Gli intellettuali e FB, di Vincenzo Costa

Gli intellettuali e FB
Un caro amico, ma di quelli proprio cari che si conoscono da almeno trent’anni, dice di non accettare dibattiti su FB, che i luoghi del dibattito sono altri: libri, articoli, etc. Premesso che la libertà di ognuno è insindacabile e che l’amicizia viene prima di ogni giudizio politico, resta che questa tesi è – secondo me- aristocratico-reazionaria, per diverse ragioni che investono la nozione stessa di cultura nel mondo della vita mediatizzato:
1) la filosofia europea inizia nelle piazze, che corrispondono a quella piazza virtuale che è oggi FB e gli altri social. Socrate poteva anche non andarci.
2) i social hanno mille limiti e altrettanti pericoli, ma sono ormai l’ambiente entro cui si muovono i flussi culturali.
3) quel criterio esclude dalla circolazione del senso tutti, lo limita a quattro gatti. Alla fine per partecipare al dibattito bisigna aver letto per anni la Logica di Hegel e tutto Adorno in tedesco.
4) i social sono un potente correttivo all’intellettualismo, come lo sono le lezioni per gli studenti. Mentre tra studiosi si fa in fretta a perdersi dietro a intenzionalità, contraddizione dialettica etc. nei social e a lezione non puoi bleffare: devi essere chiaro, per cui rappresentano un luogo di pulizia concettuale.
5) la circolazione delle idee e la riflessività sono cambiata nelle società contemporanee, avvengono per “diffusione” (qui sono oscuro, vero, ma credo si capisca): i concetti si diffondono come un’epidemia, attraverso criteri di rilevanza dettati dalle urgenze del presente.
6) ovviamente i social non sono un luogo privilegiato. Senza libri, articoli, luoghi deputati a discussioni più a grana fine saremmo più poveri, ma i social sono sorgente genuina di nuove idee, permettono lo scambio e la circolazione del senso tra mondo della vita e sistema culturale, e senza di essi questa circolazione si interrompe e il sistema culturale diventa autoreferenziale e inutile.
7) quell’idea è difensiva: ha paura dell’esposizione, di rischiarsi nel fuoco della piazza. Alla fine crea una nicchia di significato, in cui si riconosco gli adepti, e così concetti tutt’altro che definiti e che forse sono scemenze senza capo né coda diventano categorie interpretative della realtà.
8 ) c’è molta molta spocchia in quella posizione, della serie: non discuto con voi merdacce, se volete leggete i miei libri. Ecco, questo proprio no, questo è- per come intendo io la cultura e la sua funzione- inaccettabile.
9) alla base c’è forse l’aristocratismo Francofortese, la sua incapacità di comprendere la nozione di cultura popolare, ma questo richiederebbe davvero se non un libro almeno una serie articolati di post.
10) la verità è che FB è faticoso, se si cerca di usarlo come luogo di circolazione del senso, e certo ognuno di noi è già gravato da tante cose. E tuttavia, dato il sistema mediatico esistente, rappresenta l’unico spazio di intersoggettivita’ discorsiva, l’unico luogo di incontro e di scambio di idee. Poi chiaro che ci sono momenti in cui diviene necessario prendersi delle pause, ma questo deriva solo dai limiti di tempo e di energia.

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Africa, prima la politica_di Bernard Lugan

In Africa, a sud del Sahara, la costruzione degli Stati precoloniali era basata sull’etnicità.
Quando hanno portato a gruppi multietnici, in genere non hanno avuto successo.
Di fatto senza futuro. I controesempi sono rari: l’entità dei Toucouleur e alcuni imperi musulmani nati dalla jihad, esempi che hanno avuto successo.
Imperi musulmani nati dalla jihad, che sono stati in effetti dei parziali “agglomeratori” o “coagulatori” etnici.
Oggi, a sud del Sahara, con le tre eccezioni di Botswana, Lesotho ed Eswatini (ex Swaziland), tutti e tre monoetnici e dove quindi c’è confusione o osmosi tra etnia, nazione e Stato, non esiste un unico gruppo etnico, nazione e Stato, non c’è stata coagulazione etnica da nessuna parte.
L’Etiopia fa eccezione per la sua profondità storica, ma il divario etnico è così profondo che non è stata egualmente in grado di raggiungere lo stesso livello di coesione.
Le divisioni etniche sono così profonde da minacciare permanentemente la sua coesione, come ha appena dimostrato l’ultima guerra in Tigray.
Gli attuali sviluppi politici, che avvengono attraverso un rifiuto sempre più marcato del “modello democratico occidentale”, dimostrano che il futuro è in un sistema in cui la rappresentanza dei gruppi piuttosto che degli individui. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale perché, in ultima analisi, sono i fondamenti filosofici delle società democratiche “occidentali” a essere messi in discussione.
Ma la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana dipende da questo, e non può più essere messa in discussione. La posta in gioco è la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana, che non può più continuare a determinarsi secondo questi imperativi morali stranieri che la stanno lentamente uccidendo?

IL QUADRUPLICE PROBLEMA POLITICO
DELL’AFRICA

Nel 1968, Georges Balandier scriveva che: “(…) i nuovi Stati africani [hanno] il compito di realizzare rapidamente e allo stesso tempo (rivoluzioni) che la storia aveva scaglionato nel tempo [devono] reintegrarsi in una società che si è organizzata al di fuori di loro […]”. Questa osservazione evidenzia chiaramente i problemi politici che l’Africa indipendente dovette affrontare.

I quattro problemi principali che l’Africa deve affrontare sono:
1) La questione della trasposizione delle istituzioni politiche occidentali che ha causato il caos in Africa.
La ragione di ciò è che in Africa, dove l’autorità non è condivisa, l’autorità non è condivisa; si è proceduto senza alcuna preventiva creazione di contro-poteri con la conseguenza che la modalità di rappresentanza e di associazione al governo dei popoli minoritari li ha condannati dalla matematica elettorale ad essere esclusi dal potere per l’eternità.
2) L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa perché, in un caso, l’ordine sociale si basa sugli individui e nell’altro sui gruppi. Tuttavia, il principio “un uomo, un voto”,
vieta di prendere in considerazione l’unica realtà politica africana, che è la comunità.
3) Gli Stati sono gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali che sono alla base delle vere radici umane.
4) I confini tracciati dalla colonizzazione sono sconosciuti e spesso incomprensibili. a livello locale. È importante rendersi conto che nell’Africa antica, i territori dei popoli
e che non si usciva dalla propria casa per entrare subito nella casa del vicino.
Tra i nuclei nucleari territoriali esistevano vere e proprie “zone cuscinetto”, che a volte si spostavano, appartenenti a nessuno dei due. In alcuni casi, questi spazi potevano essere attraversati da entrambe le parti da una parte o dall’altra. Altrove, erano il dominio degli spiriti in cui ci si poteva avventurare solo sacrificando a loro.
Le frontiere hanno anche distrutto, in modo irrimediabile, l’equilibrio interno delle grandi aree di allevamento dove la millenaria transumanza è stata interrotta dalla suddivisione degli spazi.
I confini hanno anche fatto sì che le persone siano state tagliate fuori da queste linee di demarcazione artificiali. Altrove, la colonizzazione ha altrettanto artificialmente riunito un mondo che era stato frammentato in numerose entità etniche, tribali o di altro tipo, addirittura di villaggio, al fine di renderle amministrativamente coerenti, ma che non avevano alcuna vocazione a diventare Stati.
Gli ex colonizzatori erano ben consapevoli di questi quattro
problemi nell’Africa sud-sahariana. Ecco perché, per tre decenni, dal 1960 al 1990, la priorità è stata costruire o rafforzare gli Stati. Poiché bisognava bruciare le tappe, gli Stati africani che erano emersi dalle divisioni coloniali hanno preso la “scorciatoia autoritaria”.
Per questo motivo, di norma, il partito unico si identificava con lo Stato che doveva essere essere creato. I particolarismi etnici erano allora combattuti e persino negati come potenziali fattori di divisione e indebolimento dell’edificio statale emergente.
Questa realtà ha dominato per tutto il periodo della “guerra fredda”, che per l’Africa corrispondeva al periodo della sua indipendenza.
Durante questa sequenza di confronto ideologico, la priorità per entrambi i blocchi è stata quella di mantenere le loro posizioni in Africa e quindi lo status quo politico era ricercato attraverso regimi forti su cui entrambe le parti potevano contare.
Poi, negli anni Novanta, dopo la scomparsa del blocco sovietico e di fronte ai fallimenti dell’Africa in campo politico, economico e sociale, la questione del potere è stata sollevata.
Nel 1990, in occasione della Conferenza franco-africana di La Baule, il presidente François Mitterrand affermò che l’Africa indipendente era fallita per mancanza di democrazia, e condizionò l’aiuto francese all’introduzione di un sistema multipartitico.
Il continente è stato quindi sottoposto a un vero e proprio “diktat democratico” che ha portato alla caduta del sistema o alla sua ridefinizione e, di conseguenza, all’indebolimento degli Stati che erano stati costruiti con tanta fatica.
Il risultato è stato che in tutta l’Africa francofona il crollo del sistema monopartitico ha portato a una cascata di crisi e guerre, con il multipartitismo che ha aggravato la situazione. Il sistema multipartitico ha esacerbato l’etnismo e il tribalismo che erano stati contenuti e incanalati dal partito unico.
partito. Il risultato è stato il trionfo dell’etnomatematica elettorale, con la vittoria delle etnie più numerose sulle meno numerose.
Il principale problema politico che l’Africa sud-sahariana deve affrontare è in definitiva chiaro. A non lasciare che le forze motrici della storia africana, non riuscendo a ritrovare il dinamismo perso con la colonizzazione.
Si tratta di trovare un modo istituzionale per permettere la convivenza etnica in modo che i popoli più numerosi non siano automaticamente i detentori di un potere matematico scaturito dalle urne.
La soluzione potrebbe quindi essere cercata in un sistema in cui la rappresentanza vada ai gruppi e non più ai singoli. Ma perché ciò avvenga, sarebbe importante ripudiare il sistema occidentale basato sul principio democratico di “un uomo, un voto”.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO DI SETTE
DECENNI DI “SVILUPPO

Più di settant’anni di politica di “sviluppo” si sono tradotti in un totale fallimento in Africa per tre ragioni principali; tutte e tre legate alla proiezione di ideologie “occidentali” su un corpo sociale che è antropologicamente impossibilitato ad assorbirle”.
Le tre ragioni principali sono
1) Il primato dato all’economia.
In tutti i modelli proposti o, più precisamente, imposti all’Africa sud-sahariana, l’economia è sempre stata messa in primo piano. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, con l’obiettivo di integrare l’Africa nell’economia globale, hanno cercato di costringere i paesi africani alla deregolamentazione, alla privatizzazione e alla liberalizzazione.
I veri problemi del continente non sono fondamentalmente economici, ma politici, istituzionali e sociologici. Il primo errore di questo mezzo secolo perduto è quindi quello di avere sempre dato la priorità all’economia, come hanno fatto e continuano a fare tutti i progetti di sviluppo, mentre ci troviamo prima di tutto di fronte a un evidente problema politico.
2) Il rifiuto di prendere in considerazione la nozione di differenza.
Le nostre definizioni universalistiche ci impediscono, anzi ci vietano, di vedere l’evidenza della differenza. Gli africani non sono poveri europei dalla pelle scura. Ed è perché il corpo sociale africano non è quello dell’Europa o dell’Asia, che l’innesto non è avvenuto.
Come se un giardiniere che insiste nell’innestare un albero di prugne su una palma si stupisce che nonostante le montagne di fertilizzante versate su di esso, la sua operazione non riesca.
Le ricette utilizzate in Asia e altrove hanno fallito in Africa semplicemente perché abbiamo un caso comprovato di incompatibilità delle colture. Quindi non è continuando ad affogare gli africani negli aiuti e nei sussidi che alla fine finiranno per assomigliare agli europei, agli asiatici o agli americani.
3) Il presupposto democratico.
Durante gli anni Novanta si è ipotizzato che lo sviluppo fosse fallito a causa della mancanza di democrazia.
Di conseguenza l’Africa è stata sottoposta a un vero e proprio “diktat democratico”.
Il risultato è stata la matematica elettorale, con il potere automaticamente assegnato
ai gruppi etnici più numerosi, che ho definito etno-matematica.
In Africa, dove la questione preliminare non è economica ma politica, gli esperimenti costituzionali importati sono quindi falliti. Non sono al passo con le realtà continentali, non permettono ovviamente ai diversi gruppi etnici che compongono gli Stati risultanti dalle divisioni coloniali di convivere in un’armonia sociale che integri le nozioni contraddittorie di unità di destino e di rispetto delle differenze.
Infatti, in Africa, l’autorità non è condivisa e l’idea di contropotere è sconosciuta.
In queste condizioni, gli Stati emersi dalla decolonizzazione non sono stati in grado di inventare uno strumento di rappresentazione o di associazione dei popoli minoritari.
Tolti dal potere, questi ultimi non hanno altra scelta che sottomettersi o ribellarsi.
Tra sottomissione o rivolta, nozioni che non sono molto portatrici del potenziale di fusione nazionale.
È per questo che i giovani Stati africani non sono stati in grado di trasformarsi in nazioni come avevano postulato gli ex colonizzatori.
Il fallimento era stato addirittura previsto e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Costruiti entro confini artificiali che imprigionano popoli diversi senza un passato comune,
questi Stati non sono altro che gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali
che sono il fondamento delle vere radici. Inoltre, l’idea di nazione non è una realtà.
L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa, poiché in un caso l’ordine sociale è basato sugli individui e nell’altro sui gruppi.

Tuttavia, il principio europeo-americano di “un uomo, un voto”, vieta precisamente di prendere in considerazione la grande realtà politica africana costituita da gruppi (etnie, tribù, clan o stirpi).
La soluzione non è ovviamente economica e non comporta un nuovo e inutile aumento degli aiuti. Non è nemmeno sociale o sanitaria, perché l’auspicabile miglioramento delle condizioni di vita non affronta le cause del disastro.

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Onestà: Cosa ci guadagno?_di AURELIEN

Onestà: Cosa ci guadagno?
Prima di tutto, fare molto male.

AURELIEN
10 MAG 2023

Molto tempo fa, in un contesto politico e sociale molto lontano, stavo affrontando un brutale processo di selezione per individuare un gruppo di giovani idonei a concorrere per i Top Jobs nel settore pubblico del Regno Unito, ai tempi in cui esistevano i Top Jobs, in cui valeva la pena averli e in cui le persone che li ricoprivano erano degne di rispetto ed emulazione.

A un certo punto, sono stato intervistato da quel tipo di vecchio e saggio funzionario pubblico in pensione che non esiste più e che mi ha posto una serie di domande standard, una delle quali era: “Che cosa rende un buon funzionario pubblico? Ho dato una risposta altrettanto standard, se ricordo bene, elencando le ovvie qualità di competenza, neutralità, discrezione e una serie di altre cose che non sono più apprezzate.

“Non hai dimenticato una cosa?”, mi chiese con aria interrogativa. Devo aver avuto un’aria un po’ smarrita, perché ha subito aggiunto. “Intendo l’integrità”.

“Lo davo per scontato”, risposi: una risposta che, se all’epoca era perfettamente ragionevole, oggi sarebbe probabilmente accolta con derisione e incomprensione. Quella risposta non mi impedì di vincere il concorso (non che alla fine mi sia servita a qualcosa), ma la piccola vignetta mi ha accompagnato per tutta la vita, mentre assistevo, prima dall’interno e poi dall’esterno, alla distruzione del servizio pubblico nella maggior parte dei Paesi occidentali, e in particolare alla fine della presunzione che l’integrità sia la sua caratteristica fondamentale. (È per questo che la parola “servizio” è stata usata nel suo senso tradizionale, non nel senso moderno di prendere soldi dalle persone per rimuovere un ostacolo che avete messo sulla loro strada).

Naturalmente, il servizio pubblico di qualsiasi Paese è inserito in un contesto più ampio e dipende da movimenti politici più grandi. Sappiamo tutti quali sono stati, dopo l’abolizione della società da parte di una certa M. Thatcher, e non ha senso in questa sede lamentarsi ancora una volta della disastrosa caduta degli standard della vita pubblica nella maggior parte degli Stati occidentali, e della trasformazione del servizio pubblico in un’altra via per fare soldi. Voglio affrontare un punto piuttosto diverso e più interessante: cos’è che promuove l’onestà e l’integrità in primo luogo, e cos’è che la distrugge? La seconda è forse più facile da rispondere, ma la prima è più interessante, anche perché credo che la nostra società non capisca più il significato e l’importanza della domanda, e ancor meno la risposta. Ecco quindi un tentativo di spiegare la corruzione e la disonestà e perché sono diventate un grande problema nelle società occidentali.

Per iniziare, invochiamo di nuovo l’ombra di Max Weber. Weber scrisse notoriamente di “burocrazia”, codificando di fatto la moderna concezione di essa come sistema decisionale razionale, prevedibile e gerarchico. Per il nostro scopo, però, voglio concentrarmi su un aspetto particolare, quello dell’onestà. Weber disse molto chiaramente che il servizio pubblico è una “vocazione”. (Usava il termine tedesco Beruf). Egli distingueva molto chiaramente il servizio pubblico da “una fonte da sfruttare con rendite o emolumenti, come avveniva normalmente nel Medioevo” (e in seguito, si potrebbe aggiungere). La lealtà del funzionario non era verso un individuo, ma verso una funzione e verso valori culturali impersonali, e questa lealtà è ricompensata con la sicurezza del posto di lavoro, a differenza delle epoche precedenti in cui i favoriti potevano essere nominati e licenziati a piacimento del sovrano. C’è, almeno idealmente, una totale separazione tra gli interessi privati dell’individuo e le esigenze del lavoro, proprio come tra lo stipendio del funzionario e il denaro pubblico che potrebbe passare per le sue mani.

Come illustra Weber, non è sempre stato così. Tradizionalmente, individui ambiziosi (anche se non necessariamente talentuosi) si contendevano posti di lavoro lucrativi sotto il patrocinio del sovrano o di qualche figura subordinata. Così, dopo un sacco di intrighi e di leccapiedi, potreste ottenere il posto di Assistente del Controllore del Commercio in una città su un fiume, responsabile della riscossione dei dazi doganali. Poiché il vostro lavoro potrebbe scomparire la settimana successiva, fareste ogni sforzo per guadagnare il più possibile dalla vostra posizione, attraverso tangenti ed estorsioni. In sostanza, prima del XIX secolo, il governo era quasi completamente privatizzato: persino gli eserciti erano spesso ciò che oggi chiameremmo Compagnie Militari Private, con reggimenti che passavano dal servizio di un sovrano all’altro. Perché questo cambiamento? Ci sono innanzitutto una serie di ragioni puramente meccanicistiche. Una di queste è che la modernizzazione dello Stato richiedeva di fatto la sua professionalizzazione. La modernizzazione poteva essere frenata per un po’, come nella Francia pre-rivoluzionaria, ma alla fine gli Stati moderni avrebbero trionfato su quelli premoderni. Una seconda ragione fu l’ascesa al potere politico di una classe media liberale, che chiedeva leggi e procedure chiare e inequivocabili per regolare il commercio e una burocrazia onesta per farle rispettare. (C’è un’enorme ironia nascosta in questo sviluppo, su cui torneremo).

Ma la vera ragione, a mio avviso, è nascosta nella parola “vocazione”. Questa parola, che deriva dal latino vocare “chiamare”, è correlata a “vocale”, “vocabolario” e ad altre parole simili. In inglese moderno diremmo “calling”, che è una traduzione letterale. Ora, i sacerdoti di tutte le religioni si sono generalmente sentiti “chiamati” al sacerdozio, ma in alcune tradizioni il concetto ha anche una dimensione secolare. Soprattutto nella tradizione protestante, con la sua enfasi su un rapporto diretto e non mediato tra Dio e l’individuo, una “vocazione” era effettivamente un’istruzione da parte di Dio sul ruolo che dovevate svolgere in una società, e che avreste fatto bene a seguire. Weber ha erroneamente identificato questa vocazione protestante con l’ascesa del capitalismo: oggi diremmo che fu piuttosto la nuova classe mercantile a trovare favorevoli certi tipi di protestantesimo e ad adottarli, ma Weber aveva ragione a indicare una relazione tra le due cose.

Una vocazione è qualcosa che non si fa per denaro e da cui non ci si allontana. Promuove la serietà della vita e la dedizione a obiettivi che vanno oltre la propria prosperità e il proprio successo. Anche se la credenza nella religione formale cominciò a indebolirsi, queste abitudini mentali resistettero e divennero parte dell’arredamento intellettuale di molte società, soprattutto nel Nord Europa. Ma ci furono anche esempi paralleli. In Francia, ad esempio, la Repubblica, con la sua etica ferocemente laica, era l’equivalente di una vocazione religiosa e molti giovani brillanti seguivano la vocazione di insegnante, spesso una figura isolata e impopolare in un villaggio di campagna, perennemente in lotta con il curato locale, che predicava che l’istruzione era contro la volontà di Dio. All’altro capo del mondo, in Giappone, con la sua tradizione confuciana e il ritorno della capitale nella città imperiale di Edo (Tokyo), sembra essersi sviluppato un ethos simile. Ma che si tratti dei postumi della religione, della superiorità confuciana degli studiosi rispetto ai mercanti, del senso di servizio nei confronti di un re o di un imperatore, del disprezzo per il “commercio” o di una mezza dozzina di altre cose, una mentalità di servizio a un bene più grande, e in ultima analisi al pubblico, aveva preso piede in molti Paesi quando Weber scrisse il suo studio sulla burocrazia. È stato questo ethos – spesso vagamente monastico e leggermente puritano – a sostenere lo sviluppo economico e politico dell’Occidente. In modo piuttosto diverso, l’Unione Sovietica ha funzionato così bene solo grazie a una cultura molto forte di servizio (spesso non retribuito) al Partito, che ha iniziato a disintegrarsi verso la fine, a favore della corruzione e del carrierismo. Anche i Talebani, e in misura minore lo Stato Islamico, erano rispettati per la loro relativa onestà in un mare di corruzione.

In tutto questo, naturalmente, manca qualcosa: l’ego. Più precisamente, non si entrava nel servizio pubblico per diventare ricchi, potenti o famosi. La tradizione in molti Paesi era quella di essere piuttosto distaccati, di evitare di esprimere opinioni forti e di dare priorità al lavoro svolto rispetto a qualsiasi ricompensa personale. Il carrierismo palese tendeva a essere disapprovato. Per definizione, tutti i funzionari pubblici, tranne quelli più anziani, erano anonimi: il ministro poteva ricordarsi di ringraziare l’autore di un discorso particolarmente apprezzato, ad esempio, ma poteva anche non farlo. Sebbene esistano molte varianti, la ricerca della ricchezza, della fama e dello status da un lato, e la responsabilità di mandare avanti il Paese dall’altro, erano delimitate abbastanza chiaramente l’una dall’altra, a volte anche da leggi. Molto occasionalmente, venivano introdotte persone dall’esterno, il sistema di gabinetto continentale di consiglieri personali confondeva queste distinzioni ai vertici, e al momento del pensionamento gli alti funzionari potevano eventualmente andare a lavorare nel settore privato, ma si trattava di sfumature.

La caratteristica principale di queste organizzazioni, anche al di sopra della competenza e della buona gestione in generale, era l’integrità, senza la quale i governi non possono funzionare. Ma l’integrità era una cultura e non, criticamente, un insieme di regole. Ricordo di essere stato sorpreso, da giovane funzionario pubblico, dall’attenzione minima prestata ai controlli formali e alle misure anticorruzione. Ma in quasi tutti i casi si trattava di affrontare un problema che quasi non esisteva, in parte per motivi culturali e in parte per motivi pratici, sui quali tornerò. Nei decenni successivi si è assistito sia a un massiccio aumento dei controlli formali sia a una crescente tendenza alla corruzione, e nessuno si sorprenderà di sapere che il primo ha largamente preceduto il secondo.

La creazione e il mantenimento di un settore pubblico onesto è quindi una cosa misteriosa, che dipende in larga misura da concetti che ci sembrano obsoleti o addirittura reazionari: essi possono includere, a seconda dei casi, la solidarietà di gruppo, il rispetto per la tradizione, il rispetto per la gerarchia e l’esperienza, il servizio a un’ideologia politica, il disgusto per l’ambizione personale, l’identificazione con una causa superiore. Soprattutto, come sarà evidente, non hanno alcun legame con l’ideologia liberale che ha dominato il pensiero dell’ultima generazione, anzi sono antitetici a essa.

Rimaniamo su questo pensiero per un momento. Il liberalismo riguarda esclusivamente l’individuo: anche una società liberale riguarda una società di individui e il modo in cui bilanciare i loro interessi contrastanti. Il liberalismo è il perseguimento razionale dell’autonomia individuale e della libertà finanziaria, senza tener conto delle conseguenze per gli altri e con le sole limitazioni specificamente prescritte dalle leggi. Inoltre, il liberalismo considera lo Stato un fastidio e idealmente vorrebbe che le sue funzioni fossero ridotte al minimo assoluto di protezione della proprietà e di applicazione del diritto contrattuale. Questa ideologia non lascia spazio all’onestà come concetto, ma solo a un comportamento conforme alla lettera di un insieme di regole. Non si chiede Cosa devo fare, ma piuttosto Cosa posso fare? Come vedremo, non può promuovere e mantenere alcun comportamento moralmente onesto, se non attraverso la paura.

Eppure, si potrebbe obiettare, il liberalismo è stato una potente forza politica durante la creazione dello Stato moderno in Europa. Come poteva il liberalismo, con la sua etica di egoismo radicale, conciliarsi con l’idea di un apparato statale gestito sul principio dell’integrità e dell’identificazione con il bene collettivo? Credo che la risposta sia che si trattava di una questione di sopravvivenza. In Gran Bretagna, nonostante il potere delle idee liberali, l’élite politica stava subendo lo shock della concorrenza industriale tedesca e il disastro della guerra di Crimea. Era ovvio che quello che era essenzialmente uno Stato medievale, profondamente corrotto e irrimediabilmente inefficiente, doveva essere sostituito da uno Stato moderno se il Paese voleva sopravvivere e prosperare. I nostromi liberali sul governo limitato andavano bene, ma non quando mettevano a repentaglio la prosperità e il successo delle stesse classi liberali. Il risultato fu la riforma del Rapporto Northcote-Trevelyan del 1854, che creò il primo Servizio Civile moderno del mondo occidentale, le cui norme etiche e culturali non solo sono rimaste in vigore in Gran Bretagna fino agli anni ’80, ma hanno influenzato anche molti altri Paesi.

Iniziò così il paradosso essenziale della sopravvivenza di un settore pubblico onesto ed efficace in uno Stato liberale che apparentemente venerava solo il miglioramento finanziario e personale dell’individuo. Per generazioni, i politici e gli opinionisti liberali hanno inveito contro la “burocrazia”, pur aspettandosi che i loro affari fiscali, ad esempio, fossero gestiti in modo onesto e competente, che i loro contratti fossero applicati da giudici che risolvevano le questioni in modo spassionato e che le loro case fossero protette da un servizio di polizia che non prendeva tangenti. Questa ipocrisia organizzata, che tuttavia consentiva il funzionamento di un servizio pubblico onesto e competente, ha iniziato a crollare solo negli anni Ottanta. Inoltre, l’esperienza di due guerre aveva fatto emergere con forza stucchevole la necessità e i vantaggi di uno Stato moderno ed efficace, e sia la tradizione di servizio pubblico delle classi superiori, sia la paura del lavoro organizzato e della sinistra politica, rafforzarono l’idea che uno Stato moderno non fosse poi una cattiva idea, anche se svolgeva più funzioni di quelle che John Locke avrebbe necessariamente approvato. (Detto questo, cinquant’anni fa non sono sicuro che qualcuno avrebbe creduto che i politici potessero un giorno escogitare una tale marcia indietro forzata verso il Medioevo).

Il liberalismo è quindi bloccato da questo paradosso fondamentale: una filosofia politica di radicale individualismo ed egoismo può prosperare solo in una società gestita quotidianamente da persone che non accettano i principi liberali e che i liberali stessi disprezzano. I liberali non vogliono vivere in una società in cui l’ispettore delle tasse o il poliziotto si aspettano di essere pagati per fare il loro lavoro, ma il liberalismo stesso non contiene alcun argomento razionale sul perché queste persone dovrebbero essere oneste. Anzi, si potrebbe andare oltre, e dire che la disonestà e la corruzione dovrebbero essere tranquillamente riconosciute come caratteristiche principali e inevitabili di una società liberale, perché rappresentano ciò che accade quando gli individui decidono di perseguire razionalmente il proprio bene privato. Se sono un ispettore fiscale in una società liberale, allora è del tutto ragionevole e logico che io sfrutti questa situazione per ottenere tutti i vantaggi privati che posso. Non ha senso parlarmi del bene pubblico e della necessità di riscuotere le tasse in modo equo. Il liberalismo non riconosce il bene pubblico, se non come sintesi contestata dei beni privati, quindi rispondo: “Perché dovrei essere onesto? Cosa ci guadagno? E la risposta, ovviamente, è: niente. Tutto ciò che il liberalismo può fare è sventolare un libro di regole, scritto in gran parte per garantire la posizione delle classi proprietarie, e minacciare sanzioni se le infrango.

In una situazione del genere, l’onestà e l’integrità diventano questioni tecniche di conformità, piuttosto che imperativi culturali e morali. Nella vita vige la buona regola che se si deve guardare in qualche libro di regolamenti per scoprire se si è autorizzati a fare qualcosa, allora probabilmente non si dovrebbe farlo. È chiaro che ci sono occasioni in cui le regole sono importanti e in cui i dettagli sono importanti. Ma su questioni importanti, le società e le organizzazioni funzionano solo perché le persone rispettano le norme culturali e morali sottostanti. “Qui non si fa” è un divieto molto più forte di “questo è vietato dal paragrafo 24, sezione vii di questo libro”. Quindi, se ad esempio ho una posizione di fiducia (!) nel settore pubblico, le regole possono vietarmi di possedere azioni di qualsiasi società con la quale la mia organizzazione intrattiene rapporti. È giusto che io obbedisca a questa regola. Ma le regole non dicono nulla sul fatto che il mio coniuge possa possedere tali azioni, quindi ovviamente va bene così e mi sto comportando onestamente, perché sto seguendo le regole.

In definitiva, l’ossessione liberale per le regole e i documenti scritti che disciplinano il comportamento è una conseguenza di questo paradosso fondamentale. Il liberalismo parte dal presupposto che le persone siano egoiste, ma tratta i vincoli sociali, politici o religiosi sul comportamento come reliquie antiquate da buttare via. Per garantire un buon comportamento, che ovviamente protegge coloro che traggono i maggiori benefici da un sistema liberale, non c’è altro che la minaccia di una punizione, per cui ci si sforza molto di decidere esattamente cosa è permesso e cosa non lo è, per poi pronunciarsi su questioni tecniche in diversi casi. Questi sforzi falliscono inevitabilmente e, anzi, hanno più probabilità di produrre cattivi comportamenti di quanto non facciano le semplici ingiunzioni morali. Le ragioni sono interessanti e hanno a che fare con l’incapacità dei sistemi complessi di descriversi completamente. A questo proposito, è utile ricordare il Teorema di Incompletezza di Kurt Godel, che dimostra che, per qualsiasi insieme coerente di assiomi matematici, esistono proposizioni che non possono essere dimostrate o confutate all’interno del sistema. Per estensione, nel caso di un libro di regole, ciò significa che nessuna regola, per quanto lunga e dettagliata, può coprire tutte le possibili eventualità. In realtà, più lunghe e complesse sono le regole, maggiore sarà il numero di potenziali conflitti tra di esse. Ciò significa che il tradizionale approccio liberale agli illeciti – aumentare il numero e la complessità delle regole – in realtà peggiora la situazione. Con l’aumento del numero di norme e delle interazioni, aumenta anche il numero di possibili scuse e ambiguità. Molto bene, il paragrafo 24, sezione vii, può dire questo, ma deve essere letto insieme, sicuramente, al paragrafo 158, sezione xiv, che, se preso nel contesto in cui è stato ovviamente inteso, non esclude definitivamente, direi, che io accetti quella vacanza all’estero da una banca che regolo, o almeno permette un margine in cui la discrezionalità è sicuramente possibile.

