PROSPETTIVE, di Andrea Zhok

PROSPETTIVE

Di fronte alla prospettiva di un possibile default italiano, indotto dal combinato disposto delle modifiche del MES, c’è chi si chiede se i paesi che guidano questa riforma (Germania e Francia) non siano consapevoli che un default italiano sarebbe una catastrofe che porterebbe con sé anche i sistemi bancari altrui.

Su questo punto però c’è un equivoco che bisogna sfatare. Si trova spesso come argomento consolatorio l’idea che l’Italia è ‘too big to fail’. E questo è tecnicamente vero. Nessuno infatti ha interesse a vedere un default incontrollato dell’Italia, che metterebbe in crisi con effetto domino tutti i sistemi finanziari connessi.
Però la minaccia di un default unilaterale e senza paracadute sarebbe una minaccia effettiva solo se gestita autonomamente dall’Italia in una trattativa, alle proprie condizioni (e, naturalmente, se a gestirla ci fossero persone tecnicamente e diplomaticamente assai capaci, il che rende al momento questa trattativa del tutto implausibile).

Non è questa la prospettiva, e la riforma del MES indica già proprio le condizioni che si prevedono come desiderabili a livello UE per un ‘default controllato’.

La prospettiva che viene presa in considerazione come scenario desiderabile è quella in cui si procede ad alcuni ‘haircut’ circoscritti sui titoli del debito pubblico, sottoponendo simultaneamente il paese a rigide condizionalità.

Queste condizionalità devono indurre il paese che vi è soggetto a privatizzare tutto il patrimonio pubblico che c’è ancora da privatizzare, e a svendere le parti più interessanti del patrimonio privato connesso alla produzione (banche innanzitutto).

Gruppi come Leonardo-Finmeccanica, e le maggiori banche italiane sarebbero i primi a cadere, seguiti dalla delega dello sfruttamento estensivo del patrimonio ambientale e culturale.

Nel caso qualche anima bella ritenga che questa prospettiva sia troppo maligna, che i ‘fratelli tedeschi e francesi’ mai sarebbero così inclementi, ricordo che questo è esattamente quanto è successo, su scala minore, con la Grecia. (Solo che lì hanno imparato strada facendo, mentre ora la riforma del MES vuole disporre tutto in modo regolamentato a monte.)

In Grecia non c’è stato alcun default incontrollato (che avrebbe effettivamente coinvolto istituti bancari francesi e tedeschi). Si è invece proceduto a uno ‘haircut’ controllato e dilazionato, con allungamento dei tempi di restituzione dei prestiti, ed erogazioni centellinate quanto bastava per consentire al paese di ‘mantenere i propri impegni’, cioè di continuare nelle interazioni economiche più proficue con l’estero.
Ma tutto ciò avveniva sotto rigorosissime condizionalità, che hanno ristretto il settore pubblico greco ai minimi termini, e che hanno costretto a privatizzare tutti gli asset maggiormente produttivi, come il sistema aeroportuale e il porto del Pireo, oggi gestiti da compagnie straniere.

Il simpatico effetto collaterale di questa strategia è che oggi anche quando il Pil greco nominalmente cresce (e sui nostri giornali ci spiegano che la Grecia è ‘uscita dal tunnel’), comunque la maggior parte dei ricavi sono immediatamente veicolati su banche estere, ai gestori, contribuendo in maniera irrisoria a un miglioramento delle condizioni di vita dei Greci.

Il modello che abbiamo di fronte non è dunque quello del ‘crollo’, ma quello del saccheggio legalizzato, alla fine del quale resta il simulacro di una nazione, con la sua bandieretta e l’inno, ma di fatto ridotta ad un protettorato economico privo di ogni margine di reale indipendenza.

YES, WE MES

Come notava un amico c’è chi dice che il MES dopo tutto non è che una specie di assicurazione.

Bene così, se si vuol giocare al gioco delle semplificazioni, facciamolo.

Il MES, come emergerebbe nelle formulazione recentemente emendata, sarebbe un po’ come un’assicurazione sulla casa.

Un’assicurazione un po’ speciale, però.

L’assicurazione MES è un’assicurazione assai costosa (14 miliardi già versati, 125 miliardi di possibile versamento futuro).

Beh, però ne varrà la pena, no?

Dunque, vediamo. Se un meteorite mi distrugge la casa, un’assicurazione qualunque mi ripagherà di norma almeno i costi di ricostruzione.

Non l’assicurazione MES, però.
Essa può decidere insindacabilmente se conferirmi il premio dell’assicurazione oppure no.
(La decisione ultima è stata tolta alla Commissione, in modo da non subire pressioni, ed è affidata direttamente ai funzionari del MES, le cui decisioni non devono rispondere a nessuno, neanche legalmente, e non sono messe a conoscenza all’esterno.)

Ma non basta.
Nel caso decidesse di conferirmi il premio, poi, la nostra munifica assicurazione marca MES ci richiede preventivamente e inderogabilmente di vendere la macchina, le scarpe e un rene.
(La precondizione per l’accesso all’aiuto è una ristrutturazione automatica del debito, cioè un default).

Arrivati a questo punto, sono all’addiaccio, a piedi, scalzo e con un catetere. Si potrebbe sperare che finalmente la mia assicurazione mi erogherà l’agognato premio?

Beh, non precisamente.

A questo punto essa – ma proprio perché siamo noi, eh! – ci concederà un magnifico PRESTITO, in piccole comode rate, per ricostruirmi un muro qua e uno là, che poi Dio vede e provvede.
Ma beninteso, un prestito a interessi convenientissimi!

Ecco, ora se qualcuno si sente attratto da una simile compagnia di assicurazioni, lo prego gentilmente di contattarmi in privato.

Avrei giusto da vendergli una splendida fontana storica in piazza di Trevi a Roma.

Un affarone, giuro.

tratto da facebook

PRÌNCIPI E PRINCÌPI, di Pierluigi Fagan

PRÌNCIPI E PRINCÌPI. Le società economiche hanno sede legale lì dove pagano le tasse, questo è il princìpio della loro soggettività giuridica. Così il prìncipe, in senso machiavelliano il “sovrano”, è colui che si fa pagare le tasse, cosa che assieme al monopolio di fatto e di diritto della forza (interna ed esterna), costituisce la base storica delle entità statali. Lo Stato in senso moderno, fu una invenzione progressiva che si affermò per prima in Francia, nel ‘500.

Così i francesi che sulla questione hanno le idee -in teoria- chiare, di recente, prima hanno cominciato a rivendicare il proprio diritto fiscale nei confronti delle compagnie americane del Mondo 2.0 (la dig-info sfera), poi a rumoreggiare intorno a fini e ragioni della NATO.

Così Trump, poco prima dell’inizio del vertice NATO a Londra, ha fatto sapere ai francesi ed a chiunque altro europeo volesse seguirli su queste idee balzane, che i princìpi sono prerogative dei prìncipi ovvero dei sovrani ed in mancanza di forza reale per competere sul punto, il sovrano dell’Occidente sono gli Stati Uniti d’America, quindi lui. “ Se voi suonerete le vostre trombe” dice Trump “noi suoneremo le nostre campane”. Lo scontro del 1494 era appunto su una questione di sovranità su pezzi d’Italia pretesa dal francese ed osteggiata dalla ritornata repubblica fiorentina. Le campane di Trump sono i dazi, fino al 100% di dazi ovvero l’estromissione dal più ricco mercato di acquirenti del mondo. Poi non sono solo i dazi però, come ben si sa ma si fa finta di non ricordare pensando che il sovrano lontano (USA) è meno incombente del sovrano vicino (UE).

Stante la presenza di fondo del problema dell’alleanza militare, il caso d’attualità è sulla “web tax” che i francesi vorrebbero elevare ai big five -Facebook, Amazon, Google, Apple, Netflix- i quali notoriamente non pagano le tasse nei paesi in cui pur operano. Non solo drenano ricchezza aspirando voracemente e riportando il bottino in USA, non solo la loro presenza commerciale monopolista (un solo venditore) e monopsonista (un solo acquirente) distrugge il mercato locale facendo chiudere imprese concorrenti -concorrenti nel Mondo 2.0 dig-info invero poche ma nel Mondo 1.0 del materiale (giornali, librerie, negozi vari, cinema, elettronica e molto altro) sempre di più- ma, seguendo a fondo il princìpio si potrebbe venir a creare la conseguenza che anche la responsabilità legale di queste imprese, verrà rivendicata di territorialità americana. Princìpio forse oggi di apparente non grave peso, ma che invece sempre più l’avrà all’espandersi egemonico del Mondo 2.0. Bioetica ad esempio?

A noi può sembrare che il Mondo 2.0 in cui si svolge questa guerra della sovranità, la prima guerra che è quella fondamentale perché stabilisce della sovranità il princìpio, sia solo una appendice poco rilevante della consistenza generale di un Paese ma già oggi non è propriamente così, ma soprattutto lo sarà sempre meno. Il Mondo 2.0 ha in animo di sostituire una buona parte del Mondo 1.0.

Non abbiamo qui spazio per fare una pur veloce overview dell’economia digitale all’oggi, ma soprattutto nell’immediato domani. Se vi fidate, sappiate che il disegno è quello di portare una grande parte del Mondo come lo conosciamo, nel Mondo 2.0 creato a partire dagli anni ’60 dagli Stati Uniti d’America a partire dalle idee del loro think tank militare RAND Corporation e del braccio operativo della Defense Advanced Research Projects Agency- DARPA del Dipartimento alla Difesa di Washington e da loro dominato con giganti deregolamentati che sono ormai di dimensione e potenza inarrivabile per chiunque volesse sfidarli. Naturalmente tutta questa storia è stata impacchettata con carta sbrilluccicosa di soft power ovvero scienziati che volevano il bene del mondo, giovani scamiciati imprenditori geniali nati in un garage, geek un po’ autistici in missione per conto della Fratellanza Universale. Ma si sa, “dare un pacco” è l’arte di far sembrare fuori una cosa che dentro è poi diversa, vedi Treccani alla voce: cavallo di Troia. “Temo i Greci anche quando portano doni” ammoniva il virgiliano Laocoonte, ma i laocoonti alla fine non contano niente, i donatori di pacchi sanno di psicologia molto più di Freud.

Il Progetto Mondo 2.0 ha piani ambiziosi. Non si tratta solo di informazione e comunicazione che già di per sé sarebbe già una bella potenza (naturalmente invisibile per chi sta ancora alle ferriere, il proletariato, l’acciaio e l’altoforno), ma anche di sanità e biologia, finanza, valute, distribuzione commerciale al servizio privilegiato di produzioni di paesi amici, funzioni amministrative d’impresa, telecomunicazioni, piazze e mercati, standard giuridici del lavoro, redditi, sviluppo ricerca e tecnologia, trasporti e logistica, reti, cultura popolare e non, sistema educativo, fisco e molto altro. Infine il nuovo “oro del Klondike”, i dati su tutto di tutti. L’insieme secondo logica cibernetica ovvero scienza del controllo tramite comunicazione. Ciò che Platone chiamava “kybernetikès techne” ovvero arte del governo (Alcibiade I, Repubblica). Potere alla sua essenza.

Così, non mi rimane che ricordarvi il contestato ed antipatico solito ammonimento. I volenterosi che oggi si pongono giustamente il delicato e complicato problema della sovranità ai tempi del secondo millennio, dovrebbero considerare che il controllo (la sovrantà) è nullo senza la potenza. Vale per la Grande Sorella di Bruxelles e vale per il Grande Fratello di Washington che assieme a zio Xi e cugino Putin saranno l’Addams Family dei prossimi, complicati, decenni. Auguri a tutti noi!

[L’articolo di riferimento alla notizia dell’ammonimento di Trump: https://www.repubblica.it/…/dazi_trump_minaccia_italia_fr…/…

tratto da facebook

Il calvario di Roger Stone; il tramonto della democrazia americana, di Gianfranco Campa

 

 

IL MARTIRIO DI ROGER STONE

 

All’annuncio della condanna di Roger Stone, Meghan McCain, la figlia del defunto guerrafondaio John Mccain, ha dichiarato “Marcisci all’inferno, Roger Stone.” Ana Navarro una commentatrice “repubblicana” della CNN ha rincarato la dose: “Marcisci in prigione e poi all’inferno.” Questi sono solo due esempi di centinaia di tweet e commenti che hanno invaso la sfera mediatica dopo la condanna di Roger Stone. Potrei riempire decine di pagine di queste reazioni volgari e demenziali, esibite da esponenti di entrambe le correnti politiche dominanti; questo solo per rendere l’idea dell’odio riversato su qualsiasi persona o entità che abbia collaborato, nel caso di Roger Stone addirittura creato, la figura politica di Donald Trump. Questo atteggiamento nei riguardi di Roger Stone è il riflesso diretto dell’odio che un numero notevole di persone prova per tutto ciò che viene identificato con Donald Trump; in aggiunta Roger Stone paga il dazio di anni di schermaglie con i poteri forti di Washington.

Il sacrificio di Roger Stone è stato concepito e celebrato sull’altare dello stato ombra e di tutte quelle forze malefiche che hanno sferrato negli ultimi quattro anni attacchi incessanti, violenti, quasi ossessivi contro chi ha sfidato lo “status quo” del potere di Washington. Ne sono rimasti travolti figure come appunto Roger Stone, Paul Manafort, Michael Flynn  e molti altri. In particolare Stone è stato colui che forse ha pagato il prezzo più alto.

I problemi per Roger Stone sono iniziati quando ha cominciato ad essere bandito da ogni piattaforma mediatica, censurando la sua libertà di espressione, negandogli la possibilità di spiegare la propria versione dei fatti di fronte all’opinione pubblica americana. I problemi sono continuati dopo essere stato intercettato dall’FBI, indagato dal procuratore speciale Robert Muller ed arrestato nella sua casa in Florida. Ventinove agenti FBI, armati fino ai denti, fecero irruzione all’alba nella casa di Stone per arrestare un 67enne che non ha mai commesso nessun reato, neanche una multa per un parcheggio e quindi con una fedina penale, fin a quel momento, immacolata. Se vogliamo fare un paragone, neanche per trasportare El Chapo si erano visti dispiegati così tanti agenti federali.

I problemi di Roger Stone  si sono aggravati quando il giudice preposto ha ingiunto al suo di team di avvocati e allo stesso Roger Stone “un gag order” cioè un bavaglio mediatico; in altre parole non potevano parlare o discutere del caso giudiziario, pubblicamente, con nessuno. Un provvedimento giudiziario con qualche precedente, ma nel suo caso portato alla massima esponenza, visto che, sia prima che dopo il processo, l’ingiunzione al silenzio non è stata ancora revocata. Una persecuzione giudiziaria feroce senza precedenti quella contro Stone, riservata solo ai mostri criminali più pericolosi.  Una persecuzione giudiziaria trasformata in una caccia alle streghe, sfociata in un processo e una condanna a cui fra poco (a Febbraio) seguirà una sentenza.

Roger Stone è stato riconosciuto colpevole di tutte le accuse formulate contro di lui; sette capi di accusa tra le quali ostruzione della giustizia, manipolazione di testimoni e ultimo, ma non meno importante, l’accusa di aver mentito al Congresso. Il quasi settantenne Stone per queste condanne rischia fino a cinquant’anni anni di carcere, l’equivalente di un ergastolo per un uomo della sua età; una sentenza di morte in una prigione federale.

Il più fedele alleato del presidente Donald Trump, colui che non l’ho ha mai tradito, che lo ha sempre sostenuto anche quando, nei momenti più difficili della presidenza, altri personaggi hanno, per mancanza di coraggio o per interessi personali, ripudiato pubblicamente e privatamente il presidente. Roger Stone invece ha sempre difeso il Presidente. Solo in rare occasioni, come fu con l’attacco missilistico ordinato da Trump contro la Siria, Stone si permise di criticare Trump, non accusandolo, ma semplicemente facendo una critica costruttiva alla sua decisione  bellicosa, esortando il presidente ad essere più cauto nel dare ascolto agli elementi oltranzisti dello stato ombra che pullano numerosi nella sua amministrazione.

Veniamo al processo svoltosi contro Roger Stone.

Alcuni aspetti interessati da tenere in considerazione:

Primo Il processo si è svolto in una corte del distretto della Colombia, cioè quel pezzo di terra meglio conosciuto come Washington DC. Praticamente Roger Stone è stato giudicato proprio nel ventre della bestia, dello stato ombra, dei poteri amministrativi e dell’establishment politico della capitale americana. Vi ricordo che Hillary Clinton, a Washington, alle presidenziali del 2016, aveva ricevuto il 91% dei voti a favore, mentre solo il 4% era stato appannaggio di Donald Trump; praticamente l’intera Washington è una fogna burocratico-politica. Il processo in una corte di Washington comporta quindi una giuria composta interamente da elettori o simpatizzanti democratici. Un fattore che ha reso la difesa di Roger Stone improba, a prescindere dalla consistenza delle prove presentate.

Secondo Il giudice che ha presieduto il processo si chiama Amy Berman Jackson, un giudice nominato da Obama. La giudice Jackson è recidiva. Jackson era già venuta alla ribalta nazionale quando, nel 2017, aveva archiviato la causa civile contro Hillary Clinton presentata da due delle famiglie che avevano perso i propri cari nell’attacco all’ambasciata americana di Bengasi, in Libia. Le famiglie sostenevano, a ragione, che Hillary Clinton non aveva fatto niente per aiutare i loro familiari durante l’attacco all’ambasciata e poi aveva anche mentito per nascondere le proprie pesanti responsabilità.     .

