Massimo Morigi
NB_La terza parte segue la presentazione già ripetuta nelle precedenti
Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis, su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico
(III parte di 5)
Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è nel giusto sui punti essenziali
A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann
Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile, sono stati da noi anche “congelati” tramite la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione del paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring), dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi che indirizzano l’evoluzione degli organismi2, meccanismi che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended Evolutionary Synthesis – Sintesi evoluzionistica estesa, per la quale anche il dato culturale acquisito, costruito ed introiettato dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti presenti nel modello darwiniano4. Si noti bene: Darwin era ben consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse. L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare – perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi) che siano divenuti una comunità di organismi (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente, sarebbero gravemente mùtili della loro forza euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo che iconicamente trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin ha iniziato a liberarci da questa mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci – nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.). Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9), si deve sottolineare il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano non più in via bioingegneristica come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano – e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo, che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte Mixotricha paradoxa11– sfocia alla fine, sempre in Staying with the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica, del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista” del mondo biologico e, con profonda analogia, della realtà tutta, fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il paradigma dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione (acronimo TGO, o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come una sorta di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico; ed Epifania strategica che, per concludere, può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è, una sorta di obiettivo limite; o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti – che, allo stesso titolo dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –, è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché, – vedi Teoria della Distruzione del Valore e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della Teoria del caos e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –, approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico per lo studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16.
Note
1 [Nota 1 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]
2 [Nota 2 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]
3 [Nota 3 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]
4 [Nota 4 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]
5 [Nota 5 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]
6 [Nota 6 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]
7 [Nota 7 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]
8 [Nota 8 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]
9 [Nota 9 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]
10 «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a sé stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio, quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? […] L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. Tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d’uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sé come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato.[…] Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio.»: Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Prima sezione, Cap. I, D 4, Roma, Editori Riuniti, 1964, testo ed indicazione bibliografica scaricabili all’URL https://www.doppiozero.com/materiali/marxiana/la-merce, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20181003112909/http://www.doppiozero.com/materiali/marxiana/la-merce. Pur nella nostra pretesa di aver superato tramite il nostro paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale l’ingenuo economicismo marxiano che informa tutto il Capitale ed anche il passo appena riportato, pensiamo che nulla meglio del noto passaggio del Capitale sul carattere di feticcio della merce possa illustrare la dialettica soffocata e totalmente irrisolta del pensiero harawayano, dove il cyborg è sempre in un precario equilibrio fra figura mitologica e concreta proposta transumanista per una palingenetica renovatio ab imis dell’umanità e il tutto espresso con un fantasmagorico linguaggio parareligioso che è il sintomo dell’incapacità della Haraway ad elaborare un autentico pensiero dialettico: «This list suggests several interesting things. First, the objects on the right-hand side cannot be coded as “natural”, a realization that subverts naturalistic coding for the left-hand side as well. We cannot go back ideologically or materially. It’s not just that “god” is dead; so is the “goddess.” In relation to objects like biotic components, one must think not in terms of essential properties, but in terms of strategies of design, boundary constraints, rates of flows, systems logics, costs of lowering constraints. Sexual reproduction is one kind of reproductive strategy among many, with costs and benefits as a function of the system environment. Ideologies of sexual reproduction can no longer reasonably call on the notions of sex and sex role as organic aspects in natural objects like organisms and families. Such reasoning will be unmasked as irrational, and ironically corporate executives reading Playboy and anti-porn radical feminists will make strange bedfellows in jointly unmasking the irrationalism.[…] The privileged pathology affecting all kinds of components in this universe is stress-communications breakdown. The cyborg is not subject to Foucault’s biopolitics; the cyborg simulates politics, a much more potent field of operations. This kind of analysis of scientific and cultural objects of knowledge which have appeared historically since World War II prepares us to notice some important inadequacies in feminist analysis which has proceeded as if the organic, hierarchical dualisms ordering discourse in “the West” since Aristotle still ruled. They have been cannibalized, or as Zoe Sofia (Sofoulis) might put it, they have been “techno-digested.” The dichotomies between mind and body, animal and human, organism and machine, public and private, nature and culture, men and women, primitive and civilized are all in question ideologically. The actual situation of women is their integration/exploitation into a world system of production/reproduction and communication called the informatics of domination. The home, workplace, market, public arena, the body itself – all can be dispersed and interfaced in nearly infinite, polymorphous ways, with large consequences for women and others – consequences that themselves are very different for different people and which make potent oppositional international movements difficult to imagine and essential for survival. One important route for reconstructing socialist-feminist politics is through theory and practice addressed to the social relations of science and technology, including crucially the systems of myth and meanings structuring our imaginations. The cyborg is a kind of disassembled and reassembled, post-modern collective and personal self. This is the self feminists must code.[…] But these excursions into communications sciences and biology have been at a rarefied level; there is a mundane, largely economic reality to support my claim that these sciences and technologies indicate fundamental transformations in the structure of the world for us. Communications technologies depend on electronics. Modern states, multinational corporations, military power, welfare-state apparatuses, satellite systems, political processes, fabrication of our imaginations, labor-control systems, medical constructions of our bodies, commercial pornography, the international division of labor, and religious evangelism depend intimately upon electronics. Microelectronics is the technical basis of simulacra, i.e., of copies without originals. Microelectronics mediates the translations of labor into robotics and word processing; sex into genetic engineering and reproductive technologies; and mind into artificial intelligence and decision procedures. The new biotechnologies concern more than human reproduction. Biology as a powerful engineering science for redesigning materials and processes has revolutionary implications for industry, perhaps most obvious today in areas of fermentation, agriculture, and energy. Communications sciences and biology are constructions of natural-technical objects of knowledge in which the difference between machine and organism is thoroughly blurred; mind, body, and tool are on very intimate terms. The “multinational” material organization of the production and reproduction of daily life and the symbolic organization of the production and reproduction of culture and imagination seem equally implicated. The boundary-maintaining images of base and superstructure, public and private, or material and ideal never seemed more feeble. I have used Rachel Grossman’s image of women in the integrated circuit to name the situation of women in a world so intimately restructured through the social relations of science and technology. I use the odd circumlocution, “the social relations of science and technology,” to indicate that we are not dealing with a technological determinism, but with a historical system depending upon structured relations among people. But the phrase should also indicate that science and technology provide fresh sources of power, that we need fresh sources of analysis and political action. Some of the rearrangements of race, sex, and class rooted in high-tech-facilitated social relations can make socialist feminism more relevant to effective progressive politics.[…] There are grounds for hope in the emerging bases for new kinds of unity across race, gender, and class, as these elementary units of socialist-feminist analysis themselves suffer protean transformations. Intensifications of hardship experienced worldwide in connection with the social relations of science and technology are severe. But what people are experiencing is not transparently clear, and we lack sufficiently subtle connections for collectively building effective theories of experience. Present efforts – Marxist, psychoanalytic, feminist, anthropological – to clarify even “our” experience are rudimentary. I am conscious of the odd perspective provided by my historical position – a Ph.D. in biology for an Irish Catholic girl was made possible by Sputnik’s impact on U.S. national science-education policy. I have a body and mind as much constructed by the post-World War II arms race and Cold War as by the women’s movements. There are more grounds for hope by focusing on the contradictory effects of politics designed to produce loyal American technocrats, which as well produced large numbers of dissidents, rather than by focusing on the present defeats. The permanent partiality of feminist points of view has consequences for our expectations of forms of political organization and participation. We do not need a totality in order to work well. The feminist dream of a common language, like all dreams for a perfectly true language, of perfectly faithful naming of experience, is a totalizing and imperialist one. In that sense, dialectics too is a dream language, longing to resolve contradiction. Perhaps, ironically, we can learn from our fusions with animals and machines how not to be Man, the embodiment of Western logos. From the point of view of pleasure in these potent and taboo fusions, made inevitable by the social relations of science and technology, there might indeed be a feminist science.[…] Writing is pre-eminently the technology of cyborgs, etched surfaces of the late twentieth century. Cyborg politics is the struggle for language and the struggle against perfect communication, against the one code that translates all meaning perfectly, the central dogma of phallogocentrism. That is why cyborg politics insist on noise and advocate pollution, rejoicing in the illegitimate fusions of animal and machine. These are the couplings which make Man and Woman so problematic, subverting the structure of desire, the force imagined to generate language and gender, and so subverting the structure and modes of reproduction of “Western” identity, of nature and culture, of mirror and eye, slave and master, body and mind. “We” did not originally choose to be cyborgs, but choice grounds a liberal politics and epistemology that imagines the reproduction of individuals before the wider replications of “texts.” From the perspective of cyborgs, freed of the need to ground politics in “our” privileged position of the oppression that incorporates all other dominations, the innocence of the merely violated, the ground of those closer to nature, we can see powerful possibilities. Feminisms and Marxisms have run aground on Western epistemological imperatives to construct a revolutionary subject from the perspective of a hierarchy of oppressions and/or a latent position of moral superiority, innocence, and greater closeness to nature. With no available original dream of a common language or original symbiosis promising protection from hostile “masculine” separation, but written into the play of a text that has no finally privileged reading or salvation history, to recognize “oneself” as fully implicated in the world, frees us of the need to root politics in identification, vanguard parties, purity, and mothering. Stripped of identity, the bastard race teaches about the power of the margins and the importance of a mother like Malinche. Women of color have transformed her from the evil mother of masculinist fear into the originally literate mother who teaches survival. […] These real-life cyborgs, e.g., the Southeast Asian village women workers in Japanese and U.S. electronics firms described by Aiwa Ong, are actively rewriting the texts of their bodies and societies. Survival is the stakes in this play of readings.» (Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, London, Routledge, 2004, pp. 21-35, qui di seguito, come già segnalato supra alla nota precedente, gli URL presso i quali prendere visione e scaricare l’ Haraway Reader. Gli URL presso i quali noi abbiamo riscontrato il saggio risalgono alle piattaforme di preservazione digitale Internet Archive e SCRIBD e sono per quanto riguarda Internet Archive: https://archive.org/details/162697775DonnaHarawayTheHarawayReader/mode/2up e