È questo passaggio da “Cosa dovrei fare?” a “Cosa mi permettono di fare le regole scritte?” la causa fondamentale del crollo dell’integrità e dell’onestà nei sistemi politici occidentali. Il noto paradosso secondo cui ciò che è legale non è necessariamente morale, e ciò che è morale non è necessariamente legale, è stato dimenticato, e le due cose sono state completamente confuse, a vantaggio della stretta legalità. Pochi episodi recenti lo hanno dimostrato meglio della tragicommedia malata del comportamento di Boris Johnson durante il blocco di Covid, e ancor più dei suoi successivi tentativi di giustificarsi, insistendo non sul fatto che fosse moralmente giusto (dato che sembra non avere alcuna concezione della moralità), ma che, secondo alcune interpretazioni, non aveva effettivamente violato le disposizioni specifiche di alcune istruzioni. A quel punto, si può dire che l’integrità pubblica era sostanzialmente morta.

Stando così le cose, ci si aspetterebbe che le istituzioni liberali si avvicinassero alla corruzione e all’integrità con un po’ di circospezione: dopo tutto, hanno davvero intenzione di criticare un comportamento economico razionale? Sì, lo fanno, e a lungo e con grande ferocia. La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’OCSE e molti altri fanno delle misure “anticorruzione” una delle principali caratteristiche delle loro politiche verso il Sud globale, e fanno a gara per enfatizzare i danni economici e la distruzione che la corruzione dovrebbe causare. (Fortunatamente, uno studio recente dimostra che la maggior parte delle cifre sbandierate sono poco fondate, se non addirittura inventate). Insistendo sulla centralità della corruzione, naturalmente, le istituzioni liberali acquisiscono potere e influenza sulle aree più sensibili dei governi dei Paesi più poveri. Di conseguenza, una grande quantità di denaro viene destinata a misure “anticorruzione”, formazione, leggi, strategie, codici di condotta, workshop e quadri normativi. L’aspetto interessante, però, è che l'”anticorruzione” o anche l'”integrità” sono percepite in termini liberali come l’obbedienza a regole scritte. L’assunto di partenza è che gli esseri umani sono individui razionali, che massimizzano l’utilità e che quindi saranno disonesti quando gli conviene. Così si crea l'”integrità”, definita come la pratica di seguire fedelmente regole di comportamento dettagliate, minacciando le persone di indagini e azioni penali se deviano da queste regole. Si presume quindi che le persone decidano razionalmente di essere oneste, perché i pericoli dell’essere disonesti sono sproporzionatamente grandi.

Naturalmente questo non funziona, come saprebbe chiunque abbia cinque minuti di esperienza di vita reale, e quando non funziona il rimedio è sempre lo stesso: più leggi, più controlli, pene più severe. (Va aggiunto, per correttezza, che la politica cinese di giustiziare gli uomini d’affari corrotti potrebbe essere degna di studio e forse anche di emulazione altrove). E a volte il fallimento crea situazioni quasi troppo surreali per essere colte. Molta corruzione nei Paesi del Sud globale esiste perché le persone che lavorano per lo Stato non sono pagate adeguatamente, o addirittura non lo sono affatto, e ci si aspetta che integrino il loro reddito con altre fonti. Ho avuto conversazioni con più di un poliziotto africano appena tornato da un corso “anticorruzione” a Ottawa o a Stoccolma, con le spese pagate e una generosa diaria (e questo è uno dei motivi per cui la partecipazione a tali corsi è così popolare), con lezioni morali sull’essere buoni e con l’insegnamento di come indagare e arrestare i suoi colleghi, altrettanto non pagati.

Quindi ci arrendiamo, vero? Accettiamo che il liberalismo abbia distrutto le numerose e varie forme di controllo sociale che un tempo servivano a limitare la corruzione e a promuovere l’onestà e l’integrità? Beh, non possiamo tornare indietro e annullare i danni che il liberismo ha fatto, ma ci sono alcune cose che possiamo fare per alleviare, e forse anche invertire, il problema, a patto che partiamo dalla realtà di come funzionano le organizzazioni e di come si comportano le persone. Vorrei suggerire tre possibilità.

La prima consiste semplicemente nell’eliminare le opportunità di disonestà: Prevenzione della corruzione situazionale, come la chiamo io. Weber, come ricorderete, sottolineava che il burocrate non aveva alcun interesse finanziario nel suo lavoro. Da un po’ di tempo a questa parte, questo non è più vero e la cultura dei bonus, delle retribuzioni di risultato e delle indennità speciali si è insinuata nel settore pubblico di molti Paesi, creando incentivi perversi e tentando persone fondamentalmente oneste a diventare disoneste, spesso con piccoli passi che non si notano. Se, ad esempio, siete un ispettore fiscale che riceve un bonus per il numero di dichiarazioni dei redditi che esamina, farete prima quelle più facili e probabilmente lascerete passare comunque le dichiarazioni dei redditi disoneste, perché il tempo speso per interrogarle riduce il vostro reddito. O forse lavorate al Ministero del Commercio e avete frequenti incontri con i vostri colleghi in altri Paesi. In passato, siete stati disposti a rinunciare a un po’ di tempo nei fine settimana per viaggiare, in modo da avere il massimo tempo in ufficio durante la settimana lavorativa. Ma poi il vostro governo, nella sua magnanimità, decide che, al posto di un aumento di stipendio, i viaggi nei fine settimana riceveranno un’indennità speciale. Per quanto siate onesti, comincerete a pensare che è meglio organizzare le riunioni il lunedì, perché è meno tempo lontano dall’ufficio. E prima che ve ne rendiate conto, organizzerete il maggior numero possibile di riunioni di lunedì. In fondo, non state infrangendo nessuna regola, no? Oppure lavorate in un ufficio acquisti e le regole per non accettare ospitalità sono meno rigide. Ma nessuno sa bene quali siano i limiti. Quindi sì, potete accettare il pranzo. Ma la cena? Cena e ricevimento con il vostro coniuge? Cena, ricevimento e notte in albergo? E un taxi per tornare a casa? Nessuno sembra saperlo, e nessuno è sicuro di cosa significhino esattamente le regole nella pratica, perché sono sempre redatte da persone che non devono viverle. Solo quando uno dei tuoi contatti, davanti a un whisky a tarda notte, ti chiede se puoi fargli un piccolo favore, ti rendi conto che improvvisamente non dovrei farlo. Ma è troppo tardi: avete dimenticato che tutto ciò che vi permette di aumentare il vostro reddito manipolando il modo in cui svolgete il vostro lavoro, porta a opportunità di corruzione.

Il secondo è mantenere le cose semplici. Un esempio ovvio è quello delle spese di viaggio, una delle rovina della vita in qualsiasi grande organizzazione. Una generazione fa, tutti i governi e le organizzazioni internazionali di cui ero a conoscenza avevano un sistema semplice: ecco una somma di denaro che dovrebbe coprire le spese. Portatela via e spendetela, e non tornate indietro a meno che non vogliate essere rimborsati per qualche costo speciale che dovete giustificare. In alcuni Paesi il denaro veniva pagato in anticipo, in altri veniva pagato dopo. Il sistema presentava evidenti vantaggi. In primo luogo, era semplice e veloce da utilizzare: spesso non c’era molto di più che firmare un modulo: niente ricevute, niente domande su cosa fosse esattamente incluso. In secondo luogo, cosa fondamentale, era praticamente impossibile essere disonesti con questo sistema. E terzo, e forse più importante, si basava sulla fiducia e sul trattamento delle persone come individui responsabili, non come potenziali criminali le cui attività dovevano essere controllate.

In alcuni Paesi e organizzazioni questo processo sembra essere continuato, almeno in parte. In altri, invece, è caduto vittima dell’eccessiva microgestione del liberalismo e della sua ossessiva convinzione che più un sistema è elaborato e complesso, meglio è. Ricordo una conversazione di qualche anno fa con una persona ancora inserita nel sistema, che si è svolta sulla falsariga di quanto segue. “Prima avevamo il vecchio sistema, poi sono passati al rimborso delle spese alberghiere effettive. Ma naturalmente la gente ha iniziato a soggiornare in alberghi più costosi, così hanno introdotto tariffe indicative che non sembravano basarsi su nulla, e si doveva giustificare il fatto di soggiornare in un posto più costoso. E poi hanno iniziato a discutere se si potessero richiedere i costi di lavaggio a secco e cose come il check-out tardivo se si aveva un volo notturno. Poi si doveva giustificare un upgrade della camera, anche se offerto gratuitamente. Poi hanno iniziato a richiedere le ricevute per i singoli pasti, il che costituiva un problema se si era a cena prima di una riunione con colleghi di altri Paesi, che avevano tutti regole diverse in materia di spese. Poi hanno cercato di imporre dei limiti a quanto si poteva spendere per ogni pasto e non era consentito chiedere il rimborso delle mance. Insomma, siete mai stati in un ristorante di Washington? Oh, e potevi ordinare alcolici con il tuo pasto, ma non potevi chiederne il rimborso, il che va bene finché non hai un cameriere in Montenegro che non parla inglese e ti dà un conto scritto a mano per il totale. Cosa dovresti fare, cercare di capire quanto è costato il tuo bicchiere di vino e sottrarlo?”.

E così via. Paradossalmente, questo livello di stupidità e di cattiva gestione aumenta il rischio di corruzione. In parte perché provoca risentimento e amarezza, soprattutto nelle persone impegnate che cercano solo di portare a termine il lavoro. Sorprendentemente, spesso la corruzione nasce dal desiderio di vendetta nei confronti di un sistema che non vi capisce e non vi apprezza. Quindi, perché dovreste apprezzarli? Tiri fuori le tasche e trovi la ricevuta del taxi in bianco che di solito viene rilasciata dai tassisti analfabeti di Washington. Quanto è costato? Era ieri o l’altro ieri? L’avete dimenticato. In ogni caso non era un granché, quindi di solito si potrebbe lasciar perdere. Ma i sadici burocrati di casa cercano sempre di imbrogliarvi. Così alla fine inserisci una cifra consistente. Dopo tutto, nessuno potrà mai saperlo. In parte questo è dovuto anche al fatto che nelle organizzazioni le persone crescono per assomigliare all’immagine di sé che l’organizzazione proietta loro. Le campagne anticorruzione sono un messaggio subliminale che indica che siete disonesti, così come i controlli finanziari scrupolosi sono un messaggio subliminale che non ci si può fidare di voi. Dite a qualcuno abbastanza spesso che non ci si può fidare di lui e, ecco, sarà meno affidabile.

Il terzo è tornare a osservare rigorosamente la distinzione assoluta tra pubblico e privato che Weber riteneva giustamente così importante. Non ci si può aspettare che un uomo d’affari di alto livello abbia gli stessi principi etici di chi è attratto dal servizio pubblico, e le organizzazioni in generale obbediscono a una versione della legge di Gresham: le cattive pratiche scacciano quasi sempre quelle buone, e più alto è il livello in cui si trovano le cattive pratiche, peggiore sarà il risultato. Si potrebbe sostenere che il sistema statunitense, dove tutto è politicizzato e tutto e tutti sono in vendita, ha almeno il merito della chiarezza. Nessuno si aspetta che il proprio governo sia onesto. Ma in Paesi come la Gran Bretagna, la finzione dell’integrità è stata mantenuta, mentre la realtà è stata minata. Questo è vero soprattutto per i giovani imprenditori politici con una laurea in scienze politiche, qualche stage e un lavoro di ricerca che improvvisamente ottengono un posto nello staff di un ministro. Questa persona potrebbe trovarsi senza lavoro nel giro di pochi mesi o di un anno con il prossimo rimpasto, e l’unica merce che ha da vendere è la sua esperienza e i nomi della sua rubrica. Agire con integrità non li aiuterà ad ottenere un lavoro di lusso in una società di consulenza per l’outsourcing.

La regola di base del cambiamento organizzativo è che è molto più facile demolire e distruggere che creare qualcosa di migliore, o anche solo di altrettanto buono. Ci è voluta forse una generazione perché il sistema britannico, allora famoso per la sua corruzione e incompetenza, venisse ricostruito in modo adeguato e i cambiamenti venissero introdotti, e un’altra o due generazioni perché venisse ammirato in tutto il mondo. Ma questo avveniva in una società diversa, e la velocità con cui è stato fatto a pezzi in seguito è stata spaventosa. L’unica nota debolmente positiva che mi viene in mente per concludere è che, per come sta andando il mondo, anche l’uomo d’affari o l’opinionista neoliberista più accanito si renderà conto che i Paesi del mondo hanno bisogno di Stati onesti e competenti, e che non si ottiene questo risultato urlando alla gente di essere onesti, mentre si creano sistemi che incoraggiano il contrario. Forse il senso di emergenza generato dall’Ucraina, da Covid, dal cambiamento climatico e da altri fenomeni produrrà lo stesso tipo di shock che si verificò in Gran Bretagna quasi due secoli fa. Se così fosse, potremmo dover aspettare anche solo cinquant’anni prima che uno Stato onesto prenda nuovamente forma.

https://aurelien2022.substack.com/p/honesty-whats-in-it-for-me?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=120485537&isFreemail=true&utm_medium=email

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Il grande errore dell’Ucraina, di Natylie Baldwin

Il grande errore dell’Ucraina

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Articolo di notevole interesse riguardo alle dinamiche e allo stato attuale della condizione politico-sociale dell’Ucraina, al netto però di alcune affermazioni di carattere generale a mio avviso fuorvianti. In particolare l’attribuzione della responsabilità di fondo della attuale condizione alla scelta del “capitalismo”.  Come dovrebbe essere ormai evidente, il capitalismo è una forma di rapporto sociale di produzione assolutamente predominante ed ormai presente nei vari angoli del globo terrestre, sia nelle aree sviluppate che in quelle depresse. Può essere una delle cause generali delle varie polarizzazioni che caratterizzano le dinamiche sociopolitiche, ma non delle particolari dinamiche di singole formazioni sociali. Tant’è che lo stesso autore riconosce le condizioni similari di partenza delle due formazioni in conflitto emerse dall’implosione della Unione Sovietica, in realtà più favorevoli economicamente alla Ucraina rispetto alla Russia, la stessa drammatica condizione di crisi negli anni ’90 e l’esito finale opposto di questa crisi. Evidentemente i fattori che hanno determinato questo esito opposto sono altri, molto più legati alle condizioni particolari, economiche e soprattutto politiche, dei due paesi. Di fatto, è lo stesso autore a riconoscerlo. Se questo riconoscimento è utile ed opportuno alla comprensione delle cause, non è assolutamente sufficiente a consentire l’individuazione dei soggetti, dei mezzi e degli obbiettivi di fondo necessari a sovvertire la situazione in Ucraina, a cominciare dal proletariato organizzato. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Dalla criminalità durante la Perestrojka alle privatizzazioni, fino al problema dell’appellativo di “guerra imperialista” della Russia, Natylie Baldwin discute un’ampia gamma di argomenti con l’autore di La catastrofe del capitalismo ucraino.

Khreshchatyk Street in winter, Kiev, 2009. (Mstyslav Chernov, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

By Natylie Baldwin
Covert Action

Renfrey Clarke è un giornalista australiano. Negli anni ’90 ha lavorato da Mosca per il Green Left Weekly di Sydney. È autore di The Catastrophe of Ukrainian Capitalism: How Privatisation Dispossessed & Impoverished the Ukrainian People, pubblicato da Resistance Books nel 2022. Ecco la mia recente intervista con lui.

Natylie Baldwin: All’inizio del suo libro lei sottolinea che nel 2018 l’economia ucraina è diminuita in modo significativo rispetto alla posizione raggiunta alla fine dell’era sovietica nel 1990. Può spiegare quali erano le prospettive dell’Ucraina nel 1990? E come apparivano poco prima dell’invasione della Russia?

Renfrey Clarke: Durante le ricerche per questo libro ho trovato uno studio della Deutsche Bank del 1992 che sosteneva che, tra tutti i Paesi in cui l’URSS era appena stata divisa, era l’Ucraina ad avere le migliori prospettive di successo. Alla maggior parte degli osservatori occidentali, all’epoca, ciò sarebbe sembrato indiscutibile.

L’Ucraina era stata una delle parti più industrialmente sviluppate dell’Unione Sovietica. Era tra i centri chiave della metallurgia sovietica, dell’industria spaziale e della produzione di aerei. Aveva alcuni dei terreni agricoli più ricchi del mondo e la sua popolazione era ben istruita anche per gli standard dell’Europa occidentale.

Aggiungendo le privatizzazioni e il libero mercato, si pensava che nel giro di pochi anni l’Ucraina sarebbe stata una potenza economica e la sua popolazione avrebbe goduto di livelli di benessere da primo mondo.

Nel 2021, l’ultimo anno prima dell'”Operazione militare speciale” della Russia, il quadro dell’Ucraina era fondamentalmente diverso. Il Paese era stato drasticamente de-sviluppato, con grandi industrie avanzate (aerospaziale, automobilistica, navale) sostanzialmente chiuse.

I dati della Banca Mondiale mostrano che, in dollari costanti, il Prodotto Interno Lordo dell’Ucraina nel 2021 è diminuito del 38% rispetto al livello del 1990. Se utilizziamo la misura più caritatevole, il PIL pro capite a parità di prezzo d’acquisto, il calo è stato ancora del 21%. Quest’ultima cifra si confronta con un aumento corrispondente per il mondo nel suo complesso del 75%.

Per fare alcuni confronti internazionali specifici, nel 2021 il PIL pro capite dell’Ucraina era all’incirca uguale a quello di Paraguay, Guatemala e Indonesia.

Cosa è andato storto? Gli analisti occidentali tendono a concentrarsi sugli effetti dei retaggi dell’era sovietica e, in tempi più recenti, sull’impatto delle politiche e delle azioni russe. Il mio libro riprende questi fattori, ma mi sembra ovvio che siano in gioco questioni molto più profonde.

A mio avviso, le ragioni ultime della catastrofe ucraina risiedono nel sistema capitalistico stesso e, in particolare, nei ruoli e nelle funzioni economiche che il “centro” del mondo capitalistico sviluppato impone alla periferia meno sviluppata del sistema.

Semplicemente, per l’Ucraina prendere la “strada del capitalismo” è stata una scelta sbagliata.

Baldwin: Sembra che l’Ucraina abbia attraversato un processo simile a quello avvenuto in Russia negli anni ’90, quando un gruppo di oligarchi è emerso per controllare gran parte della ricchezza e dei beni del Paese. Può descrivere come si è svolto questo processo?

Clarke: Come strato sociale, l’oligarchia sia in Ucraina che in Russia ha le sue origini nella società sovietica dell’ultimo periodo della perestrojka, a partire dal 1988 circa. A mio avviso, l’oligarchia è nata dalla fusione di tre correnti più o meno distinte che, negli ultimi anni della perestrojka, erano tutte riuscite ad accumulare ingenti capitali privati. Queste correnti erano gli alti dirigenti delle grandi imprese statali, le figure statali ben posizionate, tra cui politici, burocrati, giudici e procuratori, e infine la malavita, la mafia.

Una legge del 1988 sulle cooperative ha permesso ai singoli di formare e gestire piccole imprese private. Molte strutture di questo tipo, solo nominalmente cooperative, sono state prontamente create da alti dirigenti di grandi imprese statali, che le hanno utilizzate per stivare i fondi sottratti illecitamente alle finanze aziendali. Quando l’Ucraina divenne indipendente nel 1991, molte figure di spicco delle imprese statali erano anche importanti capitalisti privati.

I nuovi proprietari di capitale avevano bisogno di politici che facessero leggi a loro favore e di burocrati che prendessero decisioni amministrative a loro vantaggio. I capitalisti avevano anche bisogno di giudici che si pronunciassero a loro favore in caso di controversie e di pubblici ministeri che chiudessero un occhio quando, come accadeva di frequente, gli imprenditori operavano al di fuori della legge. Per svolgere tutti questi servizi, i politici e i funzionari si facevano pagare le tangenti, che consentivano loro di accumulare il proprio capitale e, in molti casi, di fondare le proprie imprese.

Infine, c’erano le reti criminali che avevano sempre operato all’interno della società sovietica, ma che ora vedevano moltiplicate le loro prospettive. Negli ultimi anni dell’URSS, lo stato di diritto divenne debole o inesistente. Questo creò enormi opportunità non solo per i furti e le frodi, ma anche per gli uomini di scorta criminali. Se eravate un operatore commerciale e dovevate far rispettare un contratto, il modo in cui lo facevate era assumere un gruppo di “giovani con il collo grosso”.

Per rimanere in affari, le aziende private avevano bisogno del loro “tetto”, i racket di protezione che le avrebbero difese dagli artisti della truffa rivali – per una quota maggiore dei profitti dell’impresa. A volte il “tetto” veniva fornito dalla polizia stessa, dietro adeguato compenso.

Questa attività criminale non produceva nulla e soffocava gli investimenti produttivi. Ma era enormemente redditizia e ha dato il via a più di qualche impero commerciale post-sovietico. Il magnate dell’acciaio Rinat Akhmetov, per molti anni il più ricco oligarca ucraino, era il figlio di un minatore che aveva iniziato la sua carriera come luogotenente di un boss della criminalità di Donetsk.

“Questa attività criminale non ha prodotto nulla e ha soffocato gli investimenti produttivi. Ma… ha dato il via a più di qualche impero commerciale post-sovietico”.

Nel giro di pochi anni, a partire dalla fine degli anni ’80, i vari flussi di attività corrotta e criminale iniziarono a fondersi in clan oligarchici incentrati su particolari città e settori economici. Quando negli anni Novanta le imprese statali iniziarono a essere privatizzate, furono questi clan a finire generalmente con i beni.

Dovrei dire qualcosa sulla cultura imprenditoriale nata negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, che oggi in Ucraina rimane nettamente diversa da quella occidentale.

Firma dell’accordo per la creazione della Comunità degli Stati Indipendenti l’8 dicembre 1991. Il Presidente ucraino Leonid Kravchuk è seduto, secondo da sinistra. (Archivio RIA Novosti, U. Ivanov, CC-BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Pochi dei nuovi dirigenti d’azienda sapevano molto di come avrebbe dovuto funzionare il capitalismo, e le lezioni dei testi delle scuole di economia erano per lo più inutili in ogni caso. Ci si arricchiva pagando tangenti per attingere alle entrate statali, oppure mettendo all’angolo e liquidando il valore creato nel passato sovietico. La proprietà dei beni era estremamente insicura: non si sapeva mai quando si arrivava in ufficio e lo si trovava pieno di guardie di sicurezza armate di un rivale in affari, che aveva corrotto un giudice per permettere un’acquisizione. In queste circostanze, l’investimento produttivo era un comportamento irrazionale.

Baldwin: Ho sentito dire che una fonte di opposizione alla decentralizzazione politica – che sembrerebbe essere stata una possibile soluzione alle divisioni dell’Ucraina prima della guerra – è che la centralizzazione avvantaggia gli oligarchi. Pensa che sia vero?

Clarke: Non c’è una risposta semplice. Dal punto di vista politico e amministrativo, l’Ucraina dall’indipendenza è uno Stato relativamente centralizzato. I governatori delle province non vengono eletti, ma nominati da Kiev. Questo ha rispecchiato i timori di Kiev per l’insorgere di tendenze separatiste nelle regioni. In questo caso, ovviamente, dobbiamo pensare al Donbass.

Nonostante sia centralizzata, la macchina statale ucraina è piuttosto debole. Gran parte del potere reale risiede nei clan oligarchici a base regionale. A differenza di quanto accade in Russia e Bielorussia, nessun singolo individuo o gruppo oligarchico è stato in grado di raggiungere un dominio ineguagliabile e di limitare il potere dei magnati dell’economia, cronicamente in guerra tra loro. L’Ucraina non ha mai avuto il suo [presidente russo] Putin o [presidente bielorusso] Lukashenko.

Vladimir Putin, left, and Alexander Lukashenko, during a friendly ice hockey match, Feb. 7, 2020. (President of Russia)

Il sistema ucraino può quindi essere descritto come un pluralismo oligarchico altamente fluido, con il controllo del governo di Kiev che si sposta periodicamente tra raggruppamenti instabili di individui e clan. Nel complesso, gli oligarchi nel corso dei decenni sembrano essersi accontentati di questa situazione, poiché ha impedito l’ascesa di un’autorità centrale in grado di disciplinarli e di ridurre le loro prerogative.

Baldwin: Lei parla di come la separazione economica forzata tra Ucraina e Russia sia stata dannosa per l’economia ucraina. Può spiegare perché?

Clarke: Sotto la pianificazione centrale sovietica, Russia e Ucraina formavano un’unica distesa economica e le imprese erano spesso strettamente integrate con i clienti e i fornitori dell’altra repubblica. In effetti, la pianificazione sovietica aveva spesso previsto un solo fornitore di un particolare bene in un’intera area dell’URSS, il che significava che il commercio transfrontaliero era essenziale per non interrompere intere catene di produzione.

Comprensibilmente, la Russia rimase di gran lunga il principale partner commerciale dell’Ucraina durante i primi decenni dell’indipendenza ucraina. Nonostante problemi come l’irregolarità dei tassi di cambio delle valute, questo commercio presentava notevoli vantaggi. Le barriere doganali erano assenti e gli standard tecnici, ereditati dall’URSS, erano per lo più identici. I modi di fare affari erano familiari e le trattative potevano essere condotte comodamente in russo.

Forse il fattore più importante è un altro: i due Paesi si trovavano a livelli di sviluppo tecnologico sostanzialmente simili. La produttività del lavoro non differiva di molto. Nessuna delle due parti rischiava di vedere interi settori industriali spazzati via da concorrenti più sofisticati con sede nell’altro Paese.

Ciononostante, uno dei truismi del discorso liberale, sia in Ucraina che nei commenti occidentali, era che gli stretti legami economici con la Russia stavano frenando l’Ucraina. Si diceva che fosse urgente che l’Ucraina voltasse le spalle alla Russia, identificata con il passato sovietico, e si aprisse all’Occidente. In questo scenario, il commercio dell’Ucraina con la Russia doveva essere sostituito da un “libero scambio profondo e completo” con l’Unione Europea.

“Uno dei truismi del discorso liberale, sia in Ucraina che nei commenti occidentali, era che gli stretti legami economici con la Russia stavano frenando l’Ucraina”.

Questa controversia ha avuto ampie ramificazioni ideologiche, politiche e persino militari. In breve, nel 2014 l’opposizione all’interno dell’Ucraina è stata superata ed è stato firmato un accordo di associazione con l’UE. Nel 2016 gli scambi commerciali tra l’Ucraina e la Russia si erano ridotti drasticamente, al punto da essere di gran lunga inferiori a quelli con l’UE.

Il passaggio all’integrazione con l’Occidente, tuttavia, non ha portato all’Ucraina l’impennata di crescita economica promessa. Dopo un grave crollo all’indomani degli eventi di Maidan del 2014, il PIL ucraino ha registrato solo una debole ripresa tra il 2016 e il 2021. Nel frattempo, la bilancia commerciale del Paese con l’UE è rimasta fortemente negativa. L’integrazione con l’Occidente stava facendo molto più bene all’Occidente che all’Ucraina.

Pro-EU protesters in Kiev, December 2013. (Ilya, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Baldwin: Lei ha fatto un commento interessante sui liberali filo-occidentali sia in Russia che in Ucraina (compresi i manifestanti/sostenitori di Maidan): “Come le loro controparti in Russia, i membri di questi strati medi “occidentalizzanti” tendono a essere ingenui sulle realtà della società occidentale e su ciò che l’incorporazione nelle strutture economiche del mondo sviluppato significa in pratica per i Paesi le cui economie sono molto più povere e primitive”. (p. 9). Può descrivere gli effetti reali delle politiche scaturite dal Maidan e dalla firma dell’Accordo di associazione all’UE? Sembra un caso di “attenzione a ciò che si desidera”.

Clarke: Se volete spezzare il cuore dell’intellighenzia liberale ucraina, ricordate loro che la crescita economica nell’Unione Europea è stagnante e le società europee in crisi.

L’Ucraina ha ora un accordo di integrazione economica con l’UE, che consente ampie aree di libero scambio. Ma l’Ucraina non è integrata nel capitalismo europeo come parte del “nucleo” del sistema ad alta produttività e salari elevati. Dopotutto, perché i Paesi dell’UE dovrebbero volersi dare un concorrente in più?

Presentation of the EU membership questionnaire on April 8, 2022, by the European Commission President Ursula von der Leyen and Ukraine’s President Volodymyr Zelensky. (President.gov.ua, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)

Presentazione del questionario di adesione all’UE l’8 aprile 2022, da parte della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky. (President.gov.ua, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)

Il ruolo assegnato all’Ucraina è invece quello di mercato per le manifatture occidentali avanzate e di fornitore all’UE di beni generici a tecnologia relativamente bassa, come le billette d’acciaio e i prodotti chimici di base. Si tratta di beni a basso profitto che i produttori occidentali tendono ad abbandonare in ogni caso, soprattutto perché le industrie interessate possono essere altamente inquinanti.

In epoca sovietica, come ho spiegato, l’Ucraina era un centro di produzione sofisticato, a volte di livello mondiale. Ma nel caos della privatizzazione, i livelli di investimento sono crollati, l’innovazione è praticamente cessata e i prodotti sono diventati poco competitivi nei mercati del mondo sviluppato. Nei sogni dei teorici liberali, i capitalisti stranieri avrebbero dovuto attraversare il confine, acquistare le imprese industriali in rovina, riattrezzarle e, sulla base dei bassi salari, realizzare interessanti profitti dalle esportazioni in Occidente. Ma l’Ucraina aveva un’economia criminalizzata gestita da oligarchi. Piuttosto che nuotare con gli squali, i potenziali investitori stranieri hanno scelto in larga misura di starne alla larga.

Si prevedeva che l’abbattimento delle tariffe d’importazione dell’UE avrebbe ribaltato la situazione, rendendo irresistibili le attrattive degli investimenti in Ucraina per i capitali occidentali. Nel frattempo, gli investitori stranieri avrebbero dovuto superare la concorrenza degli oligarchi e imporre riforme alla macchina statale corrotta e ostile alle imprese.

Ma nulla di tutto ciò è realmente accaduto. Gli investimenti stranieri sono rimasti esigui. Allo stesso tempo, il libero scambio con l’UE ha fatto sì che i produttori occidentali, con una produttività più elevata e una gamma di offerte più attraenti, siano stati in grado di conquistare ampie fette del mercato interno ucraino e di far fallire i produttori locali.

A titolo di esempio, potrei citare l’industria automobilistica ucraina. Nel 2008 il Paese ha prodotto più di 400.000 autoveicoli. L’ultimo anno di produzione importante è stato il 2014. Poi, nel 2018, una riduzione delle tariffe ha portato a un enorme aumento delle importazioni di auto usate dall’UE e la produzione di autovetture in Ucraina è di fatto cessata.

Autobus urbano Bogdan di produzione ucraina a Lviv, Ucraina, 2010. (Anatoliy-024, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Baldwin: Su una nota correlata, non posso fare a meno di osservare che l’Ucraina sembra essere caduta vittima di politiche corporative neoliberali che avvantaggiano le potenze esterne più potenti – il tipo di politiche che un tempo erano criticate e contrastate dal movimento anti-globalizzazione degli anni Novanta. La sinistra riconosceva queste politiche economiche, quando venivano imposte ai Paesi più deboli, come una forma di neocolonialismo. Ora sembra che la sinistra – almeno negli Stati Uniti – si sia ridotta a un capriccio spaventato ossessionato da una forma caricaturale di politica identitaria e a rigurgitare l’ultima propaganda bellica. Secondo lei, cosa è successo alla sinistra?

