“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot
In Le Grand Récit , edito dal PUF, Johann Chapoutot analizza i principali discorsi sulla dotazione e sul dare significato, dal provvidenzialismo alla cospirazione. L’abbiamo incontrata per discutere del suo approccio storico, delle domande che può sollevare e di come il suo libro si collega al resto del suo lavoro.
Johann Chapoutot, La grande storia. Introduzione alla storia del nostro tempo , Parigi, PUF, “Hors collection”, 2021, 384 pagine, ISBN 978-2-13-0825 ,URL https://www.puf.com/content/Le_Grand_R%C3%A9cit
Lanciandoti in questo libro, ti sei detto che il tuo approccio storico non è più sufficiente per illuminare il nostro tempo?
Anzi, no, è anche il contrario. Molte persone mi hanno chiesto se mi faccio da parte con questo libro. Ma in realtà ho l’impressione di aver approfondito quello che è il cuore della mia professione, che è l’attenzione al significato della storia negli occhi degli stessi attori. Ci sono modi diversi di fare storia: da parte mia, preferisco un approccio culturalista, internalista e comprensivo a un approccio che sarebbe più esternista e con una pretesa esplicativa.
Mi interrogo sul significato dato agli atti dagli attori e quindi sul discorso della donazione e della dotazione di senso, cioè alla storia. Mi interessano queste forme di discorso che sono trame narrative e ho voluto spiegare, nell’introduzione, nella conclusione e nel capitolo 9, un certo modo di fare la storia. Tutto questo nasce da un suggerimento del mio amico e complice Christian Ingrao che mi ha consigliato di scrivere un articolo su come, con gli altri, faccio la storia.
Riflettendo sul discorso, sulla storia del dare significato, mi sono detto che avrei fatto questo punto metodologico ed epistemologico. Quindi sono al centro di quello che faccio di solito. Molte persone si sono stupite che io parli troppo di filosofia o di discipline umanistiche, ma è sufficiente aprire la mia tesi per rendermi conto che l’ho sempre fatto. Questo è ciò che leggo e ciò che pratico. Per dirla semplicemente, non passo il mio tempo a leggere Himmler. Quello che ho letto nella mia vita è filosofia, saggi, letteratura, sociologia e anche i miei colleghi storici, ai quali cerco di rendere omaggio in questo lavoro.
Ho fatto quello che faccio di solito, spiegandolo. Quello che mi sorprende, però, è il modo in cui viene accolto il mio lavoro. Scrivo questi lavori soprattutto per le mie figlie e per me stessa, per spiegare, mettere un po’ d’ordine, definire e capire almeno il nostro stare al mondo. E infatti è stata mediaticamente e socialmente appropriata perché incontra le domande contemporanee.
Tu affermi che i nazisti sono ” del nostro tempo e del nostro posto”, estendendo qui la riflessione iniziata in Liberi di obbedire . Capisci che questa affermazione può confondere? Inoltre, più che del nostro tempo e del nostro luogo, i nazisti non sono forse il prodotto della civiltà industriale nata nel XIX secolo? Si ha l’impressione che tu ti stia allontanando dal tuo primo lavoro sulla genealogia intellettuale del nazismo e rifletta invece sulla permanenza del nazismo nelle nostre società.
A monte e a valle sono collegati. Il mio oggetto di studio non è il nazismo. È piuttosto il mio campo nel senso di archeologi o antropologi. Il mio obiettivo è piuttosto, andare in fretta, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese. L’industrializzazione e le forme di abbandono sociale di massa indotte dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione e dal disincanto religioso provocarono disincanto nel mondo a cui il nazismo fu una risposta esplicita. Il nazismo ha saputo sedurre, convincere o addirittura entusiasmare perché rispondeva concretamente alle grandi domande sull’essere-nel-mondo di chi si poneva queste domande: cosa sono ? da dove vengo? dove stiamo andando ? È un insieme di domande fondamentali a cui le narrazioni e i discorsi tradizionali non riuscivano più a rispondere.
Ecco perché il nazismo è, di fatto, il nostro tempo e il nostro luogo. Questo è qualcosa su cui insisto perché trattiamo il nazismo, specialmente nei media o pubblicamente, attraverso il prisma dell’aberrazione, dell’eccezione o dell’anomalia. Lo capisco ed è così che ho iniziato a lavorare sull’argomento, come tutti gli altri. Ma quando guardiamo al nazismo, ci rendiamo conto che tutto ciò che viene detto e affermato è molto banale. Ciò che è sognato e pianificato lo è meno. Aggiungiamo che, geograficamente e temporalmente, il nazismo non è la Papua del XIII secolo o l’India del XVII secolo, ma piuttosto l’Europa del XX secolo. Infatti è il nostro tempo e il nostro luogo, e deriva da questa matrice che hai evocato:
Per il downstream è la stessa cosa. Allo stesso modo in cui non c’è una creazione ex nihilo nel 1933, non c’è volatilizzazione dal 1945. I fondamenti della nostra civiltà occidentale per andare rapidamente – estrattivismo, produttivismo e alienazione – che si sono cristallizzati nella seconda metà del XIX secolo in Europa e gli Stati Uniti, non si dissolsero. I fondamenti ci sono, ci sono anche le domande e, infatti, i fenomeni di cui i nazisti erano “esponenti” (mi riferisco qui al termine tedesco Exponent ), vale a dire illustrazioni particolarmente vivide, non si sono dissipati successivamente.
L’idea di considerare un lavoratore come una risorsa, un’idea tipicamente nazista, questa reificazione dell’altro come agente produttivo, è alla base della definizione di “risorse umane” che oggi “gestiamo”. hui. Ecco perché ho proposto queste idee in Free to Obey , che ha ricevuto un eccesso di onore o un eccesso di indegnità. Un eccesso di onore da parte di coloro che sentivano che avevo finalmente dimostrato che la nostra vita quotidiana era nazista, che non è il mio punto. Un’eccessiva indegnità da parte di chi sentiva che stavo ributtando tutto sul nazismo, che stavo facendo una sorta di reductio a hitlerum , quando non lo ero.
Il momento nazista, il fenomeno nazista ci permettono di leggere la nostra modernità ad occhio nudo, come i cromosomi della mosca Drosophila che prediligiamo negli insegnamenti di biologia perché sono così grandi che possiamo guardarli senza strumenti più sofisticati. microscopio.
Nel ” nazificare” il nostro presente, non c’è il rischio, da un lato, di perdere di vista ciò che mostri in parte del tuo lavoro, vale a dire che ci sarebbe una banalità del nazismo, che era prima del 1939 un espressione politica tra le altre risposte alla modernità industriale? E d’altra parte, non rischiamo di perdere di vista ciò che tuttavia costituisce la singolarità storica del nazismo, se si considera la lunga storia dell’estrema destra in Europa?
Ci sono due equivoci. Prima di tutto, non sto “nazificando” il contemporaneo. In Free to Obey , non ho inventato questo generale delle SS vicino a Himmler che divenne papa dirigente e creatore della più grande business school in Germania dopo il 1945. Non ho inventato Reinhard Höhn, esiste, inoltre c’è un buon lavoro su di esso. Da questo caso di studio, ho voluto suggerire un certo numero di linee di pensiero, ad esempio il fatto che mi sono spiegato meglio i conati di vomito che la nozione di “gestione delle risorse umane”. Quando i nazisti parlano di Menschenmaterial, c’è qualcosa come un bagno culturale comune tra l’ufficiale delle SS Reinhard Höhn degli anni ’30 e ’40 che riflette sulla scomparsa dello stato, la proliferazione delle agenzie e l’uso corretto del materiale umano e il Reinhard Höhn del 1956, ex generale delle SS ridiventato professore-dottore e creatore di business school acclamato come “papa del management” per il suo 95esimo compleanno nel 2000. Ancora una volta, non sono io a presentarlo come tale, c’è la Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände (BDA), il sindacato dei datori di lavoro tedesco, il MEDEF tedesco.
Allora dobbiamo vedere cosa intendiamo per nazismo. Dirò una cosa che ho già detto e scritto e che può suscitare una forma di fraintendimento: il nazismo non può essere ridotto alla Shoah, e la Shoah non è solo nazismo.
La Shoah non è solo nazismo perché è un’impresa comune a tutta l’Europa. Tutti ci sono entrati. Dai prefetti francesi ai nazionalisti lituani, passando per gli ustascia croati e gli antisemiti polacchi. Ci sono arrivati su istigazione tedesca, ma i tedeschi stessi – guardate il lavoro di Jan Tomasz Gross – erano inorriditi dai pogrom polacchi che si svolgevano davanti ai loro occhi. È lo stesso nel Baltico o nei Balcani con gli ustascia: i tedeschi presenti sono allarmati dalla violenza antisemita dei locali.
Allora, il nazismo non è solo la Shoah. Il nazismo è stato, prima del 1941, almeno 8 anni – più se torniamo al 1919 o al 1920 – di un’esperienza politica acclamata da tutte le parti: in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. . Non è stato così per tutti ovviamente: i comunisti erano contrari, anche i socialdemocratici, anche alcuni democristiani. Ma l’“Hitler più che Blum” denunciato da Mounier e poi da Marc Bloch non è un mito. È sorprendente vedere come le élite britanniche rimuginassero con il loro sguardo benevolo su un Hitler che sembrava loro la parata ideale contro il bolscevismo, la soluzione per uccidere la sinistra e i sindacati e trasformare la Germania in “una zona di investimento ottimale”. . Dal 1933 infatti la Germania, considerando il programma di riarmo e vedendo che non ne rimane più, è una “zona di investimento ottimale” – un concetto che ho sviluppato dalla zona valutaria ottimale. Puoi avere un ritorno sui tuoi investimenti unico al mondo grazie alle condizioni di produzione offerte dal paese.
Il nazismo prima del 1941 non è né Treblinka né Sobibor. Queste sono realtà che conosco un po’. E mi sorprende quando alcune persone si accigliano: sono l’unico storico francese premiato da Yad Vashem, per La loi du sang . Per questo mi ha lasciato un po’ perplesso. Allo stesso tempo mi dico che studiando a lungo un fenomeno non ci si rende più conto che ciò che appare ovvio dopo un lento assestamento non lo è affatto per il pubblico. Lo iato tra ricercatore e pubblico sta crescendo fatalmente.
La cosa più sorprendente di Free to Obey è il salto da un caso di studio a una lettura molto più generale del management della Germania occidentale e persino dell’Europa occidentale dopo il 1955. Credi che non sia questo a provocare la sorpresa dell’accoglienza?
