Cina: pensare alle gerarchie nel mondo moderno_di CHANTAL DELSOL

I professori dell’Istituto di Scienze Sociali della Fudan University (Shanghai) hanno organizzato un importante simposio, rinviato di due anni a causa della pandemia, su un tema importante e significativo sia nella filosofia politica che nelle relazioni internazionali: “Gerarchie e giustizia sociale nella mondo moderno”. Per lanciare e stimolare la riflessione, due dei ricercatori cinesi responsabili dell’organizzazione, Daniel A. Bell e Wang Pei, hanno scritto un’opera intitolata Just Hierarchy in English . L’argomentazione è questa: non c’è società senza gerarchie, e l’Occidente, che sostiene il contrario, naviga in mezzo a un sogno… Il libro inizia descrivendo il rito dei posti a tavola, sottinteso: in Occidente anche gli ospiti sono disposti a tavola secondo sottili gerarchie!

Per Zhang Weiwei, professore alla Fudan University e autore di The Chinese Wave , la cultura cinese promuove una meritocrazia che è l’altra faccia della democrazia, che ha senso solo per l’Occidente. Per noi qui è difficile capire come meritocrazia e democrazia sarebbero antitetiche. È perché per i cinesi la democrazia è una specie di anarchia dove tutto si fa a casaccio, con il pretesto che tutti sono capaci di fare tutto. Mentre la meritocrazia stabilisce un ordine, nella forma della gerarchia del sapere.

Gerarchia della conoscenza

Definirsi scuole dell’anarchia è però eccessivo, anche se, visto il sistema cinese di sorveglianza generalizzata, è facile esserlo. Dalla stagione rivoluzionaria, le società europee hanno sostituito le gerarchie di nascita con le gerarchie di merito. La sfiducia nei confronti delle gerarchie, che osserviamo sempre più viva nell’epoca dell’individualismo, sebbene già reale prima di esso, non si traduce necessariamente in un rifiuto delle gerarchie, di cui è ben nota la necessità, ma più da il desiderio di monitorarli e controllarli. Lo sappiamo per esperienza: è nella natura delle gerarchie correre verso l’ossificazione, perché favoriscono chi sta in alto, chi teme di perdere il posto. Il terrore di cadere dal loro piedistallo rappresenta tra le élite, ovunque e sempre, il pensiero più diffuso e più inquietante. Così fanno di tutto per stabilire la loro prerogativa e renderla inalienabile, da qui la tendenza ovunque presente al nepotismo: si cerca sempre di rendere trasmissibile la situazione gerarchica all’interno della famiglia. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec.X secolo cinese la preoccupazione dell’imperatore che poi stabilì il cosiddetto sistema a nove ranghi, per consentire alle famiglie di bassa estrazione di accedere ai ranghi più alti. Interesse storico permanente in tutte le civiltà. Le società occidentali hanno lavorato fin dall’inizio, con vigilanza a volte nevrotica, per controllare il potere. Per questo, ci sono diversi mezzi. Le gerarchie possono essere rese temporanee, impedendo ai beneficiari di rango superiore di abituarsi ai loro ranghi, dandoli per scontati e abusandone. Possiamo stabilire una responsabilità dei gerarchi e renderli responsabili, vale a dire indebolire il loro piedistallo. I Greci della nascente democrazia erano così diffidenti nei confronti delle gerarchie da conferire gradi e status per brevi periodi di tempo, per evitare di abituarsi alla grandezza. Hanno istituito giochi di ruolo per le magistrature, ed è anche accaduto, nei primi tempi della democrazia, che si tentasse di imporre questo principio ai comandanti militari. Il che era ovviamente una sciocchezza e il modo migliore per perdere le guerre, e non è durato, ma è comunque significativo. Inoltre, i magistrati greci erano responsabili della loro gestione, e costantemente sotto la minaccia di azioni legali e diffamazione. Il sistema del sorteggio (che inizialmente rifletteva il giudizio degli dei), utilizzato nell’antichità greca e nella Repubblica di Venezia, svolgeva un ruolo di limitazione delle gerarchie. L’instaurarsi di queste rigide limitazioni al potere dei gerarchi è un tratto permanente e originale di tutte le società occidentali, in cui le autocrazie appaiono come eccezioni e brevi parentesi (Luigi XIV, i despoti illuminati del Settecentosecolo, Napoleone, Hitler e i fascismi del Novecento ) La creazione di parlamenti ovunque traduce la volontà di attenuare la forza delle necessarie gerarchie. La meritocrazia fa parte di questa stessa preoccupazione. Inizialmente, sembra essere un sistema di controllo più equo rispetto al sistema di gioco di ruolo. Nel – 431 a.C. J.-C., lo dice già Pericle nel discorso della guerra del Peloponneso:“Il nostro regime ha preso il nome di democrazia perché il potere è nelle mani del maggior numero e non di una minoranza. Ma se, quanto alla risoluzione delle nostre particolari controversie, siamo tutti uguali davanti alla legge, è secondo il rango che ciascuno di noi occupa nella stima pubblica che scegliamo i magistrati della città, essendo i cittadini nominati in base al merito piuttosto che a rotazione . »

Tutti questi tentativi di controllo e persino di meritocrazia traducono la paura del potere di dominio delle gerarchie e, poiché sono necessarie, la costante volontà di tenerle sotto controllo.

Nascita della meritocrazia

Dopo la distruzione dei vecchi criteri gerarchici e poi la caduta delle utopie egualitarie del Novecento , si è imposta l’unica gerarchia possibile in questo periodo: la meritocrazia Va notato che il moderno modello meritocratico ci è arrivato dalla Cina, trasmesso attraverso i Gesuiti nel XVIII secolo . La Cina conosce questo sistema da secoli, è l’unico che permette ad una società di avere delle élite al di fuori delle vecchie aristocrazie feudali. In Cina, queste sono élite che dipendono interamente dal potere centrale. In Occidente, dove si è dispiegato negli ultimi due secoli, trasforma i criteri di eccellenza, ora individuati e verificati da prove e concorsi.

Tuttavia, negli ultimi cento anni, la meritocrazia è stata fortemente criticata da diversi autori occidentali. Un libro dell’inglese Michael Young aveva già, fin dal secondo dopoguerra, messo in luce le profonde falle di questo sistema dato per i soli giusti. Il suo vizio intrinseco è che rivela troppo chiaramente la naturale disuguaglianza tra gli uomini. La gerarchia del merito riporta ciascuno a ciò che vale veramente e lascia loro la certezza della loro totale responsabilità personale in ciò che spetta a loro – e soprattutto, in ciò che non spetta a loro. È l’illusione dell’uguaglianza che questo sistema abolisce, e Young lo chiarisce:“L’ingiustizia che governava l’educazione ha permesso alle persone di mantenere le proprie illusioni e la disuguaglianza di opportunità all’inizio ha favorito il mito dell’uguaglianza degli uomini [2] . »Chi si trova in fondo alla scala non può nemmeno dire a se stesso che lì sta subendo un’ingiustizia, poiché questa posizione degradante è dovuta unicamente al suo demerito. In altre parole, criticando le gerarchie di merito, è il sogno di uguaglianza che vorremmo salvare, se non riusciamo a realizzarlo… In fondo, la gerarchia di merito sarebbe troppo giusta, nel senso che metterebbe ciascuno al suo giusto posto che diventerebbe insopportabile per quelli sottostanti. Ciò che conta qui è l’autostima. Partiamo anche dal principio piuttosto convincente che giudicare un individuo in base al solo merito intellettuale è del tutto insufficiente: tante altre qualità fanno la ricchezza dell’individuo! In altre parole, l’individuo in questione rischierà di perdere l’autostima per un giudizio non falso, ma fin troppo parziale.La tirannia del merito [3] . Le sue argomentazioni fanno eco in gran parte a quelle di Michael Young. Descrive la folle pressione esercitata sui giovani nella società del merito e la desolazione dei “morti di disperazione” (Angus Deaton). Si rammarica di questa “crudele etica del successo  ” , [4] sostenendo che nella vecchia società aristocratica, le classi superiori trattavano le classi inferiori con più rispetto di quanto non facciano oggi. Gli si potrebbe obiettare che questo rispetto dei grandi per i piccoli era dovuto solo alla morale cristiana, ed è la perdita della morale cristiana molto più che l’avvento della meritocrazia che suscita oggi il disprezzo dei grandi per i piccoli.

La meritocrazia, fondata sull’intelligenza, misurata sulla concorrenza, costituisce per l’Occidente un ritorno al modello platonico, e una subdola messa in discussione delle sue scelte originarie, perché tende a tener conto solo della razionalità. Si crede che il merito intellettuale sia sufficiente per governare. Michael Young, dispiaciuto di vedere il QI impostato come il valore supremo della qualità di un individuo, si chiedeva perché non si potesse dare valore piuttosto alla gentilezza o alla sensibilità, al coraggio, ecc. Non aveva pensato che queste qualità umane trasformate in criteri di valori avrebbero poi generato società di ordine morale, tipo Savonarola. L’unico criterio accettabile in una società che vuole essere democratica non è l’intelligenza razionale, che dà origine a epistocrazie inevitabilmente antidemocratiche, questo è buon senso elogiato da Chesterton. Cristoforo Lasch[5] ha criticato la meritocrazia, prendendo in considerazione solo l’intelligenza, per il fallimento della civiltà. Emargina, diceva, le qualità umane: manca di tutto.

 Hong Kong: il potere della Cina si è risvegliato 

La gerarchia nelle relazioni internazionali

Qualche osservazione sulle gerarchie nelle relazioni internazionali. Finché l’Occidente è stato colonizzatore, ha pensato al mondo in modo paternalistico, stabilendo gerarchie di civiltà tra sé e gli altri. Le società occidentali non erano platoniche al loro interno, piuttosto svilupparono un modello di autonomia che avrebbe portato alle democrazie moderne, ma la visione della superiorità del loro modello le portò a trattare le altre culture come bambini non ancora del tutto sviluppati (seguendo in questo la modello dell’antica Grecia che guardava i Barbari con disprezzo e paternalismo). Oggi le grandi autocrazie portatrici di un modello paternalistico/platonico, che si tratti della Russia o della Cina, stabilire a livello globale le stesse gerarchie familiari che governano l’interno delle loro società. Così come considerano bambini i loro sudditi, considerano bambini gli Stati più deboli che si impegnano a conquistare (qualunque sia il tono di questa conquista: militare, ma il più delle volte economico e culturale). Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive : Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive : Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive :“La Russia non vince, unisce. Lei procede per amore. Ama la Georgia, i paesi baltici, la Finlandia, la Polonia che sono venuti da lei come si torna alla casa di famiglia. Solzhenitsyn non capiva il desiderio di emancipazione dell’Ucraina: la Russia amava maternamente l’Ucraina; quindi perché? Perché polacchi, ucraini e altri sanno nel profondo cosa significa questo amore e lo temono ancor più del dominio assoluto. La Russia vuole convertirsi a se stessa. Come la Chiesa, vuole essere amata. Attaccarlo è considerato un sacrilegio »

Qui vediamo un modo paternalistico di comportarsi con gli stati più deboli, che imita il paternalismo gerarchico stabilito all’interno della società. Ritroviamo lo stesso atteggiamento descritto tra i russi da Besançon, leggendo le descrizioni del cinese Tianxia [7]. Nelle relazioni internazionali, la Cina si comporta in modo paterno verso i Paesi più deboli, amandoli, aiutandoli e governandoli con fermezza. I Tianxia vedono il mondo come una vasta famiglia di cui la Cina sarebbe il padre e la madre, come il governo cinese per il suo popolo. Si presume che gli stati forti abbiano delle responsabilità nei confronti degli stati deboli, e la nozione di win-win qui è feudale/paterna: “Io ti servo, tu mi proteggi. In un sistema di questo tipo, gli effetti perversi dell’autorità sono controllati dall’educazione dell’autocrate (come in tutte le autocrazie nel tempo e nello spazio – da noi anche le autocrazie delle monarchie assolute erano contenute, almeno in linea di principio, dall’educazione del il principe, mentre nelle democrazie gli effetti perversi del potere sono controllati da controlli ed equilibri). Sotto il Tianxia, ​​il mondo è una famiglia unificata da un buon leader, “che porta il cuore dei più piccoli”. Il padre deve essere buono, seguire i riti, applicare per primo i propri principi per dare l’esempio. È l’eterno modello di un buon padre. Per noi, e sempre di più, il modello platonico è suscettibile di effetti perversi troppo gravi per poterlo difendere impunemente: scommette sulla moralità del leader, e ciò ci sembra ingenuo (che la recente scandali di pedofilia, sia in famiglia che nella Chiesa, rivelano con calma). Crediamo che ovunque il potere debba essere monitorato dal basso per evitare questi effetti perversi. Questo è ciò che chiamiamo democrazia.

Le gerarchie esistono ancora, ma variano tra le società. In generale, le società olistiche stabiliscono le loro gerarchie per il bene delle comunità, secondo giustificazioni estrinseche all’individuo. Mentre le società individualiste stabiliscono gerarchie secondo la loro idea di giustizia tra gli individui, in generale sono costantemente costrette a giustificarle.

Pur mutando i criteri culturali, possiamo definire un criterio universale di giusta gerarchia? Daniel Bell e Wang Pei lo dicono nel loro libro, e io li seguo su questo punto: per i moderni che siamo, le gerarchie non devono includere la violenza, e non devono essere fissate per sempre.

[1] Tucidide, Guerra del Peloponneso , II, 37.

[2] La meritocracie mai 2033 , Futuribles, 1969, p. 155.

[3] Michel Albin, 2021.

[4] pag. 355.

[5] La rivolta delle élite , Climats, 1996.

[6] Contagions , Opere complete, Les Belles Lettres, 2018, p. 1451.

[7] Zhao Tingyang, Tianxia tutto sotto lo stesso cielo , Le Cerf, 2018.

https://www.revueconflits.com/chine-penser-les-hierarchies-dans-le-monde-moderne/

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Ucraina, 26a puntata_verso l’annientamento dell’esercito ucraino_con il col Douglas McGregor

Il colonnello McGregor continua nella sua lucida analisi dell’andamento del conflitto ucraino. Tutta la narrazione occidentale contrasta con gli elementi e le argomentazioni esposte da questo ufficiale. Il vicolo cieco in cui si sta cacciando la NATO la espone a decisioni drammatiche e catastrofiche. Qui la dudplicazione con sottotitoli in italiano della conversazione, tratta dal link originale https://www.youtube.com/watch?v=AZjQp8YA6UM . Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Questo è un punto di svolta repubblicano Di John Green

La prolungata lotta per il martelletto da speaker ha creato le circostanze per il cambiamento a Washington, specialmente nel partito repubblicano? Per la prima volta in oltre un secolo, ci sono voluti 15 turni di votazioni, lusinghe, compromessi e quasi una scazzottata per selezionare un presidente della Camera. Il MSM ha riferito allegramente dello “spettacolo di clown repubblicani”, prevedendo che il conflitto avrebbe diviso il partito. Hanno persino fantasticato che potesse risultare in un presidente democratico, in una Camera dei rappresentanti repubblicana a maggioranza. Che dolce vittoria sarebbe. Bene, i repubblicani non si sono sciolti, i democratici non hanno tirato fuori un ribaltamento e il MSM era cieco a qualcosa di molto più significativo.

I Democratici hanno fatto un casino, di nuovo. Hanno avuto l’opportunità di scegliere il tipo di oratore con cui avrebbero voluto lavorare e l’hanno sprecata. Se avessero avuto i loro cappucci pensanti, si sarebbero resi conto che era a loro vantaggio votare per Kevin McCarthy, il repubblicano. Probabilmente avrebbero anche potuto negoziare alcune concessioni da McCarthy per il loro sostegno, perché voleva il lavoro davvero, davvero tanto. Se i Democratici lo avessero fatto, avrebbero potuto trascinare McCarthy oltre il traguardo, e lui sarebbe diventato il portavoce nonostante la resistenza nel suo stesso partito, prima che dovesse fare concessioni a quella resistenza.

Sarebbe stato tutto come al solito alla Camera. La leadership repubblicana parlerebbe in grande, ma farebbe poco, proprio come piace ai democratici. La base repubblicana diventerebbe disillusa, frustrata e inizierebbe a pensare di saltare le prossime elezioni. Continuerebbe a non esserci alcuna responsabilità per le promesse non mantenute. Il ritorno al controllo democratico richiederebbe una breve attesa di due anni. Per i democratici sarebbe come una bella vacanza lunga prima di tornare al lavoro.

Ma invece, i Democratici hanno votato all’unanimità e in modo coerente per qualcuno che non sarebbe mai stato votato presidente, indipendentemente dal numero di turni di votazione avvenuti. La loro base rabbiosa preferirebbe vedere gesti di sfida infantili piuttosto che astute manovre tattiche. Cominciano a vedere il costo di quell’errore tattico.

Il Republican Freedom Caucus ha rifiutato di votare per Kevin McCarthy fino a quando non hanno ottenuto concessioni – e il ragazzo le ha ottenute. McCarthy desiderava così tanto il lavoro che era disposto a rinunciare a quasi tutto per ottenerlo. Il Freedom Caucus l’ha capito e ha giocato un magistrale gioco di pollo. Hanno molto. E quello che hanno ottenuto potrebbe finire per cambiare la mentalità dell’intero partito repubblicano.

Il Freedom Caucus ha ottenuto:

  • Una promessa di promuovere diversi atti legislativi conservatori
  • Un impegno per i vincoli fiscali
  • Indagini sulla corruzione dello stato profondo
  • E, cosa più significativa, le regole cambiano

Quelle modifiche alle regole includono cose come venire effettivamente al lavoro per svolgere il lavoro che gli elettori hanno eletto al Congresso e leggere i progetti di legge prima di votarli (sì, hanno davvero approvato progetti di legge senza leggerli per anni). Forse il cambiamento di regola più significativo è quello che consente a un singolo membro della Camera di chiedere un voto per rimuovere il Presidente. Se McCarthy esce dalla linea, possono ricominciare da capo la gara per il suo lavoro. Hanno la capacità di ritenere responsabile l’Oratore. Che nuovo concetto: responsabilità nel governo. Non credo che l’abbiamo mai visto.

Quindi, cosa succede quando il presidente McCarthy fa qualche passo a destra (politicamente e moralmente) e la sua popolarità esplode? Passerà dall’essere un ostaggio dei conservatori a un entusiasta sostenitore della loro agenda?

Sta cominciando a fare quei piccoli passi. Si sta preparando a rimuovere molti dei democratici più ripugnanti dai loro incarichi di commissione. La base è estasiata. Adam Schiff, Eric Swalwell e Ilhan Omar possono ringraziare San Fran Nan per aver stabilito quel precedente, un altro errore tattico.

Sta mantenendo la sua promessa di portare in aula i conti che la base vuole. I progetti di legge finora approvati dalla Camera includono tutto il necessario per dare ulcere ai Democratici.

