MEDITAZIONE IN MORTE DI UN CARABINIERE, di Antonio de Martini

Non leggo i fatti di cronaca nera , ma inciampo sempre più spesso in notizie e commenti su membri delle forze dell’ordine – sarebbe più appropriato ahimè parlare di forze armate- che soccombono di fronte all’aggressività di criminali di vario conio.

Inevitabile chi lamenta , come Alga Fratini le misere condizioni economiche del militare coinvolto e chi come Luca Pardi si lancia in una filippica contro i cittadini che non hanno votato come vorrebbe lui.

Improprio prendersela con vaghe categorie dello spirito come “ la classe politica” l’immigrazione irregolare o le coltellerie di Maniago ( Solingen per gli europeisti).

Se si andasse a guardare le statistiche dell’ultimo mezzo secolo, gli unici tre anni in cui nessun carabiniere è rimasto ferito o deceduto per causa di servizio, è stato il triennio in cui a capo dell’Arma dei Carabinieri è stato il generale ingegnere Giovanni de Lorenzo.

E questo è un dato di fatto.

Si, tre anni , anche non facili e nemmeno un ferito in un incidente automobilistico.

Seguiti dall’invio – quando de Lorenzo divenne capo di Stato Maggiore dell’Esercito – di sedicimila militari a salvare Firenze da una disastrosa alluvione di cui adesso mena vanto qualche quaquaraquà con accesso in TV.

Sedicimila uomini a spalare fango e raccattar cadaveri per giorni ( leggete le cronache di quei giorni de “ La Nazione” di Firenze) e anche questa missione fu portata a termine senza un ferito un annegato o un incidente.

Si chiama arte del comando e si acquisisce negli anni e non nei cocktail o nelle cerimonie commemorative.

Le nostre Forze Armate hanno il “know how” per addestrare gli uomini ( ed ora anche le donne) a svolgere ogni compito che venga loro assegnato.

Ma cominciarono col sottrarre loro l’addestramento dei controllori di volo e conclusero con una ipocrita “ sospensione” del servizio militare.

Le FFAA. Non dovevano essere un punto di riferimento morale o professionale.

Se da così tanto tempo ci sono incidenti che sarebbero stati evitabili ( come “check point pasta” ( Somalia) Nassirya ( Irak) o Stazione Termini ( casbah) la colpa è dei comandanti che ormai giungono al vertice attraverso una tale catena di servilismi da rasentare il grottesco se non ci fosse da piangere.

Sanno servire i potenti, ma non più lo Stato.

L’Arma dei Carabinieri – continuiamo a chiamarla così , ma è diventata una FORZA ARMATA come la Marina o l’Esercito grazie a un patto scellerato -che deve essere cancellato al più presto – tra D’Alema e il generale Del Sette e pochi altri vendutisi in cambio di un’altra stelletta sulle spalline e una pletora di posizioni da “ aiutanti di campo” che un tempo erano posti riservati agli incapaci di comando.

Oggi sono invece, queste attività servili, trampolini per le posizioni di vertice dato che le nomine le fanno coloro ai quali questi signori portano a spasso il cane o la moglie quando non vanno in giro a sparlare dei concorrenti del padrone di turno.

Chi lotta contro il banditismo non va più a comandare. Ne hanno paura. Et pour cause.

Li odiano e li lasciano massacrare da magistrati che da poco cominciano a far conoscere il loro vero volto e i loro interessi reali.

Gli ufficiali e i sottufficiali bravi a comandare vengono schiacciati tra questa incudine di incapaci e il martello dei magistrati arrivisti.

I carabinieri – e non solo loro – sono quindi molto mal comandati da almeno venti anni e le conseguenze si notano nella disciplina, nel tono psicofisico; nella propaganda fatta a colpi di fiction TV; negli episodi di cronaca nera di cui sono ad in tempo guardie e ladri; nell’impiego operativo affidato a magistrati che non hanno mai udito il suono di un colpo di pistola e arrembano verso l’alto “ senza badare agli uomini né ai mezzi”.

I danni creati da Del sette e compagni dureranno per almeno una intera generazione.

Potete sfogarvi a imprecare , a chiamarli eroi , vittime o altro, ma il DNA dei Carabinieri è cambiato e non in meglio.

Per far tornare a vincere ( è di questo che stiamo parlando) i carabinieri bisogna che tornino ad essere LA PRIMA ARMA DELL’ESERCITO; ESSERE COMANDATI DA UN UFFICIALE ESTRANEO ALLE CORDATE INTERNE; E CHE IL LORO IMPIEGO NON VENGA FRAZIONATO TRA I MAGISTRATI.

I vertici operativi e di comando non vengano scelti tra chi ha fatto l’ufficiale di collegamento di ministri, sottosegretari, e compagnia bella.

Per comandare bisogna aver comandato non vagato tra gli uffici altrui.
Vedrete che miracolo di resurrezione.

Premiare , come faceva de Lorenzo: ( es. invece di tanti premi da duemila lire, un minor numero ma da ventimila) , colpire chi trescava nelle forniture. ( con lo stesso stanziamento scambiò – grazie al colonnello Tagliamonte- settemila biciclette con tremila “Giulie”).

Dare spirito di corpo ( suo fu l’ordine – ancora in vigore- di usare solo la divisa nera e non più quella cachi).
Premi di sette giorni di licenza a chi reagiva energicamente ai contrasti di chiunque .

Diventato capo di Stato Maggiore si accorse che tutte le forniture del triennio erano già state appaltate al gruppo FIAT. Gli lasciavano da comandare una scatola vuota .

Le cancellò tutte.

Gli Agnelli fecero lobby per oltre un anno e poi scatenarono prima i rivali interni e poi i cani.

Dopo uno scontro politico cruento de Lorenzo fu defenestrato e da allora iniziò il piano inclinato delle stellette, intervallato da qualche singulto, ma si indovinava già, ad ogni giro, il rantolo di un sistema morente.

Dopo il sistema muoiono i singoli. Guardate le statistiche.

BORRELLI E L’IPOCRISIA, di Augusto Sinagra

Tangentopoli non fu solo questo. Fu molto altro, politicamente anche molto più importante. Ne abbiamo scritto più volte. Fu però anche quanto scritto qui sotto. Non è poco.Ancora dopo una chiosa apparentemente non correlata alla prima_Giuseppe Germinario

BORRELLI E L’IPOCRISIA

Verso chiunque muore va dato lo stesso rispetto. Ai familiari di chiunque muore va manifestata la stessa comprensione.
È morto Francesco Saverio Borrelli. Ne parlo ora con lo stesso rispetto che ho per chiunque muore, anche l’ultimo degli ultimi.
Il solo tacere sarebbe ipocrisia. La morte non deve impedire di dire la verità con riguardo a chi è morto. Diversamente sarebbe mistificazione o atto di bassa politica.
È giusto allora ricordare che Francesco Saverio Borrelli fu artefice, ispiratore e coordinatore di quella vicenda ancora non chiara che fu “Mani pulite”.
Nei confronti dei suoi collaboratori alla Procura della Repubblica e alla Procura Generale di Milano, si è detto che era un buon capo perché “proteggeva i suoi”. Così forse fa un buon “capo” ma non un buon magistrato che deve prevenire e reprimere gli abusi commessi dai “suoi”. E in quell’epoca, in quell’intreccio di vicende giudiziarie e politiche, di abusi ne furono commessi tanti.
Non so se Francesco Saverio Borrelli sia stato artefice consapevole o inconsapevole di quello che è stato definito un “colpo di Stato”. Forse un giorno lo si saprà. Quel che è certo è che le indagini, i processi, le persecuzioni giudiziarie furono smaccatamente “selettive” con franchigia per l’area comunista e i suoi esponenti. E viene ora da ridere a proposito della bufala dei soldi russi alla Lega quando l’allora PCI ricevette finanziamenti dall’URSS per 989 miliardi di lire, e lo sapevano tutti: cani e porci.
Si disse che i “valorosi” magistrati di Milano (la cui Procura della Repubblica ora come allora pretende competenza territoriale universale in spregio del codice di procedura penale), combatterono la corruzione. Il risultato fu che la corruzione è aumentata in modo esponenziale e Partiti, che pure avevano fatto la storia d’Italia, furono disintegrati (la DC e il PSI).
Io non so se Francesco Saverio Borrelli professionalmente sia stato un buon magistrato o meno. Certamente come lui ce n’erano e ce ne sono tanti.
Quel che non gli perdono è la morte in terra d’esilio di Bettino Craxi: il migliore Capo di Governo dal dopo guerra ad oggi per lungimiranza, cura degli effettivi interessi nazionali, attenzione alla classe lavoratrice, che di lui fecero un vero statista.
Mi auguro che Francesco Saverio Borrelli abbia capito prima di morire cosa intendeva il Presidente Bettino Craxi quando diceva che “la libertà vale più della vita”.
Ma una cosa soprattutto non gli perdonerò mai: di avere utilizzato e immiserito nel contesto di una non commendevole lotta politico-giudiziaria le parole del Presidente della Vittoria, Vittorio Emanuele Orlando che dopo la tragedia di Caporetto, dal banco della Presidenza della Camera dei Deputati, rivolgendosi ai ragazzini di diciassette e diciotto anni attestati sulla riva occidentale del Fiume Sacro, gridò disperatamente: “Resistete, resistete, resistete!!!”.
Ecco, questo a Francesco Saverio Borrelli non glielo perdonerò mai.
Ora lui è morto e ora conoscerà la vera giustizia.
Che Dio abbia misericordia di lui.

DIFENDO LUCA PALAMARA!

È notizia dell’attualità che il noto Luca Palamara è stato sospeso dalle funzioni e da metà stipendio dalla Sezione disciplinare del CSM.
Non giudico le ragioni del provvedimento perché non conosco gli atti. Lo trovo tuttavia sommamente ingiusto sul piano di una giustizia che dovrebbe essere uguale per tutti. Altrimenti non è giustizia ma è discriminazione.
Mi riferisco a quell’ineffabile personaggio di Riccardo Fuzio, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, indagato per rivelazione di notizie e di atti secretati, proprio a Luca Palamara.
A parte la deplorevoleza del fatto che sia stato il coindagato Riccardo Fuzio in quanto “sodale” di Luca Palamara, a chiedere la sospensione dalle funzioni proprio di Luca Palamara, il CSM, che sembra agire secondo criteri che nulla hanno a che fare con la legge e con la giustizia, avrebbe dovuto sospendere dalle funzioni e dallo stipendio anche e soprattutto il detto Riccardo Fuzio non fosse che per le più importanti e sovraordinate funzioni da lui svolte rispetto al Luca Palamara.
Al contrario, è stata accolta la richiesta di prepensionamento dell’ineffabile Riccardo Fuzio ma con decorrenza dal 20 novembre 2019.
Capisco che il Riccardo Fuzio voglia trascorrere le ferie a intere spese dello Stato, ma non si capisce cosa abbia tale soggetto da sistemare prima del prepensionamento, e cioè dal 1° settembre al 20 novembre p.v. (e cioè a ferie “godute”). Mistero!
Non è tutto: Luca Palamara è stato esposto al pubblico ludibrio (cui lui ha dato causa) e viceversa il Fuzio Riccardo ha ricevuto complimenti e ringraziamenti indovinate da chi? Dal solito figlio di Bernardo Mattarella!
E ancora: se la giustizia ha ancora un senso, perché non si svolgono indagini approfondite anche nei confronti di quegli altri grossi personaggi (Magistrati di vertice della Corte dei conti e Ufficiali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri) che, come ha dichiarato Luca Palamara al CSM, hanno avuto rapporti con quell’imprenditore Fabrizio Centofanti?
È stata aperta la procedura per la nomina del successore di Riccardo Fuzio: se ne occuperà ancora Luca Palamara o quale altra “cordata” di giudici, politici, trafficanti e marchettari?

PUO’ ESISTERE OGGI UNA SINISTRA SOVRANISTA?, di Giuseppe Angiuli

PUO’ ESISTERE OGGI UNA SINISTRA SOVRANISTA?

 

 

L’attuale fase che stiamo vivendo è contrassegnata da una crisi generale e irreversibile del processo di globalizzazione neo-liberista e da uno scontro frontale in atto fra un capitalismo produttivo e manifatturiero, desideroso di affermare la sua centralità e che in ambito politico trova espressione nel campo cosiddetto “populista” ed un capitalismo finanziario e speculativo, di carattere trans-nazionale, che trova sponda politica nei vertici della U.E. e nelle forze della “sinistra” globalista ed arcobalenata, in tutte le sue forme.

A partire dall’avvento di Mr. Trump alla Casa Bianca, abbiamo avuto davanti ai nostri occhi la materializzazione evidente di una previsione che in tanti avevano formulato già da diverso tempo su come le forze del campo cosiddetto “populista” siano le uniche oggigiorno a volere realmente candidarsi alla guida del processo di fuoriuscita dell’occidente dalla globalizzazione; d’altro canto, ci sembra di potere legittimamente rilevare che tutto ciò che oggi da “sinistra” mostra di contrapporsi con virulenza al cosiddetto “populismo” altro non è che un’espressione più o meno diretta – e più o meno velata – degli interessi del capitalismo finanziario speculativo e globalista.

Sul teatro dello scontro politico qui in occidente, le forze sovraniste e anti-globaliste sono riuscite in misura sempre più crescente ad occupare la scena e l’immaginario dei popoli europei facendosi alfiere del recupero di concetti come la nazione, la patria, la difesa dei confini, la famiglia naturale, il protezionismo in economia, la difesa dei valori della tradizione, ecc.: non può sottacersi che ad imprimere tali concetti sull’agenda politica dei sovranisti abbia assunto un ruolo oltremodo decisivo la figura di Steve Bannon, leader carismatico del movimento mondiale Alt Right (ossia Alternative Right, “destra alternativa”), una locuzione in cui l’alternatività è da intendersi affermata in contrapposizione alle correnti Neocons che per almeno un quindicennio avevano dominato il campo conservatore-repubblicano negli Stati Uniti.

In tale contesto generale, la messa in crisi dello schema della globalizzazione avrebbe potuto teoricamente fornire l’occasione anche alle malconce soggettività della “sinistra” post-marxista novecentesca di provare a riconquistare un po’ di spazio politico caratterizzando la propria azione attorno ad un rilancio dei bisogni delle classi popolari lavoratrici, che in questi ultimi decenni contraddistinti dal dominio assoluto dell’ideologia neo-liberista e dall’avvento delle istituzioni anti-democratiche della U.E. hanno assistito inermi ad una umiliante e sistematica opera di smantellamento delle principali conquiste sociali storiche del movimento operaio.

Si sarebbe infatti potuto legittimamente prevedere che le classi subalterne – unitamente ai partiti di “sinistra” ed ai sindacati che di tali classi sociali da sempre si dicono espressione – potessero cogliere finalmente l’occasione storica di ritornare protagoniste della scena politica, approfittando degli effetti di rottura sistemica indotti dall’ondata “populista”, interpretando in tale contesto un proprio ruolo originale e attivo e magari differenziandosi in qualche modo dai tratti politico-culturali ritenuti meno accettabili del sovranismo di marca “populista”.

Sfortunatamente, l’osservazione della realtà di questi ultimi tempi ci dice che nulla di tutto ciò è avvenuto: anzi, al contrario, tutte le soggettività storicamente appartenenti al campo della “sinistra” stanno mostrando paradossalmente proprio in questa decisiva congiuntura storica la loro natura di strumento posto a difesa del vecchio ordine globalista in fase di decomposizione per via dell’azione dei “populisti”.

In altre parole, come affermavo in un mio intervento di circa un anno fa, tutte le odierne forze sedicenti progressiste o di “sinistra” ossia tutte quelle forze organizzate che nell’attuale quadro politico italiano si collocano in uno spazio che va dal Partito Democratico post-renziano fino alla galassia antagonista dei centri sociali, costituiscono la componente “sinistrata” della globalizzazione neo-liberista[1].

E come affermavo sempre nel citato intervento, l’ideologia della odierna “sinistra” arcobalenata è un impasto demenziale di liberismo economico, europeismo acritico, omosessualismo corporativo, femminismo isterico, immigrazionismo fanatico e, dulcis in fundo, di antifascismo ossessivo-paranoico in assenza di fascismo.

La prova della strutturale inettitudine dell’odierna “sinistra” a sapere leggere correttamente l’attuale fase di messa in crisi della globalizzazione neo-liberista possiamo ricavarla dall’osservazione per cui tutte le residue ed attuali forze sedicenti progressiste – per l’appunto, dal P.D. fino all’ultimo dei centri sociali – sembrano oggigiorno mosse da un unico obiettivo tattico o di breve periodo che è quello di contrapporsi strenuamente – e spesso con toni virulenti – al “populismo” in ascesa e, in particolare in Italia, facendo della demonizzazione di Matteo Salvini (un po’ come nei decenni scorsi avveniva per Silvio Berlusconi) il proprio unico motivo di esistere.

Di forze politiche dichiaratamente filo-globaliste o e sfacciatamente eterodirette dalla tecnocrazia U.E. come il Partito Democratico o la + Europa di Emma Bonino non mette conto finanche parlarne, giacchè tutti possono dare per scontata la loro strutturale funzionalità al capitale finanziario speculativo ed alla fazione americana lib-dem impersonata da Mr. Obama, Hillary Clinton e dal grande speculatore-finanziatore “filantropo” George Soros.