Prima del 1945, Reinhard Hohn è un tipico individuo del mondo degli intellettuali delle SS, per citare Christian Ingrao1o Michael Wildt. E i suoi amici, quelli con cui lavora sono Werner Best – il numero due della Gestapo – e Wilhelm Stuckart – il redattore delle Leggi di Norimberga. Ed è con loro che lavora a questa rivista chiamata Empire. Ordine razziale. Spazio abitativo ( Reich, Volksordnung und Lebensraum ) per riflettere sull’attrito dello Stato e sulla mutazione delle strutture per amministrare in modo ottimale il Grande Impero.
Dopo il 1945, fu celebrato durante il suo 95esimo anniversario come il “papa della gestione”. La sua scuola ha formato 700.000 dirigenti assunti in più di 2.000 aziende tedesche. È un fenomeno sociale di massa ed è in questo che possiamo passare da un caso di studio a un fenomeno più generale. Soprattutto perché nella sua scuola non si è corretto, non si è pentito di nulla e non ha mai avuto una parola per il passato. E, inoltre, impiegò, come insegnanti nella sua scuola, alte kameraden,vale a dire, l’ex SS. Franz-Alfred Six condannato a Norimberga per genocidio attivo – sul campo – rilasciato, divenne direttore marketing di Porsche ed era professore di marketing nella sua business school. Il professore di medicina Karl Kötschau che, dopo il 1945, continuava a dire che era necessario eliminare i malati o gli handicappati, divenne professore di “sviluppo personale”. Il dottor Justus Beyer, condannato a Norimberga per genocidio attivo, insegnava lì come professore di diritto commerciale.
Il XXI secolo costituisce una cesura, soprattutto dal punto di vista di cui ti occupi, cioè della creazione del senso, della narrazione?
Forse dipende da dove mettiamo la sillabazione. Le cronologie più argomentate parlano del 1989 e altre del 2001. La cesura non è piuttosto la fine degli anni ’70 con la grande crisi industriale vissuta dalla prima patria della rivoluzione industriale che è la Grande? -Brittany, dall’azienda reazione politica, pienamente assunta quale è quella di Margaret Thatcher che incarna e attua ciò che Grégoire Chamayou ha ben studiato in La società ingovernabile2, cioè soluzioni neoliberiste. Con questo intendo un liberalismo vantaggioso per il capitalismo finanziario, tutto sotto il dominio di uno stato spogliato di quasi tutto tranne la sua capacità di mantenere l’ordine. Perché ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.
La cesura non sarebbe dunque l’arrivo al potere di Margaret Thatcher nel 1979, subito prima di Ronald Reagan, poi Helmut Kohl nel 1982-1983 nella RFT? Siamo, inoltre, poco prima della famosa svolta di austerità del 1983 in Francia e dell’arrivo di Laurent Fabius che segna sia una svolta nel discorso politico sulla questione dell’immigrazione – il famoso “Monsieur Le Pen fa le buone domande ma dai loro risposte sbagliate”3– e un cambiamento anche nella concezione della normativa e della legge con l’inizio della deregolamentazione. Non abbiamo aspettato Chirac nel 1986, è iniziato molto chiaramente nel 1984.
Per continuare sulla cesura rappresentata dal XXI secolo, la cospirazione contemporanea è una risposta alla scomparsa di strutture politiche o religiose capaci di spiegare il mondo?
Se consideriamo l’importanza dell’abbandono del religioso, che è evidente in Occidente, potremmo ipotizzare che il religioso rimarrebbe importante nel vuoto, in modo spettrale o spettrale, nel senso che parleremmo di un membro fantasma . Se facciamo questa ipotesi, è chiaro che in questa lettura, per riprendere una visione aroniana delle religioni laiche, il complotto è un modo di fare a meno della religione senza aver pianto una trascendenza. Questa diventa una trascendenza negativa in cui il male – l’ebreo, il rettile o altro – finisce per avere una virtù perché spiega tutto. I problemi individuali e sociali hanno una causa ovvia e comprensibile.
Per questo inserisco le teorie e le storie della cospirazione in una prospettiva più ampia e in una cronologia più ampia, facendo riferimento ad esempio all’opera di Franck Collard sulla congiura dei lebbrosi nel Medioevo.4.
C’è una permanenza: dietro il caos impenetrabile che mi colpisce, c’è una “causalità diabolica”. Uso questa espressione di Leon Poliakov e Norman Cohn in The Fanatics of the Apocalypse5. Questa causalità mi rassicura perché è identificata e fornisce significato. Ciò risponde a un’esigenza terapeutica: trovare un senso alla propria infelicità è fondamentale. Io stesso sono stato sorpreso di apprendere che una psicoanalista, Nathalie Zajde, che tratta pazienti nati da sopravvissuti all’Olocausto, ha prescritto La Legge del Sangue.6ai suoi pazienti . Perché è importante che i pazienti che soffrono abbiano un discorso significativo che smascheri e decostruisca il progetto di sterminio dei nazisti iscrivendolo in un’epoca e nella propria razionalità. La cospirazione è una forma di terapia selvaggia su larga scala in un modo del tutto paragonabile a un fenomeno che non ho menzionato nel mio libro, le epidemie di stregoneria negli anni ’60 e ’70 studiate da Jeanne Favret-Saada in Le parole morte gli incantesimi7. È una risposta a un enorme trauma sociale: la legge Pisani-Ferry, l’americanizzazione dell’agricoltura, gli input chimici, l’estirpazione del boschetto per fare grandi campi aperti. Il modo per rispondere a questi traumi di massa è immaginare che ci sia stato lanciato un incantesimo che si traduce nella morte di una mucca, nel guasto del trattore o in difficoltà finanziarie. Io sono uno storico, sto solo osservando, ma gli antropologi o gli psicologi hanno qualcosa da dire sulle sorgenti di tutto questo. È ovvio che il bisogno di ermeneutica c’è e la cospirazione risponde meravigliosamente bene perché è un modo di fare religione senza Dio, ma pur conservando il Diavolo, perché si mantiene una figura detestabile, odiata, un “Chi”? Ornato con piccole corna.
Tracci paralleli tra la Francia contemporanea e l’antica Roma, in particolare confrontando il loro fascino con il mito dell’età dell’oro. Non è problematico questo miscuglio di tempi? Non dà l’impressione che la storia sia un’eterna ripartenza o un ciclo? Possiamo davvero mettere sullo stesso piano Salluste ed Éric Zemmour?
Vista così, in effetti non è una buona cosa ed è meglio fare come Gérard Noiriel che mette Zemmour allo stesso livello di Edouard Drumont!
Il riavvicinamento all’Impero Romano è opportuno in quanto la Repubblica francese e la città politica francese furono costruite in riferimento al romanismo. La rivoluzione è avvenuta ” in abiti romani ” – qui torno a Marx. Possiamo citare Camille Desmoulins che afferma: ” Avevamo la testa piena di greco e latino, eravamo repubblicani universitari. “. Tutto contribuisce a ciò che noi pensiamo come romano, in particolare la virtù stoica del cittadino che deve pensare l’interesse generale contro il suo interesse privato. Pertanto, la storia antica ha un’importanza, un significato in Francia a partire dalla Rivoluzione francese, che rafforza l’eredità del Rinascimento e poi dei Gesuiti conferendole una dimensione civica. Quindi è importante vedere che siamo stati nutriti dall’innutrizione.
Ma quando leggiamo testi del I secolo aC e della nostra epoca, l’apice dell’Impero, gli autori romani non smettono mai di lamentarsi. Ed è ancora possibile che noi siamo gli eredi di questa insoddisfazione per il presente. Del resto, da decenni, le generazioni politiche e accademiche si sono formate alla versione latina su questi testi, traducendo la congiura di Catilina di Sallustio, traducendo Livio, Tacito e tutti si lamentano dicendo che “era meglio prima”, che il mos maiorum era perduto, che la virtus patrum doveva essere ritrovata. Potrebbe aver lasciato il segno.
Come i romani, abbiamo un’idea alta di noi stessi: l’ urbs è civiltà, cultura e non siamo mai all’altezza del nostro ideale, ma l’ideale romano era immenso. In Francia è la stessa cosa, dalla Rivoluzione francese abbiamo l’ambizione di parlare per il genere umano. C’è un rovescio della medaglia in questo messianismo, che è questo tipo di cupa delizia, quella che consiste nel dire che non siamo all’altezza di ciò che affermiamo di essere. Messianismo e Declineismo sono due facce della stessa medaglia.
Precisamente, non si comprende appieno cosa distingua “ i grandi istmi” del contemporaneo dai grandi racconti che descrivi nella prima parte del libro. Vedendoli come le rovine dei grandi ” -ismi” che sono crollati, non è correre il rischio di non prendere così sul serio queste nuove storie, questi discorsi che hanno un significato? Prendi ad esempio messianismo e decadenza come ” istmi” e ammetto di non vedere appieno come questi discorsi siano meno potenti o meno validi come spiegazione del mondo del provvidenzialismo, se non che non sono sostenuti da mille anni di -vecchie strutture?
Hai perfettamente ragione in termini di ermeneutica. La loro valenza ermeneutica è analoga, comparabile, se non identica. Ma è nella loro facoltà di mobilitazione che è più problematico. Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.
Ma il declino, o l’ondata che provoca, spinge l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea, e probabilmente partecipa all’elezione di Trump.
Sì, ma è un ballottaggio, non è la campagna di Russia. Andare a votare è importante, ma non è l’epopea escatologica della costruzione del nuovo “impero romano” da parte dei fascisti nel 1936, dell’invasione della Russia o delle rivoluzioni francese e bolscevica.
Il mito che potrebbe essere più mobilitante è “l’illimitato”, rappresentato da Jeff Bezos o Elon Musk. È l’ultimo avatar di un progressismo tecnicista che cerca di salvarsi cercando di fuggire da un pianeta che abbiamo reso inabitabile per investire, in una grande epopea spaziale, un pianeta inabitabile. Vediamo che non morde e che provoca persino reazioni ostili.
In termini ermeneutici ci sono forti valenze, ma in termini di mobilitazione della performatività, non credo. Ma questa rimane una discussione aperta.
Questa performatività mobilitante non è però un fenomeno costante nelle grandi storie che citi. Se prendiamo ad esempio la storia del cattolicesimo, per lunghi periodi non vi furono conseguenze della sua capacità ermeneutica se non quella di riunire ogni domenica i singoli. Dove siamo oggi?
In primo luogo, è vero che questo potere di mobilitazione non è sempre stato al suo apice. Ma c’era ugualmente una struttura capace di operare una riconquista evangelizzatrice, cosa che oggi non avviene più, anzitutto perché non ci sono più sacerdoti a sufficienza. Alla fine del XVI secolo, con il Concilio di Trento, il potere della Chiesa era tale da poter controriformare e iniziare una riconquista cattolica. È lo stesso nel XIX secolo. C’è stato un grande livellamento, già prima della Rivoluzione francese – che Michel Vovelle mostra molto bene – ma c’è la rete di conventi, parrocchie, seminari che permette questa seconda controriforma dell’Ottocento.