I procuratori del Russiagate hanno cercato volutamente di far sì che il processo contro Roger Stone si svolgesse presso la corte del giudice Jackson, ben sapendo che la cosiddetta giudice non era certo un modello di imparzialità; nasconde negli armadi una agenda pro-stato ombra, pro-partito democratico. Il giudice Jackson tra l’altro presiede anche il processo contro Paul Manofort. Il caso Manofort è stato trasferito l’anno scorso nel distretto del giudice ammazza trumpiani sotto richiesta del Dipartimento di Giustizia. Si profila quindi per Manofort lo stesso destino di Roger Stone.

Durante il processo a Roger Stone la giuria ha avuto modo di ascoltare una delle accuse principali; la tesi quindi secondo la quale Stone avrebbe cercato di nascondere il suo tentativo, nel 2016, di collaborare con WikiLeaks e con il fondatore Julian Assange per ottenere informazioni sull’allora candidato Hillary Clinton.

Questa peculiare tesi di collaborazione, tra Wikileaks e Roger Stone, collaborazione che Wikileaks e Julian Assange negano, sarebbe per qualcuno la motivazione maggiore del martirio di Stone. Infatti secondo alcune tesi complottistiche, Stone sarebbe odiato dallo stato ombra non solo per essere stato uno dei costruttori, uno degli architetti del fenomeno Trump, ma soprattutto per la sua decennale avversità e ostruzione allo stato ombra, tra cui appunto la collaborazione con una entità, Wikileaks, che è stata e continua ad essere una spina nel fianco dei poteri oscuri di Washington.

Lo scontro Roger Stone-Stato Ombra risale a tempi immemorabili, all’epoca dell’amministrazione Nixon, quando un giovane Stone partecipò alla campagna presidenziale 1972 di Richard Nixon. Prima di Nixon, Stone si era offerto come volontario per la campagna di Barry Goldwater del 1964. Fu con Goldwater prima e Nixon dopo che Stone comprese velocemente le modalità dei giochi che manovrano le stanze del potere di Washington. Soprattutto nel caso delle dimissioni di Nixon per lo scandalo Watergate, Stone all’epoca individuò i meccanismi di Washington rendendosi conto di chi realmente tesseva la rete del potere negli Stati Uniti.

Apriamo un piccolo capitolo su Richard Nixon. Stone ha sempre sostenuto che la corruzione di Nixon era seconda solo alla stato ombra, ma nonostante ciò,  lo scandalo Watergate era stata solo il pretesto, non la reale ragione del suo siluramento. Per Roger Stone, Nixon fu costretto a dimettersi sotto la minaccia di un impeachment (suona familiare?) per essersi opposto allo stato ombra e alla CIA, dopo averla venerata e usata. Il prezzo pagato da Nixon e` stato alto per aver intrapreso attività anti stato ombra come per esempio la distensione con l’Unione Sovietica. “Durante i giorni bui e difficili di Watergate, mentre la frenesia consumava i media e gran parte dell’attenzione pubblica negli Stati Uniti, al presidente Nixon furono inviati messaggi di sostegno da Leonid Brezhnev. Breznev disse al suo ex nemico che sapeva che sarebbe rimasto forte e che non avrebbe ‘ceduto sotto la pressione’. Anatoly Dobrynin, ambasciatore sovietico negli Stati Uniti per oltre venti anni e figura di spicco nelle relazioni USA-Unione Sovietica, ha ricordato che Richard Nixon lo ha ringraziato per il fatto che lui, unico tra i leader di altre nazioni, inclusi gli alleati, aveva trovato semplici parole di conforto per risollevargli il morale” https://www.nixonfoundation.org/2010/07/nixon-and-brezhnev-personal-partners-in-detente/

Secondo Roger Stone, quando Nixon fu eletto al suo secondo mandato come presidente nel 1972, ottenne un grado di indipendenza che lo rese pericoloso per lo stato ombra. Verso la fine del suo primo mandato, Nixon iniziò a progettare l’eliminazione dell’intera leadership della CIA. Sfortunatamente, Nixon non si rese conto che la CIA si era infiltrata nel circolo più ristretto della sua amministrazione e riempiva il suo staff di spie. Lo stato ombra era ben consapevole dei piani di Nixon. Non sono teorie della cospirazione, di complottisti, bensi verità ben suffragate da testimonianze e registrazioni audio.  Nixon e i suoi collaboratori erano pronti, dopo l’elezione al secondo mandato, ad assumere il controllo completo  di un governo federale che ritenevano ostile al presidente e alla sua agenda. “Di fronte a una burocrazia che non controlliamo, non avevamo personale fedele a noi e con il quale non sapevamo come comunicare, abbiamo creato la nostra burocrazia“, scrissero alla Casa Bianca in un promemoria del 1972 trovato nei documenti di HR Haldeman , che in seguito andò in prigione per aver nascosto i crimini di Watergate.

Nixon diede ai suoi aiutanti istruzioni dettagliate, dopo aver vinto le elezioni, su come sbarazzarsi dei burocrati ostili al suo governo. Nixon dettò ai suoi collaboratori le istruzioni per una “pulizia interna” alla CIA. “Voglio uno studio fatto immediatamente su quante persone nella CIA potrebbero essere rimosse tramite ordine  presidenziale. . . . Naturalmente, la riduzione dovrebbe essere giustificata esclusivamente per il fatto che è necessaria per motivi di bilancio, ma entrambi conoscete il vero motivo. . . . Voglio che si abbandoni il reclutamento da una delle qualsiasi scuole Ivy League o di altre università in cui il presidente dell’università o le facoltà universitarie hanno condannato i nostri sforzi per porre fine alla guerra in Vietnam.” (Richard Nixon). Su questo capitolo Nixon-stato ombra ci sarebbe da  scrivere fiumi di inchiostro, ma non abbiamo il tempo a disposizione e francamente neanche la voglia di intraprendere questo lavoro.

Roger Stone si è scontrato con gli apparati del potere di Washington in altre occasioni, per esempio con il suo lavoro investigativo svolto sull’assassinio di JFK che Stone attribuisce ad un complotto CIA-LBJ (Lyndon B.Johnson.)

Stone ha scritto molti libri sulle fasi più oscure e controverse della moderna storia americana, libri di denuncia contro lo stato ombra, i poteri forti di Washington :

-The Man Who Killed Kennedy: The Case Against LBJ

-Nixon’s Secrets: The Rise, Fall and Untold Truth about the President, Watergate, and the Pardon

-Jeb! and the Bush Crime Family

-The Myth of Russian Collusion: The Inside Story of How Donald Trump REALLY Won

Stone è stato anche il principale personaggio, la forza che ha convinto Trump a pubblicare i fascicoli sulla morte di JFK, anche se poi altre forze, opposte, presenti all’interno della amministrazione, convinsero Trump a rendere pubblici i fascicoli con molte omissioni, perpetuando così il silenzio che ormai vige da quasi 60 anni sulle reali ragioni della morte del presidente Kennedy. Il 26 aprile 2017 l’Archivio Nazionale pubblicò 19.045 documenti inerenti all’assassinio di JFK. Tuttavia, ripeto, alcuni documenti non furono divulgati.

Per anni Roger Stone è riuscito a sfuggire all’attenzione dello stato ombra facendo la parte dell’istrione. Per molti anni i mass media e i poteri di Washington hanno posto poca attenzione a quel ”giullare di Stone” e Stone è stato piu che felice di interpretare quella parte. Alla fine però il ruolo centrale di Stone nella costruzione del fenomeno Trump ha rimosso il velo che lo aveva fino ad ora protetto  Per lo stato ombra non era più possibile ignorare il ruolo e il livello di influenza che Stone si era ritagliato nel circolo di Trump. Un conto sono i libri e le idee complottiste che la maggior parte degli americani ignorano, un altro è la raggiunta capacità di essere determinante nell’insediare un presidente alla casa Bianca e persuaderlo a pubblicare gli archivi segreti su JFK, un pericolo mortale per lo stato ombra che non può più permettersi di ignorare. Ci sono molte entità che considerano Roger Stone ancora come un pagliaccio; ma se così fosse le componenti dei poteri forti di Washigton non avrebbero scantenato una offensiva giudiziaria di tale violenza da rendere il potere di Stone inefficace.

Cosa rimarrà dopo la sentenza contro Roger Stone? E una domanda che molti degli amici e familiari di Stone si fanno. E’ inconcepibile per loro veder morire Roger Stone  in galera. Due sono le vie da seguire: la prima, un ricorso giudiziario che verrà presentato al più presto dai suoi avvocati. La seconda, la speranza di un perdono presidenziale da parte di Trump. Quell’ultima non è solo l’opzione più sicura per salvare Stone  ma è anche la più pericolosa per tutti i personaggi coinvolti. La pressione su Trump per graziare Roger Stone è ora enorme. Molti dei sostenitori di Trump chiedono a voce alta il perdono di Stone; ma perdonare Stone in questo momento per Trump significherebbe spostare tutta l’attenzione dello stato ombra sul presidente, rinnovando e dando nuovo impeto a quel moto di odio intenso che certe forze sovversive esprimono nei confronti del fenomeno Trumpiano. Un perdono di Stone ora come ora inasprirebbe una guerra fra stato ombra e Trump già così dura, feroce, mortale; una stalingrado politica “scherzando amaramente disse di aver catturato la cucina ma lottiamo ancora per il soggiorno e la camera da letto

Se fossi in Trump aspetterei i risultati elettorali del 2020. Se Trump dovesse vincere, potrà permettersi il perdono di Stone, in caso contrario perdonare Stone equivarrebbe a  correre un rischio enorme. Una volta decaduto, Trump potrebbe essere messo sotto inchiesta dal prossimo dipartimento di giustizia in mano a un presidente democratico.

Concludo con una aggiornamento sul fronte della guerra Trump-stato ombra. Fra cinque giorni il rapporto dell’ispettore generale Michael Horowitz sarà presentato al senato americano. La  indagine riguarda gli abusi commessi dall’FBI nel servirsi della corte FISA per ottenere mandati di sorveglianza per spiare la campagna di Trump, in particolare l’azione su Carter Page. Si tratta quindi di stabilire se vi sia stato un abuso del processo FISA. Il rapporto di Horowitz non è giuridicamente vincolante, cioè Horowitz non può portare capi di imputazione ma può solo raccomandarli al dipartimento di giustizia. A differenza di molti sostenitori di Trump che sperano in un ribaltamento dei fronti, io sono personalmente pessimista. Il rapporto di Horowitz non conterrà nessuna condanna degli attori chiave del complotto di spionaggio contro Trump e i suoi collaboratori, cioè il cosiddetto spygate. Se condanna sarà; saranno solo piccoli pesci ha pagare il prezzo dei crimini commessi da ben altri personaggi posizionati più in alto.

L’unica speranza per Tump rimangono le indagini tuttora in corso del procuratore speciale John Durham, incaricato dal procuratore generale Bill Barr di far chiarezza sull’origine del Russiagate. Se il procuratore Durham non individuerà i colpevoli di questa farsa, lo stato ombra potrà continuare impunemente  e senza più ostacoli la sua guerra di demolizione della presidenza Trump. Non ci resta che sperare nell’onestà di Bill Barr e di John Durham. Nel frattempo sono passati tre anni dall’inizio di questa guerra e mentre molti collaboratori amici di Trump rischiano la galera a vita i rappresentanti dello stato ombra, colpevoli di crimini ben più gravi, sono tuttora liberi di esprimere le loro opinioni sui canali televisivi americani. In base a questo è chiaro che la querra tra Trump e lo stato ombra è impari e  fino ad ora è stata giocata da Trump in posizione di difesa. Si spera che le cose cambino per Trump nelle prossime settimane, ma il tempo a disposizione per ribaltare la situazione sta scadendo. Novembre 2020 è dietro l’angolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE, di Pierluigi Fagan

DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE. Negli anni ’60, al centro del sistema moderno o capitalistico occidentale e cioè negli Stati Uniti d’America, si mostra un preoccupante e poco noto effetto. La spinta alla crescita mostruosa oltre il 5% annuo per diversi anni di fila, che stava distinguendo la crescita post bellica un po’ in tutto il mondo e che in Europa meritò i concetti di Miracolo economico, Les Trente Glorieuses, Wirtschaftswunder, negli Stati Uniti cominciava a flettere pronunciatamente.

L’abitudine all’analisi qualitativa che produce narrazioni e contro-narrazioni, qualche volta si perde il quantitativo con risultato che, se da una parte si pensa si capire bene le cose, cioè la loro narrazione, dall’altra non si capisce mai perché certe cose avvengono ed in che misura. Quello che avveniva era che gli Stati Uniti, avendo per primi iniziato a crescere poderosamente negli anni ’50, stavano perdendo la spinta, non occasionalmente, strutturalmente. Spinta invece che continuava a sostenere il Resto del Mondo (Europa del’Ovest, dell’Est e dell’Asia, Giappone più di tutti, ma anche altrove). Il Nixon shock del 1971, per chi scrive, proviene da questo.

In quel decennio succedono molte cose interessanti. Sono gli anni in cui si sviluppa la tecnica produttivo-commerciale che poi si chiamerà marketing. Come molte cose del moderno, ahinoi, i primi passi della tecnica ragionata della manipolazione del mercato, sono fatti da un italiano che sviluppa i primi passi delle “ricerche di mercato”. P. Kotler conierà poi il termine e diventerà il fondatore e più illustre rappresentante teorico di questa tecnica. Sono gli anni del consumismo poi ragionati e raccontati criticamente da autori di cui spesso inconsapevolmente continuiamo a ripetere le intuizioni, tipo Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, ancora dopo cinquanta e passa anni.

Della tecnica fa parte la strategia “push and pull”. Se “push” è un insieme di tecniche per spingere i prodotti verso gli acquirenti ed intermediari, “pull” è l’insieme di tecniche utilizzate per attirarli. Tra queste tecniche c’è la conoscenza da parte delle aziende del proprio gruppo d’acquisto ideale detto target, termine mutuato come gran parte del vocabolario dei marketer, da quello militare (Marketing è guerra, Al Ries, JackTrout, testo anni ’80 McGraw-Hill). Se la mano invisibile mostrava pigrizia, c’era da dargli una mano visibile che spingesse concretamente, un aiutino insomma.

Negli anni ’60 in USA, si sviluppa una tecnica di analisi dei target che non è più quella tradizionale statistica su variabili socio-demografiche classiche (sesso, età, reddito), ma su variabili comportamentali. Si scopre cioè che i comportamenti d’acquisto originano dalla psiche che è certo correlata al sesso, età e reddito ma non così precisamente come si potrebbe pensare. Si scopre cioè che la “piramide dei bisogni” teorizzata negli anni ’50 dalla psicologo americano A. Maslow, ha sede e profonda origine in una psiche che ha proprie regole decorrelate in parte da quelle oggettive della condizione sociale. In accordo ai principi guida della psicologia americana a quel tempo dominante che è il behaviorismo (il comportamentismo), si decide di ignorare l’analisi del cosa succede davvero in quella psiche. Si sigilla il sistema e lo si definisce “scatola nera” ovvero sistema di causa che però non si analizza dentro, solo fuori. Se la psiche origina il comportamento, si osserverà direttamente il comportamento e per tentativi ed errori come negli esperimenti coi topi o cani del russo Pavlov, si cercherà di capire a quali imput corrispondono certi output (stimolo-risposta-rinforzo). Se si comprendono questi meccanismi si potrà condizionare il comportamento. Il corrispettivo nelle ricerche di mercato che anticipano ogni strategia di marketing, diventerà un nuovo tipo di analisi che si chiamerà “psicografica”. Siamo sempre negli anni’60.

Mentre i teorici dell’economia ovvero gli economisti ripetono il mantra dell’homo oeconomicus che è un calcolatore razionale delle sue utilità a presupposto della loro scolastica matematizzata, i pratici dell’economia cinquanta anni fa, si occupavano invece di psiche e comportamento reale. Il mondo dei bisogni su cui si basa mercato ed economia, per gran parte non è razionale. Un economista teorico si sveglierà cinquanta anni dopo e ci scriverà su un libro che gli varrà nel 2017 quel premio della Banca di Svezia che gli economisti chiamano Nobel (tale R.Thaler). Da quella svolta degli anni ’60, conseguirono marketing, pubblicità, società dei consumi, dei segni, innovazione, rivoluzioni economiche, tecnologie, neuromarketing e molto altro tra cui tutto il nostro Mondo 2.0 ovvero quello on line.

Come spesso racconto, io ho per venticinque anni fatto parte di quel mondo e non a livelli secondari. Quando ho cambiato vita e sono diventato uno studioso, balzellando tra meccanica quantistica e filosofia hardcore, quando ho cominciato a studiare i sacri testi degli economisti, per molti di loro sopratutto del Novecento (a parte Keynes) a lungo ho fatto fatica a capire di cosa stessero parlando per questo motivo. La rappresentazione del mercato come universo liscio con traiettorie perfettamente razionali che disegnano curve e linee geometriche posso dire sia una del tutto infondata astrazione non per piglio critico intellettuale, ma proprio perché so di certo che nulla ha a che fare con il fenomeno che si vorrebbe descrivere. Le narrazioni non corrispondono mai precisamente alle cose ma molte non hanno proprio nulla a che fare assolvono altri compiti.

La svolta psichica del capitalismo origina da più di cinquanta anni fa e le conseguenze giungono oggi a Cambridge Analytica, il totalitarismo dei Big Data, i Facebook-Amazon-Google-Apple-Netflix (FAGAN), la colonizzazione dell’immaginario, il “Capitalismo di sorveglianza” (Zuboff), “L’Internet ci rende stupidi” (N. Carr), la psicopolitica (P. Sloterdijk – Byung-chul Han), l’utilizzo di queste tecniche (nel frattempo, nel mondo della psicologia teorica americana il behaviorismo si è trasformato in un 2.0 detto “cognitivismo” ed è proceduto parallelo allo sviluppo delle scienze neuro-cognitive che oggi sfociano nel grande sviluppo dei programmi di ricerca detti A.I. Artificial Intelligence) non più o non solo per il dominio produttivo-commerciale ma ora anche direttamente sociale e politico.