Quanto agli epigoni post-dalemiani raccolti attorno a figure scialbe e prive di carisma quali Nicola Fratoianni o Stefano Fassina, essi si apprestano quasi certamente, il primo nel breve periodo il secondo forse nel medio periodo, a fare rientro alla chetichella nella casa-madre P.D., così palesando la natura chiaramente strumentale (molto probabilmente ispirata fin dall’inizio da un’intuizione del sempiterno “baffino” malefico) della loro manovra di differenziarsi in questi anni dallo stesso P.D. fingendo di fargli la guerra ma in realtà coprendolo a “sinistra”[2].

Quanto alle sparute forze della “sinistra” ultra-radicale, una mesta menzione la meritano i fautori del cartello elettorale Potere al Popolo, presto sostanzialmente dissoltosi dopo il pessimo risultato riportato alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 e i cui padri fondatori vanno identificati nella rete dei centri sociali dell’area antagonista, nel piccolo ma ben determinato gruppo di ideologi marxisti-leninisti riuniti nella Rete dei Comunisti e in quei settori del sindacalismo radicale espressi dall’U.S.B. e dalla figura un tempo carismatica ed oggi alquanto patetico-eversiva di Giorgio Cremaschi.

Con il lancio dell’operazione Potere al Popolo, alcune menti raffinatissime hanno provato – apparentemente fallendo nell’impresa – a livellare ideologicamente e poi ad assorbire in un unico contenitore di marca radical-globalista la maggior parte delle sigle e siglette di quel poco che rimane nel panorama della disastrata area marxista-leninista post-novecentesca.

Col pretesto di indicare a propri modelli sociali di riferimento le esperienze storiche del mutualismo tardo-ottocentesco e brandendo il seducente slogan del controllo popolare “dal basso”, gli ideologi di Potere al Popolo hanno in realtà provato a forgiare un nuovo soggetto politico che, incline ad una nozione “liquida” di popolo tanto cara a Toni Negri, riuscisse a rendere la “sinistra” radicale italiana del tutto compatibile con i principali desiderata della finanza globale e del cosmopolitismo contemporaneo, sterilizzando su binari morti di velleitarismo parolaio il malessere popolare verso le politiche di austerità U.E. ed irridendo in modo blasfemo al concetto di sovranità nazionale, non a caso definito dalla portavoce Viola Carofalo “un feticcio”[3].

Un discorso a parte lo meritano altri gruppuscoli politicamente più lucidi ma inesorabilmente auto-referenziali della stessa area radicale, animati da intellettuali che almeno apparentemente ci tengono a presentarsi come distinti e contrapposti a tutte le principali formazioni dell’odierna “sinistra” filo-globalista ed arcobalenata ma il cui operato lascia tuttavia molto perplessi non già per la loro copiosa produzione teorica – che è assolutamente apprezzabile e degna di nota – bensì per le modalità alquanto ambigue e contraddittorie del loro consueto modo di agire.

Da diversi anni a questa parte, attorno al gruppo dei due fini politologi Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei ha preso vita un’agguerrita micro-area di sedicente sinistra no euro al cui interno si è sviluppato un fecondo dibattito teorico di altissimo spessore, senza dubbio quello qualitativamente più elevato in tutto ciò che è stato dato vedersi in quest’ultimo decennio a “sinistra”.

Ai numerosi convegni di Chianciano Terme susseguitisi sempre per iniziativa del duo Pasquinelli-Mazzei e dei loro sparuti seguaci riuniti attorno al noto blog politico dal nome Sollevazione[4], in questi ultimi anni si sono affacciate le più brillanti intelligenze del mondo sovranista italiano, dall’attuale Presidente della Commissione Finanze al Senato Alberto Bagnai (il quale proprio in quei convegni ha iniziato ad avere un po’ di visibilità come uomo pubblico impegnato sui temi della critica alla moneta unica) all’attuale sottosegretario agli Affari Europei Luciano Barra Caracciolo, dal prof. Antonio Maria Rinaldi (oggi eletto deputato europeo con la Lega) all’economista keynesiano Nino Galloni.

Moreno Pasquinelli

Riflessioni di altissimo livello hanno accompagnato per anni gli appuntamenti convegnistici del gruppo di Sollevazione, nel corso dei quali non è mancato di assistere alla più severa e rigorosa critica verso la grave collusione ideologica dell’odierna “sinistra trans-genica” (una sagace definizione dello stesso Pasquinelli) con i poteri oligarchici dell’attuale Europa a trazione franco-tedesca: fatto sta che, a fronte di un livello analitico indubbiamente elevato espresso da questa piccola ma agguerrita area e nonostante il costante coinvolgimento nelle sue iniziative di alcuni fra i migliori cervelli della cultura sovranista del nostro Paese, alle innumerevoli kermesse di Pasquinelli e Mazzei ha sempre fatto seguito un sistematico e tragicomico fallimento politico-organizzativo di qualsiasi annunciato tentativo volto a trasformare tale collage di idee euroscettiche ed anti-liberiste in una vera e propria forza politica organizzata ed attiva nella società.

L’ultimo e il più clamoroso di questi fallimenti si è consumato alla vigilia delle elezioni politiche del marzo 2018, per via del capotico tentativo dello stesso Pasquinelli e del suo sodale Mazzei di coinvolgere a tutti i costi nell’erigendo cartello elettorale della neonata Confederazione per la Liberazione Nazionale[5] un coacervo di gruppi e gruppuscoli – dal Movimento Roosevelt diretto dal massone progressista Gioele Magaldi ai Forconi Siciliani di Mariano Ferro, dal Fronte Sovranista Italiano del prof. Stefano D’Andrea ai post-brigatisti dei CARC, senza disdegnare un collegamento a distanza perfino con la galassia della Fratellanza Musulmana protagonista delle note Primavere Islamiste nei primi anni di questo decennio – dal carattere talmente variopinto ed eterogeneo da non potere (ovviamente) mantenersi in piedi per più di una settimana.

Pertanto, per diretta responsabilità di Pasquinelli, per via della sua clamorosa inettitudine a sapere scegliere con cura i soggetti da mettere assieme al fine di assemblare un cartello politico-elettorale della “sinistra” patriottica, alle elezioni del 4 marzo dello scorso anno tutti gli elettori con una formazione “di sinistra” e sensibili alle tematiche della sovranità nazionale, non trovando sulle schede elettorali alcuna offerta politica credibile, hanno finito per convogliare inevitabilmente i loro voti nella Lega salviniana o nel Movimento 5 Stelle.

Uno degli innumerevoli convegni della “sinistra no euro” organizzati da Pasquinelli

da cui non è mai emersa alcuna seria iniziativa politica a carattere aggregativo.

 

A tale risultato ha contribuito altresì il catastrofico fallimento politico-organizzativo della microscopica Lista del Popolo per la Costituzione guidata in modo più che dilettantesco dalle due figure ormai consumate di Giulietto Chiesa e Antonio Ingroia (un’esperienza politico-elettorale dagli esiti davvero tragicomici alla quale anche il sottoscritto, suo malgrado, ha avuto la sventura di partecipare, sia pure per un brevissimo periodo).

Ma per tornare a Pasquinelli e Mazzei, non può sottacersi che questa loro metodologia politico-organizzativa clamorosamente bizzarra e caotica – che in qualche occasione non aveva mancato di fare infuriare il suscettibile prof. Bagnai – costantemente diretta ad assemblare micro-forze così ideologicamente eterogenee e così palesemente incompatibili fra loro al punto da non potere (ovviamente) dare vita ad alcun gruppo dirigente coeso e credibile, è stata da essi messa in atto talmente tante volte nel recente passato al punto da lasciarci sospettare a giusta ragione che i due politologi di formazione trozkista, la cui intelligenza sopraffina non può certo essere messa in dubbio da chicchessia, in questi anni possano avere agito scientemente con una finalità maliziosa e perversa in quanto rivolta deliberatamente ad impedire in ogni modo – anzichè a favorire – la costruzione e la discesa nell’agone elettorale di un’autentica “sinistra” patriottica o sovranista, di cui in realtà il nostro Paese avrebbe un grande bisogno.

La conferenza stampa di presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale

 

Da ultimo, fra tutte le micro-iniziative di questi ultimi tempi sorte nell’area della sedicente “sinistra” euro-scettica, merita di essere menzionata quella che ha visto in Stefano Fassina, nell’ex deputato bolognese di Rifondazione Comunista, Ugo Boghetta e nello scrittore Thomas Fazi i suoi più significativi fautori.

A tale iniziativa aggregativa, che ha preso vita in questi ultimi mesi con la pubblicazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale e che più di recente, dopo la rottura registratasi fra Fassina e il duo Fazi-Boghetta, annuncia di sfociare nel lancio di un soggetto politico denominato Nuova Direzione, hanno aderito diversi fini intellettuali come gli accademici Carlo Formenti, Alessandro Visalli e Andrea Zhok.

Spiace molto dovere rilevare che questa nuova area che si auto-definisce socialista e patriottica, a dispetto delle aspettative suscitate in alcuni attivisti speranzosi e in buona fede, sta mostrando fin dai suoi primi passi di risentire di un eccessivo pregiudizio ideologico verso l’azione del Governo giallo-verde e, ciò che è ancor più discutibile, sembra volere caratterizzarsi per una tattica politica tutta basata sulla contrapposizione frontale non già al PD ed ai poteri eurocratici (come ci si attenderebbe in questa particolare congiuntura) bensì alla Lega di Salvini con il non celato auspicio di favorire una quanto più rapida disarticolazione/decomposizione dell’attuale quadro politico “populista” ed una contestuale caduta in disgrazia dell’attuale maggioranza di Governo.

In buona sostanza, anche questa neo-componente di sedicente “sinistra” social-patriottica, da quel che sembra guidata da Fazi e Boghetta, nei fatti sta dimostrando di volere agire secondo il più classico schema cripto-globalista: di fatti, essa non nasconde di lavorare nel breve periodo per far sì che il Movimento 5 Stelle – ossia quello stesso soggetto che di recente a Strasburgo ha generosamente messo a disposizione i voti dei suoi parlamentari per garantire l’elezione della “kapò” tedesca Von der Leyen alla Presidenza della Commissione Europea – rompa il prima possibile il suo patto di Governo con la Lega di Salvini e dia vita ad una nuova alleanza politica e parlamentare col PD post-renziano, con la benedizione dall’alto di Papa Bergoglio e del figlio di don Bernardo Mattarella.

Al fine di manipolare i loro ingenui attivisti sinistrati colti ed euroscettici (siamo certi che Gianfranco la Grassa in questo caso preferirebbe l’aggettivo semicolti), attratti dalla lettura del Manifesto per la Sovranità Costituzionale, Thomas Fazi e Ugo Boghetta, in un primo momento agendo d’intesa con Stefano Fassina, fin dall’atto dell’insediamento del Governo Conte sono ricorsi ad una tecnica solo apparentemente fine e sofisticata di camuffamento e velamento della realtà.

Ossia, non potendo plaudere alle iniziative governative messe in campo (d’intesa con Trump) per liberare il nostro Paese dalla gabbia dell’austerità – perché ove lo avessero fatto, ciò li avrebbe costretti a considerare le forze di Governo come dei loro legittimi interlocutori politici – essi hanno preferito negare la realtà oggettiva dei fatti e dunque hanno provato a sostenere il presunto carattere fittizio e asseritamente teatrale dello scontro andato in scena in questo ultimo anno fra Palazzo Chigi e la Commissione Europea, della serie: Salvini, Borghi, Bagnai e Savona fingono soltanto di fare i sovranisti ma i veri sovranisti siamo noi!

E’ bene precisare che da certi ambienti politico-culturali dichiaratamente keynesiani ed anti-liberisti, come quelli facenti capo a Boghetta, Fazi e a Fassina, ci si potrebbe legittimamente attendere che essi sostengano l’attuale processo politico di liberazione del Paese dal giogo dell’austerità U.E. e che, al contempo, magari si differenzino dal Governo giallo-verde prendendo le distanze da certi suoi aspetti più discutibili, come il regionalismo differenziato o la privatizzazione dell’acqua pubblica; in alternativa, ci si potrebbe attendere che essi, pur sostenendo l’esecutivo nella sua battaglia campale contro Bruxelles, Berlino e Francoforte, colgano occasione per rimarcare i bisogni più essenziali delle classi popolari, magari reclamando una maggiore attenzione dell’esecutivo verso un piano di investimenti pubblici ovvero verso l’adozione di politiche di spesa sociale ovvero ancora l’integrale abolizione della legge Fornero o del JOB’S ACT.

Questo ci si attenderebbe dall’azione politica di gente come Boghetta, Fazi e Fassina e, se così fosse, saremmo ben lieti di aprire con loro un serio dibattito costruttivo sui limiti dell’azione del Governo giallo-verde.

E invece no, colpo di scena!

Fin da quando si è insediato il Governo Conte, soprattutto Fassina e Fazi, spesso accompagnandosi in convegni pubblici con economisti di chiara scuola bocconiana e in qualche caso con la partecipazione di ex consiglieri economici dei Governi Renzi e Gentiloni[6], in tutti questi mesi non hanno perso tempo per bersagliare quasi ogni giorno l’esecutivo giallo-verde proprio sul terreno decisivo dello scontro in atto con la Commissione Europea e con la BCE, artificiosamente negando l’effettiva esistenza di tale scontro.

Agendo in tal modo, sia Fassina che Fazi, in questa loro azione demolitrice accompagnati dalla complicità passiva del forse inconsapevole Boghetta, hanno palesato la loro implicita funzionalità ai piani strategici dei poteri globalisti, desiderosi di accantonare il prima possibile l’attuale stagione del “populismo” in salsa italiana e smaniosi di aprire la strada ad un nuovo governo tecnico a guida Mattarella-Draghi-Cottarelli ovvero, come sta emergendo più di recente, ad un Governo Conte bis che possa godere del sostegno di un’inedita alleanza fra il PD e un Movimento 5 Stelle ormai del tutto normalizzato attorno al sacro rispetto dei vincoli europei.

Se sul pedigree politico di Stefano Fassina – e sulle ragioni per le quali noialtri non abbiamo mai creduto alla sua sincera intenzione di operare politicamente per contrastare il mostro tecnocratico dei tempi odierni, chiamato U.E. – ci siamo già espressi in un già citato articolo alla cui lettura vi rimandiamo[7], forse qualche parola merita di essere espressa per inquadrare il personaggio emergente Thomas Fazi, attese anche le sue recenti comparsate televisive (specie su La7) che testimoniano come molto probabilmente alcuni ambienti abbiano deciso di puntare sulla sua figura per favorirne la repentina ascesa a ruoli visibili di leader mediatico o comunque di soggetto influencer di una certa area politica di sedicente “sinistra” sovranista.

Tipica aria da esponente navigato della “sinistra” romana radical chic, Thomas Fazi è il rampollo del noto editore Elido Fazi ed entrambi – padre e figlio – non possono certo nascondere una qualche contiguità rispetto all’area politica che fa capo alle fondazioni del magnate George Soros, prova ne è che molti interventi del più piccolo dei Fazi hanno spesso trovato spazio sul sito del noto network globalista/dirittumanista Open Democracy[8], un organismo alla cui creazione non ha concorso il solo Soros ma anche altri ben noti soggetti finanziatori come la Fondazione Ford ed il fondo Rockfeller, come apprendiamo da una semplice lettura di Wikipedia[9].

Negli anni 2013 e 2014, allorquando i temi dell’uscita dall’eurozona stavano faticosamente iniziando ad acquisire notorietà ed i movimenti sovranisti iniziavano a creare una prima significativa massa critica di seguaci, Fazi padre e figlio avviavano una campagna virulenta di attacco politico alla figura di Alberto Bagnai, ad esempio denigrandolo, con i toni sprezzanti tipici di un certo ambiente accademico-salottiero, per il fatto che il professore-divulgatore dei temi no euro insegnasse in un modesto ateneo di provincia quale quello di Pescara anzichè a Oxford o a Cambridge.

Nell’apice della polemica con l’attuale Presidente della Commissione Finanze al Senato, Thomas Fazi in una circostanza arrivava perfino a dichiarare dal suo profilo twitter che Bagnai lo avrebbe “minacciato di morte“.

In quegli stessi anni, proprio mentre prendeva sistematicamente di mira l’attività divulgativa del prof. Bagnai, lo stesso Thomas Fazi investiva il suo impegno di attivista nell’organizzazione di tavole rotonde sul tema del salvataggio dell’eurozona, con la partecipazione di esponenti di spicco della “sinistra” finanziaria come Varoufakis, dell’allora vice-Governatore della BCE, di economisti del FMI e, almeno in un caso, con la chiusura dei lavori affidata all’allora Ministro per le Riforme Costituzionali, la belloccia Maria Elena Boschi (all’epoca, come tutti ricorderanno, molto vicina a Renzi)[10].

Particolare molto importante, è significativo che detti convegni organizzati da Fazi in alcuni casi avvenissero col contributo economico della Commissione Europea, come apprendiamo da una dettagliata ricostruzione a suo tempo offertaci dallo stesso Alberto Bagnai sul suo noto blog Goofynomics, allorquando quest’ultimo cercava di difendersi con le unghie dagli attacchi pubblici ricevuti dallo stesso Fazi[11].