Clarke: A mio avviso, la maggior parte dei settori della sinistra occidentale non è riuscita a dare una risposta adeguata alla guerra in Ucraina. Fondamentalmente, vedo il problema come radicato nell’adattamento agli atteggiamenti e alle abitudini di pensiero liberali e nell’incapacità di educare un’intera generazione di attivisti alle tradizioni distintive, comprese quelle intellettuali, del movimento di lotta di classe.

Stand With Ukraine, protesta a Londra, 26 febbraio. (Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles, Flickr, CC BY-NC-ND 2.0)

Oggi, molti membri della sinistra semplicemente non hanno l’attrezzatura metodologica per comprendere la questione ucraina – che è, a dire il vero, diabolicamente complessa. Qui vorrei fare due osservazioni. In primo luogo, è di fondamentale importanza per la sinistra comprendere chiaramente se la Russia attuale sia o meno una potenza imperialista. In secondo luogo, nell’affrontare questa domanda, la sinistra non può permettersi di basarsi sul pensiero del Guardian e del Washington Post. La nostra metodologia deve provenire dalla tradizione di pensatori di sinistra come [Rosa] Luxemburg, [Vladimir] Lenin, [Nikolai] Bukharin e [György] Lukács.

L’empirismo liberale del Guardian vi dirà che la Russia è una potenza imperialista, come “dimostrato” dal fatto che la Russia ha invaso e occupato il territorio di un altro Paese. Ma anche negli ultimi decenni, diversi Paesi palesemente poveri e arretrati hanno fatto proprio questo. Questo significa che dovremmo parlare di “imperialismo marocchino” o “imperialismo iracheno”? È assurdo.

Nell’analisi classica della sinistra, l’imperialismo moderno è una qualità del capitalismo più avanzato e ricco. I Paesi imperialisti esportano capitali su vasta scala e svuotano di valore il mondo in via di sviluppo attraverso il meccanismo dello scambio ineguale. In questo caso la Russia semplicemente non rientra nella categoria. Con la sua economia relativamente arretrata, basata sull’esportazione di materie prime, la Russia è una vittima su larga scala dello scambio ineguale.

“I Paesi imperialisti esportano capitale su vasta scala e svuotano il mondo in via di sviluppo di valore attraverso il meccanismo dello scambio ineguale. In questo caso la Russia semplicemente non ci sta”.

Per la sinistra, unirsi all’imperialismo e attaccare una delle sue vittime dovrebbe essere impensabile. Ma è quello che molti esponenti della sinistra stanno facendo.

Dall’inizio degli anni ’90, la NATO si è espansa dalla Germania centrale fino ai confini della Russia. L’Ucraina è stata reclutata come membro di fatto del campo occidentale ed è stata dotata di un grande esercito ben armato e addestrato dalla NATO. Le minacce e le pressioni imperialiste contro la Russia si sono moltiplicate.

L’imperialismo deve essere contrastato. Ma questo significa che la sinistra dovrebbe sostenere le azioni di Putin in Ucraina? Dovremmo riflettere sul fatto che un governo operaio in Russia avrebbe contrastato l’imperialismo in prima istanza attraverso una strategia molto diversa, incentrata sulla solidarietà internazionale della classe operaia e sull’agitazione rivoluzionaria contro la guerra.

Ovviamente, questo è un percorso che Putin non seguirà mai. Ma la decisione della Russia di resistere all’imperialismo con metodi che non sono i nostri significa forse che dovremmo denunciare il fatto stesso della resistenza russa?

Ancora una volta, questo è impensabile. Dobbiamo stare dalla parte della Russia contro gli attacchi dell’imperialismo e della classe dirigente ucraina. Naturalmente, la politica di Putin non è la nostra, quindi il nostro sostegno alla causa russa deve essere critico e sfumato. Non siamo obbligati a sostenere le politiche e le azioni specifiche dell’élite capitalista russa.

Detto questo, la posizione della sinistra liberale, che cerca la vittoria dell’imperialismo e dei suoi alleati in Ucraina, è profondamente reazionaria. In ultima analisi, può solo moltiplicare le sofferenze incoraggiando gli Stati Uniti e la NATO a lanciare attacchi in altre parti del mondo.

“Il nostro sostegno alla causa russa deve essere critico e sfumato. Non siamo obbligati a sostenere le politiche e le azioni specifiche dell’élite capitalista russa”.

Baldwin: La guerra è stata un disastro anche dal punto di vista economico per l’Ucraina. Nell’ottobre dello scorso anno Andrea Peters ha scritto un articolo approfondito su come la povertà sia salita alle stelle nel Paese dopo l’invasione. Tra le cifre che ha citato ci sono:

*aumento di 10 volte della povertà

*35% di tasso di disoccupazione

*50% di riduzione degli stipendi

*debito pubblico pari all’85% del PIL

Sono sicuro che ora la situazione è ancora peggiore. Sembra che a questo punto gli Stati Uniti e l’Europa stiano sovvenzionando quasi completamente il governo ucraino. Può parlarci di ciò che sa delle attuali condizioni economiche dell’Ucraina?

Clarke: L’economia ucraina è stata distrutta dalla guerra. I dati governativi mostrano che il PIL dell’ultimo trimestre del 2022 è diminuito del 34% rispetto al livello dell’anno precedente e la produzione industriale di settembre ha subito un calo analogo. A marzo di quest’anno il costo dei danni diretti agli edifici e alle infrastrutture è stato stimato in 135 miliardi di dollari e, secondo quanto riferito, oltre il 7% delle abitazioni è stato danneggiato o distrutto. Enormi aree di terreno coltivato non sono state seminate, spesso perché i campi sono stati minati.

Serhiy Marchenko, Minister of Finance of Ukraine. (CC0, Wikimedia Commons)

La leva militare ha tolto il lavoro a un gran numero di lavoratori qualificati. Altre persone altamente qualificate sono tra gli ucraini che hanno lasciato il Paese, secondo quanto riferito da almeno 5,5 milioni di persone. Si stima che circa 6,9 milioni di persone siano state sfollate all’interno dell’Ucraina, con ripercussioni anche sulla produzione.

Secondo il Ministro delle Finanze Serhii Marchenko, solo un terzo delle entrate del bilancio ucraino proviene da fonti nazionali.

La differenza deve essere compensata da prestiti e sovvenzioni dall’estero. Questi aiuti sono stati sufficienti a mantenere l’inflazione annuale a un livello relativamente gestibile di circa il 25%, ma i lavoratori vengono raramente compensati per gli aumenti dei prezzi e il loro tenore di vita è crollato.

In molti casi, gli aiuti occidentali non sono sotto forma di sovvenzioni ma di prestiti. Secondo i miei calcoli, a gennaio il debito estero dell’Ucraina era pari a circa il 95% del PIL annuale. Quando e se tornerà la pace, l’Ucraina dovrà sacrificare i suoi guadagni in valuta estera per decenni per ripagare questi prestiti.

Baldwin: il primo ministro ucraino Denys Shmyhal ha dichiarato che solo per il 2023 l’Ucraina avrà bisogno di 38 miliardi di dollari per coprire il deficit di bilancio e di altri 17 miliardi per “progetti di ricostruzione rapida”. Sembra che per l’Occidente non sia sostenibile (politicamente o economicamente) fornire questo tipo di denaro per un periodo di tempo così lungo. Cosa ne pensate?

Clarke: La cifra che ho a disposizione per la spesa militare totale prevista dagli Stati Uniti nel 2023 è di 886 miliardi di dollari, quindi i Paesi della NATO possono permettersi di mantenere e ricostruire l’Ucraina se vogliono. Il fatto che stiano mantenendo l’economia ucraina a un livello relativamente basso – e peggio, chiedendo che molti degli esborsi vengano ripagati – è una scelta consapevole che hanno fatto.

C’è una lezione da trarre per le élite dei Paesi in via di sviluppo che sono tentate di agire come procuratori dell’imperialismo, come hanno fatto deliberatamente i leader dell’Ucraina dopo il 2014. Quando le conseguenze vi mettono in difficoltà, non aspettatevi che siano gli imperialisti a pagare il conto. In definitiva, non sono dalla vostra parte.

Ukraine’s Prime Minister Denys Shmyhal with U.S. President Joe Biden at the White House in April 2022. (White House/Public domain, Wikimedia Commons)

Baldwin: L’Oakland Institute ha pubblicato un rapporto nel febbraio di quest’anno su un aspetto specifico delle politiche neoliberali influenzate dall’Occidente in Ucraina: i terreni agricoli. Una delle prime cose che [il presidente ucraino Volodymyr] Zelensky ha fatto dopo il suo insediamento nel 2019 è stata quella di far approvare un’impopolare legge di riforma agraria. Può spiegare in cosa consisteva questa legge e perché era così impopolare?

Clarke: Nel 2014 i terreni agricoli dell’Ucraina erano stati quasi tutti privatizzati e distribuiti tra milioni di ex lavoratori agricoli collettivi. Fino al 2021 è rimasta una moratoria sulle vendite di terreni agricoli. Questa moratoria è stata molto apprezzata dalla popolazione rurale, che diffidava della burocrazia degli uffici fondiari e temeva di essere derubata delle proprie aziende. Avendo a disposizione solo piccole superfici e non disponendo di capitali per sviluppare le proprie attività, la maggior parte dei proprietari terrieri ha scelto di affittare le proprie aziende e di lavorare come dipendenti di imprese agricole commerciali.

Il risultato è stato descritto come una “rifeudalizzazione dell’agricoltura ucraina”. Gli imprenditori con accesso al capitale – spesso oligarchi affermati, ma anche interessi societari statunitensi e sauditi – hanno accumulato il controllo di vaste proprietà in affitto. Con gli affitti dei terreni a buon mercato e i salari minimi, i nuovi baroni della terra avevano pochi motivi per investire nell’aumento della produttività, che rimaneva bassa nonostante la ricchezza del suolo.

A questa situazione, già profondamente retrograda, il Fondo Monetario Internazionale e altri finanziatori istituzionali portarono la saggezza del dogma neoliberista. Per molti anni, i programmi di aggiustamento strutturale allegati ai prestiti del FMI hanno insistito sulla creazione di un libero mercato dei terreni agricoli. I governi ucraini, consapevoli dell’ostilità di massa nei confronti di questa iniziativa, l’avevano tirata per le lunghe. Alla fine è stato Zelensky a rompere la resistenza. Dalla metà del 2021 i cittadini ucraini possono acquistare fino a 100 ettari di terreno agricolo, che saliranno a 10.000 ettari dal gennaio 2024.

In teoria, un gran numero di piccoli proprietari terrieri venderà la propria terra, si trasferirà in città e si dedicherà alla vita dei lavoratori urbani, mentre l’aumento del valore dei terreni costringerà gli agricoltori commerciali a investire per aumentare la propria produttività. Ma questi calcoli sono quasi certamente utopici. La disoccupazione nelle città è già alta e gli alloggi sono limitati. È improbabile che i piccoli agricoltori rischino di ipotecare la loro terra per migliorare le loro attività, mentre i profitti restano esigui, i tassi di interesse elevati, le banche predatorie e i funzionari corrotti a tutti i livelli.

La vera logica di questa “riforma” è rafforzare la presa sull’agricoltura degli oligarchi e dell’agrobusiness internazionale.

Baldwin: La Banca Mondiale ha recentemente pubblicato un rapporto in cui si afferma che la ricostruzione dopo la fine della guerra costerà almeno 411 miliardi di dollari. Una volta terminati i combattimenti, che tipo di politiche ritiene possano dare all’Ucraina le migliori possibilità di costruire un’economia più stabile ed equa nel lungo periodo?

Clarke: Come finiranno i combattimenti? Al momento, sembra improbabile che le forze russe vengano sconfitte, almeno dagli ucraini. Nel frattempo, più vicina è la vittoria russa, maggiore è la prospettiva di un intervento militare imperialista su larga scala.

Supponiamo, però, che Zelenskij si sieda a un tavolo con i negoziatori russi e concluda un accordo di pace. Realisticamente, ciò richiederebbe il riconoscimento da parte dell’Ucraina che il Donbass e la Crimea sono stati persi, insieme alle province di Zaporizhzhia e Kherson. I neofascisti dovrebbero essere epurati dall’apparato statale e le loro organizzazioni messe fuori legge. L’Ucraina dovrebbe rompere i suoi legami con la NATO e le sue forze armate dovrebbero essere ridotte a un livello che il Paese possa permettersi.

Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg, di spalle alla telecamera, incontra il Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky nel settembre 2021. (NATO)

Se si raggiungesse un tale accordo, ovviamente, gli ultranazionalisti ucraini farebbero la fila per assassinare Zelensky. Se, cioè, la CIA non lo prendesse prima.

Supponendo che ci possa essere un “dopo guerra”, come potrebbe essere? Dobbiamo ricordare che l’Ucraina è oggi una delle parti più povere del mondo capitalista in via di sviluppo. Per i Paesi che si trovano in questa situazione generale, non può esistere un futuro economico veramente “stabile ed equo”. Tale futuro è concepibile solo al di fuori del capitalismo, delle sue crisi e del suo sistema internazionale di saccheggio.

Ma supponiamo che in qualche modo emerga un’Ucraina indipendente, che sia in pace e che sia in grado di perseguire un qualche tipo di percorso economico razionale. In primo luogo, questo percorso comporterebbe un’attenta demarcazione dell’economia dall’Occidente avanzato. L’ideale sarebbe che l’Ucraina continuasse ad avere ampi scambi commerciali con l’UE. Ma questo non può avvenire a costo di permettere alle importazioni senza restrizioni di soffocare industrie e settori che hanno il potenziale per raggiungere i moderni livelli di sofisticazione e produttività.

Le relazioni commerciali dell’Ucraina devono basarsi principalmente su scambi con Stati che condividono il livello generale di sviluppo tecnologico del Paese, in modo che la concorrenza commerciale prometta stimoli e non l’annientamento. Questo cambiamento comporterebbe il ripristino di una fitta rete di relazioni economiche con la Russia. Sarebbe inoltre caratterizzato da un’espansione degli scambi commerciali, già molto estesi (nel 2021), con Stati come la Turchia, l’Egitto, l’India e la Cina.

“Le relazioni commerciali dell’Ucraina devono basarsi principalmente su scambi con Stati che condividono il livello generale di sviluppo tecnologico del Paese, in modo che la concorrenza commerciale prometta stimoli e non annientamenti”.

In termini politico-economici, il futuro dell’Ucraina non risiede nell'”integrazione con l’Occidente” – una fantasia distruttiva – ma nel fatto che …. prenda posto tra gli Stati membri di organizzazioni come i BRICS, l’iniziativa Belt and Road e l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Per le sue esigenze di finanziamento, l’Ucraina deve ripudiare il FMI e rivolgersi a organismi come la Banca asiatica per gli investimenti nelle infrastrutture.

Si tratta di cambiamenti necessari, che migliorerebbero notevolmente le prospettive dell’Ucraina. Ma in definitiva, un futuro “stabile ed equo” necessita di trasformazioni molto più profonde. Sarà necessario estromettere gli oligarchi del crimine dal controllo dell’economia del Paese.

In circa 30 anni, e nonostante gli aiuti occidentali, i riformatori liberali ucraini hanno fatto pochi progressi su questo fronte. Gli “strati medi” della società del Paese non sono semplicemente in grado o inclini a portare a termine un simile rovesciamento. Hanno uno scarso peso sociale e non sono una forza indipendente. Quelli di loro che non lavorano direttamente per gli oligarchi sono invischiati, in molti casi, nella macchina statale corrotta che gli oligarchi controllano.

L’unica forza sociale in Ucraina che ha i numeri per porre fine al potere oligarchico è il proletariato organizzato. A differenza degli “strati intermedi”, i lavoratori del Paese non hanno alcun interesse a preservare l’oligarchismo e hanno il potenziale per agire indipendentemente da esso.

Baldwin: Negli anni ’90 lei ha lavorato da Mosca per il giornale Green Left. Come è nata questa iniziativa e che cosa le è rimasto più impresso del suo periodo in Russia?

La camera alta del Soviet Supremo nella sua ultima sessione, che vota l’estinzione dell’URSS, 24 dicembre 1991. (Archivio RIA Novosti/Alexander Makarov / CC-BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Clarke: Essendo russofono, nel 1990 fui inviato dal giornale a Mosca – allora capitale dell’URSS – per riferire sui progressi della perestrojka. Mi aspettavo di rimanere lì per circa due anni, ma ho acquisito una famiglia russa e sono rimasto per nove.

Avevo solo un piccolo reddito dal giornale. Mia moglie e io vivevamo meglio dei vicini, ma non di molto. Ho osservato e riferito che lavoratori altamente qualificati venivano gettati nell’indigenza. I loro salari non pagati, i loro risparmi di decenni cancellati dall’inflazione, vendevano gli oggetti di casa fuori dalle stazioni della metropolitana e vivevano con le patate scavate nei loro orti.

L’esperienza più sgradevole è stata osservare le persone che cercavano di far fronte a una drastica inversione di credenze e valori. Dove la società sovietica aveva messo un meno, ai russi fu improvvisamente ordinato di mettere un più. Comportamenti che prima erano stati considerati spregevoli (il traffico, le speculazioni) ora venivano elogiati dai media.

Tra le persone che conoscevo, sospetto che i più traumatizzati fossero gli intellettuali di orientamento occidentale che per anni avevano desiderato che l’Unione Sovietica morisse e che il capitalismo la sostituisse. Ora il capitalismo era arrivato, ed era un incubo.

In queste circostanze, non pochi russi persero completamente l’orientamento morale. Tutto sembrava permesso. Ricordo di essere uscito una mattina per portare mio figlio all’asilo. Sul marciapiede, non lontano dal nostro edificio, incontrammo un cadavere appena assassinato.

Nel frattempo, un tornado di storia vorticava intorno a noi. Come giornalista mi trovavo alla “Casa Bianca russa”, l’edificio del parlamento che sorge lungo il fiume Mosca dal Cremlino, durante i colpi di stato del 1991 e del 1993. Nel 1998 ho raccontato che il governo si è dichiarato in bancarotta, non rispettando i suoi obblighi di debito. A quel punto, il 40% dell’economia era evaporato.

Ricordo però quegli anni come i più ricchi e gratificanti della mia vita.

Natylie Baldwin è autrice di The View from Moscow: Understanding Russia and U.S.-Russia Relations. I suoi scritti sono apparsi in varie pubblicazioni, tra cui The Grayzone, Consortium News, RT, OpEd News, The Globe Post, Antiwar.com, The New York Journal of Books e Dissident Voice.

Questo articolo è tratto dalla rivista Covert Action.

Fuori luogo, ma nel contesto (italico), di Roberto Buffagni

Signore perdonali perché non sanno quello che fanno: io invece, come Sartana in un celebre spaghetti western degli anni Settanta, NON li perdono. Come la DC ha presieduto alla fine del cattolicesimo italiano, come il PCI ha presieduto alla fine del marxismo italiano, così il governo nazionalista di FdI presiede alla fine del nazionalismo, e temo anche del patriottismo italiano (per quel che ne resta, poco). Purtroppo, i “nazionalisti” che hanno deciso questa sciatta vassallata ci hanno sicuramente pensato su, e si sono fatti venire l’idea di chiamare Gianni Morandi perché secondo loro è “nazionalpopolare”. In questa idea c’è tutto quel che li definisce, e non è un bel vedere. C’è l’idea, stupida, abietta e supponente, che al popolo si dà il latte scaduto, le merendine muffite, le patatine fritte nell’olio lubrificante perché non può assimilare altro, perché l’autentico, il bello, il dignitoso lo intimidisce, lo mette in soggezione, è incompatibile con la canottiera e il salotto della nonna. C’è l’abissale, quasi commovente cafonaggine in conformità alla quale si celebra un luogo e un’occasione elevate, solenni, ufficiali e dignitose facendo cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, appena dopo aver cantato l’inno nazionale, una strofa del quale recita “siam pronti alla morte/l’Italia chiamò” (forse dalla finestra, per farsi portare il latte).

N.B.: non ho niente contro Gianni Morandi che mi sta anche simpatico, andava benissimo per celebrare un eventuale scudetto del Bologna, l’anniversario della Camera Alta della Repubblica italiana, no. Ma non mi sono arrabbiato, semmai mi cadono le braccia. E’ andata così ragazzi, è andata così l’Italia.

Qui si vede, in forma grottesca, la conclusione della maestosa tragedia storica italiana. Nella IIGM era certo necessario e quindi giusto, tra i due mali, scegliere il male minore, la vittoria degli Alleati e la solidarietà con essi, legittimata dalla guerra partigiana del CLN. Ma oggi si vede chiaro che avevano ragione anche i migliori tra coloro che scelsero la RSI, quando dicevano che schierarsi con il nemico del giorno prima, contrabbandare la sconfitta per vittoria, ci sarebbe costato più caro che vivere la sconfitta fino in fondo, perché vi avremmo perduto l’identità, l’anima, la fiammella spirituale che tiene in vita la patria anche nella sconfitta, nella rovina, nel terribile errore, come fu un terribile errore entrare in guerra a fianco della Germania nazista (non solo perché poi ha perduto, ma perché il nazismo faceva schifo e lo sapevamo anche allora).

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VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA_ DI GIANFRANCO CAMPA

Nelle ultime conversazioni, tra di esse quest’ultima http://italiaeilmondo.com/2023/05/04/stati-uniti-faccendieri-al-governo_con-gianfranco-campa/, Gianfranco Campa ha richiamato con sempre maggior frequenza il cammino verso la guerra civile che gli Stati Uniti hanno intrapreso a tappe sempre più veloci nell’ultimo ventennio. Un conflitto che inizialmente sembrava ben delimitato geograficamente lasciando prefigurare un connotato secessionistico alle dinamiche interne al paese. Con il tempo il confronto ed il conflitto sta diventando sempre più pervasivo all’interno degli stati federali aprendo la strada ad una dinamica caotica difficilmente gestibile politicamente. Ci sembra opportuno riproporre in proposito un vecchio saggio di Campa quanto mai attuale. Buona lettura, Giuseppe Germinario

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA_ DI GIANFRANCO CAMPA

Abbiamo raccolto in un unico testo sei dei numerosi contributi di Gianfranco Campa che focalizzano l’attenzione sulle profonde e inquietanti lacerazioni della formazione sociopolitica americana, accentuatesi vistosamente con l’accelerazione delle dinamiche della globalizzazione a partire dagli anni ’90. Riteniamo di aver fatto una cosa utile ai lettori interessati_Giuseppe Germinario

VERSO LA GUERRA CIVILE_PRODROMOCREPE NELL’IMPERO, di Gianfranco Campa 

 

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA

 

(Prima Parte)

 

LA COLLINA DI ARMAGEDDON

 

Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

Prepper Wallpaper - WallpaperSafari

 

 

Erano i primi giorni di servizio effettivo, giorni di smarrimento, annebbiamento mentale e fisico, seguiti ad un estenuante corso di addestramento durato sette mesi.  Ma non era finita! Ai sette mesi di accademia si aggiungevano i quattro mesi di addestramento sul campo. Quattro mesi di pratica, la prova del fuoco sulla strada, in auto, di pattugliamento con un altro agente seduto al fianco, specializzato nel valutare il rendimento ed il corretto adempimento al dovere. È sulla “strada” che devi dimostrare di aver appreso e di saper mettere in pratica i concetti di base propinati durante l’accademia di polizia. Un appuntamento giunto al quale di solito un buon 10-20% delle reclute fallisce l’obbiettivo e la realizzazione di una aspirazione.

Già nei mesi precedenti oltre il 30% dei commilitoni, compagni di accademia, tra di loro alcuni amici carissimi, erano stati rispediti a casa per aver fallito uno dei 187 esami previsti durante il corso. La durezza della selezione e la concreta possibilità di fallire spinge la maggior parte dei “rookies” a sviluppare una meccanismo di autodifesa. Per molti diventare un poliziotto rimarrà solo un miraggio, un sogno mai realizzato, riposto in qualche cassetto. Per questo ti guardi intorno e cerchi di trovare quella boa,  quel salvagente che ti possa aiutare a rimanere a galla, almeno fino a quando non esci dal tunnel. I meccanismi di autodifesa per superare lo stress e gli ostacoli esistono , anche se sono più che altro espedienti emotivi che ti danno una apparente sensazione di coraggio e di adeguatezza. Chi si affida alle preghiere, chi allo yoga, chi alla bevande energetiche, chi invece alla raccomandazione di qualcuno in una posizione di potere. Tutti questi accorgimenti, lo ribadisco, non assicurano il successo nell’iter di addestramento. Neanche l’ultima soluzione, il sotterfugio può garantire la sopravvivenza; in California per arrivare ad essere poliziotto la raccomandazione non serve, gli esami non si possono aggirare o addomesticare.

Il turno comincia alle 07.00 e finisce alle 19.00. Arrivo al distaccamento 30 minuti in anticipo, entro nello spogliatoio e mi guardo intorno. UOMINI/DONNE, BUSSA PRIMA DI ENTRARE, annuncia il cartello affisso sulla porta. E` il benvenuto in un distaccamento troppo piccolo per avere spogliatoi separati. Lo stress si fa sentire. Lo yoga non lo pratico, con le preghiere ho un rapporto a dir poco conflittuale e di individui che portano l’argenteria sulla divisa non ne conosco nessuno. Un certo senso di sconforto comincia ad insinuarsi nell’anima. Dov’è il galleggiante, il canapo che mi terrà a galla aiutandomi a sopravvivere nei prossimi quattro mesi?

Il distaccamento è minuscolo, in totale dieci agenti, incluso il Chief, due sergenti e sette agenti. Per curiosità do un’occhiata alla lista affissa nella bacheca, quella dei nomi che fanno servizio in questa piccola stazione. Il mio sguardo cade sulle generalità di uno dei due sergenti. Il cognome denota una chiara origine italiana. Mi rivolgo all’altro agente che si sta preparando al servizio con me; punto il dito sul cognome del Sergente “Italiano”: “George?” (non il suo vero nome) mi chiede. “Si” gli rispondo. “Lascia perdere e sempre ‘cranky’ (irritabile), non piace a nessuno;  trenta anni di servizio, potrebbe andare in pensione, ma è qui a rompere le scatole, a rendere la vita difficile a tutti…” La speranza si affloscia come un pallone bucato, lo sconforto ritorna. Appellarsi all’italianità del sergente per un trattamento meno ostico non sembra essere l’ancora che cercavo.

 

Police Forces Are Choosing SUVs Instead of Sedans | Automobile Magazine

 

Caspita! Un vero ‘greaseball”, accento compreso, non uno di quei fasulli che vengono da New York pretendendo di essere Italiani per poi scoprire che sono di seconda o terza generazione” Così mi saluta George, incrociandolo nel parcheggio del distaccamento tra le  macchine di servizio. ”Si, Italiano, ma anche americano di adozione.” gli rispondo, accennando ad un saluto quasi militare. “Okay, whatever, cambia poco; un ‘greaseball’ in questo posto dimenticato da Dio, ci mancava solo quello…”  Questo è stato di fatto il primo contatto con George; un benvenuto corrispondente alle sue propensioni comunicative, prossime al nulla. Ma nonostante tutto, l’inizio di un’amicizia che a distanza di vent’anni resiste ancora al tempo e alla lontananza.

George, di nonna genovese e nonno siciliano. Di Italiano aveva ereditato solo il piacere della pasta al pesto; un piatto che sua nonna sapeva, da buona genovese, cucinare alla perfezione. George non ha mai visitato l’Italia, ne aveva il desiderio di farlo. Tutto barca, pesca e caccia. Due matrimoni falliti alle spalle, quattro figli adulti di cui tre sposati con cinque nipoti a testimoniare e rammentargli costantemente l’età che avanza. I nipoti hanno negli anni ammorbidito la durezza di un uomo che ha sempre combattuto contro tutto e tutti. Un uomo in constante stato di guerra; sul lavoro, in famiglia, con i vicini, con gli amici (quei pochi che gli sono rimasti), con i colleghi, subordinati e superiori che fossero. George è uno degli agenti, tra quelli che ho conosciuto negli anni, rimasti coinvolti in conflitti a fuoco; era appena entrato in servizio nella ormai lontana estate del 1973. Per anni George ha visto il mondo cambiare attorno a sé, ma al cambiamento ha sempre resistito, come un vecchio dinosauro che vede l’asteroide dell’estinzione avvicinarsi a grande velocità dal cielo e, ignorandolo, continua a foraggiarsi tra l’erba.

Uno di quegli asteroidi lo colpì a tre anni dal nostro primo incontro nel parcheggio della stazione di polizia. Era il Giugno 2004; le due del mattino di un sabato come tanti. E’ l’orario più probabile per pescare conducenti in preda ai fumi dell’alcool o di sostanze stupefacenti. Parcheggio la mia enorme macchina di pattuglia, una vecchia Ford Crown Victoria, appostandomi dietro un albero, nascosto all’uscita di una curva della strada principale che attraversa la giurisdizione, con il muso della macchina rivolto nella direzione della corsia della strada. Motore acceso, luci spente, rilevatore di velocità montato sul cruscotto che segnala la velocità di ogni passaggio. Molti non si accorgono nemmeno della mia presenza; altri, i più attenti, nel buio totale colgono la sagoma della mia macchina all’ultimo momento, quando ormai il radar sul cruscotto ha rivelato la loro andatura, troppo tardi per rallentare; i più premono il piede sul pedale del freno e allo stesso tempo, colti di sorpresa, fanno oscillare la macchina verso il lato opposto dove sono parcheggiato. Il traffico è ormai ridotto quasi a nulla, passa una macchina ogni 10 minuti; mentre contemplo la decisione di abbandonare la mia caccia per tornare a pattugliare, George, l’altro collega in servizio con me quella notte, mi chiama alla radio: “Campa c’è una macchina che ho visto sfrecciare mentre arrivavo da una delle traverse, dovrebbe comparire sul tuo radar da un momento all’altro; io non ho fatto in tempo a rivelare la velocità.” “10-4 (ricevuto)” rispondo. Il tempo di rimettere a posto il microfono della radio e il rilevatore di velocità sul cruscotto si illumina come un albero di natale. Segnala 83 miglia all’ora, in una zona dove il limite è di 30. Osservo i fari del veicolo che si avvicinano verso di me a grande velocità raggiungendo e passando dalla mia postazione senza neanche rallentare di un miglio. Accendo le luci della pattuglia faccio inversione e mi lancio all’inseguimento della macchina. “E passato?” mi chiede George alla radio. “Si” rispondo io, “come un razzo” aggiungo. “Non perderlo di vista questo mentecatto” mi dice. Giusto per una frazione di secondo osservo la mia velocità sul contamiglia: 90.  Ora ho la visuale sulla macchina sospetta,  la osservo sbandare due volte quasi finendo contro uno dei pali della luce posizionati al ciglio della strada. George mi raggiunge, ora siamo in due ad inseguire; sento alla radio che altre pattuglie stanno arrivando. “Campa prendo io la posizione primaria, tu prendi quella secondaria e mantieni la comunicazione con la centrale.”  Neanche il tempo di rispondere e osservo la macchina sospetta sbandare per la terza volta, l’ultima, sino a sbattere contro il palo del semaforo abbattendolo al suolo per poi terminare la sua corsa sulla panchina degli autobus in una nube di fumo.

 “Esci di lì coglione” sento gridare fra il trambusto, il fumo e le sirene. Raggiungo George che nel frattempo con le mani cerca di aprire lo sportello del guidatore; la macchina è però un groviglio di lamiere e plastica. A malapena riesce a tirare fuori il conducente attraverso quel che rimane del finestrino, prendendolo per la testa. “Sarge” (abbreviazione per Sergente) sento gridare dietro di me  “ma non vedi che ha perso conoscenza!”. La voce non la riconosco, ma appartiene a uno degli altri agenti nel frattempo arrivati sul posto. Mi rivolgo io al Sergente “probabilmente ha subito un grave trauma, meglio aspettare i paramedici, li ho già chiamati”

 

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Che necessità c’era di estrarlo di forza dall’abitacolo della macchina quando era chiaro che non era cosciente?” La domanda del Chief era diretta a George. “Poteva avere un’arma nell’abitacolo e volevo prevenire che la impugnasse” risponde George. “La macchina era un’accozzaglia di lamiere e lui era chiaramente svenuto se non addirittura morto; la tua logica è antidiluviana. Se mai uscirà dal coma rischia di rimanere paralizzato per il resto della sua vita e sarà anche grazie a uno dei mie Sergenti che vuole sempre usare le mani anche quando non e`necessario.” replica il Chief. “Mica siamo manovali! ” si difende George. “Infatti non sei un metalmeccanico, ma un agente addestrato, un supervisore, un professionista” risponde il Chief.