Il discorso sarebbe lungo e complesso ma qui lo spazio c’impone la chiusura. Chiudiamo quindi osservando due cose:

1) La svolta psichica del capitalismo origina dal momento in cui l’economia americana non funzionava più in modo diciamo “naturale” o “semi-spontaneo”, occorreva collegare la stanca mano invisibile ad una vivace mente invisibile stimolata la quale sarebbero conseguiti comportamenti, prima economici, quindi sociali, infine politici. Da allora, è per lo più “economia del criceto”.

2) L’area critica del moderno e del capitalismo, origina da un pensatore di metà XIX secolo che ha detto molte cose giuste ed interessanti ma coloro che ancora usano quelle strumentazione analitica come integrale tendono a considerare le relazioni tra “struttura e sovrastruttura” in modo uni-diretto, del tutto simile al mainstream liberale che domina la disciplina economica (del resto sono in unità di tempo -metà XIX secolo- e luogo -Londra-) e che non ha alcuna attinenza con quello che è il nostro mondo moderno che intanto chiamiamo post-moderno già da diversi decenni. Ne consegue lo spiazzo di ogni teoria politica alternativa poiché i presupposti antropologico-sociali sono parziali se non infondati. Per costoro immagine di mondo, cultura, psiche e comportamento, valori, motivazione all’azione, sono conseguenze di presupposti ficcati da qualche parte in una scatola nera mossa solo dalla condizione sociale. Toccherebbe invece aprirla quella scatola e provare ad illuminarla se si vuole dare una bacchettata a chi ci sta da tempo mettendo le mani dentro. Oppure scriviamo l’ennesimo saggio corrucciato sul neoliberismo impazzito ed attrezziamoci per un lungo inverno di servitù volontaria.

patologie degli ..ismi, di Andrea Zhok

Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di “sovranismo psichico” ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online.

Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario.

Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale.
Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica.

Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’.

Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale.

Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data:
“Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale.”

La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti la “difesa identitaria del proprio spazio vitale” è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.

Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso.

Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ “atteggiamento mentale” una forma di delirio, di allucinazione malata.

Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti.
La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale.
La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità.

Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti.
Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.

E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2553993544693768&set=p.2553993544693768&type=3&theater

replica:

Treccani Buongiorno Thomas, innanzitutto ci teniamo a specificare che non tutti i fenomeni psichici sono fenomeni patologici (basti pensare ai sogni), quindi nell’espressione “sovranismo psichico” non ci sembra contenuta alcuna medicalizzazione del dissenso. Ma il punto più importante, quello che ci riguarda direttamente (perché l’espressione non l’abbiamo inventata noi, né la registrazione da parte nostra indica supporto a chi la utilizza), è un altro: nella schermata che riporti purtroppo non è possibile leggere l’intestazione, dalla quale sarebbe chiaramente leggibile la sezione del sito da cui è tratta, quella dei Neologismi.
Come ricorderanno in tanti, “Sovranismo psichico” era un’espressione contenuta in un rapporto Censis del dicembre 2018, che tanto rapidamente quanto brevemente si era diffusa nell’uso giornalistico. Parte del nostro lavoro è quello di tenere aperto un osservatorio sulla lingua italiana e sulla sua evoluzione, anche in quanto erratica e segnata da “mode”, come tutti i fenomeni umani.
Per intenderci, “sovranismo psichico” non è una voce enciclopedica né è un lemma entrato nel Vocabolario della lingua italiana. Citare come esempi d’uso il «Manifesto» o «Repubblica» non significa glorificarli, ma rilevare che hanno utilizzato il neologismo nell’accezione indicata dalla definizione.
Perché conservare in rete un’espressione che forse ha già esaurito la sua spinta? Intanto per agevolare chi la lingua la studia; e poi perché, a distanza di quasi un anno dall’introduzione di “sovranismo psichico” nel rapporto Censis, qualcuno potrebbe ancora utilizzarla e un lettore potrebbe domandarsi cosa significhi; troverebbe così una spiegazione sul nostro sito, senza dover rileggere tutti gli articoli dell’epoca.

Speriamo di aver chiarito l’equivoco e restiamo a disposizione per ulteriori chiarimenti.

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica 3a parte, di Giuseppe Gagliano

