrale ed ultimamente ha apertamente partecipato ed ospitato esercitazioni Nato sul suo territorio. Idem per la Finlandia che all’inizio di Maidan aveva un comportamento abbastanza neutrale, ma che ultimamente aveva firmato un trattato di cooperazione militare con gli Usa, certo facendo cosa poco gradita a Mosca.

Per quanto riguarda gli svedesi c’è un problema in più e si chiama Julian Assange. Sono loro che per compiacere l’amministrazione Obama hanno ordito la tela per incastrarlo e consegnarlo agli americani. Adesso si ritrovano con un presidente americano che ha un debito di riconoscenza nei confronti del fondatore di Wikileaks. Assange ha inondato internet di migliaia di email di Clinton e dei suoi più stretti collaboratori, la stessa FBI ha dovuto incominciare ad indagare, ma al di là dei risultati dell’indagine il volto cinico e senza scrupoli della Clinton era stato messo a nudo, il danno d’immagine non poco ha contribuito a questa sconfitta elettorale. Infatti Trump disse in un comizio “I love Wikileaks”.

Per la Svezia pare proprio che saranno tempi di grandi imbarazzi ed incertezze politiche. Nessuno per adesso nella leadership scandinava ha iniziato un sano “mea culpa”, sembra che la capacita di autocritica da quelle parti segni stabile sotto zero.

Ma il tanfo si sente e se anche il biondo miliardario mantenesse la metà delle sue promesse elettorali in politica estera, lì nel Nord Europa l’aria politica sarà irrespirabile, mentre a Kiev gireranno con la maschera antigas.