https://ia800107.us.archive.org/35/items/162697775DonnaHarawayTheHarawayReader/162697775-Donna-Haraway-the-Haraway-Reader.pdf, e per quanto riguarda SCRIBD: https://it.scribd.com/document/373082337/Haraway-2016-Manifestly-Haraway). Fatta eccezione per il radicale – ma anche confuso – rifiuto della attuale società post-capitalista del Cyborg Manifesto, non è difficile immaginare la critica che il Marx del Capitale potrebbe avanzare al passo appena citato, e che si riassumerebbe nella stigmatizzazione di una pseudodialettica storica in cui le fantasmagoriche immagini criptoparareligiose coprono la natura feticistica delle rappresentazioni dei rapporti di classe, rapporti di classe che, nonostante tutte le evoluzioni tecno-biologico-genetico-informatiche che erano addirittura al di là dell’immaginazione ai tempi della scrittura del Capitale, non hanno natura sostanzialmente diversa, in ultima istanza, a quelli già a suo tempo individuati da Marx avendo come riferimento la prima rivoluzione industriale. Siccome non è mai stata nostra intenzione smentire in sede storico-teorica il pensiero marxiano, anzi, le nostre intenzioni sono sempre state il contrario, e cioè cogliere il nucleo vivo e tuttora proficuo del pensiero marxiano, dove dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico e della sua filosofia della prassi il rapporto conflittuale di classe proletariato-classe capitalista individuato da Marx come unico motore della fisiologia ed evoluzione della società capitalistica è sì un punto di vista parziale ma parziale perché dialetticamente compreso ed inserito nella ben più vasta e totalizzante natura dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della società attraverso la quale l’uomo si rapporta con sé stesso e con la società tutta olisticamente intesa, in un rapporto dialettico generativo ex nihilo ed ex suo il quale non è solo originatore dell’uomo, della società e della realtà culturale – ovviamente cultura e società riconducibili non solo all’uomo ma anche a tutti gli altri viventi! – ma anche di tutto il resto della realtà naturale, fisica e biologica entro la quale è parimenti ancora generativo ex nihilo ed ex suo il suddetto paradigma olistico-dialettico-espressivo-conflittuale-strategico, noi ci permettiamo di concordare col nostro ipotetico Marx redivivus in merito alla natura feticistica delle fantasmagoriche immagini tecno-biologico-genetico-informatiche, criptoparareligiose nella loro essenza, che ruotano attorno al cyborg harawayano, e che, a sua volta, costituisce il delirante riassunto espressivo di tutte queste fantasmagorie. Ma spiritualmente confortati dal nostro Marx redivivus che dal suo altissimo trono in regnum coeli benevolmente ci osserva ed assiste e concretamente hic et nunc su questa terra direttamente ammaestrati dal nostro paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, vediamo di ragionare ulteriormente sulla fantasmagoria harawayana connotata dalla mancanza di una prospettiva storica dialettica nella rappresentazione realistica della conflittualità sociale, e dal nostro punto di vista i crampi del pensiero dialettico del passo appena citato, sintomatici anche di tutta la successiva produzione dell’Haraway, possono essere riassunti in A) a p. 21 impiego della categoria ‘strategia’ che però è più un fatto puramente lessicale piuttosto che una vera consapevolezza dialettica; in B) alle pp. 22-23 utilizzo della figura del cyborg sia per esorcizzare il problema teorico-pratico della conflittualità politica e per dissolvere la concezione classica dell’identità psichica dell’uomo – quest’ultimo tentativo non cosa sbagliata in sé ma mancante l’Haraway di una concreta e dialettica filosofia della prassi, sfociante in una sorta di nichilismo bio-tecnologico; in C) alle pp. 24-25, dove il cyborg sembra la metafora di una sorta di dialettica adattiva dello scontro sociale sulla falsariga dell’hegeliana dialettica signore-servo, impostazione in sé non da rigettare in toto ma veramente una peso immane da caricare sulle povere e gracili spalle del mito tecno-biologico del cyborg; in D) alle pp. 30-31 dove continua l’impostazione adattiva dello scontro sociale in chiave tecno-biologica; infine in E) alle pp. 34-35, dove il cyborg viene indicato come una sorta di classe sostitutiva della classe operaia, a noi veramente apparendo in queste ultime pagine il cyborg come una sorta di stralunato calco – espresso con terminologia mitologico-religiosa-parascientifica – dell’Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (per non dire che costituisce un’ulteriore feticizzazione della già soteriologica classe operaia marxiana); non a caso il capitolo da cui abbiamo citato è intitolato “Cyborgs: a Myth of Political Identiy” ma mentre l’Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolico significa, in pratica, l’autocoscienza di massa della comune natura dialettico-espressiva-strategica-conflittuale dell’uomo, della società ed anche della natura, qui, con una Weltanschauung che risente molto della formazione cattolica dell’autrice, abbiamo un cyborg-mito che diventa una vera e propria figura soteriologica non perché portatore e/o simbolo di istanze dialettico-strategiche, ma unicamente in ragione della sua concreta e materiale e al tempo stesso numinosa (e feticistico-fantasmagorica) manifestazione nella realtà, in una figura soteriologica, quindi, che anziché in un Dio incarnato in un uomo si manifesta attraverso un cyborg che si è incarnato nell’uomo e nella società tramite le biotecnologie ma, ahinoi, senza che questa parusia tecnologica porti ad un avanzamento dialettico della consapevolezza strategica – come invece avviene, anche se in forme che filosoficamente pagano un profondo tributo al mito, nella parusia cristiana –, ma, siccome il nostro scopo è la costruzione di una concreta strategia dialettica rinvenendo i segni di questa dialettica dove questi anche confusi si manifestano (e tenendo sempre presente che, dal nostro punto di vista, l’importanza di un prodotto culturale, come lo sono le nuove frontiere delle scienze biologiche definite dalle intrinsecamente dialettiche epigenetica, teoria endosimbiotica e sintesi evoluzionistica estesa ma anche le loro elaborazioni letterario-filosofiche anche se manifestate in forme dialetticamente insoddisfacenti come nella Haraway sono sì importanti per le conoscenze che espressamente affermano ma anche, se non più, per la loro collocazione storico-dialettica nell’ambito del progressivo sviluppo di un completo paradigma olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale), come abbiamo fatto sempre in primo luogo per Marx ma anche per tutti quegli autori che, pur fra mille contraddizioni, hanno saputo esprimere un momento strategico, continuiamo ora a cogliere anche nella Haraway, sempre attraverso il Cyborg Manifesto, quei segni utili per lo sviluppo in sede teorica e storica della dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale della filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico. «It has become difficult to name one’s feminism by a single adjective or even to insist in every circumstance upon the noun. Consciousness of exclusion through naming is acute. Identities seem contradictory, partial, and strategic. With the hard-won recognition of their social and historical constitution, gender, race, and class cannot provide the basis for belief in “essential” unity. There is nothing about being “female” that naturally binds women. There is not even such a state as “being” female, itself a highly complex category constructed in contested sexual scientific discourses and other social practices. Gender, race, or class consciousness is an achievement forced on us by the terrible historical experience of the contradictory social realities of patriarchy, colonialism, and capitalism. And who counts as “us” in my own rhetoric? Which identities are available to ground such a potent political myth called “us:” and what could motivate enlistment in this collectivity? Painful fragmentation among feminists (not to mention among women) along every possible fault line has made the concept of woman elusive, an excuse for the matrix of women’s dominations of each other. For me – and for many who share a similar historical location in white, professional middle class, female, radical, North American, mid-adult bodies – the sources of a crisis in political identity are legion.» (Ivi, pp. 13-14) (…) «MacKinnon’s radical theory of experience is totalizing in the extreme; it does not so much marginalize as obliterate the authority of any other women’s political speech and action. It is a totalization producing what Western patriarchy itself never succeeded in doing-feminists’ consciousness of the non-existence of women, except as products of men’s desire. I think MacKinnon correctly argues that no Marxian version of identity can firmly ground women’s unity. But in solving the problem of the contradictions of any Western revolutionary subject for feminist purposes, she develops an even more authoritarian doctrine of experience. If my complaint about socialist/Marxian standpoints is their unintended erasure of polyvocal, unassimilable, radical difference made visible in anti-colonial discourse and practice, MacKinnon’s intentional era sure of all difference through the device of the “essential” non-existence of women is not reassuring. In my taxonomy, which like any other taxonomy is a reinscription of history, radical feminism can accommodate all the activities of women named by socialist feminists as forms of labor only if the activity can somehow be sexualized. Reproduction had different tones of meanings for the two tendencies, one rooted in labor, one in sex, both calling the consequences of domination and ignorance of social and personal reality “false consciousness.” Beyond either the difficulties or the contributions in the argument of any one author, neither Marxist nor radical feminist points of view have tended to embrace the status of a partial explanation; both were regularly constituted as totalities. Western explanation has demanded as much; how else could the “Western” author incorporate its others? Each tried to annex other forms of domination by expanding its basic categories through analogy, simple listing, or addition. Embarrassed silence about race among white radical and socialist feminists was one major, devastating political consequence. History and polyvocality disappear into political taxonomies that try to establish genealogies. There was no structural room for race (or for much else) in theory claiming to reveal the construction of the category woman and social group women as a unified or totalizable whole.» (Ivi, pp. 18-19) (…) «In this attempt at an epistemological and political position, I would like to sketch a picture of possible unity, a picture indebted to socialist and feminist principles of design. The frame for my sketch is set by the extent and importance of rearrangements in worldwide social relations tied to science and technology. I argue for a politics rooted in claims about fundamental changes in the nature of class, race, and gender in an emerging system of world order analogous in its novelty and scope to that created by industrial capitalism; we are living through a movement from an organic, industrial society to a polymorphous, information system from all work to all play, a deadly game. Simultaneously material and ideological, the dichotomies may be expressed in the following chart of transitions from the comfortable old hierarchical dominations to the scary new networks I have called the informatics of domination: Representation – Simulation; Bourgeois novel, realism – Science fiction, post-modernism; Organism – Biotic component; Depth, integrity – Surface, boundary; Heat – Noise; Biology as clinical practice – Biology as inscription; Physiology – Communications engineering; Small group -Subsystem; Perfection – Optimization; Eugenics – Population control; Decadence, Magic Mountain – Obsolescence, Future shock; Hygiene – Stress management; Microbiology, tuberculosis – Immunology, AIDS; Organic division of labor -Ergonomics/cybernetics of labor; Functional specialization -Modular construction; Reproduction – Replication; Organic sex role specialization – Optimal genetic strategies; Biological determinism – Evolutionary inertia, constraints; Community ecology – Ecosystem; Racial chain of being – Neo-imperialism, United Nations humanism; Scientific management in home/factory – Global factory/Electronic cottage; Family/Market/Factory – Women in the Integrated Circuit; Public/Private – Cyborg Citezenship; Nature/Culture – Fields of difference; Cooperation – Communications enhancement; Freud – Lacan; Sex – Genetic engineering; Labor – Robotics; Mind – Artificial Intelligence; World War II – Star Wars; White Capitalist Patriarchy – Informatics of Domination. This list suggests several interesting things.» (Ivi, pp. 20-21). Vediamo quindi di enucleare gli spunti interessanti dei tre passi tratti dal Cyborg Manifesto. Nella citazione che corre a cavallo fra le pp. 18-19, si può rilevare che, anche se la Haraway è assolutamente impermeabile ad un discorso schmittiano sulla sovranità né tantomeno viene sfiorata dall’idea post-schmittiana del Repubblicanesimo Geopolitico che questa sovranità è l’ ipostasi storicamente di volta in volta differentemente modulata del diuturno e transepocale conflitto olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, essa si interroga potentemente su un problema fondamentale nella costruzione della Gestalt della sovranità politica, e cioè il problema dell’identità, anche se quest’identità, a dire il vero, viene dalla Haraway costruita lungo la linea di sviluppo evoluzionistico-biologico-di genere con tutto il buono e il cattivo che comporta questa scelta. Il buono è che si abbandona lo stretto schema classista marxiano, il cattivo che, come si è visto, questo abbandono non implica uno sviluppo della dialettica ma il ricadere in schemi incarnazionistici religioso-parareligiosi soteriologici di stampo cristiano dove a prendere il posto della mitica classe operaia-classe Cristo del marxismo salvatrice dell’umanità tutta, stanno corpi biologici in incessante evoluzione ed annichilenti in questa evoluzione sia le soluzioni di continuità date dall’individuazione sessuale che quelle date dai limiti biologico-temporali dei corpi viventi (mito del cyborg, mito cioè di un corpo che tramite innesti meccanici e/o biotecnologici può vivere all’infinito). Tuttavia, nonostante tutti questi enormi crampi dialettici, vediamo che, sul piano pratico – cioè sul piano della storia delle idee anche se non su quello dello sviluppo di una autentica dialettica gnoseologico-espistemologica basata sulla più o meno consapevole adozione del paradigma dell’ azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – questa ridefinizione di identità portata avanti solamente sul piano mitologico-biologico-evoluzionistico comporta, assieme a terribili arretramenti, anche molto interessanti avanzamenti rispetto al vecchio conflittualismo marxiano-marxista. Come infatti vediamo alle pp. 18-19, dove A) molto opportunamente si cerca di riscrivere gli schemi conflittualistici marxiani adottando schemi che introducono anche il conflitto nella definizione del vivente e nel concetto e nella pratica della sessualità. Certamente rispetto al semplice schema marxiano un avanzamento in senso realistico, peccato solo che questi nuovi soggetti vengano connotati solo come viventi (anche se non in senso classico: ora fra i viventi abbiamo anche i cyborg) e dotati, tuttalpiù, solo di contraddizioni di ordine sessuale e nuotino quindi, astraendo da tutto il resto della storicità umana e naturale, in un quasi totale vuoto dialettico ontologico-epistemologico di riferimento; dove B) la definizione di queste nuove identità sessuo-cyborghiane passa attraverso l’annichilimento del concetto di naturalità per essere sostituito con uno di storicità. E questo annichilimento della naturalità avrebbe potenzialmente portata veramente rivoluzionaria perché adottando questo schema sarebbe impossibile a questo punto parlare di un mondo naturale contrapposto ad un mondo storico-culturale. Come nel repubblicanesimo Geopolitico, anche la Haraway è perfettamente convinta dell’inanità di questa suddivisione ma dove C) e qui veniamo alle dolenti note, questa consapevolezza dell’artificiosità di questa suddivisione, siccome la Haraway è sprovvista di un coerente schema storico-culturale-dialettico non dà nessun reale contributo in merito alla critica della società occidentale e dello stesso marxismo ma si ripiega su sé stessa nella solita fantasmagorica affabulazione soteriologica mitico-biologico-tecnologico-evoluzionistica. E, infatti, alle pp. 20-21 assistiamo, tramite la mappa-lista delle nuove linee di faglia-conflitto della nostra nuova epoca confrontate con quelle della seconda e terza rivoluzione industriale ad una piena resa della dialettica. Al di là della giustezza storica nella proposta di sostituzione di alcune vecchie coppie dicotomiche con altre indicate come nuove, veramente sintomatica di tutta la difficoltà gnoseologico-epistemologica della lista proposta dalla Haraway e di tutto il suo discorso nel suo complesso è la proposta di adozione, accanto alla vecchia dicotomia natura/cultura da abbandonare, della nuova categoria ‘campi delle differenze’, il che non significa assolutamente nulla e caccia dalla porta ma fa rientrare dalla finestra la dicotoma natura/cultura – inevitabilmente rientrante anch’essa nel campo delle differenze, magari uno dei tanti ma non per questo destinata alla nostra condanna definitiva –, con la inconsapevole ma non per questo non meno chiara conseguenza, in ultima istanza, che si è mancato l’appuntamento con qualsiasi discorso storico-dialettico basato sul’annullamento della falsa polarità natura/cultura, o se proprio non lo si è mancato, continuando a riformularlo nei soteriologici, feticistici e fantasmagorici termini biologistico-tecnologici-evoluzionistici tanto cari alla mitologica e non dialettica narrazione della Haraway, o, come nel caso specifico della proposta di sostituzione della dicotomia natura/cultura con ‘campi delle differenze’, se non fantasmagorici con assoluta vuotaggine semantica (assenza di significato finale che, sempre e non solo nella Haraway, è l’altra faccia della medaglia di qualsiasi Weltanschauung basata solo sull’immaginifico e sull’utopia, ultraterrena o secolarizzata che sia, e non saldamente storicamente e dialetticamente fondata).