Le armi della guerra economica
La presente sezione sarà dedicata all’analisi dettagliata delle armi utilizzate
dagli Stati nella guerra economica per vincerla e affermare la loro potenza. Le
prime che prenderemo in considerazione sono le armi di tipo indiretto, che
agiscono nelle retrovie e contribuiscono a plasmare il dispositivo di una “guerra
coperta”.
All’interno di questo insieme molto particolare di strumenti di guerra
economica, quello che più agisce a monte di tutti è sicuramente la formazione, che
contraddistingue soprattutto i Paesi sviluppati e ha contribuito in larga misura ai
loro successi economici. Basti pensare, a questo proposito, all’importanza data
dall’Unione Europea a questo fattore, tanto che due degli otto obiettivi della
strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva
riguardano proprio l’istruzione (riduzione dei tassi di abbandono scolastico
precoce al di sotto del 10% e aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione
universitaria). Andando poi a verificare la correlazione di formazione e sviluppo
economico, esempi di Paesi come la Germania, il cui sistema di istruzione e
formazione è riconosciuto come uno dei migliori al mondo, o il Giappone, dove il
tasso di conclusione degli studi secondari si aggira intorno al 95%, confermano
quanto finora affermato, soprattutto se si considera le modalità con cui questi due
Paesi sono presenti sui mercati internazionali. Naturalmente qui non si tratta solo
della formazione di base, per quanto questa sia importante nel porre le basi e dare
l’impronta di un certo modo di progredire anche in ambito economico, ma ci si
riferisce in maniera particolare alla formazione continua, che dà a coloro che la
ricevono le necessarie doti di flessibilità e polivalenza che permettono di essere
costantemente aggiornati e mai impreparati ai cambiamenti. A questo proposito,
un altro buon esempio sono le scuole di commercio francesi, delle quali le più
prestigiose si classificano ai primi posti in ambito europeo e il cui successo si deve
in gran parte a un modello nazionale che prevede una formazione biennale di base
ad alto contenuto generalista, quindi non solo scientifico ma anche umanistico,
propedeutico alla successiva specializzazione. Una caratteristica peculiare delle
élite che si formano in questo tipo di scuole moderne è la loro propensione
internazionale, aspetto ben distinto dal carattere marcatamente sciovinista della
preparazione militare dei secoli passati di cui tali scuole, se si segue il filo
conduttore della guerra economica come versione attuale degli antichi scontri
bellici, dovrebbero essere la naturale continuazione.
A complemento del discorso sulla formazione iniziale, è necessario parlare
del ruolo svolto dalla formazione specialistica e dalla ricerca, cruciali ai fini
dell’affermazione della potenza economica. Non è un caso, lo ribadiamo, che
l’Unione Europea abbia affermato fin dall’inizio del millennio di voler diventare la
prima “economia della conoscenza” e che, ad esempio, la sola Francia conti
160.000 ricercatori, un numero più che raddoppiato nel giro di settant’anni. Il
sapere è infatti diventato l’arma suprema della guerra economica e il potenziale
della ricerca risulta essere il motore delle trasformazioni del nostro tempo. È per
questo che Paesi emergenti come la Cina e l’India, che hanno compreso
perfettamente quale sfida cruciale si giochi intorno alla produzione di sapere, sia
esso di base o applicato, non rimangono indietro in questa sorta di “corsa alla
conoscenza”: se da Pechino arrivano forti e chiare le dichiarazioni di uomini di
punta come il Primo Ministro Wen Jiabao, che nel 2005 si spingeva a proclamare il
XXI come “il secolo asiatico delle alte tecnologie”; nel subcontinente indiano ogni
anno prestigiosi istituti tecnologici costruiti negli anni Sessanta sul modello del
MIT sfornano un esercito di 170.000 diplomati. Nell’ambito della ricerca è poi
fondamentale la cooperazione fra università, scuole e settore privato, il quale si
aspetta precisi e puntuali ritorni dal lavoro dei ricercatori; cooperazione che al
giorno d’oggi si presenta sotto forma di “cluster” o “poli di competitività”, spazi
dove convivono luoghi di ricerca, scuole d’ingegneria e imprese di alta tecnologia e
che sono incubatori di una potenza economica straordinariamente innovativa e
all’avanguardia. A questo proposito, lo Stato francese si è fatto promotore, dal
2005, di questo tipo di realtà che rappresentano un elemento fortemente attrattivo
per il territorio in cui sono insediati, realizzando attività di alta formazione
assolutamente all’avanguardia. Ad ogni modo, si registrano ancora divari enormi
nelle politiche effettive in favore della ricerca attuate dai diversi Paesi, anche
all’interno del gruppo delle nazioni leader: è quasi scontato, purtroppo, riferire a
questo proposito il caso dell’Italia dove, pur riconoscendo a parole l’importanza
capitale di una ricerca solida, anche finanziata dal settore privato, per poter dotare
le imprese di tecnologie a elevate prestazioni e consentire loro, di conseguenza, di
essere concorrenziali sui mercati internazionali, il numero di ricercatori impiegati
nelle aziende è cinque volte inferiore a quello di Stati Uniti, Giappone e Svezia. Per
non parlare poi della fuga di cervelli, che decidono di lasciare l’Italia per trovare
migliori opportunità di lavoro e stipendi più alti oltreché la valorizzazione di
merito e competenze a scapito di raccomandazioni, burocrazia e scarso turnover.
Per ogni “cervello che fugge”, però, c’è senz’altro un Paese pronto e ben felice di
accoglierlo e ve ne sono alcuni che fanno dell’attrazione del personale altamente
qualificato e specializzato una vera e propria arma di guerra economica: è il caso
degli Stati Uniti, che a più riprese nel corso del XX secolo sono stati un porto
d’approdo delle menti migliori dei quattro angoli del globo, a cominciare dalle élite
ebraiche in fuga dall’Europa nazifascista, proseguendo con le decine di fisici e
matematici ex sovietici arrivati negli anni Novanta e, infine, arrivando fino ai giorni
nostri, in cui le università statunitensi sono popolate di ingegneri ed economisti
indiani e cinesi. Se si considera il fatto che tre quarti di loro si stabiliscono
definitivamente negli Stati Uniti una volta terminati i loro studi, si può dedurre
facilmente il vantaggio che ne deriva per l’economia americana.
Direttamente collegata con la ricerca è l’innovazione, motore propulsivo di
fondamentale importanza per le imprese e su cui lo Stato ha tutto l’interesse di
investire. L’esempio dei brevetti mostra quanto la collaborazione fra questi due
attori possa rivelarsi fruttuosa. La classifica mondiale delle potenze in termini di
deposito di brevetti certifica il primato cinese, il cui ufficio brevetti dal 2013 è
ormai il primo al mondo con un quarto del totale delle richieste, seguito a ruota
dagli Stati Uniti, mentre il ruolo dell’Europa perde progressivamente di rilevanza a
discapito di una massiccia presenza asiatica, dato che le altre prime posizioni sono
occupate da Giappone, Corea e India. La maggior parte dei brevetti depositati in
tutto il mondo è a opera di imprese del settore privato (Matsushita, Philips,
Siemens, Huawei, Bosch, Toyota, Microsoft, solo per citarne alcune) che però senza
l’azione dello Stato – soprattutto in epoche passate (ci riferiamo qui al ruolo
decisivo in termini di ricerca e sviluppo dei comandi militari americani, o del MITI
giapponese) – non avrebbero mai potuto raggiungere i risultati odierni. È pur
sempre opera dello Stato perfino la predisposizione di un ambiente normativo
favorevole e sufficientemente tutelato in questo settore, per cui la ricerca dei
brevetti può essere considerata a tutti gli effetti un affare nazionale, una garanzia
di produttività, insomma: un’arma decisiva per gli scontri commerciali fra nazioni.
Passando dall’ampio campo della gestione della conoscenza nelle sue
diverse forme quale strumento di guerra economica a quello della competitività,
possiamo affermare che su questo terreno lo Stato può giocare a pieno tutte le sue
carte. È nel suo massimo interesse, d’altronde, far sì che le sue imprese siano
dotate il più possibile della capacità di affrontare la concorrenza sui mercati
esterni e interni. In un momento storico come quello che si sta attraversando, in
cui i travolgimenti nell’ambito delle posizioni di potenza sono di notevole portata,
vediamo come a fronte dell’avanzamento imponente di alcuni Stati sui mercati
internazionali (negli scambi a livello globale, la percentuale cinese è passata dal
2% al 9% nel giro di poco più di vent’anni) altri, storicamente ben piazzati,
indietreggiano (è il caso della Francia, che nello stesso arco di tempo è passata dal
6% a circa il 4%), mentre altri ancora mantengono le proprie posizioni (la
Germania è esempio di notevole continuità, dal momento che mantiene saldamente
il primo posto con una quota che si aggira intorno al 10%). Il ruolo dello Stato è qui
quello di coordinatore, di fornitore di strumenti di lettura, comprensione e
interpretazione del terreno degli scambi internazionali, possibile grazie alle
conoscenze nei più disparati ambiti che almeno una parte dei suoi funzionari
dovrebbe avere degli altri Stati. Prendendo l’esempio della Francia, questo ruolo
viene svolto in gran parte dal Segretariato di Stato per il Commercio estero,
impegnato in questi anni di crisi economica soprattutto a contenere l’erosione
della quota francese sui mercati mondiali la quale, seppur imputabile a
cambiamenti per lo più inevitabili e che coinvolgono tutti i grandi Paesi occidentali,
resta tuttavia preoccupante per la bilancia economica nazionale. A questo scopo, è
stata recentemente riformata l’Agenzia nazionale di promozione dell’esportazione,
Ubifrance, incaricata di promuovere le esportazioni grazie all’apporto delle proprie
competenze ed expertise nei confronti delle imprese francesi. In Italia, l’organismo
con funzioni praticamente sovrapponibili a quelle di Ubifrance è l’Agenzia ICE, che
ha il compito di agevolare, sviluppare e promuovere i rapporti economici e
commerciali italiani con l’estero, in particolare delle piccole e medie imprese, e che
opera per incentivare l’internazionalizzazione delle imprese italiane nonché la
commercializzazione dei beni e servizi nazionali sui mercati internazionali. Anche
il ruolo attivo dello Stato nella negoziazione di grossi contratti di produzione
rientra nella più generale promozione della competitività e concretizza quella
cooperazione con le imprese spesso invocata ma sempre di difficile attuazione: il
partenariato fra gli Stati Uniti e le imprese di armamenti e del settore
dell’aeronautica è un buon esempio di questo aspetto.
La competitività è un indice applicabile alle imprese; l’attrattività invece è
una caratteristica propria dei territori: attirare investimenti esteri diretti significa
produrre occupazione nazionale e beneficiare di un ritorno fiscale. Politica fiscale,
gestione del territorio e cultura ne sono le componenti. Per quanto riguarda la
politica fiscale, abbiamo già visto in precedenza come questo sia un nodo dolente
dell’attrattività italiana, anche se altri Stati europei, in particolare il Belgio e la
Francia, hanno tassi d’imposta sulle società non molto distanti. Al contrario, il caso
dell’Irlanda è esemplificativo del fatto che una politica fiscale “leggera” nei
confronti delle imprese funge fortemente da incentivo agli investimenti diretti
esteri: con una tassazione che si aggira intorno al 15%, peraltro fortemente
osteggiata dall’UE, la “tigre celtica” è riuscita così ad attirare soprattutto imprese
straniere nel settore delle alte tecnologie e informatico (da Adobe a eBay, passando
per Yahoo!), sostenendo in gran parte la propria crescita economica. La Cina
invece, in questo ambito, ha sviluppato una politica di istituzione di aree
economiche speciali nelle province di Guangdong, Fujian e Hainan e di sviluppo di
regimi fiscali particolarmente attraenti da applicare proprio in queste aree alle
imprese straniere che scelgono di insediarvisi. Per quanto riguarda la gestione del
territorio, si intende qui il livello di sviluppo delle infrastrutture necessarie alle
imprese per rifornirsi di materie prime, per portare ai quattro angoli del mondo i
risultati della produzione e per comunicare fra di loro: collegamenti aerei, ferrovie
ad alta velocità, strade e porti, connessioni internet ad alta velocità e copertura per
la telefonia mobile, che ha ormai quasi ovunque soppiantato la rete di telefonia
fissa e in intere parti del mondo, ad esempio nell’Africa subsahariana, dove ne
rende addirittura inutile l’estensione. Per quanto riguarda, infine, la cultura, si
tratta dell’elemento più impalpabile ma non per questo meno sfruttabile del soft
power, come lo definisce Joseph Nye. A differenza di molti altri elementi analizzati,
questo è indubbiamente una caratteristica che l’Italia possiede pienamente e da cui
può trarre profitto, come ripetutamente si è prodigato a ripetere e promuovere il
suo attuale Primo Ministro e come ha saputo dimostrare in occasione di Expo
2015, dove l’“Italian way of life” fondato su un benessere alleato del gusto e della
bellezza non ha mancato di attrarre una vasta platea di potenziali investitori.
L’ultima arma strategica che prendiamo in considerazione qui, nell’ambito
della guerra coperta, è l’intelligence economica, che l’Alto Responsabile presso il
Segretariato Generale della Difesa francese Alain Juillet definisce come una
modalità di governance focalizzata sul controllo dell’informazione strategica e che
mira alla competitività e la sicurezza sia dell’economia che delle imprese. Altri due
grandi esperti di guerra economica, Christian Harbulot ed Éric Delbecque, hanno
proposto le loro definizioni di intelligence economica. Il primo l’ha definita come la
costante ricerca e interpretazione delle informazioni accessibili a tutti, con
l’intento di decifrare le intenzioni degli attori e intuire le capacità. Il secondo
invece l’ha individuata nella cultura di lotta economica, ossia nella competenza –
intesa come l’insieme di metodi e di strumenti di sorveglianza, di sicurezza e di
influenza–enella politica pubblica, che mira ad accrescere la potenza tramite
l’elaborazione e l’attuazione di strategie geo-economiche, oltre che tramite azioni
in favore del controllo collettivo dell’informazione strategica. L’intelligence viene
qui naturalmente intesa nella sua accezione originaria di derivazione
anglosassone, ossia come raccolta di informazioni per sapersi muovere meglio sul
terreno, qualunque esso sia, e non tanto negli aspetti esacerbati dello spionaggio e
degli agenti segreti tipici dell’epoca della Guerra Fredda, in cui ciò che si
privilegiava era una cultura dell’informazione ad appannaggio di pochi, oscuri
esperti e incurante dell’illegalità dei mezzi utilizzati (trasferimenti di tecnologia,
furti di materiale informatico, licenziamenti di quadri strategici, ecc.). Analizzando
più nel dettaglio in cosa consista l’intelligence economica, ossia le applicazioni
concrete di quella che a volte viene definita impropriamente “guerra
dell’informazione”, possiamo distinguere tre campi d’azione: la veglia, la
protezione dell’informazione e la realizzazione di lobby. La prima, in particolare, si
concretizza nella sorveglianza dell’ambiente economico di riferimento in modo da
individuare con una certa prontezza eventuali minacce da cui difendersi o
occasioni da cogliere; si divide nelle sette tipologie di veglia concorrenziale,
commerciale, tecnologica, geografica, geopolitica, legislativa e societaria. Tutto ciò
a favore di una crescita di influenza, e quindi di potenza, di quegli Stati in grado di
mettere in campo un tale dispositivo. Il punto di vista che qui si propone, infatti,
privilegia la capacità dello Stato di usare quest’arma strategica, piuttosto che
quella delle singole imprese che la usano allo scopo di ampliare il proprio giro
d’affari e di aumentare i profitti. Contemporaneamente strumento offensivo e
difensivo, come quando viene usato per prevedere un’alleanza fra concorrenti o
praticare la disinformazione, l’intelligence economica è il fiore all’occhiello delle
politiche di guerra economica, vista l’importanza assunta dall’informazione nelle
economie moderne. È su questo terreno, peraltro, che si rende maggiormente
necessaria una stretta collaborazione fra Stato e imprese, sul modello sviluppato in
Giappone nell’immediato dopoguerra, quando la fondazione della Japan External
Trade Organization si affiancò al lavoro del già citato MITI. L’intensificazione dei
legami commerciali con gli altri Stati veniva perciò supportata dagli ampi poteri
assegnati a quest’ultimo, in una realtà non solo economica ma anche culturale dove
la partecipazione allo sforzo di rendere grande la propria nazione attraverso i
primati in termini di innovazione tecnologica e proiezione commerciale è un
dovere morale di ogni singolo cittadino. Non a caso, dell’intero budget nazionale
destinato a ricerca e sviluppo, una cifra compresa fra il 10 e il 15% viene destinata
in Giappone all’informazione scientifica e tecnica. Qualcosa di analogo avviene
anche negli Stati Uniti, anche se ancora formalmente mascherato da un discorso
ufficiale di competizione leale. L’amministrazione americana ha infatti messo in
piedi un servizio di “contro-intelligence”, derivato da un ampliamento delle
prerogative della CIA che in questo modo svolge un ruolo attivo nello spionaggio
industriale, per fornire alle proprie imprese informazioni segrete relative ai loro
concorrenti stranieri.
Dopo aver analizzato ampiamente le armi utilizzate nella guerra economica
coperta (formazione dei quadri dirigenziali, politiche di competitività e di
attrattività, dispositivi di intelligence economica), conviene ora passare in rassegna
le diverse armi offensive a disposizione degli Stati.
Nel corso del presente contributo si sono già citate le sanzioni quale forma
di guerra economica condotta con finalità politico-strategiche. Una modalità che
risulta ancora più soffocante per l’avversario è quella del boicottaggio, quando non
del blocco alle vendite: ne sono esempi l’arma alimentare usata dal presidente
Carter nel 1979 per bloccare le vendite di cereali all’URSS in occasione
dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, l’attuale minaccia di
chiusura dei rubinetti del gas da parte della Russia nei confronti dell’Europa, o
ancora il boicottaggio a danno dei prodotti francesi in Cina nel 2008 causato dal
sostegno dato da Parigi al Tibet, questione peraltro scoppiata alla vigilia dei giochi
olimpici di Pechino anche in molti altri Paesi occidentali in seguito alla repressione
cinese della ribellione dei monaci tibetani. Un’altra misura che potrebbe essere
interpretata come ritorsione è il contingentamento delle importazioni: vietato
nell’Unione Europea, è invece ampiamente usato dagli Stati Uniti nei settori più
disparati, che vanno dal formaggio alle automobili, misura quest’ultima volta a
tutelare le grandi società produttrici americane a detrimento dei prodotti
giapponesi, con Tokyo che ha preferito negoziare in questo senso piuttosto che
correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli. Vi sono poi
i picchi tariffari, ovvero dazi doganali superiori al 100%, spesso applicati sui
prodotti agricoli provenienti da determinati Paesi (si vedano ad esempio le
condizioni di adesione all’OMC imposte all’Afghanistan nel 2014, alla fine dei
negoziati).
A queste armi dirette si affiancano, come si vede ora, altrettante armi
offensive indirette della guerra economica aperta. Innanzitutto la cosiddetta
“diplomazia degli affari” che, pur essendo una pratica dalla lunga tradizione, è stata
perfezionata dall’amministrazione Clinton: essa consiste in una sorta di assalto
massiccio delle imprese sui mercati esteri, supportata da un’attenta preparazione
del terreno (liberalizzazione degli scambi con il Paese interessato), da
un’approfondita conoscenza del campo dello scontro (informazione industriale e
commerciale) e da una sapiente regia statale (nel caso degli Stati Uniti degli anni
Novanta, l’Advocacy Center informalmente chiamato “War room”, incaricato di
sorvegliare costantemente i mercati industriali mondiali). Se si affronta più nel
dettaglio il primo di questi elementi, la liberalizzazione degli scambi, vediamo
come e quanto sia stato usato soprattutto dagli Stati Uniti come una vera e propria
arma. I trattati di libero scambio da essi conclusi, infatti, hanno sempre rivelato la
loro potenza offensiva in quanto strumenti di relazione diseguale tra uno Stato
forte, da un lato, e uno Stato debole, dall’altro, asimmetria che ha sempre
penalizzato quest’ultima controparte, naturalmente. È il caso, ad esempio, delle
relazioni commerciali mantenute con gli Stati dell’America centrale (la cui quasi
totalità dei Paesi ha concluso simili accordi con Washington): nient’altro che
un’evoluzione post-Guerra Fredda dell’idea di manifest destiny, della dottrina
Monroe e del corollario Roosvelt. Questi accordi sono spesso molto più
intransigenti degli standard dell’OMC ai quali tutti appartengono: la supremazia
statunitense si afferma gioco forza per l’importanza rivestita nella bilancia
commerciale di questi Stati, di cui sono il primo partner commerciale, e permette
di imporre unilateralmente norme sbilanciate in loro favore, ad esempio sui
brevetti (allungamento della durata di protezione dei brevetti, oppure
allargamento delle condizioni di brevettabilità, che permettono di porre dei
brevetti su prodotti già commercializzati) e, di conseguenza, di conservare la
leadership. Gli Stati Uniti, dunque, non schiacciano il loro avversario economico
con la forza, ma si accontentano in qualche modo di definire regole del gioco
favorevoli ai propri interessi.
L’ultima evoluzione in termini di armi offensive nella guerra economica
sono i fondi sovrani che hanno fatto la loro irruzione sullo scenario finanziario
mondiale negli ultimi vent’anni e che, per la portata del loro impatto sull’economia
internazionale, ci si potrebbe arrischiare a paragonare a vere e proprie armi di
distruzione di massa. Si tratta di fondi d’investimento internazionale del risparmio
nazionale che, essendo difficilmente depositabile nei circuiti bancari classici per
l’eccezionalità del loro importo (le stime indicano una cifra di più di 16.000
miliardi di dollari solo per i Paesi dell’Asia orientale), viene direttamente
controllato dagli Stati o dalle banche centrali. Sono stati pensati in origine come
strumenti finanziari destinati a valorizzare un capitale rilevante dello Stato e
destinato alle generazioni future (è questo il caso del fondo sovrano norvegese). La
maggior parte di questi fondi è stata costituita da Stati esportatori di petrolio, da
un lato, e da Paesi dell’Asia orientale la cui bilancia corrente registra saldi
dell’ordine del 6,5% del PIL, dall’altro, per investire le loro ingenti eccedenze
commerciali e si sono configurati come potente mezzo di intervento negli equilibri
economici mondiali soprattutto in seguito alla crisi dei subprime, quando un certo
numero di essi è entrato nel capitale di gruppi prestigiosi (Citigroup, Merrill Lynch,
Morgan Stanley) allo scopo di salvarli con iniezioni di liquidità. Esemplificativo è il
caso di Citigroup: primo gruppo finanziario mondiale fino al 2007, di fronte ai
problemi di liquidità derivati dalle speculazioni dei subprime ha fatto appello a
diversi fondi fra cui quelli di Singapore, del Kuwait e di Abu Dhabi. Il salvataggio c’è
effettivamente stato, ma a condizioni dettate naturalmente dai nuovi investitori:
garanzia di rendimenti elevati delle azioni (dal 9 all’11% annuo), prezzi minimi
garantiti anche in caso di crollo dei valori e decisioni prese non più nella sede della
casa madre negli Stati Uniti, bensì nel palazzo di uno degli emiri proprietari del
fondo sovrano, elemento territoriale puramente simbolico ma molto eloquente di
qual è lo Stato che ora ne detiene il controllo. Risulta quindi evidente come un tale
massiccio intervento non sia affatto neutro e che, di conseguenza, sia a tutti gli
effetti una forma di controllo da parte degli Stati di cui tali fondi sono emanazione.
Il sospetto è che, anche grazie a politiche e gestioni non esattamente trasparenti,
essi servano interessi politici e geopolitici dei Paesi emergenti e vengano perciò
percepiti come una minaccia economica importante dai Paesi occidentali. Basti
pensare che il fondo di Abu Dhabi da solo avrebbe potuto acquisire, prima della
crisi, le prime nove imprese quotate nel più importante indice della piazza parigina
e che la China Investment Company, fondata nel 2007, si posiziona già al 6° posto
mondiale per quantità di capitale. La miglior prova del fatto che sono percepiti
come una minaccia è la recente adozione di misure destinate a ostacolarne la
capacità di acquisizione. Questo dispositivo ha una certa tradizione negli Stati
Uniti, dove il Committee on Foreign Investments può consigliare al Presidente di
rifiutare un investimento straniero che minaccerebbe un’impresa americana
giudicata strategica.
Accanto alle armi, vi sono i dispositivi di protezione e di difesa.
Naturalmente, attacco e difesa sono strumenti che concorrono insieme a definire
una stessa strategia e perciò il loro uso ha pari importanza all’interno della guerra
economica. Libero scambio sì, dunque, ma a patto di poter adeguatamente tutelare
il tessuto industriale interno e le ricadute che la sua tenuta ha in ambito politico e
sociale; se dunque le varie teorie elaborate dagli specialisti non soddisfano questo
principio pragmatico, gli Stati non si fanno alcuna remora a ignorarle e ad agire nel
senso protettivo appena indicato. È il motivo per cui non bisognerà meravigliarsi
che certi mezzi di difesa presentati qui siano già stati annoverati nella categoria
delle armi appena presentate: gli stessi strumenti della guerra economica possono
rivelarsi contemporaneamente armi potenti e scudi resistenti in funzione del
contesto. I dispositivi di protezione e di difesa che vedremo sono: la moneta,
l’unfairtrade, le barriere doganali e tariffarie, le quote d’importazione, le
sovvenzioni alle esportazioni, il patriottismo economico sotto forma di consumo
patriottico e il soft power normativo.
Per quanto riguarda la moneta, la svalutazione è un potente mezzo di
stimolo alle esportazioni in periodo di recessione, come hanno dimostrato le azioni
della Bank of England fra il 2008 e il 2009 in favore della sterlina nei confronti
dell’euro e la svalutazione di yen e yuan. La moneta svolge così il doppio ruolo di
strumento difensivo, poiché diminuisce la competitività dell’avversario, e di arma,
in quanto consente una più facile penetrazione dei mercati esteri.
La questione dell’unfairtrade si richiama a una legge statunitense del 1962,
la cosiddetta “301”, che aveva lo scopo di sanzionare Stati e imprese appartenenti
al proprio blocco che si rendessero colpevoli di comportamento sleale ovvero,
concretamente, commerciassero con l’URSS o con Cuba, e autorizzava il Presidente
in persona a rispondere agli atti “ingiustificabili”, “immotivati” o “discriminatori” di
questo tipo. Se ciò è facile da comprendere in un contesto di Guerra Fredda, in cui
le alleanze politico-strategiche regolavano abbastanza rigidamente le relazioni
internazionali, risulta forse meno accettabile in un contesto di distensione e
multilateralismo come quello odierno, eppure si tratta di atteggiamenti tutt’altro
che desueti. Negli anni Novanta il Presidente Clinton, che in più occasioni si è
dimostrato come un forte sostenitore della logica di guerra economica, ha
rinnovato la cosiddetta “super-301” emanata nel 1984 allo scopo di individuare gli
ostacoli alle importazioni americane e combatterli con misure di ritorsione. Il caso,
citato in precedenza in merito al boicottaggio, delle misure di tutela delle grandi
case automobilistiche a scapito dei prodotti giapponesi, accettate da Tokyo per non
correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli, nacque
proprio a causa della minaccia americana di ricorrere alla “super-301”, con
sovrattasse anche del 100%. L’istituzione dell’OMC e del relativo organismo di
regolazione delle controversie, sorta di arena giuridica dove si affrontano le
potenze per far valere i loro diritti, dovrebbe prevenire il ricorso a questo tipo di
misure. Il funzionamento dell’Organo di Conciliazione si basa su norme precise e su
una serie di scadenze predefinite per l’esame di ciascun caso. La procedura dura in
totale al massimo un anno e tre mesi (solo un anno in assenza di appello): le
decisioni iniziali sono prese da un gruppo speciale, previa consultazione di
entrambe le parti cui viene anche presentato il rapporto finale (entro sei mesi), e
approvate o rifiutate dall’insieme dei membri dell’OMC. Tuttavia l’obiettivo
dell’organismo, più che essere l’emissione di un giudizio, sarebbe di conciliare, per
l’appunto, le controversie e arrivare a una negoziazione consensuale della
risoluzione da parte delle due parti in causa; un’eccezione a questa funzione
particolare, che peraltro normalmente si realizza nei fatti, è stata la cosiddetta
“guerra delle banane” che ha contrapposto i Paesi ACP a quelli dell’America Latina.
Negli ultimi tempi, l’Organo di Conciliazione ha registrato un aumento del numero
di ricorsi, segno per i suoi funzionari della fiducia che gli Stati riporrebbero nelle
sue procedure e decisioni. Tuttavia, in un contesto di competizione sempre
maggiore, esso potrebbe anche essere uno fra i tanti mezzi di cui gli Stati si
servono per vincere le battaglie economiche che li oppongono e, per questo, un
rivelatore particolarmente paradigmatico della situazione di guerra economica al
tempo della globalizzazione.
Per quanto riguarda le barriere doganali o tariffarie, si tratta dei mezzi
difensivi più antichi di cui gli Stati dispongono per tutelarsi contro le strategie
offensive sviluppate dai loro avversari. Sono un tipo di misura attuata soprattutto
dai Paesi in via di sviluppo, che la adottano per proteggersi dalle importazioni
provenienti dalle nazioni industrializzate (l’economista tedesco propone la
definizione, in questo caso, di “protezionismo educativo”). Dal canto loro, i Paesi
occidentali si servono delle tariffe doganali per proteggere l’occupazione
industriale, il che, se da un lato ha costi elevati in termini economici, dall’altro è
politicamente molto favorito in ragione della sua influenza sugli equilibri sociali.
D’altra parte, è doveroso ricordare come dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
le tariffe doganali siano costantemente scese, passando dal 44% degli anni Trenta
del Novecento all’attuale valore inferiore al 5%.
Già si è parlato del contingentamento delle importazioni, con cui sono
strettamente imparentate le quote di importazione, la forma più importante di
barriera non tariffaria. Delimitando direttamente la quantità di prodotti di un certo
tipo che possono essere importati, esse vengono usate per proteggere determinati
settori nazionali oppure per equilibrare la bilancia dei pagamenti. Anche in questo
caso, sono gli Stati Uniti a fornirci un buon esempio con la loro quota
d’importazione sulle importazioni di zucchero: a fronte di una limitazione ben
definita della quantità di zucchero importato e di una conseguente maggiorazione
del prezzo sul prodotto finale venduto al consumatore, il settore zuccheriero
statunitense, piccolo in termini di numeri di occupati, non conosce crisi. Le quote
derivano appunto da una scelta politica, quella di conservare l’occupazione in
determinati settori: la razionalità economica liberale imporrebbe la soppressione
delle quote per abbassare il prezzo del prodotto finale e diversificare il consumo,
ma in guerra economica qualunque teoria non funzionale al mantenimento di una
logica di potenza e di indipendenza risulta sostanzialmente inapplicabile.
Questa sorta di “nuovo protezionismo” si manifesta, oltre che nelle
importazioni, anche nelle esportazioni, sotto forma di sovvenzioni pubbliche a una
determinata impresa o settore di produzione. Conosciute anche con il nome di
dumping, sono ufficialmente illegali (si veda ad esempio quanto stabilito dal
regolamento CE n. 1225/2009 del Consiglio dell’UE), ma spesso vengono attuate in
maniera indiretta. In questo senso, rivestono particolare importanza le
sovvenzioni agricole: sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti erogano consistenti
aiuti di Stato ai rispettivi agricoltori, a detrimento di tutti quei Paesi, soprattutto
africani, la cui economia si regge sul settore primario ma che, non detenendo alcun
potere sullo scacchiere economico internazionale, sono fortemente penalizzati e
non riescono neppure ad accedere al mercato mondiale delle derrate alimentari.
C’è da dire che, almeno formalmente, sia l’UE che gli USA si sono impegnati a
rivedere PAC e varie Farm Bill ma, non essendo stati fissati dei tempi per farlo, la
partita non è ancora neppure aperta.
Quando si parla di patriottismo economico si fa riferimento a un famoso
discorso del 2005 dell’allora Primo Ministro francese Dominique de Villepin, nel
quale si affermava la necessità da parte dello Stato di difendere le imprese
nazionali strategiche, soprattutto in settori di punta o comunque considerati parte
del patrimonio industriale nazionale. In realtà, tale concetto sarebbe nato già negli
anni Novanta, sempre in territorio francese, in concomitanza con la fase successiva
alla fine della Guerra Fredda di massima espansione della globalizzazione, che
rappresentava una potenziale minaccia per le imprese dalla capitalizzazione
fragile. La definizione usata da Villepin si rifarebbe invece a un rapporto
presentato nel 2003 dal deputato Bernard Carayon su “Intelligence economica,
competitività e coesione sociale”, dalla fortuna altalenante (condiviso da politici e
imprenditori, ma ritenuto insufficiente nelle sue analisi da molti economisti). In
esso viene ampiamente esposta e dimostrata l’esigenza di dare una connotazione
maggiormente patriottica alla politica economica francese, definendo a tal
proposito tutta una serie di obiettivi da raggiungere: definizione di interessi
comuni fra Stato e settore privato, la tutela di questi interessi come misura di
legittima difesa dall’assunzione di controllo da parte di capitali stranieri, la
successiva conquista di porzioni di mercato mondiale promuovendo l’eccellenza di
determinati settori e aumentandone la competitività. È proprio seguendo le idee
presenti in questo rapporto che è emanato il decreto del 31 dicembre 2005, voluto
da Villepin, sulla protezione della produzione di settori quali la difesa, le tecnologie
dell’informazione, la sicurezza privata e i sistemi di intercettazione delle
informazioni. D’altra parte, la Francia non è la sola a fare ricorso a questo
strumento di difesa nella guerra economica: l’Unione Europea stessa, con
l’istituzione nel 2004 della forma giuridica della “società europea”, persegue
chiaramente l’obiettivo di consolidare la dimensione europea di queste imprese a
discapito di possibili assunzioni di controllo da parte di entità straniere nei loro
confronti. Per non parlare poi degli Stati Uniti, dove il Committee on Foreign
Investment ha diritto di veto sulle operazioni d’acquisto di imprese americane da
parte di società straniere, o ancora della Germania, dove nel 2010 il governo della
cancelliera Merkel ha impedito l’acquisizione di Opel da parte di Fiat-Chrysler.
Per quanto riguarda il soft power normativo, l’esempio principe che merita
di essere preso in considerazione è quello delle negoziazioni commerciali
multilaterali. L’OMC è quindi diventata teatro di scontri contrapposti per
promuovere e ampliare sempre più il libero scambio, da un lato, e proteggere il
vantaggio tecnologico dei Paesi industrializzati, dall’altro. È ovvio che ad esserne
svantaggiati risultano soprattutto i Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo,
perché la mancata liberalizzazione di determinati brevetti in campo medico, ad
esempio, impedisce a questi Stati di produrre medicinali a basso costo. Un’OMC
ostaggio dei Paesi occidentali, che ha portato fra le altre cose al fallimento nel 2011
del Doha Round dopo dieci anni di negoziati, non è altro che una misura di difesa
contro quei Paesi emergenti – India in testa con il suo potenziale di produzione
nelle biotecnologie – che potrebbero così aspirare non solo all’indipendenza
economica in determinati settori, ma anche a imporsi come leader sui mercati
internazionali. Altro terreno su cui si disputa un’importante partita intorno al soft
power è senza dubbio il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli
Investimenti (TTIP): non un semplice accordo commerciale di libero scambio per
la libera circolazione di merci e servizi, ma anche un accordo di tipo normativo,
volto a rimuovere le molte differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di
omologazione, standard applicati ai prodotti e regole di sicurezza e sanitarie
presenti fra Unione Europea e Stati Uniti, che hanno ancora alcune carte da
giocarsi in merito. Questo partenariato, qualora e quando entrasse in vigore,
creerebbe l’area di libero scambio più grande del pianeta, equivalente a circa la
metà del PIL e un terzo degli scambi commerciali globali: tutto il mondo ne
gioverebbe e sarebbe ipotizzabile imboccare nuovamente la strada del
multilateralismo nella liberalizzazione commerciale, che attraversa un momento di
stallo nonostante la volontà di unificare il commercio mondiale. La
frammentazione giuridica attuale, infatti, favorisce la costruzione del teatro della
guerra economica, con la regola del più forte (del più potente) a prevalere su
qualsiasi altra logica razionale.
Infine, fra gli strumenti difensivi citati in apertura di questa sezione vi è il
consumo patriottico, che consiste semplicemente nel privilegiare l’acquisto di
prodotti nazionali, piuttosto che stranieri, nei più disparati settori. Esso può essere
incentivato dallo Stato oppure no, ma in entrambi i casi fornisce una difesa efficace
contro gli attacchi della guerra economica. Il primo caso è rappresentato dagli Stati
Uniti, dove una misura protezionistica adottata in piena Grande Depressione, il
Buy American Act promosso da Roosevelt e approvato nel 1933 come una delle
misure volte a risollevare il Paese dalla recessione economica, è ancora in vigore a
giustificare una politica che accorda ufficialmente la preferenza alle imprese
americane. In questo quadro si inserisce, ad esempio, il conflitto fra Boeing e
Airbus per la fornitura di una commessa all’aviazione statunitense: l’impresa
europea era stata selezionata per le sue migliori prestazioni, ma il Pentagono ha
comunque deliberato di annullare l’offerta e di rimetterla alla decisione della
prima amministrazione Obama all’indomani del suo insediamento, favorendo così
implicitamente Boeing in questa partita. In Giappone, invece, le modalità di
consumo patriottico sono completamente diverse: lo Stato non ne ha alcuna
responsabilità, ma sono di fatto i consumatori a preferire per la stragrande
maggioranza i prodotti nazionali. Ne sono un esempio il mercato dell’automobile,
detenuto per il 95% da marchi nipponici, o il recente blocco della
commercializzazione di prodotti elettronici targati Samsung nel Paese del Sol
Levante, dovuto a una penetrazione difficilissima del mercato giapponese che
lasciava all’azienda coreana un misero 1% dell’intero mercato dell’elettronica.
Conclusioni
Questo contributo era iniziato con gli auspici dei grandi pensatori
dell’Ottocento circa la realizzazione di uno scenario di pace perpetua dove il libero
scambio delle merci e delle idee avrebbe sostituito gli scontri militari fra nazioni
per la supremazia politica ed economica. Nonostante le apparenti promesse del
multilateralismo degli anni Novanta e una globalizzazione che teoricamente
poneva le basi perché questo progetto si avverasse, le lotte a tutto campo per il
controllo dei mercati e delle risorse continuano a infuriare.