  • Rescindere alcuni saldi messi a disposizione dell’Agenzia delle Entrate
  • Atto di protezione dei sopravvissuti all’aborto nati vivi
  • Legge sulla protezione della riserva petrolifera strategica americana dalla Cina
  • Istituzione del comitato ristretto sulla concorrenza strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese

Certo, questi progetti di legge saranno probabilmente eliminati al Senato o posti il ​​veto dal Presidente. Almeno il presidente sta facendo quello che ha il potere di fare: far registrare a tutti i democratici della Camera il sostegno all’uccisione di neonati (ovvero sopravvissuti all’aborto). Far sapere agli elettori di quei Democratici dove punta la bussola morale del loro rappresentante è anche una misura di responsabilità – no?

McCarthy sta persino parlando di rilasciare tutte le 14.000 ore di filmati di sicurezza dall’insurrezione del 6 gennaio di matti cosplay disarmati e fotografi selfie. Il panico sta prendendo piede tra i democratici. Apparentemente, non vogliono che il pubblico veda davvero cosa è successo quel giorno.

La base conservatrice sta iniziando a elogiare il presidente McCarthy, e lui lo adora. Qualche altro repubblicano imparerà dall’esperienza di McCarthy? Capiranno che è sicuro smettere di essere la moglie maltrattata della politica? Che possono reagire e vincere? I repubblicani capiranno finalmente che quando una parte vuole la libertà e l’altra la tirannia, non è il momento della cortesia e del compromesso? È il momento di combattere. Si renderanno conto che il successo di Trump non è stato un’anomalia? Il suo spirito combattivo è stato il modo in cui ha avuto successo – e loro possono fare lo stesso.

Quanto sarà diversa Washington se i repubblicani smettessero di fare la vittima, iniziassero ad ascoltare gli elettori e si comportassero senza paura per loro? So che è chiedere molto e non accadrà dall’oggi al domani. Ma stiamo vedendo quei piccoli passi. I prossimi due anni potrebbero essere molto interessanti, grazie a un colossale errore tattico di democratici troppo sicuri di sé.

John Green è un rifugiato politico del Minnesota, ora residente in Idaho. Ha scritto per American Thinker e per American Free News Network . Può essere seguito su Facebook o contattato all’indirizzo greenjeg@gmail.com .

Immagine:  Vikram Gupchup

IL COMPITO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

Qualche mese dopo l’insediamento del governo Berlusconi, la rivista
“Palomar” pubblicava un numero tematico su “La destra oggi”, con le
risposte di molti collaboratori, abituali e non.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza delle simili
“sfide” al governo Meloni

IL COMPITO PRINCIPALE

  1. Tra le molte cose che il centrodestra deve realizzare la principale – e ovviamente più difficile – è ricostruire lo Stato, intendendo per tale non solo gli apparati pubblici, ridotti per lo più, ad un insieme di burocrazie quasi sempre inefficienti e spesso rissose, ma l’ “idea” (e il concetto) di quello, che va smarrendosi anche e soprattutto per l’identificazione che, nella coscienza collettiva, se ne fa con il rovinoso spettacolo offerto dalle amministrazioni pubbliche. Dato il quale, il problema che si pone è, nello specifico, individuare quale ne sia – tra i molti – l’aspetto più importante, anche al limitato fine di non fare di questo intervento un trattato, di volume proporzionale all’entità dei disastri ereditati. Questo è, senza dubbio, la separazione che il tramonto della Repubblica ha in parte subito, ma in altra, prevalente, incentivato, tra governati e governanti e di cui fanno fede la crescente disaffezione elettorale e i referendum disertati, per citare solo gli indicatori più verificabili, e forse più importanti. Ed è evidente che tale disaffezione è stata coltivata alacremente, non solo per interesse, ma anche per mentalità, dalla sinistra. Ciò per più ragioni: il leninismo, è stato, nel XX secolo, la più compiuta e coerente espressione di una mentalità oligarchica, con un partito d’illuminati destinato a guidare le masse, inconsapevoli o poco consapevoli, alla costruzione della società senza classi; peraltro a una certa tecnocrazia di sinistra è naturale credere che la soluzione dei problemi politici, sociali ed economici sia attingibile con strumenti tecnici (mentre talvolta, spesso, è così, e talaltra no: in genere più sono realmente decisivi, meno si prestano a soluzioni “tecniche”); altro errore ricorrente è ragionare in termini di potere e poteri, facendo di tutto o questioni di amministrazione (più in basso), o di governo (più in alto), quando l’importanza di questi è relativa rispetto alle categorie “essenziali” della politica, come l’autorità, la legittimità, l’integrazione: ossia quelle che fondano un potere legittimo, consentito, e proprio per questo, più facilmente obbedito. Quest’ultimo errore è stato mutuato da un liberalismo decadente, e spesso inconsapevole dei propri presupposti: in effetti ragionare di poteri, prescindendo da ciò che li fonda, equivale a vagheggiare un potere autoreferenziale, che si sostiene da sé, senza l’ausilio di principi di legittimità, teocratico o democratico che siano; e così, non sollevato dall’alto, né sostenuto dal basso, si regge come il barone di Münchausen che si afferrava il codino per non sprofondare nella palude. Ma è certo che, se quel sistema è idoneo nelle favole, nel mondo reale il tonfo è assicurato. Ed è già avvenuto il 13 maggio: l’immensa concentrazione di potere che negli anni ’96-’98 ha denotato il regime dell’Ulivo è stata prima erosa a livello locale, poi ribaltata a livello nazionale. A conferma che un potere non sostenuto dal consenso “profondo”, è “una tigre di carta” di maoista memoria: rotocalchi, RAI, quotidiani, Parlamento, Procure, enti locali e sindacati, par condicio e soprattutto la federazione di burocrazie che si riconoscono nell’Ulivo non è riuscita ad evitare il rigetto dello stesso da parte della comunità nazionale.

Il primo servizio che il centrodestra può rendere alla nazione (ed a se medesimo, avendo un consenso molto superiore alla parte avversa), è di rimettere le cose a posto, garantendo che, d’ora in poi, chi governa abbia autorità e legittimità; che la legalità non sia uno slogan e un’arma selettivamente puntata contro gli oppositori, ma concretamente, e generalmente, applicata; che i funzionari dello Stato siano dei civil servants, e non un misto tra efori spartani  e monarcomachi (ugonotti o gesuiti). Ricostruire il tessuto di uno Stato-comunità, in cui alla separazione tra governanti e governati, si sostituisca la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce; ricondurre così ad unità (e riconciliare) i termini essenziali dell’unità politica, che come scriveva Proudhon, non possono “mai né essere assorbiti l’uno dall’altro, né escludersi”[1], è il compito principale.

  1. Agli albori del costituzionalismo moderno, dello Stato liberal-democratico borghese, era sottolineato il carattere di stabilità della legge, ed ancor di più della Costituzione; ciò rispondeva non solo all’esigenza di un diritto stabile, di applicazione prevedibile e “misurabile”, ma anche all’aspirazione ad un assetto istituzionale “ideale” e perfetto, razionale nello scopo di offrire un mezzo di soluzione ad ogni contingenza storica e ad ogni conflitto. Tale elemento, necessario, tendeva a porre in ombra l’altro aspetto – e funzione – della costituzione: di essere il “principio dinamico dell’unità politica” ovvero di dover coniugare stabilità e divenire, movimento e durata, consenso e potere, esistenza ed azione politica. Questo secondo profilo è stato evidenziato e posto in luce da pensatori politici, giuristi e filosofi, in particolare dallo scorcio del XIX secolo in poi. Renan, Hauriou, Schmitt, Smend, Gentile vi hanno contribuito: dalla definizione di Renan della Nazione come “un plebiscito di tutti i giorni”, alla concezione dell’istituzione di Hauriou[2]; dalla costituzione quale “principio del divenire dinamico dell’unità politica” di Schmitt [3], al giudizio di Gentile: “lo Stato – malgrado il suo nome – non è nulla di statico. E’ un processo. La sua volontà è una sintesi risolutrice di ogni immediatezza” [4]; fino alla tesi di Smend [5]. Ed è a Smend che dobbiamo la più approfondita e concreta teoria dell’integrazione come momento centrale dell’unità politica e della coesione comunitaria. Scriveva Smend che: “Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale, è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario” [6], e in un altro passo sostiene che: “La comunità, il gruppo, lo Stato non devono essere intesi come un Io collettivo riposante su se stesso, ma come la struttura unitaria della vita individuale, come dialettica che realizza e trasforma dinamicamente l’essenza del singolo e dell’intero” [7], e quindi “Esso, cioè, non è un intero immobile emanante singole espressioni di vita, leggi, atti diplomatici, sentenze, atti amministrativi, ma piuttosto esiste come tale solo in queste singole espressioni di vita, in quanto attivazioni di una connessione spirituale complessiva, e nelle ancora più importanti innovazioni e trasformazioni che hanno come oggetto esclusivo questa stessa connessione. Lo Stato vive ed esiste solo in questo processo di rinnovamento costante, di rigenerazione continua del vissuto” [8]
  2. Nel tramonto della “prima Repubblica”, e soprattutto nella sua fase terminale, cioè il regime dell’Ulivo, è stato fatto proprio l’inverso: si è prodotto e ricercato non “l’unione spirituale di volontà” ma la distribuzione del potere tra le oligarchie organizzate.

Basta dare i poteri necessari alle persone morali e competenti ri-sintetizzano gli idola del centro-sinistra, e le cose andranno a posto. Ma tale ragionamento non sta in piedi: non solo perché – e ciò è la ragione minore – il problema diviene in tal caso quali sono i poteri necessari e chi sceglie le persone morali e competenti. E con ciò ci si avvicina al nodo essenziale: ovvero del chi decide su necessità, moralità e competenza. Se è il “popolo”, il “potere maggioritario” di Hauriou, consenso ed integrazione si accrescono: se invece è un qualche sinedrio partitocratico-istituzionale, la cui maggiore sollecitudine è di escludere e rovesciare le scelte popolari, con i vari mezzi noti, dai ribaltoni in giù, l’uno e l’altro si riducono. Ma, più ancora, un tale ragionamento è concettualmente errato: a costituite una comunità, un’unità politica, necessari sono il governo e i governati, e il rapporto che s’instaura tra l’uno e gli altri. Lo Stato, questo ente dalle tante definizioni, prima di essere Stato-apparato, è Stato-comunità, e prima ancora un’idea, che vive nel (e del) rapporto tra i cittadini e tra questi e i governanti. Il problema dei poteri è importante, ma secondario rispetto a quelli: se assetto e distribuzione di questi fossero decisivi, sarebbero sufficienti a garantire l’unità ed effettività del comando. La storia mostra che non è così: sono legittimità ed autorità a garantire che l’assetto dei poteri vigente sarà accettato dai “sudditi”, e non l’inverso, che sia un “buon” assetto di poteri  ad assicurare e sostenere un’autorità legittima.

Per il consenso popolare, così sottovalutato, si è pensato invece che bastassero articolesse, interviste al Tg, o nei casi più importanti, i dibattiti nei vari Sciuscià e simili. I governati, in tale visione, avevano la funzione dello spettatore distaccato, dell’osservatore che plaude o dissente, ma, per carità, senza agire; l’essenziale non era la partecipazione ma che non disturbassero i manovratori (e la manovra). Una rappresentazione del popolo molto politically correct. Un esempio chiaro e sintetico ce l’ha dato l’on. Rutelli, in occasione del referendum del 7 ottobre 2001 (sulla riforma federale della Costituzione, fatta dall’Ulivo sul piede di partenza del governo) disertato da circa due terzi del corpo elettorale a conferma della solenne indifferenza verso le “realizzazioni” del centro-sinistra. Diceva, tutto contento, il (soi-disant? ) capo dell’opposizione “Ottimo il risultato del referendum, una prova di maturità e serietà” (Libero 9 ottobre 2001)” (il corsivo è nostro).

In altre parole il coinvolgimento dei governati è un plus, un “optional”, irrilevante; l’essenziale è osservare le forme di procedimenti legalmente validi: con ciò si pensa all’impossibile, quanto perseguita surrogazione della legalità alla legittimità. Che il problema reale  – e decisivo –   non sia quello dell’osservanza delle forme, ma del far osservare i comandi, e che questo è tanto più facile quanto più i destinatari dei medesimi lo fanno spontaneamente e generalmente; che, come scriveva Hauriou vi sia una “sovranità di sudditanza” che si esercita non solo all’intervenire ogni tanto con rivoluzioni, sommosse e così via, ma, assai più frequentemente, col non obbedire, è cosa che non rientra nella Weltanschauung – per così dire – ulivista.

La quale, di converso, dev’essere la (prima) preoccupazione del centro destra. Non che ne manchino delle altre, d’indubbia importanza: ma questa è decisiva, ed osservarla costituisce, in se, un fatto positivo e determinante, perché realmente costitutivo dell’unità politica . Certo, avere un governo stabile e in condizione di governare; un’amministrazione efficiente, fornitrice di servizi e non consumatrice di risorse; una giustizia che non sia come la rana di Galvani, generalmente nell’immobilità della morte ma, ogni tanto agitantesi per la “scossa” del “caso sociale” (o del nemico politico), è determinante per il futuro dell’Italia: ma ricostituire l’integrazione della comunità lo è di più. Senza la quale i due “estremi” necessari e indefettibili dell’unità politica, stanno o in opposizione espressa  – con pericolo grave e pressante per la comunità – o in una evidente indifferenza, foriera di decadenza, spesso lunga, ma ancor più, priva di sbocchi.

In mezzo, tra governanti e governati, si trova l’ampia gamma dei poteri “forti”, comprese le “cupole” delle varie corporazioni, la cui reazione – aperta ed espressa, o più spesso occulta e indiretta – è, ed ancor più sarà, dura, proporzionale al ridimensionamento (se non alla “detronizzazione”) di questi che una maggiore integrazione tra governanti e governati comporta. Ma è un rischio che bisogna correre. Non foss’altro perché una delle lezioni più evidenti dell’ultimo quinquennio è che, ormai, non vale più la regola dell’on. Andreotti che “il potere logora chi non ce l’ha”: all’Ulivo l’overdose di potere – pari, se non superiore a quella della DC (e alleati) negli anni cinquanta nel ’96- 2001 non ha portato (o mantenuto) un voto in più. Voto che forse avrebbero potuto ottenere, ove avessero governato meglio, il che avrebbe significato scontentare (almeno) alcune corporazioni forti: avendo preferito il consenso delle quali, non hanno guadagnato quello del corpo elettorale. E questo dev’essere di conforto – e monito – al centro destra, ad onorare il patto col popolo, anche a scapito della tregua con le corporazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] P.J. Proudhon Contradictions politiques. Théorie du mouvement constitutionnel au XX siècle. Paris 1952, p. 215.

[2] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, laddove scrive “dell’organizzazione formale dell’ordine sociale concepito come un sistema animato d’un movimento lento ed uniforme”, op. cit., p. 71 ss.

[3] Verfassungslehre, trad. it., p. 18, Milano 1983, cui si rimanda

[4] Genesi e Struttura della società, ed. Firenze 1987, p. 103

[5] “Elezioni, dibattiti parlamentari, formazioni di gabinetto, referendum popolari: sono tutte funzioni integrative. In altre parole, non trovano la loro giustificazione, come insegna – per la sua origine giuridica – la teoria dominante degli organi e delle funzioni dello Stato, soltanto nel fatto che i rappresentanti dello Stato e del popolo in quanto intero vengono insediati” ma piuttosto “esse integrano, cioè creano di volta in volta, per parte loro, l’individualità politica del popolo nel suo insieme e perciò producono il presupposto del suo attivarsi in modo comprensibile sotto l’aspetto giuridico e materialmente positivo o negativo sotto quello materiale”; e prosegue “il diritto elettorale deve condurre in primo luogo alla formazione di partiti e quindi alla produzione di maggioranze, e non semplicemente di singoli deputati. Nello Stato parlamentare il popolo non è già in sé politicamente presente e viene poi ulteriormente qualificato, di elezione in elezione, in una particolare direzione politica: e da una formazione di gabinetto all’altra, esso ha invece una sua esistenza come popolo politico, come unione sovrana di volontà, principalmente in virtù di una sintesi politica specifica in cui soltanto giunge sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”, v. Rudolf Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 93-95.

[6] Op. cit. p. 111

[7] Op. cit. p. 272

[8] Op. cit. p. 272

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Guerra russo-ucraina: La pompa di sangue mondiale, di Big Serge

Guerra russo-ucraina: La pompa di sangue mondiale

A poco a poco, e poi improvvisamente

Ferro, Cenere e Sangue

Dalla decisione a sorpresa della Russia di ritirarsi volontariamente dalla sponda occidentale di Kherson nella prima settimana di novembre, ci sono stati pochi cambiamenti drammatici nelle linee del fronte in Ucraina. In parte, ciò riflette il prevedibile clima del tardo autunno nell’Europa orientale, che lascia i campi di battaglia impregnati d’acqua e intasati di fango e inibisce notevolmente la mobilità. Per centinaia di anni, novembre è stato un brutto mese per tentare di spostare gli eserciti su qualsiasi distanza significativa, e come un orologio abbiamo iniziato a vedere video di veicoli bloccati nel fango in Ucraina.

Il ritorno della guerra posizionale statica, tuttavia, riflette anche l’effetto sinergico dell’aumento dell’esaurimento ucraino insieme all’impegno russo a logorare e privare pazientemente la restante capacità di combattimento dell’Ucraina. Hanno trovato un luogo ideale per raggiungere questo obiettivo nel Donbas.

Nel romanzo di Ernest Hemingway, The Sun Also Rises , a un personaggio un tempo ricco, ora sfortunato, viene chiesto come sia andato in bancarotta. “Due modi”, risponde, “gradualmente e poi all’improvviso”. Un giorno potremmo chiedere come l’Ucraina ha perso la guerra e ricevere più o meno la stessa risposta.

Verdun Redux

È lecito affermare che i media del regime occidentale hanno fissato uno standard molto basso per i reportage sulla guerra in Ucraina, data la misura in cui la narrativa mainstream è disconnessa dalla realtà. Nonostante questi standard bassi, il modo in cui la battaglia in corso a Bakhmut viene presentata alla popolazione è davvero ridicolo. L’asse Bakhmut viene presentato al pubblico occidentale come una perfetta sintesi di tutti i tropi del fallimento russo: in poche parole, la Russia sta subendo perdite orribili mentre lotta per catturare una piccola città con un’importanza operativa trascurabile. I funzionari britannici, in particolare, sono stati molto espliciti nelle ultime settimane insistendo sul fatto che Bakhmut ha poco o nessun valore operativo .

La verità è letteralmente l’opposto di questa storia: Bakhmut è una posizione chiave di volta operativamente critica nella difesa ucraina, e la Russia l’ha trasformata in una fossa mortale che costringe gli ucraini a sacrificare un numero esorbitante di uomini per mantenere la posizione fino a quando possibile. In effetti, l’insistenza sul fatto che Bakhmut non sia operativamente significativo è leggermente offensivo per il pubblico, sia perché una rapida occhiata a una mappa lo mostra chiaramente nel cuore della rete stradale regionale, sia perché l’Ucraina ha gettato un numero enorme di unità nel lì davanti.