Certamente la fase più estrema ed ultima delle feticistiche fantasmagorie harawayne è il racconto fantascientifico The Camille Stories. Children of Compost, capitolo ottavo di Staying with the Trouble del 2016 ma prima di compiere un nostro veloce esame di questo apologo fantascientifico e allo scopo di mettere ulteriormente a fuoco le feticistiche fantasmagorie harawayne che mancano, pur nella contestazione del monocorde e rigido conflittualismo marxiano classe operaia vs classe capitalista, di stigmatizzare efficacemente in Marx uno dei suoi più importanti punctum dolens, cioè l’avere accettato la suddivisione natura/cultura (se per efficacia non intendiamo, ovviamente, l’uso del solito linguaggio fiammeggiante feticistico-fantasmagorico: «Hilary Klein has argued that both Marxism and psychoanalysis, in their concepts of labor and of individuation and gender formation, depend on the plot of original unity out of which difference must be produced and enlisted in a drama of escalating domination of woman/nature. The cyborg skips the step of original unity, of identification with nature in the Western sense. This is its illegitimate promise that might lead to subversion of its teleology as star wars. The cyborg is resolutely committed to partiality, irony, intimacy, and perversity. It is oppositional, utopian, and completely without innocence. No longer structured by the polarity of public and private, the cyborg defines a technological polis based partly on a revolution of social relations in the oikos, the household. Nature and culture are reworked; the one can no longer be the resource for appropriation or incorporation by the other. The relationships for forming wholes from parts, including those of polarity and hierarchical domination, are at issue in the cyborg world.»: Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, cit., p. 9, e stigmatizzazione mancata perche l’Haraway è sostanzialmente tutta tesa alla ricerca-sostituzione di un nuovo soggetto rivoluzionario rispetto alla mitica marxiana classe operaia, ma compiendo questo tentativo prima col cyborg del Cyborg Manifesto e poi, come fra poco vedremo, col nuovo simbionte del Staying with the Trouble, mezzo uomo e mezzo animale e in assenza di un qualsiasi schema storicistico olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale), invitiamo a confrontare sul tema natura/cultura e di come questa falsa dicotomia venga (malamente) affrontata anche in Marx i nostri seminali Massimo Morigi, Breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) , pubblicato in data 21 settembre 1916 sul blog di geopolitica marxista “Conflitti e Strategie” (all’URL di “Conflitti e Strategie” http://www.conflittiestrategie.it/breve-nota-allintervista-del-csepi-a-la-grassa-di-massimo-morigi; Webcite: https://www.webcitation.org/6khrAAyet; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20161211122021/http://www.conflittiestrategie.it/breve-nota-allintervista-del-csepi-a-la-grassa-di-massimo-morigi; e pubblicato poi anche autonomamente in data 29 ottobre 2016 su Internet Archive in un breve raccolta di altri scritti di Massimo Morigi recante il titolo Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) presso gli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345/mode/2up e https://ia801909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf) e Massimo Morigi, Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis, dicembre 2016 (immesso autonomamente in Rete, in data 24 gennaio 2017, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701/mode/2up e https://ia601904.us.archive.org/6/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09;
e poi anche su ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici, https://doi.org/10.13140/RG.2.2.29749.47842; ma prima ancora, in data 13 dicembre 2016, sul blog “L’Italia e il Mondo”, agli URL http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200304070934/http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e https://web.archive.org/web/20200304071007/http://italiaeilmondo.com/category/agora/) con i seguenti passi del Cyborg Manifesto, tutti cristallini atti di fede sull’inanità della suddivisione natura/cultura ma parimenti segno del profondo “casinismo” mental-sessual-tecno-biologico-genetistico che è il marchio di fabbrica feticistico-fantasmagorico di tutta la produzione della Haraway e che potrebbe essere definito una sorta di incubo della dialettica: «Movements for animal rights are not irrational denials of human uniqueness; they are a clear-sighted recognition of connection across the discredited breach of nature and culture. Biology and evolutionary theory over the past two centuries have simultaneously produced modern organisms as objects of knowledge and reduced the line between humans and animals to a faint trace re-etched in ideological struggle or professional disputes between life and social science. Within this framework, teaching modern Christian creationism should be fought as a form of child abuse. Biological-determinist ideology is only one position opened up in scientific culture for arguing the meanings of human animality. There is much room for radical political people to contest the meanings of the breached boundary. The cyborg appears in myth precisely where the boundary between human and animal is transgressed. Far from signaling a walling off of people from other living beings, cyborgs signal disturbingly and pleasurably tight coupling. Bestiality has a new status in this cycle of marriage exchange. The second leaky distinction is between animal-human (organism) and machine. Pre-cybernetic machines could be haunted; there was always the specter of the ghost in the machine. This dualism structured the dialogue between materialism and idealism that was settled by a dialectical progeny, called spirit or history, according to taste. But basically machines were not self-moving, self-designing, autonomous. They could not achieve man’s dream, only mock it. They were not man, an author to himself, but only a caricature of that masculinist reproductive dream. To think they were otherwise was paranoid. Now we are not so sure. Late twentieth-century machines have made thoroughly ambiguous the difference between natural and artificial, mind and body, self-developing and externally designed, and many other distinctions that used to apply to organisms and machines. Our machines are disturbingly lively, and we ourselves frighteningly inert.» (Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, cit., pp. 10-11); (…) «So my cyborg myth is about transgressed boundaries, potent fusions, and dangerous possibilities, which progressive people might explore as one part of needed political work. One of my premises is that most American socialists and feminists see deepened dualisms of mind and body, animal and machine, idealism and materialism in the social practices, symbolic formulations, and physical artifacts associated with “high technology” and scientific culture. From One-Dimensional Man (Marcuse 1964) to The Death of Nature (Merchant 1980), the analytic resources developed by progressives have insisted on the necessary domination of technics and recalled us to an imagined organic body to integrate our resistance. Another of my premises is that the need for unity of people trying to resist worldwide intensification of domination has never been more acute. But a slightly perverse shift of perspective might better enable us to contest for meanings, as well as for other forms of power and pleasure in technologically mediated societies.» (Ivi, pp-14-15); (…) «This kind of analysis of scientific and cultural objects of knowledge that have appeared historically since the Second World War prepares us to notice some important inadequacies in feminist analysis that has proceeded as if the organic, hierarchical dualisms ordering discourse in “the West” since Aristotle still ruled. They have been cannibalized, or as Zoe Sofia (1984) might put it, they have been “techno-digested.” The dichotomies between mind and body, animal and human, organism and machine, public and private, nature and culture, men and women, primitive and civilized are all in question ideologically. The actual situation of women is their integration/exploitation into a world system of production/reproduction and communication called the informatics of domination. The home, workplace, market, public arena, the body itself – all can be dispersed and interfaced in nearly infinite, polymorphous ways, with large consequences for women and others – consequences that themselves are very different for different people and that make potent oppositional international movements difficult to imagine and essential for survival. One important route for reconstructing socialist-feminist politics is through theory and practice addressed to the social relations of science and technology, including crucially the systems of myth and meanings structuring our imaginations. The cyborg is a kind of disassembled and reassembled, postmodern collective and personal self. This is the self feminists must code.» (Ivi, pp. 32-33); (…) «Writing is preeminently the technology of cyborgs, etched surfaces of the late twentieth century. Cyborg politics are the struggle for language and the struggle against perfect communication, against the one code that translates all meaning perfectly, the central dogma of phallogocentrism. That is why cyborg politics insist on noise and advocate pollution, rejoicing in the illegitimate fusions of animal and machine. These are the couplings that make Man and Woman so problematic, subverting the structure of desire, the force imagined to generate language and gender, and so subverting the structure and modes of reproduction of “Western” identity, of nature and culture, of mirror and eye, slave and master, body and mind. “We” did not originally choose to be cyborgs, but choice grounds a liberal politics and epistemology that imagine the reproduction of individuals before the wider replications of “texts.” From the perspective of cyborgs, freed of the need to ground politics in “our” privileged position of the oppression that incorporates all other dominations, the innocence of the merely violated, the ground of those closer to nature, we can see powerful possibilities. Feminisms and Marxisms have run aground on Western epistemological imperatives to construct a revolutionary subject from the perspective of a hierarchy of oppressions and/or a latent position of moral superiority, innocence, and greater closeness to nature. With no available original dream of a common language or original symbiosis promising protection from hostile “masculine” separation, but written into the play of a text that has no finally privileged reading or salvation history, to recognize “oneself” as fully implicated in the world, frees us of the need to root politics in identification, vanguard parties, purity, and mothering. Stripped of identity, the “bastard” race teaches about the power of the margins and the importance of a mother like Malinche. Women of color have transformed her from the evil mother of masculinist fear into the originally literate mother who teaches survival. This is not just literary deconstruction, but liminal transformation. Every story that begins with original innocence and privileges the return to wholeness imagines the drama of life to be individuation, separation, the birth of the self, the tragedy of autonomy, the fall into writing, alienation – that is, war, tempered by imaginary respite in the bosom of the Other. These plots are ruled by a reproductive politics – rebirth without flaw, perfection, abstraction. In this plot women are imagined either better or worse off, but all agree they have less selfhood, weaker individuation, more fusion to the oral, to Mother, less at stake in masculine autonomy. But there is another route to having less at stake in masculine autonomy, a route that does not pass through Woman, Primitive, Zero, the Mirror Stage and its imaginary. It passes through women and other present-tense, illegitimate cyborgs, not of Woman born, who refuse the ideological resources of victimization so as to have a real life. These cyborgs are the people who refuse to disappear on cue, no matter how many times a “Western” commentator remarks on the sad passing of another primitive, another organic group done in by “Western” technology, by writing. These real-life cyborgs (for example, the Southeast Asian village women workers in Japanese and U.S. electronics firms described by Aihwa Ong) are actively rewriting the texts of their bodies and societies. Survival is at stake in this play of readings. To recapitulate, certain dualisms have been persistent in Western traditions; they have all been systemic to the logics and practices of domination of women, people of color, nature, workers, animals – in short, domination of all constituted as others, whose task is to mirror the self. Chief among these troubling dualisms are self/other, mind/body, culture/nature, male/female, civilized/primitive, reality/appearance, whole/part, agent/resource, maker/made, active/passive, right/wrong, truth/illusion, total/partial, God/man. The self is the One who is not dominated, who knows that by the service of the other, the other is the one who holds the future, who knows that by the experience of domination, which gives the lie to the autonomy of the self. To be One is to be autonomous, to be powerful, to be God; but to be One is to be an illusion, and so to be involved in a dialectic of apocalypse with the other. Yet to be other is to be multiple, without clear boundary, frayed, insubstantial. One is too few, but two are too many. High-tech culture challenges these dualisms in intriguing ways. It is not clear who makes and who is made in the relation between human and machine. It is not clear what is mind and what is body in machines that resolve into coding practices. Insofar as we know ourselves in both formal discourse (for example, biology) and in daily practice (for example, the homework economy in the integrated circuit), we find ourselves to be cyborgs, hybrids, mosaics, chimeras. Biological organisms have become biotic systems, communications devices like others. There is no fundamental, ontological separation in our formal knowledge of machine and organism, of technical and organic. The replicant Rachel in the Ridley Scott film Blade Runner stands as the image of a cyborg culture’s fear, love, and confusion. One consequence is that our sense of connection to our tools is heightened. The trance state experienced by many computer users has become a staple of science-fiction film and cultural jokes. Perhaps paraplegics and other severely handicapped people can (and sometimes do) have the most intense experiences of complex hybridization with other communications devices. Anne McCaffrey’s prefeminist The Ship Who Sang (1969) explored the consciousness of a cyborg, hybrid of girl’s brain and complex machinery, formed after the birth of a severely handicapped child. Gender, sexuality, embodiment, skill: all were reconstituted in the story. Why should our bodies end at the skin, or include at best other beings encapsulated by skin? From the seventeenth century till now, machines could be Animated – given ghostly souls to make them speak or move or to account for their orderly development and mental capacities. Or organisms could be mechanized – reduced to body understood as resource of mind. These machine/organism relationships are obsolete, unnecessary. For us, in imagination and in other practice, machines can be prosthetic devices, intimate components, friendly selves. We don’t need organic holism to give impermeable wholeness, the total woman and her feminist variants (mutants?). Let me conclude this point by a very partial reading of the logic of the cyborg monsters of my second group of texts, feminist science fiction. The cyborgs populating feminist science fiction make very problematic the statuses of man or woman, human, artifact, member of a race, individual entity, or body. Katie King clarifies how pleasure in reading these fictions is not largely based on identification. Students facing Joanna Russ for the first time, students who have learned to take modernist writers like James Joyce or Virginia Woolf without flinching, do not know what to make of The Adventures of Alyx or The Female Man, where characters