Sarà l’ultima “avventura” di un uomo superato dalla storia. Un uomo che non aveva colto il cambio generazionale nel modo di interpretare e gestire le relazioni sociali, l’ultimo di una generazione di dinosauri che combattono contro i fantasmi di un cambio epocale che li spinge a isolarsi sempre di più e allontanarsi dalla civiltà attuale.

La vecchia guardia si ritrova oggi smarrita, disorientata da una propsettiva completamente diversa di interpretare il ruolo di pubblico ufficiale. Le reclute e gli agenti che vengono ora sfornati dai corsi di polizia sono addestrati secondo criteri completamente diversi da quelli in uso solo dieci anni fa. Ad un impegno già estremamente stressante e rischiosissimo si aggiunge ora anche un aspetto politico che costringe i poliziotti a riconsiderare ogni azione intrapresa sul campo. Il risultato è visibile nelle statistiche: l’aspettativa media di vita dei poliziotti americani è di 59 anni. Se le armi, gli incidenti stradali, i suicidi non uccidono prematuramente un poliziotto, ci pensano malattie cardiovascolari e tumori vari. Al primo di dicembre di quest’anno, il 2019, le statistiche ci dicono che i soli poliziotti uccisi durante un conflitto a fuoco sono aumentati del 20% rispetto al 2018, per un totale di 267 poliziotti. Una strage senza precedenti. Con il pensionamento dei vecchi dinosauri, definiti a volte (a ragione) dal grilletto troppo facile e con il reclutamento di una nuova leva  imbavagliata dal credo del politicamente corretto i risultati rifulgono nelle statistiche ferali.

George, tre mesi dopo il rimbrotto nell’ufficio del Chief, andrà in pensione concludendo una carriera, che dopo oltre trent’anni, era cambiata di riflesso ai mutamenti del mondo che gli girava intorno. George non era stato capace di cogliere, comprendere e gestire il suo impegno adattandosi ai cambiamenti.

 

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La statale 85 taglia il Wyoming da nord a sud costeggiando il confine con lo stato del Nebraska e del South Dakota. Partendo da sud, cioè dal confine col Messico, la 85 termina a Fortuna, nel Nord Dakota, al confine col Canada. La zona est del Wyoming è forse la meno bella e maestosa di questo stato che incarna il concetto stesso di frontiera americana. I maestosi parchi nazionali di Yellowstone e Grand Teton si trovano dalla parte opposta, nella zona ovest vicino al confine con l’Idaho. Nonostante ciò percorrendo la 85 e attraversando il confine con il Sud Dakota si entra nel parco nazionale del Black Hills. Le bellissime colline del Black Hills sono meglio conosciute perché all’interno accolgono il Mount Rushmore e la montagna memoriale dedicata a Crazy Horse (Cavallo Pazzo).

Vivo negli Stati Uniti da oltre trent’anni, ma la magica terra del west, con i suoi panorami maestosi, epici, pieni di straordinaria bellezza naturale, non finisce mai di stregarmi. Vivo nell’Ovest, in California, perché l’est non è mai riuscito ad entusiasmarmi. Senza togliere nulla alla cosmopolita New York, alla calda Miami, alle montagne dello Shenandoah, al verde sontuoso del Vermont, preferisco l’Ovest con i suoi spettacolari parchi nazionali: Grand Canyon, Yosemite, Yellowstone, Bryce Canyon, Glacier e tanti altri. Dai picchi della Sierra Nevada, ai deserti dell’Arizona. Dalla spettacolare costa Pacifica ai laghi di Tahoe e Powell, dagli altopiani desertici del Nevada alle praterie del Dakota, dai crateri “lunari” dell’Idaho agli Archi monumentali dello Utah,  dalla Valle della Morte al parco nazionale di Zion, l’Ovest è un affresco senza uguali nel mondo. Attraversando le strade leggendarie dell’Ovest, lontano dai grandi centri abitati, in questi ampi e maestosi spazi aperti, si rivive lo spirito pionieristico di un tempo. L’ovest è stato e torna ad essere l’ultima frontiera.

 

 

Percorrendo la 85 in Wyoming, si attraversa un paesino di nome Lusk. Nel minuscolo centro del paese si trova una nota stazione di servizio, punto di ritrovo e di sosta per i motociclisti che attraversano gli Stati Uniti sugli assi East-Ovest, Nord-Sud. Una tappa storica e obbligata per gli amanti delle Harleys. In quella stazione di servizio, due anni fa, io e mia moglie, sulla via del ritorno in California, avevamo offerto la cena a un motociclista infreddolito che aveva sostato di rientro in Colorado.

Dopo aver attraversato il centro abitato, direzione nord, molte miglia più avanti si arriva a un incrocio con una strada non asfaltata, che sfocia in ambedue lati sulla 85. Svoltando si entra nella strada sterrata che mi conduce al ranch di George. Una tenuta collocata internamente, qualche miglio lontano dalla statale. Seduto su una collinetta , il ranch di George gode di una vista panoramica libera tutto intorno da ogni ostacolo. Una proprietà di diversi ettari.

Da quando tuo figlio frequenta l’università di Bismarck mi vieni a trovare tutti gli anni” mi accoglie George. “Lo sai che, anche se devo fare una piccola deviazione per arrivare qui, non mi perderei per nessuna ragione al mondo la possibilità di prendermi un caffè con te e contemplare dalla veranda di casa tua questa splendida vista’ rispondo. “Dalla California al Nord Dakota puoi prendere l’aereo e arrivare a Bismarck in poche ore invece di metterci due giorni con la macchina.”rincara la dose George. “Si lo so, l’aereo lo prendo al ritorno, se no non potrei venire a romperti le scatole; ma se vuoi me ne vado…” gli dico scherzando. “Gianfranco tu sei noioso. La birra non ti piace. Io il vino non lo bevo, mi costringi sempre a procurami una bottiglia di rosso perché la birra la detesti, che razza di Americano sei?” Mi apostrofa con fare seccato. “Parli tu che ti scoli la birra messicana…” gli replico

Il Ranch di George non è grandissimo, ma quanto basta per tenerlo occupato dalla mattina alla sera. Le donne vanno e vengono, ma è troppo scorbutico per stringere una relazione impegnativa. Vive solo, anche se tra figli, nipoti e amici c’è sempre qualcuno a visitarlo. Cinque cavalli, una quindicina di mucche, in più cani, galline, tacchini, ma soprattutto il grande orgoglio di George,  tre bisonti che scorrazzano liberi nella terra recintata di sua proprietà, rendono la visita al ranch di George uno svago e un diversivo per sfuggire alla routine quotidiana.

 

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La scorsa estate ho subito una invasione di serpenti a sonagli; uno di quei viscidi ha morso una mucca del mio bestiame. Superfluo dire che gli ho spappolato la testa con un colpo di fucile” mi racconta George mentre seduti in veranda ci beviamo una bibita. “Zitto che se ti sentono gli animalisti ti fanno causa.”  gli dico. “Mi possono baciare il culo. Mica siamo in quella fogna progressista della California. Questo è il Wyoming e questa è la mia terra. Io sono il re di questa terra. Faccio ciò che voglio.  Il governo, o qualsiasi altra organizzazione per me possono andare a puttane.” mi risponde George con tono aggressivo. Prosegue con un certa concitazione  “Da questa casa, su questa collina, riesco a vedere tutto intorno alla mia proprietà. Una posizione strategica, Se mai verranno e quando verranno avranno delle sorprese poco piacevoli…“ Puntando il dito verso l’orizzonte George esclama ”Questa è la mia collina di armageddon; da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

George, californiano di nascita, dopo il pensionamento, ha venduto la sua casa in San Rafael, a nord di San Francisco e si è trasferito in Wyoming. Grazie ai costi esorbitanti degli immobili in California, soprattutto nella baia di San Francisco, con i soldi della vendita della casa di proprietà dei genitori, George ha potuto trasferirsi in Wyoming comprandosi il ranch, il bestiame, la terra, tre trattori, due pickup trucks, un quad e una moto Harley. George diceva sempre che quando andava in pensione si sarebbe trasferito in Wyoming; ne era innamorato. Cosa attrae uno come George a trasferirsi nel maestoso Wyoming?

George non è l’unico poliziotto che ha lasciato la California dopo il pensionamento. L’esodo di poliziotti californiani che al termine della loro carriera si trasferiscono in altri stati è biblico, senza precedenti nella storia americana. Molti ex componenti delle forze dell’ordine scelgono l’Idaho come destinazione finale, ma anche il Wyoming, lo Utah, il Montana,  il Tennessee; il Nebraska, risultano fra i più gettonati. La maggior parte di loro preferisce vivere in campagna lontano dai maggiori centri metropolitani.

L’esodo verso questi stati non è riservato ai soli ex-componenti del mondo militare e delle forze dell’ordine: Cittadini comuni da ogni parte dell’America hanno deciso di trasferirsi negli stati “montagnosi”. Le ragioni di questo impulso migratorio sono le stesse per tanti altri che, come George, hanno abbandonato posti come la California, New York, Illinois, Pennsylvania, ma soprattutto i grandi centri metropolitani per trasferirsi nel cosiddetto redoubt states.

 

 

THE AMERICAN REDOUBT

 

”La minaccia di una futura guerra civile è solo un motivo in più per trasferirsi permanentemente in uno stato interno che incarna di più lo spirito conservatore. Se vivi lontano dal conflitto, avrai la scelta di esserne coinvolto, direttamente o indirettamente, ma se vivi “nel bel mezzo di esso”, allora hai maggiori probabilità di essere travolto dagli eventi. Molte situazioni saranno determinate [dalla] geografia, piuttosto che dalla volontà, quindi scegli saggiamente la tua terra. Potrei essere di parte, ma credo che quasi tutte le contee dell’ American Redoubt siano un buon punto di partenza, nella tua ricerca di un rifugio sicuro.”

 

 

 

Benvenuti nel redoubt americano. Che cos’è il redoubt americano? Piu semplicemente possiamo chiamarla l’ultima frontiera americana. Un pezzo di territorio che incorpora le aree geografiche del Nord Ovest-Pacifico. Include lo stato del Wyoming, del Montana, dell’Idaho e la parte orientale degli stati dell’Oregon e Washington. All’alba della nascita degli Stati Uniti, queste zone erano contese dai pionieri. La frontiera americana che si spostava verso ovest, lentamente ingoiava questi pezzi di terra, trasformandoli, malleandoli, rendendoli partecipi nella nascita della nazione a stelle e strisce. Domarli questi stati pero`non è mai stato del tutto possibile; troppo selvaggi, troppo ribelli, per conformarsi pienamente alle regole dettate della lontana Washington.  I territori del Wyoming, dello Utah, del Dakota, dell’Idaho stanno lentamente tornando ad essere terre di frontiera. L’ultima frontiera dell’impero americano, dove nelle montagne e colline del redoubt americano si terrà l’ultima battaglia fra i patrioti americani fedeli alla costituzione originaria e le forze anti-costituzionali. ”Questa è la mia collina di armageddon da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

Il concetto di redoubt ha preso forma e si è sviluppato nel 2010, in piena presidenza Obama. Gli anni dell’amministrazione Obama hanno esasperato lo scontro in atto fra il movimento patriottico americano (da non confondere con l’idea neo-conservatrice-repubblicana) e il crescente potere governativo che negli ultimi decenni ha cominciato a pervadere sempre di più l’esistenza dei cittadini americani regolamentando la vita quotidiana. In altre parti del mondo l’intervento sociale e legislativo dei governi centrali viene visto a volte come una panacea ai problemi dei cittadini stessi: scuola, sanità, trasporti e servizi sono parte essenziale del rapporto cittadino-stato. I patrioti americani invece concepiscono un mondo diverso, con un governo centrale presente ma non impositivo, minimalista non oppressivo. Incarnano lo spirito dei primi coloni inglesi fuggiti dalla madre patria e dalla oppressione della corona inglese, arrivati nel nuovo mondo alla ricerca della libertà di religione e di espressione. I patrioti americani moderni incarnano lo spirito dei patrioti del 1776. “ Voglio meno ingerenza burocratica, meno governo; lasciatemi in santa pace.Togliete le mani dalla mie tasche e fatemi avere più controllo del mio destino” (Ronald Reagan)

 

 

Ma non è solo dal governo che scappano quelli come George e tanti altri come lui.  Scappano sì dalla tassazione asfissiante degli stati e delle contee progressiste-liberali, ma anche dal cambiamento demografico che li fa sentire emarginati, ospiti in casa propria.  Scappano da questi stati che hanno cominciato, secondo loro, a violare con leggi oppressive il sacrosanto diritto di possedere le armi. Diritto incastonato nel secondo emendamento della costituzione Americana:  “«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto.»

 

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James Wesley Rawles è un autore americano che scrive romanzi sul tema della sopravvivenza; romanzi bevuti, letti e distribuiti tra i patrioti americani, incoraggiandoli a prepararsi alla prossima guerra civile e al caos che la caduta degli Stati Uniti porterà. Rawles si descrive come un costituzionalista tradizionale. Ex ufficiale dell’intelligence dell’esercito americano e` l’ispiratore, la mente, dell’esodo verso il redoubt americano. Anche Rawles, come George è californiano di nascita; di Livermore precisamente, un paese distante dal mio una decina di chilometri. Rawles cita la polarizzazione dei due maggiori partiti politici degli Stati Uniti,  la politicizzazione delle agenzie governative – individuando negli abusi di entità come l’FBI,  la CIA, la DIA e il Dipartimento degli Interni la causa di futuri conflitti. Rawles descrive la polizia, i tribunali e i mass media come complici delle agenzie statali e federali intente a violare i capisaldi presenti nella costituzione americana tesi a prevenire abusi da parte del governo e dei centri di potere della classe dirigente. Continua affermando che la tassazione è uno stratagemma socialista usato da un governo corrotto per “espropriare la produttività altrui e ridistribuire la ricchezza costruendo una base elettorale governo-dipendente e permanenteIl globalismo, il socialismo, la burocrazia sono inconciliabili con il patriottismo e la costituzione americana. I globalisti hanno come obiettivo la redistribuzione della ricchezza a livello globale e allo stesso tempo, attraverso il globalismo, i trattati internazionali ,  le grandi multinazionali e le leggi oppressive sull’ambiente, l’arricchimento personale di pochi a scapito della distruzione del concetto di nazioni e di popoli realmente liberi. La minaccia di una futura guerra civile è solo un motivo in più per trasferirsi permanentemente in uno stato interno che incarna di più lo spirito conservatore. Se vivi lontano dal conflitto, avrai la scelta di esserne coinvolto, direttamente o indirettamente. Ma se vivi “nel bel mezzo di esso”, allora hai maggiori probabilità di essere travolto dagli eventi. Molte situazioni saranno determinate [dalla] geografia, piuttosto che dalla volontà, quindi scegli saggiamente la tua terra. Potrei essere di parte, ma credo che quasi tutte le contee dell’ American Redoubt siano un buon punto di partenza, nella tua ricerca di un rifugio sicuro.”

 

 

Nel caos della futura caduta degli Stati Uniti, qualunque dovesse esserne il motivo, l’America Redoubt diventerebbe il nuovo baluardo, un nuovo soggetto geografico, dal quale, sulle ceneri della precedente, ricostruire il sogno di una nazione libera e costituzionalista; “Una nazione che diventi bastione di un nuovo cristianesimo tradizionale, libero da ogni legge o regola dettata da entità sovranazionali, globali, mondiali, con una presenza governativa ridotta al minimo essenziale. Una nuova nazione garante della libertà personale, con cittadini liberi di possedere le armi, di curarsi della propria terra come desidera, di vivere la propria vita sollevata da ogni giogo legislativo-burocratico. Mi piacerebbe vedere l’American Redoubt ritagliarsi l’autonomia necessaria rispetto a quelli che oggi conosciamo come gli Stati Uniti d’America. Vorrei vedere l’American Redoubt fondamentalmente come una roccaforte di valori tradizionali con il resto degli Stati Uniti affondare nell’oblio” afferma Rawles. Qui il blog di Rawles e dei patrioti dell’America Redbout:  https://survivalblog.com

Perché i patrioti americani hanno scelto questa area geografica per auto-esiliarsi? La risposta è da ricercare nella posizione “strategica” e politica di questa area geografica. Il Wyoming, Idaho, Montana, le parti orientali dell’Oregon e dello stato di Washington, sono a maggioranza di destra conservatrice. Sono geograficamente montagnosi, piene di risorse naturali. Secondo i patrioti dell’American Redbout la possibilità di acquistare proprietà con un esteso pezzo di terra, incluso di torrente, alberi e cacciagione, permette la completa indipendenza e quindi sopravvivenza in caso di collasso sociale. In più il fatto che le regioni sono montagnose permette a chi li conosce bene di usare il territorio a proprio favore in caso di conflitto armato. L’agenzia immobiliare survival realty  è specializzata nella vendita della perfetta proprietà da acquistare nell’America Rebout. https://www.survivalrealty.com/american-redoubt/

C`è un altro aspetto che spinge all’esodo dei patrioti americani verso il redoubt: Sono Stati in cui il diritto al possesso delle armi è regolato al minimo. L’Idaho, il Montana e il Wyoming sono considerati fra i primi dieci stati più permissivi nel possesso delle armi. Per esempio in Wyoming la legge permette il trasporto libero delle armi. Non è richiesto un permesso. Puoi andare dove vuoi con le tue armi, puoi anche mostrarle in pubblico. Non è richiesto nessun permesso e nessuna registrazione al momento dell’acquisto. Non ci sono limitazioni al numero delle armi che puoi acquistare. Non esiste nessuna legge che regola le dimensioni dei caricatori. In contrasto la California non permette l’uso di caricatori con più di 10 proiettili. Lo stato della California richiede un permesso per trasportare l’arma. Per acquistarla devi sottoporti ad un controllo per eventuali precedenti penali e problemi psichiatrici. Le armi acquistate devono essere tutte registrate. Qui in dettaglio le leggi che regolano il possesso di armi stato per stato:https://www.gunstocarry.com/gun-laws-state/#wy2

Ma chi sono e quanti sono esattamente i patrioti del redoubt? Un’inchiesta condotta dalla rivista The Economist in un articolo dell’agosto 2016 sul movimento american rebout intitolato “L’ultima Grande Frontiera”,  stimava che “migliaia di famiglie” si sono trasferite nella Redoubt  affermando che il  movimento “sta lentamente guadagnando terreno”  Quantificare l’esatto numero è impossibile perché la stragrande maggioranza delle persone che si trasferiscono sono per natura molto circospetti. Sono distaccati dal mondo mediatico-sociale. Molti di loro non hanno accesso a internet , televisione e telefono, strumenti che considerano di spionaggio e controllo. La forma di  comunicazione preferita è una battuta di caccia in cui ritrovarsi e coordinare varie idee, tra una birra, un barbeque e una sventagliata di caricatore. Wilderness living – The last big frontier | United States

La maggior parte sono cittadini che non si rispecchiano più in una nazione che sta cambiando, fedeli ancora ad una idea di America che va lentamente dissolvendosi. Sono di tutte le razze, non solo bianchi. Il rappresentante dei patrioti americani che si appresta a correre per la sedia del terzo distretto senatoriale dello stato dell’Idaho si chiama Alexander Barron, un afro-americano: https://alexanderbarron.com

I patrioti americani vengono definiti da molti, come rappresentanti di estrema destra. In realtà i patrioti americani  rifiutano il concetto di nazismo, fascismo e comunismo. Odiano entità come gli antifa e i naziskins. Sono ideologie che non collimano con la loro idea di libertà poiché vengono visti come strumenti di ideologie oppressive dei popoli, veicoli di governi autoritari; l’antitesi del credo patriottico americano che nel governo vede uno strumento di oppressione.

 

 

 

***

 

Sposta una di quelle sagome più a destra, non vedi che sono troppo vicine?” grido a George mentre osservando dalla distanza lo vedo posizionare i bersagli per il tiro. Non lo sento rispondere, ma anche se mi volta le spalle, realizzo mentalmente  la serie di di parolacce che probabilmente sta sussurrandomi contro. “A proposito non vedo l’AR-15- l’hai preso dal bunker?”  chiedo a George guardando di fronte a me la serie di armi appoggiate sul largo tavolo. “Bro, go fuck yourself!” esplode finalmente George, dopo il record di cinque minuti di silenzio durante I quali ha evitato di reagire alla mia prima provocazione. Ma ora la misura è colma “quando smetti di fare la parte della fighetta me lo dici. Hai riempito i caricatori?” mi chiede George. “Certo che li ho riempiti, mentre tu giocavi a bambole con le sagome. Il Remington, l’M60 e il Mossberg sono pronti , ma non vedo gli AR-15. Pensavo li avessi presi.” gli rispondo.”Devo averli lasciati a casa” esclama George. “Potevi anche ricordami di portarli” mi dice con tono accusatorio. “Io sono incaricato di trasportare le cassette delle pallottole, le protezioni agli occhi e alle orecchie, tu le armi; se sei entrato in fase senile me lo dici prima, così penso a prendere e trasportare tutto io…” ribatto. “Whatever man! Let’s get it started” risponde con voce alterata.

Con l’arrivo di due amici di George, il suo poligono personale, situato all’interno della sua proprietà, si illumina come un campo di battaglia con i traccianti di fuoco che eruttano dalle canne delle nostre armi. Alla fine, circa 50 sagome e oltre mille cartucce vuote ricoprono il terreno sotto i nostri piedi. Mentre con aria soddisfatta ci stringiamo la mano complimentadoci a vicenda, mi vengono in mente le parole di George “Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto

 

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA

 

(Seconda Parte)

 

CRONACHE DALL’ ULTIMA FRONTIERA

 

Siamo una potenza costituzionale non una potenza imperiale

 

Good Old Fashioned Ways | Alaska: The Last Frontier | Discovery

 

Papà dove sei?” mi chiede mio figlio al telefono. “Ho appena lasciato il Ranch di George, sono sulla strada, il navigatore mi dice che dovrei arrivare a Bismarck intorno alla mezzanotte.” rispondo. “Mezzanotte!!!? Scusa, ma non sei nel mezzo del Wyoming?” mi chiede sorpreso mio figlio. “Si, avrei dovuto metterci circa 7 ore, ma voglio fare una piccola deviazione, arriverò a Bismarck tardi, vado direttamente in albergo, ti chiamo domani mattina così passo dall’Università e ti vengo a prendere.“ la mia risposta lascia mio figlio ancora più perplesso, ma alla perplessità manca la curiosità indagatrice di approfondire le ragioni del mio fuori programma: Chi? Che cosa? Quando? Dove? Perché?

Mentre percorro la 85, direzione nord, la mia attenzione tutta rivolta alla strada è temporaneamente distratta da tre cartelli, di una discreta grandezza, posizionati al ciglio della strada. Ad occhio e croce, ognuno di questi tabelloni, stile pubblicitario, sarà approssimativamente di 2 metri di altezza per 6 metri di lunghezza.  Apparentemente non c’è niente di anormale nel vedere tabelloni pubblicitari affissi ai margini delle strade cittadine e delle interstatali americane; in questo caso però qualcosa di insolito attira la mia attenzione. Da lontano osservo, sul primo dei cartelloni che incrocio, la sagoma di un fucile da caccia: “Benvenuti in Wyoming; Terra del Secondo Emendamento”. Rallento per leggere meglio le incisioni sugli altri due cartelloni; vorrei scattare una foto fermandomi sul ciglio della strada, ma non ho voglia di farmi passare dal Tir che ho appena superato un paio di chilometri prima. Così continuo la mia corsa, giusto rallentando quanto basta per leggere i messaggi scritti sugli altri due cartelloni. Ad un centinaio di metri dal primo tabellone, il secondo annuncia:  “Gli Schiavi erano Disarmati!“; ancora altri cento metri, il terzo e ultimo cartello annuncia “Le Armi hanno solo due nemici: La ruggine e i Politici!” Solo ora mi accorgo che pur essendo vicini al ciglio della strada i tre cartelloni sono piazzati all’interno della staccionata collocata ai bordi della strada; presumo che siano stati piazzati lì da privati, dal proprietario della terra stessa o da qualcun altro con il dovuto permesso. Hanno utilizzato quindi la proprietà che costeggia la strada per mandare un messaggio a chi si trova, come me, ad attraversare lo spazio sconfinato del Wyoming.

Un po di  miglia più avanti, mentre mi appresto ad superare il confine con il Sud Dakota, mi ritrovo di fronte un Pick Truck, Ford 350, Nero. Il paraurti posteriore è ricoperto di adesivi; riesco a leggerne un paio, prima di sorpassare il veicolo: “Laureato All’università di Smith and Wesson – LGBT: I Support; Liberty, Guns, Beer, Trump.” Trattengo a stento una risata, mentre un cartello mi annuncia l’entrata in Sud Dakota.

 

 

I messaggi pro-armi mi fanno riflettere sulla natura stessa, l’essenza, l’anima, che questa nazione incarna: Gli Stati Uniti non sono una entità creata da burocrati seduti a tavolino, in giacca e cravatta, a colpi di trattati internazionali, come è stata, per esempio, l’Unione Europea; al contrario una nazione nel cui DNA è inciso a caratteri cubitali l’uso delle armi. Una nazione forgiata nel sangue; con l’annientamento di un popolo indigeno (Indiani), una guerra di Indipendenza, passando attraverso le guerre Indiane, la guerra del 1812 con la Gran Bretagna e quella del 1846 con il Messico, per finire con una guerra civile che ha causato più morti fra gli Americani che in quelle della prima, seconda guerra Mondiale, della guerra di Corea e del Vietnam messe tutte insieme. L’America! Un paese cresciuto sul movimento dei coloni e dei pionieri che con le famiglie, tra mille pericoli e peripezie, si lanciavano alla conquista dell’ignoto. Per molti l’unica speranza di sopravvivenza era un fucile, una pistola con i quali proteggersi durante il loro cammino.

I dati sul possesso delle armi rendono chiaro l’enorme significato culturale e simbolico che esse rappresentano per i patrioti americani e i cittadini statunitensi in genere. Piaccia o no  il possesso delle armi è apprezzato, venerato negli Stati Uniti più che in qualsiasi altro paese del mondo. Le armi come simbolo della libertà e della cultura americana. I numeri parlano sa soli. Due sono i dati da considerare. Primo, il dato ufficiale sul numero delle armi in posseso dei cittadini americani quantificato tramite la loro immatricolazione delle armi; secondo, il numero totale stimato delle armi, comprese quelle non registrate in possesso degli americani. Uno studio del Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra sostiene che sono più di 393 milioni le armi di proprietà in possesso dei cittadini negli Stati Uniti. Il rapporto, che si basa su dati ufficiali  di oltre 230 paesi, rileva che il possesso globale delle armi è fortemente concentrato negli Stati Uniti. Nel 2017, ad esempio, gli americani costituivano il 4 percento della popolazione mondiale, ma possedevano circa il 46 percento dell’intero patrimonio mondiale stimato in 857 milioni armi da fuoco in mano a civili. Con una stima di 120,5 armi per ogni 100 residenti, il tasso di possesso pro-capite di armi, negli Stati Uniti è il doppio di quello di qualsiasi altra nazione. Lo stato con il numero pro-capite più alto di immatricolazione è il Wyoming.

https://en.wikipedia.org/wiki/Gun_ownership

Saluto il Wyoming e di conseguenza il Redoubt. Lontano dai maggiori centri abitati l’America Redoubt è un manifesto vivente al diritto di possesso delle armi. Si respira, si coglie, si osserva la voglia di libertà, incastonata negli spazi maestosi di questa America dell’ultima frontiera.

 

 

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Anche il Dakota, sia il Nord che il Sud, sono Stati che potrebbero tranquillamente identificarsi e far parte dell’America Redoubt. La mentalità, lo spirito che li avvolge e lo stesso di quello del Wyoming, del Montana e Idaho, ma per i patrioti del Redoubt i territori del Dakota pongono, tatticamente parlando, un problema non indifferente: le enormi praterie, che il larga parte dominano un territorio povero di grandi catene montuose e di fitte foreste, sono del tutto inadatti alla guerriglia armata. Non danno sufficiente protezione da artiglieria pesante, carri armati e larghi gruppi di combattenti. In contrasto foreste, montagne e la conoscenza intima di esse offrono agli altri stati un vantaggio indubbio, soprattutto in presenza di un nemico più numeroso e meglio armato.

Ormai con la macchina ho raggiunto e sto attraversando le Montagne delle Colline Nere (Black Hills). Questa area geografica del Sud Dakota è una delle più storiche e significative degli Stati Uniti, per varie e importanti ragioni. E qui che Mount Rushmore è collocato. Qui c’e anche la montagna dedicata a Crazy Horse (Cavallo Pazzo) ed è sempre qui, fra i picchi e le foreste delle Colline Nere, che aleggiano i fantasmi storici di un passato mai dimenticato e ancora controverso. Le colline nere sono considerate montagne sacre per gli indiani della tribù Lakota. I Black Hills (Paha Shaparappresentano la storia e la tradizione dei popoli nativi di questa area geografica. Nel 1776 gli indiani Lakota-Sioux conquistarono a spese della tribù dei Cheyenne questo territorio. Il 1776  è un anno significativo; fu anche l’anno della Dichiarazione di Indipendenza che di fatto segnava la nascita degli Stati Uniti D’America. La stessa data, due aree geografiche lontane, due entità politiche separate, diverse e aliene fra di esse, che però, per l’ineluttabilità del destino, si incroceranno e si scontreranno nel futuro.

Attraversando le Colline Nere arrivo a un paesino che si chiama Custer.  L’ultima volta che ci ero passato, motivato dal consiglio di un’amico, mi sono fermato in un ristorante per assaggiare “Il miglior Barbecue D’America.” Dakota BBQ è un posto piccolo, niente di sofisticato, ma leggendario fra i buongustai, gli amanti della carne al barbecue. Purtroppo questa volta però dovrò rinunciare al miglior barbecue del mondo; il tempo a disposizione è poco e la strada che mi attende lunga. Do un’occhiata all’orologio; segna le 11:30, la mia corsa continua…

Il paesino di Custer evoca un pezzo di storia importante per gli Stati Uniti. Il paese prende il nome dal famoso ufficiale militare, George Armstrong Custer, comandante del Settimo Cavalleria. Settant’anni dopo l’epico viaggio di Lewis e Clark, che risalendo il fiume Mississippi, attraversarono il Continental Divide, diventando i primi americani ad entrare nei territori dell’Ovest, nel 1874, una spedizione militare comandata dal Tenente Colonnello Custer, partendo dal Forte Abraham Lincoln, sulla riva occidentale del fiume Missouri, in quello che oggi viene chiamata la capitale del Nord Dakota, Bismarck, si avventurò alla scoperta delle Colline Nere. Ufficialmente il governo degli Stati Uniti aveva incaricato Custer di intraprendere la spedizione con l’obiettivo di trovare un luogo adatto per insediare un nuovo forte militare. Ma Custer aveva anche l’obiettivo di accertare se le voci di una possibile presenza di vene d’oro nelle Colline Nere era veritiera. Così, partendo il 2 luglio 1874, l’eroe della guerra civile, George Custer, guidò il Settimo Cavalleria e un gruppo di spedizione di oltre mille uomini alla scoperta delle Colline Nere. Custer era convinto che le Colline Nere sarebbero state fonti di una vasta riserva aurea utile alla prosperità  della nuova nascente nazione degli Stati Uniti D’America.

L’interesse degli americani per le Black Hills e la spedizione di Custer, procedeva in violazione del trattato firmato a Fort Laramie, nel 1868, che garantiva ai Sioux “uso e occupazione assoluta e indisturbata” dell’intera area delle Colline Nere. La spedizione nelle Black Hills gettò le basi per la conseguente “invasione” dei pionieri, dei coloni alla ricerca dell’oro; fu uno dei fattori scatenanti l’ultima guerra indiana, la guerra delle grandi praterie fra i Sioux e gli Americani.  L’ultimo capitolo di un conflitto che spense la luce della libertà delle popolazioni native d’America. Ironia della sorte; è la stessa luce che va lentamente estinguendosi anche sui patrioti americani in questo ventunesimo secolo, patrioti travolti dal cambio epocale demografico e generazionale.