Attualmente è molto più discutibile: la tecnostruttura, i mezzi non ci sono più. Potremmo finalmente elaborare un trittico basato su tre opere di storici: Le Goff nella Nascita del Purgatorio8, Michel Vovelle che mostra l’apogeo e l’inizio del dubbio e Guillaume Cuchet, che mostra la morte del dogma9. Questi tre storici ci offrono, con le loro opere, tutta la vita del dogma, e Guillaume Cuchet si pone questa domanda, nella sua ultima opera, della scomparsa o meno del cattolicesimo in un luogo che doveva esserne se non la culla a almeno un vettore importante.
Tu difendi un altro approccio storico che può sembrare, a prima vista, sorprendente, un pensiero controfattuale. Quanto è fruttuoso questo approccio per lo storico e più in generale per la comprensione del nostro tempo?
Venivo dal mio stesso cortile, in questo caso il suolo tedesco. Dagli anni Cinquanta c’era una scuola storica – chiamata bundesrepublikanisch – perché gli storici che l’hanno inventata provenivano dalla Germania occidentale e avevano abbracciato la causa del diritto fondamentale e della democrazia parlamentare. Nati negli anni ’30, hanno cercato di fare la genealogia del nazismo.
Vediamo che tutti questi storici intorno alla Scuola di Bielefeld hanno fatto tesi sull’Ottocento, ogni volta per individuare i segni della catastrofe. Era un approccio teleologico che generalmente collegava il bismarckiano e il guglielmino del XIX secolo al nazismo. Sulla loro scia si stabilì una doxa, quella del Sonderweg, del percorso particolare di una Germania le cui modernizzazioni sarebbero state divergenti. Ci sarebbe stata da una parte una modernizzazione economica e tecnica molto reale e dall’altra una modernizzazione politica che non sarebbe mai avvenuta. In altre parole, il binomio capitalismo/liberalismo politico non si sarebbe verificato. Tutto ha portato al 1933 nel loro approccio.
Ciò può essere dovuto alla difficoltà di leggere la storia tedesca in quanto per molto tempo non c’è stata la Germania – praticamente fino al 1990 – e per renderla storicamente visibile, creiamo un’autostrada che va da Lutero a Hitler, addirittura da Hermann il Chérusque a Hitler. È una sorta di determinismo culturalista e teleologico che finirebbe sistematicamente nel 1933.
Ma, ed è quello che ho difeso nel mio libro sulla storia contemporanea della Germania10, si potrebbe immaginare un altro percorso che va dal 1848-1849 fino al 1949-1990 passando per il 1919 e la Repubblica di Weimar. Quest’ultimo non è stato un successo, ma dobbiamo ancora vedere cosa ha pesato su questo regime. L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non si tratta solo del 1933 nella storia tedesca.
Ero quindi molto interessato all’approccio di Quentin Deluermoz e Pierre Singaravélou quando hanno lanciato un seminario di esame epistemologico dell’approccio controfattuale per dimostrare che non era limitato all’ucronia, come “è praticato dai romanzieri di fantascienza”. Al contrario, hanno voluto dimostrare che è stato un passo fruttuoso per la storia. Tutti facciamo il controfattuale senza saperlo quando privilegiamo un’ipotesi rispetto a un’altra e mettiamo da parte i futuri non realizzati. Il lavoro sul futuro che non è accaduto, sugli orizzonti inesplorati che erano possibili, permette di rivisitare un’epoca in modo molto più fruttuoso.
Sono molto interessato agli anni ’30 francesi e i miei nonni erano giovani durante questo periodo. Presumo che non avessero pensieri suicidi ogni mattina pensando all’affare Stavisky o alla crisi, ma che stessero sognando qualcosa che non era né il giugno 1940 né il maresciallo Pétain. Riaprire le possibilità è un imperativo epistemologico perché i contemporanei, come te e me ora, non sanno cosa accadrà in futuro, anche quello vicino. Ma abbiamo supposizioni, desideri e ansie. Le tombe non dovrebbero essere sigillate, ed è per questo che ho iniziato le mie 100 parole di storia11con la parola “Futuro” perché la storia non è pia recitazione di fatalità ma, al contrario, scuola del futuro. Quelle che studiamo sono persone che hanno avuto il loro desiderio, la loro apertura, la loro indeterminatezza e la loro libertà. Sta a noi restituirli.
L’ucronia nazista è affascinante. Molti autori, come Robert Harris o Philippe K. Dick, si sono divertiti a immaginare mondi in cui il Terzo Reich non fosse caduto. E c’è una domanda reale per questo tipo di storia. Rischierebbe un’ipotesi per spiegare questo successo?
Penso che sia principalmente legato alla popolarità della storia reale e documentaria della Seconda Guerra Mondiale. Che ci piaccia o no, questa rappresenta senza dubbio l’ultima grande epopea disponibile, con un male ben identificato, e davvero atroce, un bene che è altrettanto, e una vittoria del bene sul male. Tutto questo è anche molto cinematografico perché la propaganda dell’epoca, da entrambe le parti, sapeva benissimo come mettere in scena. Questo ha una prima conseguenza, televisiva: la Seconda Guerra Mondiale è onnipresente sugli schermi. E anche quando le catene dicono di non voler più affrontare questo periodo, continuano perché i successi di pubblico sono enormi.
Allo stesso modo in cui siamo effettivamente interessati a questo periodo, l’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo. Il nazismo è la chiusura di fronte all’universo delle possibilità e l’apertura di cui parlavamo. Tutto è determinato e necessario. Il nazismo è un lungo discorso apodittico. Hitler lo dice: il nazismo è biologia applicata, scienza applicata, antropologia razziale applicata. Pertanto, non c’è discussione possibile. È così, e se non è così, moriremo. Potremmo benissimo essere pacifisti, disse Hitler, ma moriremo se lo siamo. Questo spiega la pesante macabra ironia dei nazisti. Ho sempre avuto una profonda diffidenza verso chi dice che è così e non altrimenti. Non c’è alternativa ”di Thatcher.
Se il nazismo è la chiusura, l’ucronia permette di riscrivere la storia e sfidare questa cronologia imposta dai nazisti, e questo in modo paradossale perché in genere li fa sopravvivere, li fa vincere la guerra ma per sconfiggerli meglio in fine . Perché in quasi tutte le ucraine finiscono per perdere. E ciò che rende ancora più piacevole la loro sconfitta è il fatto di prolungare il piacere, dando loro una lezione di storia e alla fine conquistandoli .
Leggendo queste storie, cerchiamo di rassicurarci. Come, inoltre, cerchiamo di rassicurarci leggendo divulgazioni ultrafattuale sulla storia del nazismo che ci permettono di dirci che non abbiamo più niente a che fare con esso e che il nazismo è scomparso nel 1945, sostituito dalla democrazia e dalla crescita economica. Ma questa crescita è in parte organizzata da uomini come Reinhard Höhn.
Si parlava del futuro, della mancanza di alternative. Ciò si ricollega alla crisi ecologica che stiamo attraversando e che sta provocando una perdita di significato, uno sconvolgimento all’interno del nostro contemporaneo “ regime di storicità”. Con la concezione del futuro che diventa nuvoloso, che posto può prendere il discorso ecologico? È questo un nuovo “ messianismo ” ?
Mi sono posto questa domanda quando stavo scrivendo questo libro e, ad essere completamente onesto, ero incazzato. Non ho davvero trovato una risposta soddisfacente. La domanda che mi sono posto è: dovremmo parlare di narrativa ecologica, soprattutto nelle sue varianti collassologiche, collassologiche, a rischio di banalizzare la cosa e perdere di vista il fatto che le figure e le curve ne parlano – stesso, che i fenomeni catastrofici ci sono già e non bisogna quindi scherzarci sopra. Stiamo rendendo il pianeta inabitabile, stiamo contribuendo alla sesta grande estinzione, che potrebbe essere anche la nostra se rimaniamo sulle tendenze attuali.
In altre parole, e forse sto tornando a una forma di ingenuità epistemologica, da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso. Ma posso cadere vittima di critiche e molti giornalisti mi hanno fatto questa domanda. Mi sembra che trattando questo come mero discorso si cada in una forma di negazionismo climatico, che nega l’ovvietà di questo cambiamento.
Tracci un attraente ritratto di un aspetto importante della storia delle idee in epoca contemporanea. Ma resta una storia molto libresca: sono le pubblicazioni dei libri e le controversie tra autori che scandiscono la tua cronologia. Studiando un’epoca segnata dall’alfabetizzazione e poi dalla politicizzazione di massa, non fai affatto la storia “ dal basso” e ti interessi poco all’uso e all’appropriazione delle storie che presenti. Non hai paura di scrivere una storia di idee in ” provette”?
Questa è una domanda che si pone sempre quando si fa storia culturale. La storia culturale, o meglio culturalista (nell’idea che il significato degli attori ha un interesse) è davvero fedele a quanto ha detto benissimo Pascal Ory, che è una “storia sociale delle rappresentazioni?”» Con questa dimensione sociale di appropriazione, di formulazione, di esperienza sociale, o si ricade nel solco di una tradizione accademica della storia delle idee totalmente disincarnata dove, come dici, vediamo Leon?Brunschvicg rispondere a Henri Bergson che discuteva di Kant senza questa società pungente. Risponderei comunque che Kant morde la società, e oh quanto!
A proposito, sto ancora parlando di proprietà. Nel capitolo sulla cospirazione parlo molto di social media. Ci sono infatti due capitoli sulla letteratura perché parlo di “Crisi della narrativa”. Nel capitolo sul provvidenzialismo ho cercato di vedere cosa pensavano gli stessi credenti da parte protestante, cattolica ed ebraica, quindi mi sono rivolto ai teologi. E questo ha vere implicazioni ogni domenica nella pastorale, nella vita concreta di chi vi aderisce e segue il messaggio del magistero. Non è quindi decorrelato dalla società e dalle pratiche sociali. Allo stesso modo, per il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, non mi sono perso nelle controversie tra Rosenberg e Hans Günther o tra Bukharin e Trotsky. ho provato a vedere affidandosi in particolare all’opera di Nicolas Werth, quali erano, socialmente, le pratiche di appropriazione di questi discorsi. Per il fascismo parlo di cinema e per il mio lavoro sul nazismo le mie fonti non sono letterarie.
Sono molto attento a questo perché non dobbiamo farci ingannare da quella che Bourdieu ha giustamente chiamato “l’illusione scolastica” in cui ci si lascia andare. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare l’efficacia delle idee.
Una preoccupazione antimoderna attraversa il tuo libro al punto che ci si chiede se tu veda qualche motivo di speranza nel presente e nel futuro. Che cos’è?
