L’assemblea programmatica del PD del 4/5 febbraio 2011, di Giuseppe Germinario

Tratto dal sito www.conflittiestrategie.it

L’assemblea programmatica del PD del 4/5 febbraio rappresenta una prima sintesi dell’impegno portato avanti, con grande dispendio di energie, per oltre un anno, da diversi gruppi di lavoro tematici.

Da oltre venti anni, è il primo tentativo organizzato di costruzione di un programma ad opera di un partito che sembrava aver dissolto nella nebbia della polemica politica dozzinale la tradizione ed il rituale di ponderosi e pretenziosi programmi politici propri delle organizzazioni popolari del dopoguerra bipolare.

Chi ha partecipato alla vita politica di quegli anni, ma anche solo assistito alle tribune politiche in bianco e nero e grisaglia, conosce l’impegno delle persone ed il peso che veniva dato alle parole e agli scritti, anche con tutto il rischio connesso alla facile caduta in slogan capaci di spiegare e piegare il tutto.

L’organizzazione dell’evento, se per alcuni doveva servire per uscire, una volta per tutte, dall’acceso dibattito politico sulle propensioni lubriche del Premier e dal vicolo cieco dell’antiberlusconismo, per la maggior parte del gruppo dirigente, quella determinante, è servita per rivendicare, con qualche velleità, la paternità ed il potere di investitura della coalizione, del caravanserraglio antiberlusconiano e inventarsi un tratto di nobiltà e presentabilità della proposta di coalizione attraverso un simulacro di programma.

In realtà è ormai evidente che l’agenda e i contenuti politici sono dettati dal protagonismo diretto di altri poteri e attuati direttamente da figure il più delle volte esterne ai partiti; gran parte di quei dirigenti di partito ed istituzionali sembrano assumere sempre più il ruolo di semplici cicisbei.

Lo sforzo elaborativo, tuttavia, non sembra aver raggiunto risultati al momento apprezzabili.

Tutto si è risolto nella giustapposizione di numerosi documenti tematici, in buona parte assolutamente generici, alcuni penosi, come quelli sul Mezzogiorno e la giustizia, o del tutto antitetici di fatto, alcuni, rispetto all’obbiettivo dichiarato di recupero del consenso dei ceti produttivi e di intere aree geografiche del paese.

Manca, soprattutto, l’indicazione esplicita del contesto internazionale in cui si opera e di una “mission” cui subordinare gli elaborati; la fissazione, quindi, delle priorità di obbiettivi da perseguire nell’eclettismo delle proposte.

È possibile, tuttavia, tracciare alcune linee guida che informano, implicitamente, l’elaborazione:

  • la prosecuzione della costruzione europea nel quadro di sostegno collaterale alla politica statunitense di gestione “illuminata” del multilateralismo a predominanza USA;

  • la prosecuzione della costruzione europea attraverso la centralizzazione delle politiche finanziarie e di bilancio, l’allargamento delle funzioni collaterali del parlamento europeo e il rispetto dell’assemblearismo degli stati europei. Una critica indiretta, quindi, all’affermarsi dell’asse franco-tedesco, al ruolo ancora preponderante degli stati nazionali accompagnata all’assunzione acritica del ruolo della Commissione Europea e delle regole del mercato finanziario dettate in gran part dalle lobby anglo-americane. Una conferma della visione prevalentemente tecnocratica ed economicistica coperta dalla solita retorica europeista, nonché della corrispondenza tra NATO e Comunità Europea là dove l’adesione degli stati minori della comunità e le attuali procedure decisionali contribuiscono a neutralizzare le velleità autonomistiche del nucleo storico della CEE; la stessa opzione di rafforzamento di una istituzione, il Parlamento, dal ruolo prevalentemente consultivo e che, comunque, per avere un minimo di efficacia deve appoggiarsi paradossalmente agli istituti statuali nazionali, rappresenta una contraddizione che in realtà contribuisce al peso crescente di una Commissione Europea così com’è;

  • l’accettazione delle politiche di rientro drastico del deficit pubblico quale risposta agli attacchi finanziari speculativi; in realtà, il presupposto del consolidamento definitivo del predominio tedesco in condominio con quello planetario americano e sotto la sua egida.

All’interno di questo quadro trovano una collocazione gli indirizzi e gli obbiettivi espressi nei documenti.

Si parte dalla presa d’atto della necessità una contrazione drastica del deficit pubblico all’interno dell’attuale perimetro dell’euro così com’è.

Le modalità di raggiungimento dell’obbiettivo prevedono il recupero massiccio dell’evasione fiscale, lo spostamento del prelievo verso le rendite o, come proditoriamente specificato, il reddito da rendite e un taglio drastico e progressivo della spesa pubblica.

Sullo spostamento del prelievo, data la scarsità del reddito ricavato (interessi, canoni, rendite) e la scarsa rintracciabilità delle grosse rendite speculative penso ci sarà poco da fare; sempre che non si arrivi al demenziale prelievo sul patrimonio, di nefasta memoria e di dimensioni ben maggiori di quelle effettuate da Giuliano Amato. Cosa improbabile e capace di scatenare, questa volta, reazioni realmente violente. Sarbbe da augurarsi l’attuazione demenziale e inutile, a conti fatti, del progetto

Questi due altri aspetti meritano, invece, l’attenzione particolare, perché saranno il terreno di scontro reale non tanto nel senso tradizionale offerto dai sinistri di attacco al welfare che pure esiste, quanto, soprattutto, nel senso della gestione delle risorse a favore prevalentemente dei ceti produttivi innovativi e strategici o meno.

Rispetto all’evasione fiscale il continuo richiamo all’etica non lascia presagire nulla di buono; di fatto si continua ad ignorare ottusamente e, ormai, con una buona dose di malafede, che l’evasione fiscale è soprattutto uno strumento di sopravvivenza di interi settori economici ed intere aree geografiche oltre ad essere uno strumento di arricchimento surrettizio di alcune fasce sociali e di alcune categorie professionali che lucrano sulla complessità e farraginosità del sistema fiscale; il drastico e indiscriminato recupero fiscale fine a se stesso non farebbe altro che affossare definitivamente buona parte dell’economia. Le poche esperienze di emersione dei decenni passati, infatti, sono tutte pressoché fallite, soprattutto nel Mezzogiorno. Se a questo recupero viene subordinato l’alleggerimento fiscale generalizzato dei redditi bassi e delle attività produttive piccole e medie, si comprendono il velleitarismo e la demagogia celata dietro queste attenzioni.

Ancora più rivelatore, se possibile, l’atteggiamento nel versante della spesa pubblica e della gestione di servizi ed attività pubbliche.

Il principio fondante è la difesa del consumatore e della persona, lo stesso su cui si fonda la politica della Commissione Europea; un punto di vista, quindi, legato piuttosto alle astratte esigenze di consumo e della domanda che all’investimento strategico cui subordinare le politiche di distribuzione. Un ruolo centrale, a questo punto, dovrebbero assumere le privatizzazioni e le liberalizzazioni. Manca totalmente, su queste, una analisi critica degli antefatti degli anni ’80/’90; non esiste alcuna distinzione fra settori strategici, settori in cui la presenza di infrastrutture non riproducibili (telefonia, gas, elettricità, autostrade, ect) rende illogica la liberalizzazione e la loro attuazione si rivela uno strumento di appropriazione parassitaria di risorse e di distorsione di capacità imprenditoriali anche da settori strategici (vedi il caso Pirelli-Telecom, la privatizzazione delle autostrade); emblematico il caso della distribuzione del gas dove si dovrebbe scorporare ulteriormente l’ENI, dopo la cessione scellerata del Nuovo Pignone, frammentare l’offerta al dettaglio e compensare la debolezza contrattuale di questa con la costituzione di una unica società acquirente del gas al dettaglio da grossisti e proprietari dei gasdotti. Siamo, praticamente, alla quinta colonna della Commissione Europea.

Rimane il terreno insidioso delle categorie e degli albi professionali, altro punto cruciale dove gli interessi strategici della potenza dominante e dei ceti subdominanti trovano un terreno fertile di incontro con i ceti medi; i legami diretti ed evidenti con parti importanti di essi, come ad esempio settori della magistratura, traggono alimento politico diretto dalla difesa corporativa degli interessi economici, di status e di potere. I casi di intreccio di tali aspetti sono ormai numerosissimi e per uscirne non è sufficiente, anzi risulta controproducente, una liberalizzazione generalizzata slegata dalla qualità delle prestazioni, dalla responsabilità e dalle tutele economiche.

La stessa attenzione conclamata verso le piccole aziende e i ceti produttivi risulta, quindi, velleitaria e demagogica se subordinata al recupero dell’evasione; l’unico punto realizzabile potrebbe essere quello dell’abbattimento degli oneri legati alla semplificazione delle procedure burocratiche; su questo, però, hanno fallito miseramente, ancor prima di cominciare, sia Prodi che Berlusconi.

La stessa proposta di piani industriali di riorganizzazione e contenimento della spesa pubblica, di per sé corretta, appare del tutto ambigua e demagogica in mancanza di una critica seria delle logiche di riproduzione degli apparati burocratici, giunti ormai ad una dimensione di autentici “monstre” divoratori e con la perpetuazione dell’ideologia del consumatore sovrano.

Se a questo si aggiunge la totale assenza di accenni alla difesa delle aziende strategiche e alla necessità di investimenti e di politiche orientate ai settori fondamentali per garantire autonomia e autorevolezza nazionale, si comprende come l’intenzione di favorire le forze produttive piccole e medie sia, di fatto, il perseguimento più o meno cosciente di una politica di subordinazione remissiva e reazionaria.

Non a caso, l’enfasi maggiore viene posta nell’attenzione alle energie alternative quando è ormai chiaro che l’introduzione indiscriminata di incentivi spropositati ed improvvisi sta aggravando gli squilibri, gli oneri economici generali legati all’energia e, in mancanza dei tempi necessari alla creazione di una industria nazionale, alla dipendenza tecnologica e manifatturiera dall’estero in un settore ritenuto dagli stessi strategico; per non parlare, poi, del fatto che, nella migliore delle ipotesi, questo settore riuscirà a coprire, nei prossimi trenta anni, a mala pena il 30% del fabbisogno energetico.

La stessa ipotesi di razionalizzazione della spesa pubblica si risolve in una sorta di appello a lavorare di più con meno risorse, quando si tratterebbe di varare un vero e proprio piano drastico di trasferimento di risorse verso gli investimenti produttivi strategici; sarebbe doloroso e traumatico, certamente meno di quanto lo saranno, tra qualche tempo, in una situazione di ulteriore degrado e stagnazione.

Sicuramente servirebbe a ridimensionare le velleità politiche della pletora di strati parassitari attualmente in fibrillazione.

Sono misure ancora possibili ma che hanno un ostacolo preciso nel carattere composito degli schieramenti politici e apertamente regressivo di quello antiberlusconiano.

L’evoluzione stessa del PD è emblematica; la sua progressiva “apertura” ha coinciso con l’ingresso di lobby e gruppi organizzati (ambientalisti di professione, ect.) che lo hanno inaridito dal radicamento originario, paralizzato nella capacità decisionale e asservito a gruppi decisionali la cui fonte di ispirazione è sempre più la scuola economica e sociologica americana.

Basterebbe analizzare la formazione e la storia di gran parte delle nuove teste pensanti, per farsi una idea precisa del senso delle attuali scelte, pure raffazzonate e contraddittorie e, soprattutto del futuro di questa organizzazione che rimane, comunque, la principale formazione politica antiberlusconiana, anche se non la più importante; anche lì, comunque, qualche contraddizione, poco significativa, però, dal nostro punto di vista, comincia a manifestarsi.

Sono tutte comprese, però, in una visione economicistica che implicano l’accettazione più o meno consapevole del quadro imperiale ormai anacronistico; non è un caso che il termine più sotteso sia ancora la “globalizzazione”. Se non supereranno questo limite che li rende del tutto complementari al gruppo egemone, saranno del tutto indifferenti ai nostri propositi ed interessi.

Giuseppe G.