Facciamo un passo indietro e consideriamo Bakhmut nel contesto della posizione complessiva dell’Ucraina a est. L’Ucraina ha iniziato la guerra con quattro linee difensive operabili nel Donbass, costruite negli ultimi 8 anni sia come parte integrante della guerra in ebollizione con LNR e DNR, ma anche in preparazione di una potenziale guerra con la Russia. Queste linee sono strutturate attorno ad agglomerati urbani con collegamenti stradali e ferroviari tra loro e possono essere approssimativamente enumerate come segue:

Linee difensive dell’Ucraina a est (mappa da me)

Il Donbas è un luogo particolarmente adatto per costruire formidabili difese. È altamente urbanizzata e industriale (Donetsk era l’oblast più urbano dell’Ucraina prima del 2014, con oltre il 90% della popolazione che viveva nelle aree urbane), con città e paesi dominati dai tipici robusti edifici sovietici, insieme a prolifici complessi industriali. L’Ucraina ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio a migliorare queste posizioni e gli insediamenti in prima linea sono pieni di trincee e postazioni di fuoco chiaramente visibili nelle immagini satellitari. Un recente video dall’asse Avdiivka dimostra l’estensione delle fortificazioni ucraine.

Quindi, rivediamo lo stato di queste cinture difensive. La prima cintura, che correva all’incirca da Severodonetsk e Lysychansk a Popasna, è stata spezzata in estate dalle forze russe. La Russia ha ottenuto un importante passo avanti a Popasna ed è stata in grado di iniziare il rollup completo di questa linea, con la caduta di Lysychansk all’inizio di luglio.

A questo punto, la linea del fronte si trova direttamente su quella che ho etichettato come la 2a e la 3a cintura difensiva ucraina, ed entrambe queste cinture ora sanguinano pesantemente.

La cattura di Soledar da parte delle forze di Wagner ha interrotto il collegamento tra Bakhmut e Siversk, mentre intorno a Donetsk, il sobborgo fortemente fortificato di Marinka è stato quasi completamente ripulito dalle truppe ucraine, e la famigerata posizione chiave di volta ucraina ad Avdiivka (il luogo da cui bombardano la popolazione civile della città di Donetsk) viene fiancheggiata da entrambe le direzioni.

La linea del fronte intorno ad Avdiivka (mappa per gentile concessione di MilitaryLand)

Queste posizioni sono assolutamente fondamentali per l’Ucraina. La perdita di Bakhmut significherà il crollo dell’ultima linea difensiva che ostacola Slavyansk e Kramatorsk, il che significa che la posizione orientale dell’Ucraina si contrarrà rapidamente fino alla sua quarta (e più debole) cintura difensiva.

L’agglomerato di Slavyansk è una posizione di gran lunga peggiore da difendere per l’Ucraina rispetto alle altre cinture, per diversi motivi. Innanzitutto, essendo la cintura più a ovest (e quindi la più lontana dalle linee di partenza di febbraio 2022), è la meno migliorata e meno fortificata delle cinture. In secondo luogo, molte delle “cose ​​buone” intorno a Slavyansk si trovano a est della città, comprese sia le alture dominanti che le principali autostrade.

Tutto questo per dire che l’Ucraina è stata molto ansiosa di mantenere la linea Bakhmut, poiché questa è una posizione di gran lunga preferibile da mantenere, e di conseguenza ha riversato unità nel settore. I livelli assurdi dell’impegno delle forze ucraine in quest’area sono stati ben notati, ma proprio come un rapido ripasso, fonti ucraine pubblicamente disponibili individuano almeno 34 brigate o unità equivalenti che sono state schierate nell’area di Bakhmut. Molti di questi sono stati schierati mesi fa e sono già distrutti, ma per l’intero arco della battaglia in corso questo rappresenta un impegno sorprendente.

Unità ucraine intorno a Bakhmut (mappa per gentile concessione di MilitaryLand)

Le forze russe, principalmente le unità Wagner PMC e LNR, stanno lentamente ma inesorabilmente facendo crollare questa roccaforte ucraina facendo un uso liberale dell’artiglieria. A novembre, l’ex consigliere di Zelensky Oleksiy Arestovych ha ammesso che l’artiglieria russa sull’asse Bakhmut godeva di un vantaggio di circa 9 a 1 sul tubo, il che sta trasformando Bakhmut in una fossa mortale.

La battaglia viene presentata in occidente come quella in cui i russi – solitamente stereotipati come soldati detenuti impiegati da Wagner – lanciano assalti frontali alle difese ucraine e subiscono perdite orribili nel tentativo di sopraffare la difesa con numeri puri. Il contrario è molto più vicino alla verità. La Russia si sta muovendo lentamente perché appiana le difese ucraine con l’artiglieria, poi si spinge avanti con cautela in queste difese polverizzate.

L’Ucraina, nel frattempo, continua a incanalare unità per riempire più o meno le trincee con nuovi difensori. Un pezzo del Wall Street Journal sulla battaglia, mentre cercava di presentare una storia di incompetenza russa, includeva accidentalmente un’ammissione di un comandante ucraino sul campo che diceva: “Finora, il tasso di cambio delle nostre vite per le loro favorisce i russi. Se continua così, potremmo esaurirci”.

I paragoni sono stati fatti liberamente (e non posso prendermene il merito) con una delle battaglie più infami della prima guerra mondiale: la sanguinosa catastrofe di Verdun. Sebbene non sia il caso di esagerare il valore predittivo della storia militare (nel senso che una conoscenza approfondita della prima guerra mondiale non consente di prevedere gli eventi in Ucraina), sono comunque un grande appassionato di storia come analogia, e lo schema tedesco di Verdun è un’utile analogia per ciò che sta accadendo a Bakhmut.

La battaglia di Verdun fu concepita dall’alto comando tedesco come un modo per paralizzare l’esercito francese attirandolo in un tritacarne preconfigurato. L’idea era di attaccare e conquistare un’altura difensiva cruciale, un terreno così importante che la Francia sarebbe stata costretta a contrattaccare e tentare di riconquistarla. I tedeschi speravano che la Francia impegnasse le proprie riserve strategiche in questo contrattacco in modo che potessero essere distrutte. Sebbene Verdun non sia riuscito a indebolire completamente la potenza di combattimento francese, è diventata una delle battaglie più sanguinose della storia del mondo. Una moneta tedesca che commemorava la battaglia raffigurava uno scheletro che pompava sangue dalla terra: una metafora visiva agghiacciante ma appropriata.

“The World Blood Pump” – commemora il tritacarne a Verdun

Qualcosa di simile si è effettivamente verificato a Bakhmut, nel senso che la Russia sta premendo su uno dei punti più sensibili della linea del fronte, attirando unità ucraine da uccidere. Pochi mesi fa, sulla scia del ritiro della Russia dalla Cisgiordania Kherson, gli ucraini hanno parlato con entusiasmo di continuare i loro sforzi offensivi con un attacco a sud in Zaparozhia per tagliare il ponte di terra verso la Crimea, insieme ai continui sforzi per sfondare nel nord di Lugansk. Invece, le forze di entrambi questi assi sono state reindirizzate a Bakhmut, al punto che questo asse sta prosciugando attivamente la forza di combattimento ucraina in altre aree. Fonti ucraine, precedentemente piene di ottimismo, ora concordano inequivocabilmente sul fatto che non ci saranno offensive ucraine nel prossimo futuro. Mentre parliamo,L’Ucraina continua a incanalare forze nell’asse Bakhmut .

Al momento, la posizione dell’Ucraina intorno a Bakhmut si è gravemente deteriorata, con le forze russe (in gran parte fanteria Wagner supportata dall’artiglieria dell’esercito russo) che stanno facendo progressi sostanziali su entrambi i fianchi della città. Sul fianco settentrionale, la cattura di Soledar ha spinto le linee russe a una distanza ravvicinata dalle autostrade nord-sud, mentre la cattura quasi simultanea di Klishchiivka sul fianco meridionale ha spinto le linee del fronte alle porte di Chasiv Yar (saldamente nella retroguardia operativa di Bakhmut ).

La linea di contatto attorno a Bakhmut, 20 gennaio 2023 (Mappa da me)

Gli ucraini non sono attualmente accerchiati, ma è facilmente distinguibile il continuo strisciare delle posizioni russe sempre più vicine alle rimanenti autostrade. Attualmente, le forze russe hanno posizioni entro due miglia da tutte le restanti autostrade. Ancora più importante, la Russia ora controlla le alture sia a nord che a sud di Bakhmut (la città stessa si trova in una depressione circondata da colline) dando alla Russia il controllo del fuoco su gran parte dello spazio di battaglia.

Attualmente sto anticipando che la Russia libererà la linea difensiva Bakhmut-Siversk entro la fine di marzo. Nel frattempo, la messa a nudo delle forze ucraine su altri assi aumenta la prospettiva di decisive offensive russe altrove.

Al momento, il fronte è costituito grosso modo da quattro assi principali (il plurale di asse, non l’attrezzo a lama), con consistenti agglomerati di truppe ucraine. Questi consistono, da sud a nord, degli assi Zaporozhia, Donetsk, Bakhmut e Svatove (vedi mappa sotto). Lo sforzo per rafforzare il settore Bakhmut ha notevolmente diluito la forza ucraina su questi altri settori. Sul fronte Zaporozhia, ad esempio, al momento ci sono potenzialmente solo cinque brigate ucraine in linea.

Al momento, la maggior parte della potenza di combattimento russa è disponibile, e sia le fonti occidentali che quelle ucraine sono (in ritardo) sempre più allarmate per la prospettiva di un’offensiva russa nelle prossime settimane. Attualmente, l’intera posizione ucraina a est è vulnerabile perché è, in effetti, un enorme saliente, vulnerabile agli attacchi da tre direzioni.

Due obiettivi di profondità operativa in particolare hanno il potenziale per distruggere la logistica e il sostegno ucraini. Questi sono, rispettivamente, Izyum nel nord e Pavlograd nel sud. Una spinta russa lungo la sponda occidentale del fiume Oskil verso Izyum minaccerebbe contemporaneamente di tagliare e distruggere il raggruppamento ucraino sull’asse Svatove (S sulla mappa) e recidere la vitale autostrada M03 da Kharkov. Raggiungere Pavlograd, d’altra parte, isolerebbe completamente le forze ucraine intorno a Donetsk e interromperebbe gran parte del transito dell’Ucraina attraverso il Dneiper.

Il piano Big Serge (mappa mia)

Sia Izyum che Pavlograd si trovano a circa 70 miglia dalle linee di partenza di una potenziale offensiva russa, e offrono quindi una combinazione molto allettante, essendo sia operativamente significative che relativamente gestibili. A partire da ieri, abbiamo iniziato a vedere progressi russi sull’asse Zaporozhia. Mentre questi consistono, al momento, principalmente in ricognizioni in forze che spingono nella “zona grigia” (quell’ambiguo fronte interstiziale), RUMoD ha rivendicato diversi insediamenti presi, che potrebbero presagire una vera spinta offensiva in questa direzione. Il indizio chiave sarebbe un assalto russo a Orikhiv, che è una grande città con una vera guarnigione ucraina. Un attacco russo qui indicherebbe che è in corso qualcosa di più di un attacco di indagine.

A volte è difficile analizzare la differenza tra ciò che prevediamo accadrà e ciò che vogliamo che accada. Questo, certamente, è ciò che sceglierei se fossi responsabile della pianificazione russa: un viaggio verso sud lungo la riva occidentale del fiume Oskil sull’asse Kupyansk-Izyum e un attacco simultaneo verso nord oltre Zaporozhia verso Pavlograd. In questo caso, credo che limitarsi a schermare Zaporozhia a breve termine sia preferibile piuttosto che impantanarsi in una battaglia urbana lì.

Non sappiamo se la Russia tenterà davvero di farlo. La sicurezza operativa russa è molto migliore di quella dell’Ucraina o delle sue forze per procura (Wagner e la milizia LNR/DNR), quindi sappiamo molto meno sugli schieramenti della Russia che su quelli dell’Ucraina. Indipendentemente da ciò, sappiamo che la Russia gode di una forte preponderanza della potenza di combattimento, lo sappiamo bene, e ci sono succosi obiettivi operativi a portata di mano.

Per favore, signore, ne voglio ancora

La vista a volo d’uccello di questo conflitto rivela un’affascinante meta-struttura della guerra. Nella sezione precedente, sostengo una visione del fronte strutturato attorno alla Russia che sfonda progressivamente le cinture difensive ucraine in sequenza. Penso che un simile tipo di struttura narrativa progressiva si applichi all’aspetto della generazione della forza di questa guerra, con la Russia che distrugge una sequenza di eserciti ucraini.

Permettetemi di essere un po’ più concreto. Sebbene l’esercito ucraino esista almeno in parte come un’istituzione continua, il suo potere di combattimento è stato distrutto e ricostruito più volte a questo punto attraverso l’assistenza occidentale. Molteplici fasi – cicli di vita, se vuoi – possono essere identificate:

  • Nei primi mesi della guerra, l’esercito ucraino esistente fu per lo più spazzato via. I russi hanno distrutto gran parte delle forniture indigene di armi pesanti dell’Ucraina e hanno distrutto molti quadri al centro dell’esercito professionale ucraino.
  • Sulla scia di questa prima frantumazione, la forza di combattimento ucraina è stata rafforzata trasferendo praticamente tutte le armi d’epoca sovietiche nelle scorte dei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Questo ha trasferito veicoli e munizioni sovietici, compatibili con le capacità ucraine esistenti, da paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca, ed è stato per lo più completato entro la fine della primavera del 2022. All’inizio di giugno, ad esempio, fonti occidentali hanno ammesso che le scorte sovietiche erano state prosciugate .
  • Con l’esaurimento delle scorte del Patto di Varsavia, la NATO ha iniziato a sostituire le capacità ucraine distrutte con equivalenti occidentali in un processo iniziato durante l’estate. Di particolare rilievo erano gli obici come l’americano M777 e il francese Caesar.

La Russia ha essenzialmente combattuto molteplici iterazioni dell’esercito ucraino – distruggendo la forza prebellica nei primi mesi, poi combattendo unità che sono state rifornite dalle scorte del Patto di Varsavia, e ora sta degradando una forza che dipende in gran parte dai sistemi occidentali.

Ciò ha portato all’ormai famosa intervista del generale Zaluzhny con l’economista in cui ha chiesto molte centinaia di carri armati principali, veicoli da combattimento di fanteria e pezzi di artiglieria. In effetti, ha chiesto un altro esercito, dato che i russi sembrano continuare a distruggere quelli che ha.

Voglio sottolineare alcune aree particolari in cui le capacità dell’Ucraina sono chiaramente degradate oltre i livelli accettabili, e osservare come ciò si colleghi allo sforzo della NATO per sostenere lo sforzo bellico ucraino.

Primo, artiglieria.

La Russia ha dato la priorità all’azione di controbatteria ormai da molte settimane e sembra avere un grande successo nel cacciare e distruggere l’artiglieria ucraina.

Sembra che ciò coincida in parte con il dispiegamento di nuovi sistemi di rilevamento della controbatteria “penicillin” . Questo è un nuovo strumento piuttosto pulito nell’arsenale russo. La guerra di controbatteria consiste generalmente in un pericoloso tango di pistole e sistemi radar. Il radar di controbatteria ha il compito di rilevare e localizzare le armi del nemico, in modo che possano essere distrutte dai propri tubi – il gioco è più o meno analogo a squadre nemiche di cecchini (l’artiglieria) e osservatori (il radar) che tentano di darsi la caccia a vicenda – e di ovviamente, ha senso sparare anche ai sistemi radar dell’altra parte, per accecarli, per così dire.

Il sistema Penicillin offre nuove potenti capacità alla campagna di controbatteria della Russia perché rileva le batterie di artiglieria nemiche non con il radar, ma con la localizzazione acustica. Emette un boom di ascolto che, in coordinamento con alcuni componenti del terreno, è in grado di localizzare i cannoni nemici attraverso il rilevamento sismico e acustico. Il vantaggio di questo sistema è che, a differenza di un radar a controbatteria, che emette onde radio che rivelano la sua posizione, il sistema Penicillin è passivo: sta semplicemente fermo e ascolta, il che significa che non offre al nemico un modo semplice per localizzarlo. esso. Di conseguenza, nella guerra di controbatteria, l’Ucraina attualmente non dispone di un buon modo per accecare (o meglio, assordare) i russi. Inoltre, le capacità di controbatteria russe sono state potenziate grazie all’aumento dell’uso del drone Lancet contro le armi pesanti.

Il boom acustico della penicillina ascolta il suono delle pistole nemiche

Tutto questo per dire che ultimamente la Russia ha distrutto un bel po’ di artiglieria ucraina. il Ministero della Difesa russo ha sottolineato il successo della controbatteria. Ora, so che a questo punto stai pensando: “perché dovresti fidarti del Ministero della Difesa russo?” Abbastanza giusto: fidiamoci ma verifichiamo.

Il 20 gennaio, la NATO ha convocato una riunione presso la base aerea di Ramstein in Germania, sullo sfondo di un nuovo massiccio pacchetto di aiuti messo insieme per l’Ucraina. Questo pacchetto di aiuti contiene, guarda caso, un’enorme quantità di pezzi di artiglieria. Secondo i miei calcoli, gli aiuti annunciati questa settimana includono quasi 200 tubi di artiglieria. Diversi paesi, tra cui Danimarca ed Estonia, stanno inviando all’Ucraina letteralmente tutti i loro obici . Chiamami pazzo, ma dubito seriamente che diversi paesi deciderebbero spontaneamente, esattamente nello stesso momento, di inviare all’Ucraina il loro intero inventario di pezzi di artiglieria se l’Ucraina non dovesse affrontare livelli di crisi di perdite di artiglieria.

Inoltre, gli Stati Uniti hanno adottato misure nuove e senza precedenti per fornire proiettili all’Ucraina. Proprio la scorsa settimana, hanno attinto alle sue scorte in Israele e Corea del Sud , tra i rapporti secondo cui le scorte americane sono così esaurite che ci vorrà più di un decennio per ricostituirsi .

Rivediamo le prove qui e vediamo se possiamo trarre una conclusione ragionevole:

  1. I funzionari ucraini ammettono che la loro artiglieria è superata di 9 a 1 nei settori critici del fronte.
  2. La Russia schiera un sistema di controbatteria all’avanguardia e aumenta il numero di droni Lancet.
  3. Il Ministero della Difesa russo afferma di aver cacciato e distrutto in gran numero i sistemi di artiglieria ucraini.
  4. La NATO si è affrettata a mettere insieme un massiccio pacchetto di sistemi di artiglieria per l’Ucraina.
  5. Gli Stati Uniti stanno facendo irruzione nelle scorte critiche schierate in avanti per rifornire l’Ucraina di proiettili.

