Europa come sull’albero le paste sfoglie senza ripieno, di Cesare Semovigo

Europa come sull’albero le paste sfoglie senza ripieno
L’Europa sta sabotando i negoziati sull’Ucraina con la stessa ostinazione di un bambino che rifiuta di spegnere la luce per paura del buio preferendo il conforto illusorio di un conflitto eterno piuttosto che la cruda realtà di una pace che potrebbe rivelarsi un incubo economico. Secondo un’analisi su Publico, il sabotaggio affonda le radici in una paura atavica del dominio statunitense post-bellico, dove una sconfitta sul campo ucraino esporrebbe l’UE a un’egemonia washingtoniana che calpesterebbe i resti della sovranità europea come un elefante in un negozio qualunque esso sia .
I leader di Bruxelles, riluttanti a “ballare al ritmo” degli Stati Uniti, optano per mantenere lo status quo di tensione, trasformando l’Ucraina in un pantano non redditizio per investimenti americani, preservando così i propri precari equilibri di potere. Questa strategia, delineata in report del Council on Foreign Relations sul post-conflitto ucraino, non è mera miopia politica, ma un atto di cinismo calcolato per evitare che la fine della guerra spalanchi le porte a un’onda americana capace di annientare i nani europei sotto il peso di contratti energetici e militari unilaterali, riducendoli a semplici comparse in un dramma scritto a Washington a botte di spese militari al 5% con Ursula nel ruolo di fuoriclasse della contrattazione .
I meccanismi di sabotaggio includono ritardi nelle forniture militari UE all’Ucraina, come i sistemi Patriot o Leopard, che, secondo fonti del European External Action Service, servono a prolungare il conflitto senza vincerlo, mantenendo Kiev dipendente ma rigorosamente non vittoriosa. Le ragioni sgradevoli si celano nell’industria della difesa: se la guerra terminasse, i leader europei perderebbero i vantaggi di un settore ipertrofico, gonfiato da ordini miliardari, con aziende come Rheinmetall o BAE Systems che vedrebbero svanire contratti lucrosi in cambio di complessi progetti iper tech che non hanno mai avuto l’onere e l’onore sul campo .

Ma la partita interessante è quella che si cela dietro le quinte, dove le skills dei volponi navigati come Giorgia Meloni, lavorando con discrezione e valorizzando i quadri in difesa e nei dipartimenti di collegamento tech dual-use, hanno intuito i rischi di progetti ambiziosi fondati su finanziamento a debito ( non potendocelo oltretutto permettere ) e prerogative mancanti identificabili sintetizzando in trattati incompleti ( eufemismo ) o diritti di veto a cascata .
Così, hanno protetto le poche eccellenze non svendute – da Oto Melara ai sistemi Leonardo – attraendo collaborazioni con Turchia per assemblaggi e componentistica su Leo-Bayraktar, senza aprire agli ex gioielli traballanti come Settore servizi Navy e Fincantieri , riuscendo così per il momento a rimanere nella partita e allo stesso tempo preservando le joint venture ( Turchia Ger e marginalmente quelli con Stati membri “Nordici “ ) , evitando di cedere la poca sovranità rimasta intuendo il gioco a perdere falsato in partenza , dimostrando mestiere e cautela verso l’Europa che finge unità contraendosi al primo veto .
“Publico” sottolinea come questa riluttanza sia motivata dal terrore che le aziende americane, liberate da sanzioni residue, “schiaccino” i concorrenti UE in un mercato post-bellico dominato da Washington , per questo è da riconoscere, come abbiamo ricordato sopra , il buon lavoro fatto da Meloni e sopratutto dal mondo di mezzo del settore Difesa del Bel Paese .
Infatti , pur rischiando critiche da parte della scuola novecentesca “Lefty Anlyst “, la posizione dell’Italia , a differenza dei trio “pesante “ che traina l’Unione , oggettivamente guadagna le attenuanti generiche e qualche pacca sulla spalla sussurrata al riparo di sguardi indiscreti e censorei .
Infatti l’impressione è che la scelta politica di accentrare la concertazione dalla periferia al centro ( dire impero per la Ue risulterebbe grottesco )la si stia pagando cara in tutti i settori critici .
Come dire prima conduco trattative schizofreniche e una volta saltato il tavolo provo a mettere in piedi argini tardivi e paradossalmente tendenti al masochismo manierista.
Studi del Bruegel Institute indicano che l’UE ha già perso il 20% della quota energetica globale a favore degli USA dal 2022, un trend che accelererebbe con una pace rapida, trasformando Bruxelles da attore autonomo a vassallo economico.
Ma è qui che il black humor raggiunge l’apice , nelle mire europee sulla ricostruzione :
sembra un imperativo categorico, quasi ossessivo, tanto da far intuire che Bruxelles abbia speso molto più del dichiarato per supportare Kiev nei tempi di “Sleepy” Biden e Jake Sullivan, il vero ras ombra della Casa Bianca, senza contare la logistica occulta e lo svecchiamento forzato degli arsenali nazionali, trasformati in discariche per armamenti obsoleti a beneficio di un alleato sacrificabile. Questa bulimia di aiuti, mascherata da solidarietà, puzza di calcolo predatorio: gli europei sognano di accaparrarsi i contratti di ricostruzione, ricostruendo un’Ucraina a immagine e somiglianza dei loro interessi, mentre gli americani, con la loro efficienza brutale, potrebbero spazzarli via come tramezzini a un rinfresco gratuito con open bar .
Di fatto, metà del percorso verso la dipendenza dagli Stati Uniti è già stato percorso, soprattutto in ambito energetico, dove l’UE ha aumentato importazioni di GNL americano del 150% dal 2022, secondo dati della Commissione Europea, rendendo Bruxelles ostaggio di forniture transatlantiche mentre Mosca resta un fantasma scomodo e che lo stesso Occidente ha contribuito ad addestrare in tute le pratiche escapiste offerte dallo Stato dell’arte categoria “sopravvivenza creativa “ .
Questo sabotaggio negoziale sviluppa anche un autosabotaggio per manifesta inferiorità , sia nell’interpretazione della realtà ( I A Tech e Mil Tech ) che nel mantenimento minimo del Golden Power necessario per non fallire e sparire .
Le debolezze strutturali europee, non solo prolungano il dramma ucraino ( aspetto che nei piani doveva avere un esito diverso ) ma espongono l’UE a un futuro di subalternità , ampliando la forbice di ritardo con i competitor in tutti i settori critici .
Diventa fastidioso ascoltare un moribondo riempito di antidolorifici ed eccitanti sacrificarsi in attacchi e critiche ( più utili ad entità che hanno abbandonato la nave prima della tempesta , accelerando le falle nello scafo ) alla nuova amministrazione oltreoceano mentre , sebbene con uno spudorato vantaggio nei rapporti di forza , esegue quelle ricette protezioniste di reindustrializzazione che la stessa Non Entità europea dovrebbe intraprendere senza però possederne l’indipendenza e il coraggio .
Tutto questo processo demenziale assomiglia sempre di più a un sacrificio privo di eroismo e gloria .
Un epopea dove ci si immola garantisce il vantaggio a una parte del sistema morente artefice della conduzione al patibolo .
Ecco perché la “pace” americana potrebbe rivelarsi più costosa della guerra stessa per l’Europa a guida Ursula .