refuse the reader’s search for innocent wholeness while granting the wish for heroic quests, exuberant eroticism, and serious politics. The Female Man is the story of four versions of one genotype, all of whom meet, but even taken together do not make a whole, resolve the dilemmas of violent moral action, or remove the growing scandal of gender. The feminist science fiction of Samuel R. Delany, especially Tales of Nevèrÿon, mocks stories of origin by redoing the neolithic revolution, replaying the founding moves of Western civilization to subvert their plausibility. James Tiptree Jr., an author whose fiction was regarded as particularly manly until her “true” gender was revealed, tells tales of reproduction based on nonmammalian technologies like alternation of generations of male brood pouches and male nurturing. John Varley constructs a supreme cyborg in his arch-feminist exploration of Gaea, a mad goddessplanet-trickster-old woman-technological-device on whose surface an extraordinary array of post-cyborg symbioses are spawned. Octavia Butler writes of an African sorceress pitting her powers of transformation against the genetic manipulations of her rival (Wild Seed), of time warps that bring a modern U.S. black woman into slavery where her actions in relation to her white master–ancestor determine the possibility of her own birth (Kindred), and of the illegitimate insights into identity and community of an adopted cross-species child who came to know the enemy as self (Survivor). In Dawn (1987), the first installment of a series called Xenogenesis, Butler tells the story of Lilith Iyapo, whose personal name recalls Adam’s first and repudiated wife and whose family name marks her status as the widow of the son of Nigerian immigrants to the United States. A black woman and a mother whose child is dead, Lilith mediates the transformation of humanity through genetic exchange with extraterrestrial lovers/rescuers/destroyers/genetic engineers, who re-form Earth’s habitats after the nuclear holocaust and coerce surviving humans into intimate fusion with them. It is a novel that interrogates reproductive, linguistic, and nuclear politics in a mythic field structured by late-twentieth-century race and gender. Because it is particularly rich in boundary transgressions, Vonda McIntyre’s Superluminal can close this truncated catalogue of promising and dangerous monsters who help redefine the pleasures and politics of embodiment and feminist writing. In a fiction where no character is “simply” human, human status is highly problematic. Orca, a genetically altered diver, can speak with killer whales and survive deep ocean conditions, but she longs to explore space as a pilot, necessitating bionic implants jeopardizing her kinship with the divers and cetaceans. Transformations are effected by virus vectors carrying a new developmental code, by transplant surgery, by implants of microelectronic devices, by analogue doubles, and other means. Laenea becomes a pilot by accepting a heart implant and a host of other alterations allowing survival in transit at speeds exceeding that of light. Radu Dracul survives a virus-caused plague in his outerworld planet to find himself with a time sense that changes the boundaries of spatial perception for the whole species. All the characters explore the limits of language; the dream of communicating experience; and the necessity of limitation, partiality, and intimacy even in this world of protean transformation and connection. Superluminal stands also for the defining contradictions of a cyborg world in another sense; it embodies textually the intersection of feminist theory and colonial discourse in the science fiction I have alluded to in this essay. This is a conjunction with a long history that many “First World” feminists have tried to repress, including myself in my readings of Superluminal before being called to account by Zoe Sofoulis (n.d.), whose different location in the world system’s informatics of domination made her acutely alert to the imperialist moment of all science fiction cultures, including women’s science fiction. From an Australian feminist sensitivity, Sofoulis remembered more readily McIntyre’s role as writer of the adventures of Captain Kirk and Spock in TV’s Star Trek series than her rewriting the romance in Superluminal. Monsters have always defined the limits of community in Western imaginations. The Centaurs and Amazons of ancient Greece established the limits of the centered polis of the Greek male human by their disruption of marriage and boundary pollutions of the warrior with animality and woman. Unseparated twins and hermaphrodites were the confused human material in early modern France who grounded discourse on the natural and supernatural, medical and legal, portents and diseases – all crucial to establishing modern identity. In the evolutionary and behavioral sciences, monkeys and apes have marked the multiple boundaries of late-twentieth-century industrial identities. Cyborg monsters in feminist science fiction define quite different political possibilities and limits from those proposed by the mundane fiction of Man and Woman.» (Ivi, pp. 57-65); e tutti segno, nella loro feticistica fantasmagoria biotecnologico-genetistica-fantascientifica, oltre che di un concretamente possibile futuro della nostra specie da evitare a tutti i costi – e che invece la Haraway, proprio per il suo deficit dialettico ritiene auspicabile: una cosa è dire, mettiamo, che con l’ingegneria genetica le future generazioni non saranno più angustiate dalla carie dentale, un’altra è risolvere questo problema dotando la futura umanità di un becco d’anatra al posto della tradizionale dentatura!, una modifica radicale del nostro fenotipo e genotipo che, come vedremo fra breve in questa stessa nota, la Haraway porta alle sue estreme conseguenze nel suo più recente lavoro, Stayng with the Trouble – del fatto che l’Haraway nel delineare la sua fantastica trasformistica umanità prossima ventura si dimostra del tutto conforme ed espressione di quella cultura occidentale, il cui grandissimo errore non è stato, come crede la Haraway, di essere una cultura maschilista, aristocratica, fallocentrica e tutte le altre grandi nequizie lessicali che si possono trarre dal suo dizionario più o meno femminista ma, molto più semplicemente, di non aver saputo sviluppare il grande spunto aristotelico dello zoòn lògon èchon, dell’uomo che proprio per essere un “animale politico” (zoòn politikòn o ζῷον πολιτικόν) è anche l’unico “animale che possiede il linguaggio” (zoòn lògon èchon o ζῷον λόγον ἔχων) (Aristotele, Politica, 1253a 9-10, da noi consultato nella versione in inglese con testo originale a fianco Aristotle, Politics, London, William Heinemann LTD, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1959, presso gli URL di Internet Archive https://archive.org/details/politicsrackh00arisuoft e https://ia800904.us.archive.org/6/items/politicsrackh00arisuoft/politicsrackh00arisuoft.pdf) e nel caso della Haraway, dominata dalla sua stessa fantasmagoria feticistica lessicale, verrebbe quasi voglia di sposare in toto il pensiero di Heidegger quando il filosofo afferma che «La parola che ci parla dell’essenza di una cosa ci viene dal linguaggio, perché noi sappiamo fare attenzione all’essenza propria di questo.[…] L’uomo si comporta come se fosse lui il creatore e il padrone del linguaggio, mentre è questo, invece, che rimane signore dell’uomo. Questo rovesciamento di rapporto è uno dei motivi dell’estraniazione (Unheimische) dell’uomo. Il linguaggio è l’appello supremo che viene rivolto all’uomo» (Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 97, da noi citato dall’URL https://www.opuslibros.org/Index_libros/Recensiones_1/heidegge_dis.htm, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20191122073121/https://www.opuslibros.org/Index_libros/Recensiones_1/heidegge_dis.htm), mentre in realtà, al netto della filosofia di Heidegger che, dal nostro punto di vista, può a buon diritto essere definito il pensatore più antistrategico, più antiprassistico e meno dialettico mai comparso sulla faccia della Terra, quello che il filosofo di Meßkirch ci segnala – anche se involontariamente e probabilmente anche con un inconscio riferimento a sé stesso – è che l’uomo è quasi sempre dimentico di essere il creatore strategico del linguaggio e quindi, anziché essere un “animale che possiede il linguaggio”, il più delle volte è “un animale posseduto dal linguaggio” e questo essere dimentico della vera, autentica ed unica natura dell’uomo già individuata da Aristotele nella sua Politica – e che nell’ambito dell’ulteriormente raffinato paradigma olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico è natura umana linguistico-politica in una dinamica prassistica dove l’uomo e il suo linguaggio sono dialetticamente interconnessi in un continuo rapporto di creazione del soggetto e dell’oggetto dove il soggetto uomo è contemporaneamente creato dalla sua creazione-oggetto linguaggio, che in questo modo diventa soggetto che crea il suo oggetto, che crea cioè l’uomo stesso – è il vero tratto distintivo della Haraway, la quale nonostante (anzi proprio per queste) fantasmagorie linguistiche non si distacca assolutamente da tutta la grande rimozione del pensiero occidentale sulla natura linguistico-politica dell’uomo già intravista da Aristotele, una rimozione che nel Novecento ha avuto in Heidegger il suo più grande interprete ma che in finale di XX secolo e nell’inizio del nostro successivo, vede schierata fra i suoi protagonisti anche la Haraway, in uno però strano pasticcio mitologico-linguistico dove, con intenzioni del tutto antitetiche a quelle di Heidegger, non si vuole la soppressione della dialettica ma se ne è alla continua ricerca, ricerca però del tutto frustrata da questo suo fiammeggiante e soteriologico feticistico-fantasmagorico-mitologico linguaggio (che dà espressione nel caso del Cyborg Manifesto al mito del cyborg), del tutto inadeguato a raggiungere una minimamente accettabile dimensione dialettica. «“The Camille Stories: Children of Compost” closes this book. This invitation to a collective speculative fabulation follows five generations of a symbiogenetic join of a human child and monarch butterflies along the many lines and nodes of these insects’ migrations between Mexico and the United States and Canada. These lines trace socialities and materialities crucial to living and dying with critters on the edge of disappearance so that they might go on. Committed to nurturing capacities to respond, cultivating ways to render each other capable, the Communities of Compost appeared all over the world in the early twenty-first century on ruined lands and waters. These communities committed to help radically reduce human numbers over a few hundred years while developing practices of multispecies environmental justice of myriad kinds. Every new child had at least three human parents; and the pregnant parent exercised reproductive freedom in the choice of an animal symbiont for the child, a choice that ramified across the generations of all the species. The relations of symbiogenetic people and unjoined humans brought many surprises, some of them deadly, but perhaps the deepest surprises emerged from the relations of the living and the dead, in symanimagenic complexity, across the holobiomes of earth. Lots of trouble, lots of kin to be going on with.» (introduzione a Donna Jeanne Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Durham (N.C.), Duke University Press, 2016, p. 8, notazione bibliografica già supra alla precedente nota n° 9, come sempre supra in questa nota URL presso il quale il documento può essere scaricato: https://edisciplinas.usp.br/pluginfile.php/4374763/mod_resource/content/0/Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf, nostro congelamento Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20190930132847/https://edisciplinas.usp.br/pluginfile.php/4374763/mod_resource/content/0/Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf, e URL del nostro caricamento del documento su Internet Archive: https://archive.org/details/donnaj.harawaystayingwiththetroublemakingkininthechthulucene/mode/2up e https://ia803104.us.archive.org/4/items/donnaj.harawaystayingwiththetroublemakingkininthechthulucene/Donna%20J.%20Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf. N.B. Successivamente, questo caricamento su Internet Archive reso non disponibile dalla piattaforma per presunta violazione delle clausole sul copyright; rimane disponibile il congelamento Wayback Machine) (…) «And then Camille came into our lives, rendering present the cross-stitched generations of the not-yet-born and not-yet-hatched of vulnerable, coevolving species. Proposing a relay into uncertain futures, I end Staying with the Trouble with a story, a speculative fabulation, which starts from a writing workshop at Cerisy in summer 2013, part of Isabelle Stengers’s colloquium on gestes speculatifs. Gestated in SF writing practices, Camille is a keeper of memories in the flesh of worlds that may become habitable again. Camille is one of the children of compost who ripen in the earth to say no to the posthuman of every time. I signed up for the afternoon workshop at Cerisy called Narration Speculative. The first day the organizers broke us down into writing groups of two or three participants and gave us a task. We were asked to fabulate a baby, and somehow to bring the infant through five human generations. In our times of surplus death of both individuals and of kinds, a mere five human generations can seem impossibly long to imagine flourishing with and for a renewed multispecies world. Over the week, the groups wrote many kinds of possible futures in a rambunctious play of literary forms. Versions abounded. Besides myself, the members of my group were the filmmaker Fabrizio Terranova and psychologist, philosopher, and ethologist Vinciane Despret. The version I tell here is itself a speculative gesture, both a memory and a lure for a “we” that came into being by fabulating a story together one summer in Normandy. I cannot tell exactly the same story that my cowriters would propose or remember. My story here is an ongoing speculative fabulation, not a conference report for the archives. We started writing together, and we have since written Camille stories individually, sometimes passing them back to the original writers for elaboration, sometimes not; and we have encountered Camille and the Children of Compost in other writing collaborations too. All the versions are necessary to Camille. My memoir for that workshop is an active casting of threads from and for ongoing, shared stories. Camille, Donna, Vinciane, and Fabrizio brought each other into copresence; we render each other capable. The Children of Compost insist that we need to write stories and live lives for flourishing and for abundance, especially in the teeth of rampaging destruction and impoverization. Anna Tsing urges us to cobble together the “arts of living on a damaged planet”; and among those arts are cultivating the capacity to reimagine wealth, learn practical healing rather than wholeness, and stitch together improbable collaborations without worrying overmuch about conventional ontological kinds. The Camille Stories are invitations to participate in a kind of genre fiction committed to strengthening ways to propose near futures, possible futures, and implausible but real nows. Every Camille Story that I write will make terrible political and ecological mistakes; and every story asks readers to practice generous suspicion by joining in the fray of inventing a bumptious crop of Children of Compost. Readers of science fiction are accustomed to the lively and irreverent arts of fan fiction. Story arcs and worlds are fodder for mutant transformations or for loving but perverse extensions. The Children of Compost invite not so much fan fiction as sym fiction, the genre of sympoiesis and symchthonia – the coming together of earthly ones. The Children of Compost want the Camille Stories to be a pilot project, a model, a work and play object, for composing collective projects, not just in the imagination but also in actual story writing. And on and under the ground. Vinciane, Fabrizio, and I felt a vital pressure to provide our baby with a name and a pathway into what was not yet but might be. We also felt a vital pressure