Thomas Fazi

 

E’ forse ancora più significativo ricordare che nell’autunno 2015, a margine della conclusione della tragica estate greca, quello stesso Thomas Fazi che oggi dagli studi di La7 si propone quale rappresentante della sedicente “sinistra” euroscettica, ebbe a pubblicare un pamphlet a quattro mani con l’eurodeputato piddino Gianni Pittella, il quale – lo ricordiamo ai più smemorati – nel 2014 era stato fra i principali sponsors del golpe nazi-atlantista di Piazza Majdan, allorquando non aveva avuto remore nel recarsi a Kiev ad aizzare la folla che in quel momento stava assediando il Parlamento costringendo alla fuga il legittimo Presidente ucraino Viktor Janukovyč.

E dunque, nell’autunno del 2015, quando la Grecia di Tsipras era stata da poco umiliata dalla Troika, mentre per le strade di Atene si cominciavano a vedere le prime mense pubbliche allestite per sfamare i poveri disoccupati e i senzatetto, Thomas Fazi e Gianni Pittella trovavano le energie per dare alle stampe il libro La notte dell’Europa. Perche’ la Grecia deve restare nell’euro (sic)[12].

La grande contiguità del piddino Pittella alla famiglia Fazi è di vecchia data ed è dimostrata anche dal fatto di avere egli scritto nel 2013, a quattro mani col padre-editore di Thomas, il libro Breve storia del futuro degli Stati Uniti d’Europa[13].

 

Poi arrivarono la BREXIT e l’avvento di Trump alla Casa Bianca e dunque è probabile che certi ambienti del mondo salottiero globalista abbiano nel frattempo mutato linea strategica ed oggi dunque abbiano interesse ad accreditarsi in Italia insinuandosi nelle odiate fila nemiche, dando vita a raggruppamenti che assumano le sembianze esterne di una “sinistra sovranista” ma che di fatto, nei momenti cruciali della lotta politica – come quello che sta vivendo l’Italia in questa politicamente calda estate 2019 – risultino funzionali ai disegni tattico-strategici dei poteri globalisti.

 

Concludendo quest’analisi dura e cruda sul mondo della “sinistra” contemporanea e sul mesto ruolo che essa sta recitando nell’attuale fase storica contraddistinta dall’ascesa del “populismo”, vi invitiamo a guardare sempre con attenzione e cautela alla reale natura della merce che siete interessati ad acquistare, specie nel settore cosiddetto di “sinistra”: spesso le apparenze ingannano e, perfino quel nuovo prodotto appena presentato sui banchi del supermercato della politica col fine di intercettare un certo pubblico di consumatori con idee sovraniste, magari munito di un marchio seducente ed inneggiante al patriottismo, sotto la confezione esterna tricolore, gratta gratta, nasconde quasi sempre surrettiziamente i colori della bandiera arcobaleno.

 

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Cfr. G. Angiuli, Il patriottismo costituzionale: per la costruzione di un’area politica di ispirazione popolare, socialista e patriottica, pubbl. in https://patriottismocostituzionale.blog/2018/07/01/il-patriottismo-costituzionale-per-la-costruzione-di-unarea-politica-di-ispirazione-popolare-socialista-e-patriottica/?fbclid=IwAR1vFwHmQqxjOWPGiI7qicCtloqc9ot-l5Jy5de21NDKW8MJOa5E9okoqAw.

 

[2] Sulla figura e sul ruolo politico assai ambigui di Stefano Fassina, mi permetto di rimandare ad un mio scritto del gennaio 2019, Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi) euroscettica, pubbl. in https://italiaeilmondo.com/2018/12/30/3201/.

[3] http://temi.repubblica.it/micromega-online/carofalo-potere-al-popolo-noi-sinistra-dal-basso-vogliamo-ridare-speranza-ai-delusi-dalla-politica/.

[4] https://sollevazione.blogspot.com/.

[5] http://confederazioneperlaliberazionenazionale.it/.

[6] http://www.economiaumanista.it/2019/01/il-riscatto-dello-stato-presentazione-del-libro-sovranita-o-barbarie-di-thomas-fazi/.

[7] Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi) euroscettica, cit.

[8] https://www.opendemocracy.net/en/author/thomas-fazi/.

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/OpenDemocracy.

[10] http://www.eunews.it/how-can-we-govern-europe.

[11] http://goofynomics.blogspot.com/2014/12/una-pacata-risposta.html.

[12] https://www.ibs.it/notte-dell-europa-perche-grecia-libro-gianni-pittella-thomas-fazi/e/9788897931621.

[13]https://www.amazon.it/Breve-storia-futuro-degli-dEuropa/dp/8864118829/ref=tmm_pap_title_0?ie=UTF8&qid=1390920712&sr=8-4.

MEGLIO EMONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO EMONE

Non si è ancora consumato il clamore mediatico per la vicenda della Sea Watch. Un topos ricorrente nei mass media di centrosinistra è paragonare la giovane capitana Carola Rackete alla pia Antigone e l’antagonista Salvini al bieco Creonte.

In effetti i personaggi di Sofocle sono da millenni i simboli di polarità contrapposte: tra diritto naturale e positivo; tra legge divina ed umana; tra principio femminile e maschile (Hegel); tra diritto tradizionale e diritto “moderno”, razionale e statuito dall’autorità politica (Von Seydel).

A me, senza contraddire tali interpretazioni, ricorda (anche) quella tra diritto istituzionale (finalizzato all’esistenza della comunità) e diritto comune (la cui funzione è la regolazione di pretese ed INTERESSI non essenzialmente politici). Così Creonte s’identifica con la polis in guerra (assediata dai sette, alleati di Polinice) e quando entra in scena proclama “Non saprei tacere quando vedessi muovere contro i cittadini la sciagura invece che la salvezza; e non farei mai amico un nemico della patria; poiché so che essa è la nostra salvezza”. D’altra parte che la salvezza fosse l’obiettivo primario di Creonte è chiaro già dall’ “Edipo a Colono”: quando Creonte compie l’atto odioso di rapire Antigone per costringere Edipo a tornare a Tebe, lo fa perché l’oracolo ha garantito la salvezza a chi dei contendenti per il trono di Tebe avrà presso di se il vecchio re.

In questo senso Creonte è uno dei tanti anticipatori dell’America first, ossia della difesa degli interessi della comunità, che oggi vengono indicati, sempre dai centrosinistri, come uno scandalo, mentre questo tipo di concezione del “buon” governante prevale nel pensiero politico, moderno in specie.

Dato che tuttavia, la politica vive di mediazioni, giusti mezzi e compromessi, questi sono rappresentati nella tragedia da un altro personaggio: Emone, il figlio di Creonte. Il quale, fidanzato di Antigone, tenta di salvare la fanciulla con un argomento che pur ispirato dall’amore, costituisce un esempio di razionalità (e dottrina) politica. Emone sostiene che il padre deve tener conto dell’opinione del popolo che non considera meritevole di condanna a morte l’atto pietoso di Antigone per cui prega il padre di “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro ….Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe … non vedi che hai parlato in modo infantile? …Non esiste la città che è di un solo uomo …Certo tu regneresti bene da solo su una terra deserta”. Ma Creonte è irremovibile alle argomentazioni di Emone, tutte fondate sul pubblico, e specificamente sull’equilibrio tra “capo” e “seguito”, comando e consenso. Nel discorso di Emone sono magistralmente esposte due regolarità del politico e del diritto. La prima del comando/obbedienza; un comando efficace presuppone un obbedienza leale e condivisa: se il comando non è condiviso il “successo” dello stesso sarà minore, e talvolta nullo. L’altro, giuridico, che il diritto “vola basso” sul sociale. Ha ragionevoli capacità di determinare l’agire sociale, se non si discosta granché dal sentire comune. Può integrarlo, modificarlo ma non sostituirlo. Se i tebani, come afferma Emone, erano convinti che Antigone aveva il dovere (più che il diritto) di seppellire il fratello, trasgressore (ed empio) era Creonte e non Antigone; ciò comportava una grave incrinatura nel rapporto di comando/obbedienza.

Il discorso di Emone, che non fa riferimento a tavole di valori, principi, oracoli, diritti umani ecc. ecc., è del tutto realistico, ed è quello che bisogna più fruttuosamente impiegare per valutare la vicenda.

Se Salvini ha fatto crescere la Lega in pochi anni dal 4% al 35% dell’elettorato, se i suffragi ai populisti sono quasi due terzi dei votanti, se anche nell’altro terzo forze tutt’altro che secondarie (come Forza Italia) condividono la politica migratoria del governo giallo-blu, e se i favorevoli alla “capitana” sono costituiti dai votanti del PD e connessi (meno di un quarto dell’elettorato), significa che Salvini non è Creonte, perché, al contrario di questo, è in sintonia con la volontà e l’opinione pubblica largamente maggioritaria.

Piuttosto la Sea Watch, la vicenda migratoria e le posizioni della sinistra confermano quanto pensava più di vent’anni fa Lasch: che il post comunismo è connotato dalla ribellione delle élite: di guisa che queste non condividono più l’ethos, il sentire, il modo di vivere delle masse. E per questo ottengono un consenso progressivamente ridotto: e sono loro i primi che dovrebbero tener presente il discorso di Emone.

Teodoro Klitsche de la Grange

Una scomoda verità: Foti sarà (probabilmente) assolto, di Giuseppe Masala

Più leggo e rifletto sul caso #Bibbiano e più mi persuado di una tragica verità. Foti, il Dottor Stranamore, il Cattivo (ma cattivo per davvero) Maestro sarà assolto.

Provo a spiegarmi. Il caso Bibbiano a grandi linee è il seguente: un gruppo di persone insinuate a vario titolo nella Pubblica Amministrazione sottraeva i figli alle famiglie naturali con varie scuse. Il gruppo era mosso da furore ideologico da un lato e dall’altro lato dall’interesse economico. Ecco, però non tutti in questo gruppo di persone avevano le medesime responsabilità. Da un lato abbiamo “i soldati” – come per esempio l’assistente sociale lesbica e femminista – che hanno agito compiendo degli atti materiali illegali. Per esempio hanno modificato i disegni dei bambini inducendo in maniera fraudolenta i giudici in errore e facendogli emettere sentenza di sottrazione dei figli alle famiglie naturali. E’ chiaro ed evidente che qui c’è un atto materiale doloso che giustamente verrà sanzionato.

Ma Foti il grande guru che cosa ha fatto? Materialmente nulla. Ha solo pensato. Lui pensa (lo si deduce anche da un suo post di avanti ieri sulla sua pagina facebook) che nella famiglia naturale (o patriarcale, come dicono loro) vige la seguente regola rivolta ai figli: “io t’ho fatto, io ti distruggo”. Un retroterra violento rappresentato dal padre. Fosse per lui – ripeto, basta leggere quello che ha scritto – tutti i figli andrebbero sottratti alle famiglie naturali. Lui vuole rivoluzionare la società imponendo altri paradigmi.

Ecco, io posso pensare che il pensiero del Foti sia un pensiero delirante, fondamentalmente nazista, violentissimo e direi mostruoso. Ma il suo è un pensiero. Il suo è un sistema valoriale. Il suo è peraltro un sistema valoriale che non nasce dal nulla ma è figlio di una ben precisa scuola e di un ben preciso orientamento culturale. Anzi, molti orientamenti, variamente intrecciati tra loro:il postmodernismo, il costruttivismo, il freudo-marxismo (in difesa di Marx, sempre ricordiamo che giustamente morì dicendo di non essere marxista e probabilmente se avesse conosciuto questi ignobili filestei li avrebbe scuoiati vivi), la microfisica del potere, la biopolitica, la macchina desiderante, l’Antiedipo, l’esaltazione del perverso polimorfo,l’anarchismo libertario fino ad arrivare – secondo me – all’ultrauomo nietzscheiano.
Ecco, processare Foti significa processare Derrida, Deleuze, Guattari, Foucault, Nietzsche. Per certi versi anche Sartre e Simone de Beauvoir e molti, molti altri.
Ma le idee non si processano. E non si processa neanche chi ha creato una costruzione intellettuale delirante miscelando molte idee come secondo me ha fatto il Foti. Le Corti di Giustizia sono attrezzate – secondo me – per sanzionare reati, non per dibattere idee per quanto sbagliate, pericolosissime e deliranti.

Ecco, pur non essendo un giurista, non riesco a capire come possano condannare un uomo (pericolosissimo) per aver prodotto delle idee che io posso anche definire (come ho sempre definito) la peste del pensiero. Non risultando che Foti abbia commesso atti contrari alla legge ed essendo difficile dimostrare che lui era al corrente (e dunque era il mandante diretto) dei comportamenti delittuosi posti in essere dai “soldati” della congrega agente a Bibbiano (e temo non solo a Bibbiano, viste le ramificazioni in tutta Italia) mi sembra difficile che venga condannato.

Ecco, se un giorno, tra qualche anno, non si vorrà vedere questa persona santificata e beatificata appare sempre più necessario scindere la vicenda giudiziaria dalla battaglia delle idee. Le idee sbagliate si combattono dialetticamente con le idee non con le forche e le manette.

L’unica cosa che si può fare è pretendere che venga rotto quel meccanismo perverso dove l’interesse economico si somma alle idee ottenendo il risultato di rafforzarle grazie al potere del danaro. Poi bisogna leggere, studiare e scrivere dimostrando la perversione malefica di un certo apparato culturale. Insomma bisogna fare esattamente quello che ha fatto questa gente in questi cinquant’anni arrivando ad occupare tutti i gangli del potere culturale. Insomma bisogna fare egemonia per dirla con il buon Antonio Gramsci.

Sperare che questa battaglia la combattano i giudici con le loro armi spuntate sarebbe un errore tragico che alla lunga rafforzerebbe quello che non esito a definire il Nemico Antiumano.

Scusate la predica non richiesta.

Lilli e il vagabondo, di Giuseppe Germinario

A scrutarlo con benevola accondiscendenza, gli occhi di Alessandro Di Battista rivelano la sua più grande aspirazione: poter riprendere le peregrinazioni alla scoperta del mondo. Una propensione sopita a fatica durante il suo intenso ciclo quinquennale di impegno parlamentare. Un logorio che a suo dire lo ha spinto a non sfruttare la seconda ed ultima opportunità di rielezione offerta dallo statuto del M5S. Un bisogno irrefrenabile di uscire da un ambiente, sempre a suo dire, del tutto avulso dalla realtà della vita quotidiana della gente comune. L’indole sarà senz’altro questa, ma la spinta ad assecondarla molto prosaicamente sarà venuta dall’impossibilità di gestire due galli nello stesso pollaio governativo e dalla necessità di tenersi un leader di riserva del movimento in caso di fallimento del predestinato e di svolte inopinate. Che sia questa la reale motivazione è stato lo stesso Dibba a riconoscerlo confessando pubblicamente il magone provato al momento dell’insediamento del suo amico Gigino e rivelando la sua ambizione pudicamente nascosta a ricoprire l’incarico nientemeno che di Ministro degli Esteri. Il buon Di Battista, evidentemente, deve ritenere più che sufficiente la sua formazione terzomondista maturata con le sue peregrinazioni “on the road” in America Latina e la sua vicinanza fisica a quei popoli come d’altro canto praticamente irrilevante la precaria conoscenza del peso delle dinamiche della diplomazia, delle relazioni tra stati, centri decisionali ed elite per ambire a quell’incarico. Lo spessore politico dell’attuale facente funzioni come della maggior parte dei predecessori, compresi i competenti, non deve certo averlo indotto a moderare le proprie ambizioni; sono però limiti tollerabili tuttalpiù nel perseguire politiche completamente afone e allineate a centri decisionali internazionali affermati ed incontrastati. Normalità d’altri tempi. In una fase di conflitto estremo e dichiarato tra centri decisionali all’interno della stessa nazione egemone e di multipolarismo acclarato diventano al contrario tare destinate a segnare l’esistenza stessa di un paese geopoliticamente importante come l’Italia. La realizzazione di quella aspirazione avrebbe quindi certamente consentito a Dibba di conciliare il suo impegno politico e la sua indole di girovago; quasi certamente la realtà delle cose lo avrebbe condotto più o meno consapevolmente e rapidamente nel solco globalista e dirittoumanitarista proprie di uno degli schieramenti, sia pure con eccezioni apparenti come quelle sul Venezuela, con grave e irrimediabile nocumento per il paese. Una ambizione, la sua, alimentata in realtà da velleità che rivelano per altro quanto meno una grave sottovalutazione del peso avuto dal Presidente Mattarella nel determinare la maggior parte degli incarichi fondamentali nel Governo Conte.

Qualche tarlo deve però aver roso la sua testa se la lunga immersione nei popoli d’America ha previsto l’eccezione significativa dei contatti con il mondo istituzionale e imprenditoriale statunitensi; la sua curiosità ed affinità elettiva si è limitata però allo stesso solco tracciato sei anni prima dall’odiato Matteo Renzi.

La cruda realtà alla fine ha riportato Dibba in Italia già l’inverno scorso. Da una parte il magro successo di vendite della sua opera editoriale ed i conseguenti scarsi introiti, dall’altra il timore di un insuccesso marcato alle elezioni europee lo hanno costretto al rientro forzato e al ritorno all’impegno politico diretto. Non è stato il guado del Rubicone di un novello Cesare. Il paventato insuccesso si è quasi trasformato in un tracollo elettorale e Di Battista si è rivelato un argine eroso dai fontanazzi. Cionondimeno il suo impegno ed attivismo non si è ridotto. Alle sue comparsate in televisione rese sostenibili e dignitose, sia pure a fatica, dall’utilizzo abile di luoghi comuni teso a sottolineare il suo allineamento alle posizioni ufficiali filogovernative, si avvicendano cinguettìi, comizi e manifestazioni pubbliche nelle quali la retorica polemica, in particolare verso l’alleato di governo, prende il sopravvento. Tra le prime ha brillato il confronto con una Lilli Gruber sempre più partigiana e sempre più dimentica di svolgere la professione di giornalista terminato con un eloquente sospiro di sollievo del nostro. Tra le seconde, l’uso sempre più frequente e ossessivo di locuzioni del tipo “credetemi” sono il segno involontario di una forzatura e del sentore che la presa del suo fervore si sta allentando tra gli stessi adepti più osservanti.

