All’interno della fabbrica di salsicce_di Aurélien
All’interno della fabbrica di salsicce.
Il Tao che può essere nominato non è il vero Tao.
| Aurélien12 novembre |
Innanzitutto ringrazio le persone che mi hanno gentilmente scritto per augurarmi una buona salute. Ora sono tornato in gran parte in forma.
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La settimana scorsa ho fatto un commento di sfuggita sulla natura dilettantesca e disorganizzata della campagna internazionale per cercare di porre fine al massacro di Gaza, paragonandola a quella che potrebbe essere una campagna organizzata con competenza. Con mia lieve sorpresa – poiché pensavo di affermare una verità ovvia – questo ha infastidito alcune persone, qui e su altri siti. Ma poi ho riflettuto sul fatto che l’episodio in realtà illustra un problema più ampio e fondamentale, ovvero la differenza tra la realtà di come viene effettivamente prodotta la salsiccia politica e le supposizioni e le aspettative di coloro che cercano di capire o addirittura influenzare le cose dall’esterno della fabbrica. Quindi ho pensato che questo potesse essere un buon momento per indossare i nostri dispositivi di protezione e le nostre mascherine, e avventurarci all’interno della fabbrica per vedere come vengono generalmente fatte le cose.
È ovvio che in alcune circostanze gli esterni possono influenzare, e lo fanno, il modo in cui si prepara la salsiccia politica, ma la prima cosa da capire è che questa influenza non deriva necessariamente dalla forza delle argomentazioni, né tantomeno dall’intensità con cui gli esterni sostengono le proprie opinioni. Nella mia esperienza, tanto con le cause che simpatizzo quanto con quelle che disapprovo, questo è il più grande ostacolo intellettuale che si trovano ad affrontare i sostenitori esterni con forti convinzioni morali. Più fortemente sostengono queste convinzioni, più è difficile per loro immaginare che ci siano altri che sinceramente non le condividono, e forse hanno opinioni opposte altrettanto forti delle loro: è fatalmente facile immaginare che il solo fervore morale possa trascinare tutti. Ho incontrato diversi esponenti di ONG che sembrano sinceramente perplessi dal fatto che quando danno istruzioni al loro governo su come comportarsi, dalla loro presunta posizione di superiorità morale, il governo non obbedisca immediatamente. Ma non è così che si preparano le salsicce, né (per usare forse una metafora più precisa) il modo in cui vengono scelti gli ingredienti.
Il primo e più importante criterio per influenzare con successo la ricetta è la competenza: né il denaro né la fanfaronata politica di per sé possono sostituirla. E un gruppo di persone fuori da un centro commerciale che sventola bandiere palestinesi e canta “Palestina libera, qualunque cosa significhi esattamente”, non mi sembra molto competente o efficace se lo scopo è aiutare la popolazione di Gaza. Se lo scopo è sentirsi bene con se stessi e partecipare simbolicamente alle sofferenze di Gaza, ovviamente, la questione è diversa. Ma in realtà esistono esempi di campagne politiche esterne ben pianificate e coordinate, che hanno avuto un effetto misurabile sullo sviluppo di alcune crisi internazionali. Diamo un’occhiata a un paio di esempi classici.
Nel 1992, dopo lo scoppio dei combattimenti in Bosnia, il governo musulmano di Sarajevo, generosamente finanziato dagli Stati del Golfo, si rivolse alle agenzie di pubbliche relazioni statunitensi per cercare di promuovere quello che era sempre stato il suo obiettivo principale: far entrare gli Stati Uniti in guerra dalla loro parte. Sebbene non ci riuscirono del tutto, influenzarono notevolmente i media statunitensi e le ONG vicine alla campagna di Clinton, e questo a sua volta ebbe una grande influenza sulla politica statunitense sotto Clinton. Identificando il loro pubblico principale (i media, le ONG e gli studenti universitari), si misero alla ricerca di quali storie di atrocità avrebbero maggiormente mobilitato quel pubblico. Quella che ancora oggi si pensa sia la realtà della guerra in Bosnia (genocidio, stupri di massa, ecc.) si basava su storie costruite, propinate e acriticamente diffuse da media statunitensi compiacenti e collaborativi. Tutto ciò che serviva erano denaro e organizzazione. Un esempio simile, quindici anni dopo, fu la Darfur Solidarity Campaign, il cui unico obiettivo era convincere il governo statunitense a intervenire militarmente in Darfur. Lautamente finanziato e con sedi distaccate in tutte le principali università degli Stati Uniti, l’unica caratteristica discutibile ( sottolineata da Mahmood Mamdani, sì, il padre di Zoran) era che letteralmente nessuno dei fondi era destinato ad aiutare i Fur: tutto era speso per fare lobbying negli Stati Uniti. E naturalmente, in entrambi i casi, il rapporto con la realtà della situazione sul campo era, diciamo, ambiguo.