Antimoderno, non certo perché sono molto felice di vivere nel nostro tempo. Sono molto felice di avere uno stato di diritto che mi protegga e di non temere che Alexandre Benalla possa beneficiare della totale impunità. Sono molto felice di essere trattato come sono e sto molto meglio in Francia che in Afghanistan, non è nemmeno una domanda. Non ha molto senso essere antimoderni.
Ma chi si vanta dell’intelligenza è preoccupato, non appena dichiariamo di pensare di essere preoccupato. In questa modernità che vivo con gratitudine, vedo anche molte cose sbagliate e molte cose anche strutturalmente legate alla modernità che non mi si addicono: estrattivismo, produttivismo, reificazione, alienazione, disprezzo dell’umano, distruzione del nostro biotopo, tutto ciò non mi si addice. Ma non è antimoderno preoccuparsi di tutto questo. Altermoderno, forse?
Inoltre, non ritengo la mia conclusione negativa o senza speranza. Al contrario, c’è scetticismo nei confronti delle grandi storie perché, come te immagino, diffido di tutto ciò che è “grande” o pretende di essere “grande”, sono molto pascaliano in questo senso, e Pascal è anche molto presente nel mio libro perché era molto presente anche nel XX secolo. Le “dimensioni degli stabilimenti” mi fanno ridere. Quindi sono davvero scettico su ciò che afferma di essere grande e ho anche un’immensa speranza, forse legata all’avere figli. C’è una grande apprensione di avere figli, ma ci accorgiamo che con un po’ di umorismo, un po’ di scambio, dialogo e un po’ di amore, l’essere umano cresce molto bene, e la dialettica tra gli individui sta andando molto bene.
Direi quindi che il mio libro è attraversato da due tensioni: scetticismo e distacco nei confronti del macro ma un immenso ottimismo sul micro , sull’organizzazione concreta delle vite, sui cambiamenti, sulla riflessione, sull’intelligenza delle persone. I sistemi sono bloccati e avvelenati fino all’osso, come dimostra la Quinta Repubblica. Che una persona proclami seriamente una guerra contro un virus e incoraggi gli scherzi dei suoi collaboratori, non è possibile, e il sistema che lo consente è un male.
Ma a livello di terra, vedo sviluppi molto benefici, ulteriormente accentuati dalle sfide covidiane. I nostri contemporanei si sono uniti a noi durante questi confinamenti: hanno sperimentato quello che stiamo vivendo noi, i ricercatori, cioè stare soli nella vostra stanza, pensare, porsi domande fondamentali, e in questo vedo una speranza immensa.
In questo contesto, le lettere, l’umanità, la bella fuga, l’ otium , sì, l’abbracciano, che ci nutre.
FONTI
Christian Ingrao, Believe and Destroy: Intellectuals in the SS War Machine , Fayard, 704 pagine.
Grégoire Chamayou, La società ingovernabile , La Fabrique, 336 pagine.
Laurent Fabius in L’ora della verità, 5 settembre 1984: “Penso che l’estrema destra sia risposte false a domande reali. Le domande sono vere, è il tema dell’insicurezza di cui parlavamo prima […]”.
Franck Collard, “Una voce medievale. La congiura degli ebrei e dei lebbrosi. ”, L’Histoire (n° 231), aprile 1999
Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse: correnti rivoluzionarie millenarie dall’XI al XVI secolo , Aden Belgio, 482 pagine
Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire come un nazista ., Gallimard, 576 pagine
Teodoro Klitsche de la Grange: “Francesco Calasso, Medio evo del diritto, Adelphi edizioni, Milano 2021, pp. 647, € 40,00”
È pubblicato in nuova edizione, con postfazione di A. Cecchinato, il saggio di Francesco Calasso del 1954, già all’epoca oggetto di attenzioni diffuse.
La postfazione nota come l’attività scientifica dell’autore con la sua aura di antiformalismo “ha infuso l’esperienza scientifica di Calasso d’una piena fiducia nel valore autoritativo della tradizione, che è stata la vera cifra – come ha insegnato Manlio Bellomo – di una vita condotta per il diritto”.
A distanza di oltre cinquant’anni e malgrado la materia – la storia del diritto – il saggio di Calasso suscita interessi d’attualità.
In primo luogo per la “rinascita” del diritto romano, avvenuta nei primi secoli del passato millennio, in Italia ad opera, in particolare, d’Irnerio e della scuola di Bologna. Lentamente i giuristi del diritto comune, interpretando il corpus juris in una con consuetudini, statuti e (anche) contaminazioni, contribuiscono all’unità giuridica. Ovviamente nei e con i limiti di un sistema non codificato, e le cui fonti non avevano il carattere formale di un’organizzazione che le ponesse in essere e ne garantisse l’applicazione. Caratteri ambedue, ancorché non esclusivi, del (successivo) Stato moderno. Come scrive Calasso, il sistema giuridico è un tutto, un’unità. E il quid che gli da vita è “un’organizzazione cioè nella quale distinguiamo un meccanismo che produce le norme e degli organi che le applicano e ne garantiscono l’osservanza”. Come successe che, malgrado la debolezza dell’organizzazione politica medioevale, avvenisse quella “unificazione”? Fu, scrive l’autore per “un ideale supernazionale: quella monarchia universale che perpetua il nome di Roma”.
Tale tesi ricorda quella di Vittorio Emanuele Orlando che sia fonte di equivoci ed errori “la pretesa di assumere come caratteri assoluti dello Stato e del Diritto, non che dei rapporti intercedenti fra loro, le forme moderne, in cui quelle nozioni han trovato il loro attuale assetto”. E che l’affermarsi di un ordinamento superiore e generale avviene per gradi, onde in relazione alla realizzazione coattiva delle pretese perdura “l’esistenza e continui l’efficacia, anche se ridotta, della forza spettante alle forme anteriori: il diritto pubblico romano dimostra tangibilmente il valore politico e istituzionale che, per lungo tempo dopo la loro trasfusione nello Stato, serbarono la familia, la gens, la curia, la tribus”, scriveva Orlando.
Secondariamente, molti hanno notato, come, a partire dal secolo scorso, ma in particolare dagli ultimi decenni del medesimo, sia in atto il percorso inverso: da un monopolio statale della decisione politica e della forza legittima (la coazione) ci stiamo avviando verso una pluralizzazione normativa (e anche istituzionale): il conferimento di funzioni a organismi internazionali, la progressiva crescente diffusione di Tribunali internazionali (e l’efficacia delle di essi decisioni sul diritto interno), e la stessa legittimazione di guerre e di occupazioni militari attraverso l’appello ai diritti dell’uomo (et alia) e le conseguenti espressioni lessicali che le designano (“operazioni di polizia internazionale”), mostrano il processo in atto. Al quale corrisponde una nuova antitesi politica, prevalente in gran parte del mondo sviluppato: quella tra globalizzatori, cioè sostenitori – per ora – di un diritto (ed un’economia) universale, e sovranisti, cioè partigiani di diritto e scelte economiche particolari (cioè statali).
Come andrà a finire questa contrapposizione è in mente jovis. Anche qua tuttavia la tesi di Calasso che il diritto comune si fondò (e si diffuse) in forza di un’idea universale, di “un fatto spirituale” può indicarci come dal diritto, anzi dall’aspirazione a un diritto, possa nascere l’istituzione.
QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CREDERE NELLA CULTURA? (Post per chi ha più di sessanta anni in quanto fa riferimento a situazioni sociali che vissute, hanno un sapore diverso da quello dei fatti che si apprendono intellettualmente). Berlusconi accusava i “comunisti” o la “sinistra” (ma lui usava “comunisti” sapendo che provocava più ribrezzo) di aver monopolizzato alcune istituzioni sociali tra cui la “cultura”. Era vero.
La mia generazione è nata in un ambiente in cui la massa gravitazionale della cultura era di sinistra, comunista (in varie versioni e tonalità), socialista, progressista, democratica. Qualcuno era anche anarchico. Dati di fatto dicono che tale massa critica monopolizzava il cinema, la radio, la musica, l’arte, i giornali, le case editrici, la scuola e parte dell’università. Ma poi si estendeva anche alla magistratura, in parte alla polizia, forse qualcuno anche nell’esercito e molto nell’amministrazione burocratica dello Stato. La massa era data a livello di individui ma anche partiti e soprattutto sindacati. Addirittura, alcuni artisti o intellettuali sono diventati di destra solo perché quella era l’unica altra opzione disponibile per chi non era di “sinistra” ed hanno coltivato un certo rancore anche perché erano pur sempre lavoratori, lavoratori ostracizzati in base al non allineamento di pensiero.
Come tutti i fenomeni di gravitazione sociale, la massa attirava a prescindere per cui sulle vere convinzioni intellettuali e poi politiche di molti iscritti al fronte egemonico, si potevano nutrire dubbi e questo spiega anche perché il tasso di intelligenza reale di questo fronte fosse ben minore della sua massa. E spiega anche la velocità allegra del rompete e fila quando il fronte si disintegrò ai primi anni ’80.
Il fenomeno era alla base di quella anomalia prettamente italiana e solo un po’ francese, per la quale in piena guerra fredda, un Paese poi del tutto allineato all’atlantismo anglo-americano, aveva un partito che si dichiarava comunista. Al canto del cigno di questa dinamica, nel 1976, il PCI sfiorò il 35%, con DP ed un PSI ancora abbastanza “socialista”, pesavano il 45% del Paese. E si tenga conto che la DC del tempo, aveva segretario Zaccagnini, comunque della sinistra DC. La forte tradizione culturalista che esercitava una sua egemonia che favoriva questa eccezionale pesatura del fronte di sinistra che sfiorò la maggioranza, derivava da una specifica tradizione del comunismo italiano data dal pensiero di Antonio Gramsci. Gramsci si colloca in posizione atipica nella tradizione comunista occidentale. Mai teorizzato nitidamente ma, nei fatti, il pensiero di Gramsci dava a gli aspetti sovrastrutturali, un peso inverso a quello che la tradizione economicista del comunismo occidentale dava delle priorità politiche. La situazione democratica e quindi non rivoluzionaria del dopoguerra, portava l’azione politica su i doppi binari della democrazia politica e quindi dell’importanza della cultura democraticamente distribuita. Erano infatti anche i tempi in cui si teneva in grande considerazione lo studio, l’apprendimento, la lettura, la capacità argomentativa come precondizioni di massa per l’esercizio democratico. Con precisi sforzi di culturalizzazione degli strati sociali più bassi della popolazione.