Il personaggio Di Battista, più che per il peso effettivo della sua azione, è importante perché rappresenta l’espressione più chiara delle tare e dei limiti di un movimento sempre più complice, volontario o meno, dell’opera di accerchiamento della Lega di Salvini da parte di forze ben più potenti e pervasive.

Il M5S ha sicuramente al proprio attivo alcuni meriti. L’eliminazione di alcuni degli aspetti efferati del Job Act varato da Renzi; l’intenzione di varare il salario minimo garantito di fronte ad una radicale perdita di rappresentanza dei sindacati e di polverizzazione del mercato del lavoro; il freno ad alcuni degli aspetti separatisti degli accordi incipienti di autonomia differenziata delle Regioni. Il secondo però è sminuito dal disconoscimento del valore della rappresentatività sindacale e della contrattazione nazionale del rapporto di lavoro; il terzo appare più che altro un atteggiamento strumentale teso a dilazionare a futura memoria le richieste di autonomia regionale con il solo scopo di paralizzare e dividere la Lega.

Al di là di questi successi tattici, il M5S soffre della contraddizione sempre più evidente tra un gruppo dirigente espressione in netta prevalenza della componente girotondina, giustizialista e dogmatico-ambientalista ed un elettorato sino a pochi mesi fa trasversale, ma in via di ridimensionamento nelle sue varie componenti, ma soprattutto in quella economicamente più attiva e politicamente più istituzionale, proprie del vecchio centrodestra.

I richiami assillanti ed univoci all’onestà e l’ossequio conclamato all’azione qualsivoglia dei giudici ne fanno una cassa di risonanza della crescente manipolazione giudiziaria dello scontro politico. Dalla vicenda dei 49milioni di euro della Lega dei tempi di Bossi e Maroni addebitati al nuovo gruppo dirigente, a differenza degli analoghi del vecchio PDS, al caso delle dimissioni del Sottosegretario Siri, le cui indagini sono immediatamente cadute nel dimenticatoio, al vero e proprio fumo persecutorio dell’affare russo Metropol, le cui dinamiche tutt’altro che interrotte, sembrano una parodia del bluff del Russiagate che ha paralizzato per anni la Presidenza Trump, il gruppo dirigente del M5S ha pensato di lucrare ai danni della Lega sino a concedere, con il progetto di riforma del Ministro Bonafede, ai centri di potere della Magistratura, cristallizzati nel Consiglio Superiore, ulteriori poteri di determinazione delle politiche giudiziarie, proprie del potere legislativo e di controllo dei singoli magistrati.

L’attacco all’affarismo nella gestione della spesa pubblica e di una concezione regressiva della difesa ambientale stanno portando ad una contrapposizione antagonistica le esigenze di tutela ambientale e la difesa e sviluppo della residua industria strategica e delle infrastrutture di rilevanza nazionale. Il caso dell’ILVA di Taranto è probabilmente il più emblematico. I pifferai del M5S sono il supporto di forze politiche ben più incisive, del peso del Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, a favore di interessi militari atlantisti, economici europei tesi a ridurre le quote europee di produzione dell’acciaio a spese dell’Italia e di mire di ulteriore subordinazione geoeconomica della struttura economica del paese con la distruzione completa della propria industria di base, tutti coalizzati nell’obbiettivo di chiusura dello stabilimento. Un ritorno ai temi dello scontro politico di settant’anni fa, ma con un esito opposto, nefasto.

La stessa difesa dei diritti del lavoro e di livelli minimi di reddito si riducono ad una scatola vuota utile tuttalpiù a creare delle nicchie assistenzialistiche e di privilegio e tutela corporativa senza una politica economica di espansione della base produttiva e di potenziamento dei settori strategici nonché di riconoscimento delle competenze professionali.

Il M5S si sta rivelando sempre più come una delle forze di normalizzazione, anche se non l’esclusiva e nemmeno la più importante, della anomalia politica italiana. Parte di una vera e propria manovra a tenaglia che cerca di mettere a tacere qualsiasi velleità minimamente autonomistica nelle scelte politiche del paese; una azione rivelatasi al momento in tre aspetti ed episodi, ma suscettibile di allargarsi ad altri ambiti ancora più dirompenti: l’affare Metropol di presunti fondi russi alla Lega, la guerra per bande nel CSM, la gestione delle nomine in sede UE (Unione Europea).

L’affare Metropol di Mosca affiora cinque mesi fa, grazie ad un servizio del settimanale Espresso, ed esplode grazie al contributo di un sito legato agli ambienti democratici americani. Prende corpo dopo l’esito delle elezioni europee ancora favorevole alla vecchia guardia europeista ma minacciata dal successo leghista in Italia e da altre forze in Europa; dopo il viaggio di Salvini negli Stati Uniti culminati con l’incontro con Pompeo e Pence, non ancora una consacrazione, quantomeno una nota di accredito al cospetto dell’attuale Presidenza; dopo le notizie del pesante coinvolgimento di importanti settori dell’intelligence italiana, degli apparati e di numerosi personaggi politici di area piddina nella costruzione di un ramo secondario del Russiagate americano e la probabile richiesta di pulizia ed epurazione pretesa dall’attuale governo americano. Di certo esistono le registrazioni di colloqui così compromettenti in un luogo così aperto ed accessibile ai curiosi di vario genere, l’improbabilità dei personaggi, in particolare italiani, coinvolti e l’impaccio e la goffagine almeno iniziale delle reazioni della vittima designata, il Ministro Salvini. Per il resto mancano la fonte e la certezza certificata delle registrazioni, la certezza dell’originalità dei documenti che stanno affiorando. Il sospetto è che i bersagli siano più di uno, ivi compresa l’attuale dirigenza dell’ENI; la certezza pressoché acquisita è che più che l’iter giudiziario, sia importante lo stillicidio di informazioni tale da paralizzare l’azione politica di Salvini. Gli indizi di pretestuosità e strumentalità nella gestione dell’affare poggiano sulla base solida del prosciugamento delle risorse finanziarie della Lega legate alla vicenda del recupero dei 49 milioni di euro truffati dalla gestione precedente del partito e sulla capziosità della tesi dell’infedeltà e dell’inaffidabilità di Salvini nel garantire la stretta osservanza atlantista. Con questo i detrattori sembrano rimuovere il fatto che attualmente le politiche estere americane sono almeno due; una delle quali prevede il riconoscimento di un ruolo specifico della Russia in antitesi alla crescita di potenza della Cina. Puntano a delegittimare Salvini, come fautore e paladino degli interessi nazionali.

Nella vicenda della gestione del CSM curiosamente nessuno ha avuto da ridire sulla fuga “incontrollata” delle intercettazioni. I garantisti a corrente alternata questa volta hanno scelto di spegnere la luce. Eppure la Procura di Perugia è di piccole dimensioni e non dovrebbe essere particolarmente difficile individuare la fonte delle fughe, la gola profonda. Pochissimi hanno considerato il fatto fisiologico che le decisioni formali di politiche di varia natura presuppongono sempre una attività di tipo informale. La costituzione di una “banda organizzata” tesa a preparare e predeterminare le decisioni presuppone necessariamente l’esistenza di “bande alternative”, colluse e/o antagoniste. L’attenzione si è concentrata su una di esse con il risultato di riportare in auge, nell’occupazione degli incarichi, componenti ridimensionate nelle recenti elezioni al CSM, probabilmente quelle più interessate a concentrarsi sui nuovi filoni di indagine e sul bersaglio grosso. Un interesse che richiede il sacrificio delle componenti renziane, di quelle incidentalmente contrarie a qualsiasi accordo tra PD e M5S. Il progetto di riforma del Ministro grillino Bonafede contribuisce a determinare questa svolta e ad accentrare in mano alle correnti di potere dei magistrati la determinazione delle politiche giudiziarie e dei poteri di controllo dell’azione giudiziaria dei singoli giudici. Una tangentopoli all’ennesima potenza in una situazione nella quale la stessa autorevolezza dell’azione giudiziaria è pesantemente lesa dalla commistione di ruoli ed incarichi e dall’emergere di scandali interni all’ordine. Una condizione diversa da quella di trenta anni fa e molto meno gestibile nella costruzione di una opinione pubblica favorevole.

La gestione delle nomine in sede UE rappresenta plasticamente il crescente sodalizio tra la componente tecnica e quirinalizia e quella grillina del Governo, sintetizzata dal ruolo crescente da protagonista assunto da Giuseppe Conte. La conferma del sodalizio franco-tedesco, avvallata dai grillini e dal Capo di Governo italiano è culminata con la conferma del duo Lagarde-von der Leyen con il voto determinante dei 5stelle. La sintesi tra il più classico filoatlantismo fondato sull’asse francotedesco e le politiche del FMI, laddove la maschera del globalismo individualistico non riuscirà a nascondere il conflitto tra interessi nazionali. La beffa riservata ai neofiti italioti è arrivata appena il giorno dopo con l’annuncio dei Verdi a sostegno delle nuove nomine e la probabile negazione del misero piatto di lenticchie riservato agli ultimi convertiti alla causa della vecchia UE. Ad esso fa seguito l’inedito attivismo del Ministro Moavero in materia di politiche comunitarie sull’immigrazione. Tutto lascia presagire una serie di provvedimenti di facciata tesi a concedere qualche contentino e a togliere l’iniziativa a Salvini sul suo al momento unico cavallo di battaglia vincente. Per il resto, lo conferma il recente accordo europeo con i paesi del Sudamerica, prosegue la politica di drenaggio di risorse dal Sudeuropa e di stretta dipendenza e subordinazione delle loro economie.

La definizione di questi tre ambiti di azione può indurre però ad una rappresentazione fuorviante delle dinamiche politiche nostrane fatta di schieramenti nitidi e delineati. La ridefinizione degli schieramenti in corso nel PD e il cuneo inserito nel M5S che sta portando, al prezzo di un pesante sacrificio elettorale, a far corrispondere i resti del movimento alle affinità elettive del suo gruppo dirigente potrà agire ancora più pesantemente all’interno della stessa Lega.

In essa il cuneo potrà agire su due aspetti consustanziali alla formazione ed esistenza di quel partito. La presenza, nel nocciolo duro lombardo-veneto, di una base sociale costituita da piccoli imprenditori e professionisti ancora convinte delle virtù di questa Unione Europea e la forza di posizioni federaliste che vedono nell’indebolimento delle competenze dello stato centrale, piuttosto che nella loro ridefinizione, le possibilità di sviluppo e progresso locali, comprese le istanze democratiche.

La prima nasconde la realtà di una dipendenza preoccupante della residua struttura industriale e finanziaria nazionale dalle scelte economiche, di marketing e tecnologiche operate in Germania in un contesto del tutto diverso dagli anni ’80 in cui erano assenti i paesi dell’Europa Orientale e la merceologia di prodotti finiti in Italia era più ampia.

La seconda di fatto fonda la propria ragione su più convinzioni maldestre:

  • sulla funzione regolatrice ed equilibratrice dell’Unione Europea delle politiche regionali. Una funzione smentita dalle dinamiche degli ultimi quasi quaranta anni
  • sulla capacità tutt’altro che dimostrata della capacità di amministrazioni regionali di concepire e mettere in opera strutture di valenza strategica tali da poter contrastare gli squilibri, in assenza di uno stato nazionale forte e dotato tecnicamente
  • sul disconoscimento del fatto che un vero stato federale poggia su ferrei ed adeguati strumenti controllo, di riequilibrio e di compensazione tali da garantire forza ed unitarietà all’intera formazione e standard di prestazioni tendenzialmente uniformi verso l’apice
  • sull’elusione del mantenimento di prerogative fondamentali compresa quella della politica estera e delle condizioni di base di esistenza della formazione sociale

Il paese, attualmente, presenta una situazione di tale frammentazione da rendere inderogabile un processo di autonomia decisionale e gestionale regolati

Se l’azione del M5S avesse finalità serie e non strumentali alla contingenza politica dovrebbe prevedere una azione di sostegno di tali istanze accompagnati da processi di modificazione della Costituzione e degli apparati istituzionali tesi a regolare competenze, controlli e compensazioni. Una azione che per retaggi storici la Lega non pare in grado di affrontare coerentemente e che la cosiddetta sinistra ha già dimostrato di poter barattare allegramente in nome di un europeismo lirico. Nemmeno la retorica dei popoli di Italia appare sufficiente a superare tale lascito. La classe dirigente grillina non pare in grado di concepire nemmeno il senso di tale operazione, semplicemente perché anch’essa è vittima del pregiudizio che più l’azione politica è decentrata, più è scevra dai particolarismi e dalle tentazioni elitarie e soggetta al controllo democratico.

Potrebbe essere invece la funzione di una possibile formazione di stampo socialdemocratico piccola al momento, ma coesa e con precisi riferimenti sociali tra i ceti professionalizzati e con funzioni gestionali.

Sono queste le due crepe entro le quali potrà insinuarsi l’azione di restaurazione e di debilitazione dell’attuale gruppo dirigente leghista sino a ricondurlo alle origini oppure di una azione apertamente scissionista.

La situazione è tragica ma probabilmente non del tutto compromessa, più per le condizioni esterne che interne al paese.

Gli Stati Uniti appaiono sempre meno interessati a mantenere questa Unione Europea

In secondo luogo e in subordine perché il fulcro di tale azione, la Germania, è destinata a subire in modo drammatico i contraccolpi di tali scelte e a non poter garantire le condizioni minime di sussistenza di tale proposito di restaurazione. I segnali sono sempre più manifesti.

È una finestra che non potrà rimanere aperta per molto tempo. L’accordo di due anni fa tra Trump e la Merkel, per interposta Commissione Europea, per una dilazione delle sanzioni doganali a scapito dell’agricoltura italiana sono un avvertimento eloquente che il futuro del paese non può dipendere dalla benevolenza degli “amici”. Qualche segnale positivo di consapevolezza inizia ad emergere in alcuni settori fondamentali degli apparati. Sta al ceto politico sensibile a queste istanze cercare di raccoglierlo e dare prospettive. In caso contrario una svolta nel paese dovrà passare ancora una volta da una nuova scomposizione delle forze.

 

Il riscaldamento in Africa non è dovuto all’uomo, di Bernard Lugan

In Africa, la premessa di “riscaldamento globale dovuto all’uomo” è contraddetta dalle cinque principali discipline scientifiche:

1) paleoclimatologi hanno, analizzando le “carote” ottenuti nella perforazione continentale e marina hanno mostrato che durante il Quaternario, vale a dire, da 2,5 milioni di anni, l’Africa ha vissuto alternanze di periodi freddi e caldi, secco e umido. Australopithecus e primi ominidi sarebbero stati responsabili …?

2) i paleoambientalisti hanno evidenziato cambiamenti della vegetazione africana derivanti da tali cambiamenti climatici, senza alcun intervento umano.

3) tropicalisti climatologi hanno dimostrato che il riscaldamento reale e presente è un fenomeno sia naturale -anche se la suicida demografia africana aggrava la desertificazione-, e da tempo parte di un ciclo ivi iniziato da 5 000 anni. Sempre senza responsabilità umana.

4) Gli archeologi ci dicono che negli ultimi quindici millenni, sono stati questi cambiamenti climatici da nord a sud e da est a ovest, a condizionare l’insediamento del popolo africano.

5) Gli storici hanno messo in evidenza la sincronizzazione esistente tra i cambiamenti climatici e le grandi sequenze della storia del continente [1] .

E’ stato dimostrato che per milioni di anni, il cambiamento climatico africano è riconosciuto secondo cicli naturali descritti, analizzati e indipendenti dalle attività umane.

Eppure tali nuovi messia, “ayatollah verdi” impongono loro profezie allucinogene alle popolazioni colpite da reazione eccessiva e per tanto che, attraverso un  orwelliano assalto sempre più inquisitorio, cercano di ridurre al silenzio gli “eretici” scettici delle loro “rivelazioni”.

Questo chiarimento è destinato a fornire una motivazione per “scettici”, attraverso la scoperta delle vere ragioni del cambiamento climatico africano.

sviluppi:

I) La cronologia del clima africano

La cronologia climatica mostra che 60 000 anni, ha cominciato in Africa a nord dell’equatore, un periodo freddo e sterile, che ha raggiunto un picco tra i 18 000 e i 15 000 anni (Leroux, 2000). Questo fu il periodo di iper aridità del Sahara. E ‘apparso, poi scomparve senza l’azione umana.

Al picco di massima fase di aridità, tra -18000 e -15000, distese desertiche e formazioni dunali hanno invaso zone del Sudan. Più a sud, lo stand della foresta era quasi scomparso, non più confinata che nei rifugi delle posizioni vicine all’equatore, al riparo (soprattutto da parte di soccorso), dei forti venti secchi da nord e sud.