Ho avuto questo tipo di conversazione diverse volte con la comunità che ha a cuore queste questioni, e il risultato è sempre lo stesso. “Se vuoi avere successo, hai bisogno di organizzazione, disciplina e la volontà di assestare qualche colpo illegale.” “Ma moralmente siamo nel giusto. Non ci abbassiamo a queste tattiche.” “Beh, allora lo farà l’altra parte. Quanto seriamente vuoi vincere?” Alla fine, la risposta tende a essere “non molto”, nella misura in cui vincere implica quasi sempre compromessi morali. Non voglio essere ingiustamente critico nei confronti delle ONG e di gruppi simili, dato che dopotutto abbiamo a che fare con una componente fondamentale della natura umana, ma è vero che, rispetto a lavorare per un governo, per non parlare di un’agenzia di pubbliche relazioni, è più probabile che tu voglia avere una buona opinione di te stesso se lavori per una ONG umanitaria o per un gruppo di pressione politico. In effetti, più ancora dei governi, queste organizzazioni tendono a lasciarsi attrarre da campagne e attività puramente performative che sembrano buone e, a differenza dei governi, trovano difficile mantenere un distacco scettico.
A questo proposito, ricordo una conversazione con un’operatrice di una grande ONG umanitaria di molti anni fa, in cui discutevamo della proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro in Africa, per lo più residui di massicce forniture sovietiche e cinesi durante la Guerra Fredda. Concordai sul fatto che fosse un problema: ne avevo visto alcuni effetti sul campo. Beh, disse, è un problema troppo grande e non possiamo farci niente. Ma possiamo invece fare una campagna per porre fine alle esportazioni di armi dal Regno Unito. Sapeva qual era il mercato più grande per le attrezzature di difesa del Regno Unito, chiesi? No. Beh, era, e credo lo sia ancora, gli Stati Uniti. Ma non è questo il punto: il punto è trovare un sostituto magico e simbolico al problema che non può essere risolto, e organizzare una campagna performativa attorno ad esso. C’è una stretta analogia con la Convenzione di Ottawa del 1997 per la messa al bando delle mine terrestri. A quei tempi, c’era un numero molto elevato di mine di questo tipo, per lo più in Africa e, ancora una volta, gentilmente donate dall’Unione Sovietica e dalla Cina. Alcune aree erano impraticabili e la vita era difficile e pericolosa per le popolazioni locali, tanto più che esistevano poche, se non nessuna, mappe affidabili. Ciò che serviva era una campagna a lungo termine e ben finanziata per addestrare la popolazione locale alle tecniche di smaltimento sicuro delle mine. Ma si trattava di un’area per tecnici specializzati, e ci sarebbe voluto almeno un decennio di sforzi poco brillanti e pericolosi. Non si può organizzare una campagna di pubbliche relazioni su questo, quindi perché non insistere per vietare la produzione di nuove mine antiuomo? Era facile, perché le mine sono l’arma dei poveri per eccellenza (come l’Afghanistan avrebbe presto dimostrato), quindi gli stati occidentali spinsero con entusiasmo per il Trattato. Problema risolto. E poi, un paio d’anni dopo, iniziarono ad apparire sulla nascente rete Internet storie che lamentavano il fatto che, nonostante il Trattato, in Africa le persone continuavano a essere uccise e ferite dalle mine antiuomo. Cosa pensavano che sarebbe successo, mi chiedevo? Pensavano che il Trattato avrebbe causato la distruzione spontanea delle mine sepolte nel terreno africano, per la vergogna? Dopo tutti questi anni non ne sono ancora sicuro.