Personalmente ritengo ragionevole, alla luce di tutto ciò, presumere che il braccio di artiglieria dell’Ucraina sia stato in gran parte distrutto e che la NATO stia tentando di ricostruirlo ancora una volta.

Il mio regno per un carro armato

Il principale punto di discussione nelle ultime settimane è stato se la NATO fornirà o meno all’Ucraina i principali carri armati. Zaluzhny ha accennato a un parco di carri armati ucraini gravemente impoverito nella sua intervista con l’Economist, in cui ha chiesto centinaia di MBT. La NATO ha tentato di fornire una soluzione di ripiego fornendo all’Ucraina vari veicoli corazzati come il Bradley IFV e lo Stryker, che ripristinano una certa mobilità, ma dobbiamo dire inequivocabilmente che questi non sono in alcun modo sostituti degli MBT, e sono di gran lunga inferiori in entrambi protezione e potenza di fuoco. Il tentativo di utilizzare Bradley, ad esempio, nel ruolo di MBT non funzionerà.

Buongiorno

Finora, sembra che l’Ucraina riceverà una piccola manciata di carri armati Challenger dalla Gran Bretagna, ma si parla anche di donare Leopardi (di marca tedesca), Abrams (americani) e Leclercs (francesi). Come al solito, l’impatto sul campo di battaglia della ricezione dei carri armati da parte dell’Ucraina è stato ampiamente sopravvalutato (sia dagli scagnozzi ucraini che dai russi pessimisti) e minimizzato (dai trionfalisti russi). Suggerisco una via di mezzo.

Il numero di carri armati che può essere ragionevolmente fornito all’Ucraina è relativamente basso, semplicemente a causa dell’onere di addestramento e sostentamento. Tutti questi carri armati utilizzano munizioni diverse, parti speciali e richiedono un addestramento specializzato. Non sono il tipo di sistemi che possono essere semplicemente portati fuori dal lotto e direttamente in combattimento da un equipaggio non addestrato. La soluzione ideale per l’Ucraina sarebbe quella di ricevere solo Leopard A24, poiché questi potrebbero essere disponibili in quantità decenti (forse un paio di centinaia) e almeno sarebbero standardizzati.

Un leopardo turco bruciato in Siria

Dovremmo anche notare, ovviamente, che è improbabile che questi carri armati occidentali cambino le regole del gioco sul campo di battaglia. Il Leopard ha già mostrato i suoi limiti in Siria sotto operazione turca. Nota la seguente citazione da questo articolo del 2018:

“Dato che i carri armati sono ampiamente gestiti dai membri della NATO – tra cui Canada, Paesi Bassi, Danimarca, Grecia e Norvegia – è particolarmente imbarazzante vederli distrutti così facilmente dai terroristi siriani quando dovrebbero eguagliare l’esercito russo”.

In definitiva, il Leopard è un MBT abbastanza banale progettato negli anni ’70 surclassato dal russo T-90. Non è un terribile pezzo di equipaggiamento, ma non è certo un terrore da campo di battaglia. Subiranno perdite e saranno logorati proprio come lo era il parco carri armati dell’Ucraina prima della guerra. Tuttavia, ciò non cambia il fatto che un esercito ucraino con poche compagnie di leopardi sarà più potente di uno senza di loro.

Penso che sia giusto dire che le seguenti tre affermazioni sono tutte vere:

  1. Ricevere un miscuglio di carri armati occidentali creerà un difficile onere di addestramento, manutenzione e sostentamento per l’Ucraina.
  2. I carri armati occidentali come il Leopard hanno un valore di combattimento limitato e verranno distrutti come qualsiasi altro carro armato.
  3. I carri armati occidentali aumenteranno la potenza di combattimento dell’esercito ucraino fintanto che saranno sul campo.

Ora, detto questo, a questo punto non sembra che la NATO voglia dare all’Ucraina i principali carri armati. Inizialmente è stato suggerito che i carri armati dal deposito potessero essere rispolverati e consegnati a Kiev, ma il produttore ha dichiarato che questi veicoli non sono funzionanti e non saranno pronti per il combattimento fino al 2024 . Ciò lascia solo la possibilità di immergersi direttamente nei parchi carri armati della NATO, cosa che finora sono reticenti a fare.

Come mai? Il mio suggerimento sarebbe semplicemente che la NATO non crede nella vittoria ucraina. L’Ucraina non può nemmeno sognare di spostare la Russia dalla sua posizione senza un’adeguata forza di carri armati, e quindi la reticenza a consegnare i carri armati suggerisce che la NATO pensa che questo sia comunque solo un sogno. Invece, continuano a dare la priorità alle armi che sostengono la capacità dell’Ucraina di combattere una difesa statica (da qui le centinaia di pezzi di artiglieria) senza indulgere in voli di fantasia su una grande spinta corazzata ucraina in Crimea.

Tuttavia, data l’intensa febbre della guerra che si è accumulata in occidente, è possibile che lo slancio politico ci imponga la scelta. È possibile che abbiamo raggiunto il punto in cui la coda scodinzola, che la NATO sia intrappolata nella sua stessa retorica di sostegno inequivocabile fino a quando l’Ucraina non otterrà una vittoria totale, e potremmo ancora vedere i Leopard 2A4 bruciare nella steppa.

Sommario: La morte di uno Stato

L’esercito ucraino è estremamente degradato, avendo subito perdite esorbitanti sia di uomini che di armi pesanti. Credo che i KIA ucraini si stiano avvicinando a 150.000 a questo punto, ed è chiaro che le loro scorte di tubi di artiglieria, proiettili e veicoli corazzati sono in gran parte esaurite.

Mi aspetto che la linea difensiva Bakhmut-Siversk venga ripulita prima di aprile, dopodiché la Russia si spingerà verso l’ultima (e più debole) cintura difensiva intorno a Slavyansk. Nel frattempo, la Russia ha in riserva una notevole potenza di combattimento, che può essere utilizzata per riaprire il fronte settentrionale sulla riva occidentale dell’Oskil e riavviare le operazioni offensive a Zaporozhia, mettendo in grave pericolo la logistica ucraina.

Questa guerra sarà combattuta fino alla sua conclusione sul campo di battaglia e terminerà con una decisione favorevole per la Russia.

Coda: una nota sui colpi di stato

Sentiti libero di ignorare questo segmento, poiché è un po’ più nebuloso e non è concretamente correlato agli eventi in Ucraina o in Russia.

Abbiamo visto molte voci divertenti sui colpi di stato in entrambi i paesi: Putin ha il cancro al piede e il suo governo crollerà, Zelensky sta per essere sostituito con Zaluzhny, e così via. Patrioti in controllo e tutta quella roba buona.

In ogni caso, ho pensato di scrivere solo in generale sul perché i colpi di stato e le rivoluzioni non sembrano mai portare a regimi democratici carini e coccolosi, ma invece quasi sempre portano al passaggio del controllo politico ai servizi militari e di sicurezza.

La risposta, si potrebbe pensare, è semplicemente che questi uomini hanno le armi e il potere per accedere alle stanze importanti in cui vengono prese le decisioni, ma non è solo questo. Si riferisce anche a un concetto nella teoria dei giochi chiamato punti Schelling .

Un punto Schelling (dal nome del signore che ha introdotto il concetto, un economista di nome Thomas Schelling) si riferisce alla soluzione che le parti scelgono dato uno stato di incertezza e nessuna capacità di comunicare. Uno degli esempi classici per illustrare il concetto è un gioco di coordinazione. Supponiamo che a te e a un’altra persona vengano mostrati quattro quadrati ciascuno: tre sono blu e uno è rosso. A ciascuno di voi viene chiesto di scegliere un quadrato. Se scegliete entrambi la stessa casella, ricevete un premio in denaro, ma non potete parlarvi delle vostre scelte. Come scegli? Bene, la maggior parte delle persone sceglie razionalmente il quadrato rosso, semplicemente perché è ben visibile – risalta, e quindi presumi che anche il tuo partner sceglierà questo quadrato. Il quadrato rosso non è migliore, di per sé, è solo ovvio.

In uno stato di tumulto politico, o addirittura di anarchia, il sistema lavora verso i punti Schelling – figure e istituzioni ovvie che irradiano autorità, e sono quindi la scelta evidente per assumere il potere e impartire comandi.

I bolscevichi, ad esempio, lo capirono molto bene. Immediatamente dopo aver dichiarato il loro nuovo governo nel 1917, inviarono commissari nei vari edifici per uffici a San Pietroburgo dove avevano sede le burocrazie zariste. Trotsky notoriamente si presentò una mattina all’edificio del ministero degli Esteri e annunciò semplicemente di essere il nuovo ministro degli Esteri. I dipendenti lo deridevano: chi era? come ha fatto a presumere di essere al comando? – ma per Trotsky il punto era insinuarsi su un punto Schelling. Nello stato di anarchia che cominciava a diffondersi in Russia, le persone cercavano naturalmente qualche ovvio punto focale di autorità, ei bolscevichi si erano abilmente posizionati come tali rivendicando il controllo sulle cariche e sui titoli burocratici. Dall’altra parte del conflitto civile, l’opposizione politica ai bolscevichi si raggruppò attorno agli ufficiali dell’esercito zarista, perché anch’essi erano punti di Schelling, in quanto avevano già titoli e posizione all’interno di una gerarchia esistente.

Tutto questo per dire che in caso di colpo di stato o di collasso dello stato, praticamente non si formano mai nuovi governi sui generis, ma nascono sempre da istituzioni e gerarchie preesistenti. Perché, quando cadde l’Unione Sovietica, l’autorità politica passò alle Repubbliche? Perché queste Repubbliche erano punti Schelling, rami che si possono afferrare per mettersi al sicuro in un fiume caotico.

Lo dico semplicemente perché sono stanco di storie fantasmagoriche sulla liquidazione del regime in Russia e persino sulla dissoluzione territoriale. La caduta del governo di Putin non porterà e non può portare a un regime acquiescente, adiacente all’Occidente, perché non ci sono istituzioni di potere reale in Russia che siano così disposte. Il potere ricadrebbe sui servizi di sicurezza, perché sono punti Schelling, ed è lì che va il potere.

https://bigserge.substack.com/p/russo-ukrainian-war-the-world-blood

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Guardare e comprendere il multipolarismo_con Gianfranco La Grassa

Costruire uno strumento interpretativo adeguato a comprendere il contesto politico e geopolitico. Un impegno che non può prescindere dai tempi dettati dalla contingenza storica. Attardarsi, però, nella riproposizione pedissequa degli schemi interpretativi che hanno orientato le vicende politiche del secolo scorso porta sicuramente a posizioni fuorvianti e conclusioni sempre più paradossali. Ne parlo con Gianfranco La Grassa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v26e3zo-guardare-e-comprendere-il-multipolarismo-con-gianfranco-la-grassa.html

 

Non dimenticarti dell’acqua nel 2023, Di Antonia Colibasanu

Un argomento già trattato su questo sito. In particolare un saggio di Aymeric Chauprade. Qui sotto un testo di Antonia Colibasanu puntuale ed interessante che rifugge dalla retorica del catastrofismo ambientale. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Non dimenticarti dell’acqua nel 2023

Questa risorsa limitata avrà molti paesi in difficoltà nel prossimo anno.

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Il 16 gennaio, il Ministero cinese delle risorse idriche ha annunciato che Pechino ha investito più di 1 trilione di yuan (148 miliardi di dollari) nella gestione delle risorse idriche nel 2022, un enorme aumento del 44% rispetto all’anno precedente. Altrove, il Pakistan ha suggerito che i progetti di gestione delle risorse idriche devono diventare una priorità per il corridoio economico Cina-Pakistan perché entro il 2025 il Pakistan dovrebbe essere un paese con scarsità d’acqua. Settimane prima, un funzionario iraniano aveva confermato che 270 città e paesi soffrivano di una grave carenza idrica poiché il livello dell’acqua alle dighe era sceso a livelli estremamente bassi.

Le fabbriche nel sud-ovest della Cina hanno dovuto sospendere il loro lavoro la scorsa estate dopo che una siccità da record ha causato il prosciugamento di alcuni fiumi del paese, comprese parti dello Yangtze. Anche l’energia idroelettrica e il trasporto marittimo sono stati colpiti; La provincia del Sichuan è stata considerata in una “situazione grave” perché genera oltre l’80% della sua energia dall’energia idroelettrica.

Il Pakistan si trova in una situazione simile. Il fiume Indo è una fonte di oltre 17 gigawatt di energia idroelettrica e fornisce acqua al sistema di irrigazione del bacino dell’Indo, che sostiene oltre il 90% della produzione agricola del paese. La cattiva gestione dell’acqua, la rapida crescita della popolazione, la siccità e le inondazioni hanno creato una situazione davvero disastrosa.

In Iran, un clima semi-arido e il calo delle precipitazioni nell’ultimo decennio hanno contribuito alla crisi, ma la perenne gestione inefficiente dell’acqua dagli anni ’90 è forse il problema più grande. Dopo la rivoluzione del 1979, il nuovo regime avanzò una politica di autosufficienza alimentare nazionale, che prevedeva la produzione di colture di base sufficienti per soddisfare i bisogni del paese invece di fare affidamento sulle importazioni. A tal fine, la produzione agricola è diventata dipendente dall’estrazione di acque sotterranee e le falde acquifere che si riempiono lentamente non sono state in grado di tenere il passo con il numero crescente di utenti e prelievi idrici.

Questi problemi potrebbero non essere nuovi, ma stanno tutti peggiorando. E il fatto che questi tre paesi siano geograficamente interconnessi è stato un campanello d’allarme per altre nazioni in tutto il mondo che hanno affrontato, o stanno per affrontare, simili carenze idriche e le relative conseguenze.

In effetti, l’acqua è così fondamentale per la geopolitica che spesso viene trascurata. L’approvvigionamento idrico svolge un ruolo fondamentale nel sostenere la vita, l’agricoltura e l’industria. Gli stessi livelli di offerta possono fluttuare drasticamente per ragioni al di fuori del controllo di un governo. Tuttavia, data la crescente minaccia della scarsità d’acqua e le conseguenze che ne derivano, i governi sono sempre più aggressivi nell’intraprendere tutte le azioni possibili per garantire l’approvvigionamento.

Storicamente, le controversie sul controllo delle risorse idriche finiscono con la violenza. La disputa storica tra Etiopia ed Egitto per l’acqua del fiume Nilo è probabilmente quella che ha attirato maggiore attenzione. Ancora oggi, l’approvvigionamento idrico nel Donbas è gestito con cura da entrambe le parti, e a Kherson, capire come tagliare l’approvvigionamento idrico alla Crimea è stato fondamentale per comprendere i combattimenti sul campo. Inoltre, l’attacco russo alla centrale idroelettrica di Dnipro aveva lo scopo di interrompere l’elettricità nella regione come parte della strategia russa per abbattere le infrastrutture critiche dell’Ucraina. In guerra, l’acqua è allo stesso tempo un’arma e una vittima.

Conflitti globali sull'acqua | 2000-2021
(clicca per ingrandire)

Ma l’acqua è solo una parte dell’equazione. La siccità del 2022, seguita dall’inverno più caldo degli ultimi anni nell’emisfero settentrionale, quest’anno ha messo in difficoltà molti governi mentre prendono forma gli effetti a valle della carenza d’acqua. La potenziale crisi alimentare, inizialmente il risultato della crisi energetica dello scorso anno, potrebbe solo peggiorare. L’impatto si farà sentire maggiormente in luoghi come l’Africa e il Medio Oriente, dove la scarsità d’acqua è una preoccupazione costante. I flussi di rifugiati da luoghi come l’Iraq, la Siria e lo Yemen potrebbero aumentare. L’insicurezza alimentare probabilmente aumenterà in paesi come Algeria, Marocco e Tunisia. E poiché non è chiaro quanto cibo sarà disponibile per l’esportazione da produttori altrimenti grandi come Russia e Ucraina nel 2023, i paesi con una produzione interna limitata hanno ancora più motivi di preoccupazione, soprattutto perché i loro cittadini diventano più irrequieti.

Ma anche per le grandi potenze come Cina, Pakistan e Iran, le cose probabilmente peggioreranno prima di migliorare. Tutti e tre stanno già affrontando il disagio socio-economico. Non si sa quanto la pandemia di COVID-19 abbia danneggiato l’economia cinese, ma non va bene, con rapporti che dipingono un quadro particolarmente desolante per la disoccupazione giovanile. (Questo per non parlare dei problemi economici che la Cina deve affrontare indipendentemente dalla pandemia.) Il Pakistan sta vivendo la peggiore crisi socio-politica degli ultimi anni . L’ Iran è da tempo coinvolto in proteste di alto profilo . L’inflazione è alta in tutti e tre i paesi, così come i disordini economici dovuti alla disuguaglianza di classe. L’aggiunta di stress idrico potrebbe rendere le cose ancora più esplosive.

Percezione della qualità dell'acqua in 10 anni
(clicca per ingrandire)

Un’ulteriore instabilità in uno qualsiasi dei tre principali attori avrà probabilmente un effetto di ricaduta in Medio Oriente e oltre. Un Pakistan e un Iran in difficoltà allo stesso tempo renderanno sicuramente nervosi la Turchia e l’Arabia Saudita. E ciò che accade in Cina – uno dei maggiori consumatori di risorse al mondo e uno dei suoi più grandi motori economici – conta per il resto del mondo. Le chiusure delle fabbriche a causa della carenza d’acqua nella Cina post-pandemia innescherebbero nuovi shock nella catena di approvvigionamento che colpirebbero sia l’Europa che gli Stati Uniti. Nessuno dei due è abbastanza disaccoppiato dalla centrale elettrica cinese per ignorare tali shock.

Percezione della qualità dell'acqua, 2021
(clicca per ingrandire)

Entrambi hanno i propri problemi idrici da affrontare. Livelli più bassi nel Reno hanno innescato allarmi per la navigazione interna europea lo scorso anno; ulteriori riduzioni ostacoleranno probabilmente l’attività economica nell’Europa occidentale. L’anno scorso, la scarsità d’acqua ha costretto il governo degli Stati Uniti a limitare il rilascio di acqua negli stati occidentali. Se le cose peggiorano, i responsabili politici statunitensi saranno costretti a scegliere tra il rilascio di acqua, la generazione di elettricità e la produzione industriale e alimentare da un lato e la conservazione dell’acqua dall’altro.