La regione del Sahara-Sahel poi subì un nuovo cambiamento climatico associato ad una maggiore umidità. Questo periodo è conosciuto come il Gran umido Olocene [2] o ottimale Olocene clima.

a) The Big Wet Olocene clima ottimale e Olocene

Il fenomeno ha iniziato nella regione tra 10.000 aC. -7000 AD e BC. AC ed è durato fino a circa 4000 aC. AC, con un picco intorno al 6000 aC. AD (Leroux 1994: 231). Questo periodo di calore e di umidità, presenta differenze regionali:

  • Nel Nord Africa, la vegetazione mediterranea ha colonizzato lo spazio a sud per oltre 300 km dai suoi limiti attuali. Più a est, fino a circa 7000-6000 aC. AC, la regione Nilo era una zona repulsiva a causa del livello impressionante di alluvioni che periodicamente sommergeva la valle.
  • Al centro del Sahara, i massicci del Air, la Hoggar e l’Adrar des Iforas ha dato alla luce un gran numero di Wadi (plurale di wadi), alimentando un fiume ormai estinto, l’Azawag, lungo 1600 km. Il Ténéré era una savana. Più a ovest, nella zona dell’attuale Mauritania e in tutto l’Occidente del Sahara Occidentale, le depressioni erano diventati laghi.
  • Nella regione del Ciad-nigeriana, il lago Ciad era esteso forse ai piedi del Tibesti.
  • Nel Sahel la savana salì di 500-1000 chilometri a nord, spingendo verso il basso anche il deserto del Sahara.

Nella sua fase di massima umidità, tra -9000 e -6000, il Sahara, punteggiato di laghi e paludi, ha ricevuto relativamente buone piogge di origine sia mediterranee che tropicali. Fu il momento degli allevatori. Più a sud, la riconquista vegetale fece sì che la foresta riguadagnasse terreno superando ampiamente il suo attuale campo di applicazione.

Dopo la Grande Wet o Olocene Optimum climatico dell’Olocene, il cambiamento climatico è riuscito attraverso sequenze sempre più brevi e in un contesto di generale riscaldamento, sempre indipendente da qualsiasi intervento umano.

b) l’arido medo-Olocene (o intermedio o intermedio Barren Barren metà dell’Olocene) succeduto al Grande Olocene umido, si inserisce tra due periodi umidi. Questa è un breve intervallo intermedio secco che durò mille anni al massimo, e che è cronologicamente tra il 6000 e il 4500 aC. DC secondo le regioni.

c) Il piccolo umido o umido neolitico  succeduto all’Arido Intermedio semi Holocene) che si estendeva dal 5000/4500 aC. AC al 2500 aC. AD, è nettamente meno pronunciato del grande holocene umido del Neolitico . Ha dato i natali al grande periodo pastorale nel Sahara-Sahel durante il quale il Sahara, steppa subdesertica – non “prato verde” – ha visto la primavera di molte fonti in debito delle piogge del periodo della Grande Olocene umido.

Questo episodio bagnato era comunque una parentesi in un processo di essiccazione continuo che non ha cessato sino ad oggi, e ciò nonostante oscillazioni umide costituiscono come remissioni in uno sviluppo che va dalla semi-arida all’arida assoluta.

d) post-neolitico arido è tra il 2500 e il 2000 e 1500 aC. J.-C. Durante questo periodo, il Sahara settentrionale sapeva accelerare la siccità, che porta alla partenza della maggior parte dei gruppi umani. Così i neri sembrano finalmente rinunciare a parti del Tassili del Hoggar e l’Acacus in cui vivevano. Da quel momento, queste zone sembrano essere popolati da gruppi proto-berberi e dagli antenati degli attuali Harratins, ultimi superstiti della popolazione nera precedente. Nella parte meridionale, dal 2000 aC. AC, gli uomini ripiegarono verso il fiume Niger (Quellec 1998: 189). Più a sud, la savana “ascesa” al nord durante il periodo precedente rioccupa la “sua” zona precedente. Più a sud, nella zona della foresta, è stato dal 1500 aC. DC, che il clima corrente ha cominciato a insediarsi.

Intorno al 1000 aC. J.-C e fino a circa 800 aC. DC, un nuovo cambiamento climatico ha permesso un breve ritorno di piogge limitate. Poi il livello delle acque sotterranee si è abbassato, le fonti sono scomparse e i pozzi prosciugati. Ora nel centro del Sahara, gli insediamenti permanenti sono concentrati in grande oasi dove trovare l’acquanelle profondità del terreno. A ovest, il Sahara occidentale, l’Oued Draa attualmente Mauritania è trasformato in steppa.

Non avendo l’uomo a che fare con il cambiamento climatico, allora quali sono le cause?

II) Le vere cause del cambiamento climatico in Africa

Nel 1992, in una pubblicazione in modo da prima della nascita del concetto di “riscaldamento globale dovuto all’uomo”, due dei più grandi tropicalisti climatici globali, il francese Yves Tardy e Jean-Luc Probst hanno spiegato in pochi linee illuminanti per la loro chiarezza i successivi cambiamenti climatici nella parte Sahel-sahariana dell’Africa a partire da un secolo:

“Il clima in Africa segue la posizione della ITCZ (Intertropical anteriore) o ITCZ (intertropicale zona di convergenza). Ci sono due scenari:

1) Quando il FIT è tenuto in posizione sud, o perché anticicloni polari mobili, dal Polo Sud, sono meno attivi rispetto al solito, o perché le loro controparti settentrionali dal Polo Nord sono piuttosto più lungo e più altamente attive il deficit di precipitazioni è molto diffuso nel Sahel dell’Africa occidentale […] Questo è il caso per anni 1942,1944,1948,1970,1971,1972 e il 1973 […].

2) Quando il FIT di nuovo verso nord sotto la pressione dell’anticiclone dal Polo Sud in movimento, c’è stata una pioggia eccessiva dell’Africa occidentale Sahel […].

Così, con i movimenti della ITF che sono sotto l’influenza della salita per le masse d’aria polare settentrionale del Polo Sud o la discesa verso sud masse d’aria polare dal Polo Nord, è facilmente comprensibile il rapporto che può esistere tra variazioni di temperatura e quelli di umidità, e l’effetto competizione tra l’emisfero settentrionale e meridionale “(Tardy e Probst 1992 26).

La ricerca attuale ha incorporato le ITF variazioni contemporanee nei cicli precedenti. Nella sua tesi sui cambiamenti climatici africani da 165.000 anni, Mathieu Dalibard (2011) scrive:

“Il cambiamento climatico globale per tutto il Quaternario (periodo che inizia  2,5 milioni di anni fa)risultato dall’interazione di vari fattori che agiscono più o meno ciclicamente, nel breve o lungo termine. I cambiamenti climatici importanti come lunghi cicli il cui periodo è maggiore di qualche migliaio di anni sono dovuti alle variazioni di movimento e della posizione della terra rispetto al sole. Se questi cicli influenzano i cambiamenti climatici su larga scala, di fatto le fasi glaciali e interglaciali, altri cicli più brevi svolgono anche un ruolo sulle fluttuazioni ambientali “(Dalibard, 2011: 30).

Questi cicli climatici lunghi sono in numero di tre:

1) Coloro che dipendono dal cambiamento di orbita della Terra sono chiamati “cicli di eccentricità” e fluttuano tra i 400 000 e 100 000 anni.

2) Coloro che assecondano l’inclinazione dell’asse della Terra sono il ” i cicli dell’obliquità” e oscillano tra i 54 000 e i 41 000 anni.

3) Quelli dipendente dalla variazione l’asse di rotazione della Terra sono i “cicli precessione” e fluttuano tra i 23 000 e i 19 000 anni.

Si cerca invano qualsiasi azione umana nella successione di questi cicli … La realtà è che nel corso di questi tre cicli, l’intercettazione della radiazione solare dalla Terra varia e questo per un semplice motivo: i parametri orbitali che cambia, la quantità di energia solare ricevuta dalla terra viene assegnato automaticamente, con conseguente cambiamenti climatici che si verificano come i principali intervalli di circa 100.000, 40.000 e 20.000 anni che hanno molti cambiamenti interni.

Qui siamo lontani sia dal gergo IPCC e dalle allucinazioni di ayatollah catastrofici “verdi” con il loro “ambientalismo” che infligge colpa punitiva.

conclusione

L’attuale processo di riscaldamento africano non è il risultato delle attività umane dal suo avvio di circa 5000 anni, al momento chiamato post-neolitico arido, tra il 2500 e il 2000 -1500 aC. AC, in una Africa ancora scarsamente popolata.

Questo ciclo continua ancora oggi, intervallati da remissioni e siccità perfettamente identificati:

– Durante il periodo moderno, le principali vette di aridità che conosciamo si sono verificati nel XVII secolo,con un picco tra il 1730 e il 1750.

– Il ventesimo secolo ha vissuto quattro grandi periodi di siccità tra 1909-1913, 1940-1944, 1969-1973 e 1983-1985 (Ridimensiona 1984; Ozer et al, 2010; Maley e Vernet, 2013).

– Negli anni sessanta, periodo “caldo” di Optimum clima contemporaneo, un breve aumento delle precipitazioni compone la regione del Sahel, a nord, sconfinando così nel deserto.

– Dal 1972, le precipitazioni diminuiscono nuovamente. Di conseguenza, il deserto allunga. Per quanto riguarda il Sahel, isohyets media giù da 100 150 chilometri più a sud, abbiamo la spiegazione della più recente siccità (Carré et al, 2018). Le loro conseguenze sono naturalmente aggravate dalla pressione demografica, dal pascolo eccessivo, dalla sramatura, dalla distruzione di legna da ardere tratta dai boschi di tamerici per l’alimentazione dei forni per nutrire una popolazione in suicidio demografico, dall’abbandono delle rotazioni triennali tradizionali. Tutto questo porta ad esaurimento del suolo, un fenomeno che sta accelerando. Ma il massacro dell’ambinte ad opera dell’uomo non è di per sé la causa del riscaldamento ciclico dell’Africa.

Il problema con i sostenitori del concetto di “climaticamente corretto”, strettamente confinato ai paesi “ricchi”, è che essi confondono origine e l’influenza, due diversi concetti scientifici. Ma, come essi esercitano il monopolio mediatico e politico, in modo che possano formare le generazioni più giovani e affondarle nello stampo universalista del “del villaggio-terra” che deve essere protetto al fine di “salvare il pianeta”.

Aderendo con entusiasmo o copycat in questo nuovo messianismo, l’uomo bianco è decisamente incurabile.

bibliografia

– Bouquet, C., (2017) “Il Sahara tra i suoi due sponde .. Con delimitazione elementi geohistory a vincoli di spazio. ” Géoconfluences, dicembre 2017 in linea.

– Square, M et al, (2018) “moderna occidentale Sahel condizione di siccità senza precedenti negli ultimi 1600 anni.”. Online.

– Dalibard, M., (2011) cambiamenti climatici in tropici africani nel corso degli ultimi 165.000 anni. Tesi paleontologia clima, Università Claude Bernard di Lione 1.

– Quellec, L. (1998) Rock Art e Sahara preistoria. Parigi.

– Leroux, M., (1994) “l’interpretazione meteorologica di cambiamenti climatici osservati in Africa per 18.000 anni. “. Geo-Eco-Trop, 1994,16, (1-4), pp. 207-258.
– Leroux, M. (2000) La dinamica del tempo e il clima. Parigi.
– Maley, J e Vernet, R. (2013) “Popoli e del cambiamento climatico in Africa tropicale nord-est, dal tardo neolitico agli albori dell’era moderna” Afriche, dibattiti, metodi e corsi di storia, vol 4 (online).

– Ozer, P et al, (2010) “La desertificazione nel Sahel: storia e prospettive.”. BSGLg 2010, 54, pp 69-84.
– Consente di ridimensionare, D. (1984) La siccità e la siccità nel Sahel, Geographic Information 1984,48, pp 137-144.

– Tardy, Y e Probst, JL (1992) “La siccità, crisi climatica e oscillazioni climatiche téléconnectées centoanni.”. Siccità, 1992; 3: 25-36


[1] Questo tema della sincronicità è il cuore del mio libro ” Il Sahel guerre origini ad oggi .”

[2] L’Olocene, l’ultima fase Quaternario geologica inizia ci sono 12 000 anni fa e vede la comparsa delle prime culture neolitiche .v

La Costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Agostino Carrino, La Costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti., Mimesis 2019, pp. 419, € 28,00.

Si apre con questo saggio interessante ed originale di Carrino una nuova collana di testi, che dal primo, si rivela stimolante e anticonformista.

Oggetto ne è la progressiva moralizzazione del diritto costituzionale, ad opera di giuristi “progressisti” che, attraverso un’interpretazione costituzionale per “principi” o per “tavole di valori” più che per norme hanno smarrito il senso e la funzione della costituzione.

Vediamo come. Scrive l’autore che “I problemi connessi con la crisi attuale del costituzionalismo e della forma classica dello Stato di diritto, fondato sulla divisione dei poteri, il principio di legalità ecc., nascono in buona parte, specialmente per quanto riguarda esiti discutibili per la democrazia quali l’avvento dello Stato dei giudici sulla base di una ideologia giuridica ‘principialista’, dall’aver ridotto la costituzione a forma o norma (Sollen), tralasciando la sua dimensione storico-esistenziale, da un lato, e quella di decisione politica, dall’altro”. Tale concezione ha aperto la trasformazione dello Stato di diritto “classico” in Stato dei giudici (Justizstaat). In effetti aver “ridotto la costituzione esclusivamente a norma – di contro alla posizione che la riduce a mera decisione – significa non solo aver reso fragile la costituzione, ma anche aver sottratto la decisione fondamentale al soggetto sovrano, il popolo, col rischio sempre più concreto di fare della carta fondamentale il terreno esclusivo di giudizio di un ceto elitario e sottratto ad ogni controllo, la casta dei giudici, in particolare delle giurisdizioni superiori e specificamente le corti costituzionali”.

Peraltro così rifiutando il primato della politica “La volontà politica viene delegittimata in nome della autorità della sentenza giudiziaria, che si basa su un elemento ‘superiore’, non più la volontà divina, la legge naturale di Tommaso o la ragione illuminista, ma la capacità del giudice di ‘giudicare’ sulla base comunque di una legge”. Inoltre, essendo un’interpretazione fondata su “principi” e non su norme “si è trasformata in un’attività che si è gradualmente scissa dalla ‘law of the land’, per un verso, e dalla decisione politica, dall’altro, per scivolare in un potere che si auto-legittima in un presunto obbligo di controllo delle leggi sulla base di principi che a nostro avviso sono di fatto più funzionali ad una ideologia che ad una concezione giuridica”. Il potere delle Corti con l’interpretazione per principi diviene  “uno strumento formidabile di trasferimento di potere dalla politica e dalle sue forme classiche (gruppi, sindacati, partiti, ideologie) verso la finanza e le corti”; con ciò è il mezzo della globalizzazione “non solo a livello nazionale, ma soprattutto a livello sovra-e internazionale, dove le reti delle corti sono diventare l’altra faccia delle reti finanziarie e degli intrecci bancari”.

Ma chi sono i “giusmoralisti” artefici di tale trasformazione? Scrive Carrino sulla decadenza dello Stato (e del pensiero) moderno “Non penso certo di attribuire la responsabilità di questa decadenza, che è una decadenza di civiltà, ad un piccolo ceto di persone, più o meno sconosciute al grande pubblico quali sono i giuristi…ma i cosiddetti ‘teorici’ del pluralismo sociale, che fingono di descrivere un dato di disgregazione, sono in realtà agenti del processo di disgregazione, in nome, non a caso, di un cosiddetto ‘pluralismo normativo’, che poi altro non sarebbe che costringere un popolo ad essere quanto più possibile ‘plurale’ (ovviamente secondo i principi  scoperti da qualcuno che ritiene di conoscerli meglio di altri)”. Data la facilità che un’interpretazione per “principi” dia luogo a decisioni contrastanti “Non si capisce se è l’accettazione rassegnata della mancanza generalizzata di una capacità di decisione della politica o l’elogio compiaciuto della confusione e del tot capita tot sententiae”.

Il che realizza un “imponente moralismo travestito per astuzia nella forma del diritto”. Il libro si conclude con una speranza nel ritorno alla centralità dello Stato “Siamo in un’epoca di crisi, di decadenza e di transizione, nonostante i progressi tecnologici e scientifici…credo però che dalla transizione si potrà uscire, ma di fatto si sarà già usciti quando se ne parlerà con il ritorno alla centralità dello Stato… penso tuttavia che la civiltà europea meriti ancora e anzi abbia ancora bisogno del Kulturstaat, dello Stato di cultura, quale si evince dal pensiero – a mio avviso ancora vivo – del vecchio Hegel”.

Il saggio è così ricco di spunti, osservazioni, critiche che è impossibile al recensore sintetizzare tale dovizia di argomenti. Il neo-costituzionalismo, già efficacemente criticato da un acuto giurista argentino, Luis Bandieri, ne esce demolito.

Una considerazione finale del recensore che pare quella che meglio sintetizza la differenza tra concezione “classica” della costituzione e quella dei “giusmoralisti”.

Per i primi la costituzione è un essere prima che un dover essere. L’esistenza prevale sulla normatività. L’essenziale della Costituzione è di assicurare l’esistenza e la capacità l’azione politica dell’istituzione – Stato e della comunità che si da forma.

Principi, tavole di valori, e norme sono comunque secondari all’esistenza politicamente indipendente. Come dicevano i romani salus rei publicae suprema lex; ogni diritto cede di fronte alla necessità dell’esistenza politica di un popolo.