Ma supponiamo, per il resto di questo saggio, che le persone abbiano obiettivi genuini per i quali siano sinceramente impegnate e vogliano in qualche modo influenzare il processo di produzione delle salsicce. Ma per farlo bisogna capirlo. La prima cosa da capire è che ciò che si legge o si studia sul governo e sul processo decisionale politico è, nella migliore delle ipotesi, un’astrazione necessaria e, nella peggiore, una favola. Ora, non intendo con questo incoraggiare i resoconti altrettanto fantasiosi di cabale segrete e governi mondiali che sono popolari da secoli, ma piuttosto sostenere, se preferite, che il Tao del governo che può essere descritto non è il vero Tao, e in effetti non potrà mai esserlo. Politologi e giuristi costituzionalisti pubblicano libri e tengono conferenze su strutture e processi formali. Queste strutture e processi esistono davvero, ma esistono a livello di forma, senza riferimento al contenuto. Pertanto, le leggi possono essere descritte come originate dal governo, discusse pubblicamente, presentate in una Camera bassa, discusse, votate, approvate, inviate a una Camera alta, emendate, ritrasmesse, ulteriormente discusse, ripresentate alla Camera alta, approvate, trasmesse a una Corte Costituzionale per la convalida e infine firmate da un Capo di Stato. Bene, ma cosa ci dice questo? Nulla in realtà, se non sui processi e le strutture formali. Non ci dice perché leggi o iniziative vengano introdotte in primo luogo, perché possano essere sostenute o osteggiate, perché i governi diano più o meno importanza a determinate leggi e iniziative, perché e come possano essere modificate o perché possano persino essere ritirate. Né una tale struttura dice nulla sul sistema politico: molto di quanto sopra è applicabile al sistema della vecchia Unione Sovietica, dove il suo Parlamento riusciva occasionalmente a modificare le proposte di legge.
Avrete anche letto della famosa Separazione dei Poteri tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Anche in questo caso, queste istituzioni e funzioni esistono, ma oggigiorno il potere è molto spesso integrato piuttosto che separato. Per cominciare, in quello che è noto come modello di governo Westminster, in cui il partito o la coalizione più grande forma il governo, è proprio perché l’Esecutivo controlla il Parlamento che può costituirsi come Esecutivo. Nella Francia di oggi, dove il sistema è simile ma non identico, l’Esecutivo ha perso il controllo del Parlamento e deve cercare di sopravvivere giorno per giorno. E, a tal proposito, i manuali di Diritto Costituzionale scritti sotto la Quinta Repubblica contengono ora tutta una serie di giudizi convenzionali su come dovrebbe funzionare il sistema che appaiono un po’ traballanti. Si scopre, ad esempio, che i poteri del Presidente sono in gran parte una questione di consuetudine: e che ciò che dice la Costituzione non è molto chiaro, per usare un eufemismo.
Anche in questo caso, il personale dei presunti tre rami del governo, per non parlare della burocrazia locale e nazionale, delle forze di sicurezza e di altri, tende generalmente a conoscersi, proviene più o meno dallo stesso background e può persino essere imparentato per via familiare o matrimoniale. Questa è la nomenklatura di cui ho parlato di recente. E i confini tra i presunti poteri “separati” stanno diventando sempre più permeabili. Un buon esempio è la crescente influenza politica della magistratura, sia nazionale che europea. Gran parte della legislazione che riguarda questioni come i diritti umani viene utilizzata dagli attivisti in modi inaspettati, per affrontare argomenti che all’epoca non erano stati presi in considerazione. I giudici stanno quindi giocando una parte politica nel dire ai Parlamenti quali leggi possono o non possono approvare, basandosi in ultima analisi sulle loro opinioni personali. Questo è particolarmente vero per la Corte europea dei diritti dell’uomo, il cui trattamento sprezzante dei Parlamenti nazionali sta suscitando scalpore in molti paesi, non solo nel Regno Unito, e produce decisioni imprevedibili e spesso incomprensibili. Sembra quindi che i vari reparti della Sausage Factory non funzionino come previsto dall’organigramma e che il Controllo Qualità e il Marketing siano in realtà collegati tra loro.
Quindi, il massimo che si possa fare è raggiungere un livello di comprensione equivalente a quello di una fabbrica di salumi vista dall’esterno. Arrivano camion carichi di maiali morti. Partono camion carichi di salsicce pronte, si vedono lavoratori entrare e uscire, si sa che i maiali vengono allevati e macellati altrove, ed è evidente che le salsicce vengono vendute nei negozi. Occasionalmente, piccoli gruppi di visitatori possono essere ammessi, di solito con qualche tipo di funzione igienica o di salute e sicurezza. In rare occasioni, la fabbrica può essere chiusa in modo inspiegabile. Possono persino essere pubblicati dei resoconti. Ma sulla produzione effettiva delle salsicce, si fa molto per ipotesi, ma si sa poco con certezza. Occasionalmente, compaiono ricette che pretendono di provenire dalla fabbrica e vengono analizzate da giornalisti gastronomici eccitati. Ma per la maggior parte, chi sa non parla, e chi parla non sa.