to ask our baby to be part of learning, over five generations, to radically reduce the pressure of human numbers on earth, currently set on a course to climb to more than 11 billion by the end of the twenty-first century CE. We could hardly approach the five generations through a story of heteronormative reproduction (to use the ugly but apt American feminist idiom)! More than a year later, I realized that Camille taught me how to say, “Make Kin Not Babies.” Immediately, however, as soon as we proposed the name of Camille to each other, we realized that we were now holding a squirming child who had no truck with conventional genders or with human exceptionalism. This was a child born for sympoiesis – for becoming-with and makingwith a motley clutch of earth others. // IMAGINING THE WORLD OF THE CAMILLES // Luckily, Camille came into being at a moment of an unexpected but powerful, interlaced, planetwide eruption of numerous communities of a few hundred people each, who felt moved to migrate to ruined places and work with human and nonhuman partners to heal these places, building networks, pathways, nodes, and webs of and for a newly habitable world. Only a portion of the earthwide, astonishing, and infectious action for well-being came from intentional, migratory communities like Camille’s. Drawing from long histories of creative resistance and generative living in even the worst circumstances, people everywhere found themselves profoundly tired of waiting for external, never materializing solutions to local and systemic problems. Both large and small individuals, organizations, and communities joined with each other, and with migrant communities like Camille’s, to reshape terran life for an epoch that could follow the deadly discontinuities of the Anthropocene, Capitalocene, and Plantationocene. In system-changing simultaneous waves and pulses, diverse indigenous peoples and all sorts of other laboring women, men, and children – who had been long subjected to devastating conditions of extraction and production in their lands, waters, homes, and travels – innovated and strengthened coalitions to recraft conditions of living and dying to enable flourishing in the present and in times to come. These eruptions of healing energy and activism were ignited by love of earth and its human and nonhuman beings and by rage at the rate and scope of extinctions, exterminations, genocides, and immiserations in enforced patterns of multispecies living and dying that threatened ongoingness for everybody. Love and rage contained the germs of partial healing even in the face of onrushing destruction. None of the Communities of Compost could imagine that they inhabited or moved to “empty land.” Such still powerful, destructive fictions of settler colonialism and religious revivalism, secular or not, were fiercely resisted. The Communities of Compost worked and played hard to understand how to inherit the layers upon layers of living and dying that infuse every place and every corridor. Unlike inhabitants in many other utopian movements, stories, or literatures in the history of the earth, the Children of Compost knew they could not deceive themselves that they could start from scratch. Precisely the opposite insight moved them; they asked and responded to the question of how to live in the ruins that were still inhabited, with ghosts and with the living too. Coming from every economic class, color, caste, religion, secularism, and region, members of the emerging diverse settlements around the earth lived by a few simple but transformative practices, which in turn lured – became vitally infectious for – many other peoples and communities, both migratory and stable. The communities diverged in their development with sympoietic creativity, but they remained tied together by sticky threads.The linking practices grew from the sense that healing and ongoingness in ruined places requires making kin in innovative ways. In the infectious new settlements, every new child must have at least three parents, who may or may not practice new or old genders. Corporeal differences, along with their fraught histories, are cherished. New children must be rare and precious, and they must have the robust company of other young and old ones of many kinds. Kin relations can be formed at any time in life, and so parents and other sorts of relatives can be added or invented at significant points of transition. Such relationships enact strong lifelong commitments and obligations of diverse kinds. Kin making as a means of reducing human numbers and demands on the earth, while simultaneously increasing human and other critters’ flourishing, engaged intense energies and passions in the dispersed emerging worlds. But kin making and rebalancing human numbers had to happen in risky embodied connections to places, corridors, histories, and ongoing decolonial and postcolonial struggles, and not in the abstract and not by external fiat. Many failed models of population control provided strong cautionary tales. Thus the work of these communities was and is intentional kin making across deep damage and significant difference. By the early twenty-first century, historical social action and cultural and scientific knowledges – much of it activated by anticolonial, antiracist, proqueer feminist movement – had seriously unraveled the once-imagined natural bonds of sex and gender and race and nation, but undoing the widespread destructive commitment to the still-conceived natural necessity of the tie between kin making and a treelike biogenetic reproductive genealogy became a key task for the Children of Compost. The decision to bring a new human infant into being is strongly structured to be a collective one for the emerging communities. Further, no one can be coerced to bear a child or punished for birthing one outside community auspices. The Children of Compost nurture the born ones every way they can, even as they work and play to mutate the apparatuses of kin making and to reduce radically the burdens of human numbers across the earth. Although discouraged in the form of individual decisions to make a new baby, reproductive freedom of the person is actively cherished. This freedom’s most treasured power is the right and obligation of the human person, of whatever gender, who is carrying a pregnancy to choose an animal symbiont for the new child. All new human members of the group who are born in the context of community decision making come into being as symbionts with critters of actively threatened species, and therefore with the whole patterned fabric of living and dying of those particular beings and all their associates, for whom the possibility of a future is very fragile. Human babies born through individual reproductive choice do not become biological symbionts, but they do live in many other kinds of sympoiesis with human and nonhuman critters. Over the generations, the Communities of Compost experienced complex difficulties with hierarchical caste formations and sometimes violent clashes between children born as symbionts and those born as more conventional human individuals. Syms and non-syms, sometimes literally, did not see eye to eye easily. The animal symbionts are generally members of migratory species, which critically shapes the lines of visiting, working, and playing for all the partners of the symbiosis. The members of the symbioses of the Children of Compost, human and nonhuman, travel or depend on associates that travel; corridors are essential to their being. The restoration and care of corridors, of connection, is a central task of the communities; it is how they imagine and practice repair of ruined lands and waters and their critters, human and not. The Children of Compost came to see their shared kind as humus, rather than as human or nonhuman. The core of each new child’s education is learning how to live in symbiosis so as to nurture the animal symbiont, and all the other beings the symbiont requires, into ongoingness for at least five human generations. Nurturing the animal symbiont also means being nurtured in turn, as well as inventing practices of care of the ramifying symbiotic selves. The human and animal symbionts keep the relays of mortal life going, both inheriting and inventing practices of recuperation, survival, and flourishing. Because the animal partners in the symbiosis are migratory, each human child learns and lives in nodes and pathways, with other people and their symbionts, in the alliances and collaborations needed to make ongoingness possible. Literally and figurally, training the mind to go visiting is a lifelong pedagogical practice in these communities. Together and separately, the sciences and arts are passionately practiced and enlarged as means to attune rapidly evolving ecological naturalcultural communities, including people, to live and die well throughout the dangerous centuries of irreversible climate change and continuing high rates of extinction and other troubles. A treasured power of individual freedom for the new child is to choose a gender – or not – when and if the patterns of living and dying evoke that desire. Bodily modifications are normal among Camille’s people; and at birth a few genes and a few microorganisms from the animal symbiont are added to the symchild’s bodily heritage, so that sensitivity and response to the world as experienced by the animal critter can be more vivid and precise for the human member of the team. The animal partners are not modified in these ways, although the ongoing relationships with lands, waters, people and peoples, critters, and apparatuses render them newly capable in surprising ways too, including ongoing EcoEvoDevo biological changes. Throughout life, the human person may adopt further bodily modifications for pleasure and aesthetics or for work, as long as the modifications tend to both symbionts’ wellbeing in the humus of sympoiesis. Camille’s people moved to southern West Virginia in the Appalachian Mountains on a site along the Kanawha River near Gauley Mountain, which had been devastated by mountaintop removal coal mining. The river and tributary creeks were toxic, the valleys filled with mine debris, the people used and abandoned by the coal companies. Camille’s people allied themselves with struggling multispecies communities in the rugged mountains and valleys, both the local people and the other critters. Most of the Communities of Compost that became most closely linked to Camille’s gathering lived in places ravaged by fossil fuel extraction or by mining of gold, uranium, or other metals. Places eviscerated by deforestation or agriculture practiced as water and nutrient mining and monocropping also figured large in Camille’s extended world. Monarch butterflies frequent Camille’s West Virginia community in the summers, and they undertake a many-thousand-mile migration south to overwinter in a few specific forests of pine and oyamel fir in central Mexico, along the border of the states of Michoacan and Mexico. In the twentieth century, the monarch was declared the state insect of West Virginia; and the Sanctuario de la Biosfera Mariposa Monarca (Monarch Butterfly Biosphere Reserve), a UNESCO World Heritage Site after 2008, was established in the ecoregion along the Trans-Mexican Volcanic Belt of surviving woodlands. Throughout their complex migrations, the monarchs must eat, breed, and rest in cities, ejidos, indigenous lands, farms, forests, and grasslands of a vast and damaged landscape, populated by people and peoples living and dying in many sorts of contested ecologies and economies. The larvae of the leap-frogging spring eastern monarch migrations from south to north face the consequences of genetic and chemical technologies of mass industrial agriculture that make their indispensable food – the leaves of native, local milkweeds – unavailable along most of the routes. Not just the presence of any milkweed, but the seasonal appearance of local milkweed varieties from Mexico to Canada, is syncopated in the flesh of monarch caterpillars. Some milkweed species flourish in disturbed land; they are good pioneer plants. The common milkweed of central and eastern North America, Asclepias syriaca, is such an early successional plant. Milkweeds thrive on roadsides and between crop furrows, and these are the milkweeds that are especially susceptible to herbicides like Monsanto’s glyphosphate-containing herbicide, Roundup. Another milkweed is also important to the eastern migration of monarchs, namely the climax prairie species native to grasslands in later successional stages. With the nearly complete destruction of climax prairies across North America, this milkweed, Asclepias meadii, is fiercely endangered. Throughout the spring, summer, and fall, a large variety of early, midseason, and late flowering plants, including milkweed blossoms, produce the nectar sucked greedily by monarch adults. On the southern journey to Mexico, the future of the North American eastern migration is threatened by loss of the habitats of nectar-producing plants to feed the nonbreeding adults flying to overwinter in their favorite roosting trees in mountain woodlands. These woodlands in turn face naturalcultural degradation in complex histories of ongoing state, class, and ethnic oppression of campesinos and indigenous peoples in the region, for example, the Mazahuas and Otomi. Unhinged in space and time and stripped of food in both directions, larvae starve and hungry adults grow sluggish and fail to reach their winter homes. Migrations fail across the Americas. The trees in central Mexico mourn the loss of their winter shimmying clusters, and the meadows, farms, and town gardens of the United States and southern Canada are desolate in summer without the flitting shimmer of orange and black. For the child’s symbionts, Camille 1’s birthing parent chose monarch butterflies of North America, in two magnificent but severely damaged streams, from Canada to Mexico, and from the state of Washington, along California, and across the Rocky Mountains. Camille’s gestational parent exercised reproductive freedom with wild hope, choosing to bond the soon-to-be-born fetus with both the western and eastern currents of this braid of butterfly motion. That meant that Camille of the first generation, and further Camilles for four more human generations at least, would grow in knowledge and know-how committed to the ongoingness of these gorgeous and threatened insects and their human and nonhuman communities all along the pathways and nodes of their migrations and residencies in these places and corridors, not all the time everywhere. Camille’s community understood that monarchs as a widespread global species are not threatened; but two grand currents of a continental migration, a vast connected sweep of myriad critters living and dying together, were on the brink of perishing. The child-bearing parent who chose the monarch butterfly as Camille’s symbiont was a single person with the response-ability to exercise potent, noninnocent, generative freedom that was pregnant with consequences for ramifying worlds across five generations. That irreducible singularity, that particular exercise of reproductive choice, set in train a severalhundred-year effort, involving many actors, to keep alive practices of migration across and along continents for all the migrations’ critters. The Communities of Compost did not align their children to “endangered species” as that term had been developed in conservation organizations in the twentieth century. Rather, the Communities of Compost understood their task to be to cultivate and invent the arts of living with and for damaged worlds in place, not as an abstraction or a type, but as and for those living and dying in ruined places. All the Camilles grew rich in worldly communities throughout life, as work and play with and for the butterflies made for intense residencies and active migrations with a host of people and other critters. As one Camille approached death, a new Camille would be born to the community in time so that the elder, as mentor in symbiosis, could teach the younger to be ready. The Camilles knew the work could fail at any time. The dangers remained intense. As a legacy of centuries of economic, cultural, and ecological exploitation both of people and other beings, excess extinctions and exterminations continued to stalk the