Tra i tanti e tra i primi l’aveva scritto Bonald due secoli orsono “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere…dobbiamo a questa così solida costituzione della monarchia la forza di resistenza e d’espansione della Francia… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione”.

Il criterio per capire se una costituzione, secondo il pensatore controrivoluzionario, è buona è che “Un’istituzione non è buona perché è remota: ma essa è durevole, o piuttosto perpetua (perché cos’è che gli uomini – che vivono un giorno – chiamano durevole?) quando è buona o in conseguenza dell’esser buona”. Non è la conformità a principi, norme ecc. ecc., il criterio di validità, ma quello di durare nella storia.

Bisogna leggere questo libro, colmo di spunti, contenuti, tutti sorretti da una dottrina ricca e politicamente scorretta. Anche perché tale, non aspettatevi che l’autore sia inviato nei talk-show e nelle altre liturgie del conformismo culturale, riservati ai giuristi di regime: l’unico modo per conoscerlo è leggere il saggio, peraltro scritto in un modo scorrevole e non “specialistico”, malgrado gli argomenti trattati.

Teodoro Klitsche de la Grange

IMMIGRAZIONE E GIUSTIZIA! DIVERGENZE APPARENTI, di Emilio Ricciardi

LA PROCURA DI AGRIGENTO ACCETTA REBUS SIC STANTIBUS IL TEOREMA DEL G.I.P. SULLA MANCANZA DI COLPEVOLEZZA DI CAROLA RACKETE.

  1. È del giorno di lunedì 15 luglio 2019 la notizia, diffusa con ampio risalto, secondo la quale la Procura di Agrigento sarebbe in procinto di presentare, “entro e non oltre mercoledì” 17 luglio p.v., il ricorso in Cassazione avverso il provvedimento del 2 luglio u.s. con cui il g.i.p. di Agrigento ha negato la convalida dell’arresto in flagranza di Carola Rackete[1].

Trova spazio, poi, in gran parte dei relativi articoli, l’affermazione secondo cui “Il ricorso alla Cassazione contro il provvedimento che ha scarcerato la Rackete serve per avere una pronuncia della Suprema corte in conformità alle leggi vigenti che diventi un punto di riferimento anche per le altre inchieste simili [grassetto dell’articolista n.d.r.]. In modo tale che le navi Ong indagate per aver violato il divieto di ingresso in acque territoriali disposto dal decreto Sicurezza bis subiscano un trattamento uniforme. Questo perché, secondo l’interpretazione della gip Alessandra Vella, il decreto non potrebbe essere applicato a navi che hanno soccorso immigrati e che dunque non possono essere considerate navi offensive per la sicurezza nazionale. E il comandante, da qui la scriminante applicata alla Rackete, ha il <dovere primario> di portarli subito nel porto sicuro più vicino che, a giudizio della gip, non possono essere considerati né quelli libici né quelli tunisini. In più per la Vella, le motovedette della Guardia di finanza a cui è attribuito il compito di intimare l’alt alle Ong non possono essere considerate navi da guerra. Ecco, per dirimere la questione sarà necessario attendere la pronuncia della Cassazione [grassetto mio]”[2].

  1. Il tenore degli articoli in questione, anzitutto, rende necessarie alcune puntualizzazioni riguardo l’oggetto del giudizio di convalida di un arresto e con ciò, di riflesso, il contenuto e la portata della sentenza che definisce il processo d’impugnazione avverso il provvedimento di diniego di tale convalida; inoltre, si presta ad una deduzione, che peraltro, anticipo, è quella che ha determinato il titolo di questa nota.
  2. Prendendo le mosse dalla questione relativa alla mancata convalida dell’arresto, comincerei da una considerazione preliminare, diretta a meglio inquadrare la valenza giuridica dell’ipotetica impugnazione del relativo provvedimento di diniego emesso dal g.i.p. di Agrigento.

 

Ora, un osservatore non esperto di questioni giuridiche, e segnatamente attinenti alla procedura penale, dalla notizia che la Procura di Agrigento avrebbe deciso di insorgere contro l’ordinanza di “scarcerazione” in discorso ricorrendo alla Corte di Cassazione, probabilmente ricaverà l’opinione secondo cui quell’ufficio giudiziario contesta in radice l’intera decisione del g.i.p. di Agrigento, e dunque il convincimento di quest’ultimo che Carola Rackete non sia colpevole dei reati ascrittile, sia perché avrebbe agito nell’adempimento del dovere di condurre gli emigranti nel più vicino “porto sicuro”, ossia quello di Lampedusa, sia perché il naviglio della Guardia di Finanza speronato da costei non sarebbe una nave da guerra.

Del resto, il sopra riportato passaggio di uno degli articoli giornalistici conforterebbe pienamente l’ipotetico osservatore in parola circa la correttezza della sua opinione.

Ma così non è.

Difatti, come forse già ampiamente noto, l’ordinanza in parola contiene due statuizioni ben distinte ed irriducibili l’una all’altra: una riguardante, appunto, il diniego di convalida dell’arresto, l’altra il rigetto della richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora nella Provincia di Agrigento. Ciascuna delle quali, quindi, avente presupposti, natura, funzione e contenuto assolutamente non sovrapponibili.

Più in particolare, mentre nel decidere sulle misure de libertate, che è appunto quanto esige la richiesta di applicazione del divieto di dimora nella Provincia di Agrigento, il giudice, al fine di valutare l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza (indefettibile presupposto di applicabilità di qualsiasi misura cautelare), è tenuto a compiere un accertamento a largo spettro, per operare il quale il giudice può e deve utilizzare tutte quelle conoscenze che possono viceversa anche essere ignote all’autore dell’arresto, la decisione relativa all’arresto impone invece che il giudice si limiti a calarsi nell’angolo visuale dell’operatore di polizia giudiziaria che ha effettuato l’arresto, onde valutare se, in base alle circostanze del momento da egli ragionevolmente percepibili o comunque pacificamente da lui conosciute, la misura precautelare fosse legittima.

3.1.       Difatti, che il giudizio sulla convalida o meno dell’arresto comporti la necessità che il giudice si collochi esclusivamente nel punto d’osservazione dell’ufficiale o agente che lo ha effettuato e nel momento in cui vi ha proceduto, essendogli quindi precluso di prendere in considerazione circostanze sconosciute a quest’ultimo e che non poteva conoscere, è dimostrato dal tenore dell’art. 385 cod. proc. pen., che così recita: “L’arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità”.

E la Cassazione ha con chiarezza costantemente affermato che “Il giudice della convalida dell’arresto deve difatti operare un controllo di mera ragionevolezza, ponendosi nella stessa situazione di chi ha operato l’arresto, per verificare, sulla base degli elementi al momento conosciuti, se la valutazione di procedere all’arresto rimanga nei limiti della discrezionalità della polizia giudiziaria” (così, Cass., Sez. VI, 16 febbraio 2017, n. 7470; conformi, Cass., Sez. V, 18 gennaio 2016, n. 1814; Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 8341; Cass., Sez. VI, 4 dicembre 2013, n. 48471; Cass., Sez. VI, 2 luglio 2012, 25625; Cass., Sez. V, 12 gennaio 2012, n. 10916).

Ciò sta a significare che oggetto del giudizio di convalida deve senz’altro essere anche il tema costituito dalla rilevabilità o meno, al momento dell’arresto, da parte della polizia giudiziaria di circostanze ritenute idonee ad integrare, ad es., la scriminante dell’adempimento del dovere, ma fatta avvertenza che questo non implica in alcun modo che il giudizio di convalida perda la sua natura di controllo rigorosamente circoscritto alla legalità dell’operato della polizia e quindi giammai esteso anche alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, la quale inerisce, come detto, alla tutt’affatto diversa decisione in materia di misure cautelari.

3.2.       Di conseguenza, per tornare alla vicenda di Carola Rackete, anche se la Cassazione accogliesse (esito effettivamente a mio avviso probabile) l’eventuale ricorso dei pubblici ministeri agrigentini, la relativa sentenza sancirebbe soltanto il fatto che gli operatori della Guardia di Finanza hanno correttamente operato l’arresto della prima poiché la situazione da costoro conosciuta e conoscibile li legittimava a ciò, ma non produrrebbe alcun’altra conseguenza giuridica in merito al profilo inerente i gravi indizi di colpevolezza, la cui insussistenza ha invece formato oggetto di quella valutazione, ripeto, tutt’affatto distinta, in ordine alla richiesta della misura cautelare.

È tanto vero quanto appena affermato che la Cassazione ha avuto modo di precisare che “L’annullamento, su ricorso del P.M., dell’ordinanza di non convalida dell’arresto va disposto senza rinvio [al giudice di merito che deve conformarsi al principio di diritto sancito dalla Cassazione n.d.r.], posto che il ricorso, avendo ad oggetto la rivisitazione di una fase ormai definitivamente perenta, è finalizzato esclusivamente alla definizione della correttezza dell’operato della polizia giudiziaria e l’eventuale rinvio solleciterebbe una pronuncia meramente formale, priva di ricadute quanto ad effetti giuridici” (così, Cass., Sez. V, 3 maggio 2017, n. 21183; v. anche, Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 8341, cit.; conforme, Cass., Sez. II, 21 marzo 2014, n. 13287).

Insomma, l’accoglimento dell’ipotetico ricorso degli indaganti agrigentini da parte della Cassazione rappresenterebbe, ove mancasse l’appello avverso il rigetto dell’applicazione di misura cautelare e l’eventuale esito vittorioso di esso, un tipico esempio di vittoria di Pirro.

Dalle considerazioni che precedono, quindi, può constatarsi la totale erroneità dell’affermazione giornalistica sopra riportata, laddove attribuisce alla futuribile decisione della Cassazione in thesi adita dalla Procura di Agrigento la funzione di “dirimere la questione”, ossia di decidere non già, come si sarebbe dovuto asserire correttamente, se la polizia giudiziaria arrestando Rackete abbia operato legalmente (giacché questo e nient’altro costituisce l’oggetto di tale futuribile decisione della Cassazione), bensì se Rackete abbia agito o meno nell’adempimento di un dovere e se la motovedetta della Guardia di Finanza urtata dalla Sea Watch 3 sia da considerarsi nave da guerra, e quindi, in definitiva, se sussistano gravi indizi di colpevolezza a carico di Rackete.

Ed è, peraltro, affermazione giornalistica anche piuttosto mistificatrice, giacché lascia intendere al lettore medio che la Procura di Agrigento ritenga Rackete, in dissenso rispetto al g..i.p. di Agrigento, colpevole (per quanto allo stato degli atti, conformemente alla natura del giudizio cautelare) dei reati addebitatile.

Nella realtà, invece, le scelte investigative della Procura di Agrigento paiono denotare una sintonia di fondo tra l’orientamento di quest’ultima sulla vicenda e la tesi su cui s’impernia l’ordinanza del g.i.p. del 2 luglio u.s.

In particolare, sembra che i pubblici ministeri agrigentini non abbiano impugnato in appello il provvedimento di rigetto della richiesta di applicazione della misura cautelare, e quindi si siano preclusi la possibilità di vedere confutata da un giudice superiore la tesi del g.i.p. di Agrigento in merito all’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in capo a Rackete.

In effetti, è una semplice deduzione, che subito mi accingo ad illustrare, che mi conduce ad affermare ciò.

  1. Mi preme però anzitutto premettere che tale deduzione è formulata esclusivamente sulla base delle notizie di stampa apparse sull’argomento sino al momento di redazione del presente scritto (16 luglio 2019). Quindi, se nel frattempo, una volta licenziato il testo di questa nota, sopraggiungesse notizia certa di circostanze idonee a mutare il quadro conoscitivo sin qui delineatosi al riguardo, non esiterei, naturalmente, ad apportare tutte le conseguenziali doverose rettifiche.

Ciò premesso, traggo le mosse dalla seguente semplice inferenza: posto che la notizia relativa al presunto imminente ricorso in Cassazione dei pubblici ministeri titolari dell’indagine nei confronti di Carola Rackete è stata immediatamente diffusa dalla stampa, allo stesso modo avrebbe dovuto essere diffusa dalla stampa, con identica tempestività ed ampia evidenza, la notizia dell’avvenuta proposizione o comunque della decisione del promovimento dell’appello cautelare avanti al Tribunale di Palermo da parte dei pubblici ministeri agrigentini. Invece di una notizia di tal fatta non v’è traccia.

Di conseguenza, se si considera altresì che il termine per la proposizione del citato appello è ormai scaduto venerdì 12 luglio u.s. (come precisavo in chiusura del mio articolo pubblicato su questo sito il 9 luglio u.s.), ossia decorsi dieci giorni dalla data di deposito e comunicazione al pubblico ministero dell’ordinanza del g.i.p. di Agrigento (2 luglio u.s.), l’assoluta mancanza di notizie di stampa al riguardo sembra consentire di concludere che la Procura di Agrigento ha prestato acquiescenza a detta ordinanza per effetto della sua mancata impugnazione nel punto in cui essa ha disposto il rigetto della richiesta di applicazione della misura cautelare per l’asserita insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in capo a Rackete.

4.1.       Di conseguenza, se fosse confermata la mancata proposizione dell’appello cautelare, ne discenderebbe la formazione del c.d. giudicato cautelare in punto mancanza dei gravi indizi di colpevolezza di Rackete, avendo costei asseritamente agito nell’adempimento di un dovere ed opposto sì resistenza ad una nave della Guardia di Finanza, che tuttavia non andrebbe considerata nave da guerra.

Il c.d. giudicato cautelare, precisamente, comporta, che, allorquando esso si sia formato a seguito della mancata impugnazione dell’ordinanza reiettiva della domanda cautelare da parte del pubblico ministero, a quest’ultimo resta preclusa la riproposizione della domanda stessa laddove non sia fondata su elementi nuovi rispetto a quelli dedotti (esplicitamente od implicitamente) nella domanda ed a quelli posti a base (esplicitamente od implicitamente) dell’ordinanza reiettiva (v. Cass., Sez. V, 13 ottobre 2009, n. 43068; Cass., Sez. VI, 25 ottobre 2002, n. 5374).

Ciò sta a significare, nel caso che ci occupa, che la pronuncia resa dal g.i.p. di Agrigento circa la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza di Rackete per la scriminante dell’adempimento del dovere e dell’inesistenza di navi da guerra coinvolte nei fatti, non possa più essere messa in discussione sulla base dei medesimi elementi dedotti dai pubblici ministeri agrigentini e di quelli posti dal g.i.p. stesso alla base della propria ordinanza del 2 luglio u.s.

Ora, occorre prestare attenzione alla circostanza secondo cui gli elementi considerati dal g.i.p. per addivenire al rigetto della domanda cautelare risultano assai copiosi, in quanto riferentisi ad un arco temporale, in cui si è ritenuto doversi collocare la condotta di Rackete, sensibilmente ampio, e segnatamente compreso tra il 12 giugno 2019, giorno del recupero da parte della Sea Watch 3 dei presunti naufraghi nella zona SAR libica, ed il 29 giugno 2019, giorno del suo attracco al porto di Lampedusa.

Appare difficile immaginare, allora, stante – come appena visto – la considerazione tendenzialmente onnicomprensiva di ogni profilo della condotta di Carola Rackete così come operata dal g.i.p. di Agrigento nell’ordinanza del 2 luglio u.s., quali potrebbero essere elementi nuovi tali da poter giustificare una nuova eventuale richiesta di applicazione di misura cautelare da parte della Procura di Agrigento[3].

  1. Infine, non possono essere sottaciute le ripercussioni che l’ipotizzata acquiescenza della Procura di Agrigento all’ordinanza reiettiva della domanda cautelare può generare sotto il profilo di un netto indebolimento della funzione di deterrenza che il riconoscimento giurisdizionale, seppure in una fase incidentale del procedimento come quella dell’appello cautelare, della colpevolezza di Rackete avrebbe invece esercitato nei confronti di chi pretenda di entrare nel nostro mare territoriale in violazione del divieto interministeriale ex art. 2, comma 1°, d. l. n. 53/19 (c.d. decreto sicurezza bis) e commettendo i reati ex artt. 1100 cod. nav. e 337 cod. pen.

In effetti, a fronte di un ennesimo ingresso nel mare territoriale italiano da parte del comandante di una nave di una o.n.g. (magari della stessa Sea Watch) in violazione del divieto interministeriale d’ingresso, con quale coerenza la Procura di Agrigento potrebbe non limitarsi a richiedere la sola convalida dell’arresto del comandante eventualmente operato dalla polizia giudiziaria, domandando invece anche l’applicazione di una misura cautelare a suo carico, nonostante abbia (in thesi) omesso di impugnare l’ordinanza in materia cautelare del g.i.p. del 2 luglio u.s.?

Ed in presenza del c.d. giudicato cautelare ormai (in thesi) calato su tale ordinanza, anche ammesso che la Procura di Agrigento decidesse, in occasione di una vicenda analoga a quella di Carola Rackete, di richiedere l’applicazione di una misura cautelare a carico del comandante dell’ennesima nave dell’ennesima o.n.g., chi altro giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Agrigento – altro, intendo, rispetto al magistrato autore dell’ordinanza del 2 luglio u.s. – si sentirebbe realmente libero da condizionamenti nell’adozione della relativa decisione?

Ad ogni modo, l’acquiescenza della Procura di Agrigento, ove fosse confermata, sembrerebbe davvero inspiegabile.

O forse no.