http://italiaeilmondo.com/2019/11/26/una-nuova-tipologia-di-guerra-la-guerra-economica_2a-parte-di-giuseppe-gagliano/

http://italiaeilmondo.com/2019/11/22/una-nuova-tipologia-di-guerra-la-guerra-economica_1a-parte-di-giuseppe-gagliano/

Il re è nudo, ma…, di Giuseppe Germinario

Il re è nudo, ma non tutti ancora lo vedono. Qui sotto la conferenza stampa tenuta due giorni fa da Matteo Salvini, presente lo stato maggiore della Lega, a proposito dell’adesione dell’Italia al MES. Una esposizione di insolita chiarezza nel panorama politico italiano. Gli autori del sito hanno più volte espresso valutazioni severe e critiche sull’operato del precedente Governo Conte e sull’apertura e gestione della crisi di governo. L’insieme delle politiche di quel Governo, a cominciare dalla politica estera per finire con la politica economica e con la gestione delle politiche industriali, sono state segnate dal trasformismo e da una concezione dell’azione politica meramente elettoralistica, inadeguata rispetto al contesto geopolitico. La crisi dell’ILVA è uno degli esempi di tale condotta. Come si fa ad affidare un settore strategico ad una multinazionale franco-indiana, parte integrante di strategie geopolitiche e geoeconomiche opposte e ostili all’interesse nazionale? La vicenda del MES svela un altro aspetto particolarmente amaro: la collocazione geopolitica e la condotta sugli aspetti fondamentali e portanti di questa collocazione tende ad andare al di là delle intenzioni delle forze politiche; muove forze, punti di vista ed interessi annidati in prassi, routine e strutture dei centri decisionali ed istituzionali difficili da fronteggiare. Pare evidente che una parte della classe dirigente si stia allarmando e svegliando pur tardivamente e in maniera goffa. La conferenza stampa e gli allegati inseriti aprono squarci alla consapevolezza inusuali_Giuseppe Germinario

https://www.esm.europa.eu/legal-documents

 

LA NATO STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ INCLUSIVA, di Hajnalka Vincze

Un bell’articolo dell’analista Hajnalka Vincze con il solo limite di enfatizzare un po’ troppo il ruolo autonomo, sia pure di retroguardia, della Francia quando appare evidente il tentativo, soprattutto a partire dalla Presidenza Sarkozy, di assumere la leadership europea di una organizzazione a trazione statunitense. E’ il segno, comunque che almeno in Francia esistono ancora forze strutturate che aspirano al recupero della autonomia politica_Giuseppe Germinario

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/573-une_otan_de_plus_en_plus_englobante/

LA NATO STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ INCLUSIVA

IVERIS – Nota del 18 ottobre 2019

Per più di venti anni, gli Stati Uniti hanno spinto a “globalizzare” l’Alleanza, sulla base del fatto che deve adattarsi a nuovi rischi e minacce se vuole, presumibilmente, “rimanere rilevante” (in altri parole: dimostrare la sua utilità per gli interessi americani e garantire, in cambio, il mantenimento dell’impegno americano nel vecchio continente). Dopo tutto, il ragionamento è logico. Solo che per gli europei porterebbe meccanicamente ad abbandonare tutte le loro politiche. La sfida è impedire, per quanto possibile, che la portata della giurisdizione dell’organizzazione si estenda ad altre aree (non militari) e altre aree geografiche (oltre l’area dell’euro -Atlantique).

L’esperienza dimostra che ciò sta esercitando un’enorme pressione sugli alleati affinché accettino le priorità degli Stati Uniti, ribadendo le loro argomentazioni, il loro approccio, i loro standard e, infine, abbandonando le proprie analisi e il proprio pensiero. Per gli europei, il proseguimento dell’estensione della competenza funzionale e geografica della NATO rischia di mettere definitivamente le loro politiche in settori come il cyber, l’energia, lo spazio e i poteri come la Russia, la Cina o il Medio Oriente su una traiettoria stabilita dagli Stati Uniti. Il loro spazio di manovra si restringerebbe singolarmente, con ripercussioni disastrose sia in materia diplomatica che economica.

La Francia ha avvertito il pericolo molto presto. Di fronte alla tentazione di espandere le competenze della NATO all’infinito (e di mordicchiare di conseguenza quelle dell’UE di conseguenza), continua a sostenere la “rifocalizzazione” dell’Alleanza. All’inizio del 2007 il Ministero della Difesa ha spiegato che la NATO fa cenno ai settori civili, o ai paesi partner in Asia e Oceania, e di sostenere quindi “un cambiamento nella natura dell’Alleanza” e  “obiettivo, sotto la guida degli Stati Uniti, per trasformare la NATO in un’organizzazione di sicurezza globale, sia geograficamente che funzionalmente “ . Ma per la Francia  “la NATO non dovrebbe diventare un’organizzazione che comprenda competenze disparate che non avrebbero alcun legame con il suo core business”[1] Allo stesso modo, il ministro Le Drian, parlando nel 2014 in un seminario della NATO, ha chiesto di  “focalizzare l’Alleanza sulla sua area di eccellenza” . [2]

Estensione geografica: moltiplicazione di partner e obiettivi

Di fronte agli incessanti sforzi della burocrazia della NATO di conformarsi il più strettamente possibile alle ingiunzioni statunitensi (con la discreta acquiescenza della maggior parte dei partner), la posizione dei francesi assume l’aspetto di una battaglia di retroguardia. La perdita della focalizzazione euro-atlantica, vale a dire il fatto che l’istituzione di partenariati e la designazione di avversari sta avvenendo su scala globale, fa parte della grande trasformazione postbellica. Come ha riassunto l’eccellente Jolyon Howorth  “di un’organizzazione il cui obiettivo iniziale era quello di garantire un impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea, [la NATO] è stata trasformata, quasi impercettibilmente, in un altro, il cui nuovo obiettivo è garantire un impegno europeo al servizio della strategia globale degli Stati Uniti “.[3]

Per gli europei, questa evoluzione amplifica due tipi di rischi: militare e diplomatico. Il generale de Gaulle aveva già messo in guardia dal pericolo di essere trascinato nelle avventure militari degli Stati Uniti. “In primo luogo, abbiamo visto che le possibilità di conflitto, e di conseguenza delle operazioni militari, si estendevano ben oltre l’Europa, e che c’erano tra i loro principali partecipanti all’Alleanza atlantica differenze politiche che potrebbero, se necessario, trasformarsi in divergenze strategiche .  [4] “I conflitti in cui l’America si impegna in altre parti del mondo, in virtù della famosa escalation, potrebbero essere così estesi che potrebbe emergere una conflagrazione generale. In questo caso, l’Europa, la cui strategia è, nella NATO, quella americana, sarebbe automaticamente coinvolta nella lotta anche se contraria alla sua volontà “ . [5]

Con la fine della guerra fredda, le divergenze politiche su entrambe le sponde dell’Atlantico si moltiplicano e si manifestano sempre più apertamente, prima sul fronte diplomatico. Questo è il famoso  “gap politico”  : gli interessi di europei e americani non coincidono, lungi da ciò, su molte questioni, che si tratti di Russia, Siria, Iran, Vicino Oriente, Artico, Cina o Africa. Accettare di formulare queste politiche all’interno della NATO, quindi sotto la tutela dell’America, significa accettare di bloccare le relazioni dell’Europa con altre potenze e altre regioni del mondo in una posizione di follow-up e allineamento sugli Stati Uniti. Come diceva con straordinario eufemismo, il ministro della difesa francese nel 1999: “È innegabile che l’Alleanza non è necessariamente la migliore entità per garantire all’Europa una voce più forte negli affari mondiali” [6]

(Credito fotografico: NATO)

In termini di propensione della NATO per i partenariati a tutto campo, il concetto sembra innocente a prima vista – ma ci sono alcuni seri pericoli. La diplomazia francese è sempre stata riservata in relazione ai progetti di “partenariato globale” che è, di fatto, l’associazione al lavoro della NATO di paesi geograficamente distanti dall’area euro-atlantica, ma contraddistinti dalla loro lealtà verso gli Stati Uniti. Oggi ci sono 42 paesi, tra cui Giappone e Australia, 5 con accesso a informazioni riservate dell’Alleanza (tra cui Giordania e Georgia). La riluttanza tradizionale della Francia può essere spiegata innanzitutto dal rifiuto di istituire una sorta di grande “alleanza di democrazie”. Che avrebbe, da un lato, la vocazione appena nascosta di sostituire le Nazioni Unite, e ciò stabilirebbe, d’altra parte, una logica da blocco a blocco tra l’Occidente e il resto del mondo. All’epoca il ministro Michèle Alliot-Marie ha denunciato il rischio “Per affrontare un brutto messaggio politico: quello di una campagna su iniziativa degli occidentali contro coloro che non condividono le nostre opinioni .  [7]

In effetti, la continua espansione della rete di partenariati fa parte di una logica di estensione degli avversari e dei teatri di potenziali operazioni. Non è un caso che firmando un accordo di partenariato rafforzato con l’Australia, il Segretario Generale dell’Alleanza abbia chiarito che l’obiettivo è gestire / contrastare l’ascesa della Cina [8]. Lo scorso gennaio, Foreign Policy ha pubblicato un articolo di Stephen M. Walt, uno dei teorici più rispettati delle relazioni internazionali, in cui ha scritto neo su bianco che per salvare la NATO  “gli europei devono diventare il nemico della Cina “[9] O chiunque sia indicato dagli Stati Uniti come principale oppositore del momento. Perché è sempre la stessa logica: per garantire le buone grazie di Washington e con il pretesto di “salvare” l’Alleanza, agli europei viene chiesto di allineare le loro politiche a quelle degli Stati Uniti. Va da sé che la NATO è il forum all-inclusive per svolgere questo lavoro di “coordinamento” tra gli alleati.