Durante la spedizione di Custer, fu eretto l’accampamento principale del settimo cavalleria nello stesso luogo dove oggi sorge il paese. E sempre nello stesso luogo, tramite una foto storica, Custer veniva immortalato, dopo una battuta di caccia con la sua preda, un orso grizzly.

 

http://www.bigskywords.com/montana-blog/the-black-hills-expedition-of-1874

 

Oggi, la popolazione delle Black Hills è composta principalmente dagli abitanti delle riserve indiane e da quelli della base aerea militare di Ellsworth; in più tanti turisti che, soprattutto d’estate, vengono a visitare questi luoghi leggendari. L’economia delle Black Hills è così passata dallo sfruttamento delle risorse naturali (miniere e legname) all’industria del turismo e dell’ospitalità.

Di solito passato Custer e la città di Rapid City, per raggiungere Bismarck, dovrei dirigermi verso nord attraversando le vasti praterie del Dakota. La strada mi porta a percorrere le riserve indiane delle tribù dei Cheyenne e di Standing Rock. Questa ultima tribù, due anni fa, salì alla ribalta delle cronache mondiali, quando i nativi, sostenuti da migliaia di attivisti ambientali, organizzarono una protesta, in larga scala, contro il gasdotto Dakota Access Pipeline (DAPL). Per i nativi di Standing Rock, i lavori del gasdotto violavano il territorio sovrano e sacro della riserva indiana. Il DAPL, anche conosciuto come Bakken, è un oleodotto sotterraneo lungo 1.172 miglia (1.886 km). Inizia nei giacimenti petroliferi di Scisto della formazione Bakken, nel Nord Dakota, e continua attraverso il Dakota del Sud, lo Iowa, fino al terminale petrolifero a Patoka, nell’Illinois. Insieme al gasdotto di trasferimento di petrolio greggio da Patoka a Nederland, in Texas, forma il sistema Bakken. La Costruzione del DAPL , un progetto da 3,78 miliardi di dollari, iniziò nel giugno 2016. Nonostante la massiccia protesta, che bloccò temporaneamente la costruzione del gasdotto, DAPL fu completato nell’aprile 2017, diventando operativo nel Giugno 2017.

Questa volta però mi dirigo verso est, invece che a nord; una deviazione dal mio tragitto originale con un chiaro obbietivo. Mentre la macchina continua la sua corsa, lo scenario cambia dalle montagne delle Colline Nere, alle pianure e dolci colline delle praterie del Dakota. Mi fermo ad una piccola stazione di servizio nel mezzo del niente; il nucleo urbano è composto, letteralmente parlando, da quattro, cinque case: Hayes, popolazione 77 abitanti recita il cartello al suo ingresso. Devo riempire il serbatoio e rifocillarmi un momento. Entro nella stanzetta del minimarket, anche se descriverlo così sembra eccessivo. Il commesso dietro il banco mi saluta: “Come stai? Tutto a posto?” “Si grazie” rispondo. Il commesso è probabilmente anche il proprietario della “stazione”. Un uomo sulla trentina, cappello, camicia, jeans, stivali e cinturone da cowboy.  Mi ricorda una giovane versione dello Sceriffo più duro e controverso D’America: il Capitano Clay Higgins il quale dopo la pensione fu eletto al Congresso Americano come rappresentante Repubblicano della Louisiana.

 

 

 

Solo ora mi accorgo che al lato del cinturone, il cowboy ha una fondina con dentro la pistola. Incuriosito gli domando: “Ci sono rischi di rapine in questo posto isolato?” No, perché?” Mi risponde. “ Niente, solo curiosità”. Sotto la giacca, la mia Sig 357, fedele compagna, che porto con me ogni volta che viaggio, grida vendetta. In California sarebbe culturalmente inaccettabile mostrare un arma in pubblico. Col gomito accarezzo il lato della giacca, avvertendo il rigonfiamento della mia pistola. Questo mi porta conforto e mi fa sentire meno solo nelle sconfinate pianure del Dakota. Mentre attendo che la cassa elabori i dati della mia carta di credito, noto un cartello affisso al muro, dietro il bancone, incuriosito leggo : “Troppo sangue versato. Siamo una potenza costituzionale non una potenza imperiale!” Deduco che il sangue versato sia riferito alle guerre combattute dall’America in questi ultimi vent’anni. Mi piacerebbe porre una domanda al Cowboy commesso, ma il tempo stringe e la tabella di marcia mi impone di proseguire il mio viaggio.

Da dove vieni?” Mi chiede il cowboy mentre, dopo aver firmato la ricevuta, raccolgo dal banco,  la bottiglia d’acqua e le noccioline acquistate. “Dalla California” gli rispondo. Lui mi guarda dritto negli occhi senza accennare ad un minimo di inflessione emotiva. “Ti sei perso nelle praterie?” Mi chiede. “NoSono sulla strada per Bismarck vado a trovare mio figlio all’Università”.

Esco dalla stazione di servizio, improvvisamente un vento gelido mi avvolge.  L’assenza di rilievi montagnosi significativi e la latitudine, lasciano esposte le praterie del Nord e Sud Dakota ai venti polari provenienti dal Canada. Siamo ad Ottobre e mentre in California imperversa l’estate indiana, con temperature ben oltre i 30 gradi, in Dakota l’inverno è ormai arrivato.

 

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L’OMBELICO DEL MONDO

 

Qual è il dovere più sacro e la più grande fonte di sicurezza per la Repubblica? Un inviolabile rispetto della Costituzione e delle leggi” 

 

 

Ciao Gianfranco, piacere di conoscerti” mi porge il benvenuto Vince. Il primo scambio è cordialmente positivo. Si avverte la sensazione di mutuo e reciproco rispetto. “Vince, il piacere è tutto mio.” rispondo.

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Vai a trovare Vince” mi aveva suggerito George prima di lasciare il suo ranch in Wyoming. Una veloce telefonata fatta da George, per confermare se Vince fosse disponibile, mi aveva convinto ad effettuare una piccola deviazione sulla strada verso Bismarck per conoscere uno degli amici più cari di George.

L’amicizia tra Vince e George è di vecchia data. George era un giovane poliziotto appena arruolato nelle forze dell’ordine, Vince invece era un professore di storia in una delle più prestigiose e conosciute università della California. Secondo la versione dei fatti, che diverge leggermente a secondo di chi la racconta, Vince era in macchina mentre andava al lavoro e George era di pattuglia. George fermò Vince per notificargli una multa per eccesso di velocità. “Non l’ho multato, gli diedi semplicemente un avvertimento” sostiene George. “Mi multò per eccesso di velocità, andavo solo 15 miglia oltre la soglia del limite” sostiene tuttora Vince. Comunque sia quell’incontro fu l’inizio di un’amicizia che dura ormai da oltre 40 anni.

Vince, durante la sua lunga carriera, ha insegnato storia a migliaia di studenti, ma proprio come George, un giorno Vince si ritrovò sopraffatto dal futuro e relegato in un passato che non esisteva più. La sua colpa? Aver scritto una recensione accademica sulla “pericolosa” erosione dei valori della costituzione americana.  Vince denunciava il numero sempre più alto di istituzioni e cittadini americani che non sapevano piu interpretare l’essenza della costituzione, ignorando completamente il suo significato e i rispettivi contenuti. Vince attribuiva la decadenza dei valori costituzionali, tanto cari ai padri fondatori e ai patrioti americani, a vari motivi. Principalmente tre. Primo, la sempre più crescente macchina amministrativa, burocratica che snatura il concetto costituzionale di  “limited government.” Secondo, la crescente mancanza di insegnamento didattico storico sull’importanza dei valori costituzionali. Terzo, la connessione tra l’immigrazione moderna e l’erosione del rispetto, la conoscenza, l’intendimento dei concetti cardini della costituzione, in particolare quelli ribaditi nel secondo emendamento. Questo ultimo punto creò una levata di scudi da parte di varie entità accademiche e mediatiche che si precipitarono a definire lo scritto di Vince razzista. Vince aveva più volte cercato di chiarire la sua posizione: “La mia affermazione era neutrale, non era un giudizio pro o contro l’immigrazione, ma piuttosto una semplice constatazione dei fatti”. Vince sosteneva che la massiccia immigrazione moderna, proveniente principalmente dai paesi latini e asiatici è intrinsecamente diversa da quella del passato “L’immigrato in quanto tale, indipendentemente da dove proviene è sempre degno dei diritti e delle opportunità che gli Stati Uniti offrono

Secondo Vince, il logorio del rispetto nei riguardi del secondo emendamento in Stati dell’unione come la California e New York è dovuto anche al fatto che i nuovi immigrati sono estranei ai valori legati al concetto di possesso delle armi. La maggior parte arriva da paesi avversi alla cultura delle armi. “Non è una filosofia giusta o sbagliata, ma semplicemente la constatazione che nella stragrande maggioranza dei casi, i nuovi immigrati che arrivano negli Stati Uniti sono estranei al diritto del possesso alle armi, provengono da culture in cui l’equivalente del nostro secondo emendamento non esiste. Non comprendono né la necessità, né la ragione di possedere le armi.

La parte meno compresa del secondo emendamento è il significato, lo spirito, al di là del possesso fisico delle armi, che il secondo emendamento rappresenta: “Il secondo emendamento garantisce di fatto l’opzione del cittadino alla ribellione, alla rivoluzione. ll secondo emendamento, non è stato scolpito dai Padri Fondatori nel testo della costituzione per garantire il diritto del cittadino di andare a sparare al poligono, di andare a caccia, oppure di proteggersi dai criminali; queste sono le conseguenze naturali delle quali il cittadino beneficia.  La vera ragione dell’esistenza del secondo emendamento è quello di garantire un baluardo, un dissuasore contro la nascita di un governo, di un’entità sovrana ostile alla costituzione stessa. I Padri Fondatori si sono preoccupati di codificare i diritti alle armi nella costituzione con una sola ragione in mente: offrire al cittadino gli strumenti necessari per opporsi, se desidera, ad una dittatura tirannica.”  Sostiene Vince. Ad avallare questo concetto essenziale, primario, nella costruzione della costituzione americana, si può portare come esempio la collocazione stessa del secondo emendamento, nella stesura del dettato. Il primo emendamento afferma il diritto alla parola e alla libertà di espressione “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscono la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti.” Il secondo emendamento afferma il diritto al possesso delle armi. In altre parole; se il diritto al primo emendamento venisse meno, il secondo diventa garante e baluardo del rispetto del primo emendamento. Il due emendamenti sono interconnessi; il lento, inesorabile sgretolamento di questi due emendamenti porterà alla fine della repubblica a stelle e strisce; il tempo segna l’ora tarda della Repubblica Americana; l’ora della rivoluzione e della ricostruzione di una nuova entità. Una realtà fondamentalmente diversa da quella attuale. Il destino della Repubblica è ormai incanalato su binari che non si possono deviare…Mi vengono in mente le parole di alcuni dei Padri Fondatori, su tutti Alexander Hamilton, Samuel Adams e George Washington: Qual è il dovere più sacro e la più grande fonte di sicurezza per la Repubblica? Un inviolabile rispetto della Costituzione.” “Se mai dovesse venire il momento, quando uomini vanitosi e ambiziosi avranno i posti più alti nel governo, il nostro Paese avrà bisogno dei suoi patrioti per impedirne la sua rovina.” “Il governo non è intelletto, non è eloquenza, è solo forza. Come il fuoco, è un servo pericoloso e un temibile padrone.

 

 

Due giorni dopo la pubblicazione dello scritto, Vince fu chiamato a rapporto dal rettore dell’università per chiedere chiarimenti su alcuni dei concetti più” controversi” espressi nel suo saggio. Poiché era professore di ruolo, al rettore dell’Università mancavano  le basi per poter licenziare Vince. “Probabilmente neanche il rettore credeva che il mio ‘peccato’ fosse degno di questa sollevazione di scudi. Ma anche lui dovette cedere  all’impeto critico al quale fu soggetto il mio scritto.

Come conseguenza del suo saggio Vince fu oggetto di minacce alla sua incolumità. Lettere minatorie arrivavano a decine ogni giorno, sia nel suo casellario postale all’Università, sia a casa. Una scritta sul muro dell’Università lo accusava di essere razzista e la macchina gli fu rigata più volte nel parcheggio dell’università stessa. Tutto ciò convinse Vince, dopo tanti decenni di insegnamento, ad appendere i libri al muro e andare in pensione; era il 22 Aprile 1998.

 

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Seduti nel salone di Vince ci gustiamo il tè che sua moglie ha preparato. Il salone è di fatto una libreria privata; i muri sono ricoperti da scaffali pieni di testi. “Quanti sono?” Chiedo a Vince guardando gli scaffali. “Fino a qualche anno fa avevo una collezione di 1322 libri, oggi me ne sono rimasti 543

Vince ha raggiunto e superato la ottantina d’anni anche se ne dimostra non più di 70. ”Sembra più vecchio George, nonostante abbia una decina di anni in meno”,  rivolgo un complimento a Vince ridendo. “George ha vissuto una vita sempre sul filo del rasoio; sparatorie, inseguimenti, botte, arresti, insulti, umiliazioni, divorzi, fallimenti; ha combattuto contro tutto e tutti a volte anche con chi gli era amico. Andare in pensione e lasciare la California per il Wyoming, circondandosi di terra, aria, animali e libertà gli ha sicuramente prolungato la vita” Risponde Vince.

Perché il Sud Dakota?” domando schiettamente a Vince. “Mia moglie è originaria di Sioux Falls, ci incontrammo all’università di Berkeley dove si era trasferita a studiare e da allora non ci siamo più lasciati. Quando andai in pensione si presentò l’opportunità di comprare un appezzamento di terra e una casa qui a Highmore, dove il fratello buonanima, di mia moglie viveva.”   Risponde Vince. Tra la terra del cognato e quella di sua proprieta, intorno ai 110 acri (oltre 44 ettari)  negli ultimi vent’anni, Vince ha coltivato e prodotto tonnellate di Mais e Soia. Vince ora è in pensione per la seconda volta, la terra è stata data in gerenza ad una compagnia che produce il mais, “la stessa a cui vendevo il mais” precisa Vince. Gli Stati Uniti sono il primo produttore al mondo di mais, il Sud Dakota il sesto stato dell’unione per la produzione di mais.

Highmore, il centro abitato dove vive Vince, si fa fatica a chiamarlo paese. Highmore è la “capitale” della Contea di Hyde. Gli elettori della Contea di Hyde hanno votato repubblicano sin dalla creazione dello stato del South Dakota. In sole due elezioni hanno votato democratico: quelle di Franklin D. Roosevelt nel 1932 e Lyndon B. Johnson nel 1964.

Il censimento ufficiale dice che a Highmore vivono 795 persone. In totale nella contea vivono 1280 persone. L’estensione della contea di Hyde è di 2240 chilometri quadrati. Per fare un paragone è più o meno della stessa estensione della provincia di Latina. Hyde sta lentamente scomparendo; nel 1930 la popolazione era di 3690 abitanti. Da allora, anno dopo anno, la contea ha visto calare demograficamente la popolazione. Rispecchia una tendenza ormai consolidata nel paese. Le contee a maggioranza di cittadini bianchi vanno lentamente scomparendo se non sono rimpiazzate da immigrati provenienti da altri Stati dell’Unione o da altri paesi del mondo. Generalmente parlando, la popolazione degli Stati Uniti è sempre in crescita, ma in posti dove l’immigrazione non arriva, il basso tasso di natalità è una condanna certa per il futuro. “D’altronde” dice Vince ”se non sei dedito alla coltivazione e/o all’allevamento, per i giovani qui non c’è niente…

Nonostante tutto, Highmore è salito alla ribalta nazionale nel giugno del 2019, quattro mesi prima della mia visita a Vince. Infatti uno dei motivi di questa mia deviazione non era solo il desiderio di conoscere Vince, ascoltando in prima persona la sua personale storia di fuga verso l’ultima frontiera, ma anche la curiosità di visitare un piccolo centro abitato della praterie del Dakota, diventato, tutto di un colpo famoso e proiettato sulla ribalta della politica nazionale. Highmore, questa comunità minuscola, per qualche ora, si è ritrovata al centro dell’aspro scontro politico-sociale in atto di questi tempi di tardo impero americano. In un istante Highmore si è scoperta al centro del mondo: “Preferire chiamarlo l’ombelico del mondo, definirlo centro è esagerato; alla fine siamo solo un buco nel mezzo della prateria. Passata la sbornia mediatica, siamo tornati ad essere un buco…grazie a Dio…” specifica Vince.

 

https://www.ksfy.com/content/news/Parade-float-causes-controversy-511659961.html

Ogni Giugno, in questa centro abitato, si tiene la celebrazione annuale della giornata dei Coloni di Highmore. Un evento celebrativo per radunare tutti insieme i cittadini della contea e dare la possibilità anche agli espatriati da questa contea, che vivono in altri stati, di rientrare e celebrare la cultura e lo spirito delle praterie. Il Giugno passato però è stato particolare; era la celebrazione del cinquantesimo anniversario della giornata dei coloni. A renderla più vivace e “controversa” ci ha pensato un cittadino di Highmore; Jeff Damer. In uno dei carri della parata celebrativa ha pensato bene di mettere una gabbia con dentro due persone con le maschere rispettivamente di Hillary Clinton e Barack Obama. Al di fuori della gabbia un’altra persona con la maschera di Donald Trump a simboleggiare l’arresto e l’imprigionamento di Obama e Clinton per mano dello “Sceriffo” Trump. Inutile dire che in questi tempi di estrema sensibilità sociale e politica, il simbolismo del carro ha toccato un nervo delicato in questa America che naviga sull’orlo di una guerra civile.

I grandi network come la CNN e il mondo dei social media si sono improvvisamente accorti dell’esistenza di questo “ombelico del mondo” riversandosi nelle praterie del Dakota per comprendere meglio “l’odio” che spinge questi “trogloditi” a fomentare il loro razzismo, misoginismo e anticonformismo…

Ci conosciamo tutti qui, incluso Jeff, un bravo ragazzo, che non si aspettava di certo una reazione del genere..Nessuno mai si era preoccupato di sapere cosa succedesse in questa terra di frontiera…” esclama Vince. “Per qualche giorno mi sembrava di essere tornato in California, con l’ossessione del politicamente corretto che mi ha tormentato negli ultimi anni della mia carriera…Ho avuto flashbacks che mi hanno impedito di dormire per un paio di notti quasi fossi afflitto da disturbo da stress post-traumatico” dice Vince con tono mesto. “Grazie a Dio così come erano improvvisamente apparse le orde urbane-radical chic, così si sono dileguate, un paio di giorni dopo. Qui vive tutta brava gente e desidera solo essere lasciata in pace. Molti nella comunità, dopo la parata, da Jeff al Sindaco del paese, hanno subito minacce di morte. La maggior parte di queste minacce arrivavano da soggetti che vivono in altri stati, come la California.” continua Vince. “Quello che questa gente non riesce a comprendere è il significato stesso del primo emendamento: Libertà di espressione e di parola vuol dire letteralmente quello. I Padri Fondatori non hanno lasciato dubbi. Qualsiasi opinione, per quanto odiosa possa essere, e` protetta dalla Costituzione. Fra l’altro ciò che è detestabile per me potrebbe essere apprezzato da qualcun altro. Il vero lascito al rispetto della libertà di parola non è quando scambiamo opinioni ed esprimiamo concetti con coloro con i quali ci troviamo d’accordo, ma quando ci confrontiamo con chi detestiamo  per le idee che esprimono. Non dobbiamo condividerle ne ascoltarle quelle idee, ma dobbiamo rispettare la libertà di chiunque di esprimerle” dice Vince. “Quello che è successo lo scorso Giugno ha convinto molti di Highmore che anche nelle nostre praterie la libertà concessa dalla Costituzione è ora minacciata da forze sovversive che fino a qualche anno fa erano relegate alle zone metropolitane e universitarie, soprattutto in stati come la California e New York. Qui  la gente ha perso un certo senso di innocenza e si ritrova ora a meditare sul proprio futuro. Molti sono venuti in pellegrinaggio a casa mia per chiedere consiglio e ascoltare la mia esperienza. Ho ricordato a loro che quello a cui hanno assistito, sperimentato, io e mia moglie lo avevamo già vissuto vent’anni fa. Prima di questa storia che ha travolto e stordito il nostro paesino, guardavo alle milizie civili armate del Montana o del Wyoming con un certo disinteresse; le ritenevo francamente troppo radicali e fanatiche. Ora purtroppo in Highmore si sente più di qualcuno che vorrebbe creare anche qui un reggimento miliziano. Ci sentiamo con le spalle al muro. Non vivrò abbastanza a lungo da assistere alla sfracello di questo paese e di questo ne sono riconoscente a Dio. Ma nel futuro tutto sarà diverso: La nostra cara amata nazione non esisterà più e se continuerà sarà in una forma completamenta diversa da quella attuale.” la voce di Vince è tremolante, quasi sull‘orlo del pianto.

Ti vuoi fermare per cena?” mi chiede Vince. “Ti ringrazio, apprezzo l’invito, ma devo declinare; sono già le sette di sera e devo ancora arrivare a Bismarck.” gli replico. “Ti posso donare un libro per farti compagnia?” mi chiede Vince. “Sei molto gentile Vince ma io non leggo quasi più i libri cartacei; preferisco gli audio ebook sul kindle, cosi anche quando sono in macchina posso ascoltare la narrazione, ma sono interessato a conoscere la tua raccomandazione su qualcosa da leggere” dichiaro con curiosità. “Washington’s Crossing di David Hackett Fischer” Risponde Vince

 

***

 

 

Sei mesi dopo la Dichiarazione di Indipendenza, il sogno della rivoluzione americana stava già sfumando. Le forze britanniche aveva sbaragliato gli americani a New York, occupato tre colonie ed erano ormai ad un passo da Filadelfia. La notte di Natale del 1776 George Washington era sul punto di perdere la Guerra Rivoluzionaria. Le truppe continentali erano scoraggiate e quasi sconfitte. Il resto dei patrioti americani avevano perso fiducia nelle capacità militari-tattiche di Washington. Il generale Joseph Reed, uno degli ufficiali più vicini a Washington aveva cospirato contro di lui. Uno dei comandanti di Washington, Charles Lee era stato catturato due settimane prima dagli Inglesi. Il Congresso stesso aveva abbandonato Filadelfia rifugiandosi a Baltimore per sfuggire all’avanzata inglese.

Qualche mese prima, a luglio, nel preciso istante della dichiarazione di indipendenza, George Washington comandava una forza di 20,000 truppe per lo più male addestrate contro 32,000 soldati Britannici altamente addestrati, disciplinati e bene equipaggiati. Sconfitta dopo sconfitta, molti dei soldati continentali erano tornati a casa o avevano disertato raggiungendo le truppe britanniche. Con soli 5000 uomini rimasti, in quella fredda e ventosa notte di natale del 1776, George Washington stava guardando dritto alla disfatta che incombeva. In quella notte di Natale George Washington si sarebbe giocato la sua ultima e decisiva carta. In quella notte la battaglia di Trenton entrerà nella storia come quella che cambierà le sorti della Rivoluzione Americana.

Alle sue truppe esauste e demotivate George Washington aveva letto, tre giorni prima, lo scritto di Thomas Paine: “Questi sono i tempi che provano le anime degli uomini: il soldato estivo e il patriota di un giorno, in questa crisi, si defila nel servire il proprio paese; ma chi lo sostiene ora, merita l’amore e il ringraziamento dell’uomo e della donna. La tirannia, come l’inferno, non si sconfigge facilmente; tuttavia ci portiamo dietro questa consolazione: più difficile è il conflitto, più glorioso è il trionfo.

 

***

 

L’orologio segna le 20:20, ancora tre ore e mezzo mi separano dalla mia destinazione finale: Bismarck. Mentre la macchina attraversa le praterie del Dakota, non c’è più nessuno sulla strada. A parte i mie fari, il buio è totale, le poche macchine che ogni tanto incrocio bucano fugacemente la notte. Il forte vento freddo lo avverto nel controllo dello sterzo; la macchina di tanto in tanto sbanda leggermente e richiede massima concentrazione nella guida.

Nella fredda e ventosa notte delle praterie rifletto sul mio viaggio che involontariamente si è trasformato in un’odissea nell’ultima frontiera americana: Vince fu il precursore di George e di tanti altri personaggi che come loro si sono ritrovati improvvisamente tagliati fuori da una società che stava rapidamente cambiando.

Molti anni prima che esistesse il Redoubt Americano, George e Vince si sono trasformati, giocoforza, in una sorta di nuovi pionieri alla ricerca di una nuova frontiera che gli permettesse di sfuggire all’onda inesorabile del cambiamento epocale in atto nella società americana. Quello che ha catapultato Highmore alla cronaca nazionale è un riflesso della guerra di pensiero e delle divisioni politiche che affliggono gli Stati Uniti odierni. Ormai nessuno ne è immune, neanche “un buco nel mezzo delle praterie.” Lo scontro fra forze opposte: da un lato quelle elitiste, progressiste-globaliste che cercano di cambiare, trasformare, un modo di pensare e di vivere radicato nel “passato” e dall’altro una parte della società, sempre più minoritaria, che cerca di aggrapparsi e tenere in vita quelle tradizioni, soprattutto costituzionali, sempre meno importanti in questa America del ventunesimo secolo. L’onda trasformatrice, picconatrice dei valori costituzionali, che partendo dai centri di potere amministrativo, finanziario, mediatico, filosofico e didattico ha trasformato la repubblica americana in una impero globalista, sta ora bussando alle porte degli stati del redoubt e della praterie della frontiera americana. Gente come Vince e George che anni prima era fuggita per evitare di essere travolta completamente da quell’onda, ora si ritrova a guardare, dalle montagne del Wyoming o dalle praterie del Dakota, lo tsunami che all’orizzonte avanza inesorabilmente. Con le spalle al muro non hanno più dove andare a ripararsi. Quando George disse che quella di casa sua sarebbe stata la collina di armageddon, l’ultimo suo atto, non scherzava affatto…L’orizzonte si oscura, i cieli annunciano la burrasca…

Questi sono i tempi che mettono alla prova l’animo degli uomini…

 

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA

 (Terza Parte)

 

UN CAMBIAMENTO EPOCALE

 

 

“Lo scopo della costituzione e` limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani”

 

 

La sala riunioni è affollata. Gente in fila che preme per entrare nel ginnasio di una scuola (Horizon Middle School) di Bismarck. La fila di persone si snoda sin oltre il portone di entrata. Dentro la sala tutte le sedie sono occupate e molti sono appoggiati ai muri in piedi. Non avverto per ora la tensione che mi sarei aspettato per un dibattito così saturo di tensione politica e sociale. Mi accomodo nella terzultima fila in fondo la sala. Prima di entrare nel ginnasio, mentre ero in fila, ho scambiato due battute con un cittadino di Bismarck: Jim è un uomo sulla cinquantina, mi invita a sedermi accanto; ci sono anche la moglie, Mary e un amico di Jim, Greg. Siamo tutti coetanei, anche loro attenti a partecipare alla pubblica riunione. Jim è un imprenditore, ha una ditta di costruzione e scavi; la moglie e i due figli lavorano con lui. Mentre parlo con Jim, osservo con la coda dell’occhio Greg. Un uomo dai lineamenti duri, rughe scavate nella pelle come se fossero dei canali di irrigazione. Occhi blu profondi, capigliatura spessa, barba lunga. La stazza e` imponente; ad occhio e croce Greg svetta a oltre un metro e novanta e supera abbondantemente i 100 chili. Sotto la camicia pesante da cowboy, non intravedo grasso; deduco che la stazza di Greg è per la maggior parte composta da muscoli. Le mani sono grosse come pale meccaniche e nel momento di stringerle le ho sentite callose e ruvide. L’insieme mi lascia pensare ad un uomo temprato da un lavoro duro e faticoso. Mi giro verso Greg e gli domandò: “hai terra?” “Si ho terra, animali e un ranch” mi risponde. Un tema ricorrente quello della terra, dei ranch e degli animali, in questa landa americana dell’ultima frontiera, rada di popolazione, quasi a simboleggiare gli immensi spazi sconfinati, posizionati alla periferia del mondo metropolitano, caotico e  decadente della civiltà occidentale.

 

 

Cosa ha spinto tuo figlio a iscriversi all’università di Bismarck?” Mi chiede Jim incuriosito. “Ha vinto una borsa di studio dall’università di Bismarck e quindi ha deciso di frequentare l’università  in Nord Dakota” rispondo. Aggiungo: ”Infatti ha accettato con molte riserve l’offerta da Bismarck, l’ho convinto dicendogli che se non andava dove gli offrivano una borsa di studio, il costo dell’Università sarebbe stato per me decisamente proibitivo e di conseguenza avrebbe dovuto vedersela da solo.” “ Povero ragazzo cresciuto e nutrito al sole della California, finito nella ‘tundra’ del Dakota…” Scherza Jim.

Sul palco di fronte alla platea sono seduti i commissari della contea di Burleigh, dove si  trova la capitale del Nord Dakota; Bismarck. Jim con il dito mi indica i commissari identificandoli per nome e cognome:  Brian Bitner, Jerry Woodcox, Mark Armstrong, Kathleen Jones e Jim Peluso.  Mi guardo intorno alla platea, osservo nel volto dei partecipanti alla riunione il tratto della società di questa ultima frontiera americana. Gli uomini e le donne che mi circondano rappresentano i cittadini del Nord Dakota e proprio come quelli del Sud Dakota e degli Stati del Redoubt Americano, sono ancora a maggioranza tradizionalmente bianca, una realtà che rappresenta una america che va velocemente scomparendo.  Nel resto degli stati dell’Unione, oltre questa terra da ultima frontiera, la composizione della popolazione americana è cambiata drammaticamente negli ultimi due decenni.

 

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Sin dall’insediamento di Jamestown nel 1607 e dallo sterminio dei popoli nativi, gli Stati Uniti sono stati prevalentemente a maggioranza bianca. I bianchi rappresentavano nel 1950 intorno all’88% della popolazione statunitense. Nel 2018 sono scesi al 60%. Scenderanno al di sotto del 50% nei prossimi 10-15 anni. Già ora i non bianchi rappresentano più della metà delle popolazioni delle Hawaii, del Distretto di Columbia (Washington), della California, del Nuovo Messico, del Texas e del Nevada. “Resistono” gli stati dell’ultima frontiera americana; Idaho, Montana, Wyoming, North Dakota, South Dakota, ma e una resistenza simbolica, dal destino segnato.

Altro dato interessante; nel 2020 si prevede che negli Stati Uniti ci saranno più nascite di bambini non bianchi rispetto a bambini bianchi. Nel 2015, per la prima volta, negli Stati Uniti ci sono stati più decessi che nascite di persone bianche. Gli stati con il numero più alto di morti di bianchi rispetto alle nascite includono la California, la Florida, la Pennsylvania e il Michigan.

 

 

 

https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/12/20/key-ways-us-changed-in-past-decade/

Il cambiamento demografico negli Stati Uniti è una certezza, un destino segnato che renderà la razza bianca minoritaria; porterà cambiamenti epocali nella composizione politica e ideologica della terra a stelle e strisce.  L’America sta cambiando ed è un cambiamento senza possibilità di ritorno. La popolazione bianca sta velocemente scomparendo mentre aumenta la popolazione ispanica, asiatica e nera. Questo passaggio da una nazione in maggioranza bianca a una più diversificata sta avvenendo in alcuni luoghi degli Stati Uniti più rapidamente rispetto ad altri. Gli stati del Redoubt Americano e dell’ultima frontiera sono quelli che stanno cambiando molto più lentamente, ancorati, asserragliati ancora a una popolazione ed a una tradizione culturale e costituzionale che rappresenta il volto di una America smarrita, un concetto di un’america tradizionale incanalata ormai sul viale del tramonto.