In effetti, già avevo notato, nel già indicato mio articolo del 9 luglio u.s., come il fatto piuttosto anomalo che la Procura di Agrigento non avesse chiesto, in occasione di una precedente vicenda molto simile all’attuale e che ha visto sempre protagonista la nave Sea watch 3, il sequestro preventivo della stessa, limitandosi soltanto alla convalida del suo sequestro probatorio, per poi disporne puntualmente il dissequestro, sembrasse poter rivelare, alla luce del contenuto dell’ordinanza del 2 luglio u.s., una comunanza di vedute, un’omogeneità culturale o quantomeno un idem sentire tra Procura di Agrigento e “proprio” g.i.p.

Non avevo, tuttavia, prestato attenzione alle seguenti dichiarazioni rese dal Procuratore Capo di Agrigento, dottor Luigi Patronaggio, nel corso dell’audizione da egli tenuta avanti alla Commissione parlamentare c.d. antimafia il 2 luglio u.s. (peraltro sembra pressoché nello stesso torno di tempo in cui veniva depositata in cancelleria l’ordinanza del g.i.p.) in merito al c.d. decreto sicurezza bis: “Laddove il decreto vuole inasprire e rendere più efficaci le indagini contro i trafficanti di esseri umani [le misure] sono assolutamente condivisibili. Viceversa criticità devo registrare in ordine all’introduzione dell’illecito amministrativo. L’illecito amministrativo è stato introdotto per fronteggiare l’attività di salvataggio delle Ong. Prima dell’introduzione di tale norma, l’attività di salvataggio delle Ong e di recupero degli immigrati erano del tutto lecite e in perfetta linea con il diritto del mare e con le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia[4].

Ora, pur tralasciando le enormi perplessità giuridiche che suscita un siffatto parere, desidero richiamare l’attenzione su altro, e cioè: posto che l’illecito amministrativo menzionato dal dottor Patronaggio sanziona la violazione del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale perpetrata dal comandante della nave; e poiché egli sostiene che, in assenza di tale illecito, “l’attività di salvataggio delle Ong e di recupero degli immigrati erano del tutto lecite” in base al diritto internazionale del mare; ne deriva necessariamente che, ad avviso del dottor Patronaggio, in primo luogo, la detta attività di salvataggio includerebbe il diritto/dovere della nave di fare ingresso nel mare territoriale e financo di condurre gli immigrati nel relativo porto, e, in secondo luogo, nella misura in cui essa attività trarrebbe la sua liceità dal diritto internazionale del mare, il predetto illecito amministrativo si porrebbe in contrasto, appunto, con tale diritto.

Ma non è questa, forse, in buona sostanza, la tesi su cui si fonda l’ordinanza del g.i.p. di Agrigento del 2 luglio u.s.?

Perché se così fosse, allora non si comprenderebbe il motivo per il quale la Procura di Agrigento avrebbe dovuto impugnare un provvedimento di rigetto della domanda cautelare che, tutto sommato, il capo della Procura stessa condivide nella sua essenza.

Ed il cerchio quindi può chiudersi.

[1]     V., fra i tanti articoli sul punto, https://www.agrigentonotizie.it/cronaca/procura-agrigento-ricorso-contro-scarcerazione-carola-rackete.html.

[2]    In https://www.ilprimatonazionale.it/primo-piano/seawatch-procura-agrigento-ricorso-cassazione-contro-scarcerazione-capitana-124576/. Analogamente: https://www.grandangoloagrigento.it/apertura/agrigento-procura-ricorre-in-cassazione-contro-la-scarcerazione-di-carola-rackete#kD6eXheckmGcsdy6.99; https://www.repubblica.it/cronaca/2019/07/15/news/sea-watch_3_la_procura_ricorre_in_cassazione_contro_la_scarcerazione_di_carola-231208037/). V., anche, https://www.grandangoloagrigento.it/apertura/agrigento-procura-ricorre-in-cassazione-contro-la-scarcerazione-di-carola-rackete, ove può leggersi: “Il ricorso della Procura agrigentina, che sarà depositato entro mercoledì, ha l’obiettivo di ottenere un pronunciamento da parte della Suprema Corte che possa diventare un punto di riferimento nell’ambito delle inchieste sulle Ong e sull’eventuale divieto di ingresso nelle acque territoriali disposto dal decreto sicurezza Bis”.

[3]     In prima battuta, mi viene da pensare che elementi nuovi potrebbero essere considerati probabilmente quelli che scaturissero a carico di Rackete dall’ulteriore indagine pendente nei suoi confronti avanti alla Procura di Agrigento in ordine al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non appare azzardato supporre, in effetti, che il rinvenimento di elementi di prova che deponessero per la fondatezza di questo addebito, renderebbe difficilmente sostenibile la perdurante validità della tesi che si fonda sulla scriminante dell’adempimento del (presunto) dovere del comandante di una nave soccorritrice non solo di recupero dei naufraghi, ma di autonoma e discrezionale loro conduzione al “porto sicuro” più vicino: la configurabilità dell’esistenza di tale dovere, difatti, presuppone evidentemente l’estraneità dell’agente alla condotta che ha causato la situazione di pericolo generatrice del dovere di assistenza, tanto più ove tale condotta integri essa stessa un reato.

[4]     In https://www.fanpage.it/politica/migranti-il-procuratore-di-agrigento-patronaggio-mai-provato-rapporto-tra-trafficanti-e-ong/.

Affidamenti di minori! Psichiatria, psicologia e tribunali_ Intervista a Paolo Di Remigio

Paolo Di Remigio è professore di storia e filosofia e studioso di Hegel. Questa conversazione trae spunto da un suo articolo intitolato ‘Le scienze umane a Bibbiano’. Bibbiano è il luogo dell’Emilia dove è emerso lo scandalo degli affidamenti dei bambini strappati dalle famiglie e affidati o a persone o a case-famiglia, a cui sono stati riservati maltrattamenti, sia psicologici che fisici, da regime totalitario. Sono vicende che hanno impressionato le coscienze. Mi interessa molto il modo in cui nell’articolo hai considerato questi fenomeni. Ora, se si collegano i vari fatti accaduti e che sono per la verità molto frequenti, sembra di intravvedere una sorta di cupola che avrebbe immaginato e costruito tutto questo. È una scorciatoia un po’ deviante per spiegare questi fatti. In realtà sappiamo che dietro ogni azione umana c’è una rappresentazione, c’è una cultura, c’è una ideologia nel senso generale del termine, in base alla quale gli uomini, i gruppi agiscono. In questo caso è accaduto qualcosa del genere. Che cosa è successo secondo te?

 

Rispetto a ogni avvenimento c’è la possibilità di essere complottisti, cioè di cercare spiegazioni in intenzioni segrete, inconfessabili, non rilevabili nell’esperienza quotidiana. Invece le intenzioni di quanto è successo negli ultimi trenta, quaranta anni non soltanto sono chiare, ma divulgate da una propaganda ossessiva. Per questo non abbiamo bisogno di spiegazioni aggiuntive rispetto a quelle offerte dall’esperienza. Abbiamo visto che il capitalismo si è trasformato da capitalismo keynesiano che affida allo Stato il compito di creare la piena occupazione a capitalismo finanziario. E questo ha portato a profonde trasformazioni: a livello ideologico, il consumismo è stato sostituito dall’ecologia; a livello economico lo Stato è stato reso impotente. Sono state imposte cioè non solo le liberalizzazioni, ma la privatizzazione dei servizi pubblici, perfino delle istituzioni, ossia la loro cessione a privati perché li facessero funzionare in modo da accumulare profitto. Mi spiego gli avvenimenti di Bibbiano come un caso particolare di questa trasformazione che ha riguardato tutti gli ambiti della nostra vita. Ciò che prima era dello Stato e non era gestito secondo criteri di profitto, perché per sua natura non poteva esserlo, è stato privatizzato; la nuova gestione ha portato con sé la possibilità di scatenare comportamenti cinici, tali da violare la natura intima del servizio e dell’istituzione acquisiti. Se si guardano le cifre, mi sembra che la spiegazione possa tenere: 200 € al giorno per l’affidamento di un bambino rappresentano una somma notevole. Questo motivo di fondo trova alleanze in passioni, in ideologie, in deliri di onnipotenza; però credo che senza l’interesse economico passioni, ideologie, abusi di posizioni di potere non avrebbero raggiunto la soglia per organizzare un sistema totalitario quale l’assistenza sociale sembra essere diventata in alcune regioni d’Italia. Tutto ciò deve rammentarci che ci sono vasti ambiti della società che non possono essere gestiti dai privati, non possono essere gestiti secondo il principio del profitto, perché sono composti da soggetti deboli, indifesi, come le famiglie in difficoltà economica, i malati, i bambini, i giovani, rispetto ai quali il perseguimento del profitto, legittimo in altri ambiti, si degrada in un approfittare senza scrupoli.

 

Ridurre tutto a un fatto di interesse economico, di guadagno, quindi di vantaggio, serve a spiegare fino a un certo punto la questione. Anche chi trae profitto, chi instaura dinamiche tese al guadagno, cerca quanto meno di giustificare la propria attività e di trarre delle motivazioni che lo portano a quel tipo particolare di attività. Qui subentra il ruolo delle scienze umane, di fatto. Sono stati introdotti dei protocolli indiscutibili in base ai quali venivano catalogati i comportamenti dei bambini e in base ai quali si arrivava a decisioni insidacabili degli operatori – assistenti sociali, psichiatri e poi anche giudici. Com’è che viene giustificata questa dinamica?

 

Il puro interesse è qualcosa di mortalmente arido. La capacità di trasformare ogni cosa, ogni circostanza in un’occasione per fare soldi è un talento che è al tempo stesso una maledizione. La saggezza greca ha rappresentato la potenza letale di questo talento nel mito di re Mida, che con la sua mano trasforma tutto in oro, ma proprio per questo si condanna a vivere nell’inorganico, nell’inanimato. Chi agisce secondo il puro interesse ha necessità di intrecciare la sua azione con motivi ulteriori. Pensiamo ai monopolisti, ai finanzieri che in genere si danno anche il vestito di filantropi. La grande finanza internazionale va sempre a braccetto con la filantropia. È vero che questa filantropia è così pelosa da suscitare in noi normali una ripugnanza superiore a quella suscitata da un comportamento esclusivamente affaristico. Ma è una nostra illusione; dobbiamo fare lo sforzo di fantasia per comprendere che ridurre tutto a valore di scambio è il massimo peccato contro lo spirito; conduce infatti alla legittimità dello schiavismo, che ha deturpato le società antiche e dal cui rifiuto nascono il cristianesimo e il nostro diritto. Nei giorni passati stavo riflettendo su quello che è accaduto nella scuola. I vari ministeri dell’istruzione che si sono succeduti negli ultimi trent’anni hanno profuso uno sforzo spasmodico per imporre la cosiddetta didattica digitale. Non c’era nessuno studio scientifico che ne mostrasse la fecondità. Poi, quando sono cominciati gli studi – essi seguono sempre l’innovazione invece di precederla, come sarebbe auspicabile – si è scoperto il contrario, che l’uso didattico di supporti digitali ostacola l’apprendimento. La precedente mancanza di studi scientifici, anziché suggerire prudenza nell’applicazione delle novità, è stata compensata da un diluvio di piani, di convegni, di citazioni, di rappresentazioni ideologiche della realtà storica, che per incoraggiare il nuovo non aveva altro argomento che diffamare il tradizionale. In chi la subiva, la pressione ossessiva incoraggiava l’ipotesi di un grande complotto contro la scuola ordito da incappucciati per realizzare piani innominabili. Ora che gli studi scientifici esistono, si capisce bene che non occorreva l’ipotesi degli incappucciati, che tutto si spiega con il fatto che i produttori di software scolastico devono vendere la loro merce, e per venderla devono pubblicizzarla; la pubblicità genera discorsi ideologici, sgangherati, ma usati dai decisori politici, spesso in mala fede, ma a volte anche in buona fede, per giustificare le loro iniziative. Che qualcuno creda in questi discorsi che ripetono le bugie del marketing è importante per la sua riuscita, perché chi vi si oppone, si oppone innanzitutto a coloro che credono, quindi il suo buon senso assume esso stesso l’apparenza di una credenza, e così è facile farla passare per una predilizione personale dettata dalla pigrizia. Nel caso di Bibbiano, ciò che è stato fatto implica un disprezzo profondo per la famiglia; ma io penso che questo disprezzo in certi ambienti ci sia sempre stato; se questo disprezzo in un certo momento storico è diventato un sistema e ha prodotto quelle situazioni spaventose, la spiegazione storica non può che partire dall’interesse materiale di un capitalismo che rifiuta la crescita economica e aumenta i margini di profitto a scapito del reddito dei lavoratori, impoveriti e precarizzati da una studiata disoccupazione. La forza abnorme acquisita oggi dalle ideologie che condannano la famiglia è una conseguenza diretta della precarizzazione subita dai lavoratori.

 

Nel tuo articolo parti dalla differenza di fondamento tra le scienze naturali e le scienze umane e affronti il tema della debolezza intrinseca del carattere scientifico delle scienze umane, legata all’impossibilità del riscontro oggettivo, all’impossibilità di falsificazione, come si dice in gergo, della propria teoria, della propria ipotesi.

 

La distinzione tra filosofia teoretica che ha per oggetto la natura, che non è fatta dall’uomo, e filosofia pratica, che non mira soltanto alla conoscenza di ciò che è fatto dall’uomo ma lo aiuta a realizzare il suo bene, è molto antica, è di Aristotele. Aristotele non dice che le scienze etiche siano meno importati; dal punto di vista teoretico sono più deboli, ma dal punto di vista dell’utilità complessiva sono anche più interessanti delle scienze teoretiche. Le scienze umane tendono a violare la distinzione aristotelica: esse vogliono conoscere l’uomo, ma vogliono conoscerlo oggettivamente, come gli scienziati della natura conoscono la natura. Nelle scienze umane il dato oggettivo è però l’intenzione. Lo psicanalista ascolta il paziente e dietro le intenzioni evidenti, dietro il contenuto esplicito, riscontra delle intenzioni più profonde, nascoste allo stesso paziente, che soffre le conseguenze di questa sua inconsapevolezza. Dall’analisi che ho fatto dello scritto di Freud si evince però che queste intenzioni nascoste, più che pura realtà oggettiva, sono in parte costruzioni del paziente che parla, in parte costruzioni dell’analista che ascolta, solo in parte realtà oggettiva. Non solo: la terapia guarisce a prescindere dalla verità della ricostruzione delle intenzioni inconsapevoli; ai suoi fini è sufficiente raggiungere il convincimento. Se una scienza non raggiunge la piena oggettività, ma si ferma alla probabilità, come fa per lo più la medicina, o addirittura al convincimento, questa scienza non può farsi portavoce di necessità assolute, anzi, nel suo operare deve rispettare un codice deontologico. Lo psicologo non può dunque affermare la sua teoria, e tanto meno il giudice può assumerla, come se fosse infallibile; la teoria deve essere applicata nel rispetto del diritto del paziente. E qui diritto è determinabile con precisione: la capacità dell’uomo di provvedere a sé stesso, l’autosufficienza della persona. Se il paziente è una famiglia, l’intervento dell’assistente sociale, dello psicologo e del giudice, non può che essere finalizzato al diritto della famiglia, al suo conservarsi come persona, alla sua coesione, alla sua compattezza, alla soluzione dei conflitti diventati troppo esasperati. Se pretende di derivare da una millantata onniscienza che gli consente di porsi al di là del bene e del male, l’operare dell’assistente sociale, dello psicologo, del giudice si trasforma in violenza contro ciò che dovrebbe sanare. Il rifiuto della finitezza di una scienza che non potendo arrivare al dato oggettivo si accontenta del convincimento, equivale all’esercizio di una prassi arbitraria e onnipotente. E questa è storia. Parenti di Freud sono stati protagonisti nell’applicare tecniche di manipolazione di massa negli Stati Uniti. Conosciamo l’applicazione delle tecniche psicologiche da parte dei servizi segreti. È terribile il fatto che una professione che dipende innanzitutto dall’atteggiamento morale di chi la pratica può assumere una pretesa di onniscienza di fronte alla quale lo stesso giudice, che deve far valere il principio etico contenuto nella legge, si arrende. Uno dei giudici implicati in queste vicende si costituisce parte civile perché si sente ingannato dai referti degli psicologi e degli psichiatri. Doveva però essergli chiaro che lo psicologo dà soltanto un parere e che la decisione doveva essere presa sulla base di un’ampia raccolta di altri pareri e secondo il principio etico fissato nelle leggi. Ho letto del caso di una madre a cui è stato strappato il bambino perché secondo una psichiatra gli sarebbe stata troppo legata, e non c’è stato verso di piegare il giudice perché ha ritenuto le testimonianze portate contro il parere della psichiatra testimonianze di persone non esperte; ma nel campo del conoscersi degli uomini tutte le persone normali, cioè le persone che sanno badare a sé stesse, che sanno affrontare e risolvere i loro problemi, sono esperte. Come scrivevo nell’articolo, l’uomo è trasparente a sé stesso, e normalmente gli uomini si capiscono guardandosi, ascoltandosi, perfino annusandosi. Io non capisco le equazioni della fisica nucleare e le formule chimiche guardandole, ma capisco subito, in quanto docente, che cosa significhi veramente un’espressione di un mio studente, e gli studenti capiscono a primo sguardo cosa possono permettersi con il docente; capisco subito, in quanto genitore, che cosa significhi un’espressione di mio figlio, magari con maggiore sicurezza di quanto possa capirlo uno psicologo che lo vede per la prima volta. È quella trasparenza per cui gli uomini riescono a vivere insieme. Succede tra marito e moglie: all’inizio si litiga, poi ci si adatta, alla fine, senza una parola, si sa benissimo cosa pensi e come reagisca il proprio coniuge. È quella trasparenza nei rapporti normali tra gli uomini di cui il giudice deve tener conto non meno che dei referti psichiatrici.