Tutto ciò poi implose dopo il raggiungimento del suo culmine nel 1976. Vennero gli anni di piombo, le cose generali non andavano bene, sopravenne la stanchezza intellettiva, ci furono moti di fastidio per la pesantezza e gravità di questa egemonia che sfociava spesso in dittatura del pensiero e del pensiero sull’azione concreta, sul limite oltre il quale il valore culturale non si trasformava in valore della qualità di vita via qualità politica. Si partecipò allora festanti al grande rimbalzo del rompete le righe e dal dibattito a seguito della proiezione della Corazzata Potemkin in lingua originale e sottotitoli, si passò ad imitare John Travolta sulle arie dei Bee Gees. Nel 1977, mentre il pensiero arruffato dei Negri e Scalzone portava ignari adolescenti con la P38 a sparare in piazza ed a spaccare le vetrine di via del Corso per rubare oggetti del desiderio consumistico ritenuti “diritto proletario”, usciva Saturday Night Fever. L’anno prima in quel di Milano, nasceva Fininvest. Dopo il decennio ottanta alla fine del quale cadeva il Muro, seguiva il crollo del’URSS e nel 1993 mr Fininvest diventava un politico. L’egemonia gramsciana ma anti-culturalista di Berlusconi, desertificò l’attitudine culturale, ormai stigma sociale di persona triste, grave, rancorosa, antipatica, pessimista, invidiosa ed acidula, presuntuosa, dedita alla monotonia critica, fuori dal mondo del piacere, del successo, della vita (dei soldi e del sesso) e quindi del “diritto alla felicità”.
Ecco, il riepilogo serviva a capire quando e perché abbiamo smesso di credere nella cultura. La disillusione è nata dal fallimento di un sistema che aveva dato della cultura una interpretazione sbagliata che ha generato il suo contro-movimento. Abbiamo smesso di credere nella cultura perché ne avevamo sbagliato l’interpretazione. Di una cosa che è del regno della vita umana avevamo fatto una cosa morta, ne avevamo intuito il valore di forma ma ne abbiamo sbagliato l’interpretazione di sostanza, di una cosa aperta ne abbiamo fatto un conformismo, di una dinamica ne abbiamo fatto una collezione di dogmi statici, di una forma tendente all’egalitarismo ne abbiamo fatto l’ennesima aristocrazia, di un codice essoterico ne abbiamo fatto un ennesimo esoterico, di una caratteristica dell’umano ne abbiamo fatto un dualismo con le menti staccate dai corpi. Per primo, il Paese occidentale più nominalmente “comunista” è rimbalzato violentemente al suo opposto. Un valore è diventato un dis-valore.
Siamo in una condizione di devastazione intellettiva da quaranta anni. Forse varrebbe la pena tornare su i misfatti compiuti per capire cosa si è sbagliato. Non basta la forza del nemico, la congiuntura occidentale, le colpe del sovietismo e la Luna Nera a dar conto del fallimento. Ogni forza si afferma su una debolezza e quella che credevamo una forza si è rivelata una grande debolezza.
Forse ci farebbe bene cominciare a scrivere dei quaderni sulla nostra attuale condizione nel carcere dell’ignoranza edificato su i nostri fallimenti intellettivi. Magari aiuta ad evadere, se non a noi, a quelli dopo.
La stampa italiana, nella quasi totalità è ridotta ad una grancassa di livello miserabile. A maggior ragione serve ascoltare altre campane_Giuseppe Germinario
Maria Zhakarova risponde a Molinari di Repubblica:
“Ho letto con entusiasmo il Suo articolo, dottor Maurizio Molinari, su Repubblica. Era da molto tempo che non vedevo un’assurdità così deliziosa.
Capisco perché nessuno della Sua redazione lo abbia firmato e Lei si sia assunto in prima persona la responsabilità di questa vergognosa missione. Nessun giornalista che si rispetti vorrebbe il suo nome sotto il titolo “Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa”.
Andiamo per ordine.
L’articolo dice: “…abbiamo visto l’arrivo di unità militari russe al confine con l’Ucraina: stiamo parlando di almeno 90.000 uomini con relativi mezzi blindati ed artiglieria… l’esercito ha stabilito una base a Yelnya, 260 km a nord del confine ucraino”.
Probabilmente, dottor Molinari, Lei ha ascoltato le affermazioni statunitensi secondo cui la Russia starebbe concentrando truppe al confine con l’Ucraina, ma non ha letto il comunicato ufficiale del Ministero della difesa ucraino, che smentisce le fobie statunitensi. Lei per definizione chiaramente ignora la posizione di Mosca. E perché dovrebbe, quando può scrivere della “creazione di una base con mezzi blindati ed artiglieria a Yelnya” senza alcun fact-checking. Non c’è nessuna base. Nel nostro Paese non esistono affatto basi militari. Esiste la dislocazione di unità delle forze armate russe sul nostro territorio nazionale. E questo è assolutamente un nostro diritto sovrano, che non viola gli impegni internazionali assunti e appartiene, come, tra gli altri, ama dire la NATO, alle “attività di routine”.
Ma il Suo sproloquio sulla realtà russa non finisce qui. Lei scrive che Yelnya si trova a km. 260 dal confine ucraino. E dunque i nostri carri armati sono sul confine o a km. 260 da esso? Se il direttore di Repubblica ha un’idea confusa di dove sia Yelnya (anche se non lo credo, visto che le ha dedicato un intero articolo) forse sarà più informato sulla collocazione della Svizzera tra Francia e Italia. E la distanza è addirittura inferiore ai 260 km. Ma non è che domani la Repubblica scriverà che Berna è a un passo dall’attaccare Italia e Francia contemporaneamente, visto che tutte le truppe svizzere sono più vicine ai confini di questi Paesi di quanto non sia Yelnya all’Ucraina?
Il difetto di tale logica non sembra ovvio ai lettori del Suo giornale Repubblica? Quello che Lei si permette di fare non è consentito a un giornalista perbene.
“… Nel 2014 la Russia intervenne dopo la sconfitta nelle presidenziali ucraine del candidato da lei sostenuto…. Ora la minaccia di invasione punta a tenere sotto scacco il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelensky” – prosegue l’articolo.
E chi sarebbe il “candidato della Russia” che avrebbe perso le elezioni nel 2014? Si riferisce a Yanukovych? Candidato non della Russia, ma delle regioni sud-orientali dell’Ucraina. E non ha perso, ha vinto, e non nel 2014, ma nel 2010. Inoltre, aveva vinto le elezioni precedenti, nel 2004. Ma per impedirgli di andare al potere allora, l’opposizione ucraina, sostenuta dai protettori occidentali, ha escogitato una procedura inconcepibile, una parodia della democrazia – un “terzo turno” di elezioni, e ha fomentato una “rivoluzione arancione”, trascinando Victor Yushchenko alla presidenza dell’Ucraina. E nel 2010 Viktor Yanukovych ha vinto di nuovo, con un ampio sostegno dalle regioni del sud-est dell’Ucraina, ma l’Occidente non ha avuto alcuna possibilità di ribaltare di nuovo la scelta del popolo ucraino. Gli USA e l’UE hanno deciso di rimandare il putsch a un momento più favorevole. Momento che si è presentato nel 2013, quando Viktor Yanukovych è diventato improvvisamente immeritevole, rimandando la firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea. Nel giro di un paio di mesi, in Ucraina si è tenuta un’altra “Maidan” sotto la guida degli Stati Uniti, con la sottosegretaria di Stato americano Nuland che distribuiva soldi, panini e promesse di sostegno incondizionato ai “rivoluzionari”. E nel 2014, caro Direttore, Viktor Yanukovych non si è candidato. Ha lasciato l’Ucraina perché se fosse rimasto lì, sarebbe stato ucciso dai radicali ucraini che hanno sparato, picchiato a morte e bruciato centinaia di loro connazionali
La Sua non conoscenza della sostanza della questione è sorprendente.
Anche se mi è piaciuta molto l’espressione “tenerlo sotto scacco” che Lei usa in riferimento alla politica russa in Ucraina e personalmente a Vladimir Zelensky. Prima di tutto è un’espressione bellissima. In secondo luogo, non mi pare che gli scacchi siano vietati, vero? O solo se i russi non vincono?
L’unico problema è che in Ucraina ora non c’è un re, infatti i pedoni possono trasformarsi solo in regine.
La politica della Russia nei confronti della sovranità dell’Ucraina fin dalla sua indipendenza ha avuto come unico obiettivo la costruzione di relazioni di buon vicinato. Quello che è successo nel 2014 in Crimea è qualcosa che spieghiamo di continuo, ma che in Occidente viene costantemente ignorato. Ogni tentativo di esporre i fatti si scontra con “articoli”, simili al Suo, che distorcono la percezione della realtà.
Ma lo ripeterò ancora una volta. Nel 2014, dopo il colpo di stato incostituzionale in Ucraina, ennesimo risultato dell’ingerenza occidentale negli affari di uno stato sovrano, il popolo che vive in Crimea ha fatto la sua scelta storica, è sfuggito al dilagante estremismo nazionalista e illegale tenendo un referendum che in precedenza aveva molte volte cercato di organizzare, ma che gli era sempre stato vietato.
La prossima volta che sulle pagine del Suo giornale apparirà qualcosa sulla “volontà illegittima del popolo di Crimea”, siate così gentili da ricordare ai lettori che in Kosovo non c’è stato assolutamente alcun referendum, ma i Paesi occidentali, compresa l’Italia, ne hanno riconosciuto la “sovranità”. E questo nonostante la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che indica esplicitamente l’integrità territoriale della Serbia, intendendo il Kosovo come parte di essa.
Veniamo ora ai migranti: “Putin crea parallelamente un’altra situazione di crisi sostenendo il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko nella decisione di far arrivare migliaia di migranti da Asia e Medio Oriente fino alla frontiera polacca per creare un nuovo, esplosivo, fronte di attrito con l’Unione europea”.
Signor Molinari, pare che Lei abbia letto molti “rapporti dal campo” polacchi visto che ripete come un mantra tutte queste infinite accuse contro Alexander Lukashenko e per qualche motivo contro il presidente russo per aver “creato un esplosivo fronte di attrito” e una “situazione di crisi”. Ma dice sul serio?
Viene voglia di rimandarla al sito del Ministero dell’Interno italiano, in particolare alla sezione “Statistiche dell’immigrazione”. Bene, questo meraviglioso sito web italiano è stato recentemente aggiornato e scrive nero su bianco che il numero di migranti che vengono maltrattati attraverso il confine dalle forze dell’ordine polacche non è niente in confronto al numero di clandestini dall’Africa lasciati entrare nell’UE attraverso il suo territorio dalla sola Italia. In soli tre giorni di novembre: più di duemila persone. Dall’inizio dell’anno – quasi 60 mila (e molti di loro attraverso la Libia devastata dall’occidente, di cui parleremo in seguito). Gli attuali eventi sul Bug sono solo una vivida immagine (che però dimostra chiaramente fino a che livello di disumanità possono arrivare le guardie di frontiera di uno stato membro dell’UE).