earth. Still, successfully holding open space for other critters and their committed people also flourished, and multispecies partnerships of many kinds contributed to building a habitable earth in sustained troubled times. //THE CAMILLE STORIES// The story I tell below tracks the five Camilles along only a few threads and knots of their lifeways, between the birth of Camille 1 in 2025 and the death of Camille 5 in 2425. The story I tell here cries out for collaborative and divergent story-making practices, in narrative, audio, and visual performances and texts in materialities from digital to sculptural to everything practicable. My stories are suggestive string figures at best; they long for a fuller weave that still keeps the patterns open, with ramifying attachment sites for storytellers yet to come. I hope readers change parts of the story and take them elsewhere, enlarge, object, flesh out, and reimagine the lifeways of the Camilles. The Camille Stories reach only to five generations, not yet able to fulfill the obligations that the Haudenosaunee Confederacy imposed on themselves and so on anyone who has been touched by the account, even in acts of unacknowledged appropriation, namely, to act so as to be response-able to and for those in the seventh generation to come. The Children of Compost beyond the reach of the Camille Stories might become capable of that kind of worlding, which somehow once seemed possible, before the Great Acceleration of the Capitalocene and the Great Dithering. Over the five generations of the Camilles, the total number of human beings on earth, including persons in symbiosis with vulnerable animals chosen by their birth parent (syms) and those not in such symbioses (non-syms), declined from the high point of 10 billion in 2100 to a stable level of 3 billion by 2400. If the Communities of Compost had not proved from their earliest years so successful and so infectious among other human people and peoples, the earth’s population would have reached more than 11 billion by 2100. The breathing room provided by that difference of a billion human people opened up possibilities for ongoingness for many threatened ways of living and dying for both human and nonhuman beings. [corsivo nell’originale]» (Ivi., pp. 134-144, dal capitolo 8 The Camille Stories. Children of Compost, pp. 134-168). Scenari postapocalittici, comunità umane e umani vaganti in cerca di una nuova utopia, o meglio di nuove utopie, e utopie più o meno diverse e più o meno realizzate in cui i tratti che le accomunano sono A) realizzare una decrescita demografica per raggiungere un migliore equilibrio ecologico (e se fosse solo questo, saremmo “solo” dalle parti delle decrescite più o meno felici tanto in voga in questi antistrategici tempi) e B) una inarrestabile tendenza in tutte queste comunità utopiche a modificare il patrimonio genetico umano sia per combattere la tendenza dell’uomo a generare figli attraverso i quali possa rispecchiarsi, pulsione che, generando tendenzialmente un aumento del numero degli umani, implica una inevitabile aggressività della costituenda famiglia verso le altre famiglie e verso l’ambiente sociale ed ecologico perché ogni famiglia vede progressivamente ridotto lo spazio della propria nicchia ecologica di sopravvivenza (nella vecchia geopolitica ed anche nel Repubblicanesimo Geopolitico invece che ‘nicchia ecologica’ si impiega il termine di ‘Lebensraum’, ma mentre per il Repubblicanesimo Geopolitico il Lebensraum va inteso dialetticamente, qui anche la Haraway, anche se si guarda bene di impiegare e il termine Lebensraum ed anche di esprimere chiaramente il suo concetto, è protesa verso la Gestalt di questo concetto, solo che, disgraziatamente, si tratta di uno spazio vitale inteso nella maniera meno dialettica possibile, insomma di un Lebensraum in versione nazista, il quale, per i suoi scopi politici imperialisti e per fare, quindi, del Lebensraum un concetto di pronto e facile uso per giustificare la conquista e la colonizzazione tedesca dell’Europa orientale e dell’Unione Sovietica, aveva accuratamente epurato gli elementi dialettici che pur esistevano nell’originario concetto: la differenza della Haraway con il nazismo è che il suo spazio vitale è uno spazio che anziché allargarsi deve restringersi favorendo l’allargarsi dello spazio vitale di altre specie, ma nel nazismo come nella Haraway il “gioco” dello spazio vitale è sempre a somma zero, insomma un Lebensraum totalmente antidialettico e a questo punto poco importano le intenzioni “politicamente corrette” espresse dall’autrice; e facciamo anche notare che, come il nazismo, anche l’Haraway è fautrice dell’eugenetica. Certo non per selezionare una razza umana superiore ma per realizzarne una non più umana, frutto della ricombinazione genetica con altre specie – per realizzare, cioè, il primo simbionte mezzo uomo e mezzo altra specie – allo scopo di raggiungere un miglior equilibrio ecologico sulla Terra: certamente un sorprendente riapparire di vecchie, deliranti e catastrofiche idee e senza ulteriori commenti: «le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni » e di inediti – e perniciosi – ritorni…) ed anche perché – e questo l’autrice non lo dice espressamente ma lo si legge fra le righe – il generare figli a propria immagine e somiglianza è un sentimento egoistico che già di per sé è antitetico con il telos di queste comunità di entrare in rapporto simbiotico con tutte le altre specie viventi, un rapporto simbiotico che concretamente si realizza con l’assunzione da parte di ogni nuovo nascituro di parte del materiale genetico di una particolare specie non umana a rischio più o meno di estinzione, in una abdicazione, quindi, delle caratteristiche genotipico-fenotipiche della specie umana che confligge sia con l’istinto espresso dal biblico “crescete e moltiplicatevi” sia con l’egoistica pulsione a vedersi rispecchiati nei propri figli («make kin not babies», cioè non fate figli ma diventate parenti con altre specie, è la frase mantra che percorre tutto il Staying with the Trouble e The Camille Stories ne è la sintesi perfetta che esprime questa esortazione in forma di racconto fantascientifico. Per il Repubblicanesimo Geopoliltico, invece, la procreazione è sì un atto di strategia biologica – quindi, se vogliamo, anche “egoistico” – ma è anche un decisivo passaggio perché la natura linguistico-politica dell’uomo possa concretamente continuare e generare nel tempo la sua dialettica prassistica. Pensiamo sia inutile aggiungere altre nostre osservazioni in merito a questa esortazione della Haraway). Per riassumere e concludere. Nel racconto fantascientico The Camille Stories: Children of Compost (significativo, fra l’altro, di una fortissima tendenza antistrategica e quindi antiumanista il sottotitolo del racconto, Children of Compost, bimbi, cioè, del fertilizzante naturale e la Haraway gioca evidentemente con l’ambivalenza semantica del termine che può essere inteso anche come ‘letame’), le cinque Camille che si succedono in un arco plurisecolare assumono progressivamente generazione dopo generazione sempre più le sembianze morfologiche della farfalla monarca con cui devono entrare in stretta simbiosi: in estrema sintesi questa è la trama del racconto fantascientifico delle storie delle varie cinque Camille ma sarebbe veramente ingenuo liquidare il tutto come un semplice esercizio di narrativa fantascientifica, in cui le immaginifiche suggestioni di un’umanità geneticamente modificata non è altro che un espediente per rinnovare dal punto di vista meramente letterario il genere fantascientifico rimpiazzando le vecchie fantasmagorie fantascientifiche modello Asimov dove è l’automa, il robot, ad essere il protagonista del racconto e il generatore delle fantasmagorie, sostituito ora in questo ruolo dal simbionte mezzo uomo e mezzo altra specie. In realtà, come la stessa Haraway espressamente ci dice, il racconto è un racconto utopico, il racconto indica cioè il desiderio di uno stato futuro dell’umanità dove magari i dettagli del racconto sono sì frutto di fantasia ma il telos dello stesso indica la direzione che l’umanità deve intraprendere per il suo bene e per il bene di tutti i viventi (e cioè, per essere chiari: decrescita demografica, modificazioni genetiche per porre riparo alla eccessiva aggressività della specie umana al suo interno e verso le altre specie animali e vegetali, diminuzione dell’aggressività umana da raggiungersi anche attraverso l’annullamento delle differenze di genere), il tutto, per concludere, espresso in un fiammeggiante stile fantasmagorico che ci fa affermare con Gestalt marxiana e contenuto dialettico da Repubblicanesimo Geopolitico che nella ultima Haraway il feticcio di un corpo umano in cui tutte le magìe sono possibili (ricordate il tavolo di Marx che «si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.») altro non è che il segno del nascondimento ed occultamento dei rapporti dialettico-espressivi-strategici-conflittuali che creano, animano e generano ex nihilo ed ex suo la società (che generano, cioè, in un prassistico vicendevole rapporto dialettico sia l’uomo che la società in cui questo si trova ad agire). In ultima analisi, anche se la prima Haraway aveva assunto come utopico modello il cyborg mezzo uomo e mezza macchina e ora invece il modello da imitare è l’uomo che rinuncia ai suoi tratti evolutivi caratterizzanti ma si fa simbionte con specie che hanno avuto una distinta evoluzione e si riduce quindi a mezzo uomo e mezzo animale (o mezzo vegetale, se si preferisce tutelare tramite simbiosi queste forme di viventi), siamo sempre in presenza di un messaggio feticcio che espelle e nullifica i pur interessanti vagiti dialettici presenti nell’autrice, ma spunti dialettici soffocati nell’Haraway – come, del resto, in tutta la tradizione filosofica occidentale, e in questo soffocamento, certamente subìto ma nondimeno attuato, l’Haraway non è rivoluzionaria come pretenderebbe, anzi è perfettamente conformista – che solo sviluppando la teoria dello zoòn politikòn e dello zoòn lògon èchon possono dare attuazione e sviluppo ad una compiuta ed adeguata prassi dialettica espressiva-strategica-conflittuale. Noi chiamiamo questa attuazione ‘Epifania strategica’, che è sì anch’essa un’utopia ma un’utopia non basata su una feticistica e fantasmagorica rimozione sulla natura linguistico-politica dell’uomo ma sul tentativo di un suo prassistico e dialettico pubblico inveramento. E, da questo punto di vista, anche i mostri cyborghiani e/o i similumani simbionti della Haraway che proprio attraverso le loro fantasmagoriche e feticistiche rappresentazioni sono i segnalatori di una mal repressa e dolente dialettica non solo ci indicano, per una sorta di effetto perverso certamente non voluto dall’autrice, una via che l’umanità non deve seguire (per essere chiari: una antiprassistica eugenetica di marca nazista, con la differenza che nell’eugenetica nazista si vuole realizzare il superuomo ariano alto, biondo e dolicocefalo mentre l’Haraway vuole realizzare il supersimbionte mezzo uomo e mezzo animale o vegetale con caratteristiche genotipico-fenotipiche prese a prestito dalla specie con cui il futuro nascituro dovrà stabilire uno strettissimo legame empatico e simbiotico, vedi ancora il racconto delle cinque Camille, con le Camille che generazione dopo generazione assumono in misura sempre crescente caratteristiche fisiche ed apparati della farfalla Monarca, la specie con cui all’inizio di questa particolare stirpe simbiotica è stato deciso che le varie Camille devono entrare in rapporto simbiotico) ma anche – e qui ritorniamo all’avvertenza da noi più volta espressa in questo lavoro – che il Repubblicanesimo Geopolitico rispetto agli avanzamenti tecnologici della genetica e della biologia e, più in generale, di tutte le scienze, deve attenersi alla massima ‘amicus Plato sed magis amica veritas’, il che tradotto nella nostra Weltanschauung gnoseologico-epistemologica significa che il Repubblicanesimo Geopolitico accoglie con favore tutte le conoscenze e possibilità offertaci dalle scienze induttive o deduttive che siano ma non sposa di queste alcun esito in particolare – sia questo di natura prettamente tecnica o di più vasta portata culturale –limitandosi ad utilizzarlo nell’ambito del suo schema storicistico olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale. La Haraway ha fatto esattamente il contrario facendo divenire valore tutte le possibilità che ci offrono le scienze biologiche e genetiche e non curandosi affatto quando queste vanno in senso umanamente antiprassistico e realizzando questa sua mancata dialettizzazione di queste scienze attraverso il velo dei suoi feticistici e fantasmagorici simboli, il cyborg ed il simbionte. Ed è proprio per questo suo chiaro errore, una sorta di rimozione freudiana della vera dialettica dove il tavolo cyborg e simbionte «si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare», che l’Haraway ci indica attraverso la sua negazione la strada da seguire e dobbiamo quindi esserle grati.
11 «Mixotricha paradoxa is everyone’s favorite critter for explaining complex “individuality,” symbiogenesis, and symbiosis. Margulis described this critter that is/are made up of at least five different taxonomic kinds of cells with their genomes this way: «Under low magnification, M. paradoxa looks like a single-celled swimming ciliate. With the electron microscope, however, it is seen to consist of five distinct kinds of creatures. Externally, it is most obviously the kind of one-celled organism that is classified as a protist. But in side each nucleated cell, where one would expect to find mitochondria, are many spherical bacteria. On the surface, where cilia should be, are some 250,000 hairlike Treponema spirochetes (resembling the type that causes syphilis), as well as a contingent of large rod bacteria that is also 250,000 strong. In addition, we have redescribed 200 spirochetes of a larger type and named them Canaleparolina darwiniensis.8 [esponente di nota 8 a p. 62 di Donna Jeanne Haraway, Staying with the Trouble, cit., testo della nota p. 190: «Margulis and Sagan, “The Beast with Five Genomes.”». Notazione bibliografica incompleta. Completa: Lynn Margulis, Dorion Sagan, The beast with five genomes, in “Natural History Magazine”, giugno 2001, pp. 38-41. Abbiamo recuperato l’articolo presso http://www.naturalhistorymag.com/htmlsite/master.html?http://www.naturalhistorymag.com/htmlsite/0601/0601_feature.html e vista l’impossibilità della Wayback Machine di congelare l’URL, dopo download dall’URL stesso abbiamo caricato il testo dell’articolo presso Internet Archive agli URL https://archive.org/details/lynnmargulisdorionsaganthebeastwithfivegenomes/mode/2up e https://ia902800.us.archive.org/34/items/lynnmargulisdorionsaganthebeastwithfivegenomes/Lynn%20Margulis%2C%20Dorion%20Sagan%2C%20%20The%20beast%20with%20five%20genomes.pdf, vedi infra rassegna bibliografica internettiana finale] Leaving out viruses, each M. paradoxa is not one, not five, not several hundred thousand, but a poster critter for holobionts. This holobiont lives in the gut of an Australian termite, Mastotermes darwiniensis, which has its own sf stories to tell about ones and manys, or holoents. Termite symbioses, including their doings with people, not to mention mushrooms, are the stuff of legends – and cuisine. Check out the holobiomes of Macrotermes natalensis and its cultivated fungus Termitomyces, recently in the science news.9» [esponente di nota 9 p. 62, testo della nota p. 190: «Poulsen et al., “Complementary Symbiont Contributions to Plant Decomposition in a Fungus Farming Termite.” On these termite-bacterial-fungal symbioses, see the superb science writer Yong, “The Guts That Scrape the Skies.”»] M. paradoxa and their ilk have been my companions in writing and thinking for decades. Since Darwin’s On the Origin of Species in 1859, biological evolutionary theory has become more and more essential to our ability to think, feel, and act well; and the interlinked Darwinian sciences that came together roughly between the 1930s and 1950s into “the Modern Synthesis” or “New Synthesis” remain astonishing. How could one be a serious person and not honor such works as Theodosius Dobzhansky’s Genetics and the Origin of Species (1937), Ernst Mayr’s Systematics and the Origin of Species (1942), George Gaylord Simpson’s Tempo and Mode in Evolution (1944), and even Richard Dawkins’s later