L’onda del cambiamento sta bussando inesorabilmente e prepotentemente alle porte del Redoubt. Quel cambiamento che fino a 10 anni fa ancora eludeva l’ultima frontiera americana, ora si ritrova sotto le mura, alla soglia del cancello. Infatti non solo i grandi centri urbani o le zone costiere, ma anche stati limitrofi ai territori del Redoubt come il Colorado, si sono ormai trasformati completamente in una nuova entità. Il muro del Redoubt si sta lentamente ma inesorabilmente sgretolando e con esso l’America dell’ultima frontiera. L’unica domanda da porsi è se i patrioti del redoubt saranno disposti ad accettare questo cambiamento senza porre resistenza.

 

 

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La riunione trasformata in dibattito va avanti per circa quattro ore. I commissari prima discutono fra di loro e poi passano la parola al pubblico che ha il diritto, se desidera, di esprimersi apertamente al microfono ed esporre la propria opinione per cercare di convincere i commissari a favore o contro la ricollocazione dei rifugiati nella terre delle comunità del Nord Dakota. Alla mezz’ora di dibattito tra i commissari fanno seguito tre ore e mezza di interventi da parte dei cittadini di fronte al tavolo dei commissari e di fronte alla platea stessa. La lunga fila di cittadini in piedi, al centro della sala, aspetta diligentemente il proprio turno per esprimere il proprio parere di fronte ai commissari sperando di convincerli a votare contro o a favore della risoluzione di accettazione della quota di rifugiati. Negli occhi e nello sguardo di Jim, Mary e Greg intravedo il riflesso della emotività che questo tema crea nell’animo di molti cittadini di Bismarck.

 

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In seguito alla sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, migliaia di vietnamiti furono trasferiti come richiedenti asilo negli Stati Uniti, per sfuggire all’avanzata del  comunismo.

Il 13 aprile 1979, il procuratore generale degli Stati Uniti per l’amministrazione Carter, Griffin Bell, annunciò che, attraverso un ordine esecutivo, avrebbe concesso l’ammissione di migliaia di rifugiati dal Sud-Est asiatico e dai paesi del blocco sovietico negli Stati Uniti.  Come risultato delle azioni di Bell, il numero totale di rifugiati che entrarono negli Stati Uniti raggiunse quell’anno oltre 65.000 (40.000 dal sud-est asiatico e 25.000 dal blocco sovietico). L’azione esecutiva dell’amministrazione Carter apriva la strada alla necessità di cementare una legge, una soluzione, che non fosse temporanea. Il continuo flusso di rifugiati all’indomani della guerra del Vietnam e le rivoluzioni comuniste nel sud-est asiatico generano un sostegno politico, da parte di ambedue i partiti (Repubblicano e Democratico), sulla necessità di rendere permanente, con una legge ed una riforma, l’ammissione di rifugiati negli Stati Uniti allargandone il numero.  Alla fine del 1979 il Congresso approvò tale riforma all’unanimità: Refugee Act del 1980-S.643.

Il 18 marzo 1980, la legge fu presentata al presidente Jimmy Carter che la firmò aprendo definitivamente le porte ai rifugiati. La nuova legge si integrava con la legge sull’immigrazione e naturalizzazione datata 1965, creando anche un meccanismo per rivedere e adeguare le quote dei rifugiati per far fronte alle emergenze che via via si andavano a creare nel mondo. La legge cambiò la definizione di rifugiato stesso, conformando le leggi immigratori americane agli standard stabiliti dalle convenzioni e dai protocolli delle Nazioni Unite.

Dal 1980 ad oggi, cioè dal passaggio in legge del Refugee Act, che va aggiunto appunto alla riforma del 1965, gli Stati Uniti hanno ammesso più rifugiati di qualsiasi altro paese al mondo, oltre 3 milioni in totale. I rifugiati vanno aggiunti al numero degli immigrati legali, che dal 1980, è passato da meno di 15 milioni a 45 milioni. Un aumento vertiginoso spinto dell’immigrazione su larga scala dall’America Latina e dall’Asia, con una popolazione di origine straniera che si è attestata nel 2018 a 44,7 milioni. Agli immigrati legali vanno aggiunti quelli illegali che si calcola siano intorno ai venti milioni (stima per difetto).

 

https://www.migrationpolicy.org/article/frequently-requested-statistics-immigrants-and-immigration-united-states

 

Per anni gli stati, le varie contee e municipalità dell’Unione, si sono visti sdoganare un numero sempre più alto di rifugiati ricollocati dal governo federale nelle proprie giurisdizioni. Stati come la California, New York e  Washington hanno accolto migliaia di rifugiati senza battere ciglio. Altri Stati soprattutto quelli del Redoubt e dell’ultima frontiera americana hanno, malgrado la loro reticenza, accolto i rifugiati senza aver strumenti a disposizione per opporsi. I cittadini dell’ultima frontiera americana hanno sempre espresso la loro disapprovazione al flusso migratorio nei loro stati, mentre i politici locali, siano essi democratici o repubblicani (maggioranza), si sono sempre adoperati per facilitare la ricollocazione dei rifugiati nei territori di loro competenza. Da una parte il governo federale, spalleggiato dai politici locali (di qualsiasi partito essi fossero) che impone agli stati dell’ultima frontiera le quote dei rifugiati pena la perdita di finanziamenti federali,  dall’altro i cittadini che vorrebbero un maggior potere decisionale nella scelta di imporre quote di rifugiati nei propri territori, città, paesi e comunita`.

 

 

Negli anni, i flussi dei rifugiati ammessi negli Stati Uniti è oscillato tra alti e bassi a seconda degli scenari geopolitici mondiali e delle amministrazioni in carica alla Casa Bianca. Con l’avvento di Donald Trump due importanti fattori si sono creati. Il primo:Il numero massimo imposto dall’amministrazione Trump di rifugiati ammessi negli Stati Uniti è sceso al record più basso mai registrato, 18,000 nel 2019, ben al disotto dei 110,000 imposti da Obama nel 2016. Il secondo: Trump nel Settembre del 2019 ha firmato ed emesso un ordine esecutivo con cui, per la prima volta dal 1980,  le agenzie che si occupano di reinsediamento di rifugiati devono ottenere il consenso scritto dai funzionari statali e locali in qualsiasi giurisdizione chiedono di collocare i rifugiati. In altre parole mentre prima i governi locali non avevano modo di opporsi sul numero di rifugiati che il governo federale assegna tramite le agenzie non governative, l’ordine esecutivo di Trump  delega autorità decisionale e consente ai governi locali di accettare o meno i rifugiati e se disponibili a collaborare con le agenzie che si occupano dei rifugiati, decidere quanti rifugiati sono disposti a ospitare.

L’ordine esecutivo di Trump coniugato con il numero striminzito di rifugiati che l’amministrazione Trump è disposta a far entrare, ha reso difficile il lavoro delle agenzie non governative. Le lamentele e le cause intentate in corte per cercare, tramite i giudici, di bloccare l’ordine esecutivo di Trump, si sono moltiplicate. Catholic Charities, Hebrew Immigrant Aid Society, Lutheran Immigration and Refugee Service, Church World Service e tante altre organizzazioni che si occupano di rifugiati sono sul piede di guerra contro l’amministrazione Trump. Cio che queste organizzazioni però non colgono è l’altra faccia di una società che alla periferia dei grandi centri urbani e dei grandi stati liberal-progressisti, fondamentalmente è stanca di vedersi imporre decisioni dall’alto senza essere consultata.

Il decreto esecutivo di Trump ha dato voce ai patrioti che si oppongono all’immigrazione e ai rifugiati offrendo ai cittadini uno strumento da usare per mettere pressione sui politici locali. Prima di Trump i politici si nascondevano dietro la scusa che non potevano opporsi alle quote di rifugiati imposte da Washington nei loro territori. Ora quella scusa è stata rimossa; Trump ha prima abbassato le quote di ammissione di rifugiati nel paese e poi ha trasferito il potere decisionale nelle mani degli stessi enti locali. Il risultato è questa assemblea di cui sono testimone, resa necessaria per discutere e convincere i commissari della contea se accettare o meno i rifugiati.

https://www.whitehouse.gov/presidential-actions/executive-order-enhancing-state-local-involvement-refugee-resettlement/

 

 

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Lentamente la gente in fila, uno alla volta, si presenta di fronte al microfono ed esprime pubblicamente la propria opinione sui rifugiati da collocare nella contea di Burleigh. Sorprendentemente molti di quelli che sono in fila esprimono un’opinione positiva e di sostegno ai rifugiati incoraggiando i commissari  a votare a favore dell’insediamento. Jim con la testa, alzando il mento, indica in direzione delle persone in piedi in mezzo alla sala in attesa pazientemente del loro turno per parlare: “Vedi li riconosci da lontano; molti non sono neanche di Bismarck. Ci sono Immigrati, studenti universitari sottoposti al lavaggio del cervello dai propri professori universitari anche loro presenti in fila, in attesa di parlare ed impartire lezioni di comportamento a noi ‘ignorantoni.” Poi ci sono i rappresentanti di organizzazioni religiose che ci dicono che dobbiamo accettare tutti i rifugiati perché anche Gesù Cristo con la sua famiglia è stato un rifugiato. Se ci ostiniamo ad essere intransigenti ci dicono che andremo sicuramente all’inferno“ mi sussurra Jim all’orecchio. “ Ma all’inferno qualcuno di noi c’è già stato!” continua Jim rivolgendo lo sguardo verso Greg. Mi giro di lato e osservo Greg, ponderando le parole di Jim e chiedendomi che cosa intendesse per  “all’inferno qualcuno c’è già stato”. Jim quasi come se leggesse il mio pensiero continua a parlare sottovoce “quando nel buio più totale che ti avvolge, nei momenti di disperazione che ti  lacerano l’anima, l’unica consolazione che ti tiene a galla è quella di sapere che hai fatto tutto il possibile affinché il sacrificio delle persone a te più care non sia stato invano. Quando Greg ha perso suo figlio, appena ventenne militare in Iraq, queste organizzazioni religiose, caritatevoli, nonostante la tragedia, si sono viste poco o niente.  Gli unici vicini a Greg sono stati i patrioti che stringendosi intorno alla famiglia l’hanno sostenuta e aiutata. Queste entità religiose ritengono meglio concentrarsi sui rifugiati perché portano denaro. Miliardi di dollari dei contributi che ogni anno vanno a riempire le casse di queste organizzazioni religiose o laiche.  Ci sputo sopra e li vomito questi ipocriti

Continua la parata delle persone che esprimono la loro opinione; ha ormai superato le quattro ore, le ultime tre ore e mezza sono state spese dando la possibilità al pubblico di esprimersi. La maggior parte della gente è rimasta seduta ad ascoltare con attenzione e rispetto. Ogni volta che al microfono si sentiva qualcuno esprimere un giudizio positivo, eloquentemente spiegando le ragione per cui si dovrebbero accogliere i rifugiati nelle terre del Dakota, la sala rumoreggiava. Un signore seduto di fronte a me continuava a muoversi nervosamente sulla sedia, quasi come se stesse combattendo internamente con un fuoco invisibile, cercando di domare uno spirito inquieto.

Proprio come era successo con Highmore; “l’ombelico del mondo”, i mass media come la CNN, il New York Times si sono, solo ora, accorti dei malumori espressi da questa ultima frontiera americana. Si sono presentati in massa a questa riunione in Bismarck. Ufficialmente è la prima volta, il primo dibattito pubblico, da quando Trump ha firmato l’ordine esecutivo, in cui un ente locale è chiamato, alimentato dall’impeto dei patrioti e cittadini, ad esprimersi sui rifugiati. Nei commenti dei giornalisti presenti si intravede una certa condiscendenza nei riguardi dei cittadini di Bismarck, a dimostrazione che i rappresentanti delle élite mediatiche e politiche di questo paese nutrono un disprezzo culturale nei confronti di una parte del popolo americano. Si può quasi leggere nella testa ciò che pensano: “…ma come si permettono questi mandriani retrogradi a sfidare le regole del buon senso comune…?

Si susseguono gli interventi:

Non siamo contro i rifugiati o gli immigrati, ma abbiamo i nostri veterani, i nostri senzatetto , gli alcolizzati e tossicodipendenti a cui pensare”

“Siamo una nazione che ha sempre accettato i rifugiati e gli immigrati”

“Stiamo parlando di un piccolo numero di persone che fuggono da guerre e disastri e hanno bisogno della nostra assistenza”

”Secondo le cifre ufficiali ogni rifugiato costa alla collettività dei contribuenti 65.000 dollari di spese necessarie per provvedere ai loro bisogni di base, come alloggio, cibo…”

Alla fine degli interventi i commissari si apprestano a votare. Il processo di voto è semplice e trasparente; i commissari vengono chiamati per nome e annunciano a voce il loro voto: Brian Bitner: No a i rifugiati. Un mormorio si alza in sala, con qualcuno che due file di fronte a me applaude convinto. Jerry Woodcox: Si a i rifugiati. “Vergognati!” Si sente qualcuno esclamare in sala.  Mark Armstrong: Si ai rifugiati “Bravo Mark!” Una voce alla mia destra proclama la sua soddisfazione.  “Mark ma che fai? Hai perso la testa? ” Chiede invece ad alta voce un uomo tre-quattro file avanti a me. Jim Peluso: No ai rifugiati. “ Way to go Jim! (E la strada giusta Jim)” dichiara una voce dietro di me. Kathleen Jones: Si ai rifugiati! Voto finale; tre a favore dei rifugiati due contro. Greg si alza di impeto dalla sedia che cade per terra ed esce dalla sala senza dire una parola. Mary stringe la mano al marito Jim e i due restano seduti a fissare un punto del muro alle spalle dei commissari. C’è chi applaude contento della decisione dei commissari, il resto, la maggioranza, si alza e in silenzio comincia a sfollare la sala; si avverte un senso di rabbia e delusione tra la maggior parte delle persone presenti. Un uomo si alza e camminando si avvicina al tavolo dei commissari, punta il dito verso di loro che sono rimasti seduti di fronte alla platea: “La Costituzione non autorizza il Congresso o alcun ramo del governo federale a fornire alcun tipo di assistenza sociale o aiuto finanziario supplementare agli immigrati o rifugiati. Lo scopo della costituzione è limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani; con questa decisione andate contro la volontà dei cittadini di Bismarck, portate l’acqua per conto dei politici e degli apparati burocratici,  vi allineate con gli interessi di queste agenzie sovranazionali, vergognatevi…!” Impreca l’uomo.

Mi rivolgo verso Jim e alzandomi chiedo se vogliono rimanere in sala ancora per molto. “No, siamo pronti ad uscire” mi risponde Jim, poi prosegue “ meglio andarcene, voglio vedere dove è andato Greg”. Io, Jim e Mary usciamo insieme dalla sala e dal tepore dei riscaldamenti, appena messo piede fuori, l’aria gelida mi colpisce come una lama di coltello al viso. Greg è in piedi appoggiato ad un camion nel parcheggio, presumo che sia il suo veicolo. Jim si avvicina a Greg e gli chiede come sta: “you okay man?”  Greg gli risponde “all good bro”. Poi Jim si rivolge verso di me “hai programmi per stasera?” mi chiede. “No, devo solo rientrare un po presto in albergo, domani mattina ho il volo di ritorno in California” gli rispondo. “Vieni con noi! Andiamo a bere qualcosa” mi propone Jim.

 

 

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L’ ASCESA DELLE MILIZIE

 

“Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito mortalmente…”

 

 

Sono le nove di sera, la citta e deserta, una macchina della polizia attraversa l’incrocio di fronte al pub. Siamo agli inizi dell’autunno e ci sono solo 3 gradi, mi chiedo come fanno i colleghi di Bismarck ad operare durante l’inverno quando la temperatura a Gennaio scende sotto i trenta gradi, non li invidio…

Il pub è quasi vuoto, io Jim e Greg ci accomodiamo al tavolo con l’intenzione di ordinare qualcosa da bere, la moglie di Jim è tornata a casa. Dopo la riunione e la “sconfitta” dei cittadini di Bismarck, l’atmosfera al nostro tavolo è sobria e serena, la rabbia, specialmente quella di Greg, sembra essere passata, anche se non è mai sfociata in isteria. Non ci sono state parole fuori posto, non ho sentito in sala bestemmie o parolacce, ma solo una genuina frustrazione che si è materializzata in un uscita frettolosa e rabbiosa di molti dei partecipanti dalla sala riunioni.

Si scherza e si ride fra noi tre. Jim e Greg sono interessati principalmente ad ascoltare le mie avventure da poliziotto californiano. Anche se ho conosciuto per la prima volta Jim e Greg questa notte, percepisco che l’amicizia sarà duratura e il mio prossimo viaggio in Nord Dakota e nell’ultima frontiera americana, oltre a includere George e Vince, avrà come protagonisti anche Jim e Greg.

Vorrei chiedere a Greg i dettagli sulla morte del figlio in Iraq, ma mi astengo per rispetto verso l’uomo che ancora non conosco bene; quando i tempi saranno maturi, al mio prossimo viaggio, avrò la possibilità di discutere anche del figlio di Greg. La perdita di un figlio è una tragedia immane per un padre, quello che rende questa tragedia ancora più dolorosa è il sapere che il sacrificio di tanti giovani americani, per certi versi è stato del tutto inutile. Il prezzo pagato dalle famiglie americane per le avventure imperialistiche dei centri di potere di Washington è altissimo. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato nel 2016 dal Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti (VA), analizzando i dati di 55 milioni di veterani, dal 1979 al 2014, l’analisi indica che una media di 20 veterani muore per suicidio ogni giorno. Senza includere guerre come quella della Corea e del Vietnam, ai suicidi si aggiungono i morti in Afghanistan; 2,216 e quelli in Iraq; 4,576.

Cerco di comprendere l’opposizione dei cittadini di Bismarck all’accoglienza verso i rifugiati. Parlando con Jim e Greg, capisco che non è un opposizione spinta da un impulso intollerante, ma piuttosto una forma di ribellione contro i poteri burocratici e amministrativi: “I veri rifugiati siamo noi non loro. I nostri soldati, appartenenti a legioni sparse per il mondo, in terre e frontiere distanti, che prestano servizio in aree geografiche delle quali a malapena riconosciamo il nome, tornano a casa distrutti. Soffrono di stress post traumatico. Appena attraversato il ciglio della porta di casa, lasciano cadere lo zaino a terra, si dirigono in camera da letto o sul divano e vanno a dormire stanchi, privi di ogni energia, svuotati da ogni motivazione, gusci vuoti, fantasmi, pallidi ricordi di quegli esseri umani che furono prima di arruolarsi. Molti si chiedono perché sono in Afghanistan, in Iraq, in Siria. I nostri soldati sono il riflesso di una nazione esausta da decenni di guerre create con pretesti fasulli per il beneficio di una classa dirigente alla quale la costituzione non interessa in nessun modo. Poi, per compensarci dei sacrifici fatti dai noi stessi, dai nostri amici, dai nostri figli, dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri padri e dai nostri nonni ci impongono i rifugiati nelle nostre terre, rifugiati che le loro politiche hanno contribuito a creare, dicendo che è nostro dovere accettarli altrimenti siamo razzisti, egoisti, tribali, intolleranti, xenofobi…Spediamo oltre 700 miliardi annui in spese militari per crearci una corazza, un’armata invincibile. Ci dicono che i nostri nemici sono i russi, i cinesi, i terroristi, quelli stessi terroristi finanziati dalla classe dirigente di questo paese. Tutto ciò mentre dall’interno la nostra nazione si sta lacerando. Le nostre tradizioni stanno scomparendo. Le nostre terre stanno morendo.  Le nostre città invase e violentate. La nostra costituzione calpestata. La nostra nazione somiglia a un palestrato pieno di muscoli con un corpo perfetto, ma dentro quel corpo dalla apparenza invincibile, un cancro lo sta lentamente consumando.” risponde Jim alla mia domanda del perché si sono recati stasera alla riunione esprimendo la loro opposizione alla collocazione di nuovi rifugiati nel loro territorio. Greg incalza la dose “I globalisti guerrafondaii, lo stato burocratico permanente, insieme alla macchina del complesso militare creano, tramite politiche estere fallimentari, le crisi sociali che spingono milioni di persone a spostarsi in cerca di rifugio e poi chiedono a noi cittadini, contribuenti, di sostenere queste politiche fallimentari tramite i sacrifici, le tasse, l’impegno morale e finanziario, accogliendo nelle nostre terre migliaia di poveri rifugiati sfrattati dai teatri di guerra e violenza che gli stessi poteri forti hanno creato distruggendo quelle terre, le loro culture e tradizioni. I poveri rifugiati sono vittime come lo siamo noi, vittime degli stessi nemici. Si aggiungono i sostenitori del politicamente corretto che usano parole come razzismo e intolleranza per imporre i flussi migratori nelle nostre terre e cambiare sostanzialmente la nostra composizione culturale e costituzionale. Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito a morte…Mark Twain diceva: ‘La nazione è divisa, metà patrioti e metà traditori’…Loro sono i traditori

Fra una birra, le patatine fritte e un bicchiere di vino, la serata al pub scorre veloce, si trasforma in una discussione filosofica-culturale. Scopro con grande sorpresa che Greg è laureato in ingegneria, la sua apparenza bruta e rude inganna e annebbia il giudizio sulla persona, mai giudicare un libro dalla copertina…

La discussione si incanala su diversi argomenti: “Quello che è successo stasera è solo un esempio, un anticipo,  di ciò che avverrà in altri stati; continuano a spingere le loro ideologie e le loro leggi nei nostri territori e se reagiamo ci criticano e ci etichettano usando ogni aggettivo dispregiativo possibile. Nel frattempo sempre più persone si stanno radicalizzando unendosi ai miliziani.”  Afferma Jim. Un tema ricorrente questo delle milizie; lo aveva già accennato Vince durante la mia visita a Highmore due giorni prima. “Ma quante milizie ci sono in Nord Dakota?” Chiedo a Jim. Mi risponde Greg inserendosi nella conversazione ”Una domanda difficile da rispondere, non ti so dire esattamente quanti miliziani ci sono in Nord Dakota, ma ti posso assicurare che c’è ne sono molti di più rispetto al passato. Conosco più di qualcuno che ora fa parte della milizia. Gente assolutamente normale alienata sempre di più dalla società moderna. Si rifugia formando una comunità nella comunità, unendosi a gruppi che resistono e promettono guerra ai nemici della costituzione. Questi sono gli ultimi fuochi di un mondo che sta finendo, tutto intorno il cambiamento ci avvolge; ci si sente impotenti, il coagularsi intorno ad altre persone simili è il naturale processo di autodifesa messo in atto per resistere al cambiamento epocale che ci sta avvolgendo. Si sente nell’aria cha la rivoluzione è prossima. I tempi e i modi non li conosco, ma verrà come è sicuro che la notte segue il giorno, come la morte segue la vita… 

Greg ha ragione, lui percepisce ciò che i dati ci dicono: Secondo uno studio del Southern Poverty Law Center; nel 2016 venivano identificati 276 gruppi di milizie attive in tutti gli Stati Uniti. Rispetto ai 202 del 2014 c’è stato un aumento del 37%. Il numero rappresenta una impetuosa crescita dopo diversi anni di declino. Le schiere dei miliziani è cresciuto in modo esplosivo dopo le elezioni nel 2008 del presidente Obama. Si è passati da 42 gruppi nel 2008  ai 276 del 2016. Secondo dati non ufficiali, tra il 2017 e il 2019, i gruppi miliziani attivi sul territorio dell’unione sarebbero aumentati superando abbondantemente le quattrocento unità.

https://www.splcenter.org/news/2016/01/04/antigovernment-militia-groups-grew-more-one-third-last-year

Quantificare il numero dei singoli membri però è molto problematico poiché una larga maggioranza dei miliziani aderiscono in incognito, non pubblicizzano la loro appartenenza alle milizie. Le cifre ufficiali dicono che sarebbero oltre 50,000 i membri appartenenti alle forze miliziane. E una cifra su cui nutro seri dubbi visto la reticenza dei membri stessi a manifestarsi; stimerei quel numero ad almeno il doppio, 100,000. Significativa è stata la manifestazione recentemente svoltasi in Richmond, la capitale dello stato della Virginia.

Lo stato della Virginia, sotto il controllo di legislatori democratici, ha cercato di introdurre una legge restrittiva sull’uso delle armi. La reazione dei cittadini è stata immediata. Secondo la polizia sarebbero state altre 22,000 le persone armate fino ai denti scese in piazza a Richmond per dimostrare contro la legge. Ora è chiaro che non tutti i 22,000 partecipanti erano membri miliziani, ma è altrettanto certo che almeno la metà dei partecipanti hanno contatti o appartengono a organizzazioni miliziane. Il resto ha la potenzialità di unirsi ai miliziani visto che la libertà delle armi è uno dei maggiori punti che accomuna i patrioti americani di ogni tipo e i miliziani. 22,000 persone in piazza a protestare solo nello stato della Virginia mi fanno pensare che 100,000 miliziani per l’intero paese è probabilmente un numero ancora troppo basso. A dimostrazione della pesante presenza di miliziani durante la manifestazione di protesta contro la legge sulle armi, basterebbe osservare alcune delle bandiere che sventolavano nelle strade di Richmond, una fra tutte quella del “III 1776”, un gruppo paramilitare molto nutrito, antigovernativo, fondato nel 2008, attivo sia negli Stati Uniti sia in Canada.

 

 

 

Secondo i mass media e i democratici, i movimenti miliziani sarebbero composti da gruppi bianchi di estrema destra. Questa definizione di comodo, semplicistica e affrettata, denota una mancanza di onestà intellettuale e giornalistica. I miliziani e i movimenti patriottici in generale, sono composti da varie estrazioni sociali, razziali, inclusi afroamericani, latini, donne e movimenti omosessuali.

Storicamente parlando le forze miliziane moderne sono tornate alla ribalta nazionale agli inizi degli anni novanta, ma in realtà hanno sempre fatto parte della cultura a stelle e strisce. Infatti le unità della milizia costituirono la spina dorsale della forza che iniziò la rivoluzione americana e furono usate per potenziare l’esercito continentale durante la guerra di indipendenza. Fu la milizia che portò a termine l’assedio di Boston e diede a George Washington un esercito con cui proseguire la guerra prima che il Congresso continentale potesse fornire l’autorizzazione a una forza semi-professionale.

Quando la Rivoluzione americana finì, l’esercito fu ridotto a una piccola forza in risposta a uno spirito anti-monarchico prevalente all’epoca che considerava un esercito permanente come un pericolo per un popolo libero. Tuttora nello spirito patriottico prevale sì il sostegno ai soldati americani per il dovere che esplicano al servizio della patria, ma nel profondo del loro spirito di libertà sono convinti che un esercito è un viatico di potere in mano ai burocrati per minare e indebolire l’autorità dei governi locali e dei cittadini.

 

 

***

 

Mentre la notte fredda del Nord Dakota scorre via velocemente è giunto il momento di congedarmi dai miei nuovi amici. Il ritorno in albergo e le poche ore di sonno sono tutto ciò che mi separa dal volo di rientro in California. Una delle cose più belle degli Stati Uniti, soprattutto nell’America dell’ultima frontiera è la facilità con cui si fa amicizia e ci si connette con la gente.

Dopo la presa di posizione anti-rifugiati dei cittadini di Bismarck, la diga si è aperta. Sono seguite altre udienze pubbliche: La contea di Beltrami in Minnesota ha votato contro l’insediamento di nuovi rifugiati. La contea di Cass dove si trova la città di Fargo in Nord Dakota  ha votato si ai rifugiati, creando anche li molto malumore. Il governatore del Texas ha chiuso lo stato ad ulteriori rifugiati, i semi della ribellione stanno lentamente germogliando.

Al mio ritorno in albergo mi sdraio sul letto esausto da un viaggio che in 5 giorni mi ha portato a percorrere oltre 2,700 chilometri attraversando 7 stati, incluso il cuore dell’America Redoubt. Non è la prima volta che attraverso gli Stati Uniti dal nord a sud, da est a ovest, in lungo e in largo. Questo viaggio però rispetto agli altri mi ha lasciato dentro un segno indelebile. Sono partito da San Francisco per Bismarck, in macchina, come avevo già fatto altre volte, non più con l’intenzione solamente di visitare il figlio, gli amici o parchi nazionali, bensì con il desiderio di comprendere meglio i cambiamenti in atto in questa nazione. Negli ultimi anni ho sperimentato di persona il cambiamento tumultuoso in corso in America. Un cambiamento culturale, demografico e generazionale che, alimentato dalla politica corrosiva di questi ultimi quattro-cinque anni, sta lacerando profondamente la terra a stelle e strisce. Il viaggio si è trasformato in una odissea che mi ha spiritualmente ed emotivamente scosso, esaurendo l’energia che avevo dentro. Ritornerò in California, al lavoro, in riserva, più stanco di quando sono partito, ci vorranno molti giorni per recuperare. Definire questo viaggio una vacanza è per lo meno un azzardo.

Mentre rivivo mentalmente i momenti più significativi di questo viaggio, improvvisamente mi ricordo che devo prendere la mia pistola, scaricarla, smontarla, per poterla trasportare, con il consenso del capitano, nella stiva dell’aereo. Fisso l’arma per qualche secondo pensando a quanto importante sia questo strumento nello scontro culturale epocale in atto negli Stati Uniti.

Sdraiato sul letto in attesa che morfeo mi accolga, incuriosito vado su un sito di miliziani, leggo la loro introduzione:

Perché state tutti nell’ombra, patrioti? Risorgete fratelli e sorelle di questa nazione, coraggiosamente insieme, l’uno con l’altro, chiedete ai nostri servitori eletti di tornare allo stato di diritto se non vogliono essere trattati da criminali quali sono!

Desideriamo la pace, ma non a spese della nostra libertà! Siamo uniti e pronti!

Per il momento, oh voi tiranni, andate avanti contro di noi usando le vostre leggi incostituzionali, ma mentre ci prepariamo allo scontro finale, vi avvertiamo che non obbediremo! E  rifiutandoci di obbedire, stroncheremo e annulleremo le vostre leggi incostituzionali rendendole inutili!

Fratelli e sorelle, alle armi!

https://modernmilitiamovement.com/

Il mio viaggio nell’America del Redoubt è terminato, quello nella futura prossima guerra civile continua. Nella mente recito la poesia scritta da un patriota anonimo delle praterie:

Lascia che l’America sia di nuovo America.

Lascia che sia il sogno di una volta.

Lascia che sia il pioniere sulla prateria

cercare una casa dove lui stesso è libero.

Lascia che l’America sia di nuovo il sogno sognato dai sognatori.

Lascia che sia quella grande terra splendente

dove mai i re sorgeranno né i tiranni cospireranno.

 

 

VERSO LA GUERRA CIVILE IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA 

 

(Quarta e Ultima Parte)

 

I NEMICI SI SCHIERANO: LE CITTÀ STATO

 

 “Preferisco stare nella mia fattoria piuttosto che essere imperatore del mondo.”

 

LA Traffic Nightmare: 405 Freeway at Complete Standstill ...

 

 

Il traffico è apocalittico! Si avanza di pochi centimetri alla volta, ogni 5 minuti. Sono le 14 e 20 di un martedì qualunque e mentre sono al volante della mia macchina, affogato nella marea di veicoli che mi accerchia, rifletto sul cambiamento che gli ultimi 30 anni hanno portato nella vita quotidiana di chi vive nella Bay Area (la Baia di San Francisco). Lo stesso ponte, nello stesso giorno e alla stessa ora, trenta anni fa riuscivo ad atrraversarlo in meno di dieci minuti; adesso se sono fortunato riesco a farcela in ¾ d’ora. All’epoca le scorribande da un parte all’altra della baia erano, per me che, lavoravo al giornale di San Francisco, prassi quotidiana, ordinaria amministrazione. Infatti fino a quando riuscivo a rientrare alla base prima delle 15:00, di solito la mia auto sulle freeways della baia scivolava piacevolmente, priva di intralci significativi. Ora pur facendo un lavoro diverso e una strada diversa, il traffico è diventato  talmente asfissiante che le corsie libere di una volta giacciono nella mia mente come un pallido ricordo. Qualche settimana fa un articolo di Business Insider sosteneva che il traffico nell’area della baia era aumentato, solo nell’ultimo decennio, dell’84%.