L’acqua è limitata, quindi è chiaro che le preoccupazioni sul suo utilizzo e distribuzione aumenteranno man mano che le riserve diminuiranno. Sotto la maggiore pressione dei cittadini, i governi cercheranno soluzioni rapide. Se una soluzione per un paese va a scapito di un altro, inevitabilmente sorgeranno tensioni, forse violente. Ogni governo gestirà, o cercherà di gestire, la situazione in modo diverso. Nei paesi più poveri, le milizie potrebbero continuare a combattere per l’acqua, mentre nelle nazioni più ricche si discuterà di nuove politiche sull’utilizzo dell’acqua e probabilmente di nuove tecnologie per mantenere e migliorare le infrastrutture idriche. Tutto sommato, lo stress idrico evidenzia un’altra sfida socio-economica che il mondo deve affrontare prima che peggiori.

https://geopoliticalfutures.com/dont-forget-about-water-in-2023/

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La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro, di Piero Pagliani

Un saggio interessante che tenta di riprendere e ricalcare impostazioni e contesti teorici classici, in particolare marxisti, ma con alcuni aggiustamenti che tentano di superare il loro determinismo, laddove recupera il ruolo del politico ed ideologico in maniera più autonoma. Si tratta, però, a parere dello scrivente, comunque di un tentativo dal quale l’autore rischia sempre di allontanarsi per ricadere in una impostazione economicista in almeno tre occasioni:

  • quando parla della crisi attuale come di sconvolgimento sistemico determinato dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica, quando queste dinamiche in realtà non determinano tendenze irreversibili assolute, ma sono la conseguenza e/o contribuiscono a ridefinire gli equilibri e i rapporti di forza
  • quando stabilisce negli anni ’60 il momento di innesco della crisi egemonica statunitense, scambiando questa con una crisi dell’egemonismo. Il momento di crisi, in realtà, si è innescato solo dopo un paio di lustri dall’implosione del blocco sovietico grazie alla sicumera di aver conseguito definitivamente la condizione egemonica nel mondo e al dato strutturale che qualsiasi tendenza egemonica, nella fattispecie quella definita “globalismo”, genera di per sé spazi ed opportunità di azione di attori rivali
  • quando lamenta la mancanza di una analisi di classe. Ma di quale rapporto di classe: quella tra salariati e proprietari di mezzi di produzione; quella tra “rapinati” e “rapinatori”; quella tra ricchi e poveri, da deboli e forti. Siamo proprio sicuri che il conflitto sociale sia condotto dalle classi e che quest’ultimo determini più o meno direttamente l’antagonismo ed il conflitto tra centri decisori?

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Introduzione: i lineamenti della crisi in breve

La formidabile espansione economica occidentale del dopoguerra, guidata dagli Stati Uniti, ultimi eredi dell’egemonia occidentale sulla maggior parte del mondo, che era culminata con l’Impero Britannico, è entrata in crisi verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di una crisi sistemica. Una crisi è sistemica quando non coinvolge un gruppo limitato di comparti economici né un gruppo limitato di Paesi ma investe tutta una economia-mondo e la sua organizzazione intorno al potere economico, finanziario, politico e militare di un centro egemone. Da quanto detto si capisce che ogni crisi sistemica ha un carattere “ibrido”, per l’appunto politico, militare, economico e finanziario. Ne ha ovviamente anche uno sociale, perché le economie-mondo reggono sistemi sociali e sono rette da rapporti sociali. E ne ha uno ideologico che riguarda il complesso delle idee dominanti.

Oggi l’economia-mondo in crisi ha un’estensione planetaria e il centro egemone in crisi sono gli Stati Uniti d’America. Ma la natura più spettacolare della crisi sistemica corrente è data dal fatto che con essa potrebbe chiudersi la lunghissima sequenza di economie-mondo che a partire da Venezia sono state centrate sull’Occidente e, al suo interno, la sequenza dei cicli sistemici dominati dal mondo anglosassone. Da qui il carattere fortemente ideologizzato dello scontro che va oltre le ovvie manovre di propaganda e disinformazione. Oltre ad avere arruolato militarmente gli eredi più puri del nazismo hitleriano, l’Occidente collettivo ha infatti dovuto riesumare anche l’armamentario lessicale del fascismo. Gli alti funzionari della UE ormai parlano della Russia in termini di “Paese non civilizzato” e dei Russi come “solo apparentemente europei”, così come al momento del lancio dell’Operazione Barbarossa si parlava di “barbarie dei territori orientali” e di popolazione “semiasiatica”. In definitiva, una professione di fede razzista da parte di chi per il resto della giornata parla di “inclusione” e “democrazia”.

La campagna d’odio contro tutto ciò che è russo, comprese la grande letteratura e la grande musica, parti integranti della cultura europea, racconta di uno stato di disperazione che conduce ad atti di autolesionismo, di automutilazione, che ritroviamo tali e quali nella sfera economica e sono il risultato di una perniciosa incapacità di adattamento.

Questa resistenza all’adattamento è in gran parte indotta dalla nazione egemone in crisi, di cui gli Europei sono semplici vassalli. Ma ha anche radici locali in quelle élite che sanno che la perdita di egemonia degli Stati Uniti travolgerebbe anche i propri straordinari patrimoni e interessi e le proprie posizioni di potere semidivine.

Il campanello d’allarme della crisi sistemica fu il Nixon shock del Ferragosto del 1971, quando il presidente degli Stati Uniti mise fine alla convertibilità del Dollaro in oro. Dopo quasi un decennio d’incertezza, dovuta al braccio di ferro tra Washington (il Potere del Territorio) e Wall Street (il Potere del Denaro), la pace tra i due poteri fu decretata dal Volcker shock, quando il neo appuntato presidente della Fed portò i tassi dei fondi federali dal 11.2% al picco del 20% nel giugno del 1981. Le conseguenze furono disoccupazione, fallimenti, concentrazione e centralizzazione di capitali e il raffreddamento dell’inflazione che per tutto il decennio precedente si era accompagnata alla stagnazione. Infatti le spinte inflazionistiche agevolate dal governo statunitense per rilanciare l’economia non avevano sortito alcun effetto data la perdurante crisi di profittabilità degli investimenti. I capitali man mano si spostavano dal commercio e dall’industria, cioè dall’economia reale, verso le speculazioni finanziarie rompendo gli argini delle restrizioni legislative nazionali anche grazie alle operazioni delle multinazionali che inizialmente cercavano di difendersi dall’instabilità dei cambi provocata dal Nixon shock. Col Volcker shock e l’avvento del presidente Reagan, emulato in Europa dalla signora Thatcher negli UK e poi via via da tutti gli altri Paesi della UE, gli investimenti nel circuito finanziario presero decisamente il sopravvento. Era iniziata la finanziarizzazione, storicamente segno di crisi, in cui l’accumulazione di capitale reale è stata esponenzialmente sostituita da quella di capitale fittizio, i cui valori nominali niente hanno a che vedere con la ricchezza reale prodotta o esistente. Si è così giunti ad ammassare titoli di credito totalmente inesigibili, come la strabiliante massa di prodotti derivati il cui valore nozionale per la Bank for International Settlements di Basilea ammonta a 558,1 trilioni di dollari (con una stima totale di 1 quadrilione di dollari calcolando anche i contratti non-Over The Counter). La sola prima cifra, quella più bassa, equivale al doppio della ricchezza immobiliare di tutto il Pianeta, a poco meno di 6 volte il denaro nel mondo (inteso come monete, banconote e depositi di ogni tipo) e a 6 volte il PIL mondiale. Se si considera la stima più alta abbiamo che i soli titoli derivati equivalgono a 10 volte il PIL mondiale 2021.

Questa ricchezza fittizia, ma politicamente e militarmente supportata e quindi attiva, se in Occidente dava spazio a fantasie che da noi ben si accompagnavano alla “Milano da bere”, come gli “intangible assetes”, il “knowledge management” e cose simili (tutti concetti che quando si cercava di concretizzare facevano semplicemente riferimento al delta tra il valore reale di un’azienda e il suo valore borsistico), fantasie che altre ne hanno generate grazie a immaginifici teorici della “sinistra marxista”, questa ricchezza fittizia, si diceva, nel concreto intercettava i profitti che venivano creati là dove solo era possibile crearli, cioè al di fuori dei circuiti capitalisti storici: alla finanziarizzazione era necessario accoppiare la globalizzazione.

Ma la globalizzazione faceva crescere potenze che collocate al di fuori del controllo politico occidentale, nel giro di un paio di decenni sarebbero emerse come competitor strategici degli USA, la Cina e la Russia, intorno alle quali si aggregava un numero crescente di Paesi che cercavano di sottrarsi al predominio dell’Occidente collettivo (si pensi alla Shanghai Cooperation Organisation o ai BRICS+).

Fin dal 2000 (si veda il report “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources For a New Century” del think tank neo-conservatore Project for a New American Century) si prevedeva che il decennio 2020 sarebbe stata l’ultima finestra utile entro la quale gli Usa potevano e dovevano intervenire, anche militarmente, in modo diretto contro i propri competitor per non perdere l’egemonia mondiale.

E così è stato.

La sequenza crisi sistemica-finanziarizzazione-guerre mondiali è ricorrente nella storia del capitalismo.

Dalla caduta dell’URSS abbiamo assistito a una guerra dopo l’altra: Jugoslavia (prima guerra in Europa dal 1945, e qualcuno già capiva che non sarebbe stata l’ultima) Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Yemen. E ora siamo di nuovo a una guerra europea, quella in Ucraina. Tutta questa cortina di fuoco, se da una parte serve a circondare la landmass eurasiatica (dove insistono quattro potenze atomiche, le nazioni più popolose del mondo, quella con la maggiore economia mondiale, ed è la sede di enormi e diversificate risorse naturali), dalla parte opposta serve a dividere l’Europa da essa e da buona parte dell’Africa. In altri termini serve a fare dell’Europa un’appendice incistata degli USA. E per far questo era necessario che la UE fosse “weaponized” (cioè trasformata in un’arma), diventasse un’estensione civile della Nato, da spendere contro la Russia, via l’Ucraina, la vittima sacrificale.

E qui arriviamo al centro del problema. Gli Stati Uniti, con tutti i suoi alleati, non sono in grado di sconfiggere in una guerra convenzionale né la Russia né la Cina. Vale la pena ricordare che il maresciallo Montgomery in un’audizione alla Camera dei Lord nel 1962 riguardante lo scenario di una futura terza guerra mondiale avvertì: «La regola 1, alla pagina 1 del manuale di guerra dice: “Mai marciare su Mosca”. La regola 2 dice: “Non combattete con un esercito di terra in Cina”».

In una guerra atomica saremmo tutti sconfitti, USA compresi. E lo sanno. Per lo meno c’è molta gente con posti di responsabilità negli Usa che lo sa perfettamente. A mio avviso lo sa anche Biden che è ondivagante perché deve tener testa a una massa di crazy freaks, a volte drammaticamente ideologizzati (il “Destino manifesto”), che non sanno cos’è una guerra convenzionale, men che meno sanno cos’è una guerra di difesa esistenziale (nozione che ai Russi è stata impressa nel DNA a suon di milioni di morti), e assolutamente non hanno idea di cosa sia una guerra atomica, pensano che poterebbe essere combattuta solo in Europa mentre loro stanno a guardare magari da un bunker extra lusso, e la cui unica strategia, sia economica che militare e politica, è rilanciare sempre esattamente la stessa mossa.

La crisi dei subprime fu, dopo le avvisaglie della crisi borsistica delle “dot-com” (cioè del “capitalismo immateriale”, del “capitalismo della conoscenza”), lo scoppio di un’enorme bolla di capitale fittizio. Grazie alla Cina la crisi fu faticosamente tamponata ma la logica occidentale di accumulazione rimaneva quella basata sul capitale fittizio. Tutte le mosse che avevano portato alla crisi vennero ripetute a scala ancora maggiore. Si pensi agli enormi quantitative easing in dollari o euro, che arrivavano all’economia reale solo col contagocce mentre la massa si fermava nei circuiti finanziari che la bloccavano lì. Ora incombe lo scoppio di una bolla colossale in un mondo non più globalizzato ma frammentato a livello geopolitico, commerciale e finanziario. Per mitigare lo scoppio si darà corso alle solite rapine: privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, scorrerie immobiliari, compressione dei salari e tutto il resto a cui destra e ancor più sinistra ci hanno abituati in questi anni [1]. Rapine che ridurranno la società in uno stato miserevole, ma che comunque non basteranno, per via delle grandezze in gioco, del fatto che la ricchezza esistente è uno stock finito e infine che queste manovre e l’isolamento mondiale a cui ci stiamo auto-condannando impediranno ogni ripresa, se non in limitati settori, e quindi la creazione di nuovi flussi di ricchezza.

Ne consegue che sarà necessaria una progressiva sospensione/limitazione/abolizione delle libertà democratiche di espressione, organizzazione, eccetera, libertà non più sostenute dallo sviluppo ma, anzi, ostacoli alla riorganizzazione sempre più violenta, sempre più urgente e sempre più veloce dei processi di accumulazione di denaro e di potere. Ovunque verrà applicata l’autorità di questo nuovo impero aristocratico, fondamentalmente una nuova talassocrazia, sia sulle “colonie esterne” sia sulle “colonie interne” si applicherà il metodo classico di appoggiarsi a forze e gruppi sociali elitari e reazionari, ma avendo cura di accendere i riflettori sulla patina “libertaria” di woke culture, del tutto inutile per redimere vecchi torti e non farne di nuovi, ma molto utile per abituare le persone ad aderire a protocolli ideologici e comportamentali decisi dall’alto.

Negli Usa, pervasi dai neocon, l’unica via di salvezza è vista nella ripresa del ruolo di potenza egemone mondiale che però deve passare dalla sconfitta della Cina che richiede a sua volta la sconfitta della Russia. Mentre si tenta questa strada, che necessariamente spacca il mondo in un terzo occidentale e in due terzi “altro” e che quindi spezza violentemente il circuito finanziarizzazione-globalizzazione, gli Usa possono solo rapinare i propri alleati a partire dalla (ancora per poco) ricca Europa. Ma se anche questa rapina riuscisse in pieno gli Usa, nella migliore delle ipotesi, finirebbero per rimanere bloccati in una situazione di ricchezza solipsistica simile a quella da cui dovettero uscire nel dopoguerra inventandosi la Guerra Fredda e rifornendo di dollari un’Europa che doveva essere ricostruita dopo la II Guerra Mondiale. Ma quel ciclo non sarebbe più ripetibile, perché la situazione mondiale è oggi drasticamente diversa e più che altro è drasticamente compromessa. Non è chiaro se in questo modo gli Usa intendono solo guadagnar tempo mentre cercano di indebolire i propri avversari in vista di una loro capitolazione, o se la nuova posizione di assoluto comando su 1/5 del globo (quasi un impero formale) sarà usata per negoziare i nuovi rapporti di forza in un mondo multipolare ormai impossibile da contrastare. Dipenderà dall’andamento della crisi.

Come procederà?

La crisi è direttamente proporzionale al tasso di finanziarizzazione, all’accumulo di capitali fittizi, e quindi è massima nell’Occidente collettivo dove, come si è visto, non verrebbe risolta nemmeno rovesciando sotto sopra il Vecchio Continente e i suoi sempre meno numerosi annessi e connessi.

La crisi è causata dai meccanismi mossi dalla logica dell’accumulazione. Quindi all’interno del costruendo impero formale a guida anglosassone essa non ha modo di essere risolta. La domanda allora immediata è: “Al suo esterno cosa sta succedendo, cosa succederà?”.

A questa domanda io non so rispondere. Se un mondo multipolare finalmente emergerà sarà perché l’Occidente collettivo, che oggi è neoliberista, sarà sconfitto da un Sud (o Est) collettivo di cui per ora non si capisce quale potrà essere la natura. O quanto meno, io non lo capisco.

In realtà, al di là del chiaro intento della Russia di spezzare il sempre più minaccioso assedio della Nato culminato con l’appoggio occidentale ai neo-nazisti ucraini, e della possibilità – prevista dal Cremlino – che una gran parte del Sud globale vi sta cogliendo per sottrarsi al secolare giogo dell’Occidente, in crisi e quindi sempre più rapinoso e aggressivo (due aspetti in diretto contrasto con la nozione di “egemonia”), non credo che nessuno possa in scienza e coscienza affermare di aver chiare le linee profonde della contrapposizione, quelle che plasmeranno il mondo a venire.

Si parla genericamente di uno scontro tra l’Occidente neoliberista e … . E manca il secondo termine. Spesso il “neoliberismo” viene inteso come una sorta di “fase terminale” del capitalismo (cosa che in sé non è) e altrettanto spesso viene enfatizzata la sua accezione ideologica, visibile nelle iperboli della woke culture che seppure hanno una relativa forza distruttiva, sono ancora solo “sperimentali” e minoritarie (anche se non sembra, per via di media e testimonial vociferanti) e hanno il compito di celare sostanziosi “fenomeni di classe” nazionali e internazionali che non si è quasi ancora iniziato ad analizzare (le eccezioni sono pregevoli ma rare e tenute in stato di clandestinità). Così, ipnotizzato dagli effetti speciali della woke culture, c’è chi si immagina uno scontro tra un mondo indirizzato verso il transumanesimo e un mondo che difende i valori umanistici, non di rado descritti come “valori tradizionali”. E quando si usa il concetto di “tradizione” si entra in una selva di rovi. Quando inizia e quando finisce la “tradizione”? Per qualcuno nel Medioevo – inteso in senso storico, non spregiativo – per qualcun altro nell’Illuminismo, e via così secondo i propri punti di riferimento. E dove è localizzata questa “tradizione”, in Europa, in Cina, in Russia, in Argentina, in Thailandia? A quale sistema filosofico fa riferimento? “Tradizione” vuol solo dire rifiutare gli insopportabili “genitore 1” e “genitore 2”? Consiglio di lasciare queste schermaglie al lato propagandistico dei discorsi di Vladimir Putin, il lato che, per ovvi motivi, vuol far leva sui sentimenti più condivisi della società russa, e alle anime candide che sono pronte a vedervi una natura reazionaria e addirittura “fascista”. Perché non è su questo che si giocano i destini del mondo.

Ma su che cosa, allora?

Durante la guerra fredda si contrapponevano due progetti distinti, due visioni del mondo distinte, due sistemi economici e sociali distinti. C’erano poderosi corpi dottrinari, da una parte e dall’altra, che permettevano di interpretare quello scontro, pur con tutti i limiti che i corpi dottrinari hanno rispetto al fluire storico. Oggi non è più così.

Nello scontro che ora sta seguendo la dissoluzione dell’ordine mondiale della guerra fredda, si sa che da una parte c’è un complesso neoliberista, ma dalla parte opposta c’è un complesso ancor meno decifrabile di quanto lo fosse il sistema sovietico e che si sta arricchendo di soggetti eterogenei. Una nave che affonda viene abbandonata da tutti: ufficiali, sottufficiali, macchinisti, camerieri, passeggeri di lusso, di prima classe, di seconda classe, di terza classe, persino dai clandestini.

Apparentemente non siamo nemmeno di fronte a un classico scontro interimperialistico, nonostante si possa riscontrare la ripetizione di alcuni schemi presenti nella prima parte del secolo scorso – ad esempio la finanza anglosassone da una parte vs l’industrializzazione della Germania (oggi della Germania, della Russia e della Cina).

Ciò porta a doversi chiedere quali sono le condizioni per l’emergere effettivo di un mondo multipolare, per la sua stabilità e quale sarà la sua natura.