Estensione funzionale: dalla politica interna allo spazio

Su base regolare, i funzionari statunitensi lanciano anche “sfide” tematiche alla NATO per dimostrarne l’utilità e la pertinenza. Come il presidente Trump che lo ha definito “obsoleto” a meno che non diventi più attivo nella lotta al terrorismo. Con lo stesso spirito, dall’inizio degli anni 2000, abbiamo assistito a un’estensione totale delle aree di competenza dell’Alleanza. L’attenzione si è concentrata su energia e cyber, ma l’elenco delle possibili aree è praticamente infinito – come affermava Jaap de Hoop Scheffer, segretario generale dell’Alleanza nel 2006:  “Praticamente tutti i problemi della società possono rapidamente trasformarsi in una sfida di sicurezza »[10] E questo è positivo, dal momento che, per Washington, è particolarmente importante ridurre al minimo il numero di argomenti su cui gli europei si consultano (all’interno dell’UE), senza il suo diretto controllo. Uno dei grandi vantaggi per gli Stati Uniti dell’ampliamento dell’ambito di competenza della NATO è il blocco / recupero delle iniziative dell’UE nelle aree di loro interesse.

Lo scenario è sempre lo stesso. Un soggetto viene proiettato, su iniziativa degli Stati Uniti, sullo schermo radar dell’Alleanza. Gli europei, i francesi in testa, sostengono che la NATO dovrebbe concentrarsi sul proprio core business e non avventurarsi nell’UE. Tuttavia, poiché è già all’ordine del giorno, gli alleati procedono a consultazioni. Arriveranno ad accettare l’inclusione del nuovo soggetto come una delle competenze dell’Alleanza, inizialmente in un modo attentamente circoscritto. La nuova competenza si limita principalmente alla protezione delle capacità proprie della NATO (infrastrutture, forze operative). Quindi, con il pretesto del “valore aggiunto” dell’Alleanza, l’Alleanza propone di sostenere un determinato Stato membro. L’argomento finirà per insinuarsi nella pianificazione della difesa, dove la definizione di “approccio coordinato” si baserà, ovviamente, sulle priorità degli Stati Uniti. La ciliegina sulla torta, le voci si alzeranno per inserire il nuovo campo tra quelle coperte dall’articolo 5. Così, il segretario generale Stoltenberg è stato in grado di dichiarare, lo scorso agosto, che un attacco informatico contro i computer del sistema sanitario britannico potrebbe innescare la difesa collettiva. [11]

(Credito fotografico: NATO)

La sicurezza energetica è un altro caso di studio. Nel 2006, al vertice di Riga, il presidente Chirac ha sottolineato chiaramente che  “la sicurezza energetica non era all’ordine del giorno e non doveva essere all’ordine del giorno della NATO. Quindi non ne abbiamo parlato .  [12] Tuttavia, in seguito al vertice, sono state avviate” consultazioni “. La Divisione Sfide per la sicurezza emergente ha una sezione dedicata alla sicurezza energetica già dal 2010 e due anni dopo è stato istituito un Centro di eccellenza per la sicurezza energetica della NATO. [13] Al vertice di Bruxelles del luglio 2018, i leader alleati, ansiosi di placare il presidente Trump, dichiararono che “Gli sviluppi energetici possono avere implicazioni politiche e di sicurezza significative per gli alleati”  e per questo motivo  “Riteniamo che sia essenziale garantire che l’Alleanza non sia vulnerabile alla manipolazione delle risorse energetiche a fini politici o di coercizione, cosa che rappresenta una potenziale minaccia. Gli alleati continueranno quindi a cercare di diversificare le loro forniture di energia. “ [14]Sarà solo una felice coincidenza che, per molti, ciò equivale ad acquistare gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti. [15]

Lo spazio è il prossimo nella lista. L’argomento è affrontato due anni fa in un rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO:  “Qualsiasi attacco ai beni spaziali di un alleato avrebbe un impatto sulla sicurezza di tutti gli altri. Deve quindi avere un approccio globale che gli consenta di proteggere i suoi interessi nello spazio. È anche indispensabile, dal punto di vista operativo, integrare lo spazio nelle strutture di pianificazione e comando della NATO. Infine, le esercitazioni della NATO dovrebbero includere scenari di guerra spaziale che comportano il divieto temporaneo o la disattivazione di risorse spaziali alleate.[16] Una delle decisioni attese al vertice di Londra del prossimo dicembre è proprio il riconoscimento ufficiale dello spazio come area di competenza e intervento per la NATO. [17] Se è concepito come “un dono a Trump” (ancora una volta, il famoso appeasement), è comunque gravido di conseguenze. La Francia, in particolare, vuole garanzie di comando (le sue capacità spaziali saranno poste sotto il comando NATO / USA in una situazione di crisi) e articolazione con l’articolo 5 (un attacco al satellite di uno dei paesi membri sarebbe in grado di attivare la difesa collettiva)? Ma, ancora una volta, va oltre l’essenziale: non appena lo spazio sarà riconosciuto come dominio della NATO, sarà un intero ingranaggio che verrà messo in atto.

A medio e lungo termine, l’Alleanza atlantica potrebbe essere tentata di avventurarsi ulteriormente nel campo del commercio e dell’economia (il segretario generale della NATO non ha menzionato forse il TTIP come “una NATO economica, sottolineando che queste sono le due parti della  ” comunità transatlantica integrata ”  da costruire?) e persino quella della politica interna dei suoi stessi Stati membri (tranne la più grande, in modo del tutto naturale) [18-19] . Uno dei migliori specialisti statunitensi nella NATO, Stanley R. Sloan ha dedicato il suo ultimo libro quasi interamente alla sfida posta dall’interrogativo sulla democrazia liberale negli Stati membri. Egli spiega che, fin dall’inizio,  “la NATO non era solo militare, ma anche politica ed economica” , con la vocazione “a difendere i sistemi politicamente democratici ed economicamente liberali dei suoi stati membri” [20] Tuttavia, continua, la domanda è come può resistere oggi la NATO, quando questi stessi valori sono minacciati all’interno dell’Alleanza atlantica.

Un recente rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, firmato dal parlamentare Gerald Connolly, presidente della delegazione americana, esamina lo stesso argomento. Osserva:  “Le minacce ai valori della NATO non provengono solo dai suoi avversari. I movimenti politici che mancano di rispetto alle istituzioni democratiche o allo stato di diritto stanno guadagnando slancio in molti paesi membri dell’Alleanza. Questi movimenti sostengono la preferenza nazionale per la cooperazione internazionale. Le democrazie liberali sono minacciate da movimenti politici e personalità ostili all’ordine stabilito che sono di destra e di sinistra nello spettro politico “ . Suggerisce quindi che “La NATO deve dotarsi dei mezzi necessari per rafforzare i valori in questione nei paesi membri” istituendo  “un centro per il coordinamento della resilienza democratica” . [21] Sarebbe un errore pensare che queste proposte siano motivate unicamente dalle battaglie politiche negli Stati Uniti. L’idea di “supervisione democratica”, pervasiva durante la guerra fredda, è stata ripresa all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, in un documento confidenziale del Pentagono le cui fughe avevano provocato una protesta pubblica all’epoca: La NATO è descritta come  “il canale dell’influenza degli Stati Uniti” , e gli obiettivi statunitensi includono iniziative “Per scoraggiare, nei paesi sviluppati, qualsiasi tentativo di rovesciare l’ordine politico ed economico” . [22]

(Hajnalka Vincze, Una NATO sempre più onnicomprensiva , Nota IVERIS, 18 ottobre 2019)

***

 

[1] Risposta del Ministero della difesa a un’interrogazione scritta all’Assemblea nazionale (Risposta pubblicata nella GU il 13 novembre 2007, pag. 7061)
[2] Dichiarazione di Jean-Yves Le Drian, Ministro della difesa, sulle sfide e le priorità della NATO, apertura del seminario ACT a Parigi, 8 aprile 2014.
[3] Jolyon Howorth, Transatlantic Perspectives on European Security in the Coming Decade, Yale Journal of International Affairs, Summer-Fall 2005, p .9.
[4] Conferenza stampa del generale de Gaulle, 5 settembre 1960.
[5] Conferenza stampa del generale de Gaulle, 21 febbraio 1966.
[6] Dichiarazione di Alain Richard, ministro della Difesa, sulle prospettive futuro dell’Alleanza atlantica dopo cinquant’anni di esistenza, Parigi, 4 maggio 1999.
[7] “La NATO deve rimanere un’organizzazione euro-atlantica”, Tribune della signora Michèle Alliot-Marie, ministro della Difesa, Le Figaro, 30 ottobre 2006.
[8] La NATO deve affrontare l’ascesa della Cina, afferma Stoltenberg, Reuters, 7 agosto 2019.
[9] Stephen M. Walt, Il futuro dell’Europa è come nemico cinese, politica estera, 22 gennaio 2019.
[10] Discorso del segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jaap de Hoop Scheffer, Riga, 28 novembre 2006.
[11] L’attacco informatico al SSN darebbe il via alla piena risposta della NATO, afferma il segretario generale dell’alleanza, The Telegraph, il 27 agosto 2019.
[12] Conferenza stampa di Jacques Chirac, Presidente della Repubblica, a Riga il 29 novembre 2006 .
[13] La NATO Energy Security Center of Excellence (NATO Ensec WCC).
[14] Dichiarazione del vertice di Bruxelles, pubblicata dai capi di Stato e di governo che partecipano alla riunione del Consiglio del Nord Atlantico tenutasi a Bruxelles l’11 e 12 luglio 2018.
[15] Vendite di gas statunitensi al L’Europa procede rapidamente, Le Figaro, 2 maggio 2019.
[16] Madeleine Moon, Space and Allied Defense, Rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, 162 DSCFC 17 settembre 2017.
[17] Robin Emmott, La NATO mira a creare una nuova frontiera della difesa, Reuters Exclusive, 21 giugno 2019.
[18] Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP).
[19] Discorso del segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen alla conferenza “Una nuova era per il commercio UE-USA”, Copenaghen, 7 ottobre 2013
[20] Stanley R. Sloan, Transatlantic Traumas, Manchester University Press, 2018, p.5.
[21] 70 anni della NATO: perché l’Alleanza rimane indispensabile?, Gerald E. Connolly (Stati Uniti), Rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, settembre 2019.
[22] Difesa Guida alla pianificazione, estratti narrati sul New York Times, 8 marzo 1992.

RendiConte e resa (si spera) dei Conte, di Alberto Bagnai_ titolo a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto due post dell’onorevole Alberto Bagnai particolarmente interessanti in quanto illustrano le modalità ed i vincoli che il Presidente Conte avrebbe dovuto osservare durante la fase di trattativa riguardante il MES. Siamo ad un punto cruciale nel quale il re appare nudo. Vedremo se ci sarà qualche bambino in grado di dirlo ed una reazione sufficiente a delegittimare l’impostura e farlo decadere con ignominia.

Una piccola chiosa: non avrebbe potuto essere questo uno dei momenti più opportuni per aprire le ostilità ed eventualmente far cadere il primo Governo Conte?_Giuseppe Germinario

https://goofynomics.blogspot.com/

Ratifica

Avrei preferito andare un’oretta in palestra, anziché dedicarla a insultare la vostra intelligenza. Tuttavia, l’ameno dibbbattito su Twitter mi lascia intendere che c’è del vero nelle querimonie piddine sull’analfabetismo funzionale. Evidentemente, il vostro non sapere come funziona è talmente pervasivo che contamina di sé anche il lessico, sovvertendo il senso delle parole, che, di per sé, basterebbero a descrivere, e rendervi quindi pienamente intelligibile, la realtà dei fatti. Potevo aspettarmelo? Sì. Siete decine di migliaia, e conosco personalmente svariate centinaia di voi. Non ne ho trovato uno che abbia chiaro che cosa sia la bilancia dei pagamenti (ogni riferimento a Nat è puramente intenzionale), nonostante gli sforzi qui profusi per spiegarvene sia il meccanismo che la rilevanza (la crisi dell’Eurozona è una crisi di debito estero, cioè di bilancia dei pagamenti, e il dibattito di questi giorni, quello sul MES, ne è in qualche modo la conferma definitiva…). Eppure la bilancia dei pagamenti è una cosa semplice: se entrano soldi nel Paese, il segno è positivo, se escono dal Paese è negativo. Ma… ggnente!

Certe volte mi chiedo perché siate così tanti a seguirmi e così pochi a capirmi. La risposta che mi do è che probabilmente intuite, dietro al mio sforzo (vano) di farmi capire una virtù un po’ démodé: l’amore per il prossimo (anche per chi non capisce la bilancia dei pagamenti: so di non capire tante cose anch’io), e quello per il Paese, condite con una sorta di illuministica fiducia nelle virtù della ragione e della ragionevolezza umana, e quindi della democrazia. Per motivi che non riesco a capire, sapere che qualcuno ancora ci crede vi rassicura e vi appaga.

Male!

Non dovrebbe appagarvi: dovreste anche studiare (almeno, Gramsci la pensava così).

E allora, provo a spiegarvi una cosa che evidentemente, a giudicare dal dibbbattito, sfugge: stranamente, i trattati intergovernativi vengono negoziati dai governi.

So che può sembrare paradossale, misterioso, so che questo concetto rinvierà nelle menti di molti di voi a oscuri complotti, a Bilderberg, o ai rettiliani (ma anche a Nibiru). Invece è solo etimologia: “inter” non è una squadra di calcio (la squadra è l’Inter, con la maiuscola), ma una preposizione latina che significa “tra”. I Trattati intergovernativi quindi sono trattati tra governi, il che significa che chi li negozia sono i… rettiliani? Bilderberg? La Trilaterale? La Spectre? No: i governi.

Ci siamo fino a qui?

Bene.

Rinuncio a spiegarvi cosa sia un Governo (appellandomi alla prima legge della termodidattica: “Ci sono cose che se potessero essere capite non andrebbero spiegate”).

Facciamo un passettino avanti, volete?

Perché mai ai Governi viene in mente di fare un negoziato? Chi li legittima a farlo?

Mettetevi nella testa di un grillino, per dire. Diventi ministro, accedi al potere: il tuo primo pensiero ovviamente è godere dei privilegi della casta, e abbandonarti insieme alla cricca alle mollezze della corruzione. Questa è la loro visione della politica: una visione che li qualifica (pensa male chi l’ha nel cuore) e che però non quadra col fatto di svegliarsi alle cinque di mattina per prendere un aereo e andare a Bruxelles dove i fratelli europei ti chiudono in una stanza e ti ci tengono finché non gli dici di sì, alle cinque della mattina dopo! I Governi non negoziano Trattati per sport o per prescrizione del medico (che probabilmente consiglierebbe attività meno malsane), ma in virtù di un mandato conferito loro direttamente o indirettamente dal Parlamento, che a sua volta è eletto dal popolo, che sareste (molto evidentemente a vostra insaputa) voi.

Certo, una volta i negoziati erano più diretti: se un popolo voleva qualcosa da un altro, andava in massa a chiederglielo. Sono quelle che i libri di storia una volta chiamavano invasioni barbariche, e che ora nei libri di testo degli accoglioni si chiamano migrazioni (Enea era un migrante, quindi anche Attila…). Viceversa, non credo che sia mai successo che un intero parlamento si sia spostato per negoziare qualcosa! Evidentemente, però, su Twitter c’è qualcuno che pensa che le cose funzionino così (sono tutti quelli che con accorati accenti ci chiedono di fare “qualcosa”, o di fare “di più”). Tanto per esser chiari: a noi è sempre apparso evidente che il precedente Governo non ne volesse sapere mezza di essere fedele al mandato conferitogli (come ha detto Molinari in aula: loro sapevano di essere un governo espresso da una maggioranza “sovranista”, ma ovviamente facevano finta di non saperlo), tant’è vero che prima di sfiduciarlo ci siamo anche posti il problema se fosse tecnicamente possibile affiancare le delegazioni italiane con esponenti della maggioranza parlamentare. Non è tecnicamente possibile: a negoziare ci va il Governo.

Riassumo: i trattati fra Governi li fanno i Governi.

Mi fate una cortesia? Tornate su di un rigo e rileggete tre o quattro volte, poi andiamo avanti.

Ora, siccome anche in un sistema che, a differenza di quello europeo, non abbia fatto del waterboarding il suo principale strumento di mediazione politica, i Governi, nel negoziare un Trattato, possono avere mille e un motivo, lecito o illecito, per deviare dal mandato che il Parlamento gli ha direttamente o indirettamente conferito, in pressoché tutti gli ordinamenti è previsto l’istituto della ratifica parlamentare (vi esorterei a leggere il significato sul vocabolario).

Quindi, ricapitolando. Voi eleggete il Parlamento, che dà la fiducia al Governo, e che poi gli conferisce un mandato a negoziare (tecnicamente, un simile mandato viene conferito con un atto di indirizzo definito risoluzione). Il Governo negozia, poi firma il trattato, poi torna a casa e lo presenta al Parlamento, che a quel punto, se lo trova conforme all’interesse del Paese, lo ratifica.

Ci siamo? Tutto chiaro?

Bene.

Per maggiore chiarezza, vi esorterei, anzi, vi scongiurerei di leggere gli articoli dal 4 al 7 della Legge 234 del 2012 (legge Moavero).