Il governo è in un certo senso così, con la condizione che il Tao del processo decisionale governativo sia tutt’altro che un processo semplice e lineare. Ma segue una sua logica che abbiamo già discusso più volte: la logica delle forze che agiscono sui corpi, la logica degli attori, degli obiettivi, delle risorse e del relativo successo e fallimento. Nella maggior parte dei casi, questa logica è strutturalmente guidata, il che significa che i meriti dell’argomentazione stessa tendono a essere secondari rispetto alle questioni politiche che la circondano. Un esempio classico è la Brexit, dove in tutte le fasi, dalla decisione di indire un referendum fino agli ultimi momenti dei negoziati, la questione di fondo del valore per la Gran Bretagna dell’essere in Europa ha ricevuto poca o nessuna attenzione da parte del governo. La promessa di indire un referendum è stata un contentino, ironicamente, per la minoranza rumorosa in Gran Bretagna che in realtà nutriva forti sentimenti per l’argomento. Quindi, indire un referendum, vincerlo (come era successo nel 1975, dopotutto) e l’argomento sarebbe scomparso. Ma il governo, disinteressato all’argomento in quanto tale, ha dedicato ben poco impegno alla campagna per il Remain, se non quello di cercare di intimidire e intimidire gli elettori affinché facessero la cosa giusta. L’inevitabile sconfitta avrebbe potuto essere gestita in modo molto diverso se un leader conservatore avesse effettivamente riflettuto sul merito della questione e sugli interessi della nazione, ma non è stato così. David Cameron si è dimesso per evitare di assumersi la responsabilità della sua disastrosa serie di decisioni. A quel punto, qualsiasi governo ragionevole avrebbe riflettuto almeno un po’ sull’interesse nazionale, avrebbe preso tempo e si sarebbe confrontato con i partner europei. Ma Theresa May ha deciso di lanciarsi in una corsa folle verso l’uscita per ragioni strettamente personali e politiche, solo per cadere al penultimo ostacolo ed essere eliminata, soppiantata e sostituita da Boris Johnson, sul quale… no, non posso permettermi di entrare nei dettagli. Dall’inizio alla fine, la priorità assoluta del Partito Conservatore, tutto ciò di cui parlava internamente e l’influenza schiacciante sulle sue scelte negoziali, se così si possono chiamare, era la sua stessa sopravvivenza politica. In effetti, dal punto di vista dell’interesse nazionale, o anche della logica banale, molte delle decisioni prese sono state assolutamente straordinarie.
Si tratta di un’agonia ben nota, che si è consumata in un contesto semi-pubblico, e che ha fornito un esempio sorprendentemente crudo, quasi caricaturale, di come spesso vengono prese le decisioni politiche. Ma le stesse cose accadono quotidianamente, quando questioni essenzialmente procedurali prendono la priorità su qualsiasi questione di principio o persino di fatto. Spesso, le decisioni quotidiane vengono prese a causa di un temporaneo equilibrio di vantaggi politici all’interno o tra i partiti, che potrebbe apparire diverso l’anno successivo. (Lo stesso vale spesso a livello internazionale, come vedremo). E molte decisioni vengono prese per impostazione predefinita o semplicemente si prendono da sole, perché nessuno riesce a trovare l’energia per opporsi in modo organizzato. E in molti altri casi, quando sorgono questioni di principio, sono completamente diverse da quelle utilizzate come difesa pubblica e spesso non hanno alcun collegamento con alcun “dibattito” pubblico.
Un buon esempio di ricetta per salsicce preparata secondo regole mai riconosciute pubblicamente sarebbe la decisione presa negli anni ’80 di sostituire il sistema nucleare Polaris sui sottomarini missilistici nucleari britannici con il Trident. Ne parlerò a titolo di esempio perché ero presente all’epoca, sebbene non direttamente coinvolto. Ora, la dottrina nucleare di qualsiasi potenza nucleare, dichiarata o meno, consiste in gran parte di cose che non si possono dire o su cui non si vuole essere precisi, e la Gran Bretagna non faceva eccezione. Gli inglesi erano stati coinvolti nello sviluppo di armi nucleari fin dall’inizio e si aggrapparono a una capacità nucleare indipendente – a un costo considerevole – come parte del mantenimento dello status di Grande Potenza con la caduta dell’Impero. L’elenco delle ragioni non riconosciute per questa decisione è lungo e non necessariamente coerente internamente. Dopo la ” crisi Skybolt” del 1962, non c’erano altre alternative se non quella di acquistare il sistema statunitense Polaris, e quando giunse il momento della sua sostituzione, la scelta del Trident (a fronte dei costi astronomici e delle incertezze legate allo sviluppo e alla produzione di un missile a livello nazionale) si impose praticamente da sola. Gli inglesi, invece, investirono massicciamente nell’aggiornamento delle loro testate, del sistema di guida e della catena di comando e di fuoco nazionale. Ma perché rimanere una potenza nucleare? Per capirlo, dobbiamo dimenticare la guerra e il tintinnio di sciabole e indossare un altro paio di occhiali.