DAL LINGOTTO1 AL LINGOTTO2_ DAI SUSSULTI AI SINGULTI DI GIUSEPPE GERMINARIO 31.01.2011

Tratto dal sito www.conflittiestrategie.it

Già il cipiglio tipico del travet dominato da montagne di scartoffie lasciava presagire la misura di entusiasmo che avrebbe potuto trasmettere il buon Vuoter Veltroni.

Ha semplicemente confermato che la fine eventuale di Silvio sarà per intervento diretto di poteri forti o per decisione di madre natura; che, quindi, nell’attesa del compimento di un destino deciso da altri, bisognerà prepararsi al dopo. Gli stessi propositi bellicosi nei confronti di Bersani e D’Alema sono prontamente rientrati; qualcuno dei suoi consiglieri in ombra gli avrà fatto pesantemente notare che, in una fase di grande dibattito politico sulle gozzoviglie libertine del Cavaliere, non era il caso di distogliere l’attenzione e di mostrare la vitalità dell’ennesimo frammento democratico. In mancanza di argomenti solidi, per ben quattro volte ha rimarcato la solidità del suo principale ispiratore e consigliere, evocandone dall’ombra il nome: Obama. Tutto si è risolto, alla fine, con una riproposizione sbiadita e dimessa degli argomenti del Lingotto1 di tre anni fa, ma con una variante tattica, equivalente al riconoscimento di una sconfitta: non più unico partito alternativo, ma principale partito di coalizione. Tornando ai contenuti del discorso va definito il loro contesto implicito: un mercato mondiale, scosso dalla crisi finanziaria dove sono determinanti, per il successo, la qualità delle merci ed i loro costi, con il sovrappiù, al massimo, del rispetto dei diritti civili da tirar fuori nelle occasioni opportune; siamo al puro conflitto economico, dissociato dagli sconvolgimenti politici e normato da regole cavalleresche; nessun accenno, quindi, sul multipolarismo incipiente, sulle strategie politiche di dominio di cui fanno parte le scelte economiche. L’unico faro politico è Obama, con la sua capacità di suscitare “grandi cambiamenti negli USA e nel mondo”; una Europa unita economicamente e “in ultima analisi politicamente”, capace di competere come sistema paese; siamo alla riproposizione testarda, contro ogni evidenza, che l’integrazione liberistica economica e delle politiche di bilancio porta all’unione politica, con il correttivo della elezione del Presidente degli Stati Uniti d’Europa teso a scoraggiare il predominio di un paese, la Germania, sugli altri; “una democrazia senza stato”. Un così audace scatto di reni per una mera riproposizione dell’utopia retorica europeista che ignora bellamente gli stati, le nazioni e gratifica le burocrazie comunitarie terreno di occupazione di lobbys filoamericane o, tuttalpiù, di scontro e contrattazione tra quelle e il paese europeo dominante a scapito dei restanti. In questo quadro, ribadisce il nostro, l’Italia ha fallito i suoi due obbiettivi: il contenimento della spesa pubblica e (sic!) la rinuncia alla svalutazione della moneta, non si sa bene quale. Prioritario quindi un contenimento del 40% della spesa in dieci anni e un rilancio dei settori strategici, rispettivamente il settore automobilistico e la piccola e media industria. Nessun accenno ai reali settori strategici che fa il paio alla totale mancanza di accenni ad un minimo di autonomia nazionale dalla politica americana. Tra l’altro, alla stessa FIAT il nostro riconosce esplicitamente la piena libertà di scelta senza un minimo di contraddittorio sul futuro dei centri decisionali e di progettazione dell’azienda, non ostante il dispendio di risorse pubbliche tuttora in corso; una azienda, quindi, strategica ma in un paese alla pari con Serbia, Polonia ed altri concorrenti. Tant’è che il nostro prode, richiamandosi alla radicale riforma del sistema bancario di Obama, auspica, come pressochè esclusiva garanzia sul futuro aziendale, un legame della retribuzione dell’a.d. Marchionne ai risultati di lungo periodo dell’azienda da lui gestita; furia francese e ritirata spagnola. Un atteggiamento da valvassino più che da vassallo, con buona probabilità di declassamento a servo della gleba. Riguardo alla riduzione della spesa pubblica, punta all’introduzione di una patrimoniale straordinaria triennale, di una politica di gestione che punti a far lavorare tutti di più con meno risorse finanziarie, di una unica agenzia-moloch che punti a valorizzare l’intero patrimonio pubblico, di “un piano industriale di ristrutturazione del settore pubblico” il quale ultimo, proposto da manager seri può assumere un significato, detto dal nostro assume il carattere di uno slogan vuoto con qualche riflesso inquietante sul destino della industria pubblica.. La riproposizione, in pratica, di intenti moralistici e di strutture già sperimentate nel loro fallimento, ma con un grande equivoco sempre più irrisolvibile: come conciliare la riorganizzazione ed il rigore della spesa con la sopravvivenza di un partito che trae il proprio consenso ormai quasi esclusivo da quegli strati sociali oggetto di intervento. Il tutto si riassume con uno slogan: “fare come la Germania di Schroeder” e, a malincuore, di Merkel. La Germania, infatti, ha costruito la sua solidità economica aumentando le tasse ai cittadini, riducendole alle imprese, tagliando selettivamente la spesa pubblica; ovviamente, non solo e non principalmente, visto l’accordo a lei strafavorevole sul cambio marco-euro, le politiche bancarie di finanziamento dei debiti dei paesi più deboli e la creazione di una vera e propria area di influenza in Europa e, con l’ulteriore prossimo passo, di dirottamento verso i paesi emergenti più promettenti di politiche e risorse un tempo riservate all’hinterland nella comunità europea. Ma l’evidenza dei due punti iniziali è funzionale all’analisi del discorso di Veltroni il quale punta a fare come la Germania, ma poi propone sgravi fiscali alle imprese, alla innovazione delle aziende, alla tutela ambientale, alle energie alternative, un regime fiscale favorevole al genere femminile, alle famiglie e ai giovani. Cioè tutto ed il contrario di tutto con l’aggravante delle deformazioni ideologiche e populistiche legate alle politiche di genere e ai costi insostenibili delle attuali politiche energetiche alternative unilaterali sulle quali solo da pochi mesi si inizia a fare qualche chiarezza. Una caricatura del “change, change, change” dell’Obama d’oltreoceano in una fase di suo deciso ripensamento. Ma se il primo ha rinunciato al suo splendore originario e alla sua retorica per scendere sempre più nel pragmatismo imperiale, il secondo sembra sempre più destinato, in buona compagnia, a trasformarsi in un ombra nell’Ade senza nessun ruolo nemmeno di terza fila. Ormai i nostri subdominanti e gli americani stanno cercando altrove e, nel frattempo, non resta loro che logorare il Cavaliere e trattare. Nella sinistra c’è solo qualche voce isolata disposta a fungere da traino ad una alleanza tra settori produttivi e significativi strati sociali subordinati; ma sembra ininfluente. È sufficiente un gossip o un moto pilotato di indignazione per tacitarla.

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

Tra i dirigenti del PD il più consapevole dell’attuale condizione della classe dirigente, in particolare quella del proprio partito, è apparso Andrea Orlando, attuale Ministro della Giustizia  (http://www.partitodemocratico.it/partito/lintervento-andrea-orlando-4/  – dal 3° al 5° minuto). Nel suo intervento all’Assemblea Nazionale del 19 scorso ha giustificato il distruttivo livello di conflittualità e la personalizzazione dello scontro nel partito con la divaricazione crescente tra le categorie concettuali interpretative della realtà adottate e la realtà stessa nonché con la totale assenza, diversamente da Stati Uniti e Germania, di idonei luoghi di riflessione sulle strategie politiche da adottare. Una constatazione banale ma non scontata su una condizione che al momento sta investendo clamorosamente il Partito Democratico ma che non tarderà ad aggredire le altre forze politiche, compresa la Lega e con la parziale probabile eccezione almeno temporanea del M5S, man mano che ci si avvicinerà alle prossime inderogabili scadenze politiche; al netto di per altro consuete operazioni di trasformismo, tanto più costose per la credibilità dei protagonisti quanto più radicali sono le opzioni politiche presenti sul campo.

Uno smarrimento che deve aver colto persino un iperdecisionista, stando almeno alla sua persistente maschera, come Matteo Renzi, spinto ciò non ostante ad anticipare il suo consueto pellegrinaggio estivo in California.  Ha motivato il suo viaggio improvviso come una necessaria vacanza e un indispensabile momento di depurazione; successivamente lo ha giustificato come un momento di apprendimento di brillanti politiche di sviluppo da mutuare nel proprio paese. Si spera che la sua non sia la tardiva acculturazione e l’infatuazione di un neofita, di un parvenu pronto a mutuare pedissequamente da quel paese le politiche liberal/liberiste un po’ come i futuristi italiani negli anni ’20/’30 fantasticavano su un mondo futuro che scoprirono con meraviglia nei loro viaggi già esistere negli Stati Uniti di quegli anni.

Una impronta che si sta invece confermando; attuazione in realtà di narrazioni piuttosto che di politiche economiche concrete di quel paese, perfettamente in linea con quanto fatto dalla nostra classe dirigente degli ultimi trenta anni. Narrazioni le quali omettono accuratamente il presupposto fondamentale del successo di quelle politiche liberiste: la detenzione di quella potenza e di quella egemonia necessarie che gli Stati Uniti stanno relativamente perdendo ed esercitate sì anche dal nostro paese, ma non meno di duemila anni fa e mai più riacquisite.

Il motivo reale del viaggio sembra in realtà essere molto più prosaico e purtroppo in linea con le propensioni della quasi totalità della nostra classe dirigente; si tratta di chiedere lumi e direttive.

Gli incontri in corso non escono però dalla ristretta cerchia delle abituali frequentazioni americane sino ad ora coltivate; sono esattamente le stesse di questi ultimi quattro anni. Tanto furbo e baldanzoso, il nostro continua imperterrito a prestare ascolto a chi lo ha mandato o istigato allo sbaraglio, facendosi pagare profumatamente alcuni di essi per di più le improvvide consulenze; con grave sfregio dei principi di meritocrazia, neppure uno sconto legato ai deludenti risultati conseguiti.

Eppure qualcosa è con ogni evidenza cambiato ultimamente negli Stati Uniti e un vero leader dovrebbe saper cogliere ed approfittare delle eventuali opportunità offerte da un nuovo corso politico.

Al momento della stesura dell’articolo il viaggio dell’ex premier non è ancora terminato; rimane ancora qualche spiraglio, ma tutto sta per concludersi con ogni evidenza all’interno del cerchio tradizionale degli habituè.

Il nostro in verità ci ha abituati a dosi insolite, a volte eccessive, di spregiudicatezza, del tutto inusuali nel gruppo dirigente così compassato ed ingessato del suo partito.

Mentre D’Alema, tanto per citare il più importante, ha circoscritto il proprio sodalizio alla famiglia Clinton e attraverso questa ha potuto tessere altre relazioni in quel paese e costruirsi un futuro con la propria fondazione e il proprio think-thank, Renzi, in questo facilitato dall’assenza di retaggi ingombranti legati al passato comunista, ha potuto coltivare anche ambienti americani neocon. Lo stretto sodalizio consolidatosi attorno alla presidenza Obama tra la sinistra dei diritti umani e la destra neoconservatrice interventista, esportatrice di democrazia gli ha offerto le chiavi, ma lui non ha esitato ad aprire le porte lasciate socchiuse da quei circoli americani.

L’eventuale protrarsi della Presidenza Trump, ma su linee coerenti con le intenzioni programmatiche, rischia di logorare o far saltare quel sodalizio così nefasto per il genere umano ma così propedeutico alle carriere politiche nostrane.

Purtroppo per lui, Renzi è stato l’unico statista europeo rimasto impigliato al carro dell’Imperatore Obama sino alla fine del mandato in attesa che salisse la Presidenta (mi scuso per l’omaggio alla sintassi boldriniana) predestinata; un destino beffardo gli ha assegnato il posto di unico apostolo al desco della sua ultima cena.