 

Cambio di partita

Il 4 ottobre scorso il Consiglio Federale russo ha ratificato il passaggio degli oblast di Zaporizhie, Cherson, Donetsk e Lugansk dall’Ucraina alla Federazione Russa, dopo che lo aveva fatto la Duma di Stato. Questa decisione, assieme all’ordine di mobilitazione parziale riguardante 300.000 soldati, è la risposta russa alla presa d’atto di due cose: 1) La Nato (qui intesa come Usa e UK) non permetterà a Zelensky di negoziare la pace con Mosca (finora glielo ha sempre impedito utilizzando i propri pretoriani neonazisti, pressioni e ricatti di ogni tipo), 2) La Nato ha preso il comando diretto delle operazioni militari in Ucraina.

Dal 4 ottobre Mosca considera dunque quelle regioni parti integranti della Russia. Che questa annessione sia o non sia riconosciuta dall’Occidente collettivo (che è primatista nelle operazioni di secessione, si vedano i Balcani) o da altre nazioni, conta molto poco. Perché in questo caso è evidente che ciò che conta è quel che pensa Mosca, ovvero le motivazioni strategiche dietro questa mossa. E questa mossa cambia totalmente le carte in tavola, o meglio cambia la scacchiera: ora non è più la Russia che combatte in Ucraina ma, per Mosca e per la stragrande maggioranza dei Russi come rilevano varie survey, è la Nato che combatte contro la Madre Russia con tutte le conseguenze che ciò comporta.

L’ex cancelliera Angela Merkel, che dimostra di avere ancora la stoffa da statista mentre Super Mario Draghi, che nella fantasia dei nostri politici e dei media Minculpop doveva essere il suo erede, ha solo dimostrato di essere un tecnocrate privo di ogni consapevolezza storica, lo sa e lo ha detto, pur se dietro il velo dello spettro di Helmut Kohl:

[D]ietro il velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono. [2]

Mentre i media Minculpop si stanno esaltando per le “riconquiste” ucraine (Izjum, Balaklija, Lyman e qualche villaggio), mentre generali come Petraeus, che non hanno mai vinto una guerra in vita loro, parlano di “inizio del collasso dell’esercito russo” e al loro seguito una teoria di “esperti” stampati o teletrasmessi scambiano il successo di un’offensiva tattica con una vittoria operativo-strategica, dimenticandosi della distruzione immensa di materiale bellico e del numero spaventoso di perdite ucraine, mentre dunque l’Occidente collettivo si sta eccitando con questa “pornografia bellica” il quadro strategico è totalmente cambiato.

Una guerra non si vince sul piano tattico (anche se la pornografia bellica continuerà ancora, e al solo pensiero c’è da piangere). La parte “cinetica” di una guerra si vince sul piano operativo e la guerra come confronto strategico si vince nella dimensione politica. E’ per questo che le guerre sono sempre state ibride, anche se qualche commentatore pensa che sia una novità e comunica con un certo orgoglio al suo pubblico questa strabiliante “scoperta”. Ed è per questo che l’ammissione delle quattro regioni ucraine nella Federazione Russa cambia il gioco in modo drammatico.

Ora la Nato deve decidere se vuole combattere direttamente contro la Madre Russia (trattando di strategia, è opportuno parlare di “Madre Russia” come abbiamo visto). Non ci sono altre possibilità: o il compromesso o il confronto aperto, senza più l’interposizione del regime fantoccio di Kiev, col tentativo, a costi disumani per gli Ucraini, di strappare qualche nuova vittoria prima che la mobilitazione russa saturi il fronte e probabilmente passi alla controffensiva, nella speranza di indebolire Putin internamente (cosa che non sarà perché, per l’appunto, è in gioco la Madre Russia, e bastano due nozioni storiche e culturali per capirlo) e isolarlo dai suoi alleati, come la Cina, che in questo momento finge di fare il pesce in barile, ma ha perfettamente chiara la posta in gioco (anche perché basta un’imbecille arrogante come Nancy Pelosi per ricordarla a un miliardo e 400 milioni di Cinesi – e spaventare la stessa presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-wen: “Lo scontro armato con la Cina non è un’opzione”).

E la decisione degli Usa (che dovrà tramutarsi in acquiescenza dell’Occidente collettivo) deve tener conto che l’Ucraina è solo uno dei terreni, attualmente il più caldo ma non per questo il più decisivo, del cambiamento epocale ormai conclamato e sotto gli occhi di tutti.

 

Un nuovo termine:unprovoked

Noam Chomsky ha fatto notare che quando si parla dell’invasione russa dell’Ucraina si usa automaticamente e obbligatoriamente un termine che in questi contesti è una novità: “non provocata” (unprovoked). «Ogni articolo che si trova [su Google] deve parlare dell’invasione dell’Ucraina come “non provocata”. Ovviamente è stata provocata. Altrimenti non si riferirebbero ad essa in continuazione come “non provocata” … Questa non è solo la mia opinione, è l’opinione di qualsiasi alto funzionario dei servizi diplomatici statunitensi che abbia una qualche familiarità con la Russia e l’Europa Orientale. Si va da George Kennan [il teorico del contenimento dell’Unione Sovietica] negli anni Novanta, all’ambasciatore di Reagan Jack Matlock, per includere l’attuale direttore della CIA» [3].

Ma se la Russia è stata provocata, occorre capirne i motivi. Quello più evidente è di tipo meccanico: la Russia deve “cambiare regime”, sottomettersi agli USA e se possibile deve essere balcanizzata, cioè frantumata in più stati. L’Ucraina in questo progetto funge da trappola dove migliaia di russo-ucraini del Donbass uccisi dal 2014 e, per ora, decine di migliaia di soldati ucraini caduti assieme a un migliaio di civili sono serviti da esca.

Perché la Russia deve cessare di esistere come stato sovrano?

Qui la pubblicistica russa ricorda che questo è da secoli un obiettivo dell’Occidente e fa riferimento all’invasione svedese e a quella dei Cavalieri Teutonici sconfitte da Alexandr Nevskij nel XIII secolo, all’invasione polacca durante il Periodo dei Torbidi tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, all’invasione napoleonica, a quella prussiana e a quella nazifascista. E’ interessante questa lettura russa della Storia, perché anche se a volte ha un non convincente sapore millenaristico che passa sopra troppi particolari, tuttavia segnala un sentimento e il fatto che per i Russi il concetto di difesa della patria (e di denazificazione) ha un alto contenuto emotivo.

Fatto sta che la Russia è sostanzialmente vista dall’Occidente come una nazione troppo grande, troppo ricca di risorse e troppo “diversa”. E’ una nazione che sfugge al controllo politico dell’Occidente e anche a quello ideologico, cosa non meno importante. Pur essendo parte integrante – e indispensabile – della cultura europea, la Russia è Russia. Il suo cristianesimo sta al di fuori della dialettica (a lungo fratricida) tra cattolici e protestanti ed è estraneo alla loro “modernizzazione” ambiguamente in bilico tra riconoscimento di diritti dovuti e adeguamento agli interessi di lobby politico-ideologiche. Ci sono motivi profondi perché i Russi vedano l’attuale Occidente collettivo non solo composto da irriducibili “odiatori” della Russia ma anche pervaso da una “civilizzazione” aliena, con “valori” non condivisibili [4].

La storica ricchezza etnico-culturale della Russia, composta da ortodossi, musulmani, ebrei, buddisti, da popoli diversi e culture diverse che pure si riconoscono in una sola entità nazionale, fenomeno che possiamo chiamare di “centralizzazione della varietà”, lascia spiazzata un’Europa dove una pletora di stati essenzialmente monocromatici per secoli non sono riusciti a venire a termini con l’Altro [5].

Ed è quindi paradossale, ma non sorprendente che, come si è visto, alti diplomatici della UE dichiarino che la Russia “non è civilizzata”, esattamente come pensavano i nazisti e i fascisti [6].

 

Scontro di civiltà o scontro generazionale?

La centralizzazione della varietà non è un’esclusiva della Russia. Si pensi alla Cina e all’India.

La centralizzazione della varietà si è plasmata in lunghi processi storici che sono stati permessi da meccanismi socio-economici lenti. Non è quindi da confondere col pot-pourri statunitense, formatosi in modo disordinato sotto la pressione di veloci e straordinari processi di accumulazione di denaro e di potere, né con quello disorganico dell’immigrazione nell’Europa post coloniale.

Lo scontro tra Stati Uniti e Russia, preliminare a quello tra Stati Uniti e Cina, è lo scontro tra una giovane nazione anglosassone alleata ad altre giovani nazioni anglosassoni (il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda) sotto la supervisione della loro matriarca, la Gran Bretagna, e nazioni che si sono formate in secoli e secoli: 1.000 anni la Russia, 4.000 la Cina.

Sotto questo punto di vista il blocco anglosassone mette in campo molti punti di forza dovuti alla giovinezza, all’elasticità, alla dinamicità delle scelte, alla spregiudicatezza, alla geografia stessa, ma presenta, specialmente negli Stati Uniti, una direi “fragilità strutturale” che potrebbe essere spiegata, con un abuso di metafora, in termini quasi “politico-psicanalitici”: è il frutto della premura, dell’ansia di recuperare una storia che non si è avuta, un’infanzia e un’adolescenza che sono state negate. Gli Stati Uniti sono Jack Torrence che in “Shining” si blocca su una frase infantile (che nella traduzione italiana, curata da Kubrick stesso, evoca la fase orale: “Il mattino ha l’oro in bocca”) per poi trasformare i deliri infantili di onnipotenza in odio mostruoso per chi egli accusa di bloccare la sua creatività, cioè per chi gli pone vincoli sociali e affettivi e gli ricorda le sue responsabilità di adulto.

Nella millenaria vicenda del Paese di Mezzo, il periodo di soggezione all’Occidente è effettivamente stato quel “paio di secoli non molto brillanti da cui ci stiamo però riprendendo” a cui si riferiscono i Cinesi. Un paio di secoli in 4.000 anni di storia possono essere visti con ironia, come qualcosa di passeggero.

I 77 anni di egemonia statunitense possono invece essere veramente una fiammata, straordinaria, decisiva ma che rischia di essere irripetibile e al suo seguito i trecento anni di predominio dell’Occidente sembrano essere un fenomeno di enorme importanza ma in via di irreversibile esaurimento. Cosa che in sé non sarebbe destinata a sfociare nel dramma se il millenario Occidente non fosse forzato a imitare gli Stati Uniti.

Nel mondo giovane e veloce degli Usa la memoria della Storia o ha un valore mercantile di cui appropriarsi oppure è vista come un’arma potente e pericolosa che a loro manca e che deve essere tolta ai nemici. È così che gli Usa nel 2003 devastarono quel museo di Baghdad istituito da un agente segreto britannico, Gertrude Bell, nel 1915, quando l’espansione dell’impero della “vecchia Inghilterra” stava avvicinandosi al suo apice.

Le nazioni con radici profonde non sono tollerate così come non lo sono le nazioni geograficamente grandi. Gli Stati Uniti devono tenere sotto controllo sia l’ampiezza sia la profondità delle altre potenze. Gli Stati Uniti sono convinti che per “destino manifesto” sono i soli ad avere il diritto ad essere grandi, dove “grande” ha innanzitutto un significato geografico, e che i propri valori fast and furious devono sostituire quelli lenti e calmi degli altri popoli.

Per parafrasare Jawaharlal Nehru, la civiltà occidentale [gli Inglesi] era portatrice di una qualità di cui gli altri popoli [l’India] erano carenti: la dinamicità. Ma lo era fino al parossismo. La società, ogni società, e il capitalismo (col suo alter ego, l’imperialismo) hanno sempre avuto ritmi molto differenti e col tempo questa differenza ad ogni ciclo è diventata un solco che appare sempre più incolmabile.

Ritorneremo a ritmi più lenti, saremo di nuovo capaci di voltarci indietro, di creare “tipi sociali arcaici in una forma superiore” (Marx), o ormai il virus si è propagato ovunque? Cosa uscirà da questo caos sistemico?

 

La guerra per evitare la rivoluzione

La Russia è stata provocata, dunque, e la provocazione è servirà a trascinarla in una guerra. E la guerra serve a minare politicamente la Russia al suo interno, a distruggerla come grande nazione e come nazione sovrana. Poi verrà il turno della Cina e a seguire, posso pensare, quello di un’India che senza il contrappeso della Cina potrebbe rischiare di acquisire un ruolo “troppo importante”.

Washington non vuole perdere la supremazia che ha acquisito grazie a una straordinaria posizione geografica, a una dinamicità selvaggia ancor più che parossistica, e alla scaltrezza da giocatore di poker che l’ha consigliata di entrare a metà corsa nelle due guerre mondiali precedenti. Non la vuol perdere perché è l’unica cosa che tiene insieme una società frantumata, col 15,1% in stato di povertà, il 18% che deve rivolgersi ai banchi alimentari, e che con poco più del 4% della popolazione mondiale ha circa il 25% della popolazione carceraria mondiale.

Per accettare la Storia e il resto del mondo gli Stati Uniti dovrebbero essere in grado di rivoluzionare i rapporti sociali che sono stati plasmati da recenti, veloci e impetuosi processi di accumulazione di denaro e di potere. Ma le sue élite dominanti non lo permettono e non sarebbero comunque in grado di farlo, perché la logica dell’accumulazione capitalistica si erge come un potere oggettivo anche sopra di loro. Sono dunque obbligate a cercare di perpetuare uno strapotere che dura da 77 anni (uno schioccar di dita nella storia umana) da parte di una nazione che per la fine del 2022 conterà solo il 4,2% della popolazione mondiale. Uno strapotere gestito da una minuscola élite che assieme a un numero ristrettissimo di alleati internazionali governa una parte finora ricchissima del pianeta, utilizzando il sostegno di ceti sociali vassalli che si riconoscono negli interessi, o a volte solo nell’ideologia, di questa neo-aristocrazia allevata dalla ormai quasi cinquantennale stagione della finanziarizzazione e del neo-liberismo, allevata cioè dalla crisi sistemica.

Si faccia però bene attenzione a una cosa: benché in differenti circostanze, è già avvenuto che una nazione che “non aveva i numeri” abbia controllato direttamente o indirettamente l’intero pianeta. Pensate alla minuscola Inghilterra di fronte all’immenso subcontinente indiano (sottoposto direttamente) e all’immensa Cina (controllata indirettamente) e al resto dell’Europa (di cui controllava il flusso degli affari e a cui imponeva il “balance of power”). Al momento della sua massima estensione, nel 1921, l’Impero Britannico copriva 35.5 milioni di kmq, il 24% delle terre emerse, 145 volte l’estensione delle isole britanniche e aveva 448 milioni di abitanti, un quinto della popolazione mondiale di allora e ben 10 volte la popolazione della Gran Bretagna. Ma al momento della conquista dell’India, il PIL britannico era solo l’1,9% di quello mondiale e la Gran Bretagna non controllava ancora economicamente e finanziariamente il resto dell’Europa, anzi era indebitatissima coi banchieri olandesi. Eppure conquistò un Paese che vantava più del 22% del PIL mondiale. Ma, come commentava Immanuel Wallerstein, l’Inghilterra era largamente superiore nell’ “arte criminale”, cioè nell’arte della guerra [7].

Ma oggi, sarà ancora possibile dispiegare tutta la propria arte criminale quando ciò può significare la fine dell’intera umanità? Se a Washington ci sono senz’altro mostri impazziti per la disperazione, non c’è veramente nessuno da quelle parti capace di tenerli a bada?

Tuttavia l’aspetto militare è solo uno dei fattori in campo. Si ricordi che oggi il PIL statunitense, benché in contrazione, in Parità di Potere d’Acquisto è il 15,78% di quello mondiale e il Dollaro è punto di riferimento per due terzi del PIL mondiale. Ha quindi ragione Raffaele Sciortino quando suggerisce di «prendere con estrema cautela le ipotesi decliniste riferite agli Stati Uniti». E ciò si ricollega al nostro caveat [8].

Il problema da analizzare è come e quando si combineranno le dinamiche belliche con quelle economiche e quelle finanziarie, tenuto conto che, ceteris paribus, il castello di carte finanziario, esemplificato dal famoso ammontare dei titoli derivati pari a 10 PIL mondiali, cioè pari al nulla dato che non esistono 10 Terre, è destinato a crollare, trascinando con sé banche, industrie e crisi fiscali. E qui “ceteris paribus” vuol dire senza il sostegno dei sistemi finanziari del Sud collettivo, a partire da quello cinese [9].

 

La Storia e lo show-down della crisi sistemica

La lettura del discorso tenuto da Vladimir Putin il 30 settembre nella sala San Giorgio del Cremlino in occasione della firma dei decreti di ammissione nella Federazione Russa delle quattro regioni ucraine, mi ha impressionato per un motivo molto preciso: se prosciugato degli slanci retorici, del riferimento al neoliberismo come “cultura” contrapposta ai “valori tradizionali” russi (cosa non sorprendente in chi sta conducendo una “grande guerra patriottica”), sembra una nota d’aggiornamento a piè di pagina del capolavoro di Giovanni Arrighi “Il Lungo XX Secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”.

Una nota che ci riguarda da vicino perché con questo discorso la Russia si è staccata dall’Europa e con una notevole dose di astio, come quella di un’amante tradita. La nostra incapacità di porci come soggetto terzo tra gli Stati Uniti e le potenze emergenti ha reso questo strappo inevitabile a causa proprio delle dinamiche che erano state descritte da Arrighi a partire dalla prima metà degli anni Novanta. In quegli anni Vladimir Putin era presidente del comitato per le relazioni internazionali di Leningrado. Il suo compito era quello di promuovere i rapporti con l’estero e attirare gli investimenti stranieri. E fu ufficialmente criticato perché le sue decisioni favorivano troppo gli investitori occidentali. Ricordo che fino alla metà dello scorso decennio Putin sognava un mercato unico “da Lisbona a Vladivostok” (e con lui lo sognavano anche gli imprenditori tedeschi).

Bastano solo questi elementi biografici per capire che Vladimir Putin non è ideologicamente antioccidentale ma ha dovuto cambiare le proprie idee per far fronte alle circostanze che doveva gestire. Ne consegue che il 30 settembre scorso al Cremlino parlava come un attore sovrapersonale che rappresentava una dinamica storica. E quel che più impressiona è che sembrava che ne fosse consapevole. Cosa che affascina e inquieta. Perché sono sempre inquieto quando qualcuno, anche a ragione, pensa di interpretare la logica della Storia.

 

Excursus metodologico

Qui serve una precisazione. La Storia è frutto di una sequenza di scelte fatte in circostanze oggettive. Anzi, con un’analogia matematica, più che di una sequenza si tratta di un fascio di scelte.

«Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». Così Karl Marx ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”.

In questa dialettica tra scelta e condizione oggettiva, si gioca la storia umana e l’etica dei suoi protagonisti.