Innanzitutto, l’inerzia è sempre più facile del cambiamento. Rinunciare alle armi nucleari avrebbe significato retrocedere volontariamente alla Divisione II delle potenze mondiali, insieme a Germania e Canada, e probabilmente cedere il seggio permanente del Regno Unito nel Consiglio di Sicurezza. Avrebbe significato cedere il primato sulle questioni di difesa europea alla Francia e perdere una grande influenza sugli Stati Uniti, oltre a perdere una grande influenza su tutto ciò che riguarda il controllo degli armamenti nucleari, la non proliferazione o i negoziati sul disarmo. E per cosa, esattamente? Sarebbe stato un atto di automutilazione politica.
Naturalmente, c’erano anche molte ragioni positive, alcune contraddittorie, come è nella natura della politica, dopotutto. Gli inglesi si erano trincerati, come da tradizione, in una posizione di discreta ma reale influenza sugli Stati Uniti sulle questioni nucleari, e si erano resi un interlocutore privilegiato: l’unico al di fuori degli Stati Uniti e, per molti settori del governo statunitense, un interlocutore più facile da interloquire rispetto ad altre parti. Le armi nucleari britanniche diluirono l’influenza degli Stati Uniti nel Nuclear Planning Group e nelle discussioni sulle questioni nucleari in generale, cosa che molte nazioni europee accolsero con favore. I francesi furono nel complesso favorevoli: ciò rese il Regno Unito più competitivo, ma allo stesso tempo distolse in qualche modo l’attenzione dal loro status nucleare e rese la loro posizione P5 più facile da difendere. Vedevano anche il Trident come una potenziale componente di una forza nucleare europea indipendente (in pratica franco-britannica) in futuro, e di fatto uno stimolo alla cooperazione militare bilaterale in generale. Al contrario, molte nazioni europee sarebbero state scontente se la Francia fosse stata l’unica potenza nucleare in Europa e consideravano gli inglesi un utile fattore di bilanciamento. Da parte loro, anche gli Stati Uniti trovarono utile non essere individuati come l’unica potenza nucleare nella Struttura Militare Integrata. E naturalmente c’era il timore atavico di essere lasciati soli di nuovo come nel 1940: gli inglesi non erano più fiduciosi di qualsiasi altra nazione che gli Stati Uniti si sarebbero schierati effettivamente con l’Europa in una crisi con l’Unione Sovietica quando si fosse arrivati al dunque, qualunque cosa dicesse il Trattato di Washington.
Questa, ovviamente, è solo la punta dell’iceberg, e c’erano molti altri argomenti positivi e negativi a favore del mantenimento della potenza nucleare: di fatto non ce n’era nessuno contrario, a parte quelli di bilancio interno. Ma per definizione, pochi di questi argomenti potevano essere effettivamente resi pubblici, ed è interessante notare che praticamente nessuno di essi aveva nulla a che fare con le dottrine nucleari pubblicate, o con la rigogliosa letteratura accademica sulla teoria della deterrenza e dell’escalation che proliferava all’epoca. Persone come il povero Bernard Brodie avrebbero potuto benissimo vivere in un universo parallelo. Ma è anche vero che, sebbene negli anni ’80 ci fosse un “dibattito” pubblico molto attivo (o almeno rumoroso), ci fu scarso impegno sul tipo di questioni che erano effettivamente importanti e che figuravano nella letteratura strategica aperta. C’erano alcuni scettici che si opponevano al Trident per motivi economici o politici, ma l’opposizione in generale proveniva dalla Campagna per il Disarmo Nucleare e dai suoi satelliti, il cui approccio evitava del tutto le argomentazioni pratiche, enfatizzando la condanna morale e la richiesta preventiva che il governo facesse ciò che gli veniva detto. Eppure, nonostante tutto il loro ardente fervore morale, la CND non riusciva a comprendere di rappresentare una minoranza dell’opinione pubblica (mai più di un terzo) e che la loro certezza morale non dava loro automaticamente diritto a uno status politico speciale. Questa collisione di approcci – quello severamente pratico, persino sordido, contro quello apocalitticamente moralizzante – inevitabilmente non produsse alcun risultato. In effetti, almeno secondo la mia osservazione, la CND non era interessata a come venissero prodotti e consumati i “salsicciotti” della politica nucleare, e non fece nulla per informarsi. Alcuni, certamente, credevano che i missili Trident fossero a combustibile liquido, che fossero immagazzinati all’interno delle imbarcazioni con le testate attaccate, e che un singolo errore avrebbe potuto causare un’esplosione atomica che avrebbe distrutto metà della Scozia. Niente di tutto ciò era realmente vero, ma non era questo il punto.