sociobiological formulations within the Modern Synthesis, The Selfish Gene (1976)? However, bounded units (code fragments, genes, cells, organisms, populations, species, ecosystems) and relations described mathematically in competition equations are virtually the only actors and story formats of the Modern Synthesis. Evolutionary momentum, always verging on modernist notions of progress, is a constant theme, although teleology in the strict sense is not. Even as these sciences lay the groundwork for scientific conceptualization of the Anthropocene, they are undone in the very thinking of Anthropocene systems that require enfolded autopoietic and sympoietic analysis. Rooted in units and relations, especially competitive relations, the sciences of the Modern Synthesis, for example, population genetics, have a hard time with four key biological domains: embryology and development, symbiosis and collaborative entanglements of holobionts and holobiomes, the vast worldings of microbes, and exuberant critter biobehavioral inter- and intra-actions.10 [esponente di nota 10 p. 63, testo della nota p. 190: «For a closely argued analysis of the dead ends of competition/cooperation binaries and the relentless assumption that explanation in the last instance in biology must be competitive and individualistic, as well as for a fleshed-out description of more adequate explanatory practices, which are more and more in play among venturesome evolutionary, ecological, and behavioral biologists, see van Dooren and Despret, “Evolution.”»] Approaches tuned to “multispecies becoming-with” better sustain us in staying with the trouble on terra. An emerging “New New Synthesis” – an extended synthesis – in transdisciplinary biologies and arts proposes string figures tying together human and nonhuman ecologies, evolution, development, history, affects, performances, technologies, and more. Indebted first to Margulis, I can only sketch a few aspects of the “Extended Evolutionary Synthesis” unfolding in the early twenty-first century.11 [esponente di nota 11 p. 63, testo della nota p. 190: «Gilbert and Epel (Ecological Developmental Biology) document the evidence for what the authors call an “extended evolutionary synthesis,” encompassing the modern synthesis, eco-devo, and eco-evo-devo.»] Forming part of her cosmopolitan heritage, formulations of symbiogenesis predate Margulis in the early twentieth-century work of the Russian Konstantin Mereschkowsky and others.12 [esponente di nota 12 p. 63, testo della nota p. 190: «Mereschkowsky, “Theorie der zwei Plasmaarten als Grundlage der Symbiogenesis.”See also Anonymous, “History.”»] However, Margulis, her successors, and her colleagues bring together symbiogenetic imaginations and materialities with all of the powerful cyborg tools of the late twentieth-century molecular and ultrastructural biological revolutions, including electron microscopes, nucleic acid sequencers, immunoassay techniques, immense and comparative genomic and proteomic databases, and more. The strength of the Extended Synthesis is precisely in the intellectual, cultural, and technical convergence that makes it possible to develop new model systems, concrete experimental practices, research collaborations, and both verbal and mathematical explanatory instruments. Such a convergence was materially impossible before the 1970s and after. A model is a work object; a model is not the same kind of thing as a metaphor or analogy. A model is worked, and it does work. A model is like a miniature cosmos, in which a biologically curious Alice in Wonderland can have tea with the Red Queen and ask how this world works, even as she is worked by the complex-enough, simple-enough world. Models in biological research are stabilized systems that can be shared among colleagues to investigate questions experimentally and theoretically. Traditionally, biology has had a small set of hard-working living models, each shaped in knots and layers of practice to be apt for some kinds of questions and not others. Listing seven basic model systems of developmental biology (namely, fruit flies Drosophila melanogaster; a nematode, Caenorhabditis elegans; the mouse Musmusculis; a frog, Xenopus laevis; the zebrafish Danio rerio; the chicken Gallus gallus; and the mustard Arabidopsis thaliana), Scott Gilbert wrote: «The recognition that one’s organism is a model system provides a platform upon which one can apply for funds, and it assures one of a community of like-minded researchers who have identified problems that the community thinks are important. There has been much lobbying for the status of a model system and the fear is that if your organism is not a recognized model, you will be relegated to the backwaters of research. Thus, “model organisms” have become the center for both scientific and political discussions in contemporary developmental biology.13» [esponente di nota 13 p. 64, testo della nota p. 190: «Gilbert, “The Adequacy of Model Systems for Evo-Devo,” 57. See Black, Models and Metaphors; Frigg and Hartman, “Models in Science”; Haraway, Crystals, Fabrics, and Fields.»] Excellent for studying how parts (genes, cells, tissues, etc.) of well-defined entities fit together into cooperating and/or competing units, all seven of these individuated systems fail the researcher studying webbed inter- and intra-actions of symbiosis and sympoiesis, in heterogeneous temporalities and spatialities. Holobionts require models tuned to an expandable number of quasi-collective/quasi-individual partners in constitutive relatings; these relationalities are the objects of study. The partners do not precede the relatings. Such models are emerging for the transformative processes of EcologicalEvolutionaryDevelopmental biology. Margulis gave us dynamic multipartnered entities like Mixotricha paradoxa to study the evolutionary invention of complex cells from the intra- and interactions of bacteria and archaea. I will briefly introduce two more models, each proposed and elaborated in the laboratory to study a transformation of organizational patterning in the living world: (1) a choanoflagellate-bacteria model for the invention of animal multicellularity, and (2) a squid-bacteria model for the elaboration of developmental symbioses between and among critters necessary to each other’s becoming. A third symbiogenetic model for the formation of complex ecosystems immediately suggests itself in the holobiomes of coral reefs, and I will approach this model through science art worldings rather than the experimental laboratory. Although multicellular plants appeared on earth half a million years earlier, because of its robustness and sympoietic richness, I focus on a proposed model system for the emergence of animal multicellularity. Every living thing has emerged and persevered (or not) bathed and swaddled in bacteria and archaea. Truly nothing is sterile; and that reality is a terrific danger, basic fact of life, and critter-making opportunity. Using molecular and comparative genomic approaches and proposing infectious – symbiogenetic – processes, Nicole King’s laboratory at the University of California, Berkeley, works to reconstruct possible origins and development of animal multicellularity.14 [esponente di nota 14 p. 65, testo della nota p. 190: «“King Lab: Choanoflagellates and the Origin of Animals.”»] These scientists show that interspecies – really, interkingdom – meetings and enfoldings can produce entities that hold together, develop, communicate, and form layered tissues like animals do. As Alegado and King put it: «Comparisons among modern animals and their closest living relatives, the choanoflagellates, suggest that the first animals used flagellated collar cells to capture bacterial prey. The cell biology of prey capture, such as cell adhesion between predator and prey, involves mechanisms that may have been co-opted to mediate intercellular interactions during the evolution of animal multicellularity. Moreover, a history of bacterivory may have influenced the evolution of animal genomes by driving the evolution of genetic pathways for immunity and facilitating lateral gene transfer. Understanding the interactions between bacteria and the progenitors of animals may help to explain the myriad ways in which bacteria shape the biology of modern animals, including ourselves.15» [esponente di nota 15 p. 65, testo della nota p. 190: «Alegado and King, “Bacterial Influences on Animal Origins.”»] In Marilyn Strathern’s sense, partial connections abound. Getting hungry, eating, and partially digesting, partially assimilating, and partially transforming: these are the actions of companion species. King’s ambitious program is crafting a stabilized and genomically well-characterized model system of cultures of choanoflagellates (Salpingoeca rosetta) and bacteria from the genus Algoriphagus to investigate critical aspects of the formation of multicellular animals. Choanoflagellates can live as either single cells or multicellular colonies; what determines the transitions? The close evolutionary relationship between choanoflagellates and animals lends strength to the model.16 [esponente di nota 16 p. 65, testo della nota p. 190: «Choanoflagellates and their bacterial associates make an attractive model partly because sponges, long held to be the “most primitive” critters most closely related to animals, have choanoflagellate-like cells in their bodies that do things like capture their prey (bacteria and detritus). However, recent work argues that ctenophores (comb jellies) are genetically more closely related to animals than sponges are. Halanych, “The Ctenophore Lineage Is Older Than Sponges?” See Ed Yong’s beautifully written science news story “Consider the Sponge.” I do not know of any work exploring ctenophore-bacteria interactions, although, managing infections and responding to biofilm formations, ctenophores are tuned to bacteria and archaea, as are we all. In any case, phylogenetic relationships are not the only criteria of a good model. Up to 60 percent of the biomass of sponges is microbes. See Hill, Lopez, and Harriott, “Sponge-Specific Bacterial Symbionts in the Caribbean Sponge.” What a gold mine for the study of holobionts! No wonder Nicole King started looking into all those attachment sites and signaling activities that might tie choanoflagellate-like cells in sponges to her free-living choanoflagellates, their eating, their infections, and their rosette clumping habits. If anything is, eating – not fundamentalist neo-Darwinian selfishness – is “evolutionary explanation in the last instance”; and eating is definitely both infectious and social! Biologically, eating trumps sex for innovative power; and eating is what made sex possible in the first place.»] The symbiogenetic theory of origins of multicellularity is contested; there are attractive alternate explanations. What distinguishes King’s lab is its production of a model system that is experimentally tractable, transferable in principle to other sites, and generative of testable questions at the heart of being animal. To be animal is to become-with bacteria (and, no doubt, viruses and many other sorts of critters; a basic aspect of sympoiesis is its expandable set of players). No wonder the best science writers bring Nicole King’s lab into my dinner conversations on a regular basis.17 [esponente di nota 17 p. 65, testo della nota p. 190: «McGowan, “Where Animals Come From”; Yong, “Bacteria Transform the Closest Living Relatives of Animals from Single Cells into Colonies.”»]»: Donna Jeanne Haraway, Staying with the Trouble, cit., pp. 61-65. Iniziamo la nostra glossa a questo passo dell’Haraway con una semplice precisazione bibliografica. Nel testo rinviato dall’esponente di nota 8 di pagina 62 di Staying with the Trouble si legge «Margulis and Sagan, “The Beast with Five Genomes”». Come è di tutta evidenza, si tratta di una citazione bibliografica incompleta che noi abbiamo voluto integrare nel testo harawayno rinviato dall’esponente di nota 8 con la notazione bibliografica completa e non contenti di questo abbiamo pure scovato nella Rete l’articolo e così abbiamo pure intrapreso, come si vede accanto alla notazione completa della Beast with Five Genomes, il solito compito di “congelamento” internettiano del documento. Tutto questo non è dettato dalla volontà, come speriamo ci concedano i lettori, di mettere in atto un eccessivamente acribico e pedante “fare le pulci” alla scarsa precisione bibliografica della Haraway – abbiamo già illustrato i suoi meriti e i suoi demeriti e qualora fosse stata questa la nostra intenzione al lettore verrebbe veramente la tentazione di non concederci più alcun credito e di trasformare ipso facto i suoi demeriti in meriti o, ancor peggio, di mettere nello stesso sacco, una volta trotzkianamente si sarebbe detto nella pattumiera della storia, i suoi fantasmagorici e feticistici demeriti con i così ritrovati demeriti della dialettica, della filosofia della prassi e dello zoòn lògon èchon – ma ciò è stato fatto per due motivi. Il primo è perché se The Beast with Five Genomes di Margulis e Sagan non fu il primo articolo scientifico a parlare del Mixotricha paradoxa, fu il primo articolo ad affrontare il problema di questo protozoo – organismo veramente singolare perché al suo interno vi sono, come sottolinea il titolo dell’articolo, ben cinque distinti genomi – nell’ambito della teoria dell’olobionte, nell’ambito cioè della teoria elaborata da Margulis che gli organismi pluricellulari, uomo compreso, hanno avuto origine dalla costituzione di colonie di diversi e separati organismi, un unirsi che prima ha generato, appunto, colonie di organismi in rapporto inizialmente solo simbiotico e poi ha costituito veri e propri organismi unitari ma che, nella loro pluricellularità, ricordano il loro iniziale costituirsi in colonie di organismi originariamente distinti. E, dal nostro punto di vista, sebbene sempre sensibili al monito di amicus Plato sed magis amica veritas, quanto la teoria endosimbiotica e la teoria olobiontica (teoria che prese lo spunto dalla teoria endosimbiontica elaborata agli inizi degli anni Sessanta sempre dalla Margulis e che ipotizza che che il genoma degli attuali organismi, uomo compreso, si sia costituito anche attraverso lo scambio di pezzi di genoma reso possibile dai rapporti simbiotici che questi organismi hanno stabilito con organismi passati e anche con quelli che attualmente vivono accanto a loro o all’interno del loro stesso organismo: per tutto questo cfr. rassegna bibliografica internettiana del presente documento), siano importanti, come pars destruens, per picconare una mentalità creazionistica ex nihilo e, come pars construens, per accompagnarci verso una Weltanschauung dialettico-espressiva-strategica-conflittuale non ci soffermeremo oltre avendo fin qui abbondantemente argomentato su questo punto. Il secondo motivo per cui abbiamo voluto mostrare la notazione bibliografica completa dell’articolo di Sagan e Margulis sulla Beast with five Genomes (cioè sul Mixotricha paradoxa, che è un protozoo che vive all’interno dell’intestino della termite australiana Mastotermes darwiniensis e che è costituito dall’unione di cinque differenti organismi e che, quindi, contiene ben cinque genomi), ma, soprattutto, dare la possibilità, tramite il rimando all’URL attraverso il quale abbiamo preso visione del testo dell’articolo e poi attraverso il “congelamento” su Internet Archive del documento stesso, è stato quello di invitare i nostri lettori ad un confronto stilistico fra Harway e Margulis, dove la prima si avventura nell’inferno fantasmagorico-feticistico di una mancata dialettica mentre la seconda, pur nell’estrema eterodossia delle sue tesi (eterodossia ai tempi che furono formulate, perché oggi vengono riconosciute come capisaldi teorici della biologia e della genetica), si mantiene sempre lungo una linea argomentativa strettamente legata allo schema induzione-ipotesi e possibilità di verifica empirica dell’ipotesi stessa. (l’ipotesi Gaia è l’ulteriore prova che Margulis sempre evitò fantasmagorie à la Haraway e, piuttosto, il suo percorso scientifico fu sempre all’insegna di una forte connotazione dialettica. Questa ipotesi, formulata inizialmente da James Lovelock, sostiene, per farla breve, che la Terra non è il contenitore della vita ma un macrorganismo, cioè che non solo le sue condizioni fisico-chimiche permettono l’esistenza della vita ma che il pianeta stesso è un organismo vivente. Margulis collaborò inizialmente con lo stesso Lovelock nel dare una base scientifico-induttiva a questa ipotesi e poi, proprio per questo suo approccio, gradualmente si allontanò da questa originaria versione “dura” dell’ipotesi Gaia per elaborarne una in cui veniva posto l’accento sulla coevoluzione ed interazione dinamica fra i processi biologici e quelli più propriamente geologici del pianeta Terra. Ovviamente, per tutto quanto detto finora, mentre rifiutiamo la fantasmagoria della “dura” Gaia, sempre con l’avvertenza amicus Plato sed magis amica veritas, troviamo molta buona dialettica nella versione à la Margulis di Gaia e per chi voglia approfondire l’ipotesi Gaia rimandiamo per un primo approccio alla questione a https://courses.seas.harvard.edu/climate/eli/Courses/EPS281r/Sources/Gaia/Gaia-hypothesis-wikipedia.