La composizione delle varie scelte, così come la composizione delle forze in Fisica, spinge la Storia in direzioni che possono essere inintenzionali, cioè non volute, non previste e persino non gradite dagli attori storici che prendono le decisioni, che compiono le scelte.

r0mboyehdhIl classico esempio di composizione delle forze è il rombo: la forza F1 si compone con quella F2, che ha una direzione, un verso e una intensità differenti da F1, per fornire la risultante R, che ha direzione, verso e intensità diversi da entrambe. Se si concepisce la Storia come un procedere per successive composizioni di forze, si evita di cadere sia nel meccanicismo sia nel complottismo. Sia chiaro, che i complotti avvengono in continuazione, da quelli che servono a coprire realtà scomode (Ustica), a eventi semplici costruiti ad arte (l’incidente del Golfo del Tonchino, i falsi bombardamenti chimici di al Assad, eccetera) a macchinazioni più complesse, come l’omicidio Kennedy, Piazza Fontana. Abbiamo persino complotti nel complotto, come quello straordinario che prevedeva che Maria Stuarda si lasciasse implicare in un complotto contro Elisabetta I che doveva essere scoperto per obbligare la recalcitrante regina d’Inghilterra a decapitare la cugina Maria, così che finalmente il cattolicissimo ma anch’egli recalcitrante re di Spagna, Filippo II, si decidesse a muovere guerra contro la cugina protestante con la sua Invincibile Armata. Così avvenne, ma ci si mise di mezzo il caso, cioè una serie di tempeste che fecero letteralmente affondare i progetti spagnoli.

Il caso, e ce ne sono tanti esempi, è parte delle forze da comporre. Al contrario, i complotti sono semplici frazioni di una forza e non sono in grado di imporre una risultante voluta.

Occorre però sottolineare che quanto detto non impedisce di poter intravedere o ipotizzare linee di tendenza più verosimili di altre.

 

Una dichiarazione di guerra all’Europa

«Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o in un altro il Nord Stream 2 non andrà avanti»

Victoria Nuland, gennaio 2022 [10].

In molti hanno visto nell’attentato ai due Nord Stream un atto di guerra contro la Germania e l’Europa [11]. Non mette conto leggere i penosi tentativi di sedicenti esperti politici e geopolitici che cercano di dare la colpa alla Russia. Non ha nessun senso. Punto.

uytgvbhtrIo suggerisco di leggere l’attentato terroristico internazionale al Nord Stream come il più recente di una sequenza di atti che, cose si diceva nell’Introduzione, hanno come obiettivo la separazione dell’Europa occidentale dalla restante massa Eurasiatica (con prolungamenti nel Nord Africa e nel Corno d’Africa) e, specularmente, l’accerchiamento della Russia e della Cina (e in prospettiva aggiungerei anche l’India – il fronte del Kashmir è sempre disponibile, oltre ad attentati e scontri intercomunitari).

L’attentato al Nord Stream sembra inoltre una risposta anticipata a ogni futuro ripensamento tedesco: d’ora in poi scordatevi la vostra pacifica Drang nach Osten 2.0.

Separato dal resto del mondo, l’Occidente collettivo avrà come unica scelta l’auto-cannibalismo. La scelta unilaterale di Berlino di stanziare 200 miliardi di euro in deficit per calmierare i prezzi energetici ha creato malumori nella UE e ha iniziato a rievocare lo spettro di Weimar. E ciò a causa della logica dell’accumulazione, che procede per differenziali di sviluppo e non lascia scelta: là dove si possono creare, vengono creati, non si guarda in faccia a nessuno. Inoltre, l’accumulazione odierna, cioè l’accumulazione in tempi di crisi, si svolge in larga parte non per sviluppo ma per rapina – o in termini più soft, tramite l’acquisizione della ricchezza esistente, già prodotta, da parte dei più forti. Per diverso tempo questo tipo di accumulazione era principalmente orientato ai danni del Sud globale. Poi ha dovuto iniziare a prendere di mira anche i centri capitalistici storici, con privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, ristrutturazioni, scorrerie sui debiti pubblici e sulle risorse naturali ove esistono. Da oggi dovrà rivolgersi prevalentemente all’interno dell’Occidente stesso a meno di non riuscire a imporre un selvaggio sfruttamento neocoloniale su una parte di quel Sud collettivo che però, ben consapevole, guarda con crescente speranza al blocco Russia-Cina. In modo molto esplicito Vladimir Putin nel suo discorso del 30 settembre ha sottolineato come la Russia moderna intende raccogliere dall’Unione Sovietica la bandiera della protezione del Sud globale: «Noi siamo orgogliosi che nel XX secolo sia stato il nostro Paese a guidare il movimento anticoloniale, che ha aperto a molti popoli del mondo la possibilità di svilupparsi, di ridurre la povertà e le disuguaglianze e di sconfiggere la fame e le malattie».

Non sono parole retoriche lasciate al caso né nostalgie sovietiche: sono prove di egemonia nella lotta verso un mondo multipolare. Una lotta che la Russia deve condurre adesso, perché anche per la Russia le finestre operative non rimangono aperte all’infinito: la sua attuale supremazia militare in termini convenzionali e strategici non durerà per sempre, i gap sono destinati a colmarsi.

Nel mondo fratturato che caratterizza questa lotta, gli Stati occidentali più forti prenderanno di mira quelli più deboli, secondo una gerarchia che vede in testa gli Stati Uniti mentre le neo-aristocrazie locali prenderanno di mira la loro declinante classe media, un neo Terzo Stato che si sta mischiando progressivamente in modo disorganico a un Quarto Stato formato sempre più da proletari che sono intimiditi o sono indotti, e a volte obbligati, a credere di essere classe media, lavoratori autonomi [12].

Una condizione che in termini di coscienza politica e sociale mi ricorda il periodo tra la Rivoluzione Francese e i moti del 1848.

Questa cascata di rapine che si compie lungo una gerarchia ramificata dove ogni nodo cerca in qualche modo di risalire di livello a scapito degli altri, non può alimentarsi a lungo se la ricchezza rapinata non viene rigenerata. Ma proprio la cascata di rapine indurrà disfunzionalità e corti circuiti che ostacoleranno la produzione di nuova ricchezza. Già sta avvenendo, perché la necessità di non far crollare di colpo il castello di carte finanziario induce uno spreco immane di risorse, a partire dai quantitative easing che arrivano all’economia reale solo col contagocce o dai profitti d’impresa reinvestiti al 90% in operazioni di borsa.

Gli Usa vogliono venderci a caro prezzo il loro shale gas, come alternativa obbligata a quel gas russo a buon mercato che ha avuto un ruolo chiave per gran parte dello sviluppo economico europeo del dopoguerra [13]. Ma l’Europa come lo pagherà se contemporaneamente gli Usa applicano politiche tariffarie, fiscali e monetarie, per favorire la propria re-industrializzazione a scapito di una de-industrializzazione dell’Europa? E’ facilmente prevedibile uno scenario di austerity, di indebitamento crescente, di “aggiustamenti strutturali”, di disoccupazione, di impoverimento generale delle società europee. Ma a macchia di leopardo, in ragione delle “preferenze politiche” (ed economiche) degli Stati Uniti che lavoreranno su un terreno già frammentato.

La crisi del “sistema Germania” metterà infatti in crisi l’Euro e la già traballante solidarietà europea [14]. Ha misurato attentamente le parole Bruno Le Maire, il ministro francese dell’Economia, della Finanza e della Sovranità Industriale e Digitale (così Macron ha ribattezzato quest’anno il dicastero mentre sparava a zero contro i “sovranismi”) quando ha affermato che bisogna evitare «che il conflitto in Ucraina sfoci nella dominazione economica americana e nell’indebolimento europeo» [15].

Ma a cosa serve capire? Secondo Putin a nulla, ormai: «Capiscono chiaramente che gli Stati Uniti, spingendo l’UE ad abbandonare totalmente l’energia e le altre risorse russe stanno praticamente deindustrializzando l’Europa e si stanno impadronendo completamente del mercato europeo – capiscono tutto, queste élite europee, capiscono tutto, ma preferiscono servire gli interessi degli altri. Non si tratta più di una banalità, ma di un diretto tradimento dei loro popoli. Ma che Dio li accompagni, sono affari loro».

In realtà, più che il tradimento di un popolo, quella delle nostre élite è una scelta di classe, la scelta di servire interessi che ormai non hanno più alcuna connessione col benessere sociale e nazionale.

Con l’approfondirsi della crisi, infatti, alcuni grandi gruppi si arricchiranno, mentre altri collasseranno assieme a una miriade di imprese e di reti d’imprese con limitata disponibilità di capitale mobile, o meno protette politicamente, o meno strategiche (ad esempio non legate all’apparato militare). I fenomeni di concentrazione e centralizzazione dei capitali subiranno un’accelerazione perché il tempo diventerà risorsa rara: per via degli intrecci tra capitali reali e capitali fittizi queste operazioni dovranno essere compiute prima che inizino i grandi disastri finanziari, prima che si scopra che 10 Terre non esistono.

Se in corso d’opera la strategia anglosassone virerà dal tentativo di distruggere la Russia al tentativo di guadagnar tempo per rimandare più in là le scelte, bisogna considerare che sarà difficile “comprare tempo” senza lasciarsi attrarre da ricche sirene come il futuro mercato internazionale dello Yuan e forse anche del Rublo e gli stratosferici investimenti richiesti dalle nuove “vie della seta” (la Belt and Road Initiative cinese) e dagli altri colossali progetti eurasiatici. C’è una quantità strabiliante di capitali in Occidente che non intendono star fermi ad aspettare che la prossima crisi li “macelli” (Marx). E questo indurrà altri moti sussultori che si sommeranno allo scontro tra placche tettoniche.

Un discorso a parte, che qui non può essere sviluppato, riguarda l’agricoltura e i regimi alimentari. Un settore imprescindibile e che per gli Stati Uniti è stato strategico fin dalla loro formazione. E legato ad esso bisognerà affrontare il tema ecologico tenendolo distinto dal suo utilizzo a fini speculativi, che è quello corrente.

 

Conclusioni

Le conclusioni sono sempre le stesse che Giovanni Arrighi esponeva circa 30 anni fa:

«Prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere».

Queste domande e queste incertezze sono ineludibili e segnalano l’inadeguatezza dei nostri strumenti di analisi di fronte a fenomeni caotici e sommamente complessi.

Qua e là nei discorsi di Putin sembra di cogliere alcuni apprezzamenti precisi dei fenomeni in gioco, come la finanziarizzazione, come quando ricorda che con le «capitalizzazioni gonfiate», con la «capitalizzazione virtuale» non si può «riscaldare nessuno». Ma questo testimonia solo di una asincronicità tra le fasi di sviluppo e di crisi occidentali e quelle eurasiatiche. La finanziarizzazione non è uno stadio del capitalismo, ma l’espressione delle sua crisi sistemiche, crisi che sono indotte dai meccanismi di accumulazione. Quindi si può ipotizzare in prima battuta che per ora non sono entrati in contrasto due sistemi di rapporti sociali distinti, ma due “orologi” che non possono sincronizzarsi. Che poi questo contrasto assuma contorni ideologici è naturale. E’ sempre stato così e lo è ancora di più in un’epoca dove la comunicazione e il dominio delle idee sono diventati un’arma diretta. Ma la domanda è: sappiamo quali interessi difende Biden, ma quali interessi difende Putin, quali Xi? Che sistemi hanno in mente? Quanto sono praticabili? Quanto sono compatibili con la stabilità di un mondo multipolare? Si andrà incontro a una situazione permanente di caos, a una società di mercato postcapitalistica, o a che altro?

Non ne abbiamo idea. Io non ne ho idea. Sono anni che non si fa più un’analisi di classe e da un punto di vista di classe, militante e di ampio respiro. Così quando questo inverno saremo immersi nella riedizione del XIII secolo con la nuova guerra dei cent’anni, la nuova peste e i nuovi tumulti dei ciompi quel che avremo a disposizione sarà un pensiero simbolico pericolosamente vicino a un pensiero magico e rimpiangeremo la riga e il compasso.


Note
[1] “Non fate gestire la crisi ai banchieri centrali”, così il Guardian lo scorso 16 ottobre 2022 (https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/oct/16/the-guardian-view-on-central-bankers-dont-put-them-in-charge-of-the-crisis). Come dei cani di Pavlov, i banchieri centrali per contrastare l’inflazione colpiscono automaticamente sul lato della domanda, cioè i salari, suscitando l’allarme di Richard Kozul-Wright, il responsabile del rapporto ONU sul commercio e lo sviluppo: «Cercate di risolvere un problema dal lato dell’offerta con una soluzione dal lato della domanda? Pensiamo che sia un approccio molto pericoloso». Qui il rapporto ONU: https://unctad.org/system/files/official-document/tdr2022_en.pdf e qui il commento di Michael Roberts, economista marxista britannico, ex analista finanziario nella City di Londra: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24075-michael-roberts-la-terapia-d-urto-sull-economia-mondiale.html
[2] Barbara Spinelli, “Meloni deve scegliere: o Draghi o Merkel”. Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2022.
http://barbara-spinelli.it/2022/09/30/meloni-deve-scegliere-o-draghi-o-merkel/
[3] https://www.ramzybaroud.net/rationality-is-not-permitted-chomsky-on-russia-ukraine-and-the-price-of-media-censorship/
[4] Per fare un esempio importante, in Russia l’omosessualità non è né illegale né perseguitata. A inaugurare le Olimpiadi di Sochi fu un duo canoro, il t.A.T.u., che si presentava in scena in esibiti atteggiamenti lesbici (in realtà solo Julia Volkova era dichiaratamente bisessuale), Čajkovskij non è messo al bando perché omosessuale – lo è invece in diversi posti in Occidente perché russo – e potete trovare testimonianze di omosessuali russi che vivono all’estero e non amano Putin ma negano che in Russia ci sia una persecuzione omofoba. In Russia c’è invece una legge per “proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia”. Una dicitura su cui si può discutere (cosa significa “tradizionale”?) ma che intende evidentemente porre un argine, magari mal formulato, alle estremizzazioni a cui sta giungendo l’Occidente sulla base di una concezione illimitata (e ipocrita) della coppia individualismo-desiderio. Anche le società occidentali, in quanto comunità che hanno necessità di valori condivisi e di solidarietà, cercano di difendersi dalla teorizzazione e dalla pratica dell’illimitatezza, dell’apeiron, di individualismo e desiderio. In mancanza di forze comuniste che elaborino e indichino la strada dell’emancipazione, pressata dall’apeiron dei progressisti (anche economico: l’accumulazione infinita) e alla ricerca di un katéchon, un freno ad esso, questa necessità di difesa vede un rifugio immediato, benché profondamente errato, nella conservazione reazionaria, bigotta, intollerante, persino fascistoide, politicamente scorretta non per provocazione ma per convinzione. Succede in Occidente così come in Russia.
[5] Un’amica russa mi raccontava con nostalgia di quando viveva in Uzbekistan in epoca sovietica perché nel suo palazzo vivevano ortodossi, ebrei e musulmani e tutte le ricorrenze religiose erano occasioni condivise di festeggiamento.
[6] https://www.entilocali-online.it/prezzo-gas-lontano-accordo-ue-su-tetto-contatti-draghi-meloni/
[7] E non solo. La Gran Bretagna era abile nello sfruttare le contraddizioni sociali e politiche delle nazioni che conquistava, la loro cultura, le loro tradizioni, persino le loro superstizioni, e sapeva corrompere. E non si faceva scrupoli di nessun tipo. Oggi negli UK queste abilità, a parte la mancanza di scrupoli, a quanto pare sono un ricordo. Ma è vero o è apparenza? Certo, a parità di mancanza di scrupoli c’è un abisso tra un Winston Churchill e una Liz Truss: il declino occidentale si riflette anche nel disperante declino della caratura del suo personale politico. Ma al di là di questo penoso spettacolo, cosa bolle in pentola? Gli UK sono usciti dalla UE per avere le mani libere in vista della svolta che da lì a poco sarebbe stata impressa alla crisi sistemica. Questo è un punto che mi sembra assodato. Eppure sono sempre descritti come i “junior partner” degli Stati Uniti. Ma fino a che punto è vero? Gli Inglesi, gli eredi del più grande impero della storia, possono accontentarsi di essere solo dei “junior partner”? Notate che essere eredi d’imperi conta, e conta molto. Conta per il piccolo Belgio e conta per la piccola Olanda. E’ persino contato per l’Italia essere erede dell’Impero Romano: fino al 1600, quando fu superata dalla Province Unite, ha goduto del più alto PIL pro capite mondiale. E’ ovvio che quindi conti anche per la Gran Bretagna. Provate a pensare alla City di Londra. A Parità di Potere d’Acquisto gli UK vantano solo il 2,34% del PIL mondiale. Eppure nonostante gli USA abbiano una quota parte quasi 7 volte più grande, Londra supera New York per servizi finanziari, surplus degli scambi e per il mercato dei bond internazionali (si veda https://www.theglobalcity.uk/competitiveness).
Questa capacità di “resilienza” è dovuta all’accumulo nei secoli, grazie all’impero, di densi grumi di potere, di capacità di influenza, di vaste e importanti relazioni, di presenza internazionale, di abilità organizzative del business e di acquisizione e gestione delle informazioni. E’ la prova che queste capacità non sono determinate solo dalla potenza militare o da quella economica (nemmeno quella reale, altrimenti questi primati spetterebbero alla Cina). Persiste, ovviamente, anche la mancanza di scrupoli, esemplificata oggi nel modo più squallido da Liz Truss. Mentre qualsiasi politico, anche il più spudorato, parla del ricorso all’arma nucleare come di una risorsa della disperazione, Liz Truss è l’unica che ha dichiarato che si sentirebbe onorata a schiacciare il bottone dell’attacco nucleare contro la Russia. Ha anche dichiarato di essere una “enorme sionista” (a huge Zionist). Ma quando le dichiarazioni sono esagerate delle due l’una: o il soggetto è psicopatico, o nasconde qualcosa, tipicamente il contrario dell’esagerazione affermata. Tenuto conto che tradizionalmente Londra e Mosca hanno canali di comunicazione preferenziali, fino a che punto gli UK sono disposti a seguire gli USA nella loro avventura ucraina e nella loro crociata antirussa? Si tenga conto che la Gran Bretagna è sì al di là della Manica, ma è ben al di qua dell’Atlantico. Così come negli Usa dell’Ottocento c’era un partito anglofilo, i Democratici, e uno anglofobo, i Repubblicani, specularmente negli attuali UK sembra che ci sia un partito, trasversale, filo-americano e un partito, trasversale, sovranista-aristocratico (si veda https://www.cumpanis.net/la-gran-bretagna-non-puo-piu-sbagliare-la-sua-strategia-globale/). Ricordo che la regina Elisabetta fece trapelare il suo endorsement alla Brexit. E se la Brexit può voler dire abbandono dell’Europa a favore del ruolo di partner privilegiato degli Usa, fondamentalmente vuol dire tenersi le mani libere. La Gran Bretagna sembra in bilico tra il ruolo di junior partner e quello di matriarca delle giovani nazioni anglosassoni, delle Five Eyes.
In attesa quindi di vedere se Liz Truss è una volpe (per lo meno per conto terzi) o è veramente psicopatica, saremo costretti a subire i suoi spettacoli di cinismo, di arroganza e di mancanza totale di etica che uguagliano quelli di Hillary Clinton, che sembravano inarrivabili.
[8] Raffaele Sciortino, “Prove di internazionalizzazione del renminbi yuan e de-dollarizzazione”. ACro-Pólis, 19-09-2022 (https://www.acro-polis.it/2022/09/19/prove-di-internazionalizzazione-del-renminbi-yuan-e-de-dollarizzazione/).
[9] Le provocazioni statunitensi alla Cina segnalano che Washington, Wall Street, Londra e la City sono ormai sicure che Pechino si opporrà all’integrazione della finanza cinese nei giochi finanziari occidentali – e la vicenda di Ali Baba lo dimostra. Quindi Washington e Londra devono ricorrere a tentativi di destabilizzazione.
[10] https://youtu.be/igAfB8LdZaE
[11] Uno per tutti, si veda un importante articolo del grande giornalista brasiliano Pepe Escobar, uno dei pochi che all’epoca di Osama bin Laden condusse inchieste in Afghanistan (e fu imprigionato dai Talebani). Dato che è stato bannato da Twitter e da Facebook, lo potete trovare qui:
https://canadiandimension.com/articles/view/germany-and-the-eu-have-been-handed-over-a-declaration-of-war
[12] «In questo universo di soggetti lavorativi, che da un ventennio almeno rappresentano in Italia circa l’80% dei nuovi posti di lavoro, si distinguono nettamente due categorie: quelli che ancora conservano una coscienza della subordinazione o della dipendenza economica e ritengono che i rapporti di forza sul mercato sono tali per cui il conflitto presenta alti o troppi rischi e quelli che hanno perduto completamente questa coscienza e ritengono che la legittimazione sociale, il riconoscimento sociale siano la massima ricompensa cui hanno diritto di aspirare nel rapporto di lavoro, il quale, come tale, non può essere messo in discussione. Ritengono che negoziare le condizioni di lavoro sia un sovvertimento dell’ordine sociale. […]
Stretto nella morsa della sua solitudine, incapace di protestare o di riuscire a negoziare il rapporto di lavoro e la condizione lavorativa, volendo comunque migliorare la propria situazione, cerca una diversa situazione di lavoro, abbandona il possibile campo di scontro e crea in questo modo, da un lato, una precarietà cercata, voluta, dall’altro, un ulteriore indebolimento del fronte che avrebbe potuto configurarsi in maniera antagonista.
Mi sono fatto la convinzione che il problema del conflitto impossibile o negato ruota attorno alla tragica condizione dell’individualismo e che il problema del neofascismo, del sovranismo, del nazionalismo, del populismo – in una parola dell’antiglobalizzazione – sia essenzialmente una riproposizione dell’identità collettiva, del senso stesso di collettività, ottenuto attraverso la costruzione di un nemico immaginario (ieri gli ebrei, oggi i migranti). Questo è risaputo, è la spiegazione mainstream del neofascismo. Quello su cui non si riflette abbastanza è che alla radice sta sempre il problema del lavoro (o del welfare) e che il senso di frustrazione che è la molla dei comportamenti razzisti deriva proprio dai problemi occupazionali e in ultima analisi dall’impossibilità/incapacità di negoziare le proprie condizioni di lavoro o di migliorare la propria condizione esistenziale.
La differenza sostanziale tra il nostro modo di superare l’individualismo e quello dei populisti sta nel fatto che noi vorremmo costruire la solidarietà attraverso un conflitto reale che comporta notevoli rischi mentre loro costruiscono identità attraverso un conflitto immaginario che non comporta nessun rischio. Per questo il loro ostentare ardimento e aggressività nasconde una profonda, innata, vigliaccheria» (Sergio Bologna, “Fine del lavoro come la fine della storia? 2/2”, AcrO-Polis, 23-06-2022
https://www.acro-polis.it/2022/06/23/fine-del-lavoro-come-la-fine-della-storia-2-2/)
L’intersecarsi disorganico di istanze di una classe media in via di proletarizzazione con quelle di un proletariato costretto a pensarsi classe media è stato messo in luce sia dalla vicenda Covid sia dalle elezioni in Europa e negli Stati Uniti.
[13] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italia-russia-una-storia-tutto-gas-21400
[14] Si vedano “La Germania balla da sola” di Stefano Porcari e “On the Euro without Germany” di Michael Hudson (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/23957-stefano-porcari-la-germania-balla-da-sola.html e https://www.nakedcapitalism.com/2022/09/michael-hudson-on-the-euro-without-germany.html).
[15] https://www.ilsole24ore.com/art/gas-francia-inaccettabile-che-usa-facciano-utili-forniture-all-europa-AEkvx27B?refresh_ce=1