Mi sono soffermato su questo episodio in parte perché ero lì, ma soprattutto perché mostra in una forma molto pura, quasi caricaturale, la differenza tra le ipotesi su come le decisioni vengono prese e influenzate nel governo viste dall’interno, rispetto a quelle esterne. Un esempio moderno paragonabile è ovviamente l’Ucraina, dove la politica procede a tentoni da una sconfitta all’altra semplicemente perché ci sono così tanti fattori interni che rendono impossibile un ritorno, anche se pochi di essi possono essere discussi pubblicamente. In effetti, l’Ucraina è un buon esempio della mia osservazione che le decisioni spesso alla fine vengono prese da sole: in Ucraina, come in molti altri errori disastrosi simili, è impossibile dire esattamente quando una data “decisione” importante sia stata effettivamente presa. Questo è il motivo per cui gli storici scrivono libri così lunghi e complessi sulle “origini” delle guerre e sulla loro inevitabilità. Ciò che tende ad accadere nella pratica è che le crisi procedono con angosciante lentezza attraverso innumerevoli decisioni banali: questo incontro, quel bilaterale, questo comunicato, quella decisione, questo documento politico… e a un certo punto persone come me alzano lo sguardo dalle loro scrivanie e si fissano a vicenda, chiedendosi “come diavolo siamo arrivati a questo punto?”. Un funzionario di un governo europeo che si è addormentato nel 2017 e si è risvegliato cinque anni dopo l’inizio della guerra in Ucraina, quasi certamente si sentirebbe allo stesso modo una volta ripresosi dallo shock. In realtà, solo gli storici hanno la possibilità di presentare tutto questo in un formato comprensibile, e solo molto tempo dopo. E solo gli storici, forse, possono davvero sperare di districare il groviglio di fattori che, in pratica, rendono sempre più facile andare avanti a breve termine piuttosto che tornare indietro, anche quando tornare indietro è ovviamente la cosa giusta da fare.
Il fatto che le “decisioni” spontanee, ponderate e ponderate siano rare in politica è uno degli aspetti chiave da comprendere. Certo, le decisioni possono essere prese e registrate formalmente, ma in molti casi questa è la fase meno importante del processo. I politici scrivono memorie soprattutto per cercare di convincere il loro pubblico che le decisioni che sono stati costretti a prendere o a cui non hanno potuto sottrarsi sono state in realtà il frutto di un’attenta riflessione e di un lungo dibattito, ma solo gli ingenui più incalliti credono che ciò accada molto spesso. E in ogni caso, non c’è quasi mai il tempo di fermarsi a riflettere sulle decisioni importanti. Mentre a livello macro gli eventi in una crisi importante possono sembrare lenti e ponderati, a livello tattico tutto è un susseguirsi di attività confuse, una micro-decisione che si accumula sull’altra, fino a quando a volte è difficile ricordare quale fosse effettivamente il problema originale. La domanda: ” Dovremmo farlo?” non viene mai posta perché non c’è tempo. La domanda è sempre: “Cosa diremo alla riunione di domani?”, oppure “Il Segretario Generale della NATO ci chiama tra un’ora: cosa vogliamo chiedergli?”. L’incapacità di comprendere questo semplice punto spiega l’ingenuità di molti commenti sulle crisi attuali (e, peraltro, immediatamente passate) e gli incessanti sforzi per trovare “decisioni” e “piani” soddisfacenti. Dopotutto, gli esseri umani si spingeranno fino alle estreme conseguenze per cercare di imporre schemi agli eventi più importanti, perché nessuna paura è più profonda della paura del caos. Come disse il celebre esperto di intelligence scientifica della Seconda Guerra Mondiale, il professor RV Jones, a proposito della sua esperienza di governo in tempo di guerra:
“Non può esistere un insieme di osservazioni reciprocamente incoerenti per il quale l’intelletto umano non riesca a concepire una spiegazione coerente, per quanto complicata.”
Oppure, se preferisci, è più confortante maneggiare il frullatore di Occam piuttosto che il rasoio di Occam. Con un po’ di impegno, puoi sempre ottenere un risultato, anche se si tratta di una poltiglia poco invitante.
Già ai tempi di Jones, i decisori politici tendevano a essere sommersi dalle informazioni. E la tecnologia moderna non ha certo aiutato. Trent’anni fa, la comunicazione tra le capitali e le rappresentanze diplomatiche all’estero si limitava a telegrammi criptati, fax e lettere inviati tramite valigie diplomatiche. Oggi, i decisori politici nelle capitali occidentali sono intasati da email provenienti da tutto il mondo ogni ora e possono trascorrere metà delle loro giornate in videochiamate con le ambasciate e le altre capitali, ripassando all’infinito e inutilmente gli stessi argomenti, senza ottenere alcun risultato.