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200311082455/https://courses.seas.harvard.edu/climate/eli/Courses/EPS281r/Sources/Gaia/Gaia-hypothesis-wikipedia.pdf). Al nostro paragone fra Margulis ed Haraway si potrebbe replicare che il mestiere che faceva la Margulis (è venuta a mancare il 22 novembre 2011) e quello che tuttora svolge la Haraway non è lo stesso, una era infatti una biologa genetista mentre la seconda è una sorta di divulgatrice scientifica con pretese di rendere filosofica questa sua divulgazione, ma il punto non è questo e questo punto ci consente, per l’ennesima volta, di sottolineare la differenza fra la vera dialettica, che è necessariamente deduttiva, e un approccio, come quello della Haraway, che pur non riuscendo a procedere per via induttiva, non può certo dirsi deduttivo ma semplicemente feticistico-fantasmagorico (o se vogliamo, sintomo di una dialettica catastroficamente abortita, allo stesso modo, con analogia ai nostri occhi veramente significativa, del discorso religioso nella sua concreta attuazione dogmatico-cultuale, dietro il quale, è di tutta evidenza, si cela una mal espressa Weltanschauung riferentesi ad una totalità espressiva, ma dove, nel concreto, questa totalità espressiva viene attuata e creduta non attraverso un approccio dialettico ma attraverso ingenue e mitologiche forme antropomorfe divinizzate). Ora, se la dialettica non può che riferirsi ad una totalità espressiva che, appunto, attraverso vari e differenziati passaggi dialettici si autogenera ex nihilo ed ex suo, questi momenti dialettici non sono, dal punto di vista della filosofia della prassi, individuabili tramite feticistici e fantasmagorici voli pindarici ma, principalmente, devono essere previamente empiricamente ed induttivamente individuati. E ciò è tanto più vero per il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, che è paradigma prassistico-conoscitivo-deduttivo che si poggia ed agisce su una storicità prevalentemente conosciuta in prima battuta induttivamente e che poi su questa compie quindi una selezione a priori dei fatti ritenuti significativi per la sua teoria e per la sua prassi ma che su questi momenti deduttivamente discriminati e poi ricombinati dialetticamente in più vasti ambiti prassistico-conoscitivi non compie assolutamente alcuna azione feticistico-fantasmagorica di invenzione-affabulazione come invece compie la Haraway ma, con spirito si spera di grande umiltà e produttività, compie una prima cernita alla luce della sua impostazione dialettico-deduttiva per poi cercare di connetterli sempre attraverso il suo approccio deduttivo informato alla superiore totalità esprimentesi e autogeneratasi ex nihilo ed ex suo secondo la modalità olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale. (Ma bisogna sottolineare che la nostra deduzione non solo compie una cernita sui dati raccolti induttivamente ed anche li fonde facendone nascere così alcuni inediti ma, infine, ne crea anche altri ex nihilo ed ex suo, senza cioè passare attraverso la previa fase di cernita e/o di ricombinazione dei dati affiorati dal momento induttivo: l’importante che cernita, ricombinazione od anche creazione ex nihilo ed ex suo che sia rimanga, in ultima istanza, non solo sempre all’interno di un realistico paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale ma anche costituisca un momento dialettico per la sua autogenerazione ex nihilo ed ex suo e quindi perchè, proprio sulla base di questo immanentistico realismo empirico ma non empiricistico in quanto deduttitivamente basato sulla sua Weltanschauung dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, non si perda in vuote fantasmagorie: insomma, per essere chiari, la “scienza” deduttiva del Repubblicanesimo Geopolitico pur non pretendendo di dettare la linea sulle direttrici di ricerca e/o sui risultati da conseguire dalle scienze induttivo-empiriche ed anzi avvalendosi dei risultati da queste ottenuti, si assume la prerogativa di fornire un giudizio sul significato dialettico di queste e dei loro risultati e facciamo per ultimo notare che è solo attraverso l’impiego di questa “scienza” – sia questo impiego pienamente dispiegato come nel Repubblicanesimo Geopolitico o meno consapevole come nelle impostazioni di pensiero realista e prassistico che l’hanno preceduto e da cui prende lo spunto – che può essere messo in luce ciò che è autenticamente e genuinamente induttivo nelle scienze empiriche da ciò che deriva da una mal espressa, dolente e malata dialettica e/o da una ideologica negazione della stessa: il primo caso quello della Haraway, il secondo, per es., quello del positivismo, del neopositivismo, e, in campo politico, quello delle concrete pratiche cultuali-teologiche e di tutte le ideologie totalitarie, liberalismo compreso, tutti fenomeni, comunque, teologico-politici accomunati, non a caso, da feticistiche e fantasmagoriche narrazioni.). Insomma, a proposito dell’Haraway, siamo sempre dalle parti del “cattivo infinito” denunciato da Hegel dove i vari snodi significativi concepiti dall’autrice (a volte empiricamente veramente interessanti, altre volte veri e propri miraggi Fata Morgana, dove l’immagine è data dalla composizione di elementi realistici ma il cui accostamento non rappresenta la realtà empiricamente ed induttivamente accertabile e nemmeno la possibilità di un suo futuro sviluppo in via autonomamente dialettica) non riescono mai a restituirci né una immagine della totalità cui questi fenomeni si riferiscono né un loro verosimile movimento dialettico che possa generare questa totalità ma sono incessantemente e caoticamente sovrapposti all’infinito al solo scopo di suggerirci che, in virtù dei progressi della cibernetica, delle scienze naturali e/o dell’ingegneria genetica, tutti i nostri desideri non solo sono possibili ma anche, solo per il fatto che questa possibilità ci è ormai data, anche desiderabili. Ma così facendo, avendo cioè un’idea dell’infinito solamente additiva e non produttiva, questi desideri risultano, alla fine, assolutamente non fondati e privi di qualsiasi dinamica dialettica, sono cioè, anche espressione di una dialettica che vorrebbe superare l’esistente ma un esistente che, alla fine, risulterà sempre vincente sull’espressione del desiderio perché questi sono momenti senza nessun reale legame organico con l’infinito, cioè con la totalità espressa dialetticamente, col risultato finale, quindi, di una produzione di fantasmagoriche e feticistiche immagini o, se vogliamo, di una dialettica abortita prima ancora di nascere. Del resto, oltre alle a volte anche interessanti “Fate Morgane” sparse a piene mani nel passo appena citato della Haraway e veramente rappresentative di tutte le “Fate Morgane” di tutta la produzione dell’Haraway (a p. 63 considerazioni non banali su «An emerging “New New Synthesis” – an extended synthesis – in transdisciplinary biologies and arts proposes string figures tying together human and nonhuman ecologies, evolution, development, history, affects, performances, technologies, and more.» che possono essere propedeutiche ad abbattere la falsa barriera ontologica che la nostra cultura occidentale ha eretto fra uomo e mondo vivente non umano – e, quindi, di riflesso, fra mondo naturale e mondo umano culturale-storico – ma senza, però, che l’autrice riesca ad approdare ad un sia pur minimo schema dialettico; a p. 65 la visione-proposta di un’evoluzione degli organismi attraverso endosimbiosi e/o meccanismi olobiontici ma, dal nostro punto di vista, sempre con la medesima inanità dialettica e stessi rilievi alle pp. 61-62, 64 riguardo il Mixotricha paradoxa; ma a p. 63 rispunta il cyborg: «symbiogenetic imaginations and materialities with all of the powerful cyborg tools of the late twentieth-century molecular and ultrastructural», con, come si vede, tutto il corredo delle sue fantasmagorie feticistiche), che esista un autentico conto mai regolato con la dialettica ne abbiamo la più patente dimostrazione a p. 62 dove viene nominato – non in termini puramente negativi, fra l’altro – il sociobiologo Richard Dawkins, che può essere considerato uno dei più fieri avversari ad una qualsiasi visione dialettica della realtà e, in particolare, della biologia, e al cospetto del quale non faccia da contraltare in tutto il Staying with the Trouble alcuna menzione del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin. Siamo però forse in presenza di una sorta di svista oppure, sempre sul solco di un giudizio assolutorio, si è trattato di una non menzione per non incorrere in una banalità, simile a quella, mettiamo, di un moderno saggio storico che trattando della crisi della Roma repubblicana non si perita di non citare le fonti che ci parlano della nascita di Giulio Cesare perché ciò è un fatto accertato al di là di ogni dubbio e dove rispetto all’argomento trattato, la crisi della Roma repubblicana appunto, citare le fonti di primo o secondo grado sulla nascita di Cesare non sarebbe altro che un appesantimento erudito? No, non è assolutamente così e non lo è perché se andiamo ad esaminare tutta la produzione della Haraway che ad oggi copre più di un trentennio, il Dialectical Biologist non viene citato nemmeno una volta. Non viene citato nel Cyborg Manifesto dell’ ’85 ma qui si potrebbe ben dire che visto lo stesso anno di pubblicazione, anche la prima edizione del Dialectical Biologist è dell’ ’85, la Haraway non ne fosse venuta a conoscenza, ma non cita il Dialectcal Biologist nemmeno nelle successive edizioni del Cyborg Manifesto, quando il Dialectical Biologist era divenuto universalmente noto e nemmeno in tutti gli altri lavori che si sono succeduti dall’ ’85 in poi, omissione mantenuta fino a giungere allo Staying with the Trouble del 2016. (Ma si può anche aggiungere che fra le altre già rilevate criticità, il Cyborg Manifesto, purtroppo, stenta moltissimo ad affrancarsi dall’influsso della sociobiologia: «Biological-determinist ideology is only one position opened up in scientific culture for arguing the meanings of human animality. There is much room for radical political people to contest for the meanings of the breached boundary.1 The cyborg appears in myth precisely where the boundary between human and animal is transgressed. Far from signaling a walling off of people from other living beings, cyborgs signal disturbingly and pleasurably tight coupling. Bestiality has a new status in this cycle of marriage exchange. [esponente di nota 1 a p. 10 di Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs, cit., (in The Haraway Reader, cit.)., testo della nota 1 a p. 40: «Useful references to left and/or feminist radical science movements and theory and to biological/biotechnological issues include: Ruth Bleier, Science and Gender: A Critique of Biology and Its Themes on Women (New York: Pergamon, 1984); Elizabeth Fee, “Critiques of Modern Science: The Relationship of Feminist and Other Radical Epistemologies,” and Evelyn Hammonds, “Women of Color, Feminism and Science,” papers for Symposium on Feminist Perspectives on Science, University of Wisconsin, 11-12 April, 1985, in Ruth Bleier, ed., Feminist Approaches to Science (New York: Pergamon, 1986); Stephen J. Gould, Mismeasure of Man (New York: Norton, 1981 ); Ruth Hubbard, Mary Sue Henifin, Barbara Fried, eds., Biological Woman, the Convenient Myth (Cambridge, Mass.: Schenkman, 1982); Evelyn Fox Keller, Reflections on Gender and Science (New Haven: Yale University Press, 1985): R. C. Lewontin, Steve Rose, and Leon Kamin, Not in Our Genes (New York: Pantheon, 1984): Radical Science journal, 26 Freegrove Road, London N7 9RQ; Science for the People, 897 Main St., Cambridge, MA 02139. »]»: e da questa nota bibliografica dell’Haraway, oltre ad essere ben più che evidente che più che una ricerca dialettica l’interesse verte sui temi femministi e di genere, notiamo che, in chiusura di nota, viene citato almeno un precursore dialettico del Dialectical Biologist, in diretta polemica con la sociobiologia e avente un autore dello stesso Dialectical Biologist: R. C. Lewontin, Steven Rose, and Leon Kamin, Not in Our Genes, New York, Pantheon, 1984, del quale noi, vista la sua importanza di precursore dialettico del Dialectical Biologist forniamo prima l’URL da dove può essere scaricato: https://it.scribd.com/document/383665958/Not-in-Our-Genes-Richard-Lewontin-Steven-Rose-Leon-Kamin, e poi anche gli URL del nostro ricaricamento su Internet Archive: https://archive.org/details/r.c.lewontinstevenroseleonkaminnotinourgenesmassimomorigirepubblicanesimogeopolitico/mode/2up e https://ia903102.us.archive.org/21/items/r.c.lewontinstevenroseleonkaminnotinourgenesmassimomorigirepubblicanesimogeopolitico/R.%20C.%20Lewontin%2C%20Steven%20%20Rose%2C%20Leon%20Kamin%2C%20Not%20in%20Our%20Genes%20%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf). Questa assordante assenza sul Dialectcal Biologist sarebbe del tutto sorprendente in un autore che, dopotutto, è in diretta contestazione della sintesi evoluzionistica moderna e che, nonostante che agli esordi, come abbiamo visto, stenti ad affrancarsi completamente dalla sociobiologia, nel progredire del sua produzione esprime sempre più una Weltanschauung comunque in antitesi a qualsiasi “gene egoista”. Ma fatte salve questioni personali con gli autori del Dialectical Biologist od anche questioni con quest’ultimi attinenti ad una lotta nel mercato accademico e pubblicistico degli autori con posizioni alternative alla sintesi evoluzionistica moderna, questioni di cui, lo confessiamo candidamente, non sappiamo dire assolutamente alcunché di veramente significativo per il semplice fatto che, oltre a non esservi letteratura scientifica al riguardo, chi scrive non ha alcuna esperienza diretta dall’ambiente socio-culturale di riferimento né dell’Haraway né di Levins e Lewontin, basta leggere la fantasmagorica prosa feticistica della produzione della Haraway ed anche alcuni suoi specifici riferimenti sparsi nei suoi testi per capire qual è l’area di riferimento culturale dell’Haraway e si tratta, per farla breve, del poststrutturalismo, cioè di quella corrente di pensiero di area francese, poi emigrata con grande fortuna presso il mondo accademico degli Stati uniti, erede di Heidegger e che, da vera e propria erede di Heidegger del filosofo di Meßkirch ha colto, anche se volgarizzandola, l’essenza, cioè la natura antistrategica del suo pensiero, natura antistrategica ed antidialettica che si è innestata con tutti gli onori nella Weltanschauung del poststrutturalismo ed anche in quella di coloro, che pur potenzialmente volendo sviluppare un pensiero strategico e dialettico autonomo, hanno dovuto soccombere alle malie heideggeriano-poststrutturaliste. Per il poststrutturalismo c’è solo il testo (il n’y a pas de hors-texte) per la Haraway, alla fine, c’era solo il cyborg e poi, ora, l’ olobionte e/o il simbionte, che proprio per la loro natura fantasmagoricamente e feticisticamente proteiforme possono sembrare l’incarnazione all’interno dello stesso vivente del derridiano il n’y a pas de hors-texte, ma il cui esito finale, come in Derrida e come in tutti i poststruturalisti, non è altro che una fuga verso un cattivo infinito. Un cattivo infinito realizzato, piuttosto che attraverso metafisici testi collocati nella religione poststrutturalista nel regno dei cieli, attraverso cyborg, simbionti ed olobionti nella Haraway. Ma siamo sempre dalle parti dei feticistici e fantasmagorici tavoli già descritti da Marx.
[Le successive 5 note e la sezione bibliografica verrano pubblicate nelle prossime 2 tranche del presente saggio.]