 

Facciamo un passo avanti rispetto a questo discorso. Un ruolo fondamentale sembrano averlo gli psicologi e gli psichiatri e gli assistenti sociali, che sono una sorta di psicologi. Una delle caratteristiche della psichiatria è quella di vedere la realtà come sommatoria di patologie. Questa visione contrasta con un criterio scientifico che tende a fissare la normalità, la regola dei fenomeni. È possibile attribuire un carattere scientifico e insindacabile a una prassi di questo genere?

 

Tu mi chiedi del pericolo legato alle scienze dell’uomo di vedere ovunque malattia. La tendenza a generalizzare la diffusione della malattia è la grande tentazione dei terapeuti. L’individualità è negazione del riferimento all’altro, direbbe Hegel; l’essere dei viventi non è inerte, ma è una attività e anche una lotta. Siamo dotati di un apparato immunitario che ci protegge dalle aggressioni dei microorganismi, di un apparato scheletrico e muscolare che ci protegge permettendoci la fuga o la lotta. Certo, non siamo soltanto individui in lotta. Possiamo superare la nostra individualità, stringere alleanze, allacciare rapporti positivi, rapporti di solidarietà, di amore. In ogni caso la vita ha la sua durezza; essa comporta sconfitte, disagi che possono infliggere ferite, provocare malattia. Come distinguere salute e malattia? Come determinare la salute? Come ho già detto, non è difficile: è la capacità, l’onore di provvedere a sé stessi, di non dover chiedere aiuto, anzi di poter aiutare i figli, la moglie, il prossimo, le persone incontrate nella professione. Davanti a una persona che sa provvedere a sé stessa non dovrebbero scattare categorie che vengono dall’ambito del patologico. È vero, però, che le scienze umane più fortunate, per esempio la psicoanalisi che deborda spesso dai suoi confini,  sono scienze che nascono da terapie, cioè i loro concetti principali sono concetti che hanno funzionato all’interno del rapporto tra medico e paziente. Estendere questi concetti di origine terapeutica dal rapporto con il paziente all’intera realtà non soltanto le applica un punto di vista interpretativo ma vi trasporta la malattia. L’ultimo Freud è molto apprezzato e lodato: è il Freud che si interessa non solo e non tanto di terapia, ma soprattutto di estendere i concetti della psicanalisi alla letteratura, all’arte, alla storia, alla civiltà, in particolare alla religione. Ma fatalmente i nuovi fenomeni a cui sono estesi i concetti di origine terapeutica diventano tutti più o meno patologici; quindi la religione è marchiata come nevrosi collettiva, la stessa civiltà appare definitivamente contrassegnata da un disagio derivante dal dover barattare la pulsione sessuale e quella aggressiva, quindi la felicità, con la sicurezza – come se l’essenza dell’uomo fosse la felicità e non la libertà, e la felicità fosse la soddisfazione delle pulsioni sessuali e aggressive. Si tratta di ipotesi rese interessanti dalle grandi capacità letterarie di Freud, che però si riducono spesso a miti privi di consapevolezza filosofica. Quando poi manca l’accuratezza analitica di Freud, a volte si finisce nel delirio interpretativo.

 

Non è un caso quindi che quando la funzione dello scienziato sociale si unisce al potere decisionale rischi di sfociare in un fenomeno di totalitarismo e di giudizio insindacabile nei confronti di persone, più che essere un supporto di decisioni.

 

Il principio dell’agire degli uomini rispetto agli uomini è interno all’etica. E non occorre fare chissà quali studi: essa è esposta nella Costituzione. Nella Costituzione è scritto che la legge garantisce l’unità familiare e che la Repubblica protegge non soltanto l’infanzia e la gioventù, ma innanzitutto la maternità. È la Costituzione il principio a partire dal quale il giudice emette le sue sentenze, non il parere di uno psicologo o di uno psichiatra che, per quanto esperto, non dispone di una conoscenza per principio più sicura di quella di cui dispongono i non psicologi. Nel caso della madre privata del figlio perché troppo affettuosa, le persone senza titoli professionali che hanno testimoniato contro la valutazione della psichiatra conoscevano meglio il bambino e la madre.

 

Abbiamo visto invece che sono gli stessi professionisti ad assumere il ruolo di giudici come giudici onorari, con un peso decisionale determinante, insindacabile; mentre la famiglia, i genitori, il parentado, il vicinato non assumevano più un ruolo positivo.

 

Quando la specializzazione professionale consiste nello scovare malattie occulte allo stesso malato, ogni comportamento diventa un sintomo. Quando poi chi ha questa competenza così invasiva è anche giudice, il comportamento interpretato come patologico si connette, per la natura stessa della professione di giudice, alla presunzione di colpevolezza – del genitore, ma perfino del bambino. Nel giudice onorario, nello psichiatra-giudice la malattia universale è nello stesso tempo colpa universale. Si ripropongono allora situazioni terrificanti, analoghe ai processi di stregoneria, in cui la colpa era così identica all’essere dell’imputato da essere dimostrata sia dal suo cedere che dal suo resistere alle torture.

 

Questo potrebbe spiegare come le procedure burocratiche abbiano potuto consolidarsi nel corso degli anni fino ad arrivare allo scempio a cui stiamo assistendo nelle cronache attuali. Questa rappresentazione del ruolo dello scienziato, del ruolo della scienza sociale, ha aperto le strade e fornito giustificazioni.

 

C’è un interesse economico molto forte; è incautamente concessa a certe figure professionali, che onniscienti non sono per la natura stessa dell’oggetto su cui affermano la loro competenza, la possibilità di attribuirsi l’onniscienza e di esercitare un potere assoluto; da questa confluenza è chiaro che nasce l’abuso.

 

Stiamo assistendo all’affermazione delle teorie LGBT che rivendicano il diritto di famiglie non tradizionali ad allevare, educare e anche a creare bambini. Mi sembrano teorie interessate a denigrare la funzione della famiglia tradizionale, predestinata alla procreazione, all’educazione degli affetti. Questo approccio alla scienza, questa relativizzazione è un ulteriore passo destinato ad ampliare lo spazio di queste teorie?

 

Qui direi che si verifica il caso contrario a quello di prima. Prima avevamo una scienza che è presunta totale e definitiva, che quindi abilita all’onnipotenza; qui invece si presenta una tendenza a non tener conto dei dati scientifici. Premetto che gli atteggiamenti omofobici sono sempre vergognosi. Se si guarda alla storia, in Italia non ci sono state, almeno dal Novecento, esplicite persecuzioni giudiziarie nei confronti delle persone per la loro omosessualità; invece negli altri Stati, in particolare nell’Europa luterana e calvinista, c’erano leggi che la punivano – i casi dolorosi di Oscar Wilde, di Alan Turing sono tra i più eclatanti. Anche in Italia erano però normali manifestazioni di omofobia; se capita di guardare spezzoni dei film spazzatura degli anni ’70, degli anni ’80, spesso vi compare la figura dell’omosessuale affinché faccia ridere, affinché sia umiliato. Che simili atteggiamenti in sé ignobili e pericolosi dal punto di vista educativo dovessero essere superati, che a ogni essere umano a prescindere dai suoi gusti sessuali debba essere garantito rispetto, su questo non può esserci nessuna riserva. D’altra parte, però, ci si imbatte a volte in discorsi forzati. Mi è capitato per esempio di assistere a un video, una conversazione tra Piero Angela e uno scienziato qualificato tra l’altro come sessuologo, in cui il conduttore tendeva ad esporre la questione della differenza sessuale in modo piuttosto distorsivo. Per quello che ne so – ma qui si tratta di conoscenze minime acquisibili a livello di scuole medie – la sessualità si gioca su quattro livelli: innanzitutto su quello del codice genetico; nel momento in cui i due gameti si uniscono, lo zigote ha nel suo codice genetico la determinazione sessuale, è già maschio oppure femmina, senza possibilità intermedie; è il codice genetico che, in misura sempre meno determinante, provvede al secondo livello, cioè alla differenziazione ormonale, poi al terzo, alla differenziazione anatomica, e infine al quarto, alla differenziazione psicologica. In questo sviluppo l’alternativa netta maschio/femmina propria del livello genetico può dunque stemperarsi in una pluralità di differenze. Ora in quella intervista il livello genetico, l’unico a presentare l’alternativa sessuale netta tra maschio e femmina, era presentato in modo così sfumato che sembrava inesistente. È vero che il professore aggiungeva che si nasce definitivamente maschi o femmine, ma se si trascura di menzionare che a livello genetico tertium non datur, si rischia di trascurare una differenza importante, quella tra sessualità ed erotismo, su cui lo stesso linguaggio quotidiano, che risente di una lunga tradizione di pruderie, è ambiguo. La sessualità è una forma di riproduzione dei viventi e come tale implica la differenziazione genetica tra maschio e femmina. Per questo motivo il termine ‘omosessualità’ non ha senso biologico: la congiunzione maschio-maschio, quella femmina-femmina, a cui si riferisce il prefisso ‘omo-’, non hanno carattere sessuale perché non possono svolgere alcuna funzione riproduttiva. Invece, la possibilità che i quattro livelli della sessualità si sviluppino in modo particolare determina forme intermedie di erotismo, cioè di attrazione e di piacere, oltre quello maschile e quello femminile. Il termine più esatto per molte di queste forme intermedie potrebbe essere ‘omoerotismo’. Tutto questo ha importanti conseguenze. Innanzitutto l’omoerotismo, essendo fondato sulla natura complessa dello sviluppo sessuale, è in sé stesso innocente quanto lo è l’eterosessualità, quindi l’omofobia che presuppone che l’omoerotismo derivi da una perversione della volontà è per principio ingiustificabile. La seconda conseguenza è però la differenza di dignità tra sessualità ed erotismo. Piacere e sentimento erotico non sono la sessualità, anche se di solito l’accompagnano. Si tratta del motivo esposto in modo magistrale da Platone nel Simposio. Il sesso è l’arma della fecondità con cui il vivente vince la morte, la sua ontologia, dalla cui sublimazione nell’uomo nasce tutto ciò che c’è in lui di grande; in quanto tale esso non è piacevole, ma penoso: il parto comporta pericolo e dolore, l’allevamento è sfibrante, l’educazione difficile. Proprio perché il sesso è penoso, la natura ha provveduto ad addolcirlo con il piacere erotico e con la bellezza. Il piacere erotico è per lo più un invito alla fecondità sessuale; ma può rendersene indipendente, addirittura fino all’incompatibilità. Se si tengono fermi i significati che ho attribuito ai termini, risulta evidente che il primo scopo, non l’unico, certo, della famiglia è sessuale, non erotico: la famiglia è innanzitutto la solidarietà dei sessi di fronte a un compito essenziale e difficile quale quello della riproduzione, ed è per questa difficoltà ed essenzialità del suo compito che essa va appoggiata e difesa. Ma è altrettanto evidente che il progetto di rendere biologicamente feconde le forme di omoerotismo incompatibili con la sessualità è artificiale e volontaristico. Che sia artificiale permette l’irruzione dell’interesse economico; credo che proprio questo interesse economico, nel contesto dell’attuale capitalismo teso a superare ogni vincolo che immobilizzi la forza-lavoro, renda attualmente influenti le opinioni più esagerate degli LGBT. Che sia volontaristico apre le porte alla violenza: le procedure che permettono alle coppie cosiddette omosessuali di ottenere figli, implicano sempre la rottura dei legami umani più profondi, quelli tra genitori biologici e figli biologici, e costituiscono una indubbia violazione dei loro diritti.

 

Quindi la novità rispetto alle prime fasi di questo processo, iniziato nel ’95 con le case-famiglia e quindi  con gli allontanamenti, è che allora c’era una corrente scientifica dogmatica, legata a determinati ambienti della psichiatria, della psicologia con connessioni dirette agli apparati giudiziari che portavano avanti questa ipotesi e vedevano tendenzialmente la famiglia come l’origine del male, adesso a questa tendenza si sovrappongono queste correnti che, per affermare una loro identità, una loro efficacia anche di tipo lobbistico, hanno interesse a denigrare il ruolo della famiglia tradizionale. È una loro affermazione.

 

La critica della famiglia, in genere di una superficialità irresponsabile, è un motivo fiorito negli anni ’60 e che si radica in tanti autori precedenti. Neanche occorre aspettare Freud per trovare un atteggiamento di estremo sospetto nei suoi confronti. Si può pensare a Schopenhauer, per esempio; egli rifiuta l’erotismo non tanto per un’esigenza ascetica di liberarsi dalla schiavitù dei piaceri, ma per una posizione opposta a quella di Platone, sulla base dell’odio della sessualità, in quanto l’erotismo sarebbe l’inganno con cui l’essenza maligna della natura, che Schopenhauer chiama volontà, ci alletta a riprodurci con lo scopo di perpetuare sé stessa. Se vogliamo tornare ancora più dietro la preferenza per la vita asessuata rispetto alla vita sessuata è già accordata dal cristianesimo. È vero che nelle prime comunità i presbiteri, i vescovi non solo erano sposati ma erano tenuti a sposarsi, in quanto l’amministrazione familiare era l’indispensabile tirocinio per l’amministrazione della comunità; già per San Paolo, però, il matrimonio è un ripiego per chi non ha la forza di dominare la propria sensualità ed è quindi esposto all’irregolarità erotica, più che la via privilegiata verso la santità. In seguito si sono affermati l’obbligo della castità per gli ecclesiastici e una posizione definitivamente subordinata dei laici, cioè delle famiglie, nei confronti del clero. Così, all’interno della Chiesa cattolica il matrimonio è certo un sacramento, dunque un’unione sigillata da Dio, ma la scelta matrimoniale è inferiore alla vocazione sacerdotale, l’agape è superiore al sesso.

 

In queste dinamiche c’è un rapporto molto squilibrato. La logica vorrebbe che dal punto di vista istituzionale, nelle procedure, negli affidamenti ecc., questo equilibrio si ricrei dando voce a chi non ce l’ha, tipo i genitori, tipo il bambino che in qualche maniera deve essere rappresentato in questi processi che rischiano di portarlo all’allontanamento. Quindi si tratta di ripristinare un equilibrio anche a livello istituzionale.

 

Si tratta di attenersi alla Costituzione, che nel Titolo II considera la famiglia società naturale fondata sul matrimonio, che riconosce ai genitori il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli e consente l’intervento della legge solo nel caso di loro incapacità. Nessuno può rompere alla leggera una famiglia, può strappare sulla base di impressioni paludate da un gergo psicologistico i figli ai genitori; tutto deve essere fatto per tenere insieme la famiglia e soltanto in caso di situazioni estreme si può ricorrere a misure estreme.

 

Per concludere, lo sforzo che dobbiamo fare non è tanto indugiare sull’aspetto kafkiano, mostruoso della situazione, ma reagire al pericolo che possa diventare una normalità perché legata a certe logiche, siano esse economiche, di interesse, ma anche legate a rappresentazioni ideologiche e culturali. È lì che bisogna battere per ripristinare una situazione più equilibrata. Superare dunque l’approccio scandalistico a quello che sta emergendo.

 

Riassumi bene le mie opinioni. La grande trasformazione del capitalismo della piena occupazione in capitalismo della finanza che deve controllare tutta la società attraverso la disoccupazione, comporta innanzitutto la fluidità di ogni legame umano, l’estraneazione dalla patria e dalla famiglia; comporta poi l’impotenza economica dello Stato: la sua incapacità di porre limiti all’affarismo, la gestione privatistica dei servizi più legati alla fragilità umana: il servizio sanitario, l’assistenza sociale, la scuola; e quando in questi ambiti entrano gli interessi, per quanto si mascherino con passioni, sogni, ideologie, entra l’aridità, la smania di trasformare tutto in denaro.

 

Non può essere che sotto ci sia qualcosa di più profondo che, più che al capitalismo, all’attività legata al profitto, sia legato a una logica di affermazione di élite che tendono ad acquisire sempre più potere, che non trovano contrasto e quindi attraverso questo vincolo anche ideologico tendono ad affermarsi senza alternative? Entriamo così nella discussione tra il marxismo che vede il motore della storia nelle forze produttive e Weber, Carl Schmitt che concepiscono il politico come dominante, come logica delle dinamiche e dei conflitti.

 

Forse le due prospettive non si escludono; forse la supremazia dell’economico non è eterna, ma la forma di dominio propria dell’impero anglosassone. Finché ne siamo però sudditi conviene fare della supremazia dell’economico la principale chiave interpretativa. Penso che la banca centrale indipendente che favorisce le élite finanziarie lesinando la moneta in modo da farne una merce scarsa, e quindi impedisce gli investimenti, provoca sottosviluppo, crisi, disoccupazione, migrazioni, la distruzione delle famiglie, sia il principio non segreto, anzi proclamato e difeso come un dogma religioso, sufficiente a spiegare perché attualmente l’uomo resti schiavo dei suoi bisogni quando potrebbe esserne libero.

 

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