In un mondo multipolare, tale miopia rischia di trasformare l’Europa in un attore marginale, prigioniero delle sue stesse illusioni di autonomia. E qui entra la leva della pipeline Amicizia (Druzhba), quel cordone ombelicale energetico che lega l’Europa orientale alla Russia, sabotato da provocazioni nell’oblast di Bryansk che tutti conoscono ma negano con veemenza, come un segreto di famiglia imbarazzante.
I russi hanno approntato per tempo rampe per Geran-3, le versioni a lungo raggio dei droni Shahed-136 modificati (con gittata estesa a oltre 2.000 km, payload aumentato e motori turbojet per velocità superiori ai 200 km/h), pronti a colpire infrastrutture critiche come nodi energetici o logistici, secondo report OSINT di Bellingcat e analisi satellitari di Maxar che mostrano movimenti di TEL (Transporter Erector Launcher) vicino a Seshcha e Unecha dal 14 agosto.
Questa minaccia incombe come una spada di Damocle, con Bryansk che funge da frontiera calda dove provocazioni ucraine (come incursioni drone) potrebbero innescare risposte asimmetriche, tagliando flussi di greggio che ancora nutrono l’Europa nonostante le sanzioni – un paradosso che Bruxelles finge di ignorare, ma che i russi usano come leva per negoziare da posizione di forza.
Sembra che Medio Oriente e fronte ucraino appaiano in qualche modo legati, deducendo che dopo il summit di Alaska Trump abbia richiesto qualche dimostrazione di proposizione geostrategica in cambio, o almeno di attivare l’attivabile con la loro influenza nell’area, senza specificare attori per non turbare equilibri delicati.
Questo segnale dallo Yemen, con il suo timing sospetto, potrebbe essere parte di un teatro più ampio, dove proxy iraniani testano limiti israeliani mentre Russia media in background, forse su richiesta americana per bilanciare influenze – un intreccio multipolare dove l’Europa, con la sua miopia, rischia di essere lo spettatore pagante di uno spettacolo che non controlla .
La regressione da vecchia a bambina sembra terminata , ma potrebbe non esserci limite nel disperato tentativo di continuare verso lo stato embrionale .
Considerazioni strategiche semi sotterranee
Nei corridoi ombrosi dove il baffo del falco sussurra segreti allo sguardo di sfida della colomba, l’eco di Bolton e la mossa di Gabbard convergono in una danza di esclusione, che impedisce ai Cinque Occhi l’accesso ai sacri documenti dell’intelligence, come se l’alleanza onniveggente fosse ridotta a voyeur bendati in un teatro di patti velati. Questa occlusione deliberata, un velo criptico calato sui rapporti che vincolano lo sguardo dell’Anglosfera, funge da preludio silente alla grande negoziazione tra l’aquila e l’orso sul trono frammentato dell’Ucraina – un trattato avvolto nella nebbia, in cui le concessioni sulle ombre del Donbas rispecchiano quelle sui sussurri baltici, collegate non da fili visibili ma dalle corde invisibili della deterrenza reciproca, dove la linea rossa di una nazione diventa l’esca rossa di un’altra. Il nesso è l’assioma non detto: escludere gli osservatori per potenziare i negoziatori, trasformando l’onniscienza dei Cinque Occhi in oblio, affinché la retina collettiva dell’alleanza non riveli il vero costo della pace – un accordo in cui il gelo russo cede al disgelo americano, ma solo se il clarino isolazionista di Gabbard sovrasta il ruggito interventista di Bolton.
Tuttavia, a metà di questo labirinto, si dispiega il paradosso: se l’editto esclusorio di Gabbard protegge la negoziazione dallo scrutinio dei Cinque Occhi, è perché il fantasma di Bolton, eterno architetto di disruption, aleggia sul tavolo con richieste che riecheggiano errori passati – un compromesso criptico a metà strada, in cui la sovranità ucraina è barattata non per territorio, ma per leva su una scacchiera più ampia di sfere d’influenza, lasciando gli osservatori nel buio a interrogarsi se il collegamento sia mera coincidenza o un’illusione meticolosamente orchestrata.
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