Leggeteli ora, se li avete già letti rileggeteli, se non li avete letti non venite a seccarmi con astruse teorie: a ogni giorno basta la sua pena e chi non si documenta non è previsto nel menù.

La legge Moavero venne concepita dopo l’approvazione di MES e Fiscal compact (avvenuta a luglio 2012), proprio come reazione a un certo scontento che perfino lo stesso PD provava per la porcata fatta (ci sono tante brave persone anche là dentro). L’articolo 5, che prevede un obbligo di informativa rafforzata in caso di trattati in ambito monetario e finanziario, è una chiara conseguenza di questo disagio. Leggendolo vedi in filigrana la sigla MES.

Questo è come funzionano le cose in teoria: la dinamica mandato parlamentare-negoziato intergovernativo-ratifica in Italia è normata, per quanto attiene alle sedi europee (ma in caso di trattati monetari o finanziari anche al di fuori da queste sedi) da una specifica legge.

E ora veniamo alla pratica.

In pratica, l’unico dispositivo di questa legge applicato coerentemente è il primo periodo del primo comma dell’art. 4: “Prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, il Governo illustra alle Camere la posizione che  intende  assumere,  la quale tiene conto degli eventuali indirizzi dalle  stesse  formulati.” Mi riferisco alla mesta liturgia delle comunicazioni del premier al Parlamento prima del Consiglio Europeo (quello dei capi di Stato e di Governo), liturgia che si svolgerà la prossima volta l’11 dicembre in vista del Consiglio del 12. Trattandosi di comunicazioni, e non di informativa, è previsto che dopo il discorsetto del premier (dimo, famo, faremo, ecc.) ci sia, oltre a una discussione generale, anche il voto di una risoluzione (che non ci sarebbe nel caso di informativa). Il secondo periodo del primo comma (“su loro richiesta,  esso  riferisce  altresì  ai  competenti  organi parlamentari prima delle riunioni del Consiglio dell’Unione  europea”) non era mai stato applicato prima che arrivassi io (a testimonianza del grande interesse dei piddini per l’Europa), e il terzo periodo (“Il Governo informa i competenti organi parlamentari sulle  risultanze delle riunioni del Consiglio  europeo  e  del  Consiglio  dell’Unione europea, entro quindici giorni dallo svolgimento delle stesse”) non è altresì mai stato applicato, perché è sì vero che sono riuscito, dopo estenuanti negoziati, ad avere un paio di volte Tria in Commissione dopo l’Ecofin, ma è anche vero che non sarei stato io a doverlo chiamare, ma lui a venire: “il Governo informa”, dice la legge, non “il presidente dell’organo parlamentare competente, facendo ricorso a una enorme dose di pazienza e profondendosi in lusinghe, supplica il Governo di concedergli l’insigne e immeritato favore di informarlo su quali impegni vada prendendo alle spalle degli italiani in giro per l’Europa”.

Chiaro?

Questo è il primo punto: intanto, se ora c’è un dibattito su questa roba qui è perché qualcuno si è impuntato a seguire le regole. Apro e chiudo una parentesi: e io che ne sapevo, di queste regole? Niente, ovviamente, non essendo un esperto di diritto parlamentare. E allora? E allora sono degli europeisti convinti che hanno attirato la mia attenzione su di esse. Bisogna parlare con tutti, ed esistono anche europeisti in buona fede (probabilmente esistono anche degli oceanisti, o degli antartidisti, in buona fede, ma ancora non ne ho incontrati).

Secondo punto: per un parlamentare è tecnicamente impossibile sapere quale sia l’iter di una trattativa in Europa. Tanto per essere chiari, noi presidenti di Commissione non riceviamo le relazioni e le note informative predisposte dalla Rappresentanza e menzionate al comma 3 dell’articolo 4 (più precisamente: questi documenti in qualche caso arrivano in Parlamento e giungono – credo – alla mia Commissione, ma sotto vincoli di riservatezza strettissimi che, a quanto capisco, comportano l’obbligo di consultarli solo presso la Presidenza di Commissione, e non possono essere citati nei resoconti di seduta). Inoltre, delle riunioni svolte nelle sedi europee, e in particolare dell’Eurogruppo, non esistono verbali: non si può sapere, se non de relato dalla Rappresentanza nel caso in cui un’anima buona ti mandi le note informative, quali siano le posizioni espresse dal nostro Governo, non ci sono votazioni formali, non ci sono né resoconti sommari né tanto meno stenografici.

Quindi, in sintesi: delle riunioni dell’Eurogruppo, dove si decide, non si sa nulla. Delle riunioni dell’Euro working group, che è in qualche modo il preconsiglio, quello dove si fissano i dettagli tecnici delle decisioni da prendere, si sa meno di nulla. Delle riunioni dell’Ecofin, che viene a valle dell’Eurogruppo, ed è quello dove ci si fa la foto di gruppo, si sanno le scemenze dette in europeese nei comunicati stampa: “la sfida ambiziosa, i significativi progressi, ecc.”, senza che sia mai ben chiaro quando si è firmato cosa o comunque chi abbia preso quale impegno.

Questa mancanza di trasparenza non è lamentata solo da Bagnai: se vi andate a vedere i lavori delle conferenze interparlamentari, vedrete che tutti lamentano la mancanza di trasparenza dell’Eurogruppo.

Terzo punto: in tutta evidenza il Governo precedente ha disatteso completamente la Legge Moavero. Il considerando 5A della bozza di revisione del Trattato chiarisce che in Europa se ne è cominciato a parlare all’Eurogruppo di dicembre 2018. Secondo la legge Moavero, qualcuno sarebbe dovuto venire in aula a spiegarci che cosa si stesse per fare. Se lo ha fatto, nessuno se ne è accorto. Non mi ricordo se a quell’epoca conoscessi già la legge Moavero. Quello che so è che stavo lottando contro il muro di gomma dei soliti noti per difendere le banche di credito cooperativo da un destino evitabile, riuscendoci solo in parte (ma una parte significativa): purtroppo, noi siamo pochi e loro sono molti. Dietro a tutto non si può stare.

E veniamo al punto in cui siamo ora. A quanto pare di capire, la riforma del MES non è stata ancora siglata. Non è invece chiaro se il governo si sia attenuto all’impegno preso il 19 giugno 2019 (quindi non “tempestivamente”, come vorrebbe la legge) a:

“non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale; a promuovere, in sede europea, una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’Unione economica e monetaria – la riforma del trattato del Meccanismo europeo di stabilità (MES), dello Schema europeo di garanzia sui depositi (EDIS), e del budget dell’area euro -, riservandosi di esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto, favorendo il cosiddetto “package approach”, che possa consentire una condivisione politica di tutte le misure interessate, secondo una logica di equilibrio complessivo; a rendere note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato.”

Ci sono due passaggi parlamentari prima della riunione in cui la riforma dovrebbe essere approvata da Conte in sede europea: uno è l’affare assegnato in merito all’A.S. 322 (proposta di modifica del MES), che prevede, in fase istruttoria, l’audizione del ministro Gualtieri mercoledì prossimo, prima dell’Eurogruppo del 4 dicembre (dove si prendono le decisioni). Poi ci sono le già citate comunicazioni del premier Conte l’11 dicembre prima del Consiglio Europeo del 12 (dove si firmano le decisioni).

A quanto pare di capire, a quel punto saremmo arrivati alla fase “il Governo firma il Trattato” (avendo sostanzialmente eluso, o comunque non attivato tempestivamente, la fase “il Parlamento conferisce un mandato”).

Ad oggi non sappiamo se il Governo firmerà, perché la sua maggioranza è divisa su questo, essendo composta da un partito che il MES voleva liquidarlo, e da un partito che il MES lo ha invece fortemente voluto.

Poi, certo, resterà la fase “il Parlamento ratifica”.

Se state seguendo il ragionamento, dovreste capire quali siano le criticità di arrivare alla fase “ratifica”.

Intanto, una mancata ratifica è equivalente, in termini politici (non in termini procedurali) a un voto di sfiducia. Il Governo, certo, non è obbligato a dimettersi, ma se su un Trattato così importante viene sconfessato dal Parlamento, è chiaro che per non prenderne atto occorre portare la faccia di bronzo a un livello ancora superiore rispetto a quello dimostrato finora (a partire da quando il partito di maggioranza relativa abbandonò l’aula in occasione delle comunicazioni sulla TAV).

Poi, si crea un problema a livello internazionale, perché giustamente i partner europei (quelli del waterboarding) potrebbero legittimamente porsi delle domande sull’attendibilità di un Paese che manda un Governo a dire una cosa quando evidentemente il Parlamento ne pensa un’altra. Non sono un grande fan dell’argomento “in Europa dobbiamo essere credibbbili” (a renderci tali basta un qualsiasi museo diocesano), ma è indubbio che, mettendosi nei panni della controparte, avere una posizione e mantenerla (o modificarla per chiari e giustificati motivi) è essenziale perché negoziare abbia un senso. Un Governo che venisse sconfessato dal proprio Parlamento in Europa non verrebbe guardato con gli stessi occhi. Va anche detto che se la sarebbe cercata! Dopo aver visto come vengono trattati i Parlamenti (con la tecnica del mushroom management), le lamentele dei diversi funzionari che ho incontrato circa il fatto che “eh, noi abbiamo fatto il possibile, ma da Roma non ci arrivavano segnali chiari…” mi sembrano molto meno credibili: è un dato di fatto che alcuni di quelli che mi hanno fatto questo discorso sono poi gli stessi che mi hanno impedito di leggere un testo che, peraltro, avevo già letto per altre vie, impedendomi cioè di acquisire gli elementi necessari per fornire loro quei segnali della cui mancanza si lamentavano!

La sede per fare un sano gioco delle parti fra Parlamento e Governo quindi non è la ratifica, ma il negoziato, cioè l’Eurogruppo. In quella sede i paesi civili mandano ministri in grado di dire ai loro pari: “cari amici, quello che mi proponete è tanto bello, vi sono sinceramente grato dell’aiuto che volete dare alle vostre nostre banche, ma purtroppissimo il Parlamento da noi è sovrano come da voi, e io non ho mandato a concludere prima di ulteriori approfondimenti sul pacchetto che forse è un pacco”.

La Germania lo fa sistematicamente: perché noi no?

Mistero.

Sono quasi nove anni che ci poniamo questa domanda: non siamo riusciti a trovare la risposta, e forse non la troveremo mai. Intanto, ripetete con me: gli elettori eleggono il Parlamento, che dà un mandato negoziale al Governo, che conclude un Trattato, che il Parlamento è chiamato a ratificare.

E ora ripetetelo senza di me, e cercate di ricordarvi a che punto di questa storia siamo. Io vado ad occuparmene.

domenica 24 novembre 2019

Per farvi capire come funziona…

Come sapete, al termine di una lunga e faticosa trattativa con il dottor Conte, prima che questi si trasformasse nel signor Giuseppi, ero riuscito, col sostegno di autorevoli esponenti del Movimento 5 Stelle, a fargli prendere l’impegno di trasmettere alle Camere la proposta di modifica del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità. Di questa riforma, come già del Trattato, nulla si doveva sapere, e coerentemente, come vedete, i giornali fanno il possibile per ignorare la notizia. Tuttavia, visto che ora purtroppo in applicazione della Legge Moavero, che qualcuno ha testardamente cercato di riportare in vita, se ne dovrà parlare, sul sito del Senato finalmente trovate i testi in questa pagina.

Giusto così, per farvi capire come funziona: se cliccate sul primo link ottenete un documento in italiano che reca le sole proposte emendative, cioè le modifiche apportate alle singole parti del trattato originale, esposte con la tecnica del rinvio. Naturalmente, lette così, senza coordinarle col testo originale, molte modifiche non sono di immediata comprensione. Se invece cliccate sul secondo link ottenete un documento in inglese, inizialmente rubricato come A.S. 322, ora A.S. 322-bis, che reca il testo del Trattato come modificato dagli emendamenti proposti (o approvati? Questo non è chiaro). Insomma: quello che in italiano si chiamerebbe un “testo coordinato”. Naturalmente, se non si conosce a memoria il trattato, risulta difficile individuare nel testo coordinato quali siano le innovazioni.

Affrettandomi a dire che in questo i funzionari della mia Commissione non c’entrano nulla (il testo in inglese fu trasmesso dal ministro Tria mentre scoppiava la crisi di governo, cioè quando lui pensava che ormai nessuno potesse metterci la testa, quello in italiano inviato pochi giorni fa dal ministro Gualtieri), si potrebbe maliziosamente pensare che qualcuno stia facendo di tutto per impedire una lettura agevole del Trattato di cui non si deve parlare! Si potrebbe anche ironizzare sulle due strategie seguite per confondere le idee nella testa dei parlamentari, che di tempo per lo studio ne hanno poco, purtroppo: al Nord, dare un testo che fila, nella cui scorrevolezza le più insidiose fra le modifiche rischiano di passare inosservate; al Sud, dare i soli emendamenti, destinati a restare criptici se avulsi dal contesto.

In termini sostanziali, poco male. Chi segue il dibattito non ha certo bisogno di leggere i testi per sapere di che cosa si tratta: la sostanza era già nell’editto di Meseberg! E poi, volendo, il Senato ha ottimi uffici studi dove si lavora a predisporre testi a fronte.

Tuttavia, in Parlamento anche la forma è sostanza.

Supponiamo che qualcuno voglia discutere formalmente il testo ed evidenziare quali siano le sue novità, per poi discuterle. Bene, una di queste, come sapete, è la possibilità di usare il MES come common backstop (dispositivo di sostegno comune) al Fondo di risoluzione unico (chi non sa che cosa sia, trova qui una spiegazione). Proprio per questo, cioè perché entra in materia di salvataggi bancari, mi è stato possibile chiedere l’assegnazione del documento alla mia Commissione. Senza entrare nei dettagli, vi faccio osservare una cosa. Nel testo coordinato inglese, questa innovazione è introdotta nel comma 2 dell’art. 12. Negli emendamenti (in italiano) la stessa modifica è rubricata come comma 1-bis. Diverse tecniche legislative, o forse, chi sa, magari anche un diverso testo, perché nonostante il dottor Conte avesse promesso di aspettare che il Parlamento si esprimesse, il signor Giuseppi certamente ha lasciato che le cose andassero avanti: tanto poi arriva dicembre, la finanziaria, le vacanze di Natale, il Trattato passa e buonanotte! Certo, in altri Parlamenti sarebbe andata a finire così, non lo metto in dubbio. Ora le cose sono un po’ cambiate. Mi dispiace…

Tuttavia, al di là dell’attenzione che cerchiamo di mettere in quanto succede, il punto è che se un parlamentare italiano volesse dire che questa cosa gli sta, o non gli sta, bene, allo stato dell’arte, cioè data la disinvoltura con cui i Governi trattano il Parlamento, gli sarebbe materialmente impossibile farlo in modo preciso. Cosa mettiamo a verbale? Il dissenso (o consenso) con il comma 2 o con il comma 1.bis?

Bene. Credo che abbiate capito come funziona. Tatticucce, mezzucci… Provano a prenderti per sfinimento, asserragliati come sono nella prima classe del Titanic, dove, a giudicare da certe dichiarazioni, mi sembra che si cominci a sentire un po’ di umidità (l’accordatura dell’orchestrina ne risente). Ma mentre è indubbiamente possibile fermare un transatlantico con un iceberg (abbiamo esempi), ritengo altamente improbabile fermare la Storia con le mani: non possono riuscirci loro, e, naturalmente, non possiamo riuscirci nemmeno noi.

Mantenete la calma e state saldi.