Ora la domanda è: quando Repubblica scriverà che gli Stati Uniti e i paesi della NATO hanno “creato un esplosivo fronte di attrito e una situazione di crisi in Europa” con le loro azioni folli?
Bruxelles dovrebbe cercare le vere cause della crisi migratoria dell’UE nelle vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-Iraq, anti-Libia, dei capi di stato e di governo di quei paesi che hanno istigato la “primavera araba” e per 20 anni in Afghanistan hanno fatto non si sa cosa.
L’articolo prosegue così: “è interessante come tutto ciò coincida con l’imminente inaugurazione del Nord Stream 2, che aumenterà la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di gas russo, e con l’ostilità di Mosca a raggiungere accordi sul clima…”
Qualche parola sul gas, sulla “dipendenza dell’Europa” e sull’ecologia, visto che ha deciso di mettere insieme più o meno tutti i temi all’ordine del giorno (in quello che chiama “editoriale”). L’Italia da sola riceve fino a 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia. Mosca non ha mai tradito o ingannato Roma sulle consegne di gas. Come può in coscienza un giornalista italiano parlare con un tono così becero dei fornitori russi di idrocarburi?
Lei personalmente, dottor Molinari, non ama il gas russo? Molto bene. Ho una grande idea: Maurizio per protesta riscaldi la sua casa con copie de “La Repubblica”.
Chi Le dà il diritto di insultare il nostro Paese con calunnie nauseanti? È alla ricerca dello scoop? Ho una super esclusiva per Lei. Pubblichi una frase di verità sul Suo giornale: “Non c’è fornitore di gas all’Europa più affidabile della Russia”.
Ora parliamo della “dipendenza”, una parola di cui chiaramente non capisce il significato. La vita di tutti noi dipende da un numero enorme di cose, senza le quali cesseremmo di esistere: acqua, sole, ossigeno, ecc. Questo La fa impazzire? Per quanto riguarda il gas russo, la situazione è molto più certa dei terremoti in Sicilia o dell’acqua alta a Venezia : il gas c’è, c’era e ci sarà. La smetta di confondere i lettori e di farsi prendere dal panico.
Gioisca per ogni nuovo giorno, anche se tutto in questo mondo è interdipendente: le persone dipendono l’una dall’altra, la vita dipende dal sole, le piante dall’acqua.
Fondamentalmente non ha senso commentare i Suoi giudizi sulle politiche ambientali della Russia: le nostre priorità in questo settore (molto avanzate anche per gli standard europei) sono state enunciate dal presidente russo nell’ambito degli eventi multilaterali ad alto livello conclusisi di recente. Per favore, dottor Molinari, quando si occupa dell’agenda russa, segua almeno le dichiarazioni che vengono fatte nel Suo Paese. Nel suo videomessaggio al vertice del G20 (tenutosi a Roma, Maurizio!) il presidente Putin ha detto senza mezzi termini: “La Russia sta sviluppando a ritmo spedito il settore energetico a basso contenuto di carbonio. Oggi, la quota di energia proveniente da fonti praticamente senza carbonio – e questo include, come sappiamo, il nucleare, l’energia idroelettrica, l’eolico e il solare – supera il 40% e, se aggiungiamo il gas naturale – il combustibile a più basso contenuto di carbonio tra gli idrocarburi – la quota raggiunge l’86%. Questo è uno dei migliori indicatori del mondo. Secondo gli esperti internazionali, la Russia è tra i leader nel processo di decarbonizzazione globale”.
E infine la Libia “…nella tela europea del presidente Putin c’è anche la Turchia … soprattutto per la convergenza di interessi in Libia nel riuscire a scongiurare le elezioni in programma il 24 dicembre per eleggere un governo”.
Qui Le voglio ricordare che la firma del rappresentante russo si trova sotto il documento finale della seconda conferenza di Berlino sulla Libia, e la Russia è una di quelle (poche, a dire il vero) parti che, anche nelle attuali difficili circostanze, hanno promosso la normalizzazione e il dialogo politico nel Paese distrutto dall’Occidente. La Russia ha partecipato ad alto livello (ministro degli esteri Lavrov) alla recente conferenza internazionale sulla Libia a Parigi, e ha concordato la dichiarazione finale. Il ministro ha sottolineato più volte, anche durante discorsi pubblici, che la cosa principale ora è rispettare il calendario che i libici stessi hanno concordato un anno fa, soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento delle elezioni generali, sia presidenziali che parlamentari. Lo vede, spero, che questo contraddice completamente quello che Lei scrive?
Se vogliamo parlare della tela in cui l’Europa è caduta, dovrebbe ricordare come l’Occidente abbia alterato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Libia. Le ricordo che nel 2011 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva dichiarato una no-fly zone sulla Libia, che è stata utilizzata da alcuni paesi della NATO, non per proteggere i civili, ma per bombardarli, con la conseguente distruzione dello stato libico, il barbaro assassinio di Gheddafi e la pluriennale crisi migratoria in Europa, di cui l’Italia è prima vittima. Non lo sa? Mi contatti, sono sempre disponibile a raccontarLe molte cose interessanti, compreso a quale link corrisponde il sito dell’ONU.
A parte mi soffermo su qualcosa che non balza agli occhi a prima vista. Lei pone la domanda ” come reagirà l’Ue di Macron, Scholz e Draghi alla sfida ibrida russa in pieno svolgimento”.
La risposta è breve: in nessun modo. Non reagiranno in alcun modo, perché non c’è “nessuna sfida ibrida russa”. È un’invenzione, come tutto il Suo articolo. La smetta di alimentare questo mito per entrare nelle grazie di politici russofobi. Rispetti i Suoi lettori. Gli italiani non meritano bugie così sfacciate.”
(Ambasciata della Federazione Russa in Italia e San Marino)
Talvolta qualcuno può avere la tentazione di porsi dal punto di vista (ovviamente inaccessibile) delle generazioni future che vedranno retrospettivamente il disastro contemporaneo.
Cosa vedranno?
È un gioco impossibile. Dunque giochiamolo.
Vedranno un’epoca permeata di censure inapparenti e di condizionamento sistematico, di cancellazione del passato e di ogni forma culturale ‘inappropriata’, di insofferenza per il rischio del ragionamento e del dialogo;
vedranno un’epoca in cui nel nome del Bene Universale si è schiacciata ogni decenza particolare;
un’epoca in cui nel nome del progresso tecnoscientifico si sono estinte ogni etica e deontologia della scienza;
in cui nel nome della retorica della libertà astratta si è prodotta la più grande forma di eradicazione della libertà reale, partecipativa, vissuta, di sempre;
in cui nel nome di un anticonformismo preautorizzato si sono create le condizioni per il più ottuso e punitivo dei conformismi: l’istinto di gregge delle pecore carnivore.
Ma per quest’epoca manca ancora un nome.
Candidati possibili, ma forzati sono: “L’epoca dei fascismi progressisti” o “L’epoca delle dittature progressiste”.
Ma si tratta di espressioni inadeguate, perché qui non avremo riedizioni di eventi storici noti (la storia non si ripete mai uguale) e perché non ci sarà bisogno di stravolgimenti istituzionali troppo smaccati.
No, non c’è davvero ancora un nome per quel che ci sta accadendo (che sta accadendo da almeno mezzo secolo, che dal 2008 sta accelerando, e che dall’anno scorso è in ulteriore accelerazione).
Il progresso, incarnato nell’idea di un “avanti” perfettamente vuoto, di un “di più” perfettamente inutile, è già da tempo insediato come idolo egemone. In suo nome ogni sacrificio può essere preteso.
Ed ora, in quanto idolo che chiede sottomissione, esso manifesta una crescente insofferenza per tutto ciò che è umano, troppo umano, e che perciò lo rallenta, lo impaccia (la “Antiquiertheit des Menschen” di cui parlava Anders).
Esseri umani ancora fastidiosamente vincolati ad antichi riti come la sessualità e la procreazione naturale.
Persone che ancora resistono la propria metamorfosi in pulegge e ruote liberamente trasferibili in qualunque anfratto della macchina planetaria, ove si richieda la loro manovalanza.
Comunità che non si rassegnano all’ottimizzazione di diventare centri commerciali o villaggi turistici.
Individui che invece di accettare di esprimersi facendo shopping compulsivo di gadget e uniformi firmate, manifestano ancora l’inquietante desiderio di venerare il cielo stellato sopra di noi e la vita brulicante in noi.
Tutto questo è un freno, è segno di arretratezza, è qualcosa verso cui ci viene insegnato a non aver più tolleranza: non abbiamo più tempo da perdere perché il domani ci attende, un po’ più disinfettato e un po’ più schiavo di oggi.
IDEE CON LE RADICI. Era il 2013 quando feci uscire sul mio blog, un articolo a ripresa e promozione di una vecchia idea strategica formulata a suo tempo da Alexandre Kojève, russo trapiantato in Francia, in favore di quello che lui chiamava “Impero latino”. Un articolo di Giorgio Agamben di qualche mese prima, lo aveva riportato all’attenzione. Da allora promuovo questa idea, più o meno in solitaria. Ma giovedì prossimo, qualcosa che accenna a questa idea diventerà fatto, dal momento che Macron verrà a Roma a firmare quello che pare si chiamerà “Trattato del Quirinale”, un trattato come quello di Aquisgrana firmato con la Merkel nel 2019, di “collaborazione rinforzata” tra Francia e Germania. Ma questa volta tra Italia e Francia. Vediamo meglio la faccenda.
Il primo punto è: di quale disegno fa parte questa strategia? Kojève oltre ad esser stato il più influente interprete di Hegel in quel di Francia, con famosi seminari a cui pare si formarono Raymond Queneau, Georges Bataille, Raymond Aron, Roger Caillois, Michel Leiris, Henry Corbin, Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite , Éric Weil e Jacques Lacan (ma vi passarono a volte anche André Breton e Hannah Arendt), era anche alto funzionario del Ministero di Economia e Finanza, nonché poi sospettato di esser un agente sovietico. In tale veste di alto funzionario produce nel 1945 il documento originario cui abbiamo fatto cenno, indirizzato a De Gaulle. La tesi del franco-russo era che la Francia, doveva porsi la domanda su quale sarebbe stato il suo posto nel mondo da lì in poi. Questa domanda poteva avere diverse risposte, ma prima di vedere quali, bisognava pesare la sua potenza poiché qualsivoglia gioco in ambito internazionale o geopolitico, presuppone la forza per poterle metterle in atto. La forza della Francia era costituzionalmente inadeguata quindi doveva esser rinforzata, ma come?