https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24083-piero-pagliani-la-caduta-lineamenti-e-prospettive-del-prossimo-futuro.html?fbclid=IwAR1YX4WMYrPRwbrjZpnMdGcpEZ6tEOvhrWEoeThZr-Ct6Q1wK68PL7vHKKE

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Rivisitare gli obiettivi russi in Ucraina, the saker

Date un’occhiata a questo elenco di titoli, tutti da una sola fonte, Russia Today, e tutti della scorsa settimana circa [tutti i link in inglese]:

Alcuni sono solo “ancora la stessa roba” (come gli ucronazisti che fanno vietare agli australiani le bandiere russe all’Open), alcuni sono piuttosto disgustosi (come il blogger ucronazista che vuole sterminare il popolo russo), alcuni sono rivoltanti (come i francesi che avvertono 5000 tombe russe che “la loro concessione sta per scadere”!), alcune sono esilaranti (come l’idea del busto di “Ze” al Campidoglio), altre sono decisamente folli (come l’idea di un “vertice di pace in Ucraina” senza la partecipazione russa). Alcune sono strane ma incoraggianti (come il candidato governatore del Kentucky, un Democratico, che chiede la messa in stato d’accusa di Biden per crimini di guerra). Ma alcune sono davvero molto, molto serie (come l’aumento delle dimensioni dell’esercito russo a 1,5 milioni di uomini, o il fatto che sia il Generale Milley che il ministro della Difesa Shojgu visitino le loro truppe contemporaneamente.

Si potrebbe certamente dire che questi titoli sono “segni dei tempi” (“non sapete distinguere i segni dei tempi?” Matteo 16:2-3), ma cosa significa tutto questo?

In primo luogo, questi titoli sono come un’istantanea della follia collettiva dell’Occidente. Tenete presente che la scorsa settimana non è stata né più né meno ricca di idee e dichiarazioni folli rispetto alle settimane precedenti. Questa istantanea è quella che si potrebbe chiamare “l’omeostasi dell’Occidente” o, in altre parole, la norma, la condizione mentale stabile in cui opera l’Occidente. Gli storici del futuro, supponendo che gli Anglosionisti al potere ci permettano di avere un futuro diverso da un’apocalisse nucleare, si meraviglieranno della follia collettiva che ha sopraffatto un intero continente.

In secondo luogo, sia il rabbioso fenomeno di massa #CancelRussia che le discussioni sull’invio di armi della NATO, inclusi carri armati, aerei da combattimento, missili antiaerei e simili, sono un’espressione della stessa rabbia impotente provata dai leader dell’Occidente. E titoli come “L’economia russa sta andando molto meglio del previsto (…) I risultati finanziari per il 2022 hanno superato molte previsioni, dice il presidente [Putin]” [in inglese] di certo non aiutano.

L’ovvio pericolo qui è che le persone frustrate e piene di odio di solito non sono in grado di prendere decisioni razionali. Prendiamo, ad esempio, l’idea “intelligente” di inviare agli ucronazisti (beh, alla NATO, in realtà) più carri armati o aerei. Se guardate i numeri discussi, sono così piccoli da non fare alcuna differenza. Ma una volta che li hai inviati in Ucraina e vengono distrutti dai missili russi, cosa farai dopo? Ne mandi altri?

I russi hanno impiegato circa un mese per distruggere sostanzialmente le forze armate ucraine (originarie).

Quindi la Russia ha impiegato circa 9 mesi per distruggere la maggior parte dei mezzi dell’ex Organizzazione del Trattato di Varsavia (no, *non* veniva chiamato “Patto” – questa è pura propaganda e perché non chiamare la NATO Patto Atlantico con la stessa logica?). La parte triste qui è che nel processo di distruzione di tutti quei mezzi del Trattato di Varsavia, la Russia non ha avuto altra scelta che infliggere orrende perdite con morti e dispersi ucraini che sono arrivati a diverse centinaia di migliaia. “Ze” ha inviato ondate dopo ondate di uomini mobilitati direttamente nel tritacarne russo senza alcuna possibilità di prevalere e pochissime possibilità di sopravvivenza.

La Russia potrebbe impiegare un anno o più per distruggere completamente tutti i mezzi (e i “volontari”) inviati dalla NATO. La Russia sta certamente facendo piani per una guerra lunga e importante, da qui la ricreazione dei distretti militari di Mosca e Leningrado (potete pensare ad essi come “fronti” una volta iniziata la guerra) o il massiccio aumento dell’approvvigionamento di armi, fino alle forze di deterrenza strategica (nucleare e convenzionale).

In questo momento la Russia sembra concentrarsi sulla distruzione delle unità (relativamente) meglio addestrate delle forze miste NATO-ucronaziste nell’Ucraina orientale. La strategia russa è molto semplice: la Russia può uccidere i soldati e i mezzi della NATO più velocemente di quanto la NATO possa fornire rinforzi. Ovviamente questa è solo una situazione temporanea, e lungo le linee del fronte ci sono tre raggruppamenti di forze russe (Nord, Est, Sud) che possono intervenire in qualsiasi momento e dare alla Russia qualcosa che non ha mai avuto dall’inizio dell’SMO: un’offensiva completa con armi combinate e una superiorità numerica rispetto alla controparte.

Gli osservatori più informati, come il Colonnello Macgregor, ritengono che un’offensiva russa sia quasi certa. Le guerre possono essere molto imprevedibili, e Putin ha una capacità geniale di agire in modi imprevedibili, quindi non direi che questa offensiva sia assolutamente certa; ma sono d’accordo che è altamente probabile. Ma una simile offensiva non è esente da rischi.

In termini puramente militari non esiste forza nel continente europeo che possa affrontare le forze russe attualmente schierate lungo il confine ucraino. In termini politici c’è un grosso problema per la Russia: il terreno che libererà dovrà essere protetto.

Durante la prima fase dell’SMO i russi hanno inviato una forza relativamente piccola, che ha combattuto molto bene contro gli ucronazisti, ma che non ha tenuto il terreno (cosa che non si fa mai in economia delle forze e guerra di manovra), risultando in una situazione assolutamente terribile, estetica inclusa:

  • La percezione che la Russia prometta di venire a proteggere la gente che ha liberato solo per poi abbandonarle.
  • La percezione che i russi si siano ritirati a causa dei successi militari ucronazisti.

Il fatto che nessuna di queste affermazioni sia del tutto vera non aiuta, in quanto sono “abbastanza vicine” alla verità da sembrare convincenti. Di conseguenza la parte russa ha perso completamente il controllo della narrazione, per un po’ anche all’interno della Russia! Ci è voluta la nomina di Surovikin per rassicurare il pubblico russo che anche se sono stati commessi errori (anche nella prima fase della guerra o durante la mobilitazione), quegli errori sarebbero stati affrontati e corretti. Ora che il Capo di Stato Maggiore Generale russo ha il controllo finale e personale della guerra, nessuno dubita che il Cremlino faccia sul serio.

C’è anche un piccolo ma evidente cambiamento nella propaganda occidentale, con sempre più voci che dissentono dalla linea ufficiale del partito Anglosionista. Naturalmente il disastro economico che sta affrontando l’UE è di grande aiuto per calmare gli europei: ora che sempre più cittadini dell’UE devono dire “ciao” alle comodità e ai posti di lavoro di cui godevano (tra cui, in primo luogo, l’energia a basso costo), possiamo contare su un fragore di proteste sempre più forte. Forse non quelle “filorusse”, no – la maggior parte degli europei, specialmente quelli del nord Europa *odiano* la Russia – ma almeno quelle anti-establishment. L’aver messo a tacere la tua coscienza non ti tiene al caldo o, del resto, al lavoro. L’UE ora scoprirà i costi molto reali della rabbiosa russofobia. E l’invio di carri armati in Ucraina ovviamente non aiuterà. Da qui gli attuali scioperi e proteste in diversi paesi dell’UE.

Quindi, quando l’offensiva promessa si materializzerà rimarranno solo due opzioni: abbandonare il regime ucronazista “stile Kabul” o impegnare completamente la NATO (o un sottoinsieme di stati della NATO) per invadere l’Ucraina occidentale. Io punto su quest’ultima opzione.

In realtà, questa non è un’opzione, ma sono due molto diverse.

  • Nel primo caso la NATO (o un suo sottoinsieme) si muoverà unilateralmente sperando che la Russia non colpisca la forza di occupazione.
  • Nel secondo caso gli Stati Uniti e la Russia potrebbero raggiungere un accordo, e concordare la spartizione di quello che rimane dell’Ucraina.

Ovviamente la seconda soluzione è infinitamente più sicura e preferibile, ma proprio come Hitler e i suoi scagnozzi non volevano negoziare con i subumani russi, non lo vogliono nemmeno gli Anglosionisti.

Tuttavia, ecco una verità lapalissiana che deve essere sempre tenuta a mente:

==>>Non c’è niente in Ucraina che la Russia vuole o di cui ha bisogno<<==

Questo era vero per l’Ucraina prima dell’SMO, ed è ancora più vero oggi. Il Paese 404 è fondamentalmente deindustrializzato [in inglese] e prototipo di Stato fallito, mentre la popolazione ha subito un tale lavaggio del cervello che ci vorranno anni per deprogrammarla. La Russia vuole solo due cose:

  • Proteggere la popolazione di lingua russa dal genocidio
  • Negare alla NATO l’uso del territorio ucraino per attaccare la Russia

Si noti che nessuna di queste opzioni richiede necessariamente importanti conquiste territoriali. Direi persino che, con un’eccezione (si veda sotto), sarebbe l’ideale per la Russia raggiungere questi obiettivi liberando il meno possibile della terra attualmente occupata dai nazisti. Come ho detto molte volte, sono gli ucraini che devono liberare la propria casa, e non aspettarsi che la Russia lo faccia per loro. Ahimè, ci vorrà un’altra generazione di ucraini per farlo, ammesso che ci riusciranno mai. Ma fintanto che il Paese 404 sarà sufficientemente smilitarizzato, la Russia può aspettare che la denazificazione penetri nelle menti di milioni di ucraini sottoposti al lavaggio del cervello.

La prima conseguenza di ciò è che i russi sono più che felici di non andare avanti e che gli Stati Uniti spingano le forze della NATO nel tritacarne russo. È vero, è improbabile che la Russia sia in grado di smilitarizzare e denazificare l’Ucraina senza una grande offensiva che finisca le forze naziste. Ma la conquista di territorio non è l’obiettivo russo: è solo il mezzo per raggiungerlo.

Poi c’è la questione Nikolaev-Odessa-PMR (Repubblica Moldava Transnitriana).

Anche se il Cremlino potrebbe avere altri piani, personalmente non vedo altra opzione se non quella di aprire un corridoio terrestre verso la PMR. Ciò avrebbe anche l’immenso vantaggio di isolare quello che resta del Banderastan dal Mar Nero. Per la NATO, tuttavia, la perdita di Odessa e della costa del Mar Nero rappresenterebbe una grave battuta d’arresto, sia politicamente che militarmente. C’erano alcune idee davvero stupide circolate su questo in Occidente, incluso l’invio della 101st Airborne Division come forza “trappola”. Perché è stupido? Semplicemente perché *SE* i russi hanno concluso che la liberazione dell’intera costa ucraina è vitale per la sicurezza della Russia, allora nessuna forza “trappola” li fermerà. E cosa faranno gli Stati Uniti se quella forza trappola viene attaccata? Lanceranno un attacco nucleare su vasta scala alla Russia?

I Neoconservatori statunitensi sono disposti a perdere Washington DC, New York, Miami o Los Angeles per Odessa? Non lo so, ma se sono i tipici nazisti che adorano se stessi (come sono), allora un olocausto nucleare potrebbe sembrare preferibile a questi mostri pieni di odio. Qualcuno sano di mente può fermarli? Non so neanche questo.

I titoli di cui sopra mi suggeriscono che non è stata presa alcuna decisione reale, e che in questo momento c’è un tiro alla fune all’interno delle élite dominanti occidentali su cosa fare quando si verificherà (quasi certamente) l’inevitabile offensiva russa. A proposito, questo fatto di per sé potrebbe essere una buona ragione per i russi per non muoversi troppo presto. Sì, è improbabile che prevalgano voci più sagge, ma essendo una superpotenza nucleare la Russia deve agire con la massima cautela, e non ascoltare i turbopatrioti russi e gli “amici della Russia” occidentali che sostengono la guerra totale da mesi, se non anni.

Forse il “modello georgiano” è ciò che potrebbe salvare la situazione?

Ricordate come durante la guerra di tre giorni dell’08/08/08 le forze russe si stavano avvicinando a Tbilisi senza che fosse rimasto nessuno a difendere la capitale georgiana? I russi hanno deciso di richiamare le loro forze (no, la Russia non ha bisogno né della terra né del popolo della Georgia. Suona familiare?) ma Saakashvili ha reinterpretato questo ritiro come “le nostre forze eroiche e invincibili hanno fermato i russi”. E due anni prima Bush dichiarò con faccia seria che Israele aveva sconfitto Hezbollah nella guerra della “Vittoria Divina”. Quindi forse gli Anglosionisti possono salvare la faccia dichiarando di aver “impedito alla Russia di impadronirsi di Leopoli o Ivano-Frankovsk”? E se i russi decideranno di non tentare di liberare Kiev, allora la NATO potrà dichiarare che “abbiamo impedito alla Russia di impadronirsi di Kiev”. Sì, sarebbe una bugia piuttosto evidente, almeno per quei pochi ancora capaci di pensiero critico, ma personalmente preferisco di gran lunga una bugia, comunque sciocca, ad una guerra su vasta scala.

Quindi forse la Russia ha bisogno di avere un terzo, tacito, obiettivo: dare ai folli occidentali un’“uscita” salva-faccia, non importa quanto sottile o ridicola. In effetti sono abbastanza fiducioso che adesso ci siano persone in Russia che ci stanno lavorando.

Il Saker

*****

Pubblicato su The Saker.is il 17 gennaio 2023
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per Saker Italia

https://sakeritalia.it/sfera-di-civilta-russa/rivisitare-gli-obiettivi-russi-in-ucraina/

Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 1a parte

Massimo Morigi

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 7

PRIMA PARTE DELLO STATO DELLE COSE DELL ULTIMA RELIGIONE POLITICA

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