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_2a parte, di Giuseppe Gagliano

Soggetti e tipologie della guerra economica

Dopo aver descritto le tre rivoluzioni della geopolitica, l’idea di potenza e la teoria del commercio, meritano di essere analizzati nel dettaglio i protagonisti e le forme assunte dagli scontri geo-economici. La nuova centralità dello Stato nelle relazioni internazionali, soprattutto quelle di tipo economico, è funzionale alla delimitazione del concetto di “guerra economica”, definibile come lo scontro fra nazioni mediante e ai fini dell’economia e non come competizione economica tout court, che riguarda piuttosto le imprese. Il rinnovato ruolo centrale dello Stato nell’economia è una tendenza recente, evidenziabile con il passaggio del millennio e ancora di più in seguito alla grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, mentre negli anni Ottanta e Novanta il neoliberalismo imperante considerava lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione finanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensificazione degli scambi internazionali (restano celebri, a questo proposito, le parole del Presidente Reagan: “il problema è lo Stato”). Lo Stato, con le sue prerogative anche in campo economico, è però resistito a questa svalutazione e, continuando a favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fiscale e infrastrutturale adeguato, ha posto solide basi per l’assunzione del suo ruolo odierno, quasi di “capo militare” risoluto che conosce il “mestiere delle armi”, ridonando morale e spirito di conquista all’economia e guidando le proprie truppe alla conquista di mercati e risorse. Esempi di amministrazioni statali che hanno incarnato o tuttora incarnano questo ruolo possono essere considerati il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria giapponese, emblema della potenza economica nipponica, e in Francia l’unione di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Governo e Ministero delle Finanze. Le truppe, invece, non sarebbero altro che le stesse imprese del settore privato, anche se i critici della guerra economica insistono nell’affermare che tale gerarchia di ruoli sia impossibile da realizzare, dato che la logica di potenza dello Stato e la logica di
profitto delle imprese non coinciderebbero. Tali critiche, d’altra parte, vengono screditate nel momento stesso in cui si considera che ciò che si verifica non è tanto un’alleanza diretta fra Stato e imprese, quanto piuttosto una ripercussione indiretta della forza di queste ultime sullo Stato in cui sono stabilite. S’intendono qui soprattutto le grandi multinazionali: un rapido sguardo ai principali Paesi d’origine delle prime 1.000 aziende manifatturiere mondiali nel 2007 dà conto in maniera piuttosto evidente, per non dire scontata, delle dinamiche appena evidenziate. Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 305 e 209 società multinazionali, distaccano di gran lunga gli altri Paesi occidentali (Francia, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera, Italia, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia e Lussemburgo) e i mercati emergenti (Corea del Sud, Taiwan, Cina, Brasile, India e Russia), i quali evidenziano però tassi di crescita nettamente superiori che potrebbero rovesciare, nei prossimi anni, questa classifica. Si tratta, naturalmente, di un impianto strategico che va a discapito delle istituzioni multilaterali, sviluppatesi soprattutto negli anni Novanta, con gli Stati occidentali che oggi preferiscono gli accordi bilaterali, lasciando il campo più libero a una dinamica di alleanze e di rapporti di forza, secondo quanto afferma Bernard Nadoulek. Di fatto, quello che è avvenuto è che lo Stato si è messo a capo di quelle tre rivoluzioni indicate nella sezione precedente del presente contributo, che sono state il motore del passaggio da una logica di Guerra Fredda a quella di guerra economica, piuttosto che svolgere un mero ruolo di garante delle regole del gioco, di controllore della correttezza dello stesso o di strumento di salvataggio in caso di sconfitta. Questo perché esso possiede delle prerogative che non sono alla portata delle imprese, per quanto grandi esse siano, soprattutto in termini di finanziamento a lungo termine e di investimenti lungimiranti in tecnologie costose e settori all’avanguardia. Non solo il finanziamento, ma anche la pianificazione di lunga durata è appannaggio dello Stato piuttosto che delle aziende: è il caso del Commissariato per la Pianificazione Economica in Francia, in vigore dal 1946 al 2006, e a livello europeo delle due strategie decennali rispettivamente di Lisbona, adottata nel 2000 dai Paesi membri dell’UE allo scopo di rendere l’Unione Europea
“la prima economia della conoscenza”, ed Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Vi è poi il caso di capi di Stato e di governo che incarnano personalmente ruoli di tipo economico: emblematici sono gli esempi carismatici di Margaret Thatcher e Bill Clinton, entrambi impegnatisi in prima persona in particolare con l’Arabia Saudita per la stipula di contratti di fornitura, e quello decisamente più duro di Putin, che usa deliberatamente il gas russo come arma allo stesso tempo di dissuasione e di pressione. Il ruolo delle imprese, in questo contesto di guerra economica, sarebbe dunque quello di “truppe”, al fronte se esportano in maniera consistente, nelle retrovie se mantengono saldamente il controllo di nicchie del mercato interno, di sfondamento se svolgono una parte consistente della loro attività in terra straniera. In quest’ultimo caso ci riferiamo soprattutto alle grandi industrie multinazionali, il cui peso e importanza economica vengono stabiliti non tanto in funzione del loro fatturato annuale, bensì sul grado di globalizzazione, cioè sulla loro capacità di conquistare mercati esteri. Questa abilità si può misurare considerando i valori che costituiscono l’indice di transnazionalità di un’azienda, nonché gli attivi detenuti al di fuori del Paese dove ha sede la casa madre, la percentuale di vendite realizzate all’estero e il numero di dipendenti che lavorano all’estero. Vi sono però alcuni elementi che non rendono quest’identificazione di tipo militare così automatica come sembrerebbe. Innanzitutto, la questione della nazionalità delle imprese, soprattutto le multinazionali: analizzando i listini dei principali indici borsistici degli Stati occidentali, ciò che salta immediatamente all’occhio è la quantità di capitali detenuta da residenti stranieri, che molto spesso supera la metà del totale delle società quotate nei listini stessi; in questi casi risulta quindi controverso affermare un’unica nazionalità per queste imprese. Eppure, il concetto di nazionalità è fondamentale per la definizione di guerra economica, poiché quest’ultima cessa di esistere se non vi è nessuna esigenza di difendere delle proprietà interne alla nazione stessa, sia in maniera diretta – con il possesso di quote azionarie da parte dello Stato, ad esempio –, sia in maniera indiretta – garantendone l’indipendenza nei confronti di imprese straniere. Gli Stati Uniti si
confermano, anche in questo caso, in prima linea nella difesa dei propri interessi interni, come hanno dimostrato due interventi dell’amministrazione Bush, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, per impedire l’acquisto di Unocal (azienda del settore petrolifero) da parte della China National Offshore Corporation e per costringere la Dubai Port World alla vendita della gestione di sei grandi porti americani a favore di AIG International, una società di servizi finanziari e assicurativi. D’altronde, vi sono almeno tre fattori che permettono di considerare nazionali imprese che, a tutti gli effetti, si fondano invece su capitali internazionali: in primo luogo il territorio dove originariamente la società è stata fondata e ha sviluppato la propria attività, costruendo legami con fornitori e clienti e operando sulla base di prassi non scritte derivanti da una determinata cultura nazionale; in secondo luogo, le norme e i rapporti istituzionali che permettono lo sviluppo dell’impresa, anch’essi dipendenti dal Paese in cui la stessa ha la sede principale; infine, l’ubicazione del centro decisionale, la cultura d’impresa e la nazionalità dei proprietari del capitale. Il secondo elemento che rende problematica l’identificazione automatica delle imprese come “truppe” della guerra economica è la convergenza d’interessi di Stati e imprese. Come già anticipato in precedenza, la logica di potenza degli Stati differisce dalla logica di profitto delle imprese, che spesso si dimostrano indifferenti alle necessità degli interessi nazionali. In realtà, al giorno d’oggi l’economia è forse la preoccupazione principale degli Stati, come pure i suoi operatori i quali, con la conquista di segmenti di mercato su cui vendere le merci prodotte, garantiscono il mantenimento di livelli adeguati di occupazione ed entrate costanti e sicure nelle casse dello Stato sotto forma di imposte, contribuendo così alla gestione degli equilibri sociali e al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, istruzione, giustizia, difesa, ecc.). Il fatto che alcune imprese generano occupazione e versano imposte in Stati esteri concorre però, almeno indirettamente, al controllo di un mercato straniero da parte di interessi nazionali ed è a servizio della politica di potenza dello Stato. Questa convergenza d’interessi spiega, in ogni caso, perché gli Stati cercano di promuovere e consolidare le
aziende leader a livello nazionale e internazionale nei diversi settori. Gli Stati Uniti si confermano al primo posto in varie classifiche: con il primato in settori quali quello aerospaziale e della difesa (Boeing Co.), quello farmaceutico e nella grande distribuzione (con Walmart che da diversi anni si conferma come la prima multinazionale mondiale per fatturato), sono lo Stato con il più alto numero di multinazionali di punta, seguiti dalla Germania, che detiene il primato nei settori automobilistico (Volkswagen) e chimico (BASF) e Cina, le cui imprese statali dominano soprattutto il settore petrolifero (Sinopec Group e China National Petroleum Corporation); l’Italia, grazie al primato di Exor, gode di una posizione di rilievo nel settore dei servizi finanziari. È palese, anche agli occhi della sempre più informata opinione pubblica, che l’apertura di filiali all’estero da parte delle multinazionali o la delocalizzazione della produzione – anche da parte di imprese di dimensioni inferiori – in virtù dei minori costi sostenuti non favorisce l’occupazione interna, indicatore di potenza economica (nonché di controllo sociale) tanto caro agli Stati. Partendo da questa constatazione, gli Stati hanno sviluppato due tipi di atteggiamento in merito: il più diffuso è cercare di incentivare le società straniere a investire sul proprio territorio con politiche fiscali e normative più vantaggiose (ambito in cui l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi occidentali, a causa delle inefficienze della triade burocrazia, fiscalità e giustizia civile), mentre il secondo è un tipo di approccio attuato, ancora una volta, dagli Stati Uniti della prima presidenza Clinton, con la proposta di sostenere le imprese presenti sul territorio statunitense a prescindere dalla loro nazionalità, allo scopo di creare o mantenere l’occupazione nazionale. La conclusione che si può trarre da quanto analizzato finora è dunque quella di uno scenario in cui imprese e Stati si muovono nell’arena della competizione economica non collaborando strettamente (anche perché si tratterebbe di una constatazione ingenua), ma utilizzando le rispettive armi e carte vincenti che, in taluni casi, contribuiscono e favoriscono le logiche di intervento delle une e degli altri. Considerato, d’altra parte, il ruolo che lo Stato sempre più deve assumere nel contesto delle relazioni economiche internazionali, destabilizzando l’impianto
liberale finora prevalente a livello globale, si può immaginare un futuro in cui Stati e imprese dovranno, a tavolino, trovare un equilibrio che tenga conto delle reciproche prerogative. La grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, a motivo della sua eccezionale gravità che coinvolge tutti i Paesi e per cui è impensabile che vi sia qualcuno che ne uscirà vincitore a discapito degli altri, favorisce nelle relazioni internazionali una dialettica in cui vengono rimesse al centro le logiche multilaterali dei grandi organismi, FMI e Unione Europea in testa, ma anche OMC e ONU. I Paesi del G20, che sostituirà gradualmente il G8 come principale forum economico delle nazioni più sviluppate, mantengono ufficialmente il dialogo come metodo di regolamentazione delle difficoltà economiche, anche perché l’urgenza della situazione economica sembra richiedere una risposta collettiva per salvare la finanza ed evitare la contrazione degli scambi, senza ricadere perciò in quel cortocircuito di natura economica generatosi negli anni Trenta del Novecento che portò agli avvenimenti storici mondiali e soprattutto europei che ben si conoscono. Tuttavia, la contraddizione è dietro l’angolo: se questo è, infatti, il discorso ufficiale mantenuto dagli Stati, la realtà dei fatti dimostra come la necessità di conservare le porzioni di mercato acquisite sia preponderante rispetto all’imperativo di solidarietà nel settore finanziario, aumentando così le tensioni già abbastanza elevate a causa della crisi. Quest’ultima, d’altra parte, se nella percezione generale è connotata esclusivamente in senso negativo, si rivela spesso una grossa opportunità per le imprese che le sopravvivono di conquistare nuovi “territori” rimasti sprovvisti di fornitori (in Francia, esse sono sostenute in questo tipo di attività da Ubifrance, l’Agenzia francese per lo Sviluppo Internazionale delle Imprese, di cui il corrispettivo italiano è l’Agenzia ICE). Ecco che torna dunque la logica di guerra economica, che ci aiuta ancora una volta a comprendere atteggiamenti che potrebbero sembrare discordanti, se non addirittura schizofrenici, e che devono invece essere letti come l’evoluzione dei rapporti postGuerra Fredda, dove le alleanze non più militari consentono di non sentirsi
vincolati a costo della vita ai propri partner, ma addirittura di considerarli dei concorrenti commerciali e di trattarli di conseguenza. Il mondo post-bipolarismo, quindi, non è più un unico scacchiere dove solo due giocatori muovono di volta in volta le loro pedine, ma è composto di numerosi scacchieri sovrapposti dove si conducono partite spesso legate le une alle altre. Si potrebbe affermare che resta valido il concetto di multipolarismo adottato per definire le relazioni internazionali successive alla fine della Guerra Fredda, benché non vada interpretato in senso idilliaco e come orizzonte di una definitiva concordia fra i popoli, bensì in senso di guerra economica e come scena su cui gli Stati-attori assumono sempre più i ruoli ambivalenti di partner/concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario, che si escludono a vicenda. Secondo questa lettura, ai due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti tre blocchi: il primo sarebbe lo spazio di potenza ancora teorica ma in via di erosione progressiva del mondo occidentale, eccezion fatta forse per gli Stati Uniti; il secondo sarebbe l’ampio spazio di manovra delle nuove potenze, in continua (anche se al giorno d’oggi rallentata) espansione anche per quanto riguarda il numero dei Paesi che ne farebbero parte; il terzo, infine, corrisponderebbe allo spazio di sopravvivenza dei Paesi non compresi nei due blocchi precedenti, un nuovo ipotetico Terzo Mondo. L’analisi che i due esperti Christian Harbulot e Didier Lucas conducono a proposito delle strategie di potenza fino al 2020 conferma tuttavia la generale crisi del multilateralismo e la riaffermazione della sovranità e della potenza degli Stati nazionali. È opportuno ribadire che le alleanze interne ai tre nuovi blocchi di cui abbiamo appena presentato la proposta non hanno il carattere necessario delle passate alleanze, anzi vi sono collegamenti anche molto stretti fra Paesi che integrano blocchi diversi. Si pensi, ad esempio, alla complessità del rapporto CinaUSA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa del finanziamento del debito pubblico statunitense tramite l’acquisto di buoni del Tesoro americano, da un lato, e dei consistenti investimenti diretti all’estero su cui si sostiene la
crescita del gigante asiatico, dall’altro. Le analisi, in questo senso, sono ambivalenti: c’è chi sostiene che la Cina non si accontenterà del secondo posto a livello mondiale e che fin d’ora, tramite la dipendenza economica e il trasferimento di tecnologia, mostra ciò di cui sarà capace nelle offensive di una futura, probabile guerra del Pacifico; c’è chi invece legge con maggiore preoccupazione l’alleanza strategica con l’India sulle alte tecnologie, che potrebbe mettere in scacco le potenze occidentali sprovviste di una simile arma. Nonostante tutto, anche tenendo conto di questi scenari in cui i Paesi emergenti avrebbero finalmente la meglio sul vecchio Occidente, gli Stati Uniti restano ancora l’incontestabile leader della globalizzazione, anche in virtù della loro sapiente difesa degli interessi nazionali.La guerra economica come mezzo al servizio delle strategie di potenza degli Stati, siano esse di natura geopolitica o geo-economica, può assumere tre diverse tipologie: guerra economica con finalità economiche; guerra economica con finalità politico-strategiche; guerra economica con finalità militari. La prima forma è l’oggetto di tutti i discorsi fatti finora, sarà ulteriormente approfondita nella sezione seguente e non è altro che l’indebolimento degli avversari sui mercati internazionali attraverso l’espansione della forza economica dei singoli Stati. La seconda forma si esplicita principalmente nelle sanzioni intese come danni economici imposti a un Paese affinché cambi politica. Si tratta di un’arma antica della guerra economica, di cui molti sono gli esempi recenti e contemporanei: le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia, quelle contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid e le più recenti e ancora in vigore “misure restrittive”, come vengono definite nel gergo dell’UE, a danno della Russia in risposta alla crisi in Ucraina, di carattere diplomatico (sospensione del G8), finanziario (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio) e più specificamente economico (divieti di importazione e di esportazione in settori specifici). La terza forma di guerra economica, dal momento che per lo più assume le forme della seconda, se ne differenzia esattamente per il fine; in questo caso, ne sono esempi le sanzioni economiche contro l’Iraq di
Saddam Hussein negli anni Novanta (successive alla prima guerra del Golfo ma interrotte con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1483 del 2003), l’embargo sulle armi imposto su tutti i territori dell’ex Jugoslavia pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Croazia (determinante per l’andamento della guerra in Bosnia-Erzegovina) e l’attuale embargo sulle armi nei confronti della Siria, causato dalle violente repressioni del governo che nel 2011 hanno dato avvio alla guerra civile ancora in corso. Sarebbe auspicabile pensare, come alcuni teorici sostengono, che la prima forma di guerra economica abbia soppiantato quasi completamente gli scontri bellici diretti, almeno fra le grandi potenze del pianeta. Tuttavia, la guerra cosiddetta tradizionale non si è davvero ritirata in favore della sua forma meno virulenta (e sicuramente meno sporca di sangue), come auspicano i liberali da ormai due secoli. Gli scenari di alcuni importanti conflitti degli ultimi vent’anni dimostrano piuttosto come ciò che avviene sia una sostanziale sovrapposizione e un intreccio fra guerra classica e guerra economica. Questa constatazione può essere verificata in quasi tutti i continenti: in Africa, ad esempio, le guerre che insanguinano la regione dei Grandi Laghi sono contemporaneamente lotte per il potere e per il controllo delle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo è emblematico con le regioni del Nord e Sud Kivu che, dopo il genocidio del Ruanda nel 1994, sono state il teatro di atrocità belliche permanenti causate da conflittualità di tipo etnico (scontro plurisecolare fra nilotici e bantu, esacerbato ma tenuto a bada in epoca coloniale ed esploso in seguito all’indipendenza dei Paesi dell’area) intrecciate a questioni territoriali (alcune etnie rivendicano le terre di grandi proprietari appartenenti ad altre etnie) e a ragioni di tipo economico (per il controllo delle zone di estrazione di rame, cobalto, diamanti, oro, zinco e altri metalli di base). In Europa, le motivazioni politiche della già citata crisi ucraina (opposizione russa all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, annessione della Crimea e proteste filorusse nelle altre regioni dell’Ucraina orientale) sono legate a doppio filo con motivazioni economiche più o meno evidenti, come la necessità per la Russia di mantenere il controllo del porto di Sebastopoli
(fondamentale per i suoi traffici commerciali), l’importanza di Kiev sul mercato internazionale dei cereali (secondo esportatore mondiale nel 2014) e la sua posizione strategica come corridoio di importanti gasdotti diretti verso il continente europeo. Il caso siriano, infine, è esemplificativo di quanto sul quadrante geopolitico mediorientale pesino considerazioni di tipo economico legate principalmente alle risorse energetiche: all’origine del mancato intervento occidentale in una guerra che infiamma ormai da cinque anni ci sarebbe la relativa povertà di idrocarburi e gas naturale dei giacimenti controllati da Damasco, che non motiverebbe quindi i costi ingenti di una mobilitazione

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