L’idea di Kojève che per questo motivo Agamben segnalava al tempo, era di osservare quelle che Platone chiamava: le nervature dell’essere. Platone diceva che il macellaio, nel tagliare la carne, seguiva sua segreta conoscenza delle muscolature e nervature perché non puoi tagliere ciò che tiene assieme o metter assieme ciò che non ha trama connettiva. Kojève quindi ne deduceva che le nervature dell’essere di Europa, indicavano una area culturale di relativa omogeneità all’intero della sfera latina. Era una constatazione linguistica, quindi culturale, quindi geo-storica. In un comune ambito tale definito dalla geografia che non segna ma indica, non a caso si è sviluppata una storia comune e quindi molteplici interrelazioni che hanno sedimentato una cultura comune, a partire dall’origine romana antica.
L’idea piaceva ad Agamben e debbo dire anche a me, perché consistente ovvero dotata di radici concrete e non solo volontà astratta. E la cosa aveva grande attualità perché nel 2013 così come negli anni ’90 che portarono a Maastricht, ancora fino ad oggi, le nervature dell’essere che si osservano nel pensare ai processi di formazione di potenza allargata ai confini degli storici Stati-nazione in Europa, seguivano e seguono altre nervature. Per lo più di interesse economico o come nel caso dell’asimmetrica diarchia Francia-Germania, logiche di problematico vicinato competitivo. Kojève invece, stratega geopolitico che a lungo sviluppò relazioni di pensiero con Leo Strauss e Carl Schmitt, anche quando nel dopoguerra quest’ultimo era ostracizzato dato il suo passato mischiato al nazismo, non seguiva parametri contingenti pur importanti, ma le nervature dell’essere e queste erano cultura depositata nella geostoria. Va ricordato che nel ’45, per i francesi, si trattava di capire da che parte volgersi dato che era noto si stesse formando l’alleanza di ferro anglo-americana che poi portò al Patto Atlantico. In quella alleanza, la Francia non avrebbe avuto alcun ruolo, oltre a non avere alcuna nervatura dell’essere in comune. Men che meno con la Germania.
L’idea di Kojève, quindi, era di natura prettamente geopolitica, non politica contingente o tantomeno economica, era strategica non tattica. Ed il sottostate di geopolitica è nella geostoria. Si possono far sistemi di ordine superiore con coloro con i quali c’è del pregresso “in comune”, altrimenti anche la più brillante delle strategie di convenienza, naufraga per eccesso di eterogeneità. Le ragioni che portano a far matrimonio longevo e resistente non sono della natura con cui scegliamo amici ed amiche o partner sessuali. Notoriamente, molte unioni tra soci, essendo basate sulla convenienza contingente, naufragano perché fatte per unirsi nella buona sorte, non reggono alla cattiva sorte. Pe reggere alle ingiurie della cattiva sorte, ci vogliono nervature dell’essere. Queste non garantiscono, ma la loro assenza garantisce altresì il fallimento di qualsiasi unione, come quella europea che di nervature dell’essere ne ha tante e non certo in favore di un affare a 27 stati a meno che di “affare” non si vogli dare il significato mercantile.
Se quindi l’idea apparteneva alla categoria geopolitica ovvero la politica estera da svolgere partendo dalle costituzioni geostoriche, a cosa era finalizzata nel concreto? A quale domanda doveva cercar risposta? La domanda era data dalla constatazione che la Francia era una ex-potenza, retrocessa a media potenza, la potenza dominante in Occidente era il nuovo asse anglo-americano, la Germania era a pezzi ma con i tedeschi non si sa mai, poi cerano i sovietici e sullo sfondo lontano c’erano le preoccupazioni di scenario già note ai primi del Novecento, il Giappone, l’Asia e sia mai la Cina se si fosse risvegliata come ebbe a notare Napoleone a suo tempo. Ai primi del Novecento, verso la fine della Seconda guerra mondiale, viepiù nei successivi settanta anni e così ancora oggi e in prospettiva da qui al 2050 e solo perché al 2050 le variabili esplodono e non si possono fare previsioni sensate, il quadro geopolitico è mondiale. Con grandi potenze che sviluppano grandi vantaggi competitivi e quindi forza per giocare il gioco di equilibrio in un mondo sempre più complesso. La domanda era quindi: come acquisire maggior forza da trasformare in potenza per rimanere in gioco in una ambiente sì competitivo secondo logica a cui appartiene l’argomento ovvero la geopolitica che si basa sulla geostoria?
Che si voglia pensarlo come “Impero” o Stato federale o Unione confederale o semplice poligono di relazioni privilegiate, non v’è dubbio che l’ambito latino ha consistenza geostorica, quindi potenzialmente geopolitica. Semplice.
Come si vede il ragionamento è semplice e se fosse vero che Kojève era davvero un sovietico infiltrato, risultava consistente, logica e conveniente anche per i russi poiché che la logica multipolare fosse più promettente di quella bipolare o dei deliri unipolari quali poi vedremo a fine anni ’90 con le balzane idee sul “Nuovo Secolo Americano”, era nelle cose. Un ambito latino oggi, con 200 milioni di persone, varrebbe un soggetto di buon peso, la terza economia al mondo, un seggio all’ONU con armamento atomico, molti punti di forza e senz’altro altrettanti di debolezza su cui lavorare. Ma poiché poggiato su nervature dell’essere, ci si potrebbe lavorare e potrebbe funzionare.
In questi anni, questa idea mi è toccato discuterla con schiere di avversanti. Ma il problema era che non erano avversari di idee ma di categorie. Ad esempio, coloro che ignorano la geostoria e parlano di queste cose perché si sono risvegliati da poco con qualche eccitata attenzione alla geopolitica che a loro ricorda tanto Risiko un gioco senz’altro divertente, ma che dà una falsa idea della logica geopolitica reale. Coloro che si sono svegliati di recente scoprendo il concetto di sovranità, ma non hanno strumenti culturali per declinarlo non nell’astratto ma nel concreto dei suoi vari assi. Coloro che ignorano, come molti ancora oggi continuano ad ignorare, tanto in campo “europeista” che “sovranista”, il doppio problema dell’impossibilità che l’UE diventi un soggetto geopolitico ed il problema del nanismo dello Stato-nazione europeo nato nei contesti del XVI secolo quando il mondo era tutto in Europa ed eravamo 80 milioni e non 500, il mondo era di 450 milioni e non 7,8 miliardi andanti a 9,7 nel 2050. Coloro che si sono fatti una dimensione intellettual-politica partendo dall’Unione europea che non è un costrutto di logica geopolitica, ma geoeconomica. O peggio coloro che trattano il mondo complesso partendo da un solo paio di lenti molate negli studi monetari, seguiti da quelli altri che leggono solo fatti attinenti al neo-liberismo. Poi ho incrociato mentalità per lo più tattiche che leggono qualche articolo su Internet e così pensano di poter aver voce su argomenti di strategia quando al massimo l’avranno di tattica. O quella simpatica schiera di gente che non è in grado di pensare costruttivamente e specializzati in critica trovano loro godimento nel notare solo le cose che non vanno in una strategia perché inabili a pensarne un’altra. Ad esempio “Ah ma la Francia ci vuol dominare” oppure “Ah ma il nostro Nord ha interessi strutturali con la Germania” oppure “Ah ma gli US non ce lo faranno mai fare” o anche “Ma perché dar retta a questi inciuci tra Macron e Draghi che odiamo cordialmente?” fino a quei pazzerelli che dicono “Ah no, buona idea ma va allargata a tutto il Mediterraneo”. Tutti costoro non hanno idee diverse dalle mie e da quella in oggetto, sono in categoria diverse, economiche, ideologiche, finanziarie, sottodotate culturalmente, contingenti, idealistiche, possiamo discuterne per anni ma mai ci intenderemo perché parliamo di cose diverse, che partono da presupposti diversi, in ambiti diversi, con logiche diverse.
Firmare un patto su quindici cartelle che diranno tante belle cose ma nessuna concreta, a vaghi fini di “amicizia privilegiata” può sembrar poco. Ma a chi scrive, invece, dicono che le idee hanno radici o meno e se hanno radici hanno potenzialità di germogliare e poi fiorire. In tempi di desertificazione del pensiero e dell’azione politica, non è poco.
Grecia, Turchia, Maghreb, Francia, Balcani, Libano. Con l’avanzare del multipolarismo e degli attori attivi si accavallano gli eventi con cadenze sempre più frenetiche. La fedeltà remissiva ai sistemi di alleanza non offrono più il comodo rifugio per adagiarsi su decisioni altrui. Per l’Italia l’aggressione della Libia è stato il primo più evidente campanello di allarme; altri segnali erano già partiti con l’aggressione alla Serbia, più di venti anni fa. E’ tempo, per le nostre classi dirigenti, di definire le priorità di azione e l’area entro la quale tessere un sistema privilegiato di relazioni. Apparentemente qualcosa comincia a muoversi. E’ prossimo alla firma il trattato con la Francia; ci si è accorti della crisi e degli spazi aperti nel Maghreb andando a sondare il terreno in Algeria; abbiamo riscoperto l’Albania. Non è detto però che si tratti di una rivendicazione di autonomia sul terreno della diplomazia. Dal contenuto degli accordi e dei colloqui si coglierà il discrimine su una postura più autonoma o da semplici emissari. Le tentazioni di definitiva normalizzazione atlantica nei Balcani e le voci sul contenuto del trattato con la Francia lasciano presagire poco di buono; non ci resta che confidare nella incoerenza delle condotte effettive. Una lezione di realismo politico interessante e maliziosa offerta da Antonio de Martini. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Qui sotto un articolo tratto dal sito https://www.analisidifesa.it/ Il Governo Draghi deve seguire il solco del PNRR, una delle sue ragioni essenziali di esistenza. Di Draghi, della sua caratteristica di funzionario, piuttosto che di leader politico e capo del governo, abbiamo discettato frequentemente su questo sito. L’azione politica è però fatta di singoli eventi chiarificatori. Il trattato internazionale prossimo venturo con la Francia e il possibile accordo industriale OTO/WASS di cui all’articolo in calce faranno più luce sulla missione e sull’investitura dell’attuale Presidente del Consiglio. Del primo, a pochi giorni dalla firma, non si conoscono termini e linee generali; sul secondo non mancano le riserve, tanto più che la cessione della tecnologia hardware legata all’artiglieria navale, pur secondaria in ordine di importanza rispetto all’elettronica e al software, ambito nel quale le aziende italiane primeggiano, comporta delle implicazioni sul settore siderurgico già traballante e sulla sicurezza nelle forniture in mancanza di strategie comuni, non confliggenti, tra i paesi implicati. Un problema per altro già sorto, anche se non evidenziato dalla stampa, nei rapporti di cooperazione militare e tecnologica tra Germania e Francia. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa
E’ bufera sulla cessione da parte di Leonardo della ex Oto Melara, storico produttore di cannoni navali e mezzi blindati e corazzati, e la ex WASS, società di punta nella realizzazione di siluri, equipaggiamenti e droni subacquei, dopo che è stata ufficializzata un’offerta di acquisto da parte del consorzio franco-tedesco KNDS.