Ma questo è solo un caso estremo del modo in cui le decisioni politiche vengono prese più spesso, in tempo di pace come in tempo di crisi. In politica, anche la cosa più semplice è potenzialmente complicata, perché la maggior parte delle cose è collegata alla maggior parte delle altre, e le decisioni prese in un ambito avranno conseguenze (forse imprevedibili) altrove. Il problema è che poche di queste connessioni sono sistematiche e molte contengono contraddizioni. I tentativi di trovare modelli generali in politica, quindi, sono destinati al fallimento perché le connessioni tra soggetti diversi possono significare cose diverse per attori diversi, e comunque non sono riducibili a modelli di predominio e sottomissione, o addirittura necessariamente di influenza. Il risultato è che molto spesso i governi decideranno in base a priorità che comportano conseguenze secondarie piuttosto che dirette, e il risultato può sembrare inspiegabile a prima vista.
Molto spesso, i governi decidono di abbandonare un’iniziativa su un argomento relativamente poco importante perché il livello di opposizione pubblica è tale che non vale la pena dedicare tempo e sforzi a difenderlo. Ora, si noti che questo non significa che la maggioranza dell’opinione pubblica sia contraria, significa solo che l’equilibrio di forze è tale che meno lavoro e meno sforzi dovranno essere distolti da altre attività per abbandonare l’argomento. È quindi in gran parte una questione di priorità, e molte questioni di routine vengono gestite in questo modo. All’estremo opposto, la partecipazione britannica alla seconda guerra in Iraq era una priorità di enorme importanza per il governo dell’epoca, e l’opposizione pubblica, seppur piuttosto ampia, non si qualificava come uno dei fattori decisivi.
Lo stesso vale, infine, per le relazioni tra Stati, che sono, nel migliore dei casi, estremamente complesse, sempre multidimensionali e spesso portano con sé un bagaglio storico. La maggior parte degli Stati, nella maggior parte dei casi, accetterà la maggior parte delle iniziative degli Stati con cui intrattiene buoni rapporti. Qualsiasi altra cosa sprecherebbe energie, creerebbe problemi e inviterebbe a ritorsioni. Quindi, se il tuo vicino, l’attuale presidente della tua organizzazione regionale, è particolarmente interessato a un’iniziativa, probabilmente la accetterai, anche se non ti interessa o se hai delle riserve concrete. Non ha senso opporsi gratuitamente: dopotutto, potresti essere il presidente l’anno prossimo e potresti avere un’iniziativa da promuovere. La stessa dinamica si può osservare nei documenti prodotti dopo importanti riunioni di gruppi internazionali, dove si compiono grandi sforzi per mascherare le differenze e mascherare le diverse interpretazioni. E come dico spesso, è sempre interessante vedere cosa non contiene un documento, poiché spesso argomenti troppo controversi tra i partner vengono tralasciati, per evitare problemi e preservare l’armonia.
L’ultima generazione ha assistito a una generale omogeneizzazione della classe dirigente e dei suoi parassiti, che non ha fatto altro che rafforzare tutte queste tendenze. Ciò è particolarmente evidente in Europa, dove iniziative come il programma ERASMUS hanno portato le future élite a studiare insieme a un’età facilmente influenzabile. Vent’anni dopo, dopo un passaggio attraverso le istituzioni europee, dopo un’immersione completa nelle certezze neoliberiste, spesso sposandosi tra loro, spesso frequentando circoli sociali composti esclusivamente da persone con idee simili, leggendo e guardando gli stessi media in diverse lingue, queste persone iniziano ad accedere a posizioni di potere. Sebbene sarebbe ingiusto definirli cloni, il fatto è che condividono un insieme di presupposti sul mondo e una serie di norme indiscusse, che non solo li rendono internamente molto omogenei, ma li separano anche dai presupposti e dalle norme più ampie delle società che governano. In un simile contesto, le loro argomentazioni e i loro dibattiti sono interni e personali, e spesso su punti di dettaglio: l’opinione pubblica non conta. Il loro status all’interno del gruppo più ampio è stabilito dalla competizione reciproca, non dalla generazione di sostegno pubblico, di cui comunque è diffidente. Quindi non c’è mai stato bisogno che qualcuno facesse “pressione” sui leader europei riguardo all’Ucraina: erano tutti della stessa idea, e ciò che contava era ciò che pensavano i loro coetanei in altri paesi, non le opinioni, o persino gli interessi, delle loro popolazioni. E come studenti brillanti di qualche istituto di istruzione superiore internazionale, cercavano sempre di superarsi a vicenda e di impressionare gli insegnanti con proposte sempre più radicali: inviare truppe in Ucraina, ripristinare la coscrizione obbligatoria, cercare di smembrare la Russia. Queste idee non devono necessariamente avere senso, perché sono semplicemente parte dell’infinita competizione per status e prestigio tra le nuove élite.