Mal gliene incolse! Da allora quelli che parevano occasionali incidenti su di un sentiero luminoso si sono trasformati in disastri tali da compromettere la marcia trionfale.

La stella di Renzi ha ormai oltrepassato il proprio azimut e la sua parabola volge ormai verso la fase discendente.

Si è imposto a ragione l’obbiettivo fondamentale di modernizzare e razionalizzare il sistema politico, istituzionale ed amministrativo del paese; è partito acquisendo una base di consenso all’interno del partito intorno al 30% e coagulando un altro 50% di forze lottizzate, espressione di interessi ed esperienze locali, dallo scarso respiro nazionale; ha raccolto in pratica e confezionato i frutti avvelenati della riorganizzazione del partito avviata da Veltroni e Bersani (http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/lassemblea-programmatica-del-pd-del-45-febbraio-2011-di-giuseppe-germinario/   http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/dal-lingotto1-al-lingotto2_-dai-sussulti-ai-singulti-di-giuseppe-germinario-31-01-2011/ ) . Nel frattempo non è riuscito a coagulare il consenso necessario a dar forza al suo programma e l’adesione di quei centri di potere potenzialmente più disponibili alle riforme in grado di garantire più coerenza al progetto. Non gli è rimasto ben presto che giostrare con le forze in campo sino a rimanere vittima delle proprie stesse trame; sino a mettere a nudo l’origine stessa della propria investitura, non molto diversa dall’avvento del podestà straniero Mario Monti.

La forza e il successo di un programma di riorganizzazione di un sistema deriva dalla capacità di un leader e di una classe dirigente di renderlo funzionale ad una prospettiva di autorevolezza e di sviluppo tale da mobilitare energie sufficienti preparate e determinate. Renzi al contrario ha ritenuto che la riorganizzazione “motu proprio” avrebbe innescato la dinamica di efficienza della macchina istituzionale e di sviluppo dell’economia; un impulso tutt’al più coadiuvato da un programma di sostanziale liberalizzazione del mercato del lavoro, di distribuzione impersonale di incentivi, di ulteriori privatizzazioni e collocamenti azionari esteri che avrebbero liberato le virtù intrinseche di sviluppo economico del mercato.

In realtà l’economia tende ancora a ristagnare, il mercato del lavoro più che ridurre ha modificato le caratteristiche del proprio precariato. Nei vari comparti economici i provvedimenti hanno effettivamente avviato, al prezzo di un drastico ridimensionamento dell’apparato industriale, un processo di razionalizzazione e di parziale ammodernamento ma con il drammatico risultato della ulteriore perdita di controllo dei gruppi industriali strategici e di maggiore dimensione e con il rafforzamento relativo di settori marginali o complementari nella catena di valore internazionale. Così facendo ha ulteriormente indebolito proprio quei “poteri forti” dei quali avrebbe bisogno per dare forza ad un vero programma di rinascita nazionale.

Un peccato originale che riduce ad una rappresentazione macchiettistica il suo proposito di “partito della nazione”. Sacrifica la condizione di alcune categorie arroccate nella difesa fine a se stessa di diritti e prerogative in nome di una visione apparentemente astratta del bene comune e dei meccanismi “naturali” tesi a garantirlo.

Fallisce così il proposito di conquistare i voti del centrodestra, conservando l’essenziale dei voti del centrosinistra; il conflitto aperto in sede europea con la Germania si riduce a schermaglie verbali centrate su pochi decimali di deficit da destinare a spese improduttive e di redistribuzione assistenziale di risorse con il risultato di ricondurre puntualmente la conflittualità latente tra gli stati europei nella logica di controllo della potenza egemone americana.

Il risultato è l’isolamento politico in Europa compensato dall’ulteriore subordinazione all’alleato d’oltreatlantico ma senza le coperture che la Presidenza Obama pareva disposto a concedere al nostro; una struttura economica e finanziaria ormai terreno di conquista dei tre principali paesi del mondo occidentale componenti dell’Alleanza Atlantica; un leader politico sempre teso a strappare voti e consensi nel campo berlusconiano ma per garantirsi la mera sopravvivenza piuttosto che la fondazione di un grande partito maggioritario.

La scissione controvoglia della sinistra clintoniana del PD, pronta per altro a rientrare una volta regolato il contenzioso con l’intruso, apre lo spazio a numerose opzioni e contribuisce a rimettere in campo politici ormai da tempo sulla via del tramonto, a destra come a sinistra; mette a nudo tatticismi sterili e povertà di proposta politica addirittura maggiori rispetto a quanto espresso dal segretario dimissionario del PD.

Di questo si tratterà nella seconda parte dell’articolo.

Renzi, al contrario, corre seri rischi di sparire dalla scena politica soffocato nelle spire dell’attuale paralisi istituzionale.

Una volta liberatosi in parte della propria fronda interna, ha tuttavia diverse frecce ancora a disposizione del proprio trasformismo teso a rilanciare il suo nazionalismo verbale di facciata ed il suo efficientismo apparentemente fine a se stesso, magari torcendo a proprio profitto il consenso raccolto dai dissidenti. Un trasformismo evidenziato e reso inevitabile dalla totale assenza di analisi delle cause della sconfitta referendaria che non vada oltre la consueta giustificazione legata ai difetti di comunicazione del messaggio.

Una possibile resurrezione a patto però che si realizzino due condizioni:

  • che riesca a controllare la propria indole e trarre frutto dall’esperienza;
  • che a livello internazionale l’anomalia della Presidenza Trump sia ricondotta in qualche maniera nell’alveo del tradizionale scontro e della discreta collusione tra democratici e neoconservatori americani

Il prossimo rientro di Renzi ci offrirà qualche indizio sui prossimi passi da cogliere una volta caduta definitivamente la maschera delle elezioni anticipate; l’esito delle elezioni francesi aprirà le danze a corte e consentirà di cogliere più chiaramente i ruoli degli attori e la posta in palio anche qui in Italia. Sarà, probabilmente, la raccomandazione più accorata che il vecchio establishment americano, restio ad abbandonare più che la scena le leve dello stato profondo, deve aver suggerito al nostro solerte viaggiatore.

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, di Massimo Morigi

Angelus Novus di Paul Klee

WALTER   BENJAMIN,     IPERDECISIONISMO   E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È  LA  REGOLA*

 C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (IX tesi)

 L’Angelus Novus di Paul Klee, che divenne il messianico protagonista della  IX tesi   di Tesi di filosofia della storia, era stato acquistato nel 1921 da Walter Benjamin e da allora lo accompagnò quasi sempre nelle sue peregrinazioni in Europa. Forse in un nessun altro luogo della produzione benjaminiana come nella tesi IX è espresso il disprezzo benjaminiano per l’ideologia del progresso,  un progresso che secondo l’ingenua mentalità positivistica – esemplata poi anche dal totalitaristico diamattino marxismo orientale e dall’ingenua visione  della stragrande maggioranza dei  dirigenti e dei militanti di base otto-novecenteschi dei movimenti rivoluzionari  – si doveva sviluppare all’infinito e lungo un vettore assolutamente lineare. Del tutto realisticamente Benjamin rifiutava questa ottimistica e consolatoria visione ma, apparentemente del tutto irrealisticamente, per Benjamin quello che il futuro negava e non ci poteva garantire era riservato al passato: per Benjamin la rivoluzione doveva, in primo luogo, compiere un’azione di salvezza verso tutti coloro che dai dominatori della storia erano stati sottomessi ed eliminati sia a livello individuale che come gruppi sociali e/o etnici.  Apparentemente,  dal punto di vista personale ed anche dell’elaborazione dottrinale del repubblicanesimo geopolitico,  nulla ci potrebbe di essere più distante – fatta eccezione per il  rifiuto dell’ideologia del progresso – dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi  e  dalla  struggente immagine  dell’Angelus Novus  Benjaminiano,  nulla ci potrebbe di essere più distante  dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi e dalla straziante immagine dell’Angelus Novus Benjaminiano che passivamente trasportato dal vento che gli spira fra le ali ha “il viso rivolto verso il passato” ma la grandissima attualità di Benjamin insiste sul fatto che in quest’autore convivono due aspetti che a prima vista sembrano assolutamente antitetici. Del misticismo soteriologico rivolto a resuscitare gli sconfitti abbiamo già accennato, vediamo ora di focalizzarci sul suo realismo politico. Scrive Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia:

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Cogliamo qui un Benjamin iperdecisionista ben oltre il decisionismo di Carl Schmitt, un iperdecisionismo benjaminano che aveva ben capito, sempre oltre Schmitt, che la decisione non era tanto quell’elemento che stava fuori dalla norma pur costituendone la base logica ma, molto più semplicemente (e fondamentale) era (ed è) sempre stata l’unica elementare norma di comportamento (e giudizio) degli agenti strategici, di quelle classi, cioè, dominanti che da sempre fanno la storia. E concordando a questo punto interamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo.

Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana del paolino katechon,  ultima mitica risorsa  per arrestare la rivoluzione per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg, cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo ‘iperdecisionismo’  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, é vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma (che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che, anche se disvelati con prudente linguaggio dagli iniziati alle scienze politiche, si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo, si diceva nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica delle liberaldemocrazie hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società basate sulla democrazia elettoralistica a suffragio universale. A chiunque sia onesto e non voglia stancamente ripetere le illogiche assurdità sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è – per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina –  per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. Se i nonsense ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali – che è meglio definire per la loro intima insipienza ceti semicolti –  la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura radicalmente violenta dei rapporti di dominio ma, nel loro caso, per celare la presenza stessa di questi rapporti. E senza dilungarci ulteriormente su questo punto, la “società dello spettacolo”, una società dello spettacolo che con quiz, informazione guidata e di livello cavernicolo, terroristi di cui l’Occidente non ha mai alcuna responsabilità e farlocche invasioni aliene che, oltre ad instillare il bisogno di un’autorità protettrice, non sono altro che la ridicola copertura di esperimenti militari, svolge egregiamente questo ruolo di “distrazione di massa”.

Concordando quindi pienamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo. Se il timido decisionismo di Schmitt era in funzione conservatrice e in perenne attesa – ed evocazione –  del mitico Katechon, il frenatore che avrebbe arrestato la rivoluzione sempre incombente, l’ ‘iperdecisionismo’ benjaminiano è invece il miglior farmaco mai messo punto per la diffusione della consapevolezza presso i dominati che la norma non è altro che la cristallizzazione di una decisione originaria. E se per comprendere che “Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta è necessario il passaggio attraverso una soteriologia rivolta al passato, ben venga allora anche il misticismo di Benjamin: un realismo giunto alla sua massima maturazione ha ben compreso la lezione della I tesi di Tesi di filosofia della storia dove si parla di un automa infallibile nel gioco degli scacchi, il materialismo storico, che è imbattibile al gioco degli scacchi ma al quale questa imbattibilità gli è fornita da un nano gobbo nascosto sotto il tavolo (la teologia) che abilissimo nel gioco manovra l’automa. Per Benjamin è il nano teologico che comanda la partita e lo deve fare di nascosto (perché è piccolo e brutto e quindi la sua presenza, oltre ad essere un barare sulle regole del gioco, non sarebbe stata apprezzata da un pensiero, benché progressista, solidamente realista, come pretendeva di essere la vulgata marxista del tempo infestata, come del resto l’odierno pensiero liberaldemocratico, dalla mala pianta del positivismo). Per noi, meno mistici ma forse consapevolmente più dialettici di Benjamin – e come lui integralmente antipositivisti,  massimamente contro, anche se non solo!, la sua ridicola versione neo à la Popper, tanto per essere chiari – , è alla fine difficile distinguere ciò che è veramente realista da ciò che è mistico e forse, a questo punto, ci  siamo ricongiunti in toto con la IX tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

 

LA DEMOCRAZIA CHE SOGNÒ LE FATE (STATO DI ECCEZIONE, TEORIA DELL’ALIENO E DEL TERRORISTA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO)*, di Massimo Morigi

 

*A pagina 8,  Miracolo della neve di Masolino da Panicale

 

Triste l’uomo che vide in sogno le fate!

Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.

 

Po-Chu-i, L’uomo che sognò le fate (da Liriche cinesi, Einuadi, p.170)

 

Scrive Walter Benjamin nella tesi n.8 di Tesi di filosofia della storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”  (1)  Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione (2) pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana di katechon ultimo cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo iperdecisionismo  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, è vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state  basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma ( che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che anche se disvelati si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica democratiche hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società liberaldemocratiche. A chiunque sia onesto e non voglia ragliare le scemenze sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è, per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina, per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. (3) Se i ragli ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali, che è meglio definire per la loro intima somaraggine ceti semicolti, la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura dei rapporti di dominio ma nel loro caso per celare la presenza stessa di questi rapporti. Tralasciando in questa sede i risaputi discorsi sul Panem et circenses (per la verità, man mano che le democrazie elettoralistiche tradiscono le loro promesse, sempre meno panem e sempre più circenses), è un su un particolare aspetto della società dello spettacolo che vogliamo focalizzare la nostra attenzione, un aspetto che come vedremo è intimamente legato, per quanto in maniera deviata e degradata, con la percezione benjaminiana che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola. In breve: riservata fino a non molto tempo fa ai racconti e ai film di fantascienza, è ora in corso attraverso documentari televisivi che trattano l’argomento con un taglio apparentemente scientifico, una imponente invasione di alieni. E se alcuni di questi prodotti televisivi riescono, nonostante tutto, a non sbragare completamente e a trattare la questione quasi unicamente dal punto di vista della esobiologia, la maggior parte di questi dà l’invasione come un fatto già avvenuto e ancora non universalmente riconosciuto come vero perché le autorità, quelle militari in primis, avrebbero compiuto una costante opera di insabbiamento della verità. E, in effetti, quello della manipolazione della verità da parte delle autorità è la pura e semplice verità, solo che, per somma ironia, in senso diametralmente opposto rispetto a quello che credono gli ingenui ufologi. In altre parole, oltre che dall’esame delle fonti in merito, è di tutta evidenza che le apparizioni ufologiche sono legate allo svolgimento di esperimenti nel campo delle nuove armi e che lo smentire, da parte delle autorità militari, l’esistenza degli UFO non è altro che una loro astuta mossa per far credere in un insabbiamento dell’esistenza dell’extraterrestre   mentre quello che in realtà si vuole celare è l’esperimento militare. E dal punto di vista dei detentori del potere (siano essi militari o civili) un altro non disprezzato frutto della credenza dell’invasione aliena è che, comunque, di un potere c’è un dannato bisogno per proteggere l’umanità da una tale terribile minaccia (quello che vogliono gli ufologi non è tanto mettere in discussione le autorità ma metterle di fronte alle loro responsabilità dichiarando che siamo in presenza di una minaccia aliena e chiedendo espressamente al popolo il suo aiuto per fronteggiarla). (4) Perché, al di là di questa funzione di soggiogamento delle masse indòtte, questi prodotti intratterrebbero allora un rapporto, per quanto malato, con lo stato di eccezione benjaminiano? Molto semplicemente perché se c’è una verità che essi ci consentono di cogliere, è che, a causa della invasione degli alieni,  noi viviamo in un stato di eccezione permanente. Ovviamente per gli ingenui tremebondi dell’omino verde che si diverte a compiere esperimenti su poveretti rapiti e portati allo scopo  sull’astronave aliena, lo stato di eccezione è scatenato da una forza esterna ma noi si sarebbe altrettanto ingenui se ci si limitasse a giudicare questa psicosi unicamente o come indotta da documentari spazzatura o, se si vuole andare più a fondo, come una sorta di despiritualizzazione delle forme della religione tradizionale dove il diavolo viene sostituito dall’omino verde. Al fondo c’è anche la percezione che i cosiddetti doni della liberaldemocrazia non sono per sempre e che il baratro è lì che ci aspetta ad un solo passo. Se almeno a livello di coscienza degli strati meno acculturati delle popolazioni appartenenti alle democrazie elettoralistiche occidentali esiste effettivamente la percezione di un disastro incombente ( i bassi livello di reddito se non generano una consapevolezza sui rapporti di forza che vigono nelle democrazie, sono comunque ben propedeutici a profondi stati d’ansia),  a livello di scienza e di filosofia politica questa percezione è stata definitivamente rimossa. Per farla breve. Il pensiero marxista, nonostante negli ultimi anni si dica che assistiamo ad una sua rinascita, non è riuscito nemmeno  a sviluppare una coerente analisi perché l’esperienza del socialismo realizzato sia miseramente franata. Alcune frange lunatiche che pretendono essere gli eredi del grande pensatore di Treviri continuano a farfugliare di imminenti e terrificanti crisi del sistema capitalistico, ignorando i poverini che, come insegna Schumpeter,  la crisi è il motore stesso del sistema capitalistico (distruzione creatrice et similia). Sul cosiddetto pensiero liberaldemocratico meglio stendere un velo pietoso, perché se storicamente dopo il secondo dopoguerra è servito nella sfera geopolitica di influenza statunitense a svolgere il ruolo di occultamento dei rapporti di dominio, oggi è totalmente incapace di svolgere addirittura questa funzione. È un fenomeno riservato al dibattito accademico, per promuovere più o meno qualche carrieruzza in quest’ambito o, tuttalpiù per essere preso di rimbalzo da qualche giornalista trombone che diffondendo questa menzogna si vuole cucire qualche spallina da intellettuale per vantarsi di fronte ai colleghi che trattano la cronaca nera, ma per tenere dominate le masse, molto meglio una informazione di livello cavernicolo e totalmente etero guidata , (5) qualche quiz, qualche film, pornografia internettiana a volontà e per i più ansiosi e percettivi dello stato di eccezione permanente con le sue potenzialità catastrofiche, molto meglio le invasioni aliene. Peccheremmo però di falso per omissione se considerassimo il pensiero politico di questo inizio di terzo millennio come un immenso campo di macerie. In primo luogo – primo solo perché la responsabilità di questo indirizzo è direttamente e unicamente a noi ascrivibile – il ‘repubblicanesimo geopolitico’ (6) pur riconoscendo al neorepubblicanesimo alla Philip Pettit o alla Quentin Skinner il merito storico di aver iniziato un’operazione di progressivo distacco dal mainstream liberaldemocratico, da questo si allontana nettamente per aver messo l’accento sul problema del potere, dei conseguenti rapporti di dominio e su come democrazia non significhi, come nel neorepubblicanesimo, una difesa dal potere ma la suddivisione molecolare – e felicemente conflittuale – del potere stesso. Nel campo del pensiero marxista, fondamentale, per mettere in evidenza lo stato di eccezione permanente che informa tutta la vita politica e sociale, è il lavoro teorico svolto da Gianfranco la Grassa e le sue illuminanti riflessioni sulla razionalità strategica versus razionalità strumentale, sugli agenti strategici e sugli strateghi del capitale . (7) Sia il repubblicanesimo geopolitico sia il lavoro teorico di La Grassa sono quindi basati sul tentativo di svolgere un’analisi puntuale del potere, sia che questo si manifesti nei rapporti sociali sia nelle sue espressioni istituzionali, e dalla consapevolezza che ogni pratica politica volta ad aumentare il tasso di libertà all’interno della società non sia un fatto di enunciazione di eterni principi (enunciazioni che invece sono dissimulazioni di pratiche di dominio) ma di continui e pratici tentativi per effettuare una effettiva diffusione e parcellizzazione di questo potere. Inoltre sia in  La Grassa che nel  ‘repubblicanesimo geopolitico’, è centrale la consapevolezza, tratta dall’evidenza storica, che il capitale è solo un strumento attraverso il quale si svolgono le lotte di potere (il ‘repubblicanesimo geopolitico’ sostiene che la libertà, sia individuale che dei gruppi sociali, per essere esercitata necessita di un suo spazio vitale di esercizio ed espansione conflittuale e quindi, il repubblicanesimo geopolitico, ispirandosi alla terminologia della geopolitica tedesca, può essere definito, ‘Lebensraum repubblicanesimo’; (8) mentre in La Grassa fondamentale è il ruolo svolto dagli agenti strategici che lottano continuamente per espandere la loro sfera di influenza servendosi anche, ma non solo, degli strumenti finanziari e della produzione capitalistica). Detto sinteticamente: se con La Grassa il marxismo esce definitivamente, per individuare gli strumenti di riproduzione del potere, dalla mitologia marxiana dei rapporti di produzione capitalistici, il ‘repubblicanesimo geopolitico’ fa piazza pulita della mitologia liberaldemocratica che la libertà sia una questione di norme e di regole del gioco. In entrambi centrale è la benjaminiana consapevolezza che la vera norma che regola il gioco sociale e politico è lo stato di eccezione. L’uomo che sognò le fate era stato condotto da uno svolazzare di fate davanti all’imperatore di giada  che gli aveva assicurato che dopo quindici anni di sacrifici sarebbe stato ammesso al regno degli immortali. Ma gli anni passarano e tutto quello che accadde fu che quest’uomo, come tutti, invecchiò e poi morì (non aveva capito, in altri termini, che ogni esistenza, sia sociale che individuale, è intessuta in uno stato di eccezione che non ammette utopiche attese). La poesia di Po-Chu-i si conclude con “Triste l’uomo che vide in sogno le fate!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” Parafrasando possiamo concludere con “Triste l’uomo che vide in sogno la democrazia!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” A meno che la consapevolezza dello stato di eccezione non sia lasciata solo agli agenti strategici continuamente lottanti per un loro lebensraum e la sua oscura percezione ai credenti della nuova demonologia aliena e/o terroristica, c’est tout.

 

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Note

 

1)  W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, introduzione a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino, Einuadi, 1995, p. 79.

 

2) Nella precedente citazione dell’ottava tesi di Benjamin la locuzione impiegata è “stato di emergenza”. Tuttavia la traduzione più corretta è “stato di eccezione”, locuzione che da adesso in poi manterremo nel corso della presente comunicazione.

 

3) Su cosa sia realmente la democrazia nessuno meglio di Gianfranco La Grassa ha saputo cogliere nel segno: “In linea teorica, poiché la sedicente “democrazia” non è certo mai stata il “governo del popolo” (una bugia invereconda), si potrebbe sostenere che la tendenza migliore (o meno peggiore), riguardo alla (molto) futura evoluzione dei rapporti sociali, sarebbe quella  in cui apparisse infine alla luce del Sole – e senza condensazione e concentrazione di potere nei “macrocorpi” esistenti nelle sfere politica o economica o ideologico-culturale – la politica, quale rete di strategie conflittuali tra vari centri di elaborazione delle stesse, centri rappresentanti i diversi gruppi sociali. Non un “Repubblica dei Saggi” (ideologia in quanto “falsa coscienza”, che predica invano la possibilità di equilibrio sociale nel dialogo), ma una rete di scoperto, luminoso conflitto tra visibili strategie, apprestate da questi centri di elaborazione in difesa degli interessi di differenti gruppi sociali componenti una complessa formazione sociale.” (Gianfranco  La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi, Nardò, Besa Editrice, 2011, p.169).

 

4) Lo stile retorico e comunicativo  dei documentari televisivi sugli UFO segue, nella maggior parte dei casi, schemi pesantamente paratattici che più a trasmissioni vagamente informative li fa assomigliare a  comunicazioni di tipo religioso – preghiere e funzioni religiose –   con iterazioni ad nauseam degli stessi concetti, immagini e suggestioni senza che fra questi elementi vengano mai stabiliti legami logici significativi. Ma qui non ci vogliamo soffermare sul fenomeno UFO inteso come una sorta di religione sostitutiva (dove gli alieni, a seconda dei gusti, possono assumere il ruolo degli angeli o dei demoni) ma sul fatto che questo fenomeno è arrivato ad interessare, e fin qui nulla di strano, anche il massimo esponente vivente della teoria delle relazioni internazionali, il costruttivista  Alexander Wendt. In Sovereignty and the UFO,  agli URL http://ptx.sagepub.com/content/36/4/607.full.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dt6pJRsx e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fptx.sagepub.com%2Fcontent%2F36%2F4%2F607.full.pdf&date=2015-12-19), Alexander Wendt afferma che il fenomeno UFO, si creda o no nell’esistenza effettiva degli extraterrestri, ha l’effetto di provocare una diminutio di sovranità delle vecchie autorità terrestri a favore di quelle ipotetiche provenienti da altri mondi. In linea di principio potremmo anche concordare su questa fenomenologia dei rapporti di dominio di fronte al fenomeno UFO ma Wendt ignora completamente che, all’atto pratico, la gran massa degli ufologi e dei credenti negli omini verdi, sono dei patrioti fedeli alle autorità costituite che chiedono una sola cosa: che le autorità prendano il toro per le corna stabilendo un contatto con queste entità e all’occorrenza, dove queste dovessero risultare ostili, per combatterle più efficacemente denunciando pubblicamente il pericolo  e chiedendo l’aiuto e la collaborazione del popolo precedentemente tenuto avventatamente all’oscuro. In pratica, quindi, contrariamente a quanto sostiene Wendt, il fenomeno UFO consolida le autorità costituite e la translatio della sovranità verso gli extraterrestri rimane un fatto più virtuale che reale. Questo sul piano delle istituzioni diciamo secolari. Per non parlare poi del fenomeno UFO come una sorta di religione sostitutiva. In questo caso vale il caso di ripristinare la marxiana religione oppio dei popoli … e quando l’oppio viene percepito di scarsa qualità (crisi delle religioni tradizionali), ci si rivolge ad altri fornitori, con massima soddisfazione dei consumatori e degli agenti strategici che non chiedono nulla di meglio di dominati tranquilli (anche se un po’ troppo allucinati).

 

5) Vedi il caso di come viene trattato il fenomeno del cosiddetto terrorismo, prescindendo dal fondamentale aspetto geopolitico della questione. A questo proposito rimandiamo ai nostri interventi svolti sul blog “Il Corriere della Collera”, dove a titolo di esempio, trattando all’URL  http://corrieredellacollera.com/2015/01/19/antiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini/#comment-51015 (WebCite: http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F19%2Fantiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini%2F%23comment-51015&date=2015-04-19 e http://www.webcitation.org/6Xuok31dj) della recente isteria antiterroristica, il terrorista svolge il ruolo che in passato era affidato al diavolo (ed oggi, in gran parte, al suo valido compagno di merende, l’alieno: “Ad un livello immensamente più degradato di come l’intendeva Carl Schmitt, verrebbe voglia di citare, in relazione all’odierna isteria antiterroristica, la Politische Theologie, quando il giuspubblicista di Plettenberg affermava che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”: tradotto, per comprendere il ruolo dell’odierna disinformatia, quando il terrorista prende, nell’immaginario secolarizzato, il ruolo del diavolo. [Concludiamo] con un ulteriore rinvio a Carl Schmitt e al suo Theorie des Partisanen, dove il ‘partigiano’ è portatore di un’inimicizia assoluta ma un’inimicizia assoluta, di tipo veramente demoniaco, che ha la sua origine nella moderna guerra totale che ha distrutto la vecchia concezione di justus hostis. E così torniamo ai tagliagole mediorientali, figli non solo di una caotica strategia del caos statunitense che ha foraggiato per i suoi interessi geostrategici i demoni più distruttori presenti nell’area ma anche della nostra modernità politica che non può ammettere, pena la perdita totale della sua legittimità, l’esistenza di un justus hostis, ma solo l’esistenza, appunto, del nemico totale dell’umanità, il terrorista.”

 

6) Sul repubblicanesimo geopolitico, oltre a quanto apparso sul blog “Il Corriere della Collera”, vista la sua consolidata presenza nel Web, si rimanda  genericamente all’aiuto dei benemeriti ed efficienti browser – Google in primis, ça va sans dire, con un’unica ulteriore precisazione: consigliamo caldamente di visitare il sito di file sharing Internet Archive (all’URL https://archive.org/index.php).

 

 

 

7) Sugli strateghi del capitale si rimanda alla  esaustiva trattazione fattane in G. La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Roma, Manifestolibri, 2005. A dimostrazione di quanto, pur non nominandolo espressamente, il concetto di stato di eccezione svolga un ruolo fondamentale in La Grassa possiamo leggere: “Inoltre, la razionalità strumentale  del minimo mezzo è subordinata a quella strategica. La prima consente la generalizzazione di alcune “leggi” dell’efficienza e la minuta analisi delle condizioni che rendono possibile il conseguimento di quest’ultima. La seconda non ha leggi,  forse qualche principio, ma sempre da adattare poi alla situazione concreta, che è appunto quella che ho indicato quale singolarità. La ricchezza di mezzi è certo importante per l’attuazione delle categorie vincenti; e nel sistema capitalistico, in cui tutti i prodotti sono merci, i mezzi sono essenzialmente quelli monetari (nelle diverse forme). Tuttavia, la potenza non è solo questione di disponibilità  di mezzi, né bastano – per il loro impiego – le semplici regole dell’efficienza.” (G. La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, 2008,  p. 150).

 

8) Il concetto di Lebensraum fu coniato da  Friedrich Ratzel  e, soprattutto attraverso l’altro geopolitico tedesco Karl Haushofer entrò a far parte a pieno titolo dell’ideologia nazista (Karl Haushofer, tramite Rudolf Hess, si recò più volte nella prigione di Landsberg am Lech dove era detenuto Hitler in seguito al fallito putsch di Monaco per dare lezioni di geopolitica al futuro Führer). Quindi damnatio memoriae per tutta la geopolitica e per il termine Lebensraum centrale nella geopolitica stessa. È giunto il momento di rimuovere questa damnatio. Senza tanto dilungarci sull’ammissibilità di rispolverare concetti che il politically correct vorrebbe morti e sepolti, in queste sede diciamo una sola cosa. Al netto dell’uso scopertamente criminale ed ideologico che il nazismo ha fatto della geopolitica e dei suoi ammaestramenti, basti sapere che gli agenti strategici del capitale e i loro centri studi agiscono e programmano la loro azione alla luce del concetto di spazio vitale. E per essere fino in fondo politicamente scorretti, ricordiamo che l’economista austriaco Kurt W. Rothschild affermò che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith o i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege. Speriamo che per questo di non essere tacciati di guerrafondismo e/o criptico neonazismo.

 

L’ASCESA E LA CADUTA DI FLYNN, di Gianfranco Campa

Il pathos che traspare dal testo rivela non solo lo stato d’animo dell’autore, cittadino americano, ma la drammaticità stessa dello scontro politico, in atto negli Stati Uniti ma dalle profonde implicazioni nel resto del mondo (nota editoriale)


L’ASCESA E LA CADUTA DI FLYNN

In queste ore di profonda incertezza sul futuro dei rapporti Occidente-Russia, osserviamo i soliti media, ambasciatori asserviti ai poteri forti, che trasudano odio e rincorrono elaborati esercizi mentali nel tentativo di interpretare e far coniugare le dimissioni di Michael Flynn, il consigliere della sicurezza nazionale appena nominato dall’Amministrazione Trump, con la loro agenda ideologica, cercando nel contempo anche di screditare tutto l’apparato dello striminzito Governo Trump e infliggergli di conseguenza il colpo mortale. Queste gimcane servono in questo contesto solo al tavolo degli idioti di turno; non tutti però sono imbecilli da credere alla propaganda divulgata dai poteri anti-Trump.

Le “accuse” sono semplici: Flynn si è reso responsabile, secondo loro, di alto tradimento quando ha parlato al telefono più volte con l’Ambasciatore di Mosca a Washington; in particolare la telefonata più incriminata è quella del 29 Dicembre, giorno in cui l’amministrazione Obama prese la decisione di espellere i diplomatici russi dal suolo nazionale.

Procediamo con ordine. Da tempo Flynn era marcato stretto, bersaglio primario dei nemici mortali di Trump. Come avevo già scritto precedentemente, la situazione di Flynn era già apparsa, negli ultimi giorni, molto precaria. Flynn si è ritrovato strattonato da più parti sugli indirizzi di politica estera da perseguire. Flynn era dibattuto fra il suo desiderio, in linea con Trump, di attuare una nuova distensione con la Russia e la sua insofferenza verso l’Iran. Questa insofferenza insieme ai suoi rapporti più o meno amichevoli con i Russi sono stati usati come cuneo, prima per indebolire e poi per neutralizzare il Generale Flynn. Questi personaggi, come avvoltoi, hanno annusato la preda ferita e si sono avventati contro per straziarla. Il pretesto usato è stato una probabile serie di telefonate intercorse lo scorso dicembre fra Flynn e l’Ambascitore russo a Washington, Sergey Kislyak. Telefonate che secondo le accuse si incentravano sulle sanzioni imposte da Obama alla Russia e sulla possibilità di rimuoverle una volta Trump subentrato alla Casa Bianca. L’arma usata contro Flynn è stata la riesumazione  del cosiddetto  Logan Act del 1799 che recita: “Si impone una multa e/o l’imprigionamento di ogni cittadino il quale negozi, non autorizzato,  con governi stranieri con un contezioso in corso con il Governo attuale degli Stati Uniti.” Essendo le telefonate fra Flynn e Kislyak tenutesi a Dicembre, quando Obama era ancora alla Casa Bianca, allora queste telefonate possono considerarsi una violazione del Logan Act.

Questa è l’accusa, ma in sostanza non c’è niente di criminale nelle telefonate tra Flynn e Kislyak. Non c’è nessuna violazione del Logan Act per il semplice motivo che Flynn, letteralmente parlando, non era un privato cittadino nel momento in cui ha condotto la telefonata, bensì un funzionario di un governo, non ancora insediato, ma già eletto democraticamente dal popolo. L’unica accusa che gli si può imputare è il fatto che non abbia dichiarato integralmente tutta la natura delle conversazioni fra lui e Kislyak.  In aggiunta voglio fare presente che in tutta la storia Americana, mai nessuno era stato accusato di violare il Logan Act. Inoltre è provato che i Democratici come il compianto Ted Kennedy, John Kerry, Nancy Pelosi e altri hanno commesso atti di gran lunga peggiori di quello portato avanti da Flynn. In particolare mi viene in mente un episodio di qualche anno fa quando Michael McFaul, nel 2008,  prima  ancora che Obama fosse eletto, andò a incontrarsi direttamente con in funzionari Russi a Mosca per trattare linee diplomatiche da perseguire fra i due governi. McFaul dopo la vittoria di Obama divenne ambasciatore a Mosca. Se c’è stato uno che ha violato il Logan Act, questo è appunto McFaul il quale prese l’iniziativa di recarsi, da cittadino comune, in Russia (sicuramente con il beneplacito di Obama) per rappresentare un presidente non ancora ufficialmente eletto.  Andatelo a spiegare voi a questi quattro pagliacci di giornalisti che si stracciano pubblicamente le vesti, la differenza fra una accusa finta e una vera.

Un altro punto importante; queste telefonate erano già state trattate da Flynn con il vice presidente Mike Pence in dettaglio e già allora si era chiarita la situazione. Flynn aveva negato che la natura delle telefonate fosse stata esclusivamente incentrata sulle sanzioni. Ora si è trovata la scusa che Flynn non sia stato del tutto sincero e nasconda una sinistra attrazione verso la Russia. Non c’è nessuna prova che Flynn sia un personaggio compromesso. Le accuse che arrivano a Flynn provengono dalla stessa melma che da anni batte i tamburi di una guerra fredda con la Russia e usano i contatti con la Russia per screditare Trump.

La formula e già colludata; infiltrati, usualmente di estrazione del Dipartimento di Giustizia o del Dipartimento di Stato, rimanenze delle falangi Obamiane, rappresentanti di quel governo ombra, inquinato di neocons, i quali imperversano indisturbati nelle stanze del potere, fanno trapelare informazioni sull’ amministrazione Trump consegnando questi “sensazionali scoop” ai portavoce di regime come il Washington Post o il New York Times, giornali screditati, diventati ormai da spazzatura, neanche buoni da usare al bagno. Una volta che queste notizie vengono rese pubbliche, i soliti cecchini ormai ben noti, tipo l’ex direttore della National Intelligence James Clapper (uno che ha mentito sotto giuramento) e l’ex direttore della CIA John Brennan , alimentano questa caccia alle streghe. Una volta che uno come Clapper , Brennan, Sally, Yates o MacCain (tanto per fare dei nomi conosciuti), ufficializzano  le accuse, la melma raccoglie la palla al balzo giocandoci con impunità.

Flynn paga inoltre il dazio della sua dura critica ai servizi di Intelligence sui vari dossier anti Trump divulgati durante la campagna elettorale. L’assassinio politico di Flynn ci consegna più domande che risposte. Chi sono i traditori spia, inflitrati nei vari sistemi di governo che impunemente rilasciano ai media informazioni considerate riservate se non segrete? Chi ha dato l’ok a NSA, CIA e FBI di intercettare le telefonate di Flynn? Quanti altri tabulati di intercettazioni  sono in mano a questi terroristi domestici? Chi sarà il prossimo bersaglio?

Trump deve stare molto attento; già i collaboratori fidati sono pochi, ma con la perdita di Flynn si assottigliano ancora di più. La tattica è chiara; prendere uno alla volta i colaboratori più fedeli e demolire la Casa Trump un pezzo alla volta. Flynn è solo l’inizio. Sono in serio pericolo anche i vari Bannon, Conway, Spicer, Miller e via dicendo. Il guru Roger Stone ha oggi dichiarato, in una intervista a Newsmax TV, che la decisione di Trump di non erigere un muro di sbarramento in difesa di Flynn, costi quel che costi, equivale a una “Pearl Harbor” di chi ha sostenuto il Presidente fino a questo momento. Secondo Stone, Trump sente la pressione e avendo incaricato Flynn di tessere relazioni con i Russi prima ancora della sua entrata alla Casa Bianca, ha deciso di spingerlo alle dimissioni per coprire quella tessitura di rapporti che era stata pianificata da tempo, mirante ad una relazione più amichevole con la Russia. Venuto meno il supporto a tale rapporto e sentendo il montare della pressione, Trump si è tirato indietro e ha lasciato Flynn in pasto ai lupi. Così si spiega, secondo Stone, la dichiarazione fatta oggi dalla Casa Bianca di ritenere la Crimea un territorio Ucraino.

Tornando a Flynn, ci sono uomini che nonostante tutto, anche sbagliando, non perdono la loro integrità. Sono fedeli alle loro convinzioni e valori, qualunque essi siano e promuovono queste convinzioni e questi valori al di là di ogni calcolo di interesse personale. Vengono descritti in gergo comune come uomini tutti di un pezzo. Il generale Michael Flynn appartiene a questa categoria di uomini che, nella melma del mondo occidentale, si rarefanno. Uomini in via di estinzione, spianati dal rullo compressore di interessi e poteri avversi a chi, come Flynn, non si ribassano a compromessi per questione di calcoli politici miserabili o economici.

Flynn apparteneva al gruppo più vicino a Trump, quello storico, quello che ha creato il fenomeno Trump. Senza Flynn e pochi altri non ci sarebbe stato un Trump. Flynn e il suo amico Sebastian Gorka, sono stati i primi veri personaggi di estrazione militare ad appoggiare la candidatura di Trump, apertamente, senza se e senza ma, mettendosi in prima fila, senza vergogna, al servizio stesso dell’attuale Presidente. Per questo supporto, Flynn si sottometteva con stoicità alle critiche che gli piovevano da tutte le parti. Venendo anche attaccato sulla sua stessa integrità morale, una cosa che sicuramente non gli è mai mancata. Le sue dimissioni da consigliere sulla sicurezza dell’amministrazione Trump ne sono la prova; piuttosto che continuare a sottoporsi alle vessazioni di una stampa meschina e di nemici potenti, Flynn ha preferito ritirarsi dalla scena, scegliendo la via più a lui consona, quella dell’orgoglio e della dignità personale.

Questa marmaglia può solo pulire le scarpe a Flynn, un uomo che ha pagato con la sua onorata carriera l’opposizione prima allo stesso Clapper e poi a Obama definendolo un “ presidente bugiardo” e denunciando il sistema corrotto non solo dei servizi di intelligence ma anche della giustizia della vecchia amministrazione. Un’altra dura critica di Flynn era rivolta contro quella che riteneva una posizione troppo debole nei confronti del Terrorismo Islamico, e aveva più volte fatto sottintendere che il connubio fra l’amministrazione Obama e i terroristi usati come strumento di destabilizzazione e caos nel Medio Oriente era inaccettabile e distruttivo.

Dopo la chiara presa di posizione contro Obama e James Clapper, Flynn fu spinto a dimettersi dal suo incarico di direttore della Defense Intelligence Agency. In trentatre anni di carriera militare Flynn non è mai stato accusato di nessun reato. Un patriota di vecchia generazione che non si è mai ribassato a giochi politici di convenienza.

Michael Flynn si ritira nell’oblio, la sua partenza rappresenta un colpo durissimo a chi cercava una nuova distensione con la Russia. L’ultima speranza rimane Rex Tillerson; ma è come scalare l’Everest senza ossigeno.

 

Sotto trovate la lettera di dimissioni di Flynn:

 

February 13, 2017

In the course of my duties as the incoming National Security Advisor, I held numerous phone calls with foreign counterparts, ministers, and ambassadors. These calls were to facilitate a smooth transition and begin to build the necessary relationships between the President, his advisors and foreign leaders. Such calls are standard practice in any transition of this magnitude.

Unfortunately, because of the fast pace of events, I inadvertently briefed the Vice President Elect and others with incomplete information regarding my phone calls with the Russian Ambassador. I have sincerely apologized to the President and the Vice President, and they have accepted my apology.

Throughout my over thirty three years of honorable military service, and my tenure as the National Security Advisor, I have always performed my duties with the utmost of integrity and honesty to those I have served, to include the President of the United States.

I am tendering my resignation, honored to have served our nation and the American people in such a distinguished way.

I am also extremely honored to have served President Trump, who in just three weeks, has reoriented American foreign policy in fundamental ways to restore America’s leadership position in the world.

As I step away once again from serving my nation in this current capacity, I wish to thank President Trump for his personal loyalty, the friendship of those who I worked with throughout the hard fought campaign, the challenging period of transition, and during the early days of his presidency.

I know with the strong leadership of President Donald J. Trump and Vice President Mike Pence and the superb team they are assembling, this team will go down in history as one of the greatest presidencies in U.S. history, and I firmly believe the American people will be well served as they all work together to help Make America Great Again.

 

Michael T. Flynn, LTG (Ret)

 

I FALCHI E LE COLOMBE, di Gianfranco Campa

I FALCHI E LE COLOMBE

 

In questi giorni si susseguono i messaggi criptati e confusi che arrivano dall’amministrazione Trump sulla Russia di Putin. Dal di fuori sembra che ci sia mancanza di coordinamento e di allineamento sulla politica estera da seguire, specialmente nel quadro dei giochi geopolitici USA-Russia.

È chiaro che la confusione per molti regna sovrana, ma in realtà l’apparente disfunzione è riconducibile a due cause:

  • il ritardo ostruzionistico che i senatori democratici hanno determinato nei confronti delle nomine di Trump contribuendo a rendere ingestibile la situazione politica interna e di riflesso quella esterna.
  • La seconda causa, la piu` importante; la penuria di personaggi di fiducia da inserire nei posti chiave dell’ Amministrazione. Persone di fiducia che, data l’entità dell’assedio sotto cui Trump si ritrova, sarebbero fondamentali per gestire gli attacchi meschini, costanti e incessanti che provengono da tutti i fronti, non ultimo quello previsto e puntualmente arrivato dalla Magistratura. Sappiamo d’altronde come funziona il meccanismo; quando il potere chiama, i giudici rispondono elevandosi a paladini della giustizia e dei diritti. Questa penuria di personaggi di fiducia competenti vicini a Trump, incoraggia i falchi neocons presenti nel Partito Repubblicano a far deragliare il proposito di Trump di attuare una nuova distensione con la Russia. Ironicamente in questo desiderio di sovvertire il tentativo di Trump e Putin ad esplorare una timida collaborazione si ritrovano insieme, alleati, i Neocons, i democratici, i media, i politici e gran parte dei capi di governo stranieri, multinazionali e via dicendo. Tutti insieme appassionatamente uniti dall’odio profondo verso Trump e dalla minaccia che Trump rappresenta all’ordine mondiale. D’altronde Il nemico del mio nemico è mio alleato…

A testimoniare di questo campo minato in cui Trump si ritrova a camminare, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, i due Neocons per eccellenza, Lindsay Graham and John McCain, si sono ritrovati in Ucraina per promettere suppporto a Poroshenko e rappresentare di fatto, non il governo Trump, ma tutta quella melma che si aizza contro di lui.

Trump su una cosa è stato consistente durante tutta la sua campagna elettorale e non ha mai cambiato orientamento anche quando messo alle corde: il desiderio di avviare una distensione tra la Russia e gli Stati Uniti attraverso un rapporto cordiale con Putin. Trump è stato sempre chiaro su questo desiderio al punto tale da sbugiardare, in diretta, durante la campagna presidenziale, il suo stesso vice presidente Mike Pence. L’unica cosa che gli si può contestare e` la mancanza di esperienza politica nel gestire anche solo un accenno di distensione con la Russia, grazie anche all’avversita` che Trump ha mostrato, fin dal suo concepimento, sull’accordo del nucleare firmato da Obama con gli Iraniani. Avversione, quella di Trump, che era più rivolta all’aspetto finanziario dell’accordo che a quello politico. Trump ha sempre ritenuto svantaggioso l’accordo raggiunto con gli Iraniani nei suoi termini economici, non fondato a suo parere su basi eque. Questa avversione verso l’Iran è stata uno degli orientamenti strumentalizzati dai neocons per dirottare Trump lontano da Putin, ben sapendo dello stretto rapporto esistente tra la Russia e l’Iran.

La visita di MacCain in Ucraina ha anticipato di qualche giorno la telefonata che Trump e Putin hanno programmato per il 28 di Gennaio. Il resoconto della telefonata parla di una conversazione sobria e amichevole fra i due leader, con la promessa di arrivare a un summit da condurre a Ginevra nel prossimo luglio.

Dopo la telefonata tra Putin e Trump, come da copione, sono cominciati i fuochi di artificio. Se la visita di McCain e Graham non è sufficientemente servita a rendere chiaro il messaggio, ci hanno pensato, immediatamete dopo quella telefonata, personaggi più o meno importanti e conosciuti a far deragliare sul nascere ogni tentativo di scardinare il blocco antirusso, aprendo un fuoco di sbarramento tale da  costringere Trump con le spalle al muro.  In Ucraina la situazione e` immediatamente deteriorata. L’ex governatore del Sud Carolina, Nikki Haley, appena nominata da Trump ambasciatrice all’ONU e amica di McCain, ha duramente condannato la Russia per il suo ruolo in Ucraina dichiarando fra l’altro che non ci sarà mai pace senza la restituzione della Crimea a Kiev. Vai a spiegare alla Haley la storia di quella regione. Anche l’Iran ci ha messo del suo testando nello stesso giorno del discorso di Haley un missile balistico Khorramshahr, violando così i termini della Risoluzione ONU 1929. Non sono nato ieri e quindi non credo che la tempistica iraniana sia un caso. I Mullahs hanno le loro ragioni per mettere i bastoni fra le ruote a un rapporto amichevole fra Putin e Trump.

Non ostante tutto, tre giorni fa durante un intervista alla FOX News, Trump, rispondendo alla accusa che Putin è un assassino, dichiarava che anche gli Americani sono stati degli assassini e “neanche noi siamo così innocenti”

Inutile dire che la reazione in America è stata viscerale; il commento  di Trump è stato denunciato e condannato su tutti i network televisivi, un disastro di capacità di relazioni pubblicche che ha messo Trump ancora più sotto assedio. Un esempio evidente dell’inesperienza politica di Trump; certe cose puoi pensarle ma non le puoi dire, soprattutto quando sei già sotto pressione.

Due giorni fa, nel tentativo di allentare la morsa e coordinare una strategia più efficacce di difesa contro i costanti attacchi, Trump si è chiuso nell’ufficio ovale della Casa Bianca con i suoi più fedeli collaboratori, di fatto sono solo cinque: Stephen Bannon, Jared Kushner, Peter Navarro, Kellyann Conway, Reince Priebus, più un fedele a metà; Michael Flynn. Dico mezzo perchè Flynn, fra  l’avversione di una larga parte di suoi colleghi militari, i quali non vedono di buon occhio una distensione con la Russia e la sua “devozione” a Trump si ritrova in un limbo, in quella terra di mezzo dove tutto è offuscato. Per un Flynn che perde colpi c’è un Priebus che avanza. Di estrazione establishment repubblicano, Priebus si è elevato a componente più fedele a Trump, rinnegando quei vertici repubblicani che lo avevano messo lì per “tenere d’occhio” il Presidente. Ma è lampante che anche con un Priebus in più, il numero di collaborator leali è risicato e costringe Trump a una costante difesa. Alla fine questo animato ritiro tra fedeli di Trump, ha portato a delle decisioni importanti: Concentrarsi sul fronte interno, per meglio impostare una strategia di difesa da condurre contro i costanti attacchi. Le limitate risorse vanno quindi concentrate tutte lì, mentre la politica estera è stata per il momento messa da parte e lasciata in mano ai falchi che operano impuniti e  indisturbati nelle stanze di Washington.

La speranza rimane che una volta prese le misure  del Dipartimento di Stato, Tillerson riesca a smussare un pò gli angoli  a livello geopolitico.

L’altra speranza è guadagnare un po’ di tempo aspettando le elezioni europee, soprattutto in Francia e Olanda, dove la vittoria della destra “populista” aprirebbe più fronti e porterebbe a distogliere un po’ la attenzione e gli attacchi morbosi di cui Trump è ora il solo e unico bersaglio.

Sarò sincero;  vedo una matassa estremamente difficile da sbrogliare; tutto sarà possibile, ma al momento attuale Trump non è in condizioni di perseguire e conseguire una distensione con la Russia.

Un altra cosa vorrei  fare presente per chi non e` ancora convinto delle difficoltà in cui Trump si ritrova ad operare. Storicamente una distensione con la Russia è stata sempre ostacolata in modo maniacale. Voglio ricordare alcuni episodi storici a sostegno di questa tesi. Deragliamento della distensione da parte della CIA durante la presidenza di Dwight Eisenhower . Qualche mese prima dell’incontro programmato fra Eisenhower e  Nikita Khrushchev  avviene l’abbattimento dell’U-2 sopra l’Unione Sovietica con a bordo il pilota CIA Gary Powers. L’opinione di certi ambienti è che Eisenhower non fosse stato messo al corrente dell’operazione da parte della CIA. Operazione che di fatto inibì qualsiasi tentativo di iniziare una distensione i due paesi. Da rilevare la stessa morte di Gary Powers nel 1977, dovuto ad un incidente di elicottero  dalle dinamiche avvolte nel mistero; voci insistenti davano un Power particolarmente irrequieto pronto, 17 anni dopo, a vuotare il sacco sulla operazione U-2.

Il secondo tenativo di distensione  avviene quando il presidente Richard Nixon incontra in visita il Segretario Generale del partito comunista sovietico, Leonid Brezhnev a Mosca, nel  maggio 1972 . Quell’incontro porterà il frutto del trattato SALT e la visita verrà ricambiata da Brezhnev   con altri due summit che però porteranno a ben poco seguiti come furono dallo scandalo Watergate e dale conseguenti dimissioni di Nixon.

Anche qui è da sottolineare un probabile convolgimento della CIA nello scandalo Watergate. Non per giustificare la superficialità di Nixon nella gestione Watergate, ma quello scandalo segnò effettivamente  la fine della presidenza Nixon e di conseguenza  la fine della distensione avviata appena due anni prima. Lo stesso Carter ha fatto timidi tentativi di salvare almeno in parte quell’opera di distensione con la Mosca. Carter fallì per vari motivi, uno di questo fu la debolezza interna in cui la sua amministrazione versava. Credetemi, Trump è messo molto ma molto peggio di Carter.

Voglio infine chiarire che lo stesso Reagan ha avuto durante il suo primo mandato presidenziale una posizione antagonistica verso l’Unione Sovietica definendola l’Impero del Male, per cambiare poi orientamento durante il suo secondo mandato per ragioni troppo lunghe da discutere ora. Resta il fatto che Reagan operava in una posizione di forza avendo vinto il secondo mandato, nelle elezioni del 1984, con un voto storico; una valanga di 49 stati  contro il solo stato vinto da Walter Mondale, il Minnesota, stato da cui Mondale proveniva .

È chiaro che Trump non occupa nessuna posizione tale da dettare la linea geopolitica; basta che qualcuno faccia una pernacchia e Trump si ritrova ad annaspare. La sua è una posizione troppo debole. Non ci resta che sperare nella vittoria di Marine Le Pen in Francia per sbloccare la situazione e alleviare i dolori di Trump. Prevedo molto presto attacchi contro Le Pen usando le stesse tecniche usate contro Trump; poniamo, i servizi segreti Francesi che “smascherano”, tutto di un colpo, i Russi nel tentativo di manipolare le elezioni.

Per il momento rassegnamoci, cinque colombe e mezzo non fanno primavera.

 

 

LA NUOVA STRATEGIA ARABA DI TRUMP, di Antonio De Martini

Più che un articolo è un appunto. Breve ma molto efficace; soprattutto, corroborato da numerosi indizi

LA NUOVA STRATEGIA ARABA DI TRUMP

Comincia a filtrare l’orientamento verso il mondo arabo della nuova amministrazione USA.
Il nemico principale indicato non sarà più ISIS-DAESCH , bensì al Kaida.

Questo significa che l’idea di considerare ISIS il nemico, viene azzerata.
Non facendo ammissioni imbarazzanti per la passata amministrazione, nasconde il fatto che si è trattato di una creazione israeloamericana.

L’obbiettivo era dirottare il reclutamento dei volontari jihadisti da al Kaida verso sigle ispirate se non addirittura create dai servizi di intelligence – inizialmente con la collaborazione europea- quindi monitorabili e indirettamente indicando obiettivi non americani in cambio di strategie di comunicazione atte a mettere in ombra al Kaida e in luce Al Bagdadi e i suoi adepti.

Adesso, si torna alla realtà e il nemico torna ad essere al Kaida. Ecco perché i confini americani, finora protetti dalla precedente strategia, sono stati messi in sicurezza.
Questo significa inequivocabilmente una prospettiva di scontro , nemmeno a lungo termine, con la casa reale saudita e un miglioramento dei rapporti con l’Europa che era stata di fatto, sia pure indirettamente, indicata come obiettivo per i killer di Al Bagdadi.

L’idea iniziale americana era che sarebbero stati attaccati di preferenza obiettivi nella Russia mussulmana.

Una grave sottovalutazione del fattore anti colonialista e nazionalista arabo e una discreta ignoranza della politica di riconoscimento dei valori del Caucaso praticata dai russi fin dal tempo degli Zar, quando, arresosi dopo trenta anni di lotta l’Imam del Daghestan Sciamil, lo Zar gli assegnò una dignitosa residenza con seguito, gli lascio le sue armi, accolse a corte uno dei figli e gli permise di andare il pellegrinaggio alla Mecca.

Morì a Medina mentre era in viaggio ed è un raro caso di un non arabo sepolto nella città di Maometto.

Ancor oggi la residenza di Sciamil a Kaluga è un museo e meta di visitatori.

La recente ” fatwa di Grozny” che ha decretato la messa fuori da ogni legge islamica dei jihadisti da parte di trecento Imam riuniti a Congresso, ha completato la debacle del piano americano di poter deviare gli attentati a piacimento.

La scelta di Trump è audace, ma consente di migliorare i rapporti che contano di più : quelli con l’Europa. Il problema è che al Kaida ha reclutato principalmente tra sauditi e yemeniti dove la guerra subirà una accelerazione.

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO), di Massimo Morigi

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO)

Polemos è di tutte le cose padre, di tutte re, e gli uni rivela dei e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi. Eraclito, Frammento 53

La ‘Teoria della Distruzione del Valore’, pur inserendosi direttamente e a pieno titolo nella tradizione della critica marxiana e marxista all’economia politica classica e neoclassica e all’individualismo metodologico a queste inerente, intende rovesciare la teoria marxiana del plusvalore – viziata alla radice dall’economicismo dell’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, economicismo che pur Marx intendeva respingere –, sostenendo, contrariamente alla teoria del plusvalore, che il modo di produzione capitalistico non si caratterizza per una sottrazione del plusvalore generato dal pluslavoro erogato dal lavoratore e di cui si appropria il capitale ma che, bensì, attraverso il nuovo rapporto sociale materializzatosi con l’avvento del capitalismo (“Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.”: Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200; “Ma il capitale non è una cosa, bensì un certo rapporto di produzione sociale che rientra in una determinata formazione storica della società. Questo rapporto si presenta in un oggetto e conferisce ad esso uno specifico carattere sociale. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Esso è formato dai mezzi di produzione che sono divenuti capitale, che in se stessi non sono capitale, come oro e argento non sono in se stessi denaro. Il capitale è formato dai mezzi di produzione monopolizzati da una certa porzione della società, dai prodotti e dalle condizioni in cui agisce la forza lavorativa, resisi indipendenti nei confronti della viva forza lavorativa che tramite questa contrapposizione si incorporano nel capitale.”: Idem, III, pp.1086-1087), si opera una distruzione reale e concreta del valore del lavoro richiesto al dipendente operaio dell’impresa capitalista. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ si colloca nell’ambito della dottrina filosofico-politica denominata ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ (o ‘Lebensraum Repubblicanesimo’) ed è complementare, specialmente per le epoche storiche ed i rapporti sociali precedenti o non riconducibili al primo capitalismo industriale e successive sue evoluzioni, ad una più generale ‘Teoria della Predazione/Distruzione/Equilibrio/Incremento del Valore’, a sua volta afferente alla ‘Teoria Polemodinamica Evolutiva dei Cicli di Creazione/Conservazione/Trasformazione del Conflitto’, teorie anche quest’ultime due costitutive del ‘Repubblicanesimo Geopolitico’. Fondamentale corollario. Alla luce della decisiva categoria di Gianfranco La Grassa degli ‘agenti strategici’, la distruzione del valore del lavoro – distruzione consustanziale alla nascita dell’impresa capitalista che dà forma al nuovo rapporto sociale che vede l’incontro sul mercato, su un piano di formale libertà per entrambi, del lavoratore salariato e dell’agente capitalista, in realtà in un rapporto totalmente Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.2 di 3 20 marzo 2015 squilibrato a favore del secondo, il quale proprio per la disparità di forze a suo vantaggio acquista un lavoro ‘svalorizzato’ – deve anche intendersi parallela, concomitante e complementare alla distruzione agente in quell’altro versante del potere, distruzione, cioè, della capacità di agire – seppur in senso lato – politicamente dei ‘non agenti strategicioperai/lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ (da adesso in poi definiti ‘decisori omegastrategici’ o ‘omega-strategic decisors’). In questo modo, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’, affine per molti versi al concetto di Joseph Schumpeter di ‘distruzione creatrice’, è lo strumento fondamentale per completare la messa a fuoco e l’inquadramento teorico dell’operato degli ‘agenti strategici’ lagrassiani (da adesso in poi definiti ‘decisori alfastrategici’ o ‘alpha-strategic decisors’), che agiscono (o, meglio, decidono) costantemente per accrescere il loro potere attraverso mosse strategiche indirizzate sia sul versante – apparentemente solo – economico e mosse – apparentemente solo – politiche, entrambi ambiti che però, se guardati attraverso l’univoca ed unica finalità di conquista della supremazia tipica dei ‘decisori alfa-strategici’, rivelano il loro consustanziale legame, cementato dalla loro comune politicità. Nella presente situazione postdemocratica che accomuna tutte le democrazie occidentali elettoralistico-rappresentative, siamo in presenza di una reale estensione formale dei diritti politici e civili a fronte di una reale distruzione sostanziale della loro efficacia e vigenza politica (l’Italia – more solito – è un caso a parte: in questo paese, l’arretratezza politica è di un tale livello che anche dal punto di vista formale assistiamo ad una contrazione/distruzione non dissimulata, esplicita e smaccata, dello spazio politico di azione dei ‘decisori omega-strategici-lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’). Per tornare alle maggiori “democrazie” occidentali, questo significa, per i ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’, un’estensione formale dei diritti politici e, soprattutto, dei diritti civili (esemplare, a tal proposito, l’ideologia del “politicamente corretto” e dei “diritti alla diversità” – di genere o culturali che siano – , che trovano la loro massima realizzazione – e simbolo – nel diritto al matrimonio fra omosessuali), una estensione formale del loro ambito di decisione/azione a fronte, però, di una sostanziale distruzione del valore dei loro diritti e tutele lavorativi per opera dei ‘decisori alfa-strategici’, distruzione del valore il cui unico effetto è un’ulteriore contrazione/distruzione dei già miseri ambiti di azione politica reale dei ‘decisori omega-strategici’, fatti salvi, ovviamente, gli “importantissimi” diritti afferenti al “politicamente corretto”, al “diritto alla diversità” – comunque lo si voglia declinare – e alla sfera dell’orientamento sessuale. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ consente così di ripercorrere un filo rosso continuo fra la nascita in Occidente delle prime società industriali/capitaliste (con il contemporaneo affermarsi del summenzionato rapporto sociale, plasmato dal capitalismo, di formale libertà sul mercato e conseguente ingannevole vicendevole autonomia fra capitalisti e ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ afferenti all’ impresa capitalista, formalmente liberi nello scambiare con i ‘decisori alfa strategici-imprenditori capitalisti’ la loro forza lavoro ma con un’incommensurabile disparità di forza contrattuale in questo mercato a causa della distruzione del valore operata dal nuovo rapporto sociale ingenerato dal capitalismo, una distruzione del valore del tutto simile a quella che avviene fra i combattenti nelle guerre armate, dove, per giungere al risultato strategico voluto, la vittoria o la non sconfitta, si distrugge non solo la vita del nemico ma anche di quella carne da cannone che per convenzione si suole chiamare amico: non a caso l’economista austriaco Kurt. W. Rotschild ha affermato che se si vuole comprendere l’economia, piuttosto che studiare Adam Smith e tutti gli altri allegri studiosi della triste scienza, meglio è concentrarsi nella lettura del Vom Kriege di Carl von Clausewitz… e viene facile notare la profonda analogia e legame fra la prima fase del capitalismo e la nascita della guerra assoluta analizzata da Clausewitz, dove in entrambe la distruttività veniva portata a livelli mai prima conosciuti dall’umanità, fino a giungere ai giorni nostri, nei quali le possibilità di annientamento manu militari e manu scientifica, con la nuova generazione di armi sempre più basate sulla cibernetica – fino ad Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.3 di 3 20 marzo 2015 arrivare al computer quantistico e alle sue potenzialmente numinose capacità computazionali e di conseguente produzione/riproduzione/creazione di un potere un tempo solo riservato agli dei olimpici, e alle forme sempre più evolute di intelligenza artificiale e alla possibilità di manipolazioni della pubblica opinione e della natura fisica e biologica, “un lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla dalle creature che dormono latenti nel suo grembo”–, rendono persino la guerra totale di settanta anni fa, compresa la stessa arma atomica, un gioco da ragazzi e dove il capitalismo del XXI secolo non solo ha eliminato, almeno in tempi commensurabili con l’umana esistenza, ogni realistica possibilità di poter costruire un diverso rapporto sociale ma ha ormai addirittura annientato la stessa memoria storica dei tentativi portati avanti dai ‘decisori omega-strategici’ – o, meglio, dalle burocrazie socialistiche che sostenevano, in parte in buona e in parte in cattiva fede, di agire in nome e per conto del proletariato e per instaurarne l’ossimorica dittatura ma che, a tutti gli effetti, altro non erano che una diversa forma di ‘decisori alfa-strategici’ – per costruire un’alternativa al capitalismo) e le odierne società industriali/capitaliste, caratterizzate quest’ultime – come le prime società industriali/capitaliste – da ‘decisori alfa-strategici’ che costantemente agiscono – e per ora, nonostante tutta la dissimulativa retorica democratica, con grande ed inarrestabile successo e senza alcun reale avversario – per una distruzione del valore del lavoro sull’apparentemente libero mercato e dei diritti dello stesso a livello giuridico dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori alfa-strategici’ che – oggi come sempre ed in particolare, per quanto riguarda l’epoca moderna, dall’inizio della rivoluzione industriale, in altre epoche storiche possono essere state prevalenti modalità predatorie, e.g. la schiavitù antica e la servitù della gleba – operano, in definitiva, per annichilire – sfrontatamente o più o meno nascostamente ma sempre con modalità distruttivamente del tutto analoghe a quella dei summenzionati conflitti armati, per una critica dei quali è quindi fondamentale, oltre che per l’economia, la politica e la cultura, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’ – i già infimi ed unicamente consolatori spazi di decisione/azione dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori omega-strategici’ per i quali, ne siano consapevoli o meno, vale sempre, indipendentemente dall’epoca storica e predazione o distruzione del valore che sia, la condizione vitale ed esistenziale – “dove anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”– descritta dall’iperdecisionista Walter Benjamin – l’Angelus Novus per un rinnovamento ab imis della geopolitica e del repubblicanesimo, soteriologicamente ben più radicale e realista del “timido” e katechontico decisionista giuspubblicista nazifascista Carl Schmitt – alla ottava tesi di Tesi di filosofia della storia: la terribile e mortale condizione di ‘stato di eccezione permanente’. Massimo Morigi – Ravenna, 20 marzo 2015 “Massimo Morigi”; “Karl Marx”; “Marx”; “Ant ropos St rategikon”; “Hom o St rategicus”; “Homo S trategicvs”; “Gianf ranco La Grassa”; “Gianfranco la G rassa”; “La Grassa”; “Joseph Alois Schumpeter”; “distruzio ne creatrice”; “ Teoria del plus valore”; “ Teoria del plusvalore”; Teoria del plus-valo re”; “Teo ria del valo re”; “Teo ria marx iana del valo re”; “Theor y of plus value”; Theory o f plus-val ue”; “théorie de plus-value”; “ Theorie des Mehrwerts”; “teor ia do mais- valor”; “teo ria do mais valor”; “théo rie de plus value”; “teoria de p lusvalor”; “plusvalore”; “Theor ien über den Mehrwert”; “ Teorie su l plusvalore”

IL TEATRO DELL’OLOCAUSTO, di Max Bonelli

Cronaca di una serata culturale, dove il genocidio degli ebrei viene usato come strumento per produrre consenso per una pseudo sinistra liberista e mondialista.

 

Mi trovavo a trascorrere un paio di giorni presso il luogo di origine della mia famiglia. Un tipico paese dell’appennino laziale, per sua fortuna non toccato dalle tristi vicende dei continui terremoti. Una parente, dopo una piacevole chiacchierata, m’invita a seguirla ad un evento culturale locale tenuto da un politico del luogo esponente della sinistra mondialista  e docente in un  liceo, conosciuto per ricorrenti iniziative culturali su temi di attualità. Il tutto sponsorizzato dalla municipalità  che pur avendo un colore politico teoricamente opposto acconsente alla sponsorizzazione di questi eventi in nome di una apartiticità della cultura.

La serata è la seconda di un ciclo di due che ha per tema l’Olocausto, con relatore un giovane professore universitario di filosofia che solo casualmente ha il cognome coincidente con quello di un ministro della repubblica di uno dei primi governi Berlusconi.

Il giovane intellettuale presenta il suo libro sul genocidio ebraico e ne illustra i suoi punti salienti, partendo dall’assioma  che il genocidio degli ebrei perpetrato dal nazismo sia fenomeno unico nel corso della storia per dei motivi che il bravo professore partenopeo si dimentica simpaticamente di dimostrare.

Gli spettatori della riunione pur essendo in media di cultura superiore non riescono onestamente ad afferrare perché il 27 gennaio, in tutto il mondo dobbiamo ricordare il genocidio degli ebrei e non quello degli zingari che morirono nello stesso modo e negli stessi luoghi. In silenzio non assertivo afferrano il concetto che questa ricorrenza è unica per la coniugazione di un movimento politico che dopo la presa al potere di Hitler nel 1933 pianifica a tavolino la pulizia etnica dell’area geografica a predominanza culturale tedesca. Dopo di che è un continuo di immagini verbali e mediatiche di atti di violenza bestiale e testimonianze toccanti che non possono che scuotere la coscienza umana dell’ascoltatore.

Ma la mia coscienza critica è in rivolta. Come si può affermare impunemente l’unicità di questo genocidio rispetto agli altri genocidi che la storia con ricorrenza cadenzata ci vomita addosso?

Cosa differenzia sul piano della componente razziale, l’olocausto ebraico rispetto al genocidio degli indiani di America perpetrato dai coloni americani i quali affermavano con franchezza tutta anglosassone che: “l’unico indiano buono era quello morto”? Cosa differenzia in metodicità la distribuzione delle coperte infettate di vaiolo, rispetto ai tentativi sperimentali teutonici di genocidio tramite le camere a gas?

Dove si distingue l’efferatezza del genocidio degli ebrei polacchi e russi da quello messo in pratica dalle milizie turche e curde nei confronti degli armeni?

Pecca di capacità tecnologica il monito di genocidio dato al Giappone ormai inerme con le due bombe di Hiroshima e Nagasaki rispetto ai forni crematori dei campi di concentramento?

Mi sovviene il sospetto che l’unicità dell’olocausto è che per un caso raro nella storia dei genocidi, il colpevole ha perso la guerra e viene processato dal vincitore.

 

Sono certo che il giovane professore il quale per sicuro merito ha occupato una prestigiosa cattedra con il corrispondente buon stipendio saprà illuminare il mio innato spirito critico. D’altronde come potrà mancare una sessione interattiva di domande e robuste risposte in una serata culturale patrocinata da locali esponenti di partiti con salde tradizioni democratiche?

Ma i miei interrogativi rimarranno tali e irrisolti da un frettoloso “Tutti a casa” prontamente lanciato dal rampante esponente politico globalista dal look da moderno sessantottino. La perplessità nella platea è visibile negli occhi delle persone e questa può generare inopportune domande; d’altronde lo scopo d’informazione è raggiunto, l’impegno culturale è compiuto, la ricaduta politica per futuri impegni elettorali conseguita, l’amicizia con il giovane professore universitario consolidata e con essa la rete di sue conoscenze ed influenze.

La mia rabbia cresce per questo teatrino umano che uccide per la seconda volta quegli uomini, donne, bambini vittime di una pazzia razziale collettiva che ebbe luogo nei campi di concentramento. Il loro sacrificio viene usato per il fine di una grande lobby finanziaria che deve nascondere un altro genocidio che si potrebbe fermare oggi, quello dei palestinesi rinchiusi nella striscia di Gaza. Il grande ghetto palestinese con i bambini denutriti che crescono in un esasperante vita se non quando deturpati ed uccisi dalle pallottole israeliane. La memoria degli ebrei di Treblinka, Auschwitz usata come velo per oscurare gli odierni genocidi, dimostrazione giornaliera che non esistono popoli eletti e razze superiori, bensì un animale a due gambe capace di qualsiasi ferocia chiamato uomo.

Ma i peggiori sono loro; quelli che si pensano giusti, portatori di verità che in realtà usano per i loro fini, piccoli uomini senza etica.

L’etica suggerirebbe: stabiliamo il giorno della memoria per tutti i genocidi, grandi e piccoli che sono avvenuti, tutti paritetici nella dimostrazione della pazzia umana.

 

 

Max Bonelli

 

Autore del libro

Antimaidan

(le ragioni del genocidio del popolo dell’Est Ucraina)

Esperto di Scandinavia ed Ucraina

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