Il mio viaggio nell’ultima frontiera americana è terminato appena qualche giorno fa e già, nonostante il desiderio di rientrare in California, dalla mia famiglia, lo stress del traffico, delle torme di auto e persone che mi cingono d’assedio mi porta un senso di soffocamento nel cuore. Con la mente rivivo il mio viaggio nell’America del Redoubt. Non ci sono più le praterie del Dakota, le montagne del Wyoming, le colline della Idaho. Non ci sono più le rade macchine che ogni tanto incrociavo nelle strade deserte in quelle immense praterie. Non ci sono più i cavalli liberi a cavalcare tra terreni incolti e selvaggi; un vero inno alla libertà. Non ci sono più i pascoli con i Bisonti e le Mucche a foraggiare. Non ci sono più i cartelloni pubblicitari che dichiarano amore eterno alle Armi, a Dio e alla Patria. Spariti i Cowboys con la pistola nella fondina attaccata al fianco, alla cintura dei jeans. Il sussurro del vento delle praterie rimane un pallido ricordo rimpiazzato dal rumore dei motori delle macchine e dei camion bloccati sulla freeway.

Mentre pazientemente attendo di avanzare centimetro per centimetro imbottigliato nel traffico, sulla mia destra osservo lo stagliarsi all’orizzonte dei grattacieli di San Francisco. In una giornata limpida come quella di oggi riesco a cogliere in tutta la sua estensione l’area urbana della baia di San Francisco; 8 milioni di persone stipate in una area geografica di appena 18,040 km2.

Il mio viaggio nell’America del Redoubt e dell’ultima frontiera mi ha sbattuto in faccia il contrasto stridente fra l’America dei grandi centri urbani e quella dei grandi spazi immensi; due mondi lontani fra di loro geograficamente, economicamente e culturalmente. Due mondi diversi, agli antipodi nel modo di interpretare la vita, la libertà, ma soprattutto la costituzione americana. Due mondi che hanno sempre fatto fatica a incontrarsi, ma che in questi ultimi anni si sono divaricati tra di loro ancora di più. I centri urbani da un lato; addensamenti di masse umane, un caleidoscopio di razze e culture che convivono sopra, sotto, nei meandri di grattacieli, di periferie e freeways; conglomerati caotici che si avviluppano per centinaia di chilometri senza interruzione. Dall’altro? Praterie, montagne, deserti, colline, laghi, piccoli paesi, spazi immensi, cieli limpidi e profondi. Tutte cose che mettono in risalto le differenze di questi due mondi, ma nonostante tutto un qualcosa li accomuna: Lontano dai grandi centri urbani, si trovano le fattorie e i terreni che producono carne, latte, formaggi; il grano, le verdure, l’acqua, cioè tutto il necessario e l’indispensabile alla vita, alla sopravvivenza dei grandi centri urbani. Due mondi lontani ma allo stesso tempo connessi da un legame esistenziale. Il primo, il mondo urbano, in particolare al secondo. La ribellione che fermenta nell’America dell’ultima frontiera, all’interno dell’America rurale renderà questo rapporto ancora più problematico, ma soprattutto mette a rischio la sopravvivenza stessa dei grandi centri urbani.

Lo scontro segue in apparenza gli schemi del confronto politico. In realtà la divisione fra repubblicani e democratici, fra destra e sinistra, fra i liberali e i conservatori, fra rossi e blu, fra i globalisti e i nazionalisti patriottici, fra lo stato ombra e lo stato costituzionale, fra Wall Street e Main Street è in realtà solo un corollario del vero scontro del quale l’America prossima futura sarà testimone e protagonista; lo scontro fra i centri urbani e le aree rurali. Lo scontro fra le città-stato e il resto del paese, lo scontro tra urbanisti e ruralisti. Queste sono le forze realmente schierate, una accanto all’altra, una contro l’altra; due forze destinate a scontrarsi in una guerra civile prossima futura. Quanto prossima?

 

***

 

Le elezioni presidenziali del 2016, con la vittoria a sorpresa di Donald Trump, hanno evidenziato una mappatura all’interno della società americana che va ben aldilà della ideologia politica. Trump ha vinto nei centri rurali mentre Hillary Clinton ha vinto, comodamente, nei centri urbani, soprattutto in quelli più grandi. La elezione di Trump ha confermato una tendenza già in corso che si era vista con il referendum in Inghilterra l’anno prima; i centri periferici e rurali avevano votato per la Brexit mentre i centri urbani avevano votato contro. La cosa si è ripetuta nelle recenti elezioni in Canada dove Justin Trudeau, ha vinto grazie ai voti dei centri urbani ma ha perso pesantemente nelle zone rurali. Il potere, il dominio conseguito, soprattutto grazie alla globalizzazione, dalle Città Stato negli ultimi decenni è ora messo in discussione.

Le città stato americane sono l’esempio più chiaro della posizione acquisita negli anni da questi centri urbani. Tra i tanti esempi Los Angeles è la città stato centro del potere mediatico; San Francisco la città stato centro del potere della new economy che ha dato vita, grazie alla Silicon valley, alla rivoluzione digitale e all’alta tecnologia; New York è la città stato di Wall Street, centro di potere finanziario e bancario. Washington è la città stato centro di potere amministrativo, politico. Boston è la città stato centro del potere intellettuale. Las Vegas il centro del divertimento.  Poi ci sono Chicago, Seattle, Detroit. Philadelphia e via discorrendo, tutti posti dove i democratici elitisti, l’establishment politico e finanziario, propinatori del concetto di globalismo si annidano e proliferano…

Con la fine della seconda guerra mondiale e l’avvento del globalismo, negli ultimi decenni la società americana ha visto la separazione fra i centri rurali e quelli urbani divaricarsi in maniera sempre più accentuata. L’ascesa al potere delle Città Stato non è nuova nella storia dell’umanità. Basta ricordare le Città Stato della Grecia e quelle dell’Italia. Il globalismo ha contribuito ad alimentare, ha sostenuto la crescita di potere economico e politico delle città stato. In questi agglomerati si annidano anche le forze elitiste che controllano i processi del globalismo. Gli elitisti che grazie alle masse urbane sotto il loro controllo, propinano le politiche che hanno plasmato l’America degli ultimi 50 anni.

In tempi di prosperità le città stato crescono, acquistano potere e dettano le linee sociali e politiche da seguire. Il cittadino di San Francisco o di New York diventa il cittadino del mondo, un cittadino non più ancorato al concetto di delimitazione, di nazionalismo, di sovranità. In altre parole il cittadino di San francisco o di New York si riflette, tanto si identifica in quello di Roma, Londra , Parigi, Tokyo, Pechino e via dicendo, quanto lo stesso è completamente alienato e distaccato dalla realtà rurale prossima che lo circonda. Chi sente il bisogno dei trogloditi del Montana, del Wyoming, del Dakota, dell’Idaho quando si ha a disposizione il mondo intero? Non è un caso che molti dei grandi centri urbani Statunitensi si trovano nello zone costiere del Pacifico o dell’Atlantico. Così si intrecciano tra di essi più facilmente rapporti, collaborazioni, scambi culturali ed economici. Si firmano trattati internazionali, mentre il resto del paese, le zone interne e rurali rimangono ancorate ad un concetto più tradizionale di società, appena sfiorate dalla globalizzazione.

Con l’avvento di Trump e della Brexit la globalizzazione è entrata in crisi. Più probabilmente ne sono la cartina di tornasole. Il processo di globalizzazione si è arrestato ed è ora entrato in una fase di decadenza; una crisi che, anche dopo l’uscita di scena di Trump, quest’anno o fra quattro anni, sarà comunque irreversibile. Così come caddero le città stato greche e italiane, così le città stato americane cadranno sotto i colpi di una crisi che si aggrava sempre di più e che fomenta la ribellione nei centri rurali del paese.

Le città stato oggi sono potenti perché raggruppano una popolazione molto più larga rispetto alle aree rurali. Globalmente parlando il 54% della popolazione vive nelle aree urbane; negli Stati Uniti arriva addirittura al 63%. Questa differenza, associata alla globalizzazione, ai trattati internazionali e al libero scambio di prodotti e di persone, alimentata ulteriormente dai grandi hub di trasporto di massa presenti nelle città stato, fa sì che il potere di queste sia molto più incisivo e decisivo rispetto alle zone rurali. La potenza delle città stato non è riuscita a fermare le elezioni di Trump poiché il sistema elettorale negli Stati Uniti ha caratteristiche peculiari rispetto al resto delle democrazie nel mondo. La costituzione americana non contempla un sistema maggioritario. In altre parole la maggioranza dei votanti non decide la presidenza; è il sistema del collegio elettorale che decide le elezioni presidenziali. Ecco perché Trump ha vinto nel collegio elettorale pur perdendo nel voto popolare con una differenza di oltre due milioni e mezzo di voti. Nonostante ciò è diventato Presidente. I padri fondatori avevano immaginato e paventato un futuro in cui il voto popolare, le masse, avrebbero influenzato e deciso le sorti per il resto del paese, tagliando fuori dalle decisioni politiche il cuore agricolo, rurale e produttivo della nazione. I padri fondatori stessi erano nazionalisti e per la maggior parte figli delle campagne. Tra di loro gente come Thomas Jefferson, George Washington, Benjamin Franklin, John adams, James Madison. Famose sone le frasi espresse da alcuni di loro sull’importanza della libertà e del significato che la terra, i suoi frutti e i suoi figli hanno sul resto della nazione:

Sembrano esserci solo tre modi per acquisire ricchezza da parte di una nazione:  Il primo è la guerra, come fecero i romani, nel saccheggio dei popoli soggiogati. Questa è la rapina. Il secondo è il  commercio, più generalmente definito barare, fregare il prossimo. Il terzo dall’agricoltura, l’unico modo onesto in cui l’uomo riceve un vero ritorno del seme gettato nel terreno, in una sorta di continuo miracolo, portato dalla mano di Dio a suo favore, come ricompensa per la sua vita innocente e la sua industria virtuosa. ” Benjamin Franklin

Penso che i nostri  futuri governi rimarranno virtuosi per molti secoli; purché siano principalmente agricoli ” Thomas Jefferson.

 “Preferisco stare nella mia fattoria piuttosto che essere imperatore del mondo.” George Washington

 

 

IL TRAMONTO DELLE CITTÀ STATO

 

“Se verranno camuffati da “semplici” nuovi residenti li riconosceremo e li smaschereremo. Se verranno armati, affamati e disperati li affronteremo…”

 

The 3 Generations Of Smart Cities | Fast Company

 

I nazionalisti fedeli alla costituzione sono quindi in realtà i veri eredi del concetto dell’America come inteso originariamente dai padri fondatori: potere limitato dei burocrati e quindi dei governi, antimperialismo e potere costituzionale, poteri ai cittadini garantito principalmente dalla costituzione con la garanzia del possesso delle armi e della libertà di parola.

Il potere delle città stato e quindi dei globalisti elitisti è ora in fase calante. La globalizzazione e i trattati internazionali sono in crisi e la fine della globalizzazione porterà la fine del potere delle città-stato. Le economie hanno esaurito il loro impeto espansionista, soprattutto il modello di capitalismo sfrenato; anche questo contribuisce alla decadenza delle città stato. Nessuna sommatoria di potere finanziario e politico può fermare il tramonto dei centri urbani. Si aggiunge anche un altro aspetto all’equazione del tramonto delle città-stato: la crisi del tasso di natalità. Verso la fine di questo secolo, secondo alcuni studi, la popolazione mondiale comincerà a declinare. Ciò che ancora permette ad alcuni, anche se non tutti, ì grandi centri urbani americani, occidentali in genere ed asiatici di crescere è l’immigrazione, soprattutto dai paesi più poveri del terzo mondo, in particolare l’Africa e l’India. Intorno al 2040 il calo demografico, pur con la crescita immigratoria attuale, comincerà ad influire in maniera negativa sui centri urbani; questo metterà in crisi la ricchezza e la prosperità delle città-stato. Il calo demografico associato al riflusso della ricchezza contribuirà al deterioramento degli standard di vita nelle città-stato. Il calo demografico colpirà anche i centri rurali, ma la differenza fra le zone interne del paese e le zone urbane è fondamentale visto che le risorse si trovano nelle zone interne.

I centri urbani credono di essere potenti e ricchi ma mancano delle risorse primarie per sopravvivere. Le risorse che permettono ai centri urbani di operare provengono dall’interno del paese, dalle zone rurali. L’acqua, il cibo, le principali fonti di sostentamento dei cittadini metropolitani,proviene dalle sorgenti delle montagne, dei laghi, dei bacini idrici. Il grano proviene dalle praterie. La carne proviene dai ranch e dagli allevamenti di bestiame. Le verdure, l’insalata, la frutta proviene dalle campagne. Senza il contributo delle zone rurali, i grandi centri urbani farebbero fatica a sopravvivere.

Lo scontro prossimo futuro nell’America del ventesimo secolo è sì uno scontro politico costituzionale, ma si trasformerà più o meno rapidamente in uno scontro anche per il controllo delle risorse. I miliziani, i cittadini dell’ultima frontiera americana saranno pronti a respingere le orde alla ricerca di quel sostentamento che i centri urbani non potranno più offrire? Chi sono queste orde provenienti dai centri urbani? Le orde non saranno semplicemente ex-residenti delle città stato che fuggono dai centri dell’Impero in fase di disfacimento. Tra queste orde liberali progressiste, orfane delle classi globaliste, elitiste si annidano, ex funzionari dello stato burocratico, ex appartenenti ai centri di potere finanziario ed economico. Questi potenti soggetti porteranno con sé armate mercenarie arruolate fra i guerrieri della giungla urbana; ex-appartenenti alle bande criminali che infestano i centri urbani a stelle e strisce. Tra di loro ci saranno potenziali terroristi, ex-narcotrafficanti, ex-carcerati se non malavitosi in piena attività. Opposte a queste orde ci saranno i miliziani, i patrioti e i semplici residenti delle campagne e dei paesi dell’America dell’ultima frontiera.

Non è fantascienza, nè complottismo; è uno scenario di una società che quando si sgretolerà potrà affrontare scenari apocalittici. Il professore Vince mi disse “ Gianfranco, due sono gli esiti possibili, in una caduta dell’impero americano: Il primo, una fratturazione relativamente indolore; ognuno per la sua strada, noi abitanti delle praterie insieme all’America rebout da una parte, dall’altra gli stati dove i grossi centri urbani sono collocati. I quei centri si annidano i proponenti di una costituzione americana revisionata secondo le necessità e i bisogni ideologici degli elettori democratici liberali progressisti. Tieni però presente che anche in stati ultra-liberali come la California, lontano dai centri urbani, ad esempio nel nord e nella sua valle centrale, i residenti “conservatori”, i  patrioti talvolta superano di numero i liberali progressisti. La seconda possibilità, una caduta violenta che degenera in una guerra civile che porterà le orde urbane a infrangere il confine delle terre libere dell’ultima frontiera

Il cerchio a questo punto si chiude. Nel mio viaggio precedente nel profondo dell’america del redoubt, il sentimento quasi complottista che ora si annida nell’America dell’ultima frontiera appariva quasi fuori luogo, esagerato. La “fuga” di George, Vince e migliaia di patrioti come loro l’avevo interpretata come l’incapacità di adattarsi, da parte di certi dinosauri ancorati al passato, ad un mondo dinamico, ad una società in constante moto perpetuo di cambiamento.  Ora comprendiamo il sentimento e la logica dei patrioti americani. Non sono dei fanatici complottisti alla ricerca di uno scontro armato contro un invisibile e immaginario nemico; sono persone che si sono rifugiate nell’ultima frontiera per evitare di rimanere travolti dalle possibili conseguenze catastrofiche che la caduta dell’impero americano porterà a molti dei suoi figli. Ritengono la possibilità di tornare alle origini di una nazione costituzionale antiimperialista, una possibilità troppo remota; piuttosto si preparano, dovesse essere necessario, ad affrontare lo scontro civile prossimo futuro; una nuova guerra civile.

La logica di scegliere le armi e il territorio su cui scontrarsi rappresenta un vantaggio tattico importante da ponderare. Riaffiora continuamente nella mia memoria la frase di George: “Se verranno camuffati da ‘semplici” nuovi residenti li riconosceremo e li smaschereremo. Se verranno armati, affamati e disperati li affronteremo. La giungla urbana è la loro casa, ma questo è il nostro territorio. Conosciamo ogni albero, ogni ruscello, ogni montagna, ogni vallata, ogni grotta, ogni pietra di questa nostra terra. Sappiamo cosa vuol dire sopravvivere semplicemente con quello che la nostra terra ci offre. Conosciamo le tempeste di neve e di pioggia, la intensità dei terremoti, la forza e la direzione del vento, gli animali che vagano in questa nostra ultima frontiera, dell’ America libera e costituzionale. Siamo pronti!Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto.” Se non sarà George a difendere la sua terra saranno sicuramente i suoi figli o nipoti a dover affrontare la guerra civile. Tutta la sua stirpe è forgiata nella solidità di una tempra che tanto distingue i residenti dell’ultima frontiera americana. Gli americani del Redoubt; gente pacifica, cresciuta nel rispetto del prossimo e nel rispetto della libertà del vicino, altrettanto anelante all’ardente desiderio di libertà. Gente forgiata fra le praterie, le montagne, i duri inverni e il duro lavoro delle fattorie e terre. Pronta ad aiutare chiunque abbia bisogno, ma allo stesso tempo gente che se messa contro un muro, che se appena percepisce che qualcuno vuole privarli della libertà, fa scattare un istinto guerriero che li porta a difendere la propria terra e i propri cari fino alla morte. Le orde urbane avranno anche i gangster addestrati alla sopravvivenza nelle giungle di cemento, ma in queste terre dell’ultima frontiera, carichi di armi e munizioni, i patrioti non indietreggeranno di un centimetro…

Rappresenteranno l’ennesimo paradosso della storia. Saranno per alcuni versi i nuovi indiani d’America; figli, per una beffa del destino, di coloro che li hanno spossessati.

 

IL VIRUS DEL NOSTRO MALCONTENTO

 

 “La nostra Costituzione garantisce che il diritto dei cittadini sia protetto…Ho prestato giuramento di sostenere la costituzione…

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P.S. Sono passati piu` di 4 mesi dal rientro del mio viaggio nell’america dell’ultima frontiera e la crisi del coronavirus e scoppiata travolgendo il mondo. Le città stato sono quelle che hanno pagato il prezzo più alto di questa pandemia, dove la concentrazione urbana ha generato una incidenza di infezioni e mortalità molto più alta rispetto alle zone rurali, mettendo appunto in risalto la fragilità dei conglomerati urbani. Come ho detto prima; in tempi di prosperità le città stato crescono e si arricchiscono, mentre in tempi di crisi si impoveriscono e perdono potere.

 

***

Ha gli occhi grandi e verdi che ricordano le praterie del Dakota. D’altronde lei stessa è figlia di quelle praterie. Nata e cresciuta nel Sud Dakota, da famiglia di agricoltori, colpita dalla tragedia della perdita del padre a soli 22 anni, ha dovuto lasciare il college per tornare a casa ad occuparsi del ranch di famiglia. Se si deve descrivere una donna che incarna lo spirito delle praterie, la cinquantenne governatrice repubblicana del Sud Dakota, Kristi Noem è la candidata per eccellenza.

La Noem si è rifiutata, con altri quattro governatori, di imporre il lockdown ai cittadini del Sud Dakota. Ha invece preferito suggerire le linee guida per evitare l’espansione del contagio e ha lasciato ai cittadini stessi la decisione, la responsabilità di gestire la crisi. I risultati fino ad ora hanno dato ragione a lei, forte anche del vantaggio di una popolazione assai diradata, mancando al Sud Dakota, centri urbani di grandi proporzioni. Comunque sia, al momento attuale, il Sud Dakota registra 2,600 casi con 21 morti.

La governatrice ha espresso il suo pensiero nei seguenti termini “La nostra Costituzione garantisce che il diritto dei cittadini sia protetto…Ho prestato giuramento di sostenere la costituzione… Il mio ruolo rispetto alla sicurezza pubblica è qualcosa che assumo seriamente. Le persone stesse sono le entità principalmente responsabili della loro propria sicurezza. Sono a loro che vengono affidate ampie libertà – sono liberi di esercitare i loro diritti, quelli al lavoro, al culto e allo svago- oppure starsene a casa se desiderano praticando il distanziamento sociale. La scelta è loro…La mia responsabilità è rispettare i diritti delle persone e dei cittadini che mi hanno eletto…

 

I cittadini del Sud Dakota hanno ringraziato la loro  governatrice con una parata di veicoli di fronte alla sua casa. Un omaggio e un incitamento al suo coraggio: Ambulanze, Polizia, Vigili del Fuoco, Camionisti, motociclisti, semplici cittadini…In altri paesi si è giustamente voluto ringraziare gli operatori sanitari; nel Sud Dakota hanno voluto invece celebrare una donna che gode del rispetto dei propri elettori e cittadini. L’immagine di una governatrice in lacrime per la intensità dell’evento ha fatto il giro dei social media.

Sono curioso di sentire l’opinione di Vince: lo chiamo a quasi due mesi dall’ultima volta che abbiamo parlato la telefono: ” L’ultima volta ci siamo sentiti a Natale credo? “ Mi risponde Vince prima ancora di di salutarmi con un Hello. “Si, volevo sapere se il coronavirus fino ad ora ha risparmiato te e la tua famiglia.”Gli chiedo. “Siamo in buona salute, se non ci ha ucciso l’inverno delle praterie, non penso lo farà il coronavirus…hai parlato con George?” mi risponde Vince “Si, l’ho sentito la settimana scorsa; l’ho trovato bene, anche se un po alticcio, ma in buono spirito.” rispondo a Vince. “ George! Il dottore gli ha detto di smettere con alcool e fumo ma quello continua imperterrito è più duro di una sequoia ” Esclama Vince. Chiedo a Vince la sua opinione sulla situazione in America, visto il drammatico cambio di eventi rispetto a qualche mese fa: “La crisi del Coronavirus ha solamente contribuito ad evidenziare le differenze di questa America in profonda crisi di identità . Di solito, nel passato, eventi di grande impatto hanno sempre condotto ad una unificazione di spirito ed intenti fra gli americani, coagulando il paese intorno alla causa, qualunque essa fosse. Così fu con la prima e seconda guerra mondiale. E stato cosi anche con l’undici di Settembre, anche se quella unità nazionale fu sperperata con la guerra in Iraq.  Questa volta la crisi del Coronavirus ha accentuato ancora di più le differenze nel paese. Il lockdown e le limitazioni alla libertà del cittadino ha incrementato ancora di più la convinzione, fra i patrioti, che la costituzione sia stata violata in una maniera irreparabile. Un lento, inesorabile tramonto dei valori costituzionali, accentuato da una crisi che quei valori avrebbe dovuto far rinascere. Il solco scavato è ormai irrimediabilmente troppo profondo da colmare. Il destino della nazione è segnato, mi sento addirittura di stabilire una data alla caduta. Mentre prima ero convinto che i tempi non erano quantificabili, ora sono dell’opinione che al  massimo fra quattro decenni, gli Stati Uniti D’America saranno un’entità del tutto diversa da quella attuale. Vedi anche solo come i diversi stati dell’unione si stanno muovendo per gestire la crisi del Coronavirus. La diversità di risposte e soluzioni fra i vari stati è accentuata dalle differenze politiche e sociali. I democratici approvano le misure restrittive imposte da burocrati e scienziati e forse, in uno stato come New York, queste misure sono anche necessarie; in molti Stati repubblicani le misure restrittive per il controllo della pandemia sono viste con una insofferenza enorme. D’altronde è come ingabbiare una bestia selvaggia; la bestia in gabbia tende a ribellarsi. Lo spirito americano è uno spirito pionieristico. Se i nostri antenati si fossero preoccupati dei pericoli, della morte e delle sfide che li attendevano quando partivano alla conquista dell’ignoto, sarebbero rimasti dove erano…La differenza di risposte e di interpretazioni alla crisi del Coronavirus mette in risalto, per la prima volta dal 1861, lo spirito federalista dell’Unione…”  Lo spirito federalista dell’Unione! Mi colpiscono le parole di Vince. Lui sostiene che per la prima volta dalla fine della guerra civile l’America sta tornando ad un sistema di federalismo incentrato sull’importanza degli stati e delle realtà locali rispetto al potere centrale. Parte delle problematiche che portarono alla guerra civile (1861-1865) riguardavano appunto l’interpretazione del federalismo. Molti cittadini degli Stati del Sud ritenevano che i soli governi statali avessero il diritto di prendere decisioni importanti, come per esempio la legalizzazione della schiavitù. I sostenitori dei diritti degli Stati credevano che i singoli governi statali avessero il potere sul governo centrale federale. La maggior parte degli stati del sud alla fine si separò dall’Unione perché ritenevano che la secessione fosse l’unico modo per proteggere i propri diritti. Il risultato fu appunto quella terribile guerra civile. In altre parole quello che Vince sostiene è che si stanno ricreando le condizioni per una America impostata sul potere dei singoli stati e delle realtà locali, in contrasto con le autorità federali. Un’America ante 1861, ante guerra civile insomma. “Gianfranco tante volte non ci si accorge di essere entrati  in una condizione di guerra civile fino a quando la prima pallottola non ti ha bucato la fronte..! Un’altra cosa, Gianfranco. E’ sbagliato definire nazionalisti i patrioti. Il nazionalismo impone una interpretazione centralista del concetto di nazione. I patrioti americani credono nella costituzione, che è decana della indipendenza personale e territoriale. I patrioti amano il loro paese ma odiano la centralità burocratica di esso…” Tutto mi è ora più chiaro. Le risposte che cercavo le ho trovate lungo il mio viaggio nell’america dell ultima frontiera.

Gli Stati Uniti sono ormai entrati in uno stato di pre-guerra civile. Tempi, modi e schieramenti in questione contengono ancora elementi di incertezza; il destino è però segnato, scritto nella storia prossima futura. I miei figli e soprattutto i miei nipoti saranno testimoni di eventi epocali, dovranno solo scegliere con chi schierarsi.

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Foreign Affairs ha pubblicato un’analisi straordinariamente perspicace sulle relazioni tra India e Stati Uniti, di ANDREW KORYBKO

Foreign Affairs ha pubblicato un’analisi straordinariamente perspicace sulle relazioni tra India e Stati Uniti

ANDREW KORYBKO
1 MAG 2023
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I decisori americani hanno supposto con arroganza che le esportazioni di difesa verso l’India, le esercitazioni congiunte con l’India e la cooperazione tra i due Paesi attraverso il Quad abbiano garantito l’affidabilità di Delhi come Stato proxy anti-cinese. Invece di prestare attenzione all’obiettivo esplicitamente dichiarato di rafforzare la propria autonomia strategica, anche attraverso la padronanza indigena delle tecnologie di difesa, si sono lasciati andare a un pio desiderio immaginando che l’espansione dei legami di difesa dell’India con gli Stati Uniti segnalasse la sua intenzione di diventare un vassallo.

Foreign Affairs è la rivista ufficiale dell’influente Council on Foreign Relations, il che significa che il più delle volte ripropone i punti di vista politici degli Stati Uniti, riconfezionati come analisi. Per questo motivo è stato sorprendente vedere che ha appena pubblicato un’analisi così perspicace sulle relazioni tra India e Stati Uniti, intitolata “America’s Bad Bet on India: New Delhi non si schiererà con Washington contro Pechino”. È stata scritta da Ashley J. Tellis, senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace.

L’autore ha chiarito con precisione la politica estera dell’India nei confronti della Cina e degli Stati Uniti, informando i responsabili politici di questi ultimi che dovrebbero immediatamente dissipare l’illusione che l’India parteciperà a qualsiasi conflitto militare con loro contro la Repubblica Popolare. Pur essendo certamente solidale con gli Stati Uniti in un simile scenario, l’India non subordinerà le proprie forze al controllo di quel Paese con il pretesto dell'”interoperabilità”, né aprirà un secondo fronte attraverso l’Himalaya.

I decisori americani hanno supposto con arroganza che le esportazioni di difesa verso l’India, le esercitazioni congiunte con l’India e la cooperazione tra i due Paesi attraverso la Quadriglia garantissero l’affidabilità di Delhi come Stato proxy anticinese. Invece di prestare attenzione all’obiettivo esplicitamente dichiarato di rafforzare la propria autonomia strategica, anche attraverso la padronanza indigena delle tecnologie di difesa, si sono lasciati andare a un pio desiderio, immaginando che l’espansione dei legami di difesa dell’India con gli Stati Uniti segnalasse la sua intenzione di diventare un vassallo.

Tellis ha anche detto al suo influente pubblico che è una falsità credere che l’India condivida la stessa visione dell’ordine internazionale degli Stati Uniti. Sebbene non abbia approfondito troppo questo aspetto della sua grande strategia, il Ministro degli Affari Esteri Dr. Subrahmanyam Jaishankar ha ampiamente elaborato la visione del mondo del suo Paese in un’intervista rilasciata a una rivista austriaca all’inizio dell’anno. Egli ha difeso gli interessi nazionali oggettivi dell’India nei confronti della Russia, di fronte alle pressioni occidentali.

La sua politica pragmatica di neutralità di principio nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina ha già raccolto grandi dividendi strategici che hanno collettivamente accelerato la sua ascesa come Grande Potenza di rilevanza globale nell’ultimo anno. L’India prevede di guidare informalmente il Sud globale nell’imminente triforcazione delle relazioni internazionali in questa categoria di Paesi, il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e l’Intesa sino-russa.

Per quanto riguarda le sue relazioni con questi due blocchi di fatto della Nuova Guerra Fredda, l’India mira ad allinearsi abilmente tra i due al fine di massimizzare la sua autonomia strategica già menzionata. Non è “alleata” degli Stati Uniti contro la Cina, come i gestori della prima percezione la dipingono maliziosamente per scopi di divisione e di dominio, aiutati da simpatizzanti liberal-globalisti tra l’intellighenzia indiana, ma nemmeno le relazioni con la Cina sono così grandi a causa della loro disputa di confine irrisolta.

Nel dilemma se diventare un vassallo degli Stati Uniti per assicurarsi protezione nello scenario di un conflitto maggiore con la Cina o se trasformarsi nel “junior partner” della seconda normalizzando le relazioni nonostante la presenza di truppe straniere sul suo territorio, l’India è arrivata a fare affidamento sulla Russia. Mosca aiuta Delhi a mantenere la sua deterrenza militare nei confronti di Pechino senza doversi arrendere strategicamente a Washington, segnalando al contempo alla Repubblica Popolare che non dovrebbe usare la forza per risolvere la sua disputa con l’India.

L’ordine mondiale che l’India sta costruendo insieme alla Russia e al resto del Sud globale è un ordine multipolare complesso (“multiplexity”), in cui l’egemonia unipolare degli Stati Uniti si esaurisce senza che la sua precedente influenza sull’Asia venga sostituita dalla Cina. Delhi comprende abbastanza bene le dinamiche dell’Intesa sino-russa da sapere che anche Mosca non vuole che Pechino sia l’attore dominante nel continente, anche se non lo dirà mai ad alta voce per ovvie ragioni diplomatiche.

Questo spiega perché il partenariato strategico russo-indiano si è rafforzato senza precedenti nell’ultimo anno, nonostante le pressioni altrettanto senza precedenti esercitate dagli Stati Uniti. In realtà, è stata probabilmente quella stessa pressione a catalizzare questa nuova era nelle loro relazioni, poiché Delhi si è sentita obbligata a costruire legami ancora più forti con Mosca in risposta al tentativo di Washington di costringerla al vassallaggio. Senza rendersene conto, gli Stati Uniti si sono screditati come partner affidabile attraverso questa campagna di pressione.