L’Europa è un caso estremo, ma gli specialisti regionali possono descrivere le strutture politiche nascoste che caratterizzano diverse parti del mondo. Nell’Africa occidentale, ad esempio, i legami tra clan, famiglie e imprese si estendono oltre confini artificiali postcoloniali e uniscono sorprendenti combinazioni di persone. E al livello più generale e basilare, dobbiamo abbandonare una volta per tutte gli ingenui paradigmi realisti di infiniti conflitti internazionali e lotte per il predominio. Come ho sottolineato ripetutamente, le nazioni e i loro governi cooperano molto più frequentemente di quanto si oppongano: se così non fosse, non si farebbe mai nulla. E, cosa abbastanza sorprendente, le nazioni spesso sono sinceramente d’accordo tra loro, o almeno si considerano aventi interests.in comuni in iniziative specifiche.
Né è vero, infine, che le grandi nazioni si limitino a fare pressioni sulle piccole: come ho sottolineato più volte, manipolare le grandi nazioni è un’arte in molte parti del mondo. Ma in ogni caso, non tutte le relazioni devono essere di predominio. Ecco un esempio immaginario. Immaginiamo il governo di uno stato costiero africano con un grande porto naturale, contattato dagli Stati Uniti per firmare un MoU che consenta alle loro navi di visitare occasionalmente il paese e di stabilire una piccola presenza permanente a terra. Il governo riflette sulla questione. Sarà uno status symbol politico nella regione, l’ambasciata verrà probabilmente potenziata, ci saranno vantaggi finanziari e posti di lavoro e ci saranno frequenti visitatori statunitensi. Un’attenta negoziazione del MoU può probabilmente portare altri benefici: supponiamo di proporre che venga rinegoziato ogni due anni. Quasi certamente la presenza statunitense può essere sfruttata per l’addestramento gratuito e per alcune attrezzature navali in eccedenza, nonché per un possibile rapporto di intelligence. E il personale statunitense è un utile scudo umano in caso di attacco straniero o conflitto interno. Con un po’ di fortuna, questo farà sì che anche i cinesi si interessino al Paese. Il rovescio della medaglia, ovviamente, è che le compagnie di navigazione arrivano diverse volte all’anno per una sbarco e fanno ciò che fanno abitualmente. Quindi faremo in modo che il Memorandum d’intesa copra anche i risarcimenti e questioni simili. E così via: solo un altro giorno nella fabbrica di salsicce.
In conclusione, il messaggio da trarre è essenzialmente che il processo attraverso il quale i governi decidono di fare qualcosa, o spesso vengono costretti a prendere decisioni dalle circostanze, è molto più complesso, molto più complicato e molto meno razionale di quanto si possa pensare osservando la Fabbrica di Salsicce da lontano. Ma questo giudizio deve essere moderato. In primo luogo, il processo decisionale politico non è casuale: se non segue esattamente delle regole, segue tendenze osservabili, e con l’esperienza è spesso possibile capire cosa probabilmente sta succedendo sotto la superficie. In secondo luogo, gli aspetti formali della politica e del governo hanno la loro importanza, e non dobbiamo cadere nella trappola di liquidarli come puro teatro, o una sorta di facciata cinica. In effetti, se avete mai trascorso del tempo dietro le quinte di un teatro, apprezzerete l’analogia tra ciò che il pubblico vede e il caos controllato che si verifica dietro.
Ma una delle tendenze che possiamo identificare è che il fervore morale conta poco se non è associato a obiettivi chiari e a un approccio organizzato e disciplinato, e se ciò che viene chiesto non rientra nel potere del governo di dare, il che spesso non accade. Parte di questo approccio disciplinato è acquisire una profonda familiarità con la domanda: nulla è più facile da respingere di semplici speculazioni o affermazioni mal informate. Un altro aspetto è essere molto chiari e precisi su ciò che si chiede, o si chiede. Una generica geremiade contro la politica occidentale nei confronti di Gaza, ad esempio, evocherà una risposta generica e copia-incolla. Anche se quella risposta viene pubblicata a nome di un ministro, è improbabile che quella persona l’abbia letta. Ciò che i governi non gradiscono (e parlo per esperienza) è la critica ben informata e dettagliata, espressa in termini moderati e che pone domande precise o avanza proposte precise e realistiche. Questo crea lavoro, nella ricerca e nella preparazione della risposta. Influenzare la ricetta nella Fabbrica di Salsicce non è mai facile, quindi, ma ci sono modi per renderlo meno arduo. Ricorda solo che in politica niente è facile o gratuito.