Il colosso europeo nel settore degli armamenti terrestri che unisce KMW e Nexter, ha presentato a Leonardo un’offerta che si inserisce nei negoziati che da qualche settimana si susseguono tra Leonardo e Fincantieri, evidenziando il bivio strategico e industriale davanti a cui si trova l’Italia.
La notizia dell’offerta franco-tedesca, da tempo a conoscenza degli addetti ai lavori, pone il Governo Draghi davanti a una scelta che avrà ripercussioni rilevanti sull’industria della Difesa nazionale e al tempo stesso definirà le reali linee guide dell’esecutivo in termini di sovranità nazionale e di tutela del ruolo dell’Italia in Europa.
Legittima la volontà di Leonardo, azienda pubblica, di cedere le attività e gli stabilimenti ex Oto Melara di La Spezia e Brescia ed ex Whitehead Sistemi Subacquei (WASS) di Livorno, dal 2016 confluite nella Divisione Sistemi di Difesa di Leonardo.
Il gruppo di Piazza Montegrappa vorrebbe cedere le attività per rafforzarsi in Europa nel settore dell’elettronica puntando a incassare dalla vendita i 600 milioni necessari all’acquisto del 25 per cento delle azioni dell’azienda tedesca Hensoldt.
Fincantieri, azienda anch’essa a controllo pubblico e leader mondiale nella produzione di navi da crociera e militari (ma attiva anche in numerosi altri settori militari e civili), si è offerta di rilevare le attività che Leonardo intende cedere anche se per alcune settimane sono circolate voci di una difficile intesa tra le due società italiane proprio sul prezzo. Nei giorni scorsi sono circolate sui quotidiani indiscrezioni che valutano l’’offerta di KNDS addirittura tripla di quella di Fincantieri: ipotesi che fonti ben informate sentite da Analisi Difesa hanno smentito.
La differenza sembra confermata tra le due offerte ma sarebbe di circa 100 milioni o poco più per un affare dal valore compreso tra 500 e 650 milioni di euro.
La vera anomalia, tutta italiana, è che un’operazione di cessione di attività e stabilimenti che coinvolge due aziende di Stato operanti in un settore così delicato non venga gestita direttamente, preventivamente e senza troppi clamori fino alla conclusione dell’accordo dal governo che di fatto è l’azionista di maggioranza di entrambi i gruppi.
Si presume che la volontà di Leonardo di dismettere alcuni rami di attività (anche DRS negli Stati Uniti) per rafforzarsi in altri sia nota e condivisa dall’esecutivo così come l’opportunità di potenziare Fincantieri che con Oto Melara e WASS si rafforzerebbe sensibilmente nel settore navale entrando in quello degli armamenti terrestri e munizionamento avanzato.
Inoltre dovremmo considerare quanto meno auspicabile la volontà del governo di mantenere la proprietà italiana e pubblica degli stabilimenti e delle capacità delle due aziende. Mantenere all’interno del perimetro industriale nazionale aziende leader come OTO e WASS significa infatti salvaguardare nel tempo capacità produttive, posti di lavoro e competitività sui mercati.
Per queste ragioni il dibattito sull’offerta straniera e sul “chi offre di più” risulta anomalo e poteva tranquillamente venire evitato gestendo nei ministeri appropriati l’intera vicenda, garantendo gli interessi di entrambi i gruppi industriali nazionali e quindi dello Stato.
A meno che non si voglia politicamente cogliere la palla al balzo per avviare, sull’onda del dibattito sull’offerta straniera finanziariamente più ricca, la svendita dell’industria italiana ad alta tecnologia di valore strategico.
E’ infatti di tutta evidenza che cedere le ex Oto Melara e WASS ai franco-tedeschi significa consentire ai nostri rivali europei di acquisire il know-how e le eccellenze nazionali in settori strategici col rischio che entro qualche anno gli stabilimenti italiani vengano chiusi per concentrare la produzione in Francia e Germania.
Per qualche centinaio di milioni vale forse la pena cedere a stranieri l’azienda leader nel mondo nei cannoni navali soprattutto ora che è stato validato il rivoluzionario munizionamento intelligente a lungo raggio Vulcano per cannoni navali da 127 mm e terrestri da 155mm?
Ha forse un senso cedere ai nostri competitor un’azienda che con i suoi siluri hi-tech compete nel mondo proprio con aziende francesi e tedesche in questo mercato ad alto valore strategico?
E’ vero che sul fronte dei mezzi corazzati Oto Melara non è più da tempo competitiva ma rivitalizzarla, come intende fare Fincantieri per inserirla all’interno di progetti di cooperazione europea come il carro armato franco-tedesco MGCS o il nuovo cingolato da combattimento è cosa ben diversa dal cederla alla concorrenza.
Nei grandi programmi europei l’Italia può entrare da protagonista, più ad alto profilo nel settore navale, certamente con meno pretese in quello terrestre, ma mentendo sovranità, impianti produttivi e maestranze qualificate.
Oppure, in alternativa, l’Italia può entrarci con la cessione di interi rami industriali determinando così la nascita dell’Europa della Difesa non su una base di cooperazione ma rafforzando l’egemonia franco-tedesca e favorendo l’assimilazione della nostra industria a quelle delle due maggiori potenze continentali.
Probabile che dell’affare Oto Melara/WASS abbiano parlato ieri Draghi e Macron e non c’è dubbio che l’esecutivo italiano sia oggi chiamato a mostrare un preciso indirizzo in termini di tutela degli interessi strategici nazionali.
Specie in un contesto in cui ben poca chiarezza è stata fatta finora circa l’accordo strategico bilaterale in fase di definizione con la Francia il cui dossier è gestito dal Quirinale.
Il ritornello della cessione di sovranità necessaria nel nome dell’Europa risulta infatti oggi quanto meno fuori luogo: basti ricordare dopo anni di trattative Parigi si è rifiutata di cedere il controllo dei Chantiers de l’Atlantique (STX) all’italiana Fincantieri mentre non aveva avuto difficoltà a cederne per anni il controllo a un partner sudcoreano.
Per comprendere poi con quale spirito di amicizia, cooperazione e “fratellanza europea” i francesi considerino le aziende italiane e il loro peso sul mercato è sufficiente leggere cosa ha scritto recentemente il quotidiano economico La Tribune, vicino all’industria della difesa d’OItralpe, che lamenta l’aggressività e i successi commerciali di Fincantieri nel settore delle navi militari come un grosso ostacolo e un temibile rivale per la cantieristica francese.
Difficile immaginare oggi che Parigi e Berlino siano disposti a cedere a gruppi italiani il controllo di aziende hi-tech, del settore della Difesa o meno.
Nell’intera operazione Oto/WASS inoltre, risulterebbe arduo giustificare come conveniente per gli interessi nazionali la cessione degli stabilimenti italiani a un consorzio straniero per consentire in cambio all’azienda italiana che li pone in vendita di acquisire un quarto delle azioni di un’industria elettronica tedesca.
Sulla necessità di fare chiarezza e di mantenere le ex Oto Melara e WASS “italiane e pubbliche” si sono espressi in questi ultimi giorni tutti i sindacati e quasi tutti i partiti: per prima la Lega seguita poi da Partito Democratico, Forza Italia, Italia Viva, Coraggio Italia e Fratelli d’Italia.
Sulla stessa linea il governatore della Liguria, Giovanni Toti, mentre nel governo sono emerse finora solo le voci dei due sottosegretari alla Difesa. Stefania Pucciarelli (Lega) ha affrontato per prima la questione, l’11 novembre, sottolineando la necessità che “dall’ipotesi di vendita non debba derivare la consegna della proprietà nelle mani di imprese straniere”.
Giorgio Mulè, parlando oggi a Sky Tg24, si è espresso a favore della vendita a Fincantieri per “dare quella spinta che eviti ad un’azienda nazionale e strategica di finire in mano franco-tedesche”.
Due leader in difficoltà ai due lati del Pacifico, ma uno di essi messo decisamente peggio. Un ceto politico che si dimena con sprezzo del ridicolo riuscendo a trasformare le proprie vittime designate in martiri al culmine della popolarità. Un tentativo di recupero dei consensi nella vecchia base elettorale con il rilancio di una politica estera della “working class” che pare una riproposizione in un contesto inidoneo della geopolitica degli anni ’90. Una classe dirigente tentata a contrabbandare qualche concessione nell’immediato con la rinuncia strategica in un contesto multipolare, specie quello indo-pacifico, nel quale sono numerosi e potenti gli attori in grado di condizionare le scelte. Una crisi interna che è prossima a rinunciare anche alle ultime certezze, come nella gestione della pandemia. Nel mezzo alcuni giochi inquietanti e pericolosi, difficilmente controllabili, in corso nei laboratori americani. Rischiamo un’altra Wuhan, questa volta a stelle e strisce? Buon ascolto_Giuseppe Germinario
La retorica europeista non riesce più a coprire le mancanze e le incongruenze di una organizzazione comunitaria che vorrebbe atteggiarsi ed essere riconosciuta come istituzione statale quando, in realtà, è un apparato amministrativo figlio di trattati che regolano in qualche maniera le dinamiche geopolitiche tra gli stati nazionali europei e soprattutto tra questi e gli Stati Uniti. Quando le questioni regali, proprie delle prerogative sovrane degli stati emergono, immediatamente vengono alla luce le ambiguità e il peccato di origine della Unione Europea. Lo squilibrio tra chi intende mantenere le proprie prerogative e chi, tra questi l’Italia, riesce inopinatamente a rinunciarvi in nome di un lirismo sterile è destinato ad accrescersi ai danni di questi ultimi. La UE è uno strumento di depotenziamento del concerto europeo e a lungo andare una incubatrice di conflitti tanto più perniciosi quanto più rimossi. La rinuncia, anzi la constatazione dell’impossibilità di un qualsiasi ruolo assertivo nelle situazioni di crisi sempre più frequenti ed improvvise trova giustificazioni ormai al limite del patetico. L’imperdonabile ritardo scientifico e tecnologico manifestatosi con la crisi pandemica e la trasformazione digitale in corso viene rimosso con il rifugio consolatorio nella primigenia fasulla della determinazione regolatoria di quei mercati e di quelle emergenze. Al ritardo nelle tecnologie legate alla difesa dell’ambiente e alla diversificazione energetica si reagisce con fughe in avanti foriere di crisi e dissesti esattamente proporzionali alla negazione dei necessari tempi di transizione e di costruzione di una propria capacità industriale. Sarà drammaticamente tardi quando ci si accorgerà di essere vittime del proprio stesso bluff. Buon ascolto_Giuseppe Germinario