Max Bonelli, l’Opinione Pubblica

LA STORIA SI RISCRIVE, di Gianfranco Campa

LA STORIA SI RISCRIVE, di Gianfranco Campa

Le storiche elezioni americane si sono concluse con la vittoria di Donald Trump. Al mondo gira la testa; alle élites mondiali non basterà l’aspirina ad alleviare l’emicrania. Con la vittoria di Trump si è girato decisamente pagina, lasciando fuori dalla Casa Bianca una associazione a delinquere: la famiglia Clinton.
Dopo otto anni di Bill Clinton, dodici anni dei Bush, con l’intermezzo degli otto anni di Obama, ci si aspettava un ritorno al passato con la signora Clinton.
Un monopolio rotto solo dall’avvento di una figura estranea alla politica.
Certo che diventa sempre più difficile sfatare le teorie della cospirazione, che vedono nel sistema politico un’oligarchia a cerchio chiuso asservita a poteri sovranazionali. In retrospettiva Donald Trump ha già raggiunto la più grande delle vittorie: mettere fuori gioco e consegnare agli annali della storia due potenti dinastie, la famiglia Bush e la famiglia Clinton. I Bush e i Clinton, ma ci aggiungerei anche Obama, colpevoli di aver causato la morte di milioni di vittime innnocenti in guerre, rivoluzioni colorate, cambiamenti di regime avviati e sostenuti e attraverso l’intero globo negli ultimi trenta anni: Somalia, Serbia, Honduras, Iraq, Afghanistan, Egitto, Siria, Libia, Ucraina e via dicendo.
In questa ottica ci vuole un bel coraggio a sbandierare il pericolo dei fantasmi nazionalistici e populistici di Trump.
Con Trump gli americani hanno riaccarezzato l’idea di eleggere il primo presidente “nazionalista” dall’assassinio, nel Settembre 1901, del presidente William Mckinley. Tre cose suggellarono il destino di McKinley: la sua opposizione al primo concetto di globalismo, l’opposizione alla creazione di una banca centrale (la Federal Reserve) e la decisione di mantenere il dollaro agganciato al valore dell’oro, rifiutando l’idea di un sistema inflazionistico. Diceva McKinley: “…Sotto il libero scambio, il prodotto diventa il maestro e il lavoratore lo schiavo… Il libero scambio distrugge la dignità e l’indipendenza dei lavoratori americani…”
Due altri presidenti si sono opposti a questo sistema e tutti e due hanno fatto la fine di McKinley: Lincoln e Kennedy.
Alla morte di Mckinley assunse il potere il suo vicepresidente, Theodore Roosevelt; un interventista, globalista, anche lui vincitore, guarda caso, di un premio Nobel per la Pace (1906).
A pensare male si fa peccato, ma probabilmente Trump dovrà guardarsi molto alle spalle…
La Clinton ha basato la sua campagna elettorale su due punti fondamentali:
• eleggere la prima donna presidente alla Casa Bianca, mobilitando l’elettorato femminile contro Trump e usando l’espediente del sessismo come arma per distruggere il repubblicano
• presentare Trump come un personaggio pericoloso, amico di Putin e amante di dittatori e per questo nemico dell’America. Descritto inoltre come incapace di autocontrollo, così da squalificarlo come depositario delle chiavi dell’armamento nucleare. Un uomo pericoloso insomma, un Hitler reincarnato.
Una trovata semplice ma efficace che ha invertito le parti, rendendo la Clinton una donna accettabile e “moderata” e Trump un estremista fanatico.
Questa ultima tattica non è nuova ma è stata rispolverata dalla campagna presidenziale del 1964, tra il democratico Lyndon B. Johnson e il repubblicano Barry Goldwater. In quella famosa campagna, Goldwater viene descritto come un’estremista di destra, potenzialmente pericoloso, dal grilletto facile; un personaggio instabile, capace di innescare la minaccia nucleare. In un video famoso, pagato dai fondi della campagna di Johnson e trasmesso dalla televisione americana, si vede una bambina sfilare i petali della margherita in un conto alla rovescia che porta alla detonazione di un ordigno nucleare. Nel sottofondo si sente la voce di Johnson commentare il video con una famosa frase: “Questa è la posta in gioco…o ci amiamo a vicenda oppure periamo..” https://www.youtube.com/watch?v=dDTBnsqxZ3k
Osteggiato sia dai Rockefeller repubblicani (l’establishment di allora), sia dai Democratici per questa sua visione populista, Goldwater venne attaccato pesantemente su tutti i fronti; una battaglia impari che lo vide sconfitto, sommerso dalla valanga di voti a favore di Johnson.
Dopo le elezioni Goldwater, un uomo dal temperamento mite, ritornerà nell’anonimato come senatore in Arizona. Il suo rapporto con il partito Repubblicano rimarrà tormentato durante tutta la sua carriera politica, accusando i repubblicani, in più occasioni, di essere troppo radicati a destra, quindi posizionandosi più su una piattaforma di tipo centrista-liberale. Un politico ragionevole insomma che venne dipinto come un pericoloso guerrafondaio. Il pacifista Johnson, salvatore dell’umanità dall’altro canto mise in moto la macchina militare e politica che portò gli Stati Uniti alla guerra in Vietnam, con il sacrificio di oltre 50000 militari americani e oltre due milioni di vittime tra civili e militari vietnamiti. Se la storia insegna qualcosa, tenendo conto che la Clinton non ha mai affrontato una guerra con qualche dispiacere, se fosse stata eletta, allora il futuro del mondo sarebbe stato decisamente fosco…
La stessa tattica, è stata impiegata contro Trump. Una strategia politica brillante, già testata nella sua efficacia, talmente efficace da dipingere un uomo, senza nessun precedente politico decisionale su cui basare un giudizio, come un guerrafondaio e dall’altra parte, una donna, con anni di documentata schizofrenia geopolitica, amante delle guerre esportatrici di democrazia, come una persona calma e ponderata. L’unica cosa e che i Clinton non hanno calcolato è che, rispetto al 1964, il mondo dell’informazione e molto più aperto grazie ai social media; i crimini della Clinton sono stati esposti, non dai mass media tradizionali, ma dagli utenti Facebook, Twitter, YouTube e sopratutto WikiLeaks .
Trump entra alla Casa Bianca dopo una battaglia disumana, impari, combattuta su tutti i fronti, contro molteplici nemici sia all’interno che all’esterno del proprio schieramento. Trump ha dovuto difendersi dall’ establishment del proprio partito, dai falchi neocons i quali più volte sono usciti allo scoperto sostenendo la Clinton; da tutti i mass media, nazionali e internazionali; dalle grandi multinazionali, come Apple, General Motors, Ford, solo per menzionare alcuni; da banche e finanziarie, tipo Goldman Sachs, da investitori di hedge found come George Soros; dalla macchina Hollywoodiana, con attori e attrici famosi, musicisti e celebrità in genere; dalla segreteria dell’ONU, per finire dalla magistratura federale e statale.
Gli attacchi a Trump sono avvenuti in varie forme e modalità. Si sono inventati fantomatiche vittime di abusi sessuali (le sue accusatrici si sono tutte dileguate dopo le elezioni), hanno travisato le sue parole, costruendo una retorica al vetriolo intorno al suo personaggio, fino a reinventarlo, costruendoci intorno una figura alternativa a quella reale. Un Trump fittizio, venduto al mercato di masse semi-colte e di intellettuali elitisti, che lo hanno assorbito e regurgitato come veritiero.
Bisogna dare atto alla macchina Clintoniana. Politici navigati che hanno sfruttato al meglio il loro potere mediatico, politico e finanziario con oltre un miliardo di dollari in contributi ricevuti dai soliti globalisti, moderni oppressori di popoli, burattinai della classe politica. In un mondo sano ed equilibrato una minaccia come la Clinton non avrebbe neanche dovuto arrivare cosi vicina alle soglie della Casa Bianca
Trump ha vinto, ma i suoi nemici rimangono, le nubi all’orizzonte sono sempre cupe e si preannunciano per lui quattro anni difficili. Sono i nemici interni più di quelli esterni da cui dovrà ben guardarsi. Gli ultimi saliti sul carro saranno i primi a saltarne fuori, al primo segno di rallentamento.

LA RIVOLTA DEGLI SCERIFFI, di Gianfranco Campa già pubblicato su www.conflittiestrategie.it il 18 giugno 2016

Pubblico un articolo curioso e illuminante nella sua particolarità, apparso il 18 giugno 2013 sul sito www.conflittiestrategie.it del quale abbiamo fatto parte sia il sottoscritto che l’autore. E’ utile a comprendere gli antefatti che hanno portato all’attuale situazione negli Stati Uniti. Giuseppe Germinario

LA RIVOLTA DEGLI SCERIFFI
18.06.2013 conflittiestrategie 0 Comments
sceriffo
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Dalla finestra del suo ufficio si vede l’autostrada, una tipica freeway californiana con almeno quattro corsie per senso di marcia, si alza dalla sedia e si avvicina alla finestra, sembra fissare le macchine che sfrecciano sulla strada; non è ora di punta ma il traffico è già sostenuto. Si gira verso di me: “vuoi un caffè?”

La mia è una visita cordiale, ci sono stato altre volte nell’ufficio di questo sceriffo; un’autorità molto amata in questa contea di media grandezza nello Stato dell’oro, la California. Alto, di corporatura media, con una lunga carriera alle spalle, uno di quelli che ha cominciato dalla gavetta, facendo pattugliamento sulla strada e arrivando fino alla posizione più alta; “no grazie, il caffè l’ho già preso” rispondo. Ritorniamo a parlare del più e del meno ma c’è una domanda che mi brucia; aspetto il momento giusto; “hai mai avuto il piacere di incontrare l’ex sceriffo Richard Mack?” Mi guarda sorridendo, capisce che la mia è una domanda trabocchetto: “ma non eri venuto solo per salutarmi…? No, non ho mai avuto il piacere…Ma lo so dove stai andando a parare…Senti io non appartengo alla categoria degli sceriffi ribelli…” Il suo viso si fa serio “ le nuvole all’orizzonte sono cupe e minacciose …” dice lui, adesso anche io volgo lo sguardo alla finestra. Una giornata di sole di tarda primavera tipicamente Californiana; d’altronde nella baia di San Francisco da Aprile a Ottobre non piove mai, le nuvole cui si riferisce annunciano…ben altre tempeste… da tardo impero americano …

Quando nell’ormai lontano 1994, l’allora Sceriffo Richard Ivan Mack, della contea di Graham in Arizona, fece causa al governo Clinton, accusando il governo federale di violare la costituzione con il Brady Handgun Violence Prevention Act, pochi consideravano la possibilità che nel futuro immediato si sarebbe creato un gruppo consistente di sceriffi, sparsi in tutto il territorio a stelle e strisce, pronti ad alzare le barricate contro il tiranno federale (https://www.youtube.com/watch?v=uEoeLGIL3BI). Dopo quasi vent’anni dalla causa di Mack, siamo alla resa dei conti. La proposta di legge fatta recentemente dai democratici con il supporto di un ristretto numero di repubblicani e poi bocciata, la quale prevedeva l’ inasprimento delle norme sul controllo delle armi, ha creato un’onda d’urto considerevole tra molti sceriffi e tutori della legge americani, al punto da far sorgere lo spettro tangibile della ribellione armata.

Mentre gli americani devono confrontarsi, scandalo dopo scandalo, con la totale incompetenza e il delirio dell’imperatore nudo Obama e dei suoi fedeli, nei posti più remoti dell’America, più di 400 sceriffi, sparsi in 15 stati (il 15% degli sceriffi), su un totale di 3080, hanno giurato di opporsi a qualsiasi tentativo dei politici di violentare la costituzione, soprattutto riguardo al secondo emendamento: il diritto di possedere armi (https://www.youtube.com/watch?v=UAgcgGyv_i0). Sotto la magistrale regia dell’ormai ex sceriffo Mack con la sua stella appesa al chiodo, ma non il suo fucile, il movimento patriottico Americano ha ritrovato nuova linfa. Una linfa che non si vedeva forse dai tempi della guerra di indipendenza, quando nelle taverne del paese, gruppi di contadini, sceriffi, fuorilegge, coloni, tutti insieme patrioti convinti, si ritrovavano per esprimere la loro frustrazione e rabbia contro l’oppressione della corona inglese che limitava la loro libertà. Quegli stessi che poi si ritroveranno a combattere per l’indipendenza dal tiranno d’oltre oceano. Allora solo il 30% circa della popolazione di coloni, credeva nella necessità di liberarsi dal giogo della tirannia materna inglese. Ma quel 30 % era pronto a morire per il loro ideale di libertà, un concetto di patriottismo pressoché sconosciuto in Italia. Soprattutto questa Italia odierna del politicamente corretto, asservita ai padroni sparsi tra Europa e Nord America, preoccupata più delle proprie marchette che della propria sopravvivenza.

Questi 400 sceriffi, hanno non solo giurato di difendere la costituzione Americana dall’attacco perpetrato, secondo loro, da componenti del governo federale, ma sono passati dalle parole ai fatti. Negli Stati dello Utah e Nuovo Messico, 58 sceriffi hanno spedito una lettera di sfida alla Casa Bianca. In New Hampshire, uno sceriffo ha dichiarato che sia lui che ì suoi vice si ritengono giustificati nello sparare a vista contro i dottori abortisti per proteggere la vita “di piccoli innnocenti”, vittime di barbari assassini. Nella contea di Maricopa, in Arizona, l’ormai leggendario sceriffo Joe Arpaio (genitori originari di Lacedonia), è impegnato con i suoi incaricati a purgare la contea da immigrati illegali, cosa che gli è costata una denuncia da parte del Dipartimento di Giustizia Americano per abuso di potere; ma Arpaio ha risposto mostrando l’indice medio al governo federale e per ritorsione ha ordinato ai suoi vice, di avviare una inchiesta, per accertare, una volta per tutte, se il certificato di nascita mostrato da Obama è autentico oppure falsificato, caso questo che validerebbe la teoria cospiratrice che Obama non è nato negli USA, ma in Africa; quindi ineleggibile alla presidenza secondo la regola dettata dalla Costituzione Americana (https://www.youtube.com/watch?v=RbxBZ12sjgQ ).

Più di qualche sceriffo ha anche dichiarato che ogni agente federale che cercherà di applicare nella loro contea qualsiasi legge che sia in violazione o in diretto contrasto con la Costituzione Americana dei padri fondatori, verrà dichiarato fuorilegge e quindi sottoposto ad arresto immediato da parte dei suoi incaricati; una minaccia indirizzata soprattutto alla FBI. Lo Sheriffo Greg Hagwood, della contea di Plumas in California, ha dichiarato recentemente che il governo federale con le sue azioni incostituzionali “ha svegliato il gigante dormiente” (https://www.youtube.com/watch?v=a_fhPEMFOxk ). I casi sono virtualmente infiniti e non basterebbe un libro di 300 pagine per menzionare tutti gli sceriffi e le dichiarazioni da loro fatte negli ultimi mesi contro il governo centrale, contro Obama e contro i vigliacchi colleghi delle forze dell’ordine che non hanno ancora preso una posizione antigovernativa. Al riguardo è significativo aggiungere che recentemente in Colorado, durante una visita di Obama, un gruppo di Sceriffi ribelli ha manifestato contro in presidente, fuori dal luogo in cui parlava (https://www.youtube.com/watch?v=Vsgtvz4OnYw ). La cosa peculiare è che il Presidente aveva alle spalle, durante il comizio, un gruppo di agenti della Polizia di Denver ed il comizio si teneva nell’edificio principale dell’accademia di polizia di Denver. Passato l’evento si è saputo da alcuni degli agenti presenti, che molti colleghi sono stati ”obbligati” dall’amministrazione ad attendere e partecipare alla manifestazione di Obama. Si profila uno scontro tra forze di polizia contrapposte.

La storia degli sceriffi ribelli, non è l’unico segno di cedimento strutturale della potenza Americana. Come riportato l’anno scorso in questo mio articolo ( http://www.conflittiestrategie.it/cracks-in-the-empire) il problema è anche politico, oltre che civile/sociale. Lo scontento manifestato dagli sceriffi, anche se per il momento circoscritto a circa il 15%, potrebbe allargarsi ancora di più. Questi sceriffi si ergono a barriera contro la deriva liberale progressivista che pervade la terra a stelle e strisce. Loro sono pronti alla difesa estrema della causa patriottica conservatrice. Nelle parole dello sceriffo della contea di Milwaukee, David A. Clarke Jr., si sentono i tuoni, ancora lontani ma in avvicinamento, di una seconda rivoluzione americana (https://www.youtube.com/watch?v=hgH7LfNTt3U )

Questi 400 sceriffi possono contare sui loro incaricati, agenti addestrati allo stesso modo e a volte anche più di poliziotti regolari; vice che pattugliano ogni giorno le strade delle contee americane. Se calcoliamo questi subordinati fedeli ai loro sceriffi, parliamo di un potenziale di circa 40.000 agenti (stima per difetto). A questi deputati bisogna aggiungere semplici civili patrioti, militari ed ex militari, milizie anti-governative, poliziotti statali e cittadini comuni; quindi gli ingredienti ci sono veramente tutti per un nuovo 1776. Tutto dipenderà dal comportamento di Obama e della sua amministrazione su certe tematiche e politiche. Le sue elezioni, anche se apparentemente maggioritarie, seguite dagli scandali a ruota che coinvolgono la sua amministrazione e dalle leggi federali anti-costituzionali, hanno lasciato un segno indelebile e cambiato il corso del paese mettendolo quindi in rotta di collisione con milioni di cittadini americani. Il voto popolare preso da Obama in Novembre, non assicura la sua sopravvivenza perché le forze contrapposte a lui e al partito democratico sono quelle “dure e pure” (forze che vanno al di là del Partito Repubblicano, dove è in corso una resa dei conti stile “notte dei lunghi coltelli”) pronte a lottare e morire per la loro causa. I prossimi 3 anni di Obama saranno cruciali per capire se l’America che conosciamo potrà sopravvivere nella sua forma attuale oppure quella forma assumerà per sempre altre vesti.

Mi rivolgo di nuovo allo sceriffo: “ti vedo preoccupato …” Mi guarda diretto negli occhi “hai mai sentito la frase che fu detta da Lincoln?” “Quella sulla caduta dell’unione?” Chiedo io. “Sì, proprio quella” risponde continuando a scrutarmi negli occhi. “Non me la ricordo a memoria, mi pare che menzioni la caduta del nostro paese come una possibiltà concreta più dovuta a un fattore interno che esterno.” Con il dito si tocca la tempia “l’ho memorizzata fin da piccolo, mi rimase impressa dopo una discussione nella lezione di storia alle medie: America will never be destroyed from the outside. If we falter and lose our freedoms, it will be because we destroyed ourselves.” … Le nuvole all’orizzonte si stanno gonfiando di un nero pesante …

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