Qualsiasi illusione potessero avere alcuni decisori indiani sulla cosiddetta “egemonia benigna” dell’America è stata immediatamente dissipata dopo che i suoi funzionari e media hanno chiesto a Delhi di prendere le distanze dalla Russia, cosa che avrebbe paralizzato le sue capacità di deterrenza nei confronti della Cina. Gli Stati Uniti non combatteranno (almeno non ancora) contro la Cina per l’omonimo Mare del Sud né contro Taiwan, quindi sicuramente non accorrerebbero in aiuto dell’India se la Repubblica Popolare decidesse di sfruttare la situazione per imporre la sua visione preferita del confine.

In un’ottica diversa, gli Stati Uniti stavano essenzialmente cercando di fare pressione sull’India affinché abbandonasse i suoi legami militari pluridecennali con la Russia a scapito dei suoi oggettivi interessi di sicurezza nazionale, lasciandola così completamente vulnerabile nei confronti della Cina, con la sola clemenza di Pechino a impedire lo scenario peggiore. Nessun decisore responsabile darebbe per scontato quest’ultimo fattore dopo gli scontri letali nella valle del fiume Galwan nell’estate 2020, motivo per cui ha respinto le richieste suicide degli Stati Uniti.

Tornando al pezzo di Tellis, dopo aver spiegato il ruolo centrale che la Russia svolge nel multiallineamento dell’India tra America e Cina, egli conclude saggiamente che “gli Stati Uniti dovrebbero certamente aiutare l’India nella misura compatibile con gli interessi americani. Ma non dovrebbero illudersi che il loro sostegno, per quanto generoso, possa indurre l’India a unirsi a loro in qualsiasi coalizione militare contro la Cina”, aggiungendo che “l’amministrazione Biden dovrebbe riconoscere questa realtà piuttosto che cercare di alterarla”.

Sono stati proprio i tentativi dell’amministrazione Biden di alterare la realtà condivisa in questa analisi e in quella di Tellis a far sì che gli indiani concludessero che gli Stati Uniti sono un alleato inaffidabile dopo aver praticamente voluto mettere il loro Paese alla mercé della Cina costringendolo a tagliare i legami di difesa con la Russia. Questa è stata una delle peggiori scommesse che gli Stati Uniti abbiano mai fatto, ed è impossibile riparare il grande danno strategico dopo che le sue richieste egemoniche hanno accelerato in modo senza precedenti l’ascesa dell’India.

Questo non vuol dire che gli Stati Uniti abbiano qualcosa da temere da questa vicenda, ma solo che essa ha inferto un colpo mortale a qualsiasi illusione unipolare che i suoi decisori potessero ancora nutrire. Non si può tornare all’ordine mondiale precedente, in cui gli Stati Uniti comandavano a bacchetta e costringevano i Paesi a sacrificare i loro interessi nazionali oggettivi per promuovere i propri. Quanto prima gli Stati Uniti se ne renderanno conto e inizieranno a trattare l’India con il rispetto che ha sempre meritato, tanto prima i loro legami potranno tornare a essere reciprocamente vantaggiosi.

La cattiva scommessa dell’America sull’India
Nuova Delhi non si schiererà con Washington contro Pechino
Di Ashley J. Tellis

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Negli ultimi due decenni, Washington ha fatto un’enorme scommessa nell’Indo-Pacifico: trattare l’India come un partner chiave aiuterà gli Stati Uniti nella loro rivalità geopolitica con la Cina. Da George W. Bush in poi, i presidenti americani che si sono succeduti hanno rafforzato le capacità dell’India partendo dal presupposto che ciò rafforza automaticamente le forze che favoriscono la libertà in Asia.

L’amministrazione del presidente Joe Biden ha abbracciato con entusiasmo questo manuale. Anzi, ha fatto un ulteriore passo avanti: l’amministrazione ha lanciato una nuova ambiziosa iniziativa per espandere l’accesso dell’India a tecnologie all’avanguardia, ha approfondito ulteriormente la cooperazione in materia di difesa e ha fatto del Quadrilatero (Quadrilateral Security Dialogue), che comprende Australia, India, Giappone e Stati Uniti, un pilastro della sua strategia regionale. Ha anche trascurato l’erosione democratica dell’India e le sue scelte di politica estera poco utili, come il rifiuto di condannare l’aggressione di Mosca in Ucraina. Tutto questo nella presunzione che Nuova Delhi risponderà favorevolmente quando Washington chiederà un favore durante una crisi regionale che coinvolge la Cina.

Le attuali aspettative di Washington nei confronti dell’India sono mal riposte. Le notevoli debolezze dell’India rispetto alla Cina e la sua ineluttabile vicinanza a quest’ultima garantiscono che Nuova Delhi non sarà mai coinvolta in un confronto con Pechino che non minacci direttamente la sua sicurezza. L’India apprezza la cooperazione con Washington per i benefici tangibili che ne derivano, ma non ritiene di dover sostenere materialmente gli Stati Uniti in qualsiasi crisi, anche se coinvolge una minaccia comune come la Cina.

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Il problema fondamentale è che gli Stati Uniti e l’India hanno ambizioni divergenti per il loro partenariato di sicurezza. Come ha fatto con gli alleati di tutto il mondo, Washington ha cercato di rafforzare la posizione dell’India all’interno dell’ordine internazionale liberale e, quando necessario, di sollecitare il suo contributo alla difesa della coalizione. Tuttavia, Nuova Delhi vede le cose in modo diverso. Non nutre alcuna lealtà innata verso la conservazione dell’ordine internazionale liberale e mantiene una perdurante avversione a partecipare alla difesa reciproca. Cerca di acquisire tecnologie avanzate dagli Stati Uniti per rafforzare le proprie capacità economiche e militari e facilitare così la sua ascesa come grande potenza in grado di bilanciare la Cina in modo indipendente, ma non presume che l’assistenza americana le imponga ulteriori obblighi.

Nel momento in cui l’amministrazione Biden procederà a espandere i suoi investimenti in India, dovrà basare le sue politiche su una valutazione realistica della strategia indiana e non sulle illusioni che Nuova Delhi diventi un compagno d’armi durante qualche futura crisi con Pechino.

AMICI VELOCI
Per la maggior parte della Guerra Fredda, l’India e gli Stati Uniti non si sono confrontati seriamente sulla difesa nazionale, poiché Nuova Delhi cercava di sfuggire alle implicazioni di un’adesione agli Stati Uniti o al blocco sovietico. Il rapporto di sicurezza tra i due Paesi è fiorito solo dopo che Bush ha offerto all’India un accordo nucleare civile di grande portata.

Grazie a quella svolta, oggi la cooperazione tra Stati Uniti e India in materia di sicurezza ha un’intensità e una portata mozzafiato. Il primo e più visibile aspetto sono le consultazioni in materia di difesa. I leader civili dei due Paesi, così come le loro burocrazie, mantengono un dialogo regolare su una serie di argomenti, tra cui la politica della Cina, l’acquisto da parte dell’India di tecnologie militari avanzate statunitensi, la sorveglianza marittima e la guerra sottomarina. Queste conversazioni variano in qualità e profondità, ma sono fondamentali per rivedere le valutazioni strategiche, definire i parametri della cooperazione desiderata e ideare strumenti per l’attuazione delle politiche. Di conseguenza, gli Stati Uniti e l’India collaborano in modi che sarebbero stati inimmaginabili durante la Guerra Fredda. Ad esempio, collaborano per monitorare le attività economiche e militari della Cina nell’intera regione dell’Oceano Indiano e hanno recentemente investito in meccanismi per condividere con altri Stati costieri informazioni quasi in tempo reale sui movimenti di navigazione nella regione indo-pacifica.

Una seconda area di successo è stata la collaborazione militare-militare, che si svolge in gran parte al di fuori della vista pubblica. I programmi per le visite di alti ufficiali, le esercitazioni militari bilaterali o multilaterali e l’addestramento militare reciproco si sono ampliati notevolmente negli ultimi due decenni. Le esercitazioni di alto profilo esemplificano in modo evidente la portata e la diversità di questa relazione allargata: le esercitazioni annuali di Malabar, che riuniscono la marina statunitense e quella indiana, si sono ora estese fino a includere permanentemente il Giappone e l’Australia; le esercitazioni Cope India offrono alle forze aeree statunitensi e indiane l’opportunità di esercitarsi in operazioni aeree avanzate; e la serie Yudh Abhyas coinvolge le forze terrestri in attività di addestramento sia sul campo che al posto di comando.

Infine, le aziende statunitensi hanno ottenuto un notevole successo nella penetrazione del mercato indiano della difesa. Le forze armate indiane sono passate dall’essere praticamente prive di armi statunitensi nel proprio inventario circa vent’anni fa all’avere oggi aerei da trasporto e marittimi, elicotteri da combattimento e da utilità, missili antinave e cannoni d’artiglieria americani. Gli scambi commerciali tra Stati Uniti e India nel settore della difesa, che erano trascurabili all’inizio del secolo, hanno superato i 20 miliardi di dollari nel 2020.

Ma l’era delle grandi acquisizioni di piattaforme da parte degli Stati Uniti ha probabilmente fatto il suo corso. Le aziende statunitensi rimangono in lizza in diversi programmi di approvvigionamento indiani, ma sembra improbabile che possano godere di una quota di mercato dominante nelle importazioni indiane di prodotti per la difesa. I problemi sono interamente strutturali. Nonostante l’intensificarsi delle minacce alla sicurezza dell’India, il suo budget per gli acquisti nel settore della difesa è ancora modesto rispetto a quello del mercato occidentale. Le esigenze di sviluppo economico hanno impedito ai governi eletti dell’India di aumentare le spese per la difesa in modo tale da consentire un’ampia espansione delle acquisizioni militari dagli Stati Uniti. Il costo dei sistemi di difesa statunitensi è generalmente superiore a quello di altri fornitori a causa della loro tecnologia avanzata, un vantaggio che non è sempre sufficientemente attraente per l’India. Infine, la richiesta di Nuova Delhi alle aziende statunitensi di passare dalla vendita di attrezzature alla loro produzione con partner locali in India – che richiede il trasferimento della proprietà intellettuale – si rivela spesso poco attraente dal punto di vista commerciale, date le dimensioni ridotte del mercato indiano della difesa.

L’INDIA VA DA SOLA
Sebbene la cooperazione tra Stati Uniti e India in materia di sicurezza abbia riscosso un notevole successo, la più ampia partnership in materia di difesa deve ancora affrontare importanti sfide. Entrambe le nazioni cercano di sfruttare i loro legami sempre più profondi per limitare l’assertività della Cina, ma c’è ancora un divario significativo nel modo in cui intendono raggiungere questo scopo.

L’obiettivo degli Stati Uniti nella cooperazione militare è l’interoperabilità: il Pentagono vuole essere in grado di integrare un esercito straniero in operazioni combinate come parte della guerra di coalizione. L’India, tuttavia, rifiuta l’idea che le sue forze armate partecipino a qualsiasi operazione militare combinata al di fuori dell’ombrello delle Nazioni Unite. Di conseguenza, ha resistito a investire in una significativa integrazione operativa, specialmente con le forze armate statunitensi, perché teme di mettere a rischio la propria autonomia politica o di segnalare uno spostamento verso uno stretto allineamento politico con Washington. Di conseguenza, le esercitazioni militari bilaterali possono migliorare la competenza tattica delle unità coinvolte, ma non espandono l’interoperabilità al livello che sarebbe richiesto in grandi operazioni combinate contro un avversario capace.

La visione indiana della cooperazione militare, che enfatizza il mantenimento di legami internazionali diversificati, rappresenta un’ulteriore sfida. L’India considera le esercitazioni militari più come simboli politici che come investimenti per aumentare la competenza operativa e, di conseguenza, si esercita con numerosi partner a vari livelli di sofisticazione. D’altra parte, gli Stati Uniti enfatizzano le esercitazioni militari relativamente intense con una serie più ristretta di controparti.

Nuova Delhi ha ora dato priorità al sostegno di Washington per le sue ambizioni industriali nel campo della difesa
La priorità dell’India è stata quella di ricevere l’assistenza americana per costruire le proprie capacità nazionali in modo da poter affrontare le minacce in modo indipendente. Le due parti hanno fatto molta strada in questo senso, ad esempio rafforzando le capacità di intelligence dell’India sulle attività militari cinesi lungo il confine himalayano e nella regione dell’Oceano Indiano. Gli accordi esistenti per la condivisione dell’intelligence sono formalmente strutturati per la reciprocità e Nuova Delhi condivide ciò che ritiene utile. Ma poiché le capacità di raccolta degli Stati Uniti sono così superiori, il flusso di informazioni utilizzabili finisce spesso per essere a senso unico.

Sotto il Primo Ministro Narendra Modi, l’India si è sempre più concentrata sulla cooperazione industriale nel settore della difesa come motore principale del suo partenariato di sicurezza con gli Stati Uniti. L’obiettivo di fondo è garantire l’autonomia tecnologica: fin dalla sua fondazione come Stato moderno, l’India ha cercato di ottenere la padronanza di tutte le tecnologie critiche per la difesa, a duplice uso e civili e, a tal fine, ha costruito grandi imprese del settore pubblico destinate a diventare leader globali. Poiché questo sogno non è ancora stato realizzato, Nuova Delhi ha dato priorità al sostegno di Washington per le sue ambizioni industriali nel settore della difesa, insieme a partenariati simili creati con Francia, Israele, Russia e altri Stati amici.

Per oltre un decennio, Washington ha cercato di aiutare l’India a migliorare la sua base tecnologica di difesa, ma questi sforzi si sono spesso rivelati inutili. Durante l’amministrazione del Presidente Barack Obama, i due Paesi hanno lanciato la Defense Trade and Technology Initiative, che mira a promuovere lo scambio di tecnologie e la coproduzione di sistemi di difesa. I funzionari indiani vedevano nell’iniziativa la possibilità di procurarsi molte tecnologie militari avanzate statunitensi, come quelle relative ai motori a reazione, alle piattaforme di sorveglianza e ricognizione e alle capacità stealth, in modo che potessero essere prodotte o sviluppate in India. Ma l’esitazione di Washington nell’autorizzare tali trasferimenti è stata accompagnata dalla riluttanza delle aziende statunitensi del settore della difesa a cedere la loro proprietà intellettuale e a fare investimenti commerciali per quelle che, in ultima analisi, erano scarse opportunità di business.

LA GRANDE SCOMMESSA DI WASHINGTON
L’amministrazione Biden si sta ora impegnando a fondo per ribaltare il fallimento dell’Iniziativa per il commercio e la tecnologia della difesa. L’anno scorso ha annunciato l’Iniziativa sulle tecnologie critiche ed emergenti, che mira a trasformare radicalmente la cooperazione tra i governi, le imprese e gli enti di ricerca dei due Paesi in materia di sviluppo tecnologico. Questo impegno comprende un’ampia varietà di settori, tra cui i semiconduttori, lo spazio, l’intelligenza artificiale, le telecomunicazioni di nuova generazione, l’informatica ad alte prestazioni e le tecnologie quantistiche, che hanno tutte applicazioni per la difesa ma non sono limitate ad essa.

Nonostante il suo potenziale, tuttavia, l’Iniziativa sulle tecnologie critiche ed emergenti non garantisce alcun risultato specifico. Il governo degli Stati Uniti può far fallire l’iniziativa, poiché controlla il rilascio delle licenze che molte joint venture richiederanno. Sebbene l’amministrazione Biden sembri incline a essere più liberale su questo punto rispetto ai suoi predecessori, solo il tempo dirà se l’iniziativa realizzerà le aspirazioni dell’India di un maggiore accesso alla tecnologia avanzata degli Stati Uniti a sostegno dell’iniziativa “Make in India, Make for World” di Modi, che mira a trasformare l’India in un importante polo manifatturiero globale che potrebbe un giorno competere con la Cina, se non soppiantarla, come officina del mondo.

La domanda più grande, tuttavia, è se la generosità di Washington nei confronti dell’India aiuterà a raggiungere i suoi obiettivi strategici. Durante le amministrazioni Bush e Obama, le ambizioni degli Stati Uniti erano in gran parte incentrate sull’aiutare a costruire il potere dell’India per impedire alla Cina di dominare l’Asia. Con il progressivo deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina durante l’amministrazione Trump – quando anche le relazioni sino-indiane hanno toccato il fondo – Washington ha iniziato a considerare l’idea più ampia che il suo sostegno a Nuova Delhi avrebbe gradualmente indotto l’India a svolgere un ruolo militare maggiore nel contenere la crescente potenza della Cina.

Ci sono ragioni per credere che non sarà così. L’India ha mostrato la volontà di unirsi agli Stati Uniti e ai suoi partner del Quad in alcune aree di bassa politica, come la distribuzione dei vaccini, gli investimenti nelle infrastrutture e la diversificazione della catena di approvvigionamento, anche se insiste sul fatto che nessuna di queste iniziative è diretta contro la Cina. Ma per quanto riguarda la sfida più gravosa che Washington deve affrontare nell’Indo-Pacifico – garantire contributi militari significativi per sconfiggere qualsiasi potenziale aggressione cinese – l’India probabilmente si rifiuterà di giocare un ruolo in situazioni in cui la sua sicurezza non è direttamente minacciata. In tali circostanze, Nuova Delhi potrebbe al massimo offrire un tacito sostegno.

La relativa debolezza di Nuova Delhi la costringe a non provocare Pechino.
Sebbene la Cina sia chiaramente l’avversario più temibile per l’India, Nuova Delhi cerca comunque di evitare di fare qualcosa che possa portare a una rottura irrevocabile con Pechino. I responsabili politici indiani sono perfettamente consapevoli della forte disparità di potere nazionale tra Cina e India, che non sarà corretta in tempi brevi. La relativa debolezza di Nuova Delhi la costringe a non provocare Pechino, come certamente farebbe l’adesione a una campagna militare guidata dagli Stati Uniti. L’India non può inoltre sfuggire alla sua vicinanza fisica con la Cina. I due Paesi condividono un lungo confine, quindi Pechino può minacciare la sicurezza indiana in modo significativo – una capacità che è aumentata solo negli ultimi anni.

Di conseguenza, la partnership di sicurezza dell’India con gli Stati Uniti rimarrà fondamentalmente asimmetrica ancora a lungo. Nuova Delhi desidera il sostegno americano nel suo confronto con la Cina, ma allo stesso tempo intende rifuggire da qualsiasi confronto tra Stati Uniti e Cina che non riguardi direttamente i suoi interessi. Se dovesse scoppiare un conflitto importante tra Washington e Pechino in Asia orientale o nel Mar Cinese Meridionale, l’India vorrebbe certamente che gli Stati Uniti prevalessero. Ma è improbabile che si coinvolga nella lotta.

L’approfondimento dei legami di difesa di Nuova Delhi con Washington, quindi, non deve essere interpretato come un forte sostegno all’ordine internazionale liberale o come il desiderio di partecipare alla difesa collettiva contro l’aggressione cinese. Piuttosto, l’intensificarsi del rapporto di sicurezza è concepito dai politici indiani come un mezzo per rafforzare le capacità di difesa nazionale dell’India, ma non include alcun obbligo di sostenere gli Stati Uniti in altre crisi globali. Anche se questa partnership è cresciuta a passi da gigante, rimane un divario incolmabile tra i due Paesi, dato il costante desiderio dell’India di evitare di diventare il partner minore – o addirittura un confederato – di qualsiasi grande potenza.

Gli Stati Uniti dovrebbero certamente aiutare l’India nella misura compatibile con gli interessi americani. Ma non devono illudersi che il loro sostegno, per quanto generoso, possa indurre l’India a unirsi a loro in una coalizione militare contro la Cina. Le relazioni con l’India sono fondamentalmente diverse da quelle che gli Stati Uniti intrattengono con i loro alleati. L’amministrazione Biden dovrebbe riconoscere questa realtà piuttosto che cercare di alterarla.

ASHLEY J. TELLIS è titolare della Cattedra Tata per gli Affari strategici e Senior Fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace.

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È tempo per Biden di confessare sull’Ucraina, di George Beebe_a cura di Roberto Buffagni

È tempo per Biden di confessare sull’Ucraina
Le fughe di notizie sembrano dimostrare che la comprensione della guerra da parte dei funzionari è in contrasto con le loro dichiarazioni pubbliche, sollevando lo spettro del Vietnam.

26 APRILE 2023
Scritto da
George Beebe

È giunto il momento che l’amministrazione Biden parli con il popolo americano della guerra in Ucraina.

Per più di un anno, la Casa Bianca ha dipinto al pubblico un quadro roseo di successi strategici e sul campo di battaglia. “L’Ucraina non sarà mai una vittoria per la Russia”, ha proclamato il Presidente Biden durante la sua visita a Kiev a febbraio. “Crediamo di poter vincere – loro [gli ucraini] possono vincere se hanno il giusto equipaggiamento, il giusto supporto”, ha detto il segretario alla Difesa Lloyd Austin.

Il Segretario di Stato Tony Blinken ha ripetutamente insistito sul fatto che la guerra sarà una “sconfitta strategica” per la Russia, che la lascerà indebolita e incapace di future aggressioni. Anche l’osservatore più sobrio dell’amministrazione, il presidente dello Stato Maggiore Mark Milley, ha affermato che l’Ucraina ha la leadership e il morale per battere la Russia.

Spinti da queste dichiarazioni ottimistiche, i funzionari di Biden hanno insistito sul fatto che la giustizia deve prevalere nella guerra. Dicono che Putin e altri funzionari russi devono essere processati per crimini di guerra. Insistono sul fatto che, in quanto vittima di un’aggressione russa non provocata, solo l’Ucraina ha il diritto di decidere se cercare un accordo o concedere il territorio.

La linea di fondo della Casa Bianca è stata che la determinazione americana non vacillerà e che la guerra avrà come risultato un finale uniformemente felice per gli Stati Uniti e i suoi alleati: una “Ucraina democratica, indipendente, sovrana e prospera”, una Russia castigata e defraudata e una “Europa pacifica e stabile”. E tutto ciò può essere raggiunto senza impegnare le truppe statunitensi a combattere contro la Russia e senza rischiare quella che Biden ha definito “la terza guerra mondiale”.

La presunta fuga di documenti riservati, ufficialmente non confermata ma ampiamente ripresa dai media occidentali, solleva profondi interrogativi su questa narrazione. Se queste notizie di stampa sono accurate, suggeriscono che gli Stati Uniti si stanno avvicinando molto di più a una guerra diretta con la Russia di quanto il team di Biden abbia riconosciuto.

Inoltre, sostengono che a marzo c’era un piccolo numero di forze speciali americane non rivelate sul terreno in Ucraina, sollevando la questione di cosa Washington farebbe se i russi li colpissero intenzionalmente o meno. L’Occidente ha anche letteralmente schivato un attacco missilistico quando un caccia russo ha erroneamente creduto di aver ricevuto l’autorizzazione a sparare contro un aereo di raccolta dei servizi segreti britannici, solo che il missile ha fallito dopo il lancio.

Inoltre, i rapporti dipingono un quadro molto più fosco delle prospettive di Kiev nella guerra rispetto a quanto ammesso dalla Casa Bianca. Descrivono i livelli di equipaggiamento e di addestramento per la tanto attesa controffensiva ucraina, che ispirano scarsa fiducia nella capacità di produrre una svolta decisiva contro le difese russe rafforzate. I documenti avvertono che l’Ucraina è pericolosamente vicina all’esaurimento dei missili di difesa aerea, che sono stati fondamentali per difendere le città e le infrastrutture ucraine dagli attacchi missilistici e aerei e – cosa ancora più importante – per impedire alle forze aeree russe di fornire un supporto aereo ravvicinato alle sue forze di terra.

Questi problemi di addestramento e di approvvigionamento non possono essere risolti facilmente o rapidamente. L’Ucraina ha indubbiamente combattuto bene fino a questo punto della guerra, ma ha perso molti dei suoi combattenti più esperti e più efficaci. L’addestramento di decine di migliaia di sostituti richiede molto tempo. Padroneggiare sistemi d’arma sofisticati e sconosciuti, imparare a mantenerli e integrarli nelle operazioni sul campo di battaglia è una sfida enorme.

E sebbene l’Occidente abbia fatto del suo meglio per preparare gli ucraini alla controffensiva, non ha scorte sufficienti di proiettili d’artiglieria, armi anticarro e missili per la difesa aerea per sostenere lo sforzo bellico a tempo indeterminato e non può aumentare rapidamente le linee di produzione militare. Per mantenere la promessa di Biden di sostenere l’Ucraina “per tutto il tempo necessario” è una questione di capacità, non solo di volontà politica.

Le implicazioni di un logoramento ucraino sono potenzialmente gravi. Se la controffensiva non riuscisse a superare le difese russe, un esercito ucraino a corto di riserve addestrate, di proiettili d’artiglieria e di missili per la difesa aerea potrebbe essere vulnerabile a nuove avanzate russe, sostenute per la prima volta in questa guerra da una consistente campagna aerea.

Piuttosto che costringere Putin a chiedere la pace, la controffensiva potrebbe mettere a nudo le debolezze ucraine, rafforzando le sue ambizioni. In retrospettiva, Washington potrebbe guardare con nostalgia ai termini dell’accordo su cui i negoziatori ucraini e russi erano confluiti alcune settimane dopo l’invasione russa – un impegno ucraino alla neutralità permanente sostenuto da una garanzia di sicurezza multinazionale – come un’occasione mancata.

Se la guerra di logoramento della Russia minacciasse di mettere in ginocchio l’Ucraina, cosa farebbe Biden? La Casa Bianca non ha fatto quasi nulla per preparare l’opinione pubblica americana a un accordo di compromesso, per non parlare di una qualche forma di successo russo sul campo di battaglia. Non avendo gettato le basi in patria e all’estero per i negoziati, Biden potrebbe trovarsi di fronte alla scomoda scelta di vedere l’Ucraina sgretolarsi nonostante la sua promessa di evitarlo, e di intensificare il coinvolgimento degli Stati Uniti o della NATO in modi che potrebbero produrre proprio quel confronto militare con Mosca che lui ha rinunciato a fare.

Il popolo americano non ha il diritto di vedere informazioni sensibili di intelligence, la cui divulgazione può certamente mettere a rischio la sicurezza nazionale degli Stati Uniti in molti modi. Ma possono e devono aspettarsi che le dichiarazioni pubbliche del loro governo non siano in contrasto con ciò che i funzionari statunitensi sanno privatamente da analisi di intelligence obiettive.

Proprio come è successo in Vietnam e in Iraq, la verità sulla guerra alla fine verrà fuori. Se questi dolorosi episodi servono da guida, è improbabile che gli elettori accolgano con favore la notizia di essere stati ingannati ancora una volta in Ucraina.

https://responsiblestatecraft.org/2023/04/26/time-for-biden-to-come-clean-on-ukraine/?mc_cid=1e91486550&fbclid=IwAR0rTHdF8SwZLBhsm3Qph61CCATwQjMF-DrnMSbmswr_u9Iyr-b_YPVTJp4

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LA SITUAZIONE IN MALI DOPO LA PARTENZA DELLE FORZE FRANCESI, di Bernard Lugan

LA SITUAZIONE IN MALI DOPO LA
PARTENZA DELLE FORZE FRANCESI
Dopo la partenza delle truppe francesi, come era prevedibile, il Mali ha praticamente cessato di esistere come Stato.
Il Mali ha cessato di esistere come Stato, con le FAMa (Forze armate maliane) e i loro alleati russi del gruppo Wagner che controllano – e continuano a controllare – solo un piccolo triangolo intorno a Bamako.
controllano – e anche allora – solo un piccolo triangolo intorno a Bamako.
Al di fuori dell’area di Bamako, il resto del Mali è sotto il controllo di gruppi armati.
Il Mali è sotto il controllo di gruppi armati con affiliazioni multiple e fluttuanti. Combattenti, banditi, trafficanti e contrabbandieri cambiano alleanze e
e alleanze in base ai loro interessi del momento.
interessi del momento. Tuttavia, è possibile
Tuttavia, possono essere raggruppati in tre gruppi principali:
1) I gruppi armati tuareg (MNLA, HCUA,
MAA).
2) I gruppi affiliati ad Aqmi, il ramo saheliano di Al Qaeda.
di Al Qaeda, compreso il GSIM (Groupe de soutien à l’islam
e musulmani), un fronte per Iyad ag Ghali, oppure
come il Macina Katiba, che è una propaggine di
gruppi.
3) Gruppi affiliati all’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara).
nel Grande Sahara)
Un’importante novità è che le varie componenti tuareg
componenti Tuareg (MNLA, HCUA e MAA) hanno deciso di
(per quanto tempo?) le loro lotte fratricide e si sono riunite, offrendo ancora una volta un blocco tuareg unito da poter
blocco per combattere l’EIGS.
Iyad Ag Ghali (leader del GSIM) si è addirittura avvicinato all’ex generale dell’esercito maliano El Hadj
Ag Gamou (leader del Gruppo di autodifesa tuareg Imghad e alleati). Gli Imghad sono i “Tuareg neri”.
Come ho detto e scritto per anni, i Tuareg
il leader tuareg Iyad Ag Ghali, che avrebbe dovuto essere il nostro interlocutore e non l’uomo di Emmanuel Macron, è quindi il nuovo forte.
Macron, è quindi il nuovo uomo forte del nord del
Mali perché ha finalmente preso il controllo delle varie
le varie fazioni tuareg che un tempo erano artificialmente
fazioni artificialmente rivali.
Il Nord del Mali è ora sotto il suo controllo,
che è facile da spiegare perché il problema qui non è principalmente quello dell’islamismo, ma quello del
ma quello dell’irredentismo tuareg.
Questo annoso problema, che affonda le sue radici nella notte dei tempi, è stato
nella notte dei tempi, si è manifestato a partire dal 1962 attraverso
periodiche recrudescenze
[1]
. A seconda dell’equilibrio di
forza del momento, si esprime sotto varie bandiere. Oggi è sotto quella dell’islamismo.
Ma un islamismo che non è quello dello “Stato Islamico”.
perché è un etno-islamismo.
Ignorando le sottigliezze etniche locali, i decisori francesi hanno trascurato di prendere in considerazione il peso dell’etnostoria e della storia.
peso dell’etnostoria e si sono invece bloccati in una politica che confonde effetti e cause.
politica che confonde effetti e cause.
cause.
Infatti, come ho scritto più volte, con i suoi “emiri” algerini uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, il governo francese si trova ora in uno stato di confusione.
uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, al-Qaeda-Aqmi
non è più guidata localmente da stranieri, ma dal tuareg Iyad Ag Ghali.
L’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), affiliato a Daech, si è accorto del pericolo e ha deciso di non fare nulla.
L’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), affiliato a Daech, si è accorto del pericolo e quindi accusa Iyad Ag Ghali di aver tradito l’Islam per
la rivendicazione tuareg a scapito del califfato trans-etnico che dovrebbe comprendere gli attuali Stati saheliani.
gli attuali Stati saheliani. Da qui la feroce guerra che i Tuareg e gli
Da qui la feroce guerra tra i Tuareg e le EIGS, soprattutto nella parte settentrionale della regione trifrontaliera.
Ora che le forze francesi hanno evacuato il Paese, l’Algeria
il Paese, l’Algeria, che considera il nord del Mali come
Mali come il suo cortile di casa, sarà in grado di gestire le “sottigliezze” politiche locali.
le “sottigliezze” politiche locali, tanto più facilmente in quanto i suoi servizi non saranno
facilmente in quanto i suoi servizi non saranno paralizzati da
paralizzati dai “vapori” umanitari che hanno
che hanno impedito alle nostre forze di intraprendere un’azione realmente efficace
sul terreno…

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Multipolarismo tra aspettative e realtà_con Gianfranco La Grassa

Questa conversazione con Gianfranco La Grassa ha preso spunto dalla pubblicazione sul nostro sito di un saggio intitolato “il mito del multipolarismo” “http://italiaeilmondo.com/2023/04/27/il-mito-del-multipolarismo-di-stephen-g-brooks-e-william-c-wohlforth/ . Si parte dal punto di vista dei due analisti statunitensi per confrontarlo con le opinioni di Gianfranco La Grassa riguardanti le dinamiche dell’attuale contesto geopolitico a partire dalla sua chiave interpretativa del “conflitto e